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Linguistica generale 9 CFU

Dott. Antonio Perri

Orari: Martedì 16:30-18:30 Aula Leopardi


Giovedì 10:30-12:30 Aula D

• Giorgio Graffi, Sergio Scalise, Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla linguistica,


terza edizione, Bologna, il Mulino, 2013. [tutto il volume]
• Elisabetta Jezek, Lessico. Classi di parole, strutture, combinazioni, seconda
edizione, Bologna, il Mulino, 2011 [tutto il volume]
•Robert H. Robins, La linguistica moderna, Bologna, il Mulino, 2005 [tutto il volume]
• Massimo Prampolini, Ferdinand de Saussure, Roma, Carocci, 2013 [tutto il volume]
Alcune definizioni di “lingua”

• Sapir (1921): “La lingua è un metodo puramente umano e non istintivo per comunicare
idee, emozioni e desideri attraverso un sistema di simboli volontariamente prodotti”
• Bloch e Trager (1942): “Una lingua è un sistema di simboli vocali arbitrari attraverso i
quali un gruppo sociale coopera”
• Hall (1968): “La lingua è un’istituzione per mezzo della quale gli esseri umani
comunicano e interagiscono mediante simboli fonico-uditivi abitualmente usati”
• Chomsky (1957): “D’ora in poi considererò una lingua come un insieme (finito o infinito)
di frasi, ciascuna di lunghezza finita e costituita a partire da un insieme finito di elementi”
• Saussure (1916): “La lingua [langue] è un sistema di segni esprimenti delle idee […]. La
lingua non è una funzione del soggetto parlante: è il prodotto che l’individuo registra
passivamente […] è la parte sociale del linguaggio, esterna all’individuo, che da solo non
può né crearla né modificarla”
• Hjelmslev (1943): “Una lingua si può definire come una paradigmatica i cui paradigmi
sono manifestati da tutte le materie […]. In pratica una lingua è una semiotica nella quale
ogni altra semiotica, cioè ogni altra lingua e ogni altra struttura semiotica concepibile, può
esser tradotta”.
Alcune dicotomie metodologiche

langue / parole (Saussure)


significante / significato (Saussure) espressione / contenuto (Hjelmslev)
competenza / esecuzione (Chomsky) codice / messaggio (Jakobson)
sincronia / diacronia (Saussure) sintagmatico / paradigmatico (Saussure)

Il modello “cibernetico” del processo di comunicazione


codifica decodifica

emittente (vs messaggio canale (capacità messaggio ricevente (vs


parlante) determinata) ascoltatore

rumore (disturbi)
contesto
(referente)

codice
Jakobson e le funzioni della lingua
1. Emittente (Parlante) > funzione emotiva
2. Contesto (Referente) > funzione referenziale
3. Messaggio (desto/discorso) > funzione poetica
4. Canale (medium) > funzione fàtica
5. Codice (sistema linguistico) > funzione metalinguistica
6. Ricevente (ascoltatore) > funzione conativa

codifica (vs decodifica (vs


significazione)
interpretazione)

emittente (vs messaggio (vs canale (capacità ricevente (vs


messaggio
parlante) testo, discorso) determinata) ascoltatore)

rumore (disturbi)
contesto
(referente)

codice (vs lingua)


Caratteristiche del linguaggio umano: discretezza

['pane] ['p’ane] ['tane] ['t’ane] ['kane] [‘hane]


['vane] ['mane] ['nane]
['sane] ['s’ane] ['rane] ['υane] ['ɾane] ['lane]
['ɹane]

['υane 'υite] vs ['υane 'fυit:e]

Si chiama serie minima il gruppo di parole in cui ciascuna parola viene


differenziata dalle altre per il cambiamento di un solo fonema (sempre nella
stessa posizione). L’attibuzione di una variante fonica a un determinato fonema è
un fatto di tutto o niente, posto che il riconoscimento avviene in base a scelte
discrete: ['υane] è o una variante dello standard ['vane] o una variante dello
standard ['rane]: in quanto il suono è un’approssimante labiodentale può
sostituirsi a una fricativa labiodentale sonora [v] o una alveolare (poli)vibrante [r],
la quale peraltro ha anche una variante monovibrante [ɾ] e una approssimante [ɹ].
La variazione fisica tra suoni è continua, il riconoscimento funzionale è discreto.
La nonna sforna la torta

PRIMA
ARTICOLAZIONE: L-a nonn-a s-forn-a l-a tort-
MORFEMI (SEGNI) a
(11) su un
inventario molto alto
e teoricamente
articolo – ‘genitore ‘estrarre’ – articolo –
illimitato ‘dolce’ –
femminile del ‘cuocere (in femminile
singolare genitore’ – forno)’ – femminile
singolare singolare
femminile ‘presente 3^
singolare pers.
singolare
SECONDA
ARTICOLAZIONE:
FONEMI (privi di /l/-/a/-/n/-/o/-/n/-/n/-/a/-/s/-/f/-/o/-/r/-/n/-/a/-/l/-/a/-/t/-/o/-/r/-/t/-/a/
significato
autonomo)
(20) su un
inventario di ca. 27
elementi

Caratteristiche del linguaggio umano: doppia articolazione


Alla fiera dell'est, per due soldi, un topolino mio padre comprò.
E venne il macellaio,

che uccise il toro,

che bevve l'acqua,

che spense il fuoco,

che bruciò il bastone,

che picchiò il cane,

che morse il gatto,

che si mangiò il topo

che al mercato mio


Da Angelo Branduardi, Alla fiera dell’est padre comprò.
(1976)
Caratteristiche del linguaggio umano: ricorsività
Ecco i componimenti verseggiati della puerizia,
acerbi frutti di un’opaca educazione accademica che
solo per contrasto presenta i germi inconsapevoli di
una precoce sensibilità romantica, che
appartengono, meglio che alla storia, alla preistoria
della poesia leopardiana.

Rielaborata da N. Sapegno, Compendio di storia della


letteratura italiana, vol. III, Firenze, La Nuova Italia, 1947,
p. 226.

Caratteristiche del linguaggio umano:


dipendenza dalla struttura
La lingua come “sistema di sistemi”

SN SV SINTASSI
il gatto corre

i-l gatt-o corr-e


[+art] [+nom] [+verb] MORFOLOGIA
ESPRESSIONE [+sing, masch] [+ 3^ pers, pres]

/il ga’t:o kor:e/ FONOLOGIA

‘il’ ‘gatto’ ‘corre’


CONTENUTO SEMANTICA
+art + animale + verbo
+ determ. + felino + movimento
… … ….
Atto concreto Classi o unità astratte

fonia significante
(fonazioni) (immagine acustica)
Segno
(corrispondenza di
significante e
significato)
senso significato
(significazioni) (concetto, classe
di sensi simili)

Il segno linguistico: arbitrarietà e


distinzione fra classi astratte e atti concreti
Rapporti associativi (paradigmatici) e triangolo semiotico

significante

significato

s.te s.te s.te

s.to s.to s.to

significato
‘oggetto d’arredamento che serve per sedersi ecc.’

referente
significante
(la sedia reale o un
/sedia/ oggetto x designato
come tale)
Materia (purport)
E Sostanza (materia formata)
Forma

FUNZIONE SEGNICA

Forma
C Sostanza (materia formata)
Materia (purport)

Forma, sostanza e funzione segnica (Hjelmslev)


ITALIANO INGLESE
/t/ (town)
/t/ (tetto)

/d/ (down)

/θ/ (thin)
/d/ (detto) DANESE TEDESCO FRANCESE

/đ/ (that) ‘Baum’ ‘arbre’


‘træ’
‘Holz’
‘bois’
‘skow’ ‘Wald’

‘forêt’

Arbitrarietà sul piano dell’espressione e del


contenuto nel sistema (o schema)
jeg véd det ikke (danese) > ‘io’ ‘so pres’ ‘ciò’ ‘non’
I do not know (inglese) > ‘io’ ‘aux pres’ ‘non’ ‘sapere’
je ne sais pas (francese) > ‘io’ ‘non’ ‘so pres’ ‘neg’
en tiedä (finlandese) > ‘non io pres’ ‘sapere’
naluvara (eschimese) > ‘non-sapiente sono-io-ciò’ (da nalu, ‘ignoranza’)
a’mo nicmati (nahuatl) > ‘non’ ‘io-ciò-so-pres’
La stessa materia, peraltro, in alcune lingue può esser formata diversamente: francese je l’ignore,
eschimese asukiak (da aso che vuol dire ‘basta!’).

“Vediamo dunque che la materia non formata che si può estrarre da tutte queste catene
linguistiche [e altre] è formata diversamente nelle singole lingue. Ogni lingua traccia le
sue particolari suddivisioni all’interno della ‘massa del pensiero’ amorfa, e dà rilievo in
essa a fattori diversi in posizioni diverse, pone iI centro di gravità in luoghi diversi e dà
loro enfasi diverse. È come una stessa manciata di sabbia che può prendere forme
diverse, o come la nuvola di Amleto che cambia aspetto da un momento all’altro. Come
la stessa sabbia si può mettere in stampi diversi, come la stessa nuvola può assumere
forme sempre nuove, così la stessa materia può essere formata o strutturata
diversamente in lingue diverse”
Lous Hjelmslev

Arbitrarietà livello del processo (= testo, enunciato)


*meh2truh2-
* meh2tr-awos (?)
*ph2trōws *ph2ter *meh2ter
* ph2trōwiHos
*pətr-awos (?)

*swesor EGO
*bhreth2ter *bhreth2ter
*swesriyo- ?
*swesor

*nepōts ?
*neptih2 ? *swesriyo- ?

*sŭnus
*putlós ?

*dhugth2ter

Arbitrarietà e linguistica storica: i termini di parentela


*ph2tér, aind. pitár-, gr. πατήρ, lat. pater, airl. ath(a)ir, got. fadar, toc. B pācer
ecc.

*meh2ter-, aind. mātár-, gr. μητέρ-, lat. māter, airl. māth(a)ir, aingl. mōdor, toc.
B mācer, ablg. mater- ecc.

*dhugh2ter-, aind. duhitár-, av. dugədar-, gr. θυγατέρ-, osc. futír, gall. duχtir,
got. daúhtar, toc. B tkācer, ablg. dŭšter- ecc.

*suhxnu-, aind. sūnú-, got. sunus, lit. sūnùs, ecc. e, probabilmente con un
diverso suffisso, gr. υἱύς (υἱός) e toc. B soy, ecc.

lat. filius-filia, mess. *billes, bilia < i.e. *bh(w)ilios da *bhū-, ‘divenire, nascere’
(= ‘become’).

