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storia della filosofia contemporanea

2019/2020
Storia Della Filosofia
Università degli Studi di Padova (UNIPD)
149 pag.

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GIOVANNI GENTILE – LA FILOSOFIA DI MARX

UNA CRITICA DEL MATERIALISMO STORICO

In questo primo saggio, che assieme a La filosofia della prassi costituisce il volume argomento delle presenti
annotazioni, Gentile si interroga anzitutto sulla portata filosofica del materialismo storico marxiano, di cui
poi indagherà la relazione con il materialismo di genere metafisico. Il risultato sarà duplice: il materialismo
storico si può intendere sia come filosofia della storia – di cui si ha massima ed esauriente espressione nel
Manifesto del partito comunista del 1848, ma i cui fondamenti erano già stati delineati prima del 1845 –; sia
come metafisica, o intuizione del mondo, che Marx elabora tra il 1845 ed il 1846 per definire filosoficamente
la propria costruzione scientifica, ma che altro non rappresenta se non una superfetazione del suo pensiero
originale. Questi due versanti del materialismo storico sono separatamente e criticamente indagati da
Gentile: l’uno – quello del materialismo storico come filosofia della storia – nel primo saggio; l’altro – sulla
caratura metafisica di questo stesso materialismo storico – nel secondo saggio.

I. IMPORTANZA PRESENTE DEGLI STUDI SOCIALISTICI

Da ogni parte, afferma Gentile, si propaga e si diffonde l’idea per cui la trattazione delle questioni sociali sia
il compito proprio dell’epoca presente – fine XIX secolo ed inizio del XX –, giunta a tale maturità di
pensiero e di organizzazione politica da produrne la definitiva e sperata risoluzione. Per contro, Gentile
osserva in primo luogo come “mancando quella conveniente prospettiva, che avranno i posteri, facilmente si
cade negli equivoci, e la scienza vera si scambia con le ciance improvvisate, e talora anche con l’agitarsi
irrequieto dei partiti politici”; in seguito, lo stesso ammonisce a mantenere netta la distinzione tra la scienza,
elaborazione formale dello spirito, e le questioni sociali, che della scienza sono invece uno dei possibili
contenuti, così evitando una illusoria mescolanza di tali elementi, e perciò aggirando la riduzione della
scienza alla scienza della società.

La maggior parte della letteratura socialistica, prosegue Gentile, non si premura rispetto alla mescolanza di
cui sopra, così deponendo ogni possibilità di procedere lungo la via della scienza. Di qui, non si possono che
derivare “grande fede, grande dommatismo, scarsa critica e metodi arbitrari, e una disinvolta mescolanza di
concetti generali presi qua e là nelle filosofie correnti”. Ma nessuna nuova e radicale scienza della società
può sostenersi e prosperare senza una corrispondente filosofia, qui intesa al pari di una intuizione della vita e
della storia rigorosamente e sistematicamente condotta. Scrive Gentile:

Ogni utopia di un ideale assettamento della società si collega, palesemente o no, con uno
speciale indirizzo o sistema filosofico; di guisa che sia una cosa stessa scalzare i fondamenti
filosofici, sui quali l’utopia si eleva, e sfatare l’utopia medesima.

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La proposta socialistica più diffusa e discussa nel corso del XIX secolo, il socialismo marxiano, o
comunismo critico, ripone il proprio fondamento teorico nella concezione materialistica della storia,
altresì nota come materialismo storico 1. Dunque, “il materialismo storico, anima ed essenza (filosofica) del
comunismo critico”. Ma è davvero il materialismo storico una filosofia, e propriamente una filosofia della
storia?

II. LA QUESTIONE DELLA CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA

Come già detto, il saggio in questione intende indagare se il materialismo storico marxiano possa ambire alla
dignità di teoria filosofica; e, qualora di filosofia si trattasse, in quali rapporti essa si trovi con le filosofie a
sé precedenti e coeve. Nella storia delle interpretazioni del marxismo, da una parte si annovera chi abbia
ritenuto la riflessione di Marx come prosecuzione e svolgimento dello hegelismo; dall’altra, si contano
quanti abbiano negato ogni continuità tra hegelismo e marxismo, al più riconoscendo alcune analogie formali
e lessicali. Dunque, quali sono in verità le relazioni tra hegelismo e socialismo marxiano?

In secondo luogo, come si presenta il materialismo storico? Nella letteratura socialistica, esso
materialismo storico si dice essere un nuovo angolo visuale, una nuova metodologia, necessari non soltanto
per concepire e spiegare il dato storico, ma anche per formarlo, correggerlo, condurlo verso “ nuovi modi di
civiltà nella vita pratica”. Questa duplice funzione del materialismo storico si deve alla sua duplice natura:
esso è, al contempo, interpretazione teorica e strumento di una rivoluzione sociale; ovvero, teoria critica
demistificatrice della società capitalista nelle sue formazioni e deformazioni economiche e, insieme – in virtù
della sua rilevanza ed evidenza –, condizione pratica necessaria (ma non sufficiente) per la preparazione di
una rivoluzione sociale. La dottrina materialistica della storia è l’inizio della rivoluzione socialista.

III. ESPOSIZIONE DELLA CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA

Per tentare una risposta alle questioni più sopra sollevate – in particolare al problema se la dottrina
materialistica sia una filosofia; e poi, quale rapporto essa intrattenga con l’hegelismo –, Gentile ricorre ai
testi ad opera di Labriola, il quale è autore di “studi assidui a illustrare la dottrina del materialismo storico
nella sua forma più genuina e più compiuta, quale cioè fu proposta da Marx e quale si può logicamente
sviluppare”.

La prima esposizione del materialismo storico risale propriamente al 1848, anno di pubblicazione del
Manifesto del partito comunista, sebbene questa dottrina della storia sia stata concepita e discussa da Marx
ed Engels già negli anni precedenti. È altresì possibile leggere un riassunto piuttosto esaustivo della suddetta
concezione nella prefazione a Per la critica dell’economia politica, edito nel 1859. Agli stadi di sviluppo
1
La supposta fondazione del socialismo marxiano, o comunismo critico, sul materialismo storico può dirsi scientifica
ed accampare pretese di rigorosa genesi dalla dottrina materialistica stessa, solamente se in essa dottrina tale fondazione
sia stata necessariamente elaborata, e cioè vi sia stata contenuta fin dal principio.
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raggiunti dalle forze di produzione – forza lavoro dipendente, materie prime, macchinari, conoscenze
tecnico-scientifiche – corrispondono determinati rapporti di produzione, intesi come il complesso delle
relazioni umane che interessano l’organizzazione e la divisione di un dato lavoro, e che comprendono
essenzialmente la classe proprietaria dei mezzi di produzione e la classe operaia. Al variare dei caratteri
costitutivi delle forze di produzione, variano conseguentemente anche i rapporti di produzione. Questi due
fattori, congiuntamente considerati, concorrono alla formazione dei modi di produzione di una data società.
Ad ogni epoca storica corrisponde dunque un determinato modo di produzione; dunque, determinati caratteri
materiali delle forze di produzione e determinati caratteri formali dei rapporti di produzione. I modi di
produzione della vita materiale, ed in particolare i rapporti di produzione che si sviluppano e prosperano al
loro interno, costituiscono la struttura economica di una società, ovvero – con le parole di Marx – la base
reale, sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, e alla quale corrispondono determinate
forme della coscienza sociale. In altri termini, i modi di produzione dei beni materiali di consumo, e cioè la
relazione sussistente tra lo sviluppo delle forze produttive e la relativa configurazione dei rapporti di
produzione vigenti, non soltanto costituiscono la struttura economica di una società, ma ne determinano
altresì le relative forme giuridiche, politiche, intellettuali. Di qui:

Non è la coscienza dell’uomo che determina il suo essere, ma è al contrario il suo essere
sociale che determina la sua coscienza.

Secondo Gentile, in questa affermazione marxiana è presente il nucleo dell’intero materialismo storico.
Supporre che sia la coscienza ad informare l’essenza dell’uomo, e non già la sua appartenenza ad un
ordinamento sociale, equivarrebbe ad ammettere che il fondamento della natura umana sia uno stuolo di
ideologie storiche. La coscienza è infatti risultato dei condizionamenti ideologici operanti in una particolare
struttura economico-sociale, e non già un dato di partenza, o un sostrato puro, immutabile. Piuttosto, ciò che
rende l’uomo tale, ciò che quindi ne determina anche la coscienza, è il suo essere sociale, ovvero “le
condizioni in mezzo alle quali, e per le quali, in una data società, la vita umana si deve esplicare ;
condizioni non politiche, né religiose, né morali, né scientifiche, né artistiche, ma semplicemente ed
unicamente economiche, essendo queste generatrici delle particolari forme di tutte le altre”.

La precedenza delle strutture economiche di una società è tanto logica, quanto cronologica, rispetto alle
configurazioni assunte dall’aggregazione umana in ogni altro dominio privato e sociale, dalla cultura alla
politica, e così via. Soltanto quando si siano delineati i modi di produzione strutturanti una data società – ed
in particolare i rapporti di produzione che in essa intercorreranno tra gli individui aggregati, e che
determineranno ogni altro genere di relazione possibile –, potrà svilupparsi una sovrastruttura, la quale non
potrà tuttavia “muoversi fuori di quel terreno artificiale, in cui l’uomo si è trovato uscendo dalla preistoria”.
L’uscita dalla preistoria – e cioè l’emancipazione dalle primitive condizioni naturali – coincide con
l’aggregazione umana secondo un modo di produzione della vita materiale. Le vicende della politica, le
vicissitudini belliche, gli sviluppi della cultura dipendono – in primo luogo – dalle forme economiche
succedutesi nella storia. In altri termini, l’intera storia degli uomini inizia con l’istituzione di una società

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economicamente fondata ed organizzata. Dunque, la struttura economica di una società risulta condizione
determinante ogni attività, decisione, attitudine di singoli uomini e di gruppi. E in questo senso, proseguendo
sempre più radicalmente, non soltanto la coscienza, ma anche la volontà, l’intelligenza, il complesso dei
sentimenti umani dipenderanno dalla struttura economica di una determinata società storica – e cioè
dall’essere sociale. Tale è l’essenza del materialismo storico, ovvero: la storia dipende dalle condizioni e
dai rapporti materiali vigenti in una data società. Commenta Gentile: “L’edificio della storia non può
essere elevato, se non su quelle fondamenta che egli [l’uomo] si è trovato a gettare (…), per ovviare ai
primi naturali bisogni della sua sussistenza”. I modi di produzione, pertanto, sono le vie prodotte dagli
uomini – e talvolta suggerite, o costrette, dalle contingenze materiali – per soddisfare alle esigenze
primariamente naturali di sopravvivenza e prosperità. In conseguenza a ciò, l’economia e l’organizzazione
del lavoro divengono la seconda natura dell’uomo, la base naturale di tutta la storia, cui si aggiunge infine
tutto il plesso sovrastrutturale delle ideologie.

Tra le varie conseguenze di questa impostazione teorica, una è di particolare rilevanza per la metodologia e
la comprensione della storia: più precisamente, qualunque fatto storico – sia esso di genere politico,
giuridico, o culturale – non sarà affatto comprensibile nella sua genesi e nel suo significato, fintantoché se ne
ricondurranno gli elementi costitutivi a categorie di genere ideologico. Infatti, essendo queste medesime
categorie degli effetti della struttura economica della società, esse non potranno assumersi in quanto cause
dei fatti storici, i quali, a loro volta, dipenderanno dalla suddetta struttura. Dunque, le categorie con le quali
si è stati soliti ricostruire la genesi ed il significato di un fatto storico, ben lungi dall’essere espressioni in sé
formali e fondamenti esplicativi sovra-storici, altro non sono se non un effetto della struttura economica di
una data società, al pari di quello stesso fatto storico di cui intendevano offrire una comprensione. Le
categorie storiche, siano queste di genere concettuale, politico, morale, religioso, e così via, non possono
spiegare i fatti storici, nella misura in cui non è ammissibile la spiegazione di un effetto mediante un altro
effetto: sarà invece necessario rinvenire la causa comune a questi effetti che, in questo caso, sarà di genere
prettamente economico. Per comprendere la storia e le sue tendenze, dunque, saranno anzitutto
necessarie le categorie strutturali dell’economia. Cosicché, conclude Gentile assecondando la logica
intrinseca al materialismo storico: “I più potenti sforzi che lo spirito umano ha fatto finora per intendere se
stesso, così come s’è venuto svolgendo nella storia, sono stati tutti inconsciamente vani”. In forza
dell’angolo visuale inaugurato dal materialismo storico, l’intera storia umana appare capovolta e
trasformata.

Se Hegel ha posto la storia sulla testa, osserva ironicamente Marx, il materialismo storico si propone di
capovolgerla e rimetterla sui piedi. E, perciò, se Hegel idealizza la storia; proposito del materialismo
marxiano è invece quello di naturalizzare la storia2, ovvero di rimarcarne il fondamento materiale – dove per
materia non si intende affatto il principio metafisico della realtà corporea, quanto invece il sostrato

2
Si tenga presente che, nel presente contesto, natura è il mondo umano considerato nei suoi aspetti fondamentali, e cioè
quello economico e quello sociale. Questa natura, il mondo umano e le sue relazioni interne, non soggiace alle leggi
della natura, bensì a quelle della dialettica (posizioni, contraddizioni, soluzioni).
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economico di qualsiasi società ed ideologia. In altri termini, naturalizzare la storia significa riconoscere la
funzione determinante del sostrato materiale, economico, della società rispetto al corso storico. Come
si potrà intuire, tale prospettiva sulla storia è uno degli aspetti – non certo l’unico – a partire da cui gli
interpreti del marxismo hanno argomentato per un’irriducibile opposizione tra Hegel e Marx.

A questo punto, Gentile critica aspramente quella parte della letteratura socialistica che ha tentativo di
tracciare una linea di continuità, se con una piena identificazione, tra la storia naturale nel senso marxiano ed
i principi dell’evoluzionismo darwiniano, la cui congiunzione è all’origine del cosiddetto darwinismo
politico e sociale, secondo cui lo Stato comunista, termine ultimo del movimento della storia, è il risultato di
una serie di trasformazioni evolutive preordinate a tale scopo. Di contro, osserva Gentile che non soltanto i
principi fondamentali dell’evoluzionismo – lotta per la sopravvivenza e selezione naturale – condurrebbero
ben lungi da ogni forma di pacifico comunismo della società politica, ma anche che “non evoluzione, ma
rivoluzione invoca il comunismo critico”. La teoria marxiana non intende l’antitesi – la contraddizione in
seno alla struttura economica – come un elemento destinato ad evolversi, e cioè a trasformarsi secondo leggi
naturali di adattamento alle esigenze e alle caratteristiche dell’ambiente circostante; piuttosto, la
contraddizione può essere superata soltanto rimuovendo l’antitesi, e cioè distruggendola mediante una
rivoluzione. Ma come si arriva alla necessità di una rivoluzione? Scrive Marx, nella succitata prefazione:

Ad un determinato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società si trovano
in contraddizione con i pre-esistenti rapporti della produzione (cioè con i rapporti di proprietà,
il che è l’equivalente giuridico di tale espressione), dentro dei quali esse forze per l’innanzi si
erano mosse. Questi rapporti della produzione, da forme di sviluppo delle forze produttive, si
convertono in loro impedimenti. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.

La contraddizione strutturale, a partire da cui si innesca la necessità di una rivoluzione sociale, riguarda
dunque la relazione antitetica tra forze produttive e rapporti di produzione. Le forze produttive materiali
maturano e si sviluppano all’interno di determinati rapporti di produzione, i quali, rimanendo invece
rigidamente costanti e fissi, alla lunga si pongono come impedimenti per il dispiegamento delle suddette
forze produttive, della loro prosperità. La contraddizione – dalla quale si dipana inoltre l’intera
configurazione delle istituzioni e dei rapporti sovrastrutturali – emerge dunque nella misura in cui la
relazione tra forze produttive e rapporti di produzione diviene asimmetrica, iniqua. La rivoluzione, delle cui
cause e necessità si prende coscienza a livello delle ideologie, deve tuttavia attuarsi in primis come
rivoluzione materiale, che cioè inerisce alle condizioni economiche della produzione. La coscienza del
conflitto – e cioè la coscienza della necessità di una rivoluzione – si sviluppa dunque a livello
sovrastrutturale e – scrive Marx – deve perciò essere spiegata per mezzo delle contraddizioni della vita
materiale; il conflitto in sé, invece, deve essere deflagrato sul piano strutturale dei modi di produzione
economica. Ma qual è il momento opportuno, qual è il tempo proprio di una rivoluzione? Ancora Marx:

Una formazione sociale non perisce, finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive per
le quali essa ha spazio sufficiente; e nuovi rapporti di produzione non subentrano, se prima le
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condizioni materiali della loro esistenza non siano state maturate nel seno della società che è in
essere.

Non si potrà dare un’autentica ed efficace rivoluzione sociale, e cioè una rivoluzione dei modi di produzione,
finché una società non abbia realizzato per intero il potenziale insito nelle risorse del suo sistema produttivo,
e cioè finché le forze produttive non abbiano raggiunto il proprio apice, il proprio punto di massima
espansione in relazione alle possibilità consentite dai modi di produzione in atto; né questa rivoluzione sarà
attuabile, ossia né ci sarà lo spazio per una nuova configurazione dei rapporti socio-economici in atto, se
prima non si saranno profilate e consolidate le condizioni materiali per l’istituzione di nuovi rapporti di
produzione. Di conseguenza, una rivoluzione sociale necessita: da una parte, il pieno sviluppo delle forze
materiali della produzione; dall’altra, l’emergere delle condizioni materiali sufficienti e necessarie per
nuovi rapporti di produzione. A tal proposito, Marx scrive: “L’umanità non si propone se non quei
problemi che essa può risolvere. (…) I problemi non sorgono, se non quando le condizioni materiali per la
loro soluzione ci sono già”.

Nel caso studiato e configurato da Marx, non si darà alcuna rivoluzione socialista, se non là dove il
capitalismo avrà raggiunto piena maturazione, esaurendo perciò le sue capacità produttive ed innovative; e là
dove saranno sorte, dall’interno dello stesso assetto capitalistico, le condizioni materiali per pensare e
realizzare nuovi rapporti di produzione, e cioè nuove forme di proprietà dei mezzi di produzione. A questo
proposito, nota Marx, lo sviluppo delle forze produttive operanti nella società borghese ha già posto le
condizioni materiali – ampia produzione di beni di sussistenza e di ricchezza – per la soluzione ed il
superamento dei rapporti di produzione borghesi, costitutivamente antagonistici, e dunque strutturalmente
contraddittori. Nelle riflessioni marxiane:

I rapporti borghesi della produzione (e cioè la forma di produzione capitalistica) sono destinati
ad essere l’ultima forma antagonistica del processo sociale della produzione.

IV. LA CONCEZIONE MATERIALISTICA È UNA FILOSOFIA DELLA STORIA?

Il processo della storia è essenzialmente retto dalle condizioni e dalle mutazioni del sostrato economico di
una data società, e non già dalle operazioni umane sul piano sovrastrutturale delle ideologie, le quali si è
tradizionalmente presupposto che rappresentassero un’espressione dell’arbitrio e della progettualità
dell’uomo. Ogni interpretazione della storia elaborata prima di Marx – ne consegue – sarà pertanto
costitutivamente distorta, in quanto essa pone come presupposto inconcusso la priorità e l’autosufficienza
della coscienza (e della volontà, della ragione, dello spirito) rispetto alle condizioni materiali della vita
umana. Tale presupposto è radicalmente rimosso entro la prospettiva del materialismo marxiano, il quale
osserva come le opere e le attività umane non siano affatto elementi assoluti, e cioè indipendenti ed
autodeterminantesi seconda piena libertà: questa libertà, al contrario, è già da sempre condizionata dalle

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forme economiche che la comprendono. Per cui, non soltanto le elaborazioni teoriche e le dottrine politiche,
ma anche i singoli arbitri, scelte, progetti umani dipendono per costituzione dalle condizioni materiali della
società. Lo studio scientifico dell’evoluzione di tali condizioni materiali entro l’orizzonte della storia
umana consente di individuare una serie di elementi, leggi e tendenze strutturanti tali medesime condizioni.
Date queste acquisizioni e prospettive, Marx potrà infine affermare l’esistenza di un procedimento
necessario ed immanente alla storia. Scrive Gentile, esplicitando le intenzioni di Marx: “V’è dunque una
scienza che determina la legge del procedimento, v’è una filosofia della storia”.

Di contro, molti propugnano la portata non filosofica del materialismo marxiano, al più concepibile come
una metodologia di supporto all’indagine storica (Croce). Strenuo e ponderato difensore del materialismo
storico, è invece Labriola, secondo cui esso materialismo è niente meno che “l’ultima e definitiva filosofia
della storia”, ovvero la teoria scientifica che stabilisce senza possibilità di errore la legge della storia,
esponendo la serie dei concetti sotto cui bisogna comprendere la complessità dei singoli fatti storici. Su
questa via, ed in manifesta risposta alle obiezioni di Croce, il Labriola prosegue rilevando come non si possa
affatto tacciare di misticismo profetico la previsione storica marxiana – secondo cui la forma di produzione
comunistica succederà al presente sistema capitalistico, ponendo termine ad ogni rapporto di produzione di
tipo antagonistico –, trattandosi invece di una previsione di genere morfologico. Scrive Labriola: “La
previsione storica non implicava, come non implica tuttora, né una data cronologica, né la dipintura
anticipata di una configurazione sociale; (…) ma era, per dirlo in una parola, morfologica”, e cioè questa
previsione non concerne né gli eventi contingenti, né i tempi cronologici, mediante cui ed in cui si realizzerà
il completo trapasso del capitalismo nel comunismo, interessando piuttosto la forma di organizzazione della
produzione economica che l’attuale società capitalistica è destinata ad assumere, secondo le leggi immanenti
al suo proprio divenire, e non già in quanto risultato della libera ed efficace progettualità umana. Ma cosa
rende possibile questo genere di previsione? Su quale intuizione del corso necessario e generale della
storia questa previsione si fonda, così da potersi dire scientifica – e cioè non-utopistica, né conclusione di
una serie di mere opinioni arbitrarie?

Prima di esporre il nucleo della dottrina marxiana del materialismo – su cui si fonda la possibilità della
previsione morfologica di cui sopra –, si ha da rilevare come l’intuizione che struttura la dottrina in questione
consta di “argomenti desunti dalla obbiettiva considerazione delle cose”, come scrive Labriola: e cioè, il
materialismo storico si limita a registrare le cose per come sono, ad enunciare “nel fatto la necessità del fatto
stesso”, senza alcuna aggiunta che possa ascriversi all’arbitrio soggettivo. La teoria è iscritta nei fatti stessi –
qui intesi come fattori economici; d’altra parte, lo scienziato della struttura sociale si impegna a delucidare
questa teoria, che emerge dai fatti stessi, e non già dalle sue elaborazioni ideologiche. Di qui, Labriola
conclude alla oggettività del materialismo storico marxiano, tanto rispetto alla forma (dialettica, processo
per contraddizioni), quanto rispetto al contenuto (basi economiche della società). Al pari di ogni altra teoria,
e secondo il suo stesso dettato, anche il materialismo storico risulterà un prodotto ideologico derivante
dalle condizioni reali – economiche – della società. Ma questo, e cioè che il materialismo sia una dottrina

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ideologica e soggettivamente determinata, non ne pregiudica affatto l’oggettività, che tuttavia – osserva
Gentile – non deve essere intesa nei termini del Labriola, ovvero come espressione di una autocritica che è
nelle cose stesse: formulazione puramente metaforica, nella misura in cui “nelle cose, nella storia, intesa
come qualcosa di esterno e indipendente da noi, non c’è né significato, né legge; siamo noi che vediamo una
storia con un significato, con una legge secondo la quale pensiamo che si muova”. L’oggettività delineata
nelle formule del Labriola è chimerica, né sembra tenere in considerazione la ridefinizione kantiana della
soggettività, “che non differisce un punto solo da quella oggettività, che così spesso il Labriola invoca, e che
si compiace di riconoscere alla sua dottrina”. Dunque, così come viene pensata ed argomentata da Labriola,
l’oggettività del materialismo marxiano – tale soltanto in virtù dell’esclusione del soggetto dalla teoria – non
è sufficientemente provata. Che il soggetto abbia un ruolo nella determinazione di una teoria, non è avverso
all’oggettività della teoria medesima; all’inverso, è una condizione necessaria alla determinazione di cui
sopra. Su quali basi, allora, sarà possibile affermare l’oggettività del materialismo marxiano?

Il materialismo storico, così come è presentato da Marx, studiando la storia e la natura delle forme
economico-sociali esistite, conclude alla determinazione di una processualità storica che si sostiene e si
sviluppa secondo certe leggi e tendenze necessarie. Se un processo è determinabile mediante leggi
necessarie, allora il processo stesso sarà necessario; “e chi dice processo necessario, stabilisce già la base di
una previsione dell’avvenire”, osserva Gentile. Necessità di leggi, di processi, e capacità di previsione di
eventi sono i caratteri della scienza, ed in questo senso il materialismo storico può certo ambire alla
scientificità. Infatti, non sussiste alcuna scienza, se essa non offre – per mezzo di leggi – la possibilità di
conoscere i fatti passati e di prevedere con sufficiente certezza quelli futuri. Si noti: le previsioni scientifiche
non ineriscono ai fatti singoli e concreti, compresi nella loro contingenza; piuttosto, la scienza elabora
previsioni morfologiche, ovvero riferite alla forma dei fatti considerati, dunque inerenti a ciò che essi hanno
di costante, necessario, essenziale. Poiché il materialismo storico afferma di “ aver colto ciò che vi ha di
essenziale nel fatto storico (ovvero la sua costituzione economica) e di aver visto la legge del suo reale
procedere (dialettica)”, si può conseguentemente ammettere la liceità delle previsioni marxiane,
opportunamente delineate secondo la loro caratura scientifica, cioè morfologica. Se non fosse in grado di
elaborare determinate previsioni circa l’andamento dei propri oggetti di studio, suddetto materialismo
risulterebbe essere una scienza incompleta. Né – a rigor di termini – si dovrebbe parlare di previsioni in
relazione alla scienza, ché, più propriamente, essa produce constatazioni dei fatti presenti, della loro
costituzione e – soprattutto – della virtualità (tendenze potenziali) in essi immanente: in questo senso, le
previsioni morfologiche altro non sarebbero se non l’esplicitazione, il prolungamento, della constatazione
delle virtualità insite ai dati fattuali che la scienza assume a suo oggetto 3.

3
Questo genere di previsione (o constatazione della virtualità), stante l’accadere di certi eventi, determina
necessariamente il conseguire futuro di altri eventi, in ragione di una struttura basilare riscontrata nella natura del
divenire storico.
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Dunque, questi sono i passaggi fin qui definiti: - il materialismo storico si impegna a considerare il corso
della storia passata dalla prospettiva della materia, o dei fatti economici; - così facendo, esso materialismo si
scopre in grado di determinare le leggi immanenti all’intero processo storico; - conoscendo ciò che vi è di
immanente nei fatti storici generalmente considerati, esso materialismo può quindi constatare quanto di
virtuale (tendenziale, potenziale) vi è nei fatti economici presenti; - di qui, infine, il materialismo storico è
autorizzato a fornire una previsione scientifica circa la forma economica che l’attuale società capitalistica è
destinata ad assumere.

La previsione scientifica circa il necessario avvento del socialismo economico consente ai teorici del
comunismo di fondare la propria propaganda ed azione politica sulla coscienza di una necessità ventura, né
vagheggiata, né meramente sperata, bensì saldamente dedotta dall’osservazione del processo immanente alla
storia. Gentile annota:

Con tutti questi caratteri, la concezione materialistica della storia non può non dirsi, data la
forma in cui ci si presenta, una vera e propria filosofia della storia.

Proseguendo nell’esposizione dei caratteri costitutivi della previsione morfologica formulata dal
materialismo marxiano, Gentile ribadisce come non bisogni intendere suddetta previsione al pari di una
anticipazione – quasi profetica – della storia, che cioè comprenda in sé anche la trattazione delle circostanze
contingenti che accompagneranno il processo e le fasi necessarie della storia. Il materialismo storico di Marx
non pretende affatto di determinare le circostanze – spaziali, temporali, pragmatiche – in cui si produrrà
l’evento formale del trapasso del sistema capitalistico nelle forme di produzione socialistiche. Tali
circostanze, sebbene contribuiscano alla manifestazione fenomenica degli eventi, non rientrano affatto nelle
leggi scientifiche che ne regolano la costituzione formale. Il carattere di filosofia della storia ascrivibile al
materialismo marxiano non è affatto inficiato dall’esclusione delle suddette circostanze empiriche rispetto al
dominio di elementi materiali considerati ai fini della determinazione di leggi e previsioni scientifiche
inerenti al processo storico. Dunque, mediante l’elaborazione della propria dottrina materialistica, Marx ha
tentato di esporre in modo scientifico la genesi, il ritmo, il compimento del corso storico, escludendo dalle
sue formulazioni – senza tuttavia trascurarle completamente – le circostanze che, in particolare, condurranno
alla meta storica da lui profilata. Né tali circostanze vengono escluse dalla trattazione scientifica della storia
soltanto per la loro caratura contingente; in aggiunta, si ricordi che le circostanze storiche, politiche – in
quanto costruzioni sovrastrutturali – non operano direttamente sul sostrato economico della società, e
non possono pertanto deviarne l’immanente movimento dialettico. Conclude Gentile: “Se ciò non fosse,
non sarebbe più vero che l’economia è l’essenza della storia, e che essa si spiega per le condizioni variabili
di quella”.

Il materialismo storico è una filosofia della storia in quanto determina una necessità interna alla
storia. Infatti, espunto il riferimento ad un’immanenza necessaria al corso storico, tale per cui l’indifferibile
soluzione delle antitesi sociali dovrà necessariamente condurre al definitivo assetto comunistico, niente più
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garantirebbe al socialismo marxiano un fondamento autenticamente scientifico, sulla base del quale potersi
distinguere dai vari tipi di socialismo utopistico e, d’altra parte, poter concludere che l’ideale della società
comunista non è una vaga speranza, bensì il risultato necessario delle contraddizioni economiche del
capitalismo, le quali – ancora una volta –, conformemente alle leggi immanenti del divenire storico,
dovranno mettere capo ad una società senza antitesi di classe.

Di contro, sulla scorta della sua convinzione circa l’impossibilità di ogni filosofia della storia, il Croce
contesta lo statuto filosofico del materialismo storico, cui ascrive caratteri ancora dipendenti da una sorta di
cieco provvidenzialismo della storia. Piuttosto, il materialismo marxiano può fungere come supporto
metodologico delle ricerche nell’ambito della storia; ed in questo senso, proprio in virtù della sua portata
non-filosofica, esso potrà al più concludere esaurienti indagini circa singoli fatti concreti, o singoli temi della
società e della storia, senza invece ambire ad un sistema unitario e scientifico del processo storico 4. Per
Croce, dunque, il materialismo storico non può risultare la coscienza scientifica del socialismo ;
piuttosto, la conclamata connessione tra queste due formazioni – la prima di genere storico-metodologico, la
seconda di genere politico-sociale – si deve alla constatazione posta dal materialismo storico, secondo cui
l’attuale società capitalistica è configurata in modo tale da rendere il socialismo l’unica soluzione possibile
per il superamento delle antitesi materialmente esistenti. Pure, prosegue il Croce, la constatazione in
questione non sarà in sé sufficiente ai fini del socialismo, ma avrà bisogno “di una serie di altri elementi, che
sono motivi di interesse, ovvero motivi etici e sentimentali, giudizi morali ed entusiasmi di fede”. Ed è
proprio a questa altezza che interviene la critica di Gentile: infatti, se in precedenza il Croce si era detto in
accordo con la formula marxiana secondo la quale è l’essere sociale a determinare la coscienza dell’uomo, e
non viceversa – formula che comprende il nucleo dell’intera teoria materialistica della storia; ora, invece,
egli sembra rigettare la propria precedente posizione, e dunque contraddirsi, considerando gli elementi etici e
sentimentali, che intervengono a sostegno pratico della constatazione prodotta in seno al materialismo
storico, quasi fossero fattori indipendenti dal sostrato economico della società (mentre, al contrario,
l’assunzione della suddetta formula marxiana costringe ad intendere gli elementi ideologici di cui sopra
come dipendenti dalla struttura sociale).5

4
Per Croce, scientificità empirica della dottrina marxiana come canone per l’indagine ed il giudizio storiografici.
Accettata tale interpretazione non-scientifica del materialismo storico, ne deriva una relazione puramente estrinseca ed
inessenziale con il socialismo politico; di qui, deriva anche il rifiuto di Croce di riconoscere la necessità dello sviluppo
rivoluzionario deducibile dall’esposizione materialistica della storia, ritenendo perciò suddetto sviluppo rivoluzionario
solamente possibile – mentre era proprio tale necessità della rivoluzione e della successiva consociazione dei mezzi di
produzione il crinale lungo cui Marx ridefiniva la propria teoria socialistica in contrasto con i coevi socialismi
utopistici.

5
G. Gentile, La filosofia di Marx, p. 88: “Codesta dottrina che scopre la sorgente, per l’innanzi non conosciuta, di ogni
forma religiosa, e di ogni morale (…), non deve pur sostenere che un periodo di rivoluzione sociale dovuta interamente
al disagio economico, e al maggiore che abbia maturato la storia, - si noti che codeste rivoluzioni sono i perni della
storia, secondo il materialismo storico –, abbia pure una morale congrua al suo reale sostrato?”. A differenza del
Croce, Gentile non scorge alcuna contraddizione tra la dichiarazione di scientificità del materialismo storico e l’afflato
morale e ideologico che da esso materialismo proviene; infatti, seppur rimanga fermo – con Marx – che la questione
sociale non è riducibile alla questione morale, e che piuttosto questa dipende da quella, pur tuttavia Gentile riconosce la
piena, e quasi dovuta, liceità di una tensione morale che accompagni l’assenso intellettuale riservato alla dottrina
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Un altro versante della critica di Gentile al Croce è il seguente: basando i propri programmi sul materialismo
storico, i teorici del socialismo cd. scientifico intendono prendere le distanze dal socialismo utopistico; ma
per ciò fare, è affatto insufficiente limitarsi ad assumere la constatazione materialistica per cui la sola
soluzione possibile, in seno alla configurazione attuale della società capitalistica, è il socialismo (arrestandosi
a questo punto, giustamente il Croce nega la scientificità del socialismo di ispirazione marxiana). Per uscire
dall’orizzonte delle utopie, e dunque potersi dire propriamente scientifico, il socialismo di base materialistica
deve approfondire la constatazione circa l’inevitabile attuazione del comunismo economico, sottintendendo
che le presenti condizioni della società capitalistica sono tra sé contraddittorie, in un modo tale per cui la
soluzione delle contraddizioni risulta necessaria. Su tale affermazione di necessità, si legittima il carattere
scientifico di cui si fregia il socialismo fondato sul materialismo storico. In questo senso, si ricordi come la
dialettica immanente al corso storico – così come viene presentata da Marx – non conclude all’avvento del
comunismo per mistiche finalità, o per cieco piano provvidenziale della storia, quanto invece per una
necessità della sua stessa natura: è la stessa dialettica storica a presentare come necessaria l’esistenza di una
soluzione, o di una via d’uscita, rispetto alle contraddizioni economiche esistenti nella società capitalistica.
Di conseguenza, una soluzione delle antitesi dovrà necessariamente esserci, né saranno possibili soluzioni
alternative all’istituzione della forma economica comunistica. Scrive Gentile, in una lettera privata a Croce:

(Secondo il materialismo storico) la società presente si deve dissolvere, per successivamente


consociare i mezzi di produzione. In questo doversi dissolvere sta, mi sembra, l’obbiettività,
sulla cui torna spesso il Labriola, e sta pure il valore di filosofia della storia che ha la dottrina.