Arbitrarietà, mutamento e linguistica storica: i termini di


parentela
Le lingue del mondo

Il problema di stabilire quale sia il numero effettivo delle lingue parlate nel mondo è
spinoso, perché vi sono aree linguistiche soggette a estrema frammentazione e poco
studiate e perché spesso è oggetto di discussione il fatto che varietà molto simili siano
considerate “dialetti” di una stessa lingua o lingue a sé stanti.
In ogni caso, i dati più attendibili individuano fra le 5000 e le 7000 lingue diverse censite,
anche se il numero di quelle endangered è molto elevato, e al contrario vi sono poche
cosiddette grandi lingue che assorbono un’altissima percentuale di parlanti.
La principale classificazione delle lingue del mondo segue il criterio (invalso a partire
dall’Ottocento) della parentela storico-genealogica, ordinandole in famiglie, rami,
gruppi e sottogruppi: ad es. l’italiano può essere così classificato: Indoeuropeo
(famiglia) > neolatino (o romanzo) (ramo) > occidentale (gruppo) > italoromanzo
(sottogruppo); l’inglese sarà invece Indoeuropeo > germanico > occidentale >
anglosassone e così via.
Le famiglie di lingue riconosciute, oltre all’indoeuropeo, sono circa 18: uralica, altaica,
caucasica, dravidica, sinotibetana, paleosiberiana, austroasiatica, kam-thai,
austronesiana, australiana, indo-pacifica, afro-asiatica, nilotico-sahariana, niger-
cordofaniana, koishan, amerindiana, più alcune lingue isolate (basco e poche altre).
Le lingue d’Europa
Indoeuropee
Ramo celtico: gaelico (irlandese), gaelico (scozzese), gallese, bretone
Ramo germanico: danese, svedese, norvegese, islandese, nederlandese, inglese, tedesco
Ramo romanzo: portoghese, gallego, spagnolo, catalano, francese, italiano, romeno
Ramo baltico: lituano, lettone
Ramo slavo: polacco, ceco, slovacco, russo, ucraino, bielorusso, sloveno, serbo-croato,
bulgaro, macedone
Ramo indo-iranico: curdo, romanì
Lingue “isolate”: greco, albanese, armeno

Non indoeuropee
Famiglia afro-asiatica, ramo semitico: maltese
Famiglia uralica, ramo ugro-finnico: ungherese, finnico, estone
Famiglia altaica, ramo turcico: turco, tataro; ramo mongolo: calmucco
Famiglia caucasica, ramo meridionale: georgiano

Lingua isolata basco


Tipologia areale
È un approccio che coglie le affinità fra lingue genealogicamente irrelate
(o la cui parentela è lontana), che tuttavia hanno sviluppato alcune
caratteristiche strutturali comuni perché parlate in una medesima
area geografica (e formanti una lega linguistica).
Un caso molto noto è quello del cinese e del giapponese; ma quello più
spesso citato è relativo alla lega balcanica (formata da una lingua
romanza, da lingue slave, greco e albanese).
Tra le caratteristiche comuni a queste lingue c’è l’“assenza dell’infinito”
(Vuole mangiare = vuole che mangia), assente in tutte le altre lingue
romanze ad eccezione di alcuni dialetti meridionali italiani, forse per
influsso del neogreco). Un’altra è il c.d. “articolo posposto”, presente
in bulgaro e macedone ma assente in tutte le altre lingue slave nelle
quali manca l’articolo.
Tipologia morfologica (struttura della parola)
Lingue isolanti
La struttura della parola e semplice (indice di sintesi 1:1, ovvero parole monomorfemiche e
monosillabiche). L’assenza di morfologia viene supplita dalla sintassi o dal lessico.
Es.: sách ây hay
vietnamita
‘libro’ DIM. DIST. ‘bello’ ‘libro quello bello’

Lingue agglutinanti
Giustappongono morfemi con elevato indice di sintesi (3:1) e valore univoco, facilmente
individuabili e senza allomorfia e omonimia
söndürülememek turco
sön dür ül eme mek
‘ spegnere’ CAUS PASS POT. NEG. INF
‘non poter venire spento’, lett. ‘spegnere esser fatto non potere’

Lingue flessive o fusive


Le parole sono abbastanza complesse (indice di sintesi 2:1) ma amalgamano morfemi
cumulativi non separabili o identificabili (fusi, appunto).
stár-uju ‘vecchia’ (ogg.) stár-ogo ‘di vecchio’ russo
‘vecchio’ ACC + (femm.) ‘vecchio’ GEN. + SING. + masch.
Tipologia morfologica (segue)
Lingue introflessive
Come l’arabo, presentano confissi (o transfissi), morfemi discontinui ma anche prefissi e
suffissi.
kItAb kUtUb kAtIb kAtAbA ecc.
‘libro’ ‘libri’ ‘scrittore’ ‘(lui) scrisse’
-I - A -U-U -A-I -A-A-A transfissi vocalici grammaticali
‘nome di nome di nome di perfettivo
ogg. sing. ogg. pl. agente sing. masch.
Lingue polisintetiche
Hanno la struttura della parola più complessa (indice di sintesi 4:1) e la particolarità che in una
medeisma parola possono comparire due o più morfemi pieni o lessicali, spesso
incorporando a una radice verbale anche l’oggetto (lingue incorporanti), di modo che
una parola può corrispondere a un’intera frase in altre lingue:

ni-naca-cua ni naca cua nahuatl


‘io’ ‘carne’ ‘mangiare’

+Analitico +Sintetico

l. Isolanti l. flessivo-fusive l.agglutinanti l.


polisintetiche
Tipologia sintattica
Un parametro ulteriore per classificare le lingue, divenuto in anni recenti criterio
fondamentale perché considerato più “profondo” e più efficace da un punto di vista
correlazionale, è l’ordine basico dei costituenti principali della frase (Soggetto, Oggetto
diretto e Verbo).
Da un punto di vista puramente combinatorio, sono possibile sei ordini diversi: SVO, SOV,
VSO, VOS, OVS, OSV; tuttavia solo i primi quattro ordini sono presenti in modo
significativo tra le lingue del mondo, mentre gli ultimi due sono marginali (e di OSV si è
anche detto che non vi è alcuna lingua che lo realizzi).
Degli ordini presenti in modo significativo, SVO è rappresentato da quasi metà fra le lingue
censite, mentre SOV è un po’ meno attestato ma senza dubbio frequente mentre VSO è
presente nell’11% delle lingue e VOS in una percentuale di poco superiore al 5%.
Alcuni vincoli connessi alla natura della struttura informativa delle frasi spiegano tale
asimmetria: poiché S coincide in genere con il tema, e questo è posto all’inizio, gli ordini
predominanti (SVO ed SOV) hanno il sopravvento sugli altri in base al principio di
precedenza (che è il principio più ‘forte’, e in base al quale S deve precedere O); a
questo principio ne segue però uno più debole detto principio di adiacenza, in base al
quale V e O debbono essere contigui in ragione della loro stretta relazione sintattico-
semantica (confermata dalla teoria X-barra e dai modelli generativi). Ciò giustifica il
fatto che la terza possibilità (VSO) sia meno frequente perché contraddice il secondo
principio (a differenza di SVO e SOV) soddisfacendo il primo, e che le altre siano
decisamente dispreferite perché o violano il primo principio (VOS e OVS) o li violano
entrambi (OSV, che forse per questa ragione o è rarissimo o addirittura non attestato).
Tipologia sintattica (segue)

Esistono inoltre, specie per le lingue SOV e VSO, delle evidenti correlazione fra questo
parametro e altri parametri sintattico-posizionali: se una lingua è SOV, quelle che sono
state chiamate tendenze implicazionali (da alcuni linguisti definiti universali) possiamo
ragionevolmente supporre che l’aggettivo preceda il nome e che lo stesso valga per il
genitivo; mentre in una lingua VSO avverrà in contrario.
Per alcuni linguisti il nucleo duro della tipologia sintattica è il costituente formato da verbo e
oggetto diretto, che consente di distinguere fra lingue postdeterminanti (VO) che
“costruiscono a destra” [testa/modificatore] e lingue predeterminanti (OV) o a testa
finale, che “costruiscono a sinistra”: le implicazioni tendenziali, in quest’ottica, sono
VO  NA  NG  NPoss  NRel  VAvv  AAvv  AusV, preposizioni ecc.
OV  AN  GN  PossN  RelN  AvvV  AvvA  VAus, posposizioni ecc.
Si tratta peraltro di tendenze statistiche prevalenti perché la maggior parte delle lingue
presentano incoerenze tipologiche: in italiano, ad es., che è lingua VO si ha NA (ma non
sempre), NG, NRel, AusPP, preposizioni ma anche tratti delle lingue predeterminanti
quali AvvA, PossN (e DetN), NumN ecc.
L’apparato fonatorio

Fonetica articolatoria: studia il


modo in cui si producono o
“articolano” i suoni
Fonetica acustica: studia i
suoni linguistici in quanto insiemi
di proprietà fisiche, onde sonore
che si diffondono nell’aria
Fonetica uditiva: studia la
percezione dei suoni linguistici
tramite l’orecchio.
Luoghi di articolazione delle consonanti

Si dicono consonantici i suoni articolati mediante una chiusura, un ostacolo o


una frizione lungo il tratto vocale.
Le parti della cavità orale in corrispondenza delle quali si articolano sono dette
luoghi di articolazione.
1. Bilabiali (es. [p], [b], l’approssimante inglese [w]).
2. Labiodentali (es. [f], [v])
3. Dentali (es. [θ], [ð], come in ingl. thin, that)
4. Alveolari (es. [t], [d], [s], [z], [ts], [dz], [n], [l], [r]
5. Palatali (es. [∫], [t∫] ecc.)
6. Velari (es. [k], [g], [ŋ] come la terminazione ingl. ng ecc.)
7. Glottidali (es. [h] ingl. di have, house).
Modi di articolazione delle consonanti

1. Occlusive (es. [p], [b], [t], [d], [k], [g]).


2. Fricative (es. [f], [v], [θ], [ð], [s], [z], [∫] ecc)
3. Affricate ([ts], [dz], [t∫], [dğ])
4. Nasali (es. [m], [n], [ŋ], il digramma gn ecc.)
5. Liquide (es. [l], il digramma gl, [r] ecc.)
6. Approssimanti (es. [w], [j] in uomo, ieri)
7. Colpo di glottide (es. alcune pronunce inglesi di parole come bottle, butter,
che talora presentano una monovibrante o flap).
L’Alfabeto fonetico
internazionale (IPA)
La fonologia
La fonologia è lo studio del sistema dei suoni di una lingua destinati a svolgervi una funzione
distintiva. Essa cioè si pone a un livello astratto (secondo alcuni linguisti psichico o mentale)
e tralascia le modalità concrete di realizzazione/articolazione fisica dei suoni (di pertinenza
della fonetica). La competenza fonologica, in altre parole, è una conoscenza mediante la
quale i parlanti estrapolano dai concreti foni una base costante o schema che concorre a
formare un type astratto, distintivo o contrastivo in relazione al significato di due o più parole
se sostituito, in particolari contesti, ad un altro tipo di suono. Questa unità astratta si chiama
fonema e si rappresenta convenzionalmente fra barre oblique /…./ laddove il fono,
ossia la realizzazione concreta o variante fonetica di un fonema, si trascrive tra
parentesi quadre […].
Dobbiamo al linguista praghese Nicolai Trubeckoj, che nel 1939 scrisse i Principles de phonologie e
introdusse nella linguistica moderna la nozione di fonema, la formulazione di alcune regole per
stabilire se due foni abbiano o meno valore distintivo e siano dunque la manifestazione di fonemi
differenti in una lingua data. Ecco le tre più importanti:
1. “Quando due suoni ricorrono nelle medesime posizioni e non possono essere scambiati fra loro
senza con ciò mutare il significato delle parole o renderle irriconoscibili, allora questi due suoni sono
realizzazioni fonetiche di due diversi fonemi” [nella linguistica americana sono detti in distribuzione
contrastiva] (ad es. feste vs veste);
2. “Quando due suoni della stessa lingua compaiono nelle medesime posizioni e si possono
scambiare fra loro senza causare variazione di significato della parola, questi due suoni sono
soltanto varianti fonetiche facoltative [nella linguistica americana sono dette varianti libere] di un
unico fonema” (ad es. rema – Rema con ‘r’ monovibrante uvulare o ‘erre moscia’);
3. “Quando due suoni di una lingua, simili dal punto di vista articolatorio, non ricorrono mai nelle
stesse posizioni, esse sono due varianti combinatorie dello stesso fonema” [nella linguistica
americana sono due allofoni in distribuzione complementare] (ad es. [nazo] – [aŋkora], con ‘n’
alveolare e velare).
La definizione di fonema.
Fonemi come forme pure, unità distintive, fasci di differenze foniche

Nella linguistica strutturale formale (europea e in parte americana) il fonema, inteso come grandezza
oppositiva, relativa e negativa (secondo la definizione del valore linguistico di Suassure) è individuato
anzitutto in base alla posizione all’interno della lingua come forma pura (distribuzione), senza tener conto
delle qualità foniche positive e considerandolo come una semplice ‘casella’ nella rete strutturale delle
opposizioni.
Ad es. la r francese /R/ sarà definita come l’entità che appare nei seguenti contesti: #/R/__#; #__/R/;
#Cons/R/Voc__#; #__Cons/R/Voc#; ecc.
Il fonema come grandezza distintiva è già un’unità positiva, definita in base ai soli caratteri pertinenti ai
fini della commutazione (la sostituzione di unità che manifestano invarianti o fonemi diversi).
Da questo punto di vista, la r francese sarà definita come una vibrante, in quanto commutabile ad es. con
la laterale /l/: /Rwa/ vs /lwa/, ‘re’ vs ‘legge’. È a questo livello che i fonemi si definiscono in base a insiemi
di “tratti” distintivi: ad es. in italiano /p/ è definibile come [- sonoro] (per distinguerlo da /b/, /m/), [+
bilabiale] (per distinguerlo da /t/, /k/ ecc.), mentre [+ occlusivo] è un tratto (parzialmente) ridondante
(servirebbe semmai a distinguerlo da /m/, che tuttavia è sonoro; in italiano infatti non esiste una fricativa
sorda bilabiale come la /φ/ dello spagnolo, ad es.).
Infine il fonema come classe di foni o fascio di differenze foniche sarà definito sia in base ai caratteri
pertinenti ai fini della commutazione, sia in base a ulteriori caratteristiche distinguibili sul piano
articolatorio e uditivo che costituiscono la serie dei suoi allofoni (o varianti).
La r francese sarà perciò definita come una vibrante sonora roulée alveolare, o come vibrante uvulare, o
ancora come una vibrante alveolare non arrotondata (in questo caso, tutti allofoni determinati sulla base
di varietà diatopiche o geografiche).
Coppie minime, serie minime, fonotassi o combinazioni possibili fra suoni

Le distinzioni fonemiche (o fonologiche: in America si preferisce parlare di fonemica vs fonetica, in


Europa di fonologia vs fonetica) di una lingua possono essere verificate servendosi di coppie o serie di
parole identiche in tutto tranne che per l’opposizione di un unico fonema che viene, appunto, commutato.
Tali parole si chiamano coppie minime (se sono due) o serie minime (quando sono più di due).
In italiano è una coppia minima l’opposizione tra pasta e basta, ed è una serie minima quella
comprendente le parole pane, tane, cane, vane, mane, nane, sane, rane, lane.
L’identificazione di coppie o serie minime, inoltre, consente di identificare quelli che il parlante (per lo più
in modo parzialmente inconsapevole) riconosce come i tipi di combinazioni fra suoni permesse nella sua
lingua. In italiano, così, non è possibile “completare” la serie minima di cui sopra con parole quali bane o
giane anche se si tratta di parole possibili e accettabili, a differenza ad es. di *[ŋane] o *[nsae] che non
possono esistere (la prima perché in italiano è impossibile articolare come velare una ‘n’ iniziale, la
seconda perché in italiano è impossibile trovare una sequenza [nsa-] a inizio di parola e in ogni caso
prima di vocale medio-alta anteriore [e]).
L’insieme di restrizioni caratteristiche di ogni data lingua costituiscono la sua fonotassi e investono
sostanzialmente l’unità fonologica superiore chiamata sillaba (e dotata di funzione prosodica).
Le opposizioni in Trubeckoj
Secondo Trubeckoj la classificazione delle opposizioni tra fonemi come unità fonologicamente pertinenti si può
compiere da punti di vista diversi:
1. In base al rapporto logico tra la singola opposizione e il sistema
1a: opposizioni bilaterali (che hanno una proprietà esclusiva, ad es. /t/ e /d/ in francese);
1b: opposizioni multilaterali (che non hanno tale proprietà, ad es. gli stessi fonemi in italiano dove esistono anche /t:/
e /d:/);
1c: opposizioni proporzionali (se il rapporto si ripresenta in altre opposizioni, ad es. /t/:/d/ = /p/:/b/ in italiano);
1d: opposizioni isolate (che non hanno la proprietà precedente, ad es. /l/ ed /r/ in italiano).
2. In base al rapporto logico fra i termini dell’opposizione stessa
2a: opposizioni privative (quando un termine ha “in più” qualcosa che manca all’altro ed è dunque “marcato”, cfr. /p/ [-
sonoro] vs /b/ [+ sonoro];
2b: opposizioni graduali (quando l’opposizione verte su una differenza di grado in una stessa proprietà, ad es.
l’apertura in /u/, /o/, /i/, /e/ in italiano);
2c: opposizioni equipollenti (quando i termini non sono collocabili in una scala di priorità in base a 2.a o 2.b, ad es.
/p/ vs /t/, /f/ vs /k/ in italiano);
3. In base al grado di costanza che inerisce all’opposizione nei diversi contesti
3a: opposizioni costanti (che sono sempre distintive, ad es. in italiano /i/ vs /a/ vs /u/);
3b: opposizioni neutralizzabili (ad es. in italiano /e/ vs /ε/, pertinente in /’peska/ vs /’pεska/ ma non altrove).
4. In base alle proprietà foniche con cui si manifestano le opposizioni: 4a. vocaliche (apertura, localizzazione,
risonanza); 4b. consonantiche (localizzazione, modificazione del flusso, risonanza); 4c. prosodiche (accento,
lunghezza, intonazione).
5. In base al grado di combinabilità di ogni fonema con gli altri
6. In base alla frequenza dei fonemi e al loro rendimento funzionale (che ad es. in italiano sarà molto alto nel caso
di /e/ vs /a/ ed estremamente ridotto nel caso di /e/ vs /ε/).
Fenomeni fonologici e tipi di regole

Una regola fonologica è un meccanismo che connette una rappresentazione fonologica ad una fonetica
operando una serie di cambiamenti soggetti a restrizioni. Le regole fonologiche possono:
a) cambiare dei tratti: ad es. diko  ditsi, cioè k  ts + [i, e];
b) Inserire dei segmenti: rara in italiano, ad es. in storia  in istoria, per scritto  per iscritto, cioè   i
/ [n, r] __#sC;
c) cambiare l’ordine dei segmenti (metatesi): frequente in diacronia, ad es. in spagnolo le parole peligro
e milagro, derivate dal lat. periculum e miraculum.
d) cancellare un segmento, ad es. una vocale: vino + aio  vinaio
Tra gli effetti della produzione quasi contemporanea di suoni successivi o coarticolazione (nelle sillabe e
nelle parole) vi sono:
1. le assimilazioni, suddivise in 1a. totale regressiva: in+ragionevole  irragionevole; 1b. parziale
regressiva: in+probabile  improbabile; 1c. totale progressiva: inglese want to  wanna; 1d. parziale
progressiva: inglese dog + [s]  dog[z]; 1e. metafonesi o Umlaut (assimilazioni a distanza): ad es. in
umbro nero  pl. niri (= neri); 1f. Sandhi o fusione tra parole: ad es. il francese les amis  [lεza’mi].
2. le elisioni, ad esempio ingl. [juənmi] per you and me, o we asked him [wiæstəm]
La sillaba e altri aspetti sovrasegmentali
sillaba
La sillaba è un’unità prosodica
costituita da uno o più foni
agglomerati attorno a un picco di
intensità. Essa è formata da un Testa o attacco Rima
nucleo sempre presente
(vocalico o che funge da vocale),
eventualmente preceduto da un Nucleo Coda
attacco o testa e seguito da una
coda. Nucleo più coda formano
la rima. La sillaba priva di coda
è detta aperta.
Consonante/i Vocale Consonante/i

I più importanti fenomeni sovrasegmentali sono la lunghezza, l’accento, l’intonazione e il tono.