V. CRITICA DELLA NUOVA FILOSOFIA DELLA STORIA

Dal punto di vista formale, il materialismo storico è propriamente una filosofia della storia, considerato
il rilievo che la dottrina pone sulla necessità immanente al processo dialettico della storia, dal quale appare
possibile derivare previsioni morfologiche circa l’evoluzione del corso storico. Una volta che le previsioni
inerenti alla formazione della società comunista avranno trovato piena realtà, saranno cessati qualsivoglia
antagonismo e contraddizione, né saranno possibili ulteriori rivoluzioni. L’esito della storia è dunque
necessario; ed è proprio questo che consente al materialismo di offrirne una concezione globale ed organica,

materialistica. Inoltre, il rigoglio di impulsi morali ed entusiasmi politici che germoglia dal materialismo storico è
potenzialmente e pienamente coerente con l’affermazione marxiana per cui le ideologie (e tra esse, le morali) sono il
risultato delle presenti condizioni economiche di una società. Di qui, conclude a p. 91: “Affinché il materialismo storico
non si presentasse come un sogno qualunque lontano dalla realtà, era bene, era ovvio e naturale, che i suoi autori
medesimi dimostrassero di avere una morale e certi principii informatori della loro vita pratica, quali dovevano e
potevano aversi in un periodo storico che maturava già una rivoluzione economiche, con relative forme sociali ed
ideologiche”. Pure, rimane il fatto che il materialismo marxiano non può certo enunciare una propria morale, che cioè
sia concettualmente derivata dalla dottrina stessa, poiché, così facendo, entrerebbe in contraddizione con se stesso,
laddove prima affermava che le forme etiche (coscienza) procedono dalle sole forme economiche (essere sociale).
Dunque, contro Croce, Gentile ritiene che “le obbiezioni desunte dai caratteri della morale socialista contro la forma
filosofica del materialismo storico” non sono legittimabili.
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e perciò di costituirsi esso stesso in quanto filosofia della storia. Tanto valga per la forma del materialismo
storico di Marx ed Engels, evidentemente ereditata dalla dialettica hegeliana. Cosa dire, invece, del
contenuto della dottrina, che Marx pone e sviluppa in aperta opposizione alla filosofia hegeliana?

Non soltanto i marxisti meno accurati, ma lo stesso Engels (in Socialismo utopistico e socialismo
scientifico), hanno interpretato il marxismo come superamento dell’hegelismo prodottosi mediante la
sostituzione del principio idealistico con il principio materialistico – ovvero, contenuto del procedimento
dialettico non è più l’idea, bensì la materia. Come si potrà intendere, per operare una sostituzione di questo
genere, è anzitutto necessario comprendere adeguatamente il significato, il valore, dell’idea hegelianamente
definita. Di per sé, è sufficiente considerare la contrapposizione posta tra (presunta) idea hegeliana e
materia, come fatto economico costitutivo della realtà, per avere immediatamente chiaro il fraintendimento
operato da Marx e dai suoi seguaci in merito alla comprensione della filosofia di Hegel: infatti, ponendo la
suddetta contrapposizione tra idea e materia, si evince come l’idea venga concepita come “ trascendente la
realtà alla maniera platonica, in atto di svilupparsi secondo leggi logiche ugualmente trascendenti, alle
quali, come al dispotismo di una esterna sovrana, il processo storico dovrebbe conformarsi obbediente”.
Questa concezione dell’idea hegeliana risulta totalmente inadeguata: e non soltanto rispetto al sistema
hegeliano, ma anche relativamente al criticismo kantiano, a seguito del quale è filosoficamente invalidata
ogni posizione trascendente. Scrive Gentile:

L’idea, lungi dall’essere opposta alla realtà, è per Hegel l’essenza stessa del reale. E la
materia del materialismo storico, lungi dall’essere esterna e opposta alla idea di Hegel, vi è
dentro compresa: anzi, è una cosa medesima con essa.

In Hegel, vi è identità tra idea e materia (natura, realtà effettuale), entrambe originariamente comprese
all’interno dell’Assoluto. L’errore dei marxisti è di pensare la materia come equivalente della realtà
mondana, della fattualità concreta ed esperibile; l’idea, invece, come realtà trascendente, iperuranica,
irriducibilmente opposta al principio della materia. Sulla scia di questa fraintesa comprensione
dell’hegelismo, Marx ed i marxisti hanno creduto di aver definitivamente rigettato l’idea, l’assoluto,
riconfigurando così la dialettica intrinseca alla storia secondo la materia, e cioè i fatti, i dati dell’esperienza –
ciò che, a confronto con l’assoluto, sarebbe il relativo. Persuaso della distinzione tra idea e materia, tra
assoluto e relativo, il marxismo ha considerato opportuna una sostituzione dei secondi termini –
assolutamente reali – rispetto ai primi – del tutto trascendenti ed immaginari. Operando tale sostituzione, e
dunque assumendo la materia come autentico soggetto della dialettica storica, il marxismo si trova dunque
costretto a relegare al relativo tutte le funzioni e le proprietà hegelianamente riferite all’assoluto. E cioè, e.g.:
per Hegel l’immanente è l’assoluto; ma l’assoluto è immaginario; allora, l’immanente è il relativo, il
materiale. O ancora: per Hegel l’assoluto si sviluppa dialetticamente; ma l’assoluto è immaginario; allora, è
invece il relativo a svilupparsi dialetticamente nella storia. Dunque, in altri termini, la forma dialettica del
marxismo è integralmente mutuata dall’hegelismo – da cui larga parte del carattere filosofico del
materialismo storico; il contenuto della dialettica (il soggetto, o il principio fondante del divenire storico)
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viene invece illusoriamente ribaltato, ponendo il relativo nelle veci dell’assoluto. Il risultato ultimo è una
impossibile e contraddittoria dialettica del relativo.

Ricapitolando: Marx mutua la forma della dialettica hegeliana, quale legge fondamentale del divenire
storico; d’altra parte, in opposizione ad Hegel, la dialettica marxiana si realizza mediante lo svolgimento di
un principio materiale (l’insieme dei fatti economici strutturanti una società), il quale vorrebbe riflettere la
posizione di una dialettica puramente materialistica; formulando in questi termini la propria elaborazione
dialettica e filosofica, Marx ed Engels hanno frainteso il punto fondamentale della questione: e cioè che la
dialettica hegeliana non è una dialettica dell’idea, bensì una dialettica dell’assoluto (dello spirito assoluto,
che comprende in sé l’identità di soggetto ed oggetto, idea e materia), il cui opposto è la dialettica del
relativo di cui sopra.

Una dialettica del relativo è anzitutto una contraddizione in termini. Infatti, un processo dialettico che
risulti per necessità immanente al corso storico è, per sua costituzione, determinabile a priori; ma tale
determinazione a priori, se è certo possibile per un soggetto assoluto, non è affatto ammissibile rispetto ad un
contenuto che si voglia relativo, quale è la materia dell’esperienza storica, ovvero la concreta e contingente
realtà socio-economica. Se dunque non è possibile pensare e qualificare a priori il relativo, in quanto rimesso
all’esperienza, non sarà nemmeno possibile assumerlo come contenuto di una forma dialettica le cui
determinazioni, per risultare scientifiche, devono essere a priori. Dunque, sproporzione tra forma e
contenuto nella dialettica di Marx, che, stando così le cose, si presenta nella veste di una contraddittoria
dialettica del relativo – sebbene Marx si impegni a presentare la propria costruzione dialettica come assoluta
e necessaria (cioè non-contraddittoria). 6

In questo aspetto essenziale, dunque, il materialismo storico risulta contraddittorio. Ne deriva


un’importante valutazione gentiliana: pur confermando il carattere autenticamente filosofico del pensiero di
Marx, Gentile ne ridimensiona la portata teoretica, emettendo infine un giudizio globalmente negativo sulla
stabilità concettuale del marxismo. Di qui, e cioè a partire dall’intrinseca contraddittorietà della dottrina in
questione, non deriverà soltanto il rifiuto gentiliano del pensiero di Marx, ma anche, e soprattutto, la
negazione della validità effettuale della previsione storica marxiana7. Così facendo, negando cioè che la
previsione marxiana debba necessariamente avverarsi, Gentile priverà lo stesso socialismo di qualunque

6
Si possono rilevare altre due ragioni invalidanti la dialettica marxiana del relativo, o della materia come fatto
economico. In primo luogo, la dialettica della storia esige un soggetto sì determinato dalle condizioni e dalle
contraddizioni storiche, ma al contempo libero di intervenire su di esse: priva di libera auto-determinazione, la materia è
un soggetto inadeguato alla dialettica della storia. In secondo luogo, non è possibile individuare nel relativo un opposto
dell’assoluto, nella misura in cui, se è tale, l’assoluto non è in relazione con nulla al di fuori di sé, nulla gli è opposto. A
tal proposito, Gentile scrive: “… lo stesso relativo (ché esso è la materia di cui si parla) non solo non è fuori
dell’assoluto, ma è identico ad esso”.

7
La dialettica del relativo conduce ad un’assurdità, cioè “a fare un a priori di ciò che è empirico, a dire determinabile a
priori ciò che si deve rimettere all’esperienza, e perciò a prevedere, ciò che il Croce ha ben ragione di non voler
concedere, un fatto; poiché quella tal forma, che darebbe luogo alla previsione morfologica, che altro sarebbe se non
un fatto storico? Il fatto non si prevede, perché non è oggetto di speculazione, ma di esperienza”.
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presunta necessità di sussistenza, basata – secondo i suoi teorici – sulla fondazione scientifica del socialismo
nel materialismo storico. In questo senso, Gentile chiosa:

Se si vuol dire scientifico, e non più utopistico, il moderno socialismo, si deve intendere
solamente nel senso che esso, a differenza delle utopie già tramontate, si rivolge non più a
ideali metafisici di giustizia, o a forme di società egualmente concepite a norma di sistemi
filosofici, ma alla critica economica delle condizioni sociali; e non già dunque, nel senso in cui
più spesso si accoglie, cioè di socialismo che ha già la coscienza scientifica (filosofica) della
propria necessità.

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LA FILOSOFIA DELLA PRASSI

I. STUDI FILOSOFICI DI KARL MARX

Nella prefazione a Per la critica dell’economia politica, edito nel 1859, Marx ricorda di come vari anni
prima, nel 1845, si fosse dedicato – assieme all’inseparabile Engels – alla stesura di un’opera in cui potesse
risaltare con immediata chiarezza la posizione e la portata delle loro idee, di contro alle teorie ideologiche
della coeva filosofia tedesca, con cui intendevano confrontarsi “nella forma di una critica della filosofia
posthegeliana”. L’opera in questione, la cui pubblicazione avverrà solamente nel 1932 8, prende il titolo di
Ideologia tedesca, e, costituendosi come un punto di svolta cruciale nel passaggio marxiano dall’idealismo
della sinistra hegeliana alla concezione materialistica della storica, risulta di fondamentale importanza per la
ricostruzione storica della nascita e dello svolgimento del pensiero di Marx. In questo scritto, dice Gentile,
“si esponeva la nuova concezione della storia, che doveva poi essere perfezionata e formulata nel
Manifesto, e con più consapevolezza propugnata in Per la critica dell’economia politica; e questa
concezione si esponeva al fine di orientarsi fra gli indirizzi filosofici contemporanei”. Da qui, pertanto, si
potrà non soltanto collocare la prima intuizione del materialismo storico all’altezza del biennio 1845-46, ma
sarà altrettanto possibile affermare – e così risolvere un’annosa disputa – l’originaria portata filosofica del
materialismo storico, il quale fungerà poi da sostrato per l’elaborazione della dottrina sociale marxiana, o
comunismo critico.

II. CRITICA DI MARX A FEUERBACH – TESI SU FEUERBACH

Le Tesi su Feuerbach, pubblicate da Engels nel 1888 in appendice ad un suo scritto su Feuerbach stesso,
furono redatte da Marx nel corso del 1845, in forma privata e frammentaria, dunque non destinata alla
pubblicazione. Rappresentano, nella ricostruzione a posteriori di Engels, “il primo documento in cui è
deposto il germe geniale della nuova intuizione del mondo”. Questi celebri appunti di Marx assumono come
oggetto di critica un’opera in particolare di Feuerbach, e cioè Essenza del cristianesimo (1841). Per
comprendere queste annotazioni marxiane, sarà opportuno un rapido richiamo ai caratteri fondamentali della
filosofia di Feuerbach, il più noto dei giovani hegeliani, o esponenti della sinistra hegeliana.

8
Come scrive lo stesso Marx, “abbandonammo il manoscritto alla critica roditrice dei topi; tanto più volentieri, in
quanto avevamo raggiunto già il nostro scopo, che era d’intender noi stessi”. Avendo chiarito a se stessi i fondamenti
teorici del nuovo materialismo, Marx ed Engels erano decisi a tralasciare l’elaborazione teorica, per poter affrontare in
prima persona i problemi più politicamente rilevanti della critica dell'economia e della storia da loro individuati.
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Per Hegel, filosofia e religione possono e devono coesistere, senza contraddirsi vicendevolmente, nella
misura in cui esse, pur in forme differenti, presentano un medesimo contenuto: Dio, o lo Spirito Assoluto.
Per taluno, suddetta conciliazione è però intimamente contraddittoria, laddove invalida uno dei principi
fondamentali della logica hegeliana, e cioè che tra forma e contenuto vi è sempre perfetto parallelismo. Pure,
rileva Gentile, questa critica all’impostazione hegeliana non è del tutto corretta, poiché – pur confermando il
parallelismo logico tra forma e contenuto di una realtà, di un pensiero – Hegel non negava la possibilità che
un medesimo contenuto possa apparire differente a seconda delle forme che lo assumono e lo determinano.
Si legga, nella Introduzione alla Logica: “Ma in questa oggettività del contenuto, però, anche le
determinatezze di queste forme (intuizione, sentimento, immagine, rappresentazione, fine, dovere, pensiero)
passano nel contenuto, in modo che, secondo ciascuna di queste forme, sembra sorgere un oggetto
particolare, e quello che in sé è lo stesso, è identico, può allora sembrare un contenuto diverso ”. In altri
termini, Hegel non nega la diversità dei contenuti concreti, cioè dei contenuti in quanto attuati in forme
differenti; afferma invece l’identità del contenuto in quanto astrattamente considerato, ovvero separato da
ogni specifica attuazione formale. Dunque, secondo la lettura gentiliana di Hegel, le forme della filosofia
(concetto) e della religione (rappresentazione, simbolo) ed il loro contenuto, così come viene da esse
declinato, procedono secondo pacifica correlatività – stante la superiorità della forma concettuale in ordine
alla comprensione di Dio, “il qual contenuto non è, nella sua verità, se non nel pensiero, e come pensiero”
scrive Hegel.

Feuerbach, in Essenza del Cristianesimo, propugna una strenua opposizione alla concezione hegeliana – e
più in generale, moderna – dei rapporti tra filosofia e religione. Se la filosofia origina dal pensiero, dice
Feuerbach; la religione sorge dal sentimento, né potrebbe darsi maggiore opposizione che tra queste due
facoltà dell’uomo. E ancora: se per Hegel la religione è un tentativo incompiuto, da parte della coscienza
soggettiva, di conoscere Dio mediante rappresentazione e di riconoscere se stessa in questo medesimo Dio;
per Feuerbach, al contrario, nella religione l’uomo non intende affatto di conoscersi mediante il
riconoscimento di Dio, ma pretende invece di vedere soddisfatta e realizzata – quantomeno fantasticamente,
idealmente – l’inesauribile massa di bisogni organici e materiali che costituisce l’essenza prima dell’uomo. Il
sentimento della finitudine, o della costitutiva incompiutezza umana, “spinge l’uomo a sublimarsi in una
potenza infinita, che è potenza divina, onnipotenza di soddisfare tutti i suoi bisogni”. Premettendo queste
considerazioni, il Feuerbach conclude al rovesciamento dell’idealismo hegeliano; per cui, annota Gentile:

Non quindi la verità dell’individuo è nell’universale, ma la verità di questo è nell’individuo.


Non la materia s’invera nello spirito, ma questo il quella. L’idealismo hegeliano capovolto.

Per Feuerbach, la teologia è propriamente antropologia rovesciata, alienata; la radice della religione
dovrà allora rinvenirsi nell’essenziale costituzione biologica e sociale dell’uomo e dei suoi bisogni materiali,
nonché nell’espediente intellettuale mediante cui l’uomo ha entificato e deificato una propria proiezione
ideale – l’immagine delle potenze e delle possibilità umane infinitamente elevate; a questa proiezione, esso

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uomo si è infine prostrato, nella speranza di una futura e completa soddisfazione delle sue necessità terrene.
Alla presente critica materialistica della religione, si accompagna la ridefinizione feuerbachiana dell’oggetto
della filosofia: l’uomo, non già considerato in quanto essere razionale, bensì nella sua dimensione concreta,
sensibile, vivente; il vero Io è il corpo; la filosofia è propriamente antropologia fisiologica9.

In questa prospettiva, la genesi dei fatti individuali risiederà negli immediati bisogni organici del singolo
individuo; d’altra parte, invece, la genesi dei fatti sociali e dei fatti storici risiederà nei bisogni –
tendenzialmente economici – che interessano un individuo, o un gruppo di individui, in quanto membri di
una data società. Non è certo arduo riconoscere la prossimità corrente tra le posizioni e le intenzioni di
Feuerbach e, dall’altra parte, di Marx ed Engels, così come riconosce lo stesso Gentile: “ Ecco come il
materialismo storico discendeva con logica piana ed evidente dal materialismo del Feuerbach”. Una volta
rilevato l’indiscutibile debito marxiano, occorre tuttavia segnalare anche le differenze che corrono tra i due
orientamenti filosofici, e più in particolare le critiche che Marx muove al materialismo di Feuerbach
nelle Tesi a lui intitolate. Di seguito, un riassunto ed un commento delle undici annotazioni marxiane.