Lunghezza: è la durata temporale con cui vengono realizzati i suoni. In italiano è distintiva solo quella
consonantica (es. fato vs fatto).
Accento: è una proprietà delle sillabe toniche, prominenti perché realizzate con maggior forza o intensità delle
atone. Può essere dichiarative distintivo (es. ‘aŋkora vs aŋ‘kora) nelle lingue che non hanno accento fisso.
Intonazione: picchi e avvallamenti nell’altezza dei suoni danno un effetto percettivo detto intonazione o curva
melodica. In italiano ha valore distintivo in sede sintattica, ad es. per distinguere da interrogative.
Tono: ogni sillaba può essere pronunciata con altezze diverse, ma mentre in italiano questo aspetto non è
distintivo nelle lingue c.d. a toni lo è. Il cinese standard, ad es., distingue 4 toni: 1. alto costante (ma, ‘madre’); 2.
alto ascendente (ma, ‘lino’); 3. basso discendente (ma, ‘cavallo’); 4. alto discendente (ma, ‘insultare’).
La parola: definizioni

La morfologia studia le parole, i processi fondamentali grazie ai quali vengono create e le varie forme
che possono assumere, occupandosi delle unità minime dotate di significato che le compongono o
morfemi (le cui realizzazioni concrete sono gli allomorfi).
La nozione di parola, sebbene intuitivamente presente alla consapevolezza dei parlanti (a differenza di
quella di morfema, che in sede descrittiva appare tuttavia di facile individuazione) è stata ed è tuttora
oggetto di dibattito in linguistica perché nessun criterio adottato sinora per definirla si è dimostrato del
tutto soddisfacente. Sono state proposte infatti definizioni di tipo fonologico, morfologico, sintattico e
semantico, ma probabilmente la definizione più completa deve tener conto di tutti questi livelli allo
stesso tempo.
La definizione fonologica: è ‘parola’ qualunque segmento che si raggruppa attorno a un accento
primario. In base a tale prospettiva stazione sarebbe una parola ma non altrettanto potrebbe dirsi del
composto capostazione, perché presenta due accenti ['kaposta'tsione].
La definizione morfologica: è ‘parola’ ogni forma coesa internamente e libera esternamente (Bloomfield:
“forma libera minima”): capostazione è dunque una parola (è un composto coeso perché non è
possibile dire, ad es., *stazionecapo); vi sono però casi come testa di ponte o macchina da scrivere (i
cosiddetti paralessemi) o alcune espressioni c.d. polirematiche (es. capro espiatorio) in cui
verifichiamo una coesione interna relativamente meno rigida (posso dire infatti, cambiando il
significato dell’espressione e trasformadola in un sintagma, ponte di testa; o posso creare un altro
paralessema come testa di rapa). Tutti questi esempi non hanno sufficiente coesione morfologica, ma
sintatticamente sono da considerarsi vere e proprie parole). Un utile corollario alla definizione
bloomfieldiana è il criterio della non interrompibilità: poiché non è possibile dire *testa grossa di
ponte mentre testa acerba di rapa non mantiene la significazione del paralessema, bisogna
concludere che si tratta di vere e proprie parole.
La parola: definizioni (segue). Processi di formazione delle parole

La definizione sintattica: è ‘parola’ ogni elemento sintatticamente semplice (che, cioè, non è costituito
da più unità in relazione sintagmatica). Questa definizione, come è ovvio, finisce per non considerare
parole i paralessemi e le espressioni polirematiche ma anche parole che intuitivamente
considereremmo unitarie come le costruzioni italiane con pronomi clitici: prendimelo infatti non
sarebbe una parola èerché costituito da tre unità sintattiche (prendi – quello – a me).
La definizione semantica: è ‘parola’ ogni unione di un particolare significato con un particolare insieme
di suoni, suscettibile di un particolare uso grammaticale. Se stazione e capostazione soddisfano tale
criterio (l’ultima espressione andrebbe infatti analizzata come parola unica in virtù del particolare
significato denotativo di cui è espressione) lo stesso sembra valere per unità legate (ovvero non
libere da un punto di vista morfologico) quali in- e -bil- di intrattabile che non possono esser
considerate parole sebbene la prima sia all’incirca equivalente a ‘non’ (cfr. I’espressione quasi
sinonima non trattabile) e la seconda significhi ‘che si può’ (cfr. l’espressione quasi sinonima che non
si può trattare).
Fra i processi di formazione delle parole vanno ricordati:
- la coniazione o invenzione (aspirina, nylon kleenex; eponimi come sandwich, jeans, in italiano aggettivi come
cartesiano, giuliano ecc.)
- il prestito, ossia l’adozione di parole di un’altra lingua, fenomeno di grande importanza in linguistica storica. Esistono
prestiti adattati (es. il giapponese suupaamaaketto per ‘supermarket’), non adattati (l’italiano computer, film ecc.) o
parzialmente adattati (bar da cui barista, sport da cui sportivo ecc.). Infine c’è il calco, o traduzione diretta degli
elementi costituitenti la parola originaria nella lingua che adotta il prestito: skyscraper > gratta-cielo; Hinterland > retro-
terra ecc.
- la composizione, o creazione di una nuova parola a partire da due parole già esistenti;
- l’incrocio o clipping, combinazione di due forme separate in un unico termine quale esito di fusione: smog, bit,
motel, telethon, telex, modem ecc.)
Processi di formazione delle parole (segue)
- l’abbreviazione, o riduzione di una parola formata da molte sillabe (es. auto, aereo, foto, bici, bus ecc.)
- la retroformazione, riduzione di una parola appartenente a una certa classe per formarne una appartenente a un’altra
classe: television > televise; donation > donate; accordare > accordo; purgare > purga.
- la conversione o suffissazione zero, cambiamento della funzione di una parola (ovvero quando un nome viene
usato come verbo o viceversa): bottle, to bottle; chair, to chair; mangiare > il mangiare.
- la reduplicazione, ovvero il raddoppiamento di un segmento che può essere parziale (greco antico lyo > lelyka) o
totale (indonesiano kursi ‘sedia’, kursi kursi ‘sedie’).
- la parasintesi, ovvero l’unione di una base più un prefisso e un suffisso in cui tuttavia nè la sequenza prefisso + base
né quella base + suffisso sono parole dell’italiano (ad es. ingiallire, in cui *ingiallo e *giallire non sono sequenze
grammaticali; sfegatato, abbottonato; inglese en-light-en ecc.)
- gli acronimi, ossia nuove parole formate con le lettere iniziali di altre parole che pssono restare combinazioni di lettere
(CD, VCR) o esser pronunciati come singole parole (NATO, UNESCO). Acronimi non trasparenti vengono talora
combinati con uno dei loro elementi, ad es. PIN number
- La derivazione è la modificazione di una parola ottenuta attraverso l’aggiunta di una forma o morfema legato (affisso)
a una forma libera; essa raggruppa tre diversi processi:
Derivazione (affissi)

Prefissazione Infissazione Suffissazione


(prefissi) (infissi) (suffissi)

La flessione “aggiunge” alla parola di base informazioni relative a generi, numero, caso, tempo, modo diatesi,
persona e si applica tanto a parole semplici quanto a parole complesse (ossia derivate e/o composte).
Classi di parole (o classi di forme)

Tradizionalmente le parole di ogni lingua sono state raggruppate in classi o parti del discorso,
dette anche categorie lessicali e definite spesso su basi contenutistiche o funzionali. Quelle
identificate di solito sono:
• nome
• verbo
• aggettivo
• pronome
• articolo
• preposizione
• avverbio
• congiunzione
• interiezione
Tali classi possono ulteriormente esser suddivise in variabili vs invariabili, aperte vs chiuse. La
cosiddetta definizione “nozionale” o “concettuale” che ne dà la grammatica tradizionale, tuttavia (i
nomi designano “entità” o “oggetti”, i verbi “azioni” o “processi” ecc.) è inadeguata e va sostituita con
una definizione puramente distribuzionale.
Definizione di morfema e classificazione dei morfemi

I diversi modi in cui le lingue costruiscono le “parole” mettono in luce l’esistenza di


elementi minimi o forme elementari della lingua chiamate morfemi: le più piccole
unità della lingua dotate di significato che possono corrispondere a una parola, ma
più spesso formano parti di parola (talora addirittura parole così complesse da
corrispondere a un’intera frase di un’altra lingua).
I morfemi di una lingua possono essere classificati in base a due parametri: la funzione e la
distribuzione.
In base alla funzione i morfemi si distinguono in lessicali (provvisti di un significato che non
dipende in primo luogo dal contesto) e grammaticali o funzionali (provvisti di una funzione
grammaticale che viene esplicitata dal contesto in cui occorrono). Queste due classi, inoltre, si
distinguono per il fatto che la prima è aperta e la seconda è (tendenzialmente) chiusa.
In base alla distribuzione i morfemi possono essere liberi o legati: sono liberi quelli che
possono ricorrere da soli in una frase (ad es. bar, ieri, virtù), sono legati quelli che non possono
ricorrere da soli e debbono “legarsi” a qualche altra unità (ad es. la i dell’italiano in libr-i). In
italiano (ma non in inglese) le parole semplici sono bimorfemiche e i verbi regolari trimorfemici:
in inglese si può dunque dire che una parola è ciò che resta ove si sottraggano i morfemi
flessivi (dunque boy-s > boy, sing-s > sing) laddove in italiano non è mai cosi e il morfema
lessicale privo di desinenza non è mai libero.
Quando troviamo una serie di diversi morfi che siano altrettante manifestazioni di uno stesso
morfema, parleremo di allomorfi: così il morfema [+ plurale] in italiano ha quali possibili allomorfi
[-e], [-i], [Ø], [-ini], ad es. per donne, cani, città, uomini.
Dalla morfologia alla sintassi: grammatica e categorie

La grammatica è la disciplina che si occupa di descrivere (e, spesso, prescrivere) la


struttura dei sintagmi e delle frasi in una lingua data, in modo tale da dar conto di
tutte le sequenze ammissibili (grammaticali) escludendo quelle non ammissibili
(agrammaticali). Le c.d. parti del discorso sono un prodotto della grammatica
normativa tradizionale a base greco-latina (e per questo non sono sempre
automaticamente applicabili a lingue molto diverse da quelle per descrivere le quali
sono state create). Lo stesso può dirsi per una serie di altre categorie che sono alla
base dei fenomeni di accordo: “persona”, “tempo”, “numero”, “genere” e “voce”.
Ciascuna di queste categorie, ovviamente, è manifestata in modi diversi da lingue
diverse; la grammatica tradizionale in genere ha identificato come pertinenti solo
categorie morfologicamente marcate in modo esplicito, ma il linguista Benjamin Lee
Whorf in un famoso saggio del 1937 ha istituito una distinzione fra tipi di categorie
grammaticali.
Whorf ritiene anzitutto che vi sia una distinzione tra
1a) categorie manifeste, ossia dotate di un contrassegno formale presente in ogni frase
contenente la categoria (ad es. il plurale dei nomi inglesi, o la forma potenziale del verbo
sempre in inglese [can, could]);
1b) categorie latenti, provviste di un contrassegno formale presente solo in alcuni tipi di frasi
chiamati reattanza della categoria (ad es. i verbi intransitivi inglesi, la cui reattanza è costituita
dall’assenza del participio passivo e delle voci passive e causative: non possiamo avere *it was
goed);
Dalla morfologia alla sintassi: grammatica e categorie

2a) categorie selettive, ossia classi grammaticali con un’appartenenza fissa e limitata in
confronto ad alcune classi più estese (le categorie selettive primarie, o categorie lessemiche,
corrispondono all’incirca alle tradizionali parti del discorso) e ovviamente può trattarsi di
categorie manifeste (ad es. la distinzione tra verbi e nomi in latino) o latenti (ad es. la
distinzione tra nomi e aggettivi sempre in latino: est gladius, est bonus ma est bona e non *est
gladia)
2b) categorie modulari, ovvero applicabili e rimuovibili a piacere (come le “flessioni” in
indoeuropeo): ad es. il participio presente in inglese, manifestato da una sigla -ing. In lingue
diverse da quelle indoeuropeee le categorie modulari possono riguardare anche aspetti
comunemente ascritti alle classi selettive: ad es. in yana e nelle lingue semitiche nomi e verbi
sono moduli (in ebraico e-e è un morfema discontinuo o sigla di stativazione, ā-a di verbazione:
berek, ‘ginocchio’ vs bārak, ‘si inginocchiò’), e lo stesso lessico inglese soggetto al processo di
conversione (head, hand, stand ecc.).
3) categorie isosemantiche, ovvero parole distinte per configurazione ma identiche per
significato, a loro volta suddivise in 3a) selettive (declinazioni e coniugazioni, ad es. lat. rosa vs
populus); 3b) alternative che manifestano differenze stilistiche piuttosto che grammaticali (ad
es. inglese don’t vs do not, electric vs electrical ecc.)
Il metodo descrittivo e l’analisi dello strutturalismo americano

Scopo dell’analisi strutturale americana (detta distribuzionalismo, e da non confondersi con lo


strutturalismo europeo) è indagare empiricamente sulla distribuzione delle forme in una lingua
(ad es. attraverso dei testi quali frasi con un posto “vuoto” o slot): in caso come quello di
“_________ fa bene” ci sono solo alcuni tipi di forme che possono occupare lo slot e dunque
sono presumibilmente ascrivibili alla stessa categoria grammaticale.
La c.d. analisi in costituenti immediati mostra in che modo i costituenti di una frase si
combinino per formare costituenti maggiori (i sintagmi, o gruppi di parole forniti di una testa e
definiti in base a criteri distribuzionali e test specifici (movimento congiunto, enunciabilità in
isolamento, coordinabilità).
Da un punto di vista tecnico, l’analisi sintattica richiede l’uso di notazioni “speciali” che indichino
la gerarchia non lineare di relazioni fra costituenti: il diagramma di distribuzione per livelli;
l’etichettatura sotto forma di parentesi indicizzate (creata da Bloomfield); la rappresentazione
sotto forma di diagramma ad albero (in uso a partire dai primi sviluppi del genrativismo di
Chomsky).
Diagramma di distribuzione per livelli

mio fratello mangia la torta con le mele

Questo diagramma è utile a mostrare la gerarchia della struttura in


costituenti, e le relazioni tra tipi di forme paradigmaticamente connessi a
quelle individuate (quelle cioè che possono occupare gli stessi slots e sono
quindi selezionabili al posto delle forme effettivamente presenti). In
linguistica strutturale si parla in proposito di asse paradigmatico o
associativo (Saussure) asse del sistema o funzione aut (Hjelmslev), asse
della selezione (Jakobson).
Frasi etichettate e parentesizzate

Una caratteristica fondamentale della struttura sintattica è la sua struttura “profonda”


non lineare. Sebbene a livello della manifestazione fonica (o grafico-alfabetica) le
frasi siano stringhe di fonemi realizzati come foni, morfemi/morfi e parole che si
dispiegano linearmente (è il secondo principio generale che definisce il segno in
Saussure), in realtà le posizioni sintattiche sono meglio collocabili in strutture di
costituenti riuniti in gruppi e organizzati gerarchicamente (come nel diagramma a
livelli). Per questa ragione la linguistica formale americana ha inizialmente proposto,
con Leonard Bloomfield, l’uso delle parentesi indicizzate o etichettate; ad es.

F
[ SN [ Art [il] N [ragazzo]] SV [ V [incontra] SN [Art [la] Agg [sua] N [amica]]]]

Naturalmente gerarchizzando in modo evidente le parentesi si coglie la struttura “a


incasso” dei costituenti

] [[incontra] [ [la] [sua] [amica]] ] ]


SV

[
F SN Art N V SN Art Agg N

[ [il] [ragazzo]
I diagrammi ad albero

La rappresentazione che fa uso di diagrammi ad albero è considerata la più chiara sia perché
consente di identificare immediatamente i “nodi” strutturali in cui si organizzano i sintagmi o
gruppi di parole, sia perché mette in luce le due possibili interpretazioni di frasi strutturalmente
ambigue. Si prenda ad es. la frase Andrea guarda le ragazze con gli occhiali. Essa
ammette due interpretazioni, a seconda che consideriamo “con gli occhiali” un SP circostanziale
che può riferirsi all’oggetto del verbo (= “guarda le ragazze che hanno gli occhiali”) o al modo di
guardare del S (= “guarda le ragazze, e lo fa con gli occhiali”).

F F

SN V’ SV SP

N V’ P’
N V SN

SN SP V SN P SN

SD N P’ SD N SD N

D P SN D D

SD N
Andrea guarda le ragazze con gli occhiali Andrea guarda le ragazze con gli occhiali
Soggetto e predicato

Come le nozioni di parola e frase (quest’ultima definita in base alla presenza di predicazione),
anche le definizioni tradizionali di soggetto si rivelano elusive e incomplete. La più diffusa
(“soggetto è chi compie l’azione o, nelle frasi passive, chi la subisce”) ha molti controesempi
(quel ragazzo ha sofferto molti stenti), ma anche quella che vede nel soggetto “la persona (o
cosa) di cui parla il predicato” è inadeguata (così Al mio vicino piace il salame non intende
parlare del salame, ma del mio vicino; eppure il soggetto grammaticale è proprio “il salame”).
Sul terreno distribuzionale è possibile formulare una definizione più affidabile di soggetto: in
italiano soggetto è l’argomento che deve obbligatoriamente accordarsi con il numero e
persona del verbo. Termini quali “soggetto” e “predicato”, in effetti, possono essere definiti a
tre differenti livelli: sintattico, semantico (o dei ruoli semantici) e pragmatico-
comunicativo, che solo in alcuni casi coincidono.
Così nella frase Gianni soffre il freddo noteremo che Gianni è soggetto sintattico ma esperiente
(dunque non agente) a livello semantico, perché il temere non è un’azione ma uno stato; inoltre
è tema a livello pragmatico, mentre il predicato sarà rema. Viceversa in A Mario piace il salame
Mario continuerà ad essere esperiente ma cesserà di essere soggetto sintattico, e in Giuseppe
picchia Mario Giuseppe sarà non solo soggetto e tema della frase ma anche agente (posto che
picchiare rappresenta un vero e proprio predicato d’azione ed ha funzione pragmatica di rema).
Attenzione: non bisogna confondere il tema inteso come ruolo semantico dell’entità su cui
l’azione ha effetto o coinvolta in esso (meglio indicato con i termini oggetto o paziente) dal tema
inteso a livello comunicativo come argomento (ciò intorno a cui qualcosa è detto) e
contrapposto al rema (ciò che è detto a proposito di un tema) cui si sovrappone la distinzione
fra dato = (ciò che si presuppone conosciuto, informazione nota) e nuovo (= ciò che si
presuppone non conosciuto = informazione nuova).
La valenza

Si tratta di un aspetto essenziale della sintassi linguistica, legato alla constatazione che i verbi (o, in
generale, gli elementi con funzione predicativa) debbono essere accompagnati da un
determinato numero di altri elementi o argomenti, in numero variabile. Il concetto di valenza,
introdotto dal linguista francese Lucien Tesnière, sottolinea l’importanza di questo aspetto
individuando, proprio come in chimica, la presenza di diverse valenze verbali. In italiano perciò
esistono:
1) verbi avalenti o zerovalenti, privi di argomento (ad es. i cosiddetti verbi ‘metereologici’ o
assolutamente impersonali come piove);
2) verbi monovalenti (tradizionalmente noti come ‘intransitivi’, ad es. camminare);
3) verbi bivalenti (tradizionalmente noti come “transitivi” ad es. comprare);
4) verbi trivalenti (i verbi c.d. di ‘dire’ e di ‘dare’, ad es. X ha dato Y a Z).
Naturalmente agli argomenti necessari a “saturare” le valenze verbali in una frase possono
aggiungersi ulteriori elementi facoltativi che Tesnière chiamava circostanziali e che si
caratterizzano distribuzionalmente per una maggiore “mobilità” posizionale: così NON posso
dire *Mario ha baciato (perché la valenza o il “posto” dell’oggetto VA saturata, dunque dovrò
dire Mario ha baciato Serena); ma mentre l’aggiunta di un circostanziale come Ieri sera mi
consentirebbe di formulare frasi tutte egualmente grammaticali come Ieri sera Mario ha baciato
Serena, Mario ha baciato Serena ieri sera, Mario ieri sera ha baciato Serena e Mario ha baciato
ieri sera Serena, le cosa vanno in modo del tutto diverso per gli argomenti verbali: basta
pensare alla frase Serena ha baciato Mario, dotata di senso completamente diverso dalla
precedente.
Sintagmi o gruppi di parole

L’identica funzione di argomento o circostanziale svolta parole singole può essere anche
manifestata da gruppi di parole o sintagmi, definiti sulla base del criterio di coesione
sintagmatica che ne impone il movimento congiunto all’interno della frase (così in Mio fratello ha
mangiato la torta di mele i “gruppi” sintagmatici mio fratello e la torta di mele non si possono
scindere, pena l’assoluta agrammaticalità della frase risultante: non potrò dire, cioè, *fratello
mele di torta mangiato ha la mio, pur potendo dire, con gli opportuni aggiustamenti dovuti alla
dislocazione a sinistra dell’oggetto tematizzato, la torta di mele, l’ha mangiata mio fratello.
I sintagmi, inoltre, sono individuabili in base al criterio dell’enunciabilità in isolamento: alla
domanda chi ha mangiato la torta di mele? dovrò necessariamente rispondere mio fratello e
non, ad esempio, *mio fratello ha. Anche la prova della coordinabilità serve infine a identificare
gruppi di parole o sintagmi diversi, che non possono mai esser coordinati fra loro: così alla frase
mio fratello ha mangiato la torta di mele potrò coordinare il sintagma e quella di lamponi
(anch’esso nominale, SN) ma non dietro la dispensa (sintagma preposizionale, SP): *mio
fratello ha mangiato la torta di mele e dietro la dispensa non è infatti una frase grammaticale.
Ogni sintagma o gruppo di parole è composto da una testa o elemento centrale (fratello in mio
fratello, dietro in dietro la dispensa, ha mangiato in ha mangiato la torta [SV, formato da V+SN],
alto in troppo alto [SA] ecc.); la testa è inoltre l’unico elemento necessario, e di questo ci si
rende conto in tutti i casi di sintagmi formati da parola singola (ad es. posso sostituire Mario a
mio fratello nella frase precedente).
Criteri di classificazione delle frasi e tipi di frase

semplici
coordinate
complessità frasi
complesse
subordinate

principali
dichiarative “sì-no”
dipendenza frasi
dipendenti interrogative
modalità “wh-”
imperative

esclamative

affermativ attive
e
polarità frasi diatesi frasi
negative passive

a sinistra

dislocate
a destra
segmentate a tema sospeso

segmentazione focalizzate
frasi
non segmentate scisse
Classificazione delle frasi dipendenti

soggettive oggettive
argomentali completive
nominali
interrogative
indirette

circostanziali (temporali, causali, finali, consecutive,


frasi dipendenti
condizionali, concessive, comparative)

restrittive
relative
appositive

- esplicite (dopo che ebbe mangiato, andò a dormire)