Tesi su Feuerbach

1. Il difetto capitale di ogni concezione tradizionale del materialismo è quello di concepire l’oggetto, la
realtà, la sensibilità (complesso delle facoltà sensibili radicate nella corporeità umana) in senso meramente
oggettuale, e cioè come fossero semplici dati, o espressioni, di una passiva intuitività del soggetto. In altri
termini, l’aspetto ricorrente in ogni forma di materialismo consiste nel porre e nel concepire la materia – ciò
che è empiricamente reale, in quanto oggetto dei sensi – come se fosse una pura datità, assolutamente
autonoma rispetto al soggetto, passivamente recepita (intuita) da quest’ultimo. In tal senso, la relazione tra
soggetto e mondo (natura) appare di genere prettamente contemplativo, rappresentativo; ma la realtà non può
essere concepita soltanto al pari di un oggetto statico e predisposto per l’intuizione soggettiva, nella misura
in cui la realtà – compresi i suoi aspetti materiali – è, in parte, effetto delle attività pratiche soggettive.
Dunque, non tutta la realtà naturale è già data, già formata; né, di conseguenza, il rapporto tra uomo e mondo
può comprendersi entro i soli limiti dell’intuizione, la quale presuppone una relazione immediata ed
immobile (sempre unilateralmente passiva) tra soggetto ed oggetto. Al contrario, nella costituzione della
realtà sensibile concorre anche la prassi soggettiva, ovvero l’attività sensitiva umana. Non soltanto le facoltà
sensibili si declinano in quanto attività (e.g., vedere è un atto positivo), né possono pertanto essere ridotte a
facoltà meramente ricettive; ma – e qui è il punto – gli stessi oggetti della realtà sensibile sono prodotti
della prassi soggettiva – sia in senso kantiano, sia in senso eminentemente marxiano 10. La prassi

9
Scrive Gentile: “Al pari della religione, tutti i fatti che si stimano più alti e più nobili della vita e della società umana,
sono prodotti dell’uomo in quanto corpo organico, che vive della continua soddisfazione dei suoi bisogni”.
10
Ignorando ciò, si è radicata una scissione del tutto fallace all’interno della storia della filosofia: da un lato, il
materialismo, le facoltà passive del soggetto (intuizione); dall’altro, l’idealismo, le facoltà attive del soggetto,
considerate tuttavia da un punto di vista astratto (pensiero, ragione), che dunque non riconosce la reale attività pratica
del soggetto sensibile.
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soggettiva, o attività sensitiva umana, è un’attività oggettiva, dice Marx, ovvero un’attività che partecipa
positivamente alla formazione oggettuale della realtà empirica; un’attività che interviene immediatamente sul
reale.

Poste queste premesse, si potrà comprendere il “significato dell’attività pratico-critica rivoluzionaria”11.


Nessuna critica potrà dirsi autentica senza avere prospettato, delineato, una pratica rivoluzionaria che intenda
agire sul reale per trasformarlo. Una critica meramente teorica lascia la realtà come già è: la conferma, la
supporta.

2. La possibilità della verità oggettiva è una questione pratica, non già teorica.

Si riporta per intero il dettato marxiano, data la nettezza del pensiero espresso:

“La questione se al pensiero umano pervenga la verità oggettiva non è una questione teorica, ma una
questione pratica. Nella prassi l’uomo può* provare la verità, cioè la realtà e la potenza, la positività del
suo pensiero. La discussione sulla realtà, o irrealtà, di un pensiero, che si isoli dalla prassi, è questione
puramente scolastica”.

* Il verbo tedesco corrispondente è muss, non già kann, come la – talvolta tendenziosa – traduzione
gentiliana lascerebbe intendere. Ne deriva un senso differente alla lettera marxiana, secondo cui non tanto
l’uomo dispone della possibilità di provare la verità del suo pensiero nella prassi; quanto invece deve – vi è
costretto quasi per necessità – provare tale verità nella prassi, ovvero deve metterla a confronto con la
dimensione materiale, più specificamente economica, della sua esistenza.

3. Secondo il materialismo, Feuerbach incluso, gli uomini sono il risultato derivante dalle determinazioni
esercitate dalle forme educative vigenti e dalle circostanze storiche – dall’Umstande, dal contesto materiale,
pragmatico, di un dato momento storico. In questo senso, gli uomini mutano con il mutare dell’educazione e
delle circostanze storiche. Tuttavia, questa impostazione tralascia il fatto, non meno rilevante, che
“l’ambiente viene mutato appunto dagli uomini, e che l’educatore stesso deve essere educato”. In merito a
quest’ultima dimenticanza, occorre rilevare come essa concorra ad una rigida distinzione tra educatori ed
educati – leggasi governatori e governati –, essendo i primi considerati come parte di un gruppo legittimato
ad esercitare un dominio sui secondi. Di conseguenza, la ferrea ed unilaterale prospettiva deterministica del
materialismo tradizionale – dice Marx – è all’origine di separazioni pensate e praticate come naturali e
necessarie, ma in realtà mistificanti. Viceversa, sostiene Marx, occorre affermare una dialettica
trasformazione-retroazione, secondo cui vi è una correlazione tra l’attività umana di trasformazione della
natura e della società ed una corrispettiva retroazione sul soggetto e la sua azione trasformatrice da parte di
quelle stesse realtà socio-naturali. Dunque, in altre parole, una volta trasformata dalla prassi del soggetto, la
realtà esterna (natura, società) non permane passiva dinanzi al soggetto, bensì lo modifica retroattivamente.

11
Trad. Gentile: “… il significato che i rivoluzionari danno all’attività pratico-critica”.
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L’oggetto trasformato modifica il soggetto trasformante, in un rapporto di continua determinazione
reciproca: emerge in questo passo il carattere complesso e dialettico della prassi marxiana, nella cui
formulazione è riconoscibile una radicale influenza della Fenomenologia hegeliana. La tesi si conclude come
segue:

Il coincidere del variar dell’ambiente e dell’attività umana può essere concepito ed inteso
razionalmente soltanto come prassi rovesciata. (Nell’originale tedesco: prassi che rovescia).

Questa co-implicazione dialettica tra soggetto ed oggetto, prassi umana e mondo materiale, apre la possibilità
di una prassi che rovescia, una prassi rivoluzionaria, che contesta ed affronta l’insieme delle circostanze
da cui è prodotta e che intende superare, al fine di produrre un miglioramento delle condizioni di vita degli
uomini. La prassi rivoluzionaria è prodotta dalle circostanze – è costitutivamente correlata ad esse – ed
intende trasformare radicalmente queste stesse circostanze, laddove esse siano causa di sofferenza e
diseguaglianza e miseria tra gli uomini. La prassi rivoluzionaria investe contemporaneamente sia il soggetto,
sia l’oggetto: così facendo, trasforma il soggetto, non più passivamente stordito e raggirato dalle circostanze
storico-materiali; e, dall’altra parte, ambisce a trasformare la realtà ed il plesso di circostanze da cui è
costituita, così da consentire una nuova forma di soggettività – più libera e consapevole. Il soggetto della
prassi rivoluzionaria è produttore e prodotto delle trasformazioni rivoluzionarie attuate. Si tratteggia qui
un’esposizione della filosofia della prassi marxiana.

Tesi 4-7: a partire dall’esposizione delle proprie concezioni di materialismo e di prassi rivoluzionaria, Marx
si impegna qui in una critica specificamente diretta alla filosofia della religione di Feuerbach.

4. Marx condivide l’orizzonte feuerbachiano della critica della religione in quanto forma di auto-
estraneazione dell’uomo. In questo senso, è concorde con Feuerbach, che “dalla auto-proiezione
(Selbstentfremdung) religiosa giunge ad una duplicazione (Selbstzerissenheit)* del mondo, in un mondo
religioso, rappresentativo, e un mondo reale”. Di qui, l’intento prioritario di Feuerbach, ovvero demistificare
l’illusoria scissione tra mondo religioso e mondo reale, risolvendo l’orizzonte immaginario del mondo
religioso nelle strutture materiali proprie del mondo sensibile, organico – da cui il fenomeno religioso deriva.
Ma se il compito che il Feuerbach si propone può dirsi risolto a questa altezza, per Marx è opportuno
muovere un passo ulteriore: “resta ancora da fare la cosa principale”, scrive, ovvero indagare e descrivere
le effettive condizioni storico-materiali che pongono le esigenze da cui emergono la consolazione e
l’immaginario della religione. E cioè, per completare una autentica critica materialistica della religione, è
necessario rispondere alla domanda: quale è, precisamente, la radice materiale della religione? quali
condizioni storico-materiali pongono il bisogno della religione?

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Secondo la prospettiva marxiana, la causa materiale dell’umana proiezione religiosa – che Feuerbach si
limita ad intuire, senza opportunamente indagarla – risiede nelle contraddizioni operanti nella struttura
economica di una determinata società; poste tali contraddizioni, ne deriva quella che Gentile traduce con
duplicazione*della struttura materiale rispetto a se stessa.

* L’opera di traduzione di Gentile è, in taluni passaggi, radicalmente ermeneutica, o ideologica: infatti,


talune – presumibilmente volute – interferenze linguistiche neutralizzano la portata delle scelte lessicali e
concettuali marxiane. In questo caso, il termine tedesco che viene tradotto con duplicazione è
“Selbstzerissenheit”, ovvero auto-lacerazione. Quest’ultima è l’esito di una “Sichselbstwidersprechen”,
un’auto-contraddizione della struttura economica di una società. Dunque, alle auto-contraddizioni emergenti
in seno alla struttura economica si succede un’auto-lacerazione interna a questa stessa struttura:
progressivamente il fondamento materiale della società si lacera, si frammenta in sé, e da questo sorge la
feuerbachiana necessità consolatoria della religione come proiezione ideale di specifici e storici bisogni
umani. Dunque, questa è la genesi marxiana della religione: auto-contraddizione della struttura; auto-
lacerazione della struttura stessa; auto-proiezione religiosa. I termini di cui Marx si serve, in particolare
Selbstzerissenheit, auto-lacerazione, intendono riflettere condizioni conflittuali di carattere pratico e
materiale, che informano di sé la struttura economica sociale; la traduzione di Gentile, invece, intendendo
neutralizzare sotterraneamente la carica delle concezioni marxiane, ricorre – come si è visto – al termine
duplicazione che, lungi dall’avere pregnanza materiale, richiama invece un processo di tipo meramente
teoretico, rappresentativo.

Prosegue Marx: come non indaga le origini storico-materiali del fenomeno religioso, così Feuerbach non
potrà nemmeno configurare una prassi che possa realmente emancipare l’uomo dall’auto-alienazione
religiosa. Una prassi che, fondata sulla critica materialistica delle contraddizioni economico-sociali, potrà
riconoscere le forme socio-economiche all’origine dell’alienazione religiosa, quindi contrastarle, rovesciarle
ed infine risolvere le contraddizioni di cui sopra. Conclude Marx: “così, p. e., dopo aver svelato il mistero
della sacra famiglia con la famiglia terrena, questa deve essere teoricamente criticata e praticamente
rovesciata”.

5. “Il Feuerbach, non soddisfatto del pensiero astratto, si appella alla intuizione sensibile; ma egli non
concepisce la sensibilità come attività umana-sensitiva pratica”. Sotto l’espressione “intuizione sensibile”,
occorre leggere una ripresa della prima tesi, in cui si delineava la critica al materialismo feuerbachiano
come ancorato alla mera intuizione – e dunque ad un’astratta scissione tra soggetto ed oggetto.

6. Scrive Marx: “Il Feuerbach risolve l’essenza della religione nell’essenza propria dell’uomo. Ma non c’è
un’essenza umana, quasi un astratto inerente all’individuo particolare. Nella sua realtà, essa non è altro se
non l’insieme delle relazioni sociali. Il Feuerbach, non arrivando alla critica di questa essenza reale, è
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quindi costretto: 1) ad astrarre dal processo storico e fissare per sé il sentimento religioso, e darci così un
individuo umano astratto-isolato; 2) in lui l’essenza umana può dunque essere intesa soltanto come specie
(Gattung), come universalità non dispiegata, muta, che leghi solo naturalmente i molti individui”, e non già
anche storicamente e socialmente. L’essenza umana è l’insieme delle concrete relazioni storico-sociali tra
gli uomini, e non già un’ipostasi astratta, come ancora pare rimanere in Feuerbach (?).

7. “Il Feuerbach quindi non vede che il sentimento religioso è esso stesso un prodotto sociale, e che
l’individuo astratto, che egli analizza, appartiene in realtà ad una determinata forma sociale”. Viene ripresa
la quarta tesi, in cui Marx criticava Feuerbach per non avere indagato ulteriormente e specificamente le
origini materiali, economiche, sociali, della religione. In particolare, il sentimento religioso non si origina a
partire dal singolo individuo e dai suoi bisogni privati ed isolati; esso sentimento religioso è invece
socialmente prodotto e diffuso.

8. “La vita sociale è essenzialmente pratica. (…)”.

9. “Il grado più alto, al quale abbia condotto il materialismo intuizionista, cioè il materialismo che non
concepisce la sensibilità come attività pratica, è l’intuizione dei singoli individui nella società borghese”.
Ovvero, la gnoseologia intuizionista, che informa il materialismo tradizionale e che Feuerbach applicava allo
studio dei bisogni umani, all’ultimo grado della sua esplicitazione produce la concezione liberal-borghese,
per cui i singoli individui – una realtà pensata come già data, già interamente costituita – sono il fondamento
della società. Per Marx, invece, i singoli individui fisici e giuridici non rappresentano il fondamento
della società civile. Infatti, i singoli individui – nelle loro varie, molteplici declinazioni – si costituiscono in
rapporto dialettico con un orizzonte sociale che li sopravanza. La giustapposizione di individui
atomisticamente (astrattamente, e cioè secondo mera intuizione) pensati non costituisce, per Marx, società.
Rapporto dialettico individui-società.

10. “Il punto di vista dell’antico materialismo è la società borghese*; il punto di vista del nuovo
materialismo, è invece la società umana, o l’umanità consociata”.

* L’espressione corrispondente in tedesco è burgerliche Gesellschaft: economicamente, la traduzione


corretta è “società borghese”; giuridicamente, invece, la traduzione più coerente sarebbe “società civile”,
laddove l’aggettivo civile esprime l’individualismo insito nel civis borghese, ideologicamente considerato
come autosufficiente, libero imprenditore e responsabile di se stesso. Società civile e società borghese sono
interdipendenti, sono costitutivamente connesse: non può darsi libertà ed autonomia imprenditoriali senza il
riconoscimento di determinati diritti giuridici soggettivi, e viceversa.

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Il materialismo classico ha considerato la società – la sua costituzione, i suoi limiti – a partire dal
presupposto inconcusso che una società possa essere unicamente borghese e civile, assumendo poi che tali
proprietà costituissero l’unica forma possibile, o l’ultima forma possibile, sotto cui potesse configurarsi una
consociazione di uomini. In altri termini, il materialismo moderno – e con esso l’intera filosofia moderna –
ha considerato i caratteri della società borghese come dati di fatto incontestabili, insuperabili. L’intera
opera di Marx è un tentativo di criticare e decostruire questo presupposto, fondamento ideologico della
struttura e della sovrastruttura sociale esistenti. Un’alternativa alla società borghese, prefigura Marx, è la
società umana: e cioè, non già una società di borghesi e proletari schiavi del capitale, bensì una società di
uomini liberi di essere tali.

11. “I filosofi hanno soltanto variamente interpretato il mondo; ma si tratta di cambiarlo”.

Conclude Gentile: “In questi pensieri (…) non ci par difficile scorgere (…) lo scheletro di quella filosofia,
che si vuole insita nella concezione materialistica della storia, posta a fondamento della dottrina
comunista”.

III. SCHIZZO DI FILOSOFIA DELLA PRASSI

La chiave di volta della filosofia marxiana della storia è il concetto di prassi. Come Marx giustamente
riconosce, nella tradizione materialistica il concetto di prassi è sostanzialmente alieno, laddove
nell’idealismo di ogni epoca esso è stato un concetto noto e discusso. Si pensi ai primordi della filosofia, a
Socrate, il quale concepiva la verità non già come una forma statica, di cui ci si possa impadronire al pari di
un possesso materiale, estrinseco al soggetto, bensì come una forma dinamica, risultato ultimo di personale
ricerca e travaglio intellettuali. Già in Socrate e nella sua arte maieutica, dunque, il sapere è inteso come
un’attività produttiva, una costruzione soggettiva, una prassi continua, e non già come una realtà immutabile
ed oggettiva che il soggetto si limita ad osservare, a riflettere, a contemplare. Bisogna fare il sapere: da
Platone ad Hegel, questo rimane un assunto di fondamentale importanza: il sapere come opera dello spirito
umano. Scrive Gentile: “Che cos’è l’esperimento, se non un rifare ciò che la natura fa, rifacendolo in
condizioni che ne agevolino e assicurino l’osservazione? Certo, questo fare o rifare non è sempre un
materiale ed effettivo fare; anzi, le più volte è puramente un fare o un rifare con il pensiero”. La conoscenza
non è contemplazione: è invece un’attività, una prassi. Dunque, non vi è affatto dualità oppositiva tra
teoria e pratica.

Marx intende iscriversi in questa concezione pratica del sapere e della teoresi, che in età moderna ha un
illustre esponente in Vico, secondo cui verum et factum convertuntur, ovvero la verità di un fatto ed il fatto
stesso sono reciprocamente dipendenti, possono convertirsi l’uno nell’altro. In altri termini, la verità è insita
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nel fatto stesso, non nel senso che è già data in esso, né nel senso che gli viene giustapposta estrinsecamente
ed arbitrariamente dal soggetto. Piuttosto, la verità di un fatto è insita nel fatto ovvero nella sua genesi e nel
suo sviluppo: dunque, nella sua manifestazione, che il soggetto deve ricostruire sinteticamente 12. La verità e
la certezza della verità sono allora l’esito di una pratica costruttiva del soggetto, e non già di una mera
contemplazione passiva. Nella Scienza Nova, il Vico implementa ulteriormente tale concezione: assunto che
si possa conoscere soltanto ciò alla cui produzione si concorre, l’uomo potrà avere autentica scienza
esclusivamente del mondo storico – prodotto dell’attività umana, in particolare di quella intellettuale; il
mondo naturale, invece, dovrà rimettersi alla sola scienza di Dio. Per Vico, dunque, il principio dell’operare
umano nella storia – ciò che implica e che sorregge la prassi storica dell’uomo – è di genere intellettuale,
sono le idee prodotte al fine di mutare la realtà; per Marx, che si può iscrivere nel solco della teoria vichiana
della storia e della prassi, il principio dell’operare umano nella storia consiste invece nei bisogni materiali
dell’individuo sociale e nella derivante organizzazione economica della società.