- implicite (dopo aver mangiato, andò a dormire)
Principali tipi di frasi dipendenti in italiano

Argomentali: sono le dipendenti che fungono da argomento del verbo presente nella
frase principale (ad es. Ho detto che tu hai comprato il giornale; Mi chiese cosa
avevo fatto; Credo che tu abbia mentito). Essenziale è che l’argomento frasale
possa esser sempre sostituito come costituente da un argomento sintagmatico: Ho
detto una battuta; Mi chiese una matita; Credo alle tue parole. Ci sono argomentali
oggettive o completive, completive nominali, soggettive, interrogative indirette,
relative (restrittive e appositive).
Circostanziali: sono le dipendenti che prendono il posto dei costituenti circostanziali in
una frase, ad es. Quando sono arrivato (sostituibile con Ieri, verso sera ecc.) ha
iniziato a piovere. Le circostanziali possono essere temporali, causali, finali,
consecutive, condizionali, concessive, comparative.
Infine le dipendenti possono essere esplicite (quando contengono un verbo di modo
finito) o implicite (quando contengono un verbo di modo non finito):
Ti ho promesso che verrò o ti ho promesso di venire. Si notino le restrizioni sulla
trasformazione causativa nel caso delle implicite: Ti ho fatto promettere che (tu)
verrai o Ti ho fatto promettere che (lui) verrà, ma Ti ho fatto promettere di t venire,
dove la “traccia” t è necessariamente riferita a ti (non c’è un’altra interpretazione
possibile).
La sintassi è autonoma?
Si tratta di una problematica particolarmente complessa, su cui la teoria linguistica ha dibattuto a lungo, Chomsky, in
particolare, e la scuola linguistica che viene denominata grammatica generativo-trasformazionale, si è fatto
interprete di una concezione modulare del linguaggio (che sarebbe organizzato in componenti autonome)
insistendo soprattutto sull’autonomia del livello sintattico da quello semantico e giungendo addirittura a negare
l’importanza di quest’ultimo livello nella comprensione degli enunciati: “di fatto la maggior parte della teoria del
significato si chiama sintassi”, in quanto “è con la sintassi che spieghiamo perché una frase ha un certo
significato e non un altro”.
Il ragionamento di Chomsky si basa sulla possibilità di generare frasi prive di significato ma grammaticali e,
all’opposto, costruire frasi sensate ma agrammaticali; ad es.

I gorpotti smionano le fibe


*Nico vuole di incontrare Emma
Nel primo caso siamo in presenza di una frase priva di significato in italiano, perché non esistono quasi tutte le parole
che la compongono (fatta eccezione per gli articoli) ma si tratta di una frase sintatticamente ben formata; nel
secondo caso invece la frase contiene tutte parole esistenti nel dizionario italiano, ma è “asteriscata” perché
viola le regole di combinazione dei costituenti stabilite dalla grammatica. Alla posizione di Chomsly sono state
mosse obiezioni da parte di Jakobson, il quale non contesta il carattere parzialmente autonomo di buona
formazione quanto piuttosto la pretesa di costruire “una teoria completamente non semantica della struttura
grammaticale” (Chomsky): A questo proposito egli cita la famosa frase citata da Chomsly come esempio di frase
assurda perché priva d significato:

Colourless green ideas sleep furiously (incolori idee verdi dormono furiosamente)
Jakobson fa notare che esistono analisi di questa frase che possono tranquillamente assegnare ad essa un senso
(Hymes ha scritto una poesia “del tutto sensata” usando la frase come titolo, proprio per contestare la posizione
chomskiana). Se ne può concludere che l’autonomia della grammatica è un fatto relativo, poiché accanto a casi
limite di enunciati grammaticali e insensati e agrammaticali ma dotati di senso esistono numerose sfumature
intermedie; la frase di Chomsky è una di queste, mentre nel caso di (*)a me mi piace sempre sedermici sul
divano (obiettivamente agrammaticale in italiano standard) siamo in presenza di una frase che in una varietà
colloquiale del repertorio di livello più basso può rivelarsi perfettamente accettabile.
Il triangolo di Ogden e Richards e i rapporti di significazione

SIGNIFICATO

esprime è la percezione soggettiva di

PAROLA denota o nomina REFERENTE

Significante
Significato } DESIGNAZIONE
OGGETTO

Rapporti di

}
significazione DESIGNAZIONE
Significante OGGETTO
Significato
I rapporti di significazione (segue)

La significazione è un concetto relazionale. Essa definisce il rapporto tra


espressione e contenuto che forma il segno come unità come anche le
relazioni pure sul piano del contenuto (i rapporti reciproci e posizionali tra
significati).
La designazione è invece il rapporto tra segni linguistici e “oggetti” della
realtà extralinguistica (che in un’ottica semiotica NON si danno mai come
tali, ma sono il risultato dell’attività formativa della lingua e della semiosi
percettiva che “costruisce” il mondo naturale). Ecco perché l’affermazione
“la realtà è sempre identica” può essere sostanzialmente accolta, ma
aggiungendovi un distinguo: il modo di conoscerla e denominarla varia da
lingua a lingua.
Nei testi osserviamo immediatamente la denotazione o designazione, ma
essa non è costante, al contrario dei rapporti di significazione che sono un
fatto di langue (o di sistema): possiamo avere denotazioni multiple di una
stessa entità extralinguistica, e anche denotazioni metaforiche. Inoltre, la
designazione va distinta dal concreto atto di riferimento: la prima è di
natura lessicale (si designa una classe concettuale), mentre il secondo fa
riferimento ad oggetti concreti in ogni singola enunciazione
contestualizzata.
I rapporti di significazione (segue)

Nell’ambito delle relazioni di significazione che si costituiscono all’interno


del sistema paradigmatico del contenuto, un posto importante è occupato
dall’ambiguità semantica e dai rapporti di omonimia e polisemia. Nel primo
caso, siamo in presenza di due parole o lessemi che hanno lo stesso
significante ma significati differenti e non irrelati tra loro (ad es. vite); nel
secondo caso, si tratta di lessemi i cui significati hanno tra loro una
relazione identificabile dai parlanti (ad es. i due significati della parola
esecuzione [musicale o fucilazione]).
Come ha dimostrato la semiotica e la semantica interpretativa, peraltro,
ogni lessema è intrinsecamente polisemico dato che l’inserzione in contesti
nuovi produrrà nuovi percorsi di senso inattesi e dunque nuove
significazioni (traslate, derivate, inferite). Ecco perché le definizioni
“chiuse” o a “pacchetto” delle parole, come quelle fornite dai dizionari, non
sono rappresentative della complessità del funzionamento delle semiotiche
linguistiche che fanno appello a una dimensione enciclopedica e aperta
dell’interpretazione lessicale (in contrasto con il postulato forte alla base
della base della semantica componenziale: la chiusura dell’inventario dei
tratti minimi semantici, sul modello dell’inventario dei fonemi di una
lingua). Come afferma Eco, “in una semantica a interpretanti non ci sono
entità metalinguistiche e universali semantici”.
Analisi del contenuto e valore semantico

ovino suino bovino equino ape umano

maschio montone porco toro stallone fuco uomo

femmina pecora scrofa vacca giumenta pecchia donna


Tratti semantici e ruoli semantici

Nello studio del significato si è cercato di analizzare le unità linguistiche


ipotizzando che anche al livello del contenuto fosse possibile individuare degli
elementi minimi o tratti (sul modello dei fonemi per il piano dell’espressione)
denominati a volte sèmi e che danno conto di anomalie semantiche come quella
di frasi quali Il panino mangiò il ragazzo. Si tratta cioè di elementi che
consentono di “scomporre” il significato di un lessema determinandone anche la
possibile co-occorrenza con altri elementi in una frase: nel caso specifico,
mangiare richiede un tratto [+ animato] nel ruolo semantico di Agente, e la parola
panino nella sua accezione standard dell’italiano non pare possederla.
I ruoli semantici o tematici sono, analogamente, quelle funzioni svolte dai SN
in una frase nella quale il verbo organizza la predicazione in base a specifiche
regole che fanno assomigliare l’enunciato a una “scena” drammaturgica
(Tesnière, Fillmore). Avremo così, accanto ai ruoli sintattici, i ruoli semantici di
Agente, Tema o “paziente”, Strumento, Esperiente, Locativo, Fonte, Meta.
Organizzazione discorsiva e coerenza globale del discorso

Guglielmo è la donna nella loro coppia


“donna” > /debolezza/ (saliente) - /femminilità/ (neutralizzato) /umano/
(attualizzato ma in background)
Guglielmo è la donna nella loro coppia: sul suo comodino ci sono
più creme per il viso che su quello di Luisa
“donna” > /civetteria/ (sèma inerente) /femminilità/ (attualizzato)
Guglielmo è la donna nella loro coppia: Luisa prende tutte le
decisioni
L’organizzazione semantica delle unità di manifestazione,
dunque:
a. dipende dal contesto; b. non prevede un inventario chiuso
di figure; c. prevede la possibilità di narcotizzare e/o
riattualizzare sèmi; d. decide della gerarchia tra sèmi.
Organizzazone strutturale del lessico

Il lessico si organizza dunque sulla base di campi, assi e sottosistemi semantici


parziali che esprimono relazioni di senso. Tra questi è possibile citare coppie
opposizionali con strutture logiche diverse quali:
• antonimia secca (ad es. bene vs male, in cui un termine esclude l’altro);
• complementarità (marito vs moglie, si ha una mutua implicazione nella
relazione);
• conversità (vendere vs comprare, ad es.: se x vende y a k, allora k compra y
da x);
• opposizioni relative o scale proporzionali non binarie (ad es. sopra vs
sotto, grande vs piccolo ecc.);
• continua graduati (ad es. Lunedì vs martedì vs mercoledì ecc.);
• continua graduati gerarchicamente (ad es. centimetro vs metro vs
chilometro);
• opposizioni antipodiche e ortogonali (ad es. sud vs nord; nord vs ovest);
opposizioni di conversità vettoriali (ad es. arrivare vs partire).
Infine, il lessico presenta anche relazioni gerarchiche di inclusione note come
relazioni di iponimia e iperonimia: così ad es. mammifero include il significato di
animale (è iponimo di quest’ultimo) ma è incluso in quello di cane (dunque è un
iperonimo di questo lessema).
Semiotiche connotative e connotatori (significato connotativo, associativo)
•Sebbene spesso si pensi alle “associazioni” o “connotazioni” come a componenti soggettive o affettive
del significato, Hjelmslev ha formulato una nozione formale del termine connotazione che ha una
valore normativo sociale poiché comprende fra l’altro:
• forme stilistiche
• stili
• valori di stile
• mezzi
• toni
• idiomi: vernacoli, lingue nazionali, lingue regionali, fisionomie…

E C

connotazione
E C

E [E R C] R C

denotazione
Metafora e metonimia

Un posto a parte meritano i meccanismi di estensione del significato di elementi


lessicali che fanno appello a procedimenti retorici come la metafora (ad es. leone
per “individuo coraggioso”) e la metonimia (ad es. mano per ‘giro di carte’ o
‘strato di vernice’).
La semantica interpretativa, inoltre, registra come parte del significato contestuale
dei termini lessicali anche i c.d. fenomeni di presupposizione, sia di tipo lessicale
(ad es. pulire presuppone che la stanza fosse precedentemente sporca, come
dimostra il test di negazione che non elimina la presupposizione).
Vi sono tuttavia casi che sembrano resistere al test di negazione: ad es. il verbo
“farcela” in /Giovanni ce l’ha fatta a prendere il treno/ presuppone che l’abbia
preso, mentre /Giovanni non ce l’ha fatta a prendere il treno/ che NON l’abbia
preso. Ma in questo caso la presupposizione è solo relativa all’intenzione di
compiere qualcosa di difficile (e questa intenzione viene mantenuta, ad esempio,
nel caso della frase /ce l’hai fatta a romperlo!/ rivolta dalla madre al figlio che ha
appena rotto il vetro di una finestra: ponendo la presupposizione
dell’intenzionalità, quest’espressione ottiene l’effetto pragmatico di colpevolizzare
la persona cui è rivolta). Secondo Eco, alla base della felicità pragmatica di un atto
linguistico bisogna presupporre delle condizioni di liceità fondate su basi
semantiche ma enciclopediche e inferenziali.
La pragmatica

La pragmatica studia la dimensione del significato legata all’uso della lingua in


contesti e situazioni comunicative specifiche. Si occupa perciò non solo del
significato “detto” ma anche di quello “implicato”, “presupposto”, “inferito” in base
alle intenzioni del parlante (il c.d. “significato del parlante”).
Il ruolo del contesto (nelle dimensioni di co-testo o contesto linguistico, di contesto
fisico e contesto sociale) diventa in quest’ottica essenziale per l’interpretazione e
la costruzione della significazione, come dimostrano fenomeni quali la deissi,
l’anafora, il riferimento, la presupposizione.
Deissi: è il meccanismo mediante cui la lingua, attraverso l’apparato
dell’enunciazione situata spazio-temporalmente, si “ancora” alla realtà mediante
dei ganci che rinviano ad essa (le espressioni deittiche). Distinguiamo una deissi
personale, spaziale, temporale e sociale. La deissi richiede la dimensione
pragmatica dell’uso per poter disambiguare o interpretare enunciati.
Anafora: Istituisce rapporti di referenza o co-referenza in un discorso o testo
(riferimento successivo a un’unità già introdotta), e la si può denominare anche
deissi testuale.
Riferimento: meccanismo o atto tramite il quale un parlante usa la lingua per
consentire di identificare o individuare un oggetto, entità o situazione nella realtà
extralinguistica (nomi propri, descrizioni definite).
Presupposizione: rimanda a uno “sfondo condiviso” semantico-pragmatico noto
a parlante e ascoltatore.
La struttura dell’agire linguistico in J. L. Austin

ATTO FONETICO
ATTO LOCUTORIO ATTO FÀTICO
ATTO RETICO

DIRE QUALCOSA +
= ATTO ILLOCUTORIO
(“con questo io” + performativo)

+
ATTO PERLOCUTORIO
Il principio di cooperazione e le massime di H. P. Grice
“Dai il tuo contributo alla conversazione nel modo richiesto, allo stadio in cui
è richiesto dallo scopo condiviso o dalla direzione dello scambio
comunicativo in cui sei impegnato”
Massima di Quantità
1. Fai in modo che il tuo contributo sia tanto informativo quanto richiesto dagli scopi
dello scambio in corso
2. Non dare un contributo più informativo del necessario
Massima di Qualità
Cerca di dare un contributo di informazioni vere, e in particolare
1. Non dire cose che ritieni false
2. Non dire cose per le quali non hai prove adeguate
Massima di Relazione
Sii pertinente
Massima di Modo
Sii perspicuo, e in particolare
1. Evita espressioni ambigue
2. Evita espressioni oscure
3. Sii breve (evita inutili prolissità)
4. Procedi ordinatamente
Le dimensioni comunicative di un enunciato
secondo Grice
Significato comunicativo

detto implicato

convenzionalmente non convenzionalmente

conversazionalmente non conversazionalmente

in modo generale in modo particolare


Le componenti fondamentali dell’interazione linguistica

Mondo fisico e sociale

Parlante Ascoltatore
- credenze - credenze
- desideri - desideri
- intenzioni - intenzioni

Relazioni sociali

Intenzioni comunicative Effetti comunicativi

SCELTE
LINGUISTICHE
La cortesia, la “faccia” e l’analisi del discorso

Secondo Goffman, la faccia è l’immagine pubblica di Sé che ogni attore sociale


assume e fa in modo che gli altri riconoscano. In pragmatica si parla di cortesia
per quei comportamenti cooperativi che mostrano di tenere in considerazione la
faccia di un altro, senza minacciarla. I c.d. atti linguistici indiretti sono spesso
una soluzione in grado di salvare la faccia dell’interlocutore.
Mentre la faccia negativa è il bisogno di essere indipendenti, quella positiva è il
bisogno di essere in relazione; entrambe vanno tenute presenti nelle strategie
interazionali che sono spesso il risultato di un equilibrio volto a salvaguardare
entrambe.
L’analisi del discorso si occupa di capire in che modo interpretiamo un testo
(scritto o orale), o come siamo in grado di stabilire criteri alla base di una
conversazione. Si tratta perciò di una prospettiva d’analisi che analizza l’uso della
lingua al di là dell’unità sintattico-semantica considerata basilare dalla linguistica
teoria e descrittiva: la frase, occupandosi perciò di più ampie porzioni di parlato o
di testi scritti. L’analisi dei processi pragmatici dimostra che riusciamo a
interpretare porzioni di testo o discorsi anche se privi di alcuni requisiti di
grammaticalità, perché facciamo ricorso a criteri come la coesione (anafore,
connettivi, ecc.) e la coerenza (l’unitarietà nell’interpretazione di un testo
costruita in conformità all’esperienza enciclopedica del mondo). I testi (letterari,
conversazionali, tutti i testi in realtà) presentano sempre lacune e spazi vuoti che
gli interpreti “saturano” inferenzialmente (in virtù di frame e scripts che vengono
“corretti” in base a informazioni co-testuali o contestuali).
Neurolinguistica
La neurolinguistica si occupa dello studio del rapporto
fra linguaggio e cervello. Solo in periodi relativamente
recenti, grazie allo sviluppo di tecniche di indagine
innovative (PET, FMR) questa branca della linguistica ha
compiuto notevoli progressi nello studio delle patologie
del linguaggio e nell’identificazione delle localizzazioni
cerebrali associate alle varie funzioni linguistiche, in
precedenza individuate solo a seguito di autopsie su
soggetti affetti da disturbi nel linguaggio.
Oggi sappiamo che la maggior parte delle funzioni c.d.
linguistiche relative al parlare e all’ascoltare sono
localizzate nell’emisfero sinistro del cervello (con
esclusione della zona frontale), e in particolare in tre
aree identificate già nel corso dell’Ottocento e all’inizio
del secolo successivo: 1. la corteccia anteriore con
funzioni linguistiche o area di Broca (scoperta da questo
chirurgo poco dopo il 1860); 2. la corteccia posteriore
con funzioni linguistiche o area di Wernicke (scoperta
poco dopo il 1870); 3. la corteccia motoria che controlla
i muscoli articolatori del viso, della mascella, della lingua
e della laringe (identificata come parte coinvolta
nell’articolazione del linguaggio da Penfield e Roberts nel
1959); 4. il cosiddetto fascicolo arcuato, scoperto da
Wernicke e che garantisce una connessione decisiva tra
corteccia anteriore e posteriore.
La teoria della localizzazione evidenzia la
specializzazione linguistica dell’emisfero sinistro
(lateralizzazione) e sostiene che le attività linguistiche
seguono una schema o percorso definito e localizzato
nella massa cerebrale: ascolto e comprensione (area di
W.) > trasmissione all’area di B. > trasmissione alla
corteccia motoria e articolazione fisica.
Lapsus linguae, malapropismi e afasia