Come si è visto nelle Tesi su Feuerbach, nella sua elaborazione filosofica Marx intende riprendere il
principio idealistico della conoscenza in quanto prassi soggettiva e declinarlo nelle forme di un nuovo
materialismo, che egli sviluppa in aperta ostilità alle mistificazioni ed alle lacune del materialismo della
recente filosofia tedesca, criticato da Marx per l’ingenua impostazione del rapporto, primariamente
conoscitivo, tra soggetto ed oggetto. Anziché pensare l’oggetto come un prodotto dell’attività sensibile
dell’uomo, il materialismo tradizionale l’ha posto come puro dato dell’intuizione sensibile; di conseguenza,
nella conoscenza della realtà, l’attività soggettiva si riduce a passiva riproduzione della datità materiale. Kant
prima, e Fichte poi, segneranno l’irreversibile superamento di questa gnoseologia: in essa, soggetto ed
oggetto risultano astrattamente considerati ed opposti, né sussiste un’intrinseca relazione tra essi, che perciò
soltanto accidentalmente entrerebbero in relazione. Ma, come esisterebbe il soggetto senza un oggetto, e
viceversa? Soggetto ed oggetto sono due elementi correlativi, né possono pensarsi come reciprocamente
indipendenti. Così Gentile: “Scindete questa relazione, e non avrete più la vita, ma la morte”.

Assunta la relazione costitutiva tra soggetto-oggetto, bisognerà pensarla nei termini della prassi. E
cioè: l’oggetto è un prodotto delle attività conoscitive del soggetto; e, poiché non c’è oggetto senza soggetto,
occorre rilevare che, mentre contribuisce alla costituzione dell’oggetto, il soggetto procede insieme alla
configurazione di sé – così nella III tesi su Feuerbach. Sicché, Gentile conclude: “ i momenti della
progressiva formazione del soggetto corrispondono ai diversi momenti della progressiva formazione
dell’oggetto”. La conoscenza, perciò, è una relazione occorrente tra due termini che si sviluppano in
reciproca progressione: più si conosce l’oggetto, più il soggetto accresce le proprie facoltà di intendimento,
ovvero di produrre e conoscere oggetti: qui, il ciclo ricomincia e si ripete indefinitamente. Dunque, il
soggetto forma se stesso, formando l’oggetto – retroazione. Come si legge nella I tesi su Feuerbach, la

12
Gentile: “Poiché (la verità) è risultato, e non dato, della ricerca scientifica, questa non può procedere per analisi,
come pretende Cartesio – analisi, che presupporrebbe innanzi a sé il concetto della verità da analizzare –, bensì per
sintesi, che è attività produttiva della mente”. Prosegue più oltre: “(…) tutto lo scibile: non è dato, ma bisogna arrivare
ad esso con l’atto operoso della mente. Una conoscenza data, non è vera conoscenza, se non s’intende, se non si
ricostruisce; e perciò non è più data, ma prodotta, o riprodotta”.
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realtà non è allora mera oggettualità data, bensì produzione dell’attività sensibile umana, e non invece
dell’idea, dello spirito, del pensiero – come supponeva Hegel, il quale non negava la sensibilità, anzi la
comprendeva all’interno del pensiero stesso, come suo momento immediato, ovvero astratto.

Commentando le concezioni di Marx, Gentile scrive: “Quando il fare si è unificato con il conoscere, gli
oggetti propri del conoscere sono anche oggetti del fare, e viceversa”. Il principio a cui bisogna ricondurre
sia il fare, sia il conoscere – che sono una medesima cosa –, è la prassi, e cioè l’azione umana che si produce
in risposta ai bisogni materiali dell’individuo sociale. Di qui, ne deriva che qualsiasi oggetto, prodotto della
prassi umana, si potrà intendere e spiegare materialisticamente; ancora Gentile: “se il materialismo basta
alla spiegazione degli oggetti fatti, deve pur bastare alla spiegazione degli oggetti conosciuti, (…) di
identica natura ai primi”. Solo così, rileva Marx nella I tesi, sarà possibile evitare l’incoerenza in cui ricade
il Feuerbach nella sua considerazione del cristianesimo: egli, infatti, ricondusse opportunamente alle
contingenze materiali la genesi e lo sviluppo delle forme pratiche del cristianesimo, intendendo d’altra parte
le costruzioni dottrinali quali manifestazione dell’astratta attività dello spirito umano. In altri termini,
incapace di scorgere la genesi materialistica delle stesse forme ideologiche del cristianesimo, il Feuerbach è
ricaduto nello stesso idealismo che pure intendeva criticare e superare. L’errore di Feuerbach è di non aver
riconosciuto la forza produttiva – anche sul piano ideologico – dell’attività sensitiva, la quale si esplica come
prassi che produce e simultaneamente conosce il proprio oggetto.

IV. REALISMO DELLA FILOSOFIA DELLA PRASSI

La relazione soggetto-oggetto può dirsi reale, concreta, soltanto quando i termini in questione vengano intesi
come attività-prodotto. Il soggetto è attività che produce l’oggetto; l’oggetto è prodotto posto dall’attività
del soggetto. Di qui, si comprende altresì in che senso la conoscenza si dice oggettiva, pur essendo essa il
risultato di una prassi del soggetto. La conoscenza di un oggetto non può sussistere al di là di una prassi
soggettiva che costruisca l’oggetto conosciuto; non per questo, tuttavia, la conoscenza prodotta risulterà
soggettivistica, ossia arbitraria. Una conoscenza soggettivamente prodotta apparirà invece arbitraria laddove
la relazione soggetto-oggetto sia impostata nei termini di contemplazione-datità oggettuale – si pensi alla
gnoseologia empiristica e al derivante realismo ontologico. È possibile parlare di un realismo marxiano, ma
non perché Marx ponga una coincidenza di essere e realtà effettuale; piuttosto, è ed è reale ciò che è
prodotto della prassi soggettiva. E allora, il pensiero è reale non perché rifletta cose reali, bensì perché
contribuisce attivamente alla loro oggettiva produzione; il pensiero è oggettivo perché è implicato nella
produzione degli oggetti della realtà. Si noti bene: a differenza del materialismo tradizionale, ancorato alla
dualità soggetto-oggetto, Marx non può ammettere un pensiero in quanto tale: come si legge nella tesi II, “ la
discussione sulla realtà o irrealtà di un pensiero, che si isoli dalla prassi, è una questione puramente
scolastica”. Per Marx, non esiste un pensiero astratto, in quanto tale: piuttosto, il pensiero è una forma
derivata, accidentale, dell’originaria attività sensitiva del soggetto, dalla quale soltanto dipende l’intera
varietà della vita umana. L’attività sensitiva è fondamentalmente prassi, e cioè attività creatrice, concreta. Il
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pensiero è una forma – divenuta ordinaria e consapevole – che accresce le facoltà della prassi soggettiva. Per
rendere conto di ciò che si ritiene puro prodotto del pensiero, occorre allora risalire all’originaria attività
sensitiva: questo è il principio fondamentale della spiegazione materialistica della storia. Dunque, soltanto
nel solco della correlazione fondamentale tra soggetto-oggetto [attività-prodotto], garantita dalla posizione
della prassi in quanto attività sensitiva del soggetto, sarà possibile un realismo concreto, e non già una forma
astratta di realismo – come quello del moderno empirismo pre-kantiano.

Oltre al rapporto tra soggetto-oggetto e pensiero-sensibilità, vi è un altro aspetto che il materialismo


realistico di Marx intende biasimare al materialismo astratto – cfr. tesi III. Secondo alcuni tra i più celebri
esponenti del materialismo settecentesco – Helvetius, Condillac, Montesquieu, Rousseau, ed altri –, l’uomo
risulta essere un prodotto diretto dell’ambiente e della educazione. Ma queste circostanze, il cui influsso
determina la condotta ed il carattere degli uomini, sono a loro volta determinate dagli uomini; l’educazione
stessa suppone educatori, che a loro volta devono essere stati educati – osserva Marx. In tal senso, la società
è insieme causa ed effetto delle sue stesse condizioni, e cioè: tutto ciò che la società fa, costituisce
circostanze che retroagiranno su quella medesima società, che nuovamente agirà e, costituite nuove
condizioni, nuovamente avrà modificato se stessa agendo. Occorre quindi ricercare nel seno stesso della
società le ragioni dei suoi mutamenti e crisi.

Si prenda ad esempio la questione inerente all’educazione. Se, come avviene nel materialismo astratto, si
concepisce il rapporto uomo-educazione come unilateralmente diretto, tale per cui l’uomo è univocamente il
prodotto dell’educazione ricevuta, si dovrebbe suddividere la società – che è in sé tutto organico – in due
parti tra loro sempre opposte ed inassimilabili: gli educatori, gli educati. Ma è del tutto evidente che la
società educante altro non è se non la società, già educata, che si appresta ad educare a sua volta. La società
educante non è altro rispetto alla società educata. L’educazione è una prassi, che come tale retroagisce sul
soggetto agente; dunque, chi educa altri, educa al contempo se stesso, accrescendo perciò la propria capacità
di educare. E questo stesso schema si applicherà alla relazione uomo-ambiente. Poste queste riflessioni,
bisognerà concludere come segue: scrive Gentile:

Non v’ha uomo che sia in società, e non agisca su di essa; come non v’ha uomo, su cui la
società in cui vive non reagisca. (…) L’uomo che conosciamo è l’uomo sociale.

Il realismo marxiano si propone dunque di ricollocare l’uomo nel suo concreto rapporto con la società, altresì
risolvendo l’astratto dualismo che i materialisti tradizionali hanno posto tra individuo ed ambiente
circostante. Non soltanto la vita dell’individuo sociale, ma anche l’ambiente in cui egli si realizza può essere
ricondotto al principio fondamentale del materialismo realista di Marx: la prassi come attività sensitiva
originaria, da cui si diramano sia il fare, sia il conoscere degli uomini – dunque sia i fatti, sia le conoscenze,
oggetti all’interno dei quali è possibile inscrivere anche l’ambiente, l’educazione, le circostanze. Dal
dualismo individuo-ambiente – soggetto-oggetto – si passa al monismo della prassi soggettiva, che pone gli
oggetti e che, ponendo gli oggetti, pone anche il soggetto e le sue modificazioni. Come già evidenziato in
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precedenza, pensato in termini di prassi, il rapporto tra soggetto ed oggetto è di tipo retroattivo: la causa
agisce e determina l’effetto, l’effetto retroagisce sulla causa e ne determina lo sviluppo e l’azione successivi.
È questo ciò che Marx, nella tesi III, denomina “il coincidere del variare delle circostanze e dell’attività
umana”. La prassi, che inizialmente aveva come principio il soggetto e come termine l’oggetto, si
rovescia/rovescia le condizioni date, producendo una retroazione dall’oggetto (l’ambiente) al soggetto
(l’attività umana). Le variazioni dell’attività umana coincidono – procedono parallele – con quelle delle
circostanze; le variazioni delle circostanze coincidono con quelle del soggetto. Tutto ciò può essere
concepito e spiegato soltanto entro i limiti di una filosofia materialistica della prassi.

Il ritmo descritto da Marx è dialettico: posizione, opposizione, sintesi di posizione-opposizione. Con Hegel,
il quale ha pure delineato una filosofia della prassi, si potrebbe anche dire: essere, non essere, divenire. Per
Marx, la tesi è la prassi soggettiva; l’antitesi è l’ambiente, le circostanze; la sintesi è il soggetto agito dalle
circostanze. E così via, sempre daccapo. Le correzioni marxiane del materialismo tradizionale ad altro non
corrispondono se non ad un’applicazione alla materia sociale di ciò che Hegel aveva determinato in relazione
allo spirito. La legge che sorregge lo sviluppo della prassi soggettiva nella società e della società stessa è
di tipo dialettico. Né è possibile che un procedimento dialettico sia sorretto da un soggetto unico ed
univoco. Le singole attività umane, quindi, individualmente ed astrattamente pensate, non possono produrre
alcuno sviluppo della società, le cui determinazioni, le cui circostanze mantengono una autonoma facoltà di
retroazione sulla soggettività.

Lo spazio di autonomia che la dialettica materialistica riconosce alla società quale organismo
sovraindividuale – costituito di una struttura e di una sovrastruttura correlate – è di capitale importanza per
la concezione stessa della società: non sarà più possibile, infatti, pensare una società suddivisa in due parti, di
cui l’una possa a suo piacimento disporre dell’altra, operando giustamente o ingiustamente su di essa,
imponendole condizioni, circostanze, forme educative arbitrarie. E questo non sarà possibile nella misura in
cui non esiste azione sociale cui non corrispondano parallele retroazioni. Di qui, scrive Gentile, ne deriva
quanto segue (p. 140):

Le condizioni fatte da una parte della società all’altra, quando nella società si delineino due
parti opposte, sono generate dal seno stesso della società, che poi da sé medesima le concilierà
per la stessa ragione per cui le ha generate.

Poiché nessuna azione sorta all’interno delle condizioni sociali può rimanere priva di effetti sull’intera
società e sugli agenti stessi, si conclude che certe azioni potranno entrare in contraddizione con le circostanze
esistenti. Indipendentemente dai voleri e dai fini egoistici degli uomini, il contesto sociale può deviare il
corso volontario delle azioni umane e – poste le leggi immanenti al proprio sviluppo storico – può
trasfigurarle, fino a renderle concause della genesi di contraddizioni socialmente laceranti. Né sarà l’afflato
filantropico delle utopie umane, o l’impegno ideologico, a risolvere suddette contraddizioni: la società è tale
da risolvere essa stessa le contraddizioni che, nel suo sviluppo, si sono prodotte dentro di essa.

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V. LEGGE DIALETTICA DELLA PRASSI E SUE CONSEGUENZE

La natura della prassi è intimamente dialettica – di qui, anche il suo sviluppo nella storia sarà dialettico.
Questa natura della prassi è tale: essa si rovescia, rovescia la relazione causa-effetto. La prassi opera come
attività del soggetto, che si proietta e si fissa in un oggetto; l’oggetto si costituisce in antitesi all’attività che
lo ha formato13; la contraddizione posta si risolve dialetticamente in una sintesi, che modifica il soggetto
originario in rapporto alla retroazione esercitata dall’oggetto. Si prenda ancora ad esempio la prassi
dell’educazione: essa si declina innanzitutto come attività educatrice, tramite cui l’educatore opera una
duplicazione di sé nell’educato; questo si costituisce in antitesi, in opposizione, all’educatore; si produce una
sintesi – l’educato-educatore – tale per cui l’attività educatrice viene ora praticata da colui che è stato
educato. La prassi si rovescia, per via della sua stessa natura: attività educatrice – oggetto educato –
attività educatrice ad opera dell’oggetto già educato. Il soggetto di questa attività è la società stessa: la
società educa; la società viene educata; la società che educa in un primo momento si trova ora
retroattivamente modificata dall’azione educatrice della società già educata.

Sulla base di queste osservazioni attorno alla dialettica della prassi, Marx delinea la critica della filosofia
della religione, e della filosofia tout court, di Feuerbach. Nelle sue opere, il Feuerbach demistifica la
religione quale mera proiezione irreale delle necessità e delle qualità umane, che produce uno sdoppiamento
del mondo reale.

Ma, una volta riconosciuto il fatto dell’alienazione religiosa, Feuerbach considera opportuno limitarsi a
negare il mondo religioso, risolvendolo nel mondo reale, senza pertanto rendersi conto del fatto che la
contraddizione vigente tra mondo reale-religioso deve produrre una sintesi ulteriore. Dunque, per rimuovere
la suddetta contraddizione, che nega la realtà del mondo reale, non è affatto sufficiente la pura e semplice
negazione feuerbachiana del mondo religioso – ne risulterebbe il mondo reale così com’era in partenza,
ovvero disposto all’auto-lacerazione ed all’auto-proiezione. Piuttosto, stando alla proposta marxiana, la
contraddizione realtà-religione “si risolve con la sintesi dei due mondi, cioè con il ripiegarsi della religiosità
sul mondo reale e il divenire di questo, cioè con il suo farsi religioso”14 – nota Gentile. Questa prospettiva
dialettica era inaccessibile a Feuerbach, il quale – concepito il mondo reale non già nei termini di prassi,
bensì di intuizione sensibile – ne aveva una concezione irrimediabilmente astratta, dunque sciolta
dall’effettiva relazione con il mondo della religione. Una relazione astratta, avulsa cioè dalle leggi interne
alla prassi ed alla storia, non può prevedere uno sviluppo dialettico dei termini in essa impliciti: pertanto, né
sarà possibile concludere ad una sintesi dei termini opposti, in questo caso mondo reale-mondo religioso; né
– come nota Marx nella tesi IV – sarà concepibile una spiegazione propriamente materialistica del mondo
religioso, di cui non sarà bastevole constatare la fattuale natura di auto-proiezione del reale, essendo invece

13
Gentile, p. 141: “Ma questo oggetto che si vien facendo per virtù del soggetto, non è se non una duplicazione di
questo, una proiezione di se stesso, una Selbstentfremdung”.
14
Non riesco a capire in cosa consista il farsi religioso del mondo reale. (Deificazione della società? del capitale?)
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necessario esplicitarne la genesi nelle condizioni storiche e materiali della società, ovvero nelle
contraddizioni strutturali che la attraversano e producono le lacerazioni da cui, per legge dialettica, emerge la
suddetta auto-proiezione. A questo punto, conclude Marx, sarà dunque possibile una risoluzione dialettica
della contraddizione realtà-religione, che non può invece essere pacificata nella mera negazione
feuerbachiana del mondo religioso. Così, si legge nella tesi IV: “Il fatto appunto che il sostrato di codesto
mondo religioso si eleva da se stesso, fissandosi nelle nuvole come un regno indipendente (…) deve essere
tanto inteso nella sua contraddizione, quanto praticamente scalzato per la soluzione della contraddizione
stessa”. È questo il dispiegamento dell’attività pratico-critica rivoluzionaria, di cui si dice alla tesi I.

Seguendo la propria impostazione materialistica, e tuttavia ingenuamente astratta, Feuerbach è portato a


commettere un altro errore rimarcato da Marx. Intendendo erroneamente il mondo materiale come semplice
oggetto non già prodotto dalla prassi soggettiva, bensì soltanto passivamente riflesso nelle intuizioni sensibili
del soggetto, Feuerbach configura come irreale la stessa essenza umana, pensata come fosse un quid astratto
inerente ad ogni singolo individuo. Trascurando il concetto di prassi, Feuerbach concepisce tale essenza
umana in termini puramente naturalistici, e non già anche storici e sociali. Ma un individuo non può affatto
costituirsi come tale al di fuori di determinate condizioni storiche e sociali, sulle quali agisce e dalle quali è
condizionato. Dice giustamente Feuerbach: l’uomo è ciò che mangia, ma l’uomo mangia in quanto
membro di una società. Di conseguenza, non è corretto concludere che l’essenza della religione si risolva
nell’essenza umana, poiché non è data alcuna essenza umana trans-temporale, astorica 15. Il bisogno ed il
fenomeno della religione non derivano dalla costituzione di un’essenza umana naturalisticamente – e cioè
astrattamente – considerata; piuttosto, quelli sono riflesso delle esigenze e delle risposte umane prodotte
da determinati contesti storico-sociali 16. Dunque, l’essenza (storica) della religione dovrà risolversi in
un’analisi critica delle determinazioni storiche e delle relazioni sociali, da cui essa religione emerge. In
quest’ottica, risalterà inoltre la ragione della già citata insufficienza della mossa feuerbachiana di
semplicemente negare l’essenza religiosa: così facendo, infatti, non solo non viene rimossa la contraddizione
realtà-religione – come si è visto più sopra; ma, si ricade altresì nell’orizzonte di un’irreale ed astratta
essenza umana. Negare l’essenza religiosa non è sufficiente; è invece necessario renderla oggetto della
prassi che rovescia, come richiede il ritmo dialettico di cui essa – opportunamente pensata – è termine.

Riprendendo la questione dell’individuo in quanto essere anzitutto sociale, occorre considerare un altro
aspetto rilevante. Come si è più sopra detto, Feuerbach considera l’individuo in quanto ente naturalmente
determinato; di qui, osserva Marx nella tesi VI, non può che derivare una determinazione di essenza umana
in quanto specie (Gattung). Ma quella di specie risulta un genere di universalità che lega i suoi elementi

15
L’essenza dell’uomo è mutevole, dipende dall’insieme dei rapporti sociali in cui sono compresi i singoli individui. A
questo proposito, Gentile annota, p. 143: “Poiché la società ha una storia in cui via via viene assumendo le sue forme
concrete, l’uomo non va studiato, alla maniera di Feuerbach, come individuo astratto, isolato e fuori del processo
storico, fissando p. es. come un’entità a sé il sentimento religioso, che è invece concomitante a tutti gli altri sentimenti
della vita, e con esso connesso ai vari rapporti sociali, secondo i vari periodi storici”.
16
Il bisogno di religione non è proprio di un singolo individuo, naturalisticamente considerato. Né esistono bisogni
individuali irriducibili al contesto sociale; anzi, i bisogni dei singoli individui sono essi stessi prodotti di particolari
determinazioni sociali. Il bisogno di religione è riflesso di determinati rapporti sociali e condizioni storiche.
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costitutivi in un vincolo meramente naturale, inconscio, basato sulla semplice identità anatomica e fisiologica
dei vari individui umani. Questo genere di universalità – astorico ed asociale – non implica alcuna relazione
necessaria tra gli individui: pertanto, l’esistenza di una società rimarrà un dato puramente accidentale –
dovuto, per esempio, ad una deliberazione contrattuale tra individui contingentemente riunitisi –; laddove,
invece, la costituzione degli uomini non può prescindere dal necessario contesto sociale di appartenenza.
Dunque, considerando l’uomo un individuo meramente naturale, si otterrà la figura di un organismo naturale
autosufficiente, irrelato al contesto entro il quale si sviluppa; in tal modo, la formazione sociale non potrà che
apparire una costruzione accidentale ed estrinseca. D’altra parte, poiché per Marx l’individuo è essere
sociale, la società sarà una realtà originaria.

Né quanto più sopra affermato potrebbe essere diversamente, laddove si sia riconosciuto il concetto di prassi.
Mediante la prassi, il soggetto pone l’oggetto; questo, a sua volta, determina il soggetto agente. Declinando
la forma di questa relazione nei termini qui interessati: l’individuo pone la società, che retroagisce
sull’individuo. La società, dunque, è un prodotto della prassi soggettiva, né il soggetto può sottrarsi
all’azione del suo prodotto. Poiché la prassi (attività originaria) media tra individuo e società, questi
saranno originari quanto essa. L’individuo è già da sempre sociale; la società è già da sempre prodotto
della prassi che si rovescia/rovescia. Di qui, si comprende come non sarà possibile affermare l’accidentalità
della formazione sociale, senza con ciò negare la originarietà degli individui stessi. Gentile (p. 145):

Senza il concetto della prassi dialettica, questo fatto della società, o degli individui sociali, non
si spiegherebbe.17

Il concetto di prassi è ciò che consente a Marx di storicizzare l’individuo meramente naturale di Feuerbach –
come è uso dire, Marx corregge Feuerbach con Hegel. L’individuo marxiano può dirsi effettivamente
concreto nella misura in cui è soggetto della prassi, ovvero di una forma di attività che è sensibile 18, che
produce i propri oggetti, che viene modificata da questi oggetti. La prassi è dunque un attributo necessario e
costitutivo dell’individualità umana; in quanto attributo necessario dell’uomo, la prassi sarà una condizione a
priori della realtà – e lo è veramente, se essa opera secondo leggi dialettiche. Le conseguenze della natura
necessaria, costitutiva, a priori, della prassi sono fondamentali in ordine all’elaborazione della teoria
marxiana di storia e società. Ora, poiché la prassi è necessaria, anche i suoi prodotti – la storia e la
società – saranno altrettanto necessari, in quanto forme necessarie della estrinsecazione della prassi. In
altri termini, la prassi umana ha quale propria finalità intrinseca la produzione di oggetti storici e sociali. E,
soprattutto, osserva Gentile (p. 146):

Lo studio di questa prassi, se è possibile a priori (e pare che sia, una volta riscontrato in essa
un ritmo dialettico), può servire da base a una determinazione a priori dello sviluppo della
storia.

17
Cfr. Gentile, p. 143: “Ma Feuerbach era costretto a negare la società, e quindi la storia, e concepire l’uomo come
individuo, perché non aveva il concetto della prassi inerente all’intuizione sensibile; prassi che sola può spiegare
l’organismo della società e il divenire della storia”.

18
Anche il pensiero è prassi – teoretica –, ma non più sensibile; rappresenta una forma derivata dell’attività sensibile.
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VI. CRITICHE E DISCUSSIONI

Quanto fin sopra dispiegato è il nucleo dell’intuizione filosofica che sorregge la filosofia della storia
marxiana. Lo stesso Engels ammetterà più tardi come nelle Tesi su Feuerbach vi sia “der geniale Keim der
neuen Weltanschauung”. A questo punto, si pone un duplice quesito: Marx ebbe l’intento di concepire la sua
teoria come una filosofia della storia? e poi, indipendentemente dalle intenzioni di Marx, è opportuno
riconoscere la portata filosofica del materialismo storico? Il Labriola risponde affermativamente ad entrambe
le questioni; Croce e Sorel, invece, le negano risolutamente. Come già ricordato in precedenza, per Croce
bisogna intendere il materialismo storico al pari di un canone storiografico, che ricordi allo storico come
talvolta – non sempre, dunque – la successione di cause ed effetti, che intende ricostruire, trova le proprie
radici nel sostrato economico della società. In altri termini, il materialismo storico è un indirizzo
metodologico, uno strumento di ricerca storiografico, privo di caratura filosofica ed a discrezione dello
storico. L’interpretazione crociana intende pertanto affermare la velleità del materialismo marxiano, che
pretende invece di essere legge fondamentale di ogni fatto storico, e quindi canone storiografico di valore
assoluto, comprendente l’intera linea degli accadimenti storici, dal passato al futuro. Senza dubbio, un
canone così concepito – assoluto, generale – non può supportarsi senza una filosofia della storia, che ne
giustifichi la fondazione razionale. Nella sua intenzione di rilevare un principio unico – il sostrato economico
– dal quale discendano ogni evento e configurazione della storia, il materialismo assume indiscutibilmente la
forma di filosofia della storia. Contro questa lettura gentiliana, in linea con le tesi di Labriola, il Croce si
oppone insinuando il dubbio circa la leggibilità filologica – e le conseguenti arbitrarietà esegetiche – della
disseminata produzione filosofica marxiana. Non si dà, in effetti, un testo marxiano appositamente redatto ai
fini di una esposizione sistematica del materialismo storico in quanto dottrina filosofica; al più, dunque, il
carattere filosofico del materialismo storico risulterebbe essere una giustapposizione estrinseca ad opera
degli interpreti di Marx. Per Gentile, tali argomenti non rilevano affatto ad una comprensione meditata delle
intenzioni e delle produzioni filosofiche di Marx.

Per giustificare la sua valutazione, Gentile ripercorre gli studi giovanili di Marx, che evidenziano una
indiscutibile tendenza speculativa, precisamente di genere hegeliano. Questi riferimenti biografici invalidano
la lettura ordinaria della figura di Marx, quale nemico delle astrazioni, delle idealità, della metafisica. E
nemico di queste effettivamente fu: non già, però, della loro valenza filosofica, quanto invece del loro uso in
senso trascendente. L’astratto che Marx critica ripetutamente nelle Tesi su Feuerbach – ed a cui si propone
di sostituire il concreto – è lo stesso concetto di astratto criticato da Hegel, ovvero l’astratto in senso
propriamente filosofico, che non si riduce all’accezione comune del termine. Comunemente, infatti, si
considera concreto ciò che è individuale, tangibile, isolato; astratto ciò di cui non si può offrire un’intuizione
empirica. Per Hegel, e per lo stesso Marx, ad essere astratti sono proprio gli enti individuali di cui sopra,
separatamente considerati, e cioè ingenuamente astratti dal contesto di relazioni in cui essi acquistano la loro
concretezza. È questo il dominio dello hegeliano sapere immediato – la mediazione sarà invece operata dal

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riconoscimento soggettivo delle relazioni in cui gli individui sono iscritti. Per Hegel e Marx, dunque,
l’astratto è l’oggetto particolare di esperienza sensibile, oggetto di un sapere immediato. Realmente
concreto è invece il nesso tra gli individui particolari, oggetto della riflessione filosofica. Conclude
Gentile (pp. 154-6):

Il nesso, il generale, che per la riflessione volgare e scientifica è trascendente, nell’intuizione


filosofica diviene immanente; e dall’astratto si trapassa al concreto, la trascendenza
importando nient’altro che astrattezza. (…) Si dovrebbe dunque andare più cauti, a prendere
quella di Marx per una mente realistica, positiva, nel significato più comune di queste parole.
(…) Bisogna ricordarsi che Marx è sempre un hegeliano, formatosi tra hegeliani e sollecito
sempre di riattaccare le sue dottrine a quelle dello hegelismo, per quanto poi le volesse ad
essere contrarie.

Un’ulteriore critica di Croce al materialismo storico è la seguente: essa dottrina pretende di determinare a
priori una legge immanente al processo storico, il quale invece può essere oggetto di sola osservazione
empirica e di leggi al più tendenziali – o generalizzazioni provvisorie. Ma questa obiezione crociana, riflette
Gentile, risente di quella medesima concezione del rapporto soggetto-oggetto criticata da Marx nei
frammenti su Feuerbach. All’appunto di Croce circa l’impossibilità di determinare una legge immanente
nella storia senza ricadere nella metafisica pre-kantiana, Gentile replica che “una legge nella filosofia della
prassi, quando soggetto ed oggetto sono concepiti nel loro rapporto necessario, non può determinarsi che
come una legge immanente nelle cose”. E cioè, se soggetto ed oggetto sono correlati ed interdipendenti, è
opportuno ammettere che le leggi determinate dal soggetto risulteranno essere immanenti all’oggetto
prodotto – si ricordi che la conoscenza stessa è prassi 19. Una legislazione di genere induttivo, come quella
descritta da Croce, non può essere ascritta alla legge storica di Marx, fondata su una logica di tipo hegeliano
(equazione pensiero-realtà, dialettica dell’equazione presente). È certo inevitabile riconoscere che la dottrina
marxiana derivi anche dalla osservazione dei fatti storici 20 – presupposto di ogni sapere; è essenziale tuttavia
rilevare che il carattere formale attribuito dal Marx alla sua teoria storica è quello di una legge assoluta,
determinabile a priori21, affatto provvisoria o tendenziale. Occorre rammentare come il proposito del
materialismo storico non sia quello di ricostruire una successione particolare di fatti, quanto di determinare
la legge logica che presiede alla trasformazione dei fatti economici (prassi). Il procedimento dialettico del
materialismo storico di Marx non può negare né l’a priori, né l’a posteriori: senza la prassi dialettica, non c’è
né storia; d’altra parte, senza il corso storico, non c’è sviluppo razionale della prassi.

19
In questi passaggi, l’oggetto di Marx è la storia, la società – storia e società non possono sussistere
indipendentemente. Questo oggetto è prodotto della prassi dialettica del soggetto. Il soggetto ha un oggetto con sé
intimamente connesso. Se vi è una tale relazione tra di essi, è impossibile che il soggetto non possa determinare la
legge immanente all’oggetto.
20
Gentile, p. 158: “E come poteva altrimenti, se questa sostanza di cui pretese scoprire la dialettica era il fatto
economico, che ha, come ogni altro fatto la sua storia?”.
21
Gentile, p. 158: “La concepì a priori (la sua concezione storica); vale a dire, credette scoprire nella realtà
contingente la realtà assoluta, che per sua propria costituzione ha un ritmo reale e razionale di sviluppo, che rinverga
con la dialettica dell’Idea hegeliana”.
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La storia si sviluppa e si sostiene tramite la natura dialettica della prassi; declinando ulteriormente questa
tesi marxiana: la storia è lotta di classe – infatti, non c’è storia, senza una società organizzata in classi di
lavoratori tra loro in opposizione di interessi; questa lacerante contraddizione tra classi sociali si risolve, si
nega, mediante una determinata prassi: la lotta di classe. La lotta di classe è la negazione di una società
divisa in classi. Ma in che modo si determina una situazione di lotta di classe? Essa è il risultato di una
contraddizione interna alla struttura di una società: contraddizione tra forze produttive e rapporti di
produzione. Le forze produttive (specie la forza lavoro operaia) producono merci e capitale secondo
determinati rapporti di produzione, giuridicamente normati. Nel tempo, le forze produttive – soggetto – si
sviluppano, si lasciano modificare dalla retroazione dei propri prodotti – oggetto. Così, la prassi si rovescia
sul soggetto, ed esso perciò si lacera e si modifica, fino ad entrare in piena ed urgente contraddizione con le
forme giuridiche – e sociali – che ordinano i vigenti rapporti di produzione. Queste medesime forme socio-
giuridiche, seppure adeguate ai precedenti sviluppi della società, non corrispondono più alla costituzione ed
alle esigenze delle attuali forze produttive. Di qui, si determina una lotta di classe per risolvere il conflitto
tra le forze produttive ed i rapporti (socio-giuridici) di produzione.

La lotta di classe è una declinazione storica di una condizione originaria della vita umana: la prassi – “ la
molla di questo scendere e salire della storia per la parabola del suo sviluppo”, scrive Gentile. La prassi è
un’attività che implica la correlatività di soggetto ed oggetto, dunque la possibilità che essi entrino in
contraddizione e si risolvano in una sintesi superiore – a sua volta destinata ad una nuova contraddizione nel
processo di sviluppo della prassi. Nell’avvicendarsi dialettico della storia, talvolta la lotta di classe sarà
impercettibile; talvolta appena accennata; in altri contesti, essa raggiungerà il punto di massima tensione, in
cui si compirà la negazione della negazione, cioè il superamento della contraddizione e l’istituzione di un
nuovo rapporto soggetto-oggetto. Tale è il ritmo dialettico della storia, “ecco la contraddizione perpetua
della vita”, che continuamente si pone e si risolve nel seno – e per opera – della società economica, il grande
soggetto della prassi nella storia22.