I casi in cui ci si “confonde” nell’identificare una parola richiamandone alla mente


una fonologicamente simile (malapropismi: trascendental medication,
‘medicazione trascendentale’), o si scambiano i suoni delle parole in un sintagma o
frase (lesi di taurea) sono prova dell’esistenza a) di vincoli nell’organizzazione
delle conoscenze linguistiche; b) vincoli fonologici relativi a particolari lingue
(posto che le sequenze prodotte non sono mai inaccettabili nella lingua coinvolta).
Le forme di afasia, invece, non sono semplici ed episodici problemi di produzione o comprensione ma
una vera e propria patologia. A seconda della localizzazione del danno cerebrale, identifichiamo:
• afasia di Broca o “afasia motoria”, con produzione linguistica ridotta e agrammatia (omissione di
morfemi funzionali). In genere non è danneggiata la comprensione.
• afasia di Wernicke o “afasia sensoriale”, con difficoltà nella comprensione uditiva e produzione di
discorsi fluenti ma spesso privi di senso, con difficoltà a trovare le corrette parole (anomia) cui il
parlante fa fronte con strategie di circonlocuzione, definizione, ecc.
• afasia da conduzione connessa a lesioni del fascio arcuato, con ritmo spezzato e pronuncia non
sempre corretta, anche se buona comprensione; difficile risulta la ripetizione di una parola o sintagma
pronunciato da qualcun altro.
Tutte queste forme di afasia sono quasi sempre dovuti a lesioni dell’emisfero sinistro, e a volte si
accompagnano a difficoltà nello scrivere nel leggere.
La dominanza dell’emisfero sinistro è dimostrata grazie ai c.d. test di ascolto dicotico, con cui si
dimostra che quanto viene percepito con la parte destra del corpo viene elaborato dall’emisfero sinistro
e viceversa. In un ascolto in cui un soggetto è sottoposto a due diversi stimoli per ciascun orecchio,
egli individuerà correttamente più spesso i suoni trasmessi all’orecchio destro perché il suono udito a
sinistra viene pocessato linguisticamente dopo: esso viene inviato all’emisfero destro, per poi essere
ritrasmesso a sinistra (presso il centro del linguaggio). L’emisfero destro, tuttavia, è preposto
all’elaborazione di segnali di natura non-verbale (musica, rumori, canti di uccelli ecc.) che non
richiedono (almeno non sempre) elaborazione analitica ma olistica.
Acquisizione della prima lingua
Anche se probabilmente è possibile apprendere una lingua anche dopo aver superato il c.d. periodo di
lateralizzazione o periodo critico (dalla primissima infanzia ai 3-4 anni di età) non è possibile
acquisire un vero e proprio linguaggio grammaticalmente complesso, che avviene attraverso “stadi” e
spesso in regime di sottodeterminazione dello stimolo: questo lascia pensare (Chomsky) che vi sia una
predisposizione innata all’acquisizione del linguaggio (il c.d. LAD).
Tutti i bambini sviluppano il linguaggio lungo linee di sviluppo abbastanza simili. A partire da un input
sufficientemente costante, e dalla possibilità di interagire con gli altri tramite la lingua, il bambino
elabora le regolarità presenti in ciò che sente e le riapplica a ciò che dice.
Lo stile linguistico semplificato detto “maternese”, cui si accompagna il baby-talk, aiutano il bambino a
costruire dei micromodelli dell’organizzazione strutturale di base della lingua. Il bambino inizia a
produrre suoni simili a quelli linguistici sotto forma di lallazioni (vocali, poi i primi suoni simili a
consonanti) seguite dal balbettio (combinazioni ripetute di sequenze vocale-consonante, ca. 8 mesi,
seguiti da “giochi sonori”).
Tra i 12 e i 18 mesi giunge il periodo della c.d. “parola-frase” (uso olofrastico di parole come sintagmi o
frasi, ed estensione nell’uso di particolari parole riferite a oggetti). Manca la capacità di combinare due
forme per produrre un sintagma più complesso che si realizza tra i 18 e i 20 mesi con la “frase a due
parole” (gatto cattivo, ad es., mamma pappa ecc.) che riceve un feedback da parte degli adulti.
Tra i due anni e i due anni e mezzo iniziano gli enunciati a più parole, dopo aver attraversato la fase
del “linguaggio telegrafico” con sequenze di parole giustapposte e la presenza di alcune marche flessive
e preposizioni. L’acquisizione della lingua, in realtà, è una costruzione attiva da parte del bambino che
prescinde dalla semplice imitazione del linguaggio degli adulti.
Verso i due anni e mezzo si sviluppa (spesso con tendenza alla ipergeneralizzazione) la produzione
della morfologia nominale e verbale (uomo > uomi; foot > foots) le forme c.d. irregolari compaiono e
talvolta sono sostituite nel momento in cui vengono assimilate quelle regolari, anche se a partire dai 4
anni il bambino è ormai in grado di capire quali forme sono regolari e quali non lo sono.
Nell’ultima fase di acquisizione, infine, assistiamo al pieno sviluppo della sintassi (frasi interrogative,
frasi negative) e della semantica (fenomeni di sovraestensione e acquisizione progressiva delle
relazioni semantiche quali iponimia, antonimia ecc.).
Apprendimento di una seconda lingua
Nel caso di una L2 si preferisce parlare di apprendimento piuttosto che di acquisizione, perché si è
in presenza di un processo più consapevole e strutturato, di solito in ambito istituzionale. In genere poi
lessico e grammatica sono di più facile acquisizione della pronuncia. L’età ideale per l’apprendimento,
dal punto di vista della glottodidattica, sembra essere tra i 10 e i 16 anni: la nostra “flessibilità”
linguistica non è del tutto perduta, ma la maturazione delle abilità cognitive permette un’analisi efficace
delle regolarità della L2 (a differenza dell’apprendimento all’età di circa 7-8 anni).
Ci sono tuttavia dei limiti affettivi, dovuti a riluttanza o imbarazzo. Ecco perché il metodo diventa
essenziale, e nel corso del tempo si sono succeduti approcci diversi:
• il metodo c.d. traduttivo-grammaticale, che considera l’insegnamento di L2 come una qualunque
materia scolastica, privilegiando le regole grammaticali in ottica normativa e la lingua scritta sulla
parlata. Il limite di questo approccio è di non insegnare agli apprendenti l’uso della lingua nella
conversazione quotidiana (non facendone dunque dei parlanti veramente competenti).
• il metodo c.d. audiolinguale, in auge dagli anni sessanta del XX secolo e privilegia nettamente il
parlato, utilizzandolo per la presentazione delle strutture di L2 che vengono apprese per lo più
attraverso esercizi di ascolto e ripetizione. L’idea era che l’apprendimento fosse un insieme di
“abitudini” da sviluppare con la pratica di laboratorio linguistico e con esercizi orali. Il difetto di questo
metodo è di non insegnare la dimensione interazionale reale (e talora di esser noioso).
• gli approcci c.d. comunicativi, infine, rinunciano all’apprendimento esplicito delle regole
grammaticali privilegiando l’uso in esperienze comunicative ed eventi linguistici “simulati” ma quanto
più possibile culturalmente situati, e ponendo l’accento sulle funzioni della lingua (in senso
jakobsoniano) piuttosto che sulle strutture o forme.
In generale, l’attenzione si è spostata dall’insegnante (e dal libro o metodo) all’apprendente,
tollerandone gli “errori” spesso dovuti a transfer o influenza crosslinguistica (che può essere
positivo, quando L1 e L2 hanno caratteristiche simili, o negativo nel caso di caratteristiche molto
diverse). Il sistema intermedio e variabile utilizzato nell’acquisizione di L2 si dice interlingua, ed è
soggetto a volte a processi di fossilizzazione. In definitiva, la motivazione rappresenta un fattore
essenziale nell’apprendimento soprattutto in relazione alla formazione di una competenza
comunicativa che preveda una componente grammaticale, sociolinguistica e strategica.
Variazione regionale e dialettologia

La “finzione dell’omogeneità” tipica dell’approccio teorico allo studio della lingua trascura
l’ampia variazione esistente in ogni comunità linguistica, soprattutto nel parlato. La
geografia linguistica e la dialettologia si occupano della variazione linguistica nello
spazio (c.d. variazione diatopica).
Accanto alla varietà standard (versione accettata istituzionalmente, normata e
riconosciuta come varietà ufficiale di una determinata lingua), ogni parlante usa una
varietà comunque caratterizzata da un particolare accento, o una varietà dialettale
definita da specifiche caratteristiche morfologiche e lessicali oltre che fonetiche.
In genere il criterio di “mutua comprensibilità” è usato per distinguere due dialetti della
stessa lingua da due lingue diverse; i dialetti locali e regionali sono individuati sulla base
di isoglosse (spesso scegliendo informatori stanziali, anziani, contadini e maschi, su cui
si riteneva fossero meno importanti gli influssi esterni, ma ricavando così una
descrizione della varietà dialettale probabilmente molto più antica e conservativa di
quella reale). Le isoglosse sono indicate .con delle linee di confine su una carta
geografica, e un insieme di carte va a costituire i c.d. atlanti linguistici. Una
sovrapposizione tra più isoglosse individua in genere un confine dialettale.
La variazione regionale rappresenta in realtà un continuum e non una serie di
suddivisioni nette tra una regione e l’altra (da cui l’esistenza di parlanti bidialettofoni o
bilingui).
In ambienti sociali e comunità plurilingui, la scelta relativa alle varietà di lingue parlate
vadano impiegate in contesti ufficiali è parte delle politiche di pianificazione
linguistica, che spesso conducono alla scelta di uno standard “alto” in base a
considerazioni di prestigio o semplice opportunità politica (l’ebraico in Israele, l’hindi in
India).
Bilinguismo, diglossia, dilalia

Si ha una situazione di bilinguismo quando entro una comunità coesistono due (o


più) varietà linguistiche padroneggiate dall’ìntera comunità, dotate di identico
prestigio e utilizzabili tendenzialmente nella stessa gamma di situazioni comunicative e
domini.
Prende il nome di diglossia, invece (Ferguson 1959) quella situazione nella quale
esiste una varietà dotata di maggior prestigio o alta (A) e una varietà bassa (B), fatto
che dà luogo a differenze in relazione a:
+ bilinguismo - diglossia
• specializzazione delle funzioni - bilinguismo + diglossia
• prestigio + bilinguismo + diglossia
- bilinguismo - diglossia
• eredità letteraria
• priorità di acquisizione
• standardizzazione.

Infine Berruto ha proposto di denominare dilalia la situazione in cui entrambe le


varietà A e B possono essere utilizzate nel parlato quotidiano e nella conversazione
intrafamiliare.
Possibili relazioni fra bilinguismo e diglossia
Se restringiamo la nozione di bilinguismo a una situazione in cui tutti i membri della
comunità padroneggiano entrambe le varietà e parliamo di diglossia per sintetizzare
l’uso complementare delle varietà stesse e una tendenziale differenza di status o
prestigio tra di esse, si danno tre casi possibili:
• bilinguismo con diglossia: si ha una competenza sia dell’italiano che del dialetto
(bilinguismo), ma con tendenziale divisione degli ambiti funzionali (diglossia). È il caso
di Venezia, dove il dialetto gode di particolare prestigio e si è consolidata una sorta di
“diglossia perfetta” (toscano o standard nello scritto, veneziano nel parlato).
• diglossia senza bilinguismo: la competenza dell’italiano è limitata alle classi sociali
alte (le sole bilingui), mentre è generalizzata la diffusione del dialetto come varietà
“bassa” (diglossia). È la situazione di alcune zone rurali isolate, soprattutto del
meridione.
• bilinguismo senza diglossia: è il caso in cui una competenza di italiano e dialetto
diffusa nella comunità si accompagna a una assenza di differenziazione funzionale
diglottica (periferie delle aree metropolitane, correnti migratorie).
Non sembra darsi, invece, una situazione “ideale” nella quale risultino assenti sia
bilinguismo che diglossia: si tratterebbe di una comunità assolutamente omogenea,
entro la quale nessun tipo di processo sociale abbia quale effetto probabile la
differenziazione interna delle varietà.

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