La storia marxianamente intesa, ovvero il progressivo sviluppo della prassi degli individui in società, non
può non produrre la divisione della società stessa in classi, ed il seguente insorgere di un antagonismo tra i
contrastanti interessi di classe. La lotta di classe è una legge, una costante, della storia in quanto prassi
dialettica; né si può ritenere la lotta di classe un fatto accidentale, come vorrebbe il punto di vista dell’antico
materialismo23, il quale, non riconoscendo la prassi come originaria modalità di relazione tra soggetto-
oggetto, si preclude una comprensione scientifica dell’essenza storico-sociale dell’uomo. Espressione
ideologica della struttura sociale borghese, l’antico materialismo intuizionista – a lungo criticato da Marx –
implicava la passività del soggetto dinanzi all’oggetto: o, nei termini del Marx critico dell’economia politica,
la passività del proletario dinanzi al capitale. Di contro, il materialismo marxiano nega suddetta passività,

22
Gentile riprende l’esempio della dialettica società educatrice-educata, la cui contraddizione viene superata nella
sintesi della società già educata, che ora è nuova educatrice. Si legga, p. 161: “La prassi è rimasta identica:
l’educazione; ma la nuova società educa altrimenti; ha principii d’educazione, che non negano semplicemente quelli
della società antecedente, ma li negano superandoli, perfezionandoli”.
23
Marx, Tesi su Feuerbach, IX-X.
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riconoscendo la natura dialettica e pratica della relazione soggetto-oggetto, può concludere che il soggetto
produce l’oggetto – il proletario, la prassi del proletario, produce il capitale. In questo senso, occorrerà
negare la concezione borghese per cui l’aumento del capitale si dà in funzione del capitale stesso. Il capitale
non si auto-produce, né si auto-moltiplica; piuttosto, con Marx, la produzione e la moltiplicazione del
capitale è opera della prassi del soggetto proletario (lavoro). Di qui – decima tesi su Feuerbach –, il punto di
vista del nuovo materialismo storico esprimerà non la società borghese, bensì la società umana, che cioè si
costituisce e si organizza attorno al riconoscimento della prassi umana nella storia – prassi che, per
riprendere il tema della lotta di classe, rende quest’ultima costante storica 24.

Un’altra obiezione crociana al materialismo storico di Marx inerisce alla pretesa, da parte del socialismo
scientifico, di avere fondazione razionale nella suddetta teoria della storia. A tal proposito, Croce afferma
non essere possibile dedurre un programma pratico-politico da proposizioni di pura scienza; né Marx tuttavia
– se è vero che l’essere sociale determina la coscienza – si direbbe discorde rispetto a questa conclusione, in
piena continuità con il principio della derivazione economica delle manifestazioni sovrastrutturali, affermato
dal materialismo marxiano25. Certo è però che, anche qualora il socialismo non derivasse deduttivamente dal
materialismo storico, esso materialismo rappresenterebbe tuttavia la coscienza teorica ed etica del
socialismo marxista. Sia il materialismo storico, sia il socialismo scientifico di ispirazione materialistica,
altro non sono che riflessi – che possono retroagire sulla struttura sociale, e non già determinarla a priori – di
una determinata configurazione sociale. Né potrebbe essere altrimenti, se l’oggetto è prodotto di un soggetto,
la cui prassi è tanto un fare, quanto un conoscere l’oggetto; in questo senso, al soggetto che produce il
capitale, non può che corrispondere un’adeguata conoscenza del capitale stesso, elaborata dal materialismo
storico, assunta dal socialismo scientifico marxista per distinguersi dai precedenti socialismi utopistici.

Decostruire le obiezioni di Croce contro la portata filosofica del materialismo storico marxiano, Gentile
prende ora in considerazione le osservazioni di Sorel attorno al medesimo argomento. Come Croce, così
Sorel ritiene il Marx un uomo essenzialmente pragmatico, politico, lontano quindi da ogni ambizione e rigore
filosofici. Per Sorel, le previsioni scientifiche del materialismo storico altro non sono che “chimeriche
speranze”, che tuttavia i marxisti tendono a concepire come trasformazioni e sviluppi sociali destinati ad
accadere per necessità storica. Essi marxisti, dice il filosofo francese, non comprendono il valore puramente
regolativo, pedagogico, non ultimo propagandistico, delle formule e delle teorie marxiane, i cui principi
fondamentali non bisogna affatto intendere quali leggi necessarie dell’ordine storico. Al più, bisognerà
riconoscere in ciò il valore degli schemi sociologici marxiani: da una parte, essi possono supportare
24
Gentile, p. 165: “Si può rimanere in (una) contraddizione? No, perché lo sviluppo della prassi è dialettico; né la
prassi può arrestarsi, perché essa è la vera e l’unica sostanza della realtà storica”. Di conseguenza, la lotta di classe è
un esito inevitabile della dialettica storica delle società classiste.
25
Gentile, p. 164: “Il primo non sarebbe più il senso, ma l’intelletto, se una proposizione strettamente scientifica fosse
la prima causa operatrice di un movimento pratico storico. (…) La scienza sarà un riflesso, un effetto, non la causa
della pratica. La realtà sostanziale sta nella prassi, alla quale poi corrisponde nella mente degli uomini una special
forma di coscienza e di scienza; la quale potrà al più operare sulla realtà per un processo di prassi rovesciata. Ma il
principio primo sarà sempre nella vita, nella realtà economica”.
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metodologicamente ricerche di ordine particolare, come riteneva anche il Croce; dall’altra, “poiché la
scienza è troppo astratta per guidare l’azione”, gli schemi e le leggi del materialismo storico possono
esercitare la propria rilevanza nel dominio pratico della vita umana. Per Sorel, dunque, il materialismo
storico è un insieme di enunciati a fini pedagogici e propagandistici; con le sue parole, un insieme “di
descrizioni sommarie, fatte con processi del senso comune, in vista di determinate conclusioni pratiche,
senza alcuna pretesa alla rigidità scientifica”. In nessun modo, conclude il Sorel, il materialismo marxiano
può considerarsi una dottrina scientifica delle determinazioni necessarie operanti nel processo della storia; né
– prosegue – questa elaborazione scientifica rientrava tra i propositi di Marx. Quanto più sopra detto in
riferimento alle tendenze speculative di Marx, di cui il Croce non si avverte, è riproposto da Gentile in
risposta alle presenti considerazioni di Sorel.

Il proposito marxiano di concepire la sua dottrina come esposizione scientifica delle leggi immanenti alla
realtà storica appare inequivocabile, come si può intuire dalle seguenti citazioni marxiane:

Il mulino mosso a braccia vi darà la società a regime feudale; il mulino a vapore vi darà invece
il capitalismo industriale26.

La maniera di produzione della vita materiale determina innanzi e soprattutto il processo


sociale, politico ed intellettuale della vita27.

Da questi estratti, Gentile conclude alla natura oggettivamente deterministica del materialismo storico di
Marx. Dalle succitate proposizioni, emerge evidente la connessione che Marx istituisce tra le forze
produttive e l’intera vita sociale: le forze produttive determinano storicamente, praticamente, i rapporti
sociali regolati dalle forme giuridiche, giustificati dalle produzioni ideologiche. La struttura determina la
sovrastruttura: è questa l’essenza della concezione materialistica della storia, inequivocabilmente pensata ed
elaborata da Marx come scienza – della società economica e della storia.

Da ultimo, ammesso il determinismo storico della teoria marxiana, Gentile ritiene infondate le critiche
rivolte alla presunta necessità, o fatalità, della storia marxianamente concepita. Per rispondere a queste
obiezioni, Gentile chiarisce il senso del determinismo storico marxiano, irriducibile alle forme del
determinismo classico, ancora legato ad una rigida opposizione soggetto-oggetto, in cui il soggetto risulta
unilateralmente determinato dalle proprietà dell’oggetto – della realtà, dell’ambiente, dell’educazione; cfr. III
tesi su Feuerbach. Piuttosto, in Marx principio di tutta la storia è la prassi, è l’uomo materiale in quanto
attività soggettiva su una realtà che, a sua volta, retroagisce sull’individuo. Di conseguenza, il determinismo
storico marxiano non limita, né nega, la libertà soggettiva rispetto alla storia: più propriamente, come in
Hegel, libertà e necessità sono conciliate: lo sviluppo della prassi è libero, spontaneo, ma deve adeguarsi
alla natura dialettica della prassi, la quale lega soggetto-oggetto in un rapporto di azione-retroazione che

26
Marx, Miseria della filosofia. Più oltre, egli continua: “Acquistando forze produttive nuove, gli uomini cangiano la
loro maniera di produzione e, cangiando la loro maniera di produzione, il modo di guadagnarsi la vita, essi cangiano
tutti i loro rapporti sociali”.
27
Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica.
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matura per contraddizioni e sintesi. Poiché non viene in alcun modo negata la libertà del soggetto pratico, il
materialismo marxiano esprime più una dialettica necessaria, che un determinismo storico tradizionalmente
inteso. Né, conseguentemente, sarà opportuno intendere il materialismo storico come espressione di un
fatalismo. In genere, infatti, si concepisce il fato come una legge esterna alle cose umane, che cioè regoli ab
extra il processo dei fatti storici e costringa coercitivamente – forse saggiamente, forse ciecamente 28 – la
libertà del destino umano. Di certo, nemico di ogni trascendenza, Marx non avrebbe potuto concepire la
sua teoria storica secondo una cosiffatta impostazione fatalistica. Non può darsi un fato superiore alla
libertà umana, laddove siano questi stessi uomini – concretamente pensati – a fare e condurre la propria
storia; certo, dice Gentile, “la società preme sì sul fare degli uomini, e dà a questo una direzione; ma la
società stessa è un prodotto del loro fare”. Niente fatalismo, dunque; piuttosto, necessaria correlazione tra
causa economica-effetti sociali; ma poiché l’economia è prassi umana, non viene affatto negata la libertà
dell’individuo.

VII. MARXISMO TEORICO E MARXISMO PRATICO

Come bisogna intendere il rapporto tra socialismo politico e socialismo scientifico (concezione filosofica)?

Si potrebbe pensare che Marx, uomo di azione, primariamente rivoluzionario, abbia elaborato la dottrina
materialistica della storia con il solo fine di giustificare filosoficamente la propria pratica rivoluzionaria.
Eppure, come più volte ricorda Gentile, il Marx fu anzitutto “un vero e proprio filosofo, che per particolari
studi e per le condizioni dei tempi divento rivoluzionario – era stato dunque filosofo, prima che
rivoluzionario”.

Dunque, per riprendere la questione di cui sopra, occorre in primo luogo comprendere il rapporto tra la
dottrina marxiana ed il suo oggetto: la prassi materiale che pone/rovescia/sviluppa la storia e la società. Tale
rapporto, osserva Gentile, è simile a quello tra la scienza botanica e lo sviluppo di un vegetale: la botanica è
il riflesso scientificamente delineato di questo sviluppo naturale, né essa può in alcun modo influire su questo
sviluppo. Allo stesso modo, il materialismo storico riflette il proprio oggetto di studio, né può intervenire
concretamente su di esso: in questo senso, che gli uomini giungessero alla conoscenza della dialettica storica
del materialismo,

ciò era perfettamente inutile per il corso di questa storia in se stesso materialisticamente
determinato. (…) Siccome il principio del fare non è lo spirito, ma la materia, la quale ha in se
stessa la legge del suo sviluppo, l’attuazione progressiva di questo sviluppo è assolutamente
indipendente dalle determinazioni dello spirito, quando anche esso si determini per la
concezione materialistica della storia.

28
Cfr. Stammler, Economia e diritto secondo la concezione materialistica della storia: “La filosofia del materialismo
storico si fonda sul principio che non c’è necessità naturale cieca, bensì necessità condizionata e quindi intelligibile.
Essa vuole cogliere la regolare necessità dei fenomeni economici secondo la legge di causalità e in quella fondare la
legge universale della vita sociale”.
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Ma se è così per un rispetto, per un altro, invece, siccome il fare è insieme un conoscere, era
necessario che a un certo punto della prassi storica corrispondesse la concezione
materialistica della storia.29

Dunque: come per lo sviluppo di una pianta è indifferente l’esistenza di una scienza botanica; così, per il
corso deterministico e teleologico30 della storia, è ugualmente indifferente l’esistenza del materialismo
storico. Resta tuttavia la peculiarità dell’oggetto proprio della dottrina marxiana – la prassi, come
contemporanea produzione e conoscenza dell’oggetto. Se gli uomini fanno una determinata società, ne
seguirà allora che essi hanno anche la possibilità – la necessità – di conseguire una conoscenza adeguata
della natura di questa società. Ma questo genere di conoscenza, in quanto concerne la prassi soggettiva, non
potrà non influire sul soggetto di tale prassi. Scrive Gentile: “È evidente che questa dottrina, una volta
formulata, prodotto anch’essa della prassi, reagisce sul soggetto della prassi, sulla società”: per es.,
rendendo manifestamente evidente la necessità della lotta di classe. Non c’è lotta di classe, senza coscienza
dell’antagonismo classista; quindi, nemmeno potrà esserci lotta di classe, senza il riflesso ideologico del
materialismo storico. La dottrina del materialismo marxiano, dunque, con-cresce assieme alla lotta di classe.
In altri termini, se la lotta di classe è una prassi necessaria ai fini di una – altrettanto necessaria –
trasformazione della società; allora sarà altrettanto necessario il materialismo storico in quanto riflesso
ideologico della prassi economica della società – tra cui si comprende anche la lotta di classe. Vi è dunque
una correlazione tra lotta di classe (soc. politico) e materialismo storico (soc. scientifico) . Il
materialismo storico si determina come riflesso della lotta di classe – e di altre prassi socio-economiche
particolari; la lotta di classe si diffonde anche per effetto dell’ideologia materialistica che, “una volta
formulata, è impossibile non finisca per dominare le menti, rischiararle e reggerle nella grande lotta ”. Il
soggetto di questa lotta è il proletariato, ovvero l’erede del precedente soggetto storico: la borghesia, der
Bourgeoisie.

Il socialismo politico è una forma di mediazione tra il soggetto (proletariato) e l’oggetto (dottrina
materialistica della storia, in quanto riflesso ideologico della struttura economica capitalistica). Di
conseguenza, il sostenitore della propaganda politica socialista dovrà necessariamente conoscere,
quantomeno, i principi fondamentali del materialismo storico, affinché possa opportunamente mediare tra

29
Gentile, p. 180.
30
Il fine intrinseco alla società economica è l’organizzazione comunistica dei rapporti di produzione; è il comunismo.
Né gli uomini possono deviare questa destinazione della storia: potranno impedirla, favorirla, ignorarla; ma non
potranno per ciò negarla. Scrive Gentile, p. 180: “Gli uomini fanno (liberamente) una storia, che mette capo al
comunismo; arrivati ad un certo punto, s’accorgono della via che questa storia viene seguendo e della meta verso la
quale, su questa via, è indirizzata”. Ancora una volta, si ricordi come questa concezione deterministica della storia non
privi il soggetto di libertà: il comunismo è destino della società, perché la dialettica storica esige il superamento delle
contraddizioni esistenti. “La società si muterà inevitabilmente; (…) altrimenti non si compie il perfetto rovesciamento
della prassi, per cui soltanto è possibile che il soggetto raggiunga un grado superiore del suo sviluppo”, scrive Gentile
(pp. 180-1). Così, per risolvere le proprie interne lacerazioni, la società borghese deve avviarsi al comunismo; né questo
nega la libertà del soggetto, nella misura in cui le modalità empiriche dell’avvicinamento storico al comunismo, la sua
istituzione socio-politica, la lotta di classe, rimangono oggetto della prassi soggettiva. Il comunismo è la destinazione
della libera prassi umana.
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questi principi e la coscienza del proletariato. Né questa impostazione rinuncia al principio marxiano della
materialità della dialettica storica: infatti, annota Gentile (p. 183):

Operano le idee sulla storia; ma le idee sono esse stesse un prodotto della realtà materiale
della storia; sono la sua negazione, che deve essere essa stessa negata e superata; e gli autori
di propaganda non sono se non gli strumenti necessari di una tale negazione; non inconsci,
perché la negazione della negazione è pur sempre prassi.

Questa, la posizione del socialismo pratico dinanzi al socialismo scientifico – materialismo storico. Né
dunque avrà ragione il Sorel, quando invita i socialisti marxisti a concentrare le proprie energie nella prassi
politica rivoluzionaria, piuttosto che dilungarsi attorno alla dottrina materialistica marxiana, solo
approssimativamente, schematicamente, scientifica. Da questo fraintendimento, emerge il senso dell’invito
di Sorel per un miglioramento della teoria marxiana: tale miglioramento, osserva il Gentile, altro non sarebbe
che “il bisogno (…) di desumere dalla dottrina un gruppo di idee direttive utili alla vita; di ritornare cioè
dalla forma filosofica alla forma popolare del contenuto da Marx preso a studiare”. In tal senso, dunque,
pur essendo errata la sua interpretazione del marxismo teorico, Sorel esprime la necessità di un impegno
pragmatico necessario ed essenziale in ordine alla fortuna del socialismo – e questo è certamente corretto,
poiché “un pensiero filosofico, per quanto vero, non rappresenta il contenuto della vita e della realtà, se non
in una forma sua, che è la forma speculativa degli schemi dialettici e delle categorie” (Gentile, p. 183).

Dunque, dalla prospettiva del marxismo, occorre tanto l’impegno politico-rivoluzionario sollecitato dal
Sorel; quanto l’impegno teoretico di chi, come il Labriola, attende ad una delucidazione sempre più chiara e
coerente del materialismo storico.

VIII. RECENTE INTERPRETAZIONE DELLA FILOSOFIA DELLA PRASSI

In questo capitolo, Gentile commenta e critica l’interpretazione di Labriola a proposito di alcuni caratteri
propri del materialismo marxiano e della sua connotazione filosofica. La filosofia di Marx, nota giustamente
Labriola, è una filosofia della prassi, e cioè dell’attività soggettiva che continuamente produce e conosce i
propri oggetti. Il soggetto della prassi non è una costruzione astratta, cartesiana; piuttosto, il soggetto di Marx
è reale, agisce e pensa realmente soltanto entro un determinato contesto di rapporti sociali, che il soggetto
produce, essendone insieme prodotto – in virtù del fatto che la prassi soggettiva si esercita e si modifica in
relazione ai “mezzi della produzione sociale, che sono, da un lato le condizioni e gli strumenti della
produzione economica, e dall’altro i prodotti della collaborazione variamente specificata (la merce)” –
Gentile p. 188.

Il Labriola definisce questa filosofia marxiana della prassi come una “filosofia immanente alle cose”,
laddove questa espressione lascerebbe intendere il senso del rovesciamento della dialettica hegeliana operato
dal Marx. Così scrivendo, il Labriola – sulla scia dei più recenti ed ingenui marxisti –sembra fraintendere la

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portata della filosofia hegeliana, ritenendola una costruzione consacrata alla “semovenza ritmica di un
pensiero a sé stante”, trascendente la realtà delle cose mondane. Pure, nella filosofia di Hegel, che intende
porsi in quanto negazione e superamento delle forme astratte dell’intelletto, non è affatto concepibile un
pensiero a sé stante, considerato cioè al di là della realtà, o in opposizione ad essa. Scrive Gentile: “Ciò che
è razionale, è reale; ciò che è reale, è razionale. Quale più intima compenetrazione si può fare tra cose, o
realtà, e filosofia, di quella proclamata in questa proposizione? Se le cose sono razionali, è chiaro che in
esse è immanente una filosofia; e cioè, che sono in esse i fondamenti della loro filosofia (della loro
concepibilità secondo ragione)”. Anche la filosofia di Hegel, dunque, immanente alle cose – né, come
sembrano intendere Engels e Labriola, l’immanenza dell’Idea hegeliana si deve pensare come appiattimento
sulla realtà di un’idea platonicamente concepita.

Di questi caratteri della filosofia hegeliana, Marx era pienamente consapevole, né avrebbe mai attribuito al
suo maestro i concetti di immanenza, di idea, di realtà, così come emergono in Engels ( Antiduhring) e in
Labriola. Per cui, come già si era detto più sopra, il significato del rovesciamento marxiano della
dialettica hegeliana non consiste tanto nel passaggio da una presunta trascendenza all’immanenza della
materia economica; quanto invece nella sostituzione del principio della processualità dialettica: non più
l’idea, bensì la suddetta materia. Dunque, in Marx, il principio della dialettica cambia; ma la natura,
l’obiettivo, di questa dialettica rimangono propriamente hegeliani. Per es., anche la dialettica marxiana
intende rappresentare la legge di sviluppo di una realtà essenziale, assolutamente immanente, eppure al di là
dei singoli fenomeni contingenti. Le cose, di cui la dialettica illumina natura e sviluppo, non sono certo
“tutte le cose – necessarie o accidentali – di cui la storia ci pone innanzi l’infinita schiera fenomenica; bensì
le cose nella loro intima e, dicasi pure, metafisica sostanza, determinata materialisticamente nella vita
economica”. Dunque, anche la realtà indagata da Marx è metafisica, non però in un senso trascendente; è
metafisica perché indaga una natura ed una legislazione che oltrepassano il limite fenomenico
dell’esperienza. Ciò che non rientra nel dominio della realtà essenziale – ovvero di quella realtà che cresce e
concresce dialetticamente nella storia – è tutto quello che non risulta prodotto di una prassi economica
materiale; e cioè, tutto quello che esiste sul piano della sovrastruttura, e non già su quello strutturale. Nella
filosofia di Marx, dunque, la realtà essenziale – che, come in Hegel, è intima e dialettica correlazione di
soggetto-oggetto – coincide con la posizione e lo sviluppo non già dell’idea, bensì della materia –
considerata però al di là delle ingenuità astratte del Feuerbach, della cui lezione Marx è tuttavia riconosciuto
debitore: cioè, considerata non in quanto astratta realtà oggettuale, bensì in quanto prodotto di una prassi
soggettiva.

Così, Marx sostituisce ad una metafisica idealistica – quella di Hegel – una metafisica materialistica.
Né dunque si può negare a Marx il riconoscimento di essere stato un metafisico, per quanto la storiografia
marxista possa osteggiare questa affermazione. Marx rimane un metafisico: non rinnega affatto il pensiero di
una realtà essenziale, ulteriore ai fenomeni, e tuttavia in continuo sviluppo dialettico. Ed anzi, la dialettica
materialistica di Marx vuole essere legge di sviluppo di una realtà essenziale – quella della materia

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economica. La suddetta metafisica materialistica di Marx non è affatto riducibile ai caratteri della metafisica
materialistica tradizionale, di genere naturalistico ed intuizionistico – come si è avuto modo di osservare nel
saggio gentiliano Una critica del materialismo storico. Pur parzialmente fraintendendo il rapporto Hegel-
Marx, lo stesso Labriola riconosce nel materialismo storico una metafisica, che – seguendo l’Engels
dell’Antiduhring – egli distingue nettamente da una metafisica sensu deteriori, la quale “fissa, come per sé
stanti e del tutto indipendenti l’uno dall’altro, i termini del pensiero, che in verità sono tali solo in quanto
punti di correlazione e di transizione di un processo; ed in secondo luogo considera quei termini stessi del
pensiero come un presupposto, un’anticipazione, un prototipo della realtà empirica apparent e” – così il
Labriola. La metafisica marxiana, sulle orme di quella di Hegel, disconosce l’impostazione di cui sopra,
rifiutandosi di fissare ed ipostatizzare i contenuti dell’intelletto astratto, il quale ipostatizza le singole cose
pensate, considerandole non già nei loro nessi dialettici, bensì nelle loro immediate particolarità e differenza.
Questo procedimento dell’intelletto astratto può supportare il senso comune e le scienze empiriche; non già
la filosofia, quale espressione di un pensiero speculativo che pensa la realtà nella sua intima unità dialettica.
La metafisica di Hegel e Marx si oppone al pensiero metafisico moderno – intuizionista, oggettivista,
naturalista –, negandolo e superandolo tramite il riconoscimento del carattere dialettico della realtà
essenziale, non più concepibile nei termini di antitesi immediate, astratte, irrisolvibili – come quella tra
soggetto-oggetto, pensiero-realtà, causa-effetto, positivo-negativo. La dialettica concepita da Hegel permette
alla metafisica di emanciparsi da queste distinzioni fondate sul principio di non-contraddizione. Così, per la
dialettica, l’identità di una cosa non è la fissità astratta del suo concetto, isolato dal nesso di relazioni in cui
la cosa è inscritta; l’identità non esclude la differenza, ovvero ciò che è differente dall’identità in sé: anzi,
l’identità si pone e si sviluppa soltanto in opposizione alla sua differenza – A è tale in opposizione a B.

La dialettica – con Hegel illuminata dalla filosofia speculativa – consente di pensare la realtà nella sua
processualità, la verità della realtà nel suo divenire, e non già in ipostasi astratte. La dialettica nega la
metafisica della tradizione moderna – propria delle stesse scienze particolari. Ciò che l’intelletto astratto
concepisce come isolato ed irriducibilmente opposto, bisogna invece considerarlo in dialettica identità con il
suo opposto. Tutto sta in perpetuo movimento, e la ragione di questo movimento risiede in una coincidentia
oppositorum che si può riscontrare ad ogni altezza della realtà. A questo proposito, si legga quanto scrive
Gentile (pp.197-8):

Ogni cosa è insieme se stessa e altro. I processi di integrazione e disgregazione di un


organismo, fanno sì che l’organismo sia in ogni momento se stesso ed altro. La causa, nel fatto,
è l’effetto di un’altra causa; e solo per astrazione del pensiero comune o scientifico, una cosa è
causa, e una altra è effetto. Sicché, i contrari sono tanto inseparabili, quanto opposti.31
31
Cfr. Hegel, Logica, § 119: “Ciò che per l’uno, il debitore, è il negativo; per l’altro, il creditore, è il positivo. (…)
Tutte le cose sono contraddittorie. Non c’è infatti, né in cielo, né in terra, né nel mondo dello spirito, né in quello della
natura, nulla a cui possa applicarsi il – questo o quello – dell’intelletto come tale. Ciò che muove il mondo è la
contraddizione, ed è ridicolo dire che la contraddizione non si può pensare. Ciò che è vero in tale opinione, è che non
si può rimanere nella contraddizione, e che questa sopprime se stessa. Ma la contraddizione soppressa non è affatto
l’identità astratta, poiché questa non è se non un lato della contraddizione”. Quindi, la ragion d’essere di una cosa (la
sua essenza?) è l’unità dialettica di identità e differenza – di ciò che la cosa è in sé e di ciò che la cosa non è in sé,
momenti opposti e separati soltanto astrattamente. L’essere si differenzia per poi riconciliarsi con se stesso ad un grado
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La dialettica consente di pensare non già l’identità astratta di una cosa; bensì l’identità vera, concreta, di
questa, che è il superamento della contraddizione tra la cosa in questione ed il suo opposto. In questa
dinamica, dunque, la contraddizione non viene semplicemente negata, ché si ricadrebbe nell’astrattezza delle
identità particolari; piuttosto, la contraddizione si supera, pensando l’identità che sottende alla
differenza tra gli opposti. Così Gentile (p. 201): “La dialettica unifica il dare e l’avere; ma non per questo
il debitore diventa il creditore. Unifica l’essere e il non-essere, ma non per questo le singole cose sono e
non-sono, secondo che ci aggrada. (…) Così nella storia la famiglia è il primo nucleo dello Stato. Questo
non è senza di quella; la quale, nello Stato, non si annulla semplicemente, anzi si conserva e si invera,
acquistando il proprio valore etico: attuando, cioè, la propria finalità ”.

Da quanto finora detto si dovrebbe comprendere come, pur indagando realtà e conoscenze a priori, la
proposta metafisica hegeliana non neghi affatto i diritti dell’esperienza sensibile in sé, come sembrerebbe
doversi desumere dalle osservazioni di Labriola sul carattere specifico della filosofia della prassi marxiana.
Appoggiandosi agli scritti di Engels, il Labriola riconosce la tendenza monistica della filosofia marxiana 32
che però – ed in questo risiederebbe la peculiarità della filosofia pratica marxiana –, a differenza di ogni altra
metafisica monistica, non rinuncia all’esigenza di un continuo confronto con l’esperienza, in cui solo è
rinvenibile il contenuto materiale prodotto e conosciuto dalla prassi. Di contro all’affermazione di Labriola
circa l’unicità dell’esigenza empirica inscritta nella filosofia della prassi marxiana, Gentile cita due passi –
uno di Schelling33, uno di Spaventa – in cui viene precisato non solo il senso dell’apriori idealistico, ma
anche la più generale relazione della filosofia con l’esperienza. Di certo, senza l’esperienza non ci può essere
alcuna conoscenza, come ha insegnato Kant. Ma ciò che l’esperienza non può offrire è una conoscenza della
relazione sistematica che implica le cose nella loro particolarità. “Questo sistema, nel quale consiste la vera
realtà – giacché nessuna cosa è reale - è l’oggetto della filosofia. Non altro che il pensiero può essere
quella unità – quella relazione, quel nesso – in cui tutte le cose sono reali”, scrive lo Spaventa. Stando così
le cose, il materialismo storico – così come viene presentato da Engels e Labriola – non conclude affatto ad
un monismo che, accolta l’esigenza dell’empiria, possa dirsi differente rispetto al monismo idealista di
Hegel. Dunque, il monismo della filosofia marxiana non integra, né supera il monismo hegelista; solamente
ne sostituisce il principio della dialettica, che rimane forma condivisa della filosofia di Hegel e di Marx.
Riassume Gentile (p. 211):

di sviluppo superiore: questa è la natura ed il fine della realtà: la sua ragion d’essere (l’essere è razionale). Se l’essere ha
un fine intrinseco, questo può essere raggiunto soltanto mediatamente, e cioè dialetticamente. L’immediatezza è la
negazione astratta di ogni fine.
32
In metafisica, monistica è la concezione per cui esiste un’unica realtà fondamentale – in Marx, la materia sensibile,
che si modifica dialetticamente, per opera della prassi.
33
“Per l’esperienza e mediante l’esperienza, noi non sappiamo soltanto questo o quello, ma in origine ed in generale
ogni cosa; non sappiamo niente senza di essa; e così tutto il nostro sapere consiste di proposizioni empiriche. Queste
poi diventano a priori, allora soltanto che sono conosciute come necessarie. La differenza tra proposizioni a priori ed
a posteriori non è una differenza inerente alle proposizioni stesse, ma nasce dalla considerazione del modo in cui noi
sappiamo queste proposizioni.”
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L’idealismo assoluto ed il materialismo storico sono tutti e due monismi, sia per la forma, sia
per la sostanza. Tutto è in continuo divenire: monismo della forma. Tutto è essenzialmente
idea, o tutto è essenzialmente materia: monismo della sostanza.

IX. CRITICA DELLA FILOSOFIA DELLA PRASSI

Dalla lettura delle Tesi su Feuerbach – Gentile ancora non disponeva del testo della Ideologia tedesca – si
può concludere all’affermazione della filosofia marxiana della prassi come monismo materialistico: tutto la
realtà è essenzialmente materia in continuo divenire per opera della prassi. Dunque, a differenza del
Feuerbach, Marx non concepisce la materia come realtà già fissata, stabile; bensì come materia
continuamente agita ed agente: di qui, la definizione di materialismo storico. La materia sensibile si può
comprendere soltanto se considerata nelle sue trasformazioni storiche – il principio di queste trasformazioni
risiede nella prassi, o attività sensitiva umana, sensibilità. Si tratta di un rovesciamento del principio della
dialettica hegeliana (l’idea); eppure, questo rovesciamento non divincola la filosofia marxiana dai confini
dello hegelismo: per Hegel l’idea – posta dall’attività dello spirito – è il principio attivo nella realtà, ed il suo
sviluppo dialettico comporta e sorregge il divenire storico; per Marx invece è la materia, il fatto economico –
posto dall’attività della prassi, dei sensi, impegnati nella soddisfazione dei bisogni umani – il principio
operante nel divenire della realtà. Per Marx, riassumendo, l’intera realtà è lo sviluppo dell’attività
sensibile umana che produce la materia economica; i prodotti dello spirito – che costituivano in Hegel la
realtà essenziale – altro non sono che ideologie sovrastrutturali.

In che modo, però, Marx giustifica l’attività sensibile come principio della realtà – della sua
costituzione, del suo sviluppo? Con la gnoseologia critica di Kant si è compreso il contributo della sensibilità
soggettiva nel processo conoscitivo della realtà: si può avere conoscenza soltanto di un’esperienza possibile,
di un’esperienza di cui sia possibile offrire un’intuizione sensibile. Dunque, la conoscenza della natura è
compresa entro i limiti segnati dalle forme a priori della sensibilità (estetica trascendentale). Dopo Kant, il
ruolo dell’intuizione sensibile nella formazione della conoscenza è stato ripreso sia dalla psicologia, sia dalla
fenomenologia – in parte anche dalla fisiologia. La realtà – come essa appare – non è data alla sensibilità; è
invece prodotta, trasformata, dalla sensibilità. Pure, questa percezione deve pur agire su qualcosa di dato:
infatti, come insegna Kant, senza il dato empirico, non è possibile alcuna intuizione sensibile. Sicché, per
fare un esempio, i sensi percepiscono il colore di un oggetto: questo colore è il risultato di una
trasformazione che i sensi hanno operato sulla materia fisica (data) di un oggetto. L’intuizione sensibile può
agire soltanto su una materia empirica già data. Scrive il Gentile (pp. 224-5): “ Il solo dato è tutt’altro che
sensazione. Chi fornisce questo dato? (…) Dio, risponde lo spiritualista; la materia, il materialista”.
Eppure, da quanto visto, si sarà compreso come tale materia sia qualcosa che si dà all’attività sensibile
umana, la quale poi ne opererà una trasformazione in termini di sensazione. Quindi, assumendo la materia
come principio monistico della realtà, pur nel senso pratico e dialettico di Marx, rimarrà inevitabilmente
un residuo di datità materiale ingiustificabile – o irrazionale, dunque irreale. Se vi è una materia che, già

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data, precede l’attività della prassi soggettiva, non sarà possibile assumere tale prassi quale principio unico –
monistico – dell’intera realtà. Occorrerà pertanto ammettere – contro il materialismo marxiano – che si dà
qualcos’altro al di fuori della prassi. Questione scolastica, direbbe Marx, ammonendo a riconoscere nella
materia empirica data una semplice astrazione oggettivistica, che esisterebbe invece solo e soltanto in
relazione all’attività sensibile soggettiva. Ma, dice Gentile, “questa risposta fa ricascare un’altra volta nella
fenomenologia, mentre è alla Logica hegeliana che l’autore intende di opporsi, ed è il materialismo
metafisico che crede di correggere con il suo concetto dinamico della materia. E in questo campo il relativo
– in relazione all’attività sensibile soggettiva, si diceva sopra – deve cedere il luogo all’assoluto”.

Nell’idealismo, che pone nell’idea il principio della realtà, si comprende come sia possibile risalire da questa
materia empirica data – e poi trasformata dai sensi – alla conoscenza di ciò che sorregge e comprende
l’esperienza: ovvero l’a priori, che domina34 l’intera realtà – compresa quella stessa materia empirica data,
più sopra riconosciuta essere ulteriore all’esercizio dell’attività sensibile soggettiva. L’idea – pensiero,
spirito, categorie, ragione – attua il passaggio dall’a posteriori all’a priori: conosciuto il dato dell’esperienza
sensibile, il soggetto può costruire concetti e leggi universali. “La genesi di ogni concetto è necessariamente
empirica”, scrive Gentile; ciò non toglie però che, diversamente dall’attività sensibile marxiana, l’attività
spirituale idealistica possa effettivamente compiere il passaggio all’a priori – all’idea – che è precluso al
materialismo marxiano. La prassi – l’attività sensibile – presuppone infatti una materia già data su cui attuare
la propria attività, ma che non può in alcun modo giustificare (e quindi porre come reale) rimanendo entro il
dominio della realtà sensibile. Con le chiare parole di Gentile: “L’esperienza sensibile suppone sempre lo
stimolo, come un suo indefettibile antecedente; suppone quindi una materia già data. La quale sfugge
dunque all’attività creativa del senso, né può ricevere norma da questo: anzi influisce su questo, e gli detta
norma in qualche misura”. Stando così le cose, si comprenderà come l’attività sensibile, la prassi, non possa
costituirsi quale principio monistico della realtà – come vorrebbe invece il Labriola, che in questo
procedimento ha invece ravveduto un superamento di Hegel. Quindi, con Hegel, è soltanto l’idea, lo spirito,
a poter essere principio monistico della realtà – della sua costituzione, del suo sviluppo dialettico. Questo
spiega l’affermazione hegeliana circa l’identità tra razionale-reale: la realtà è razionale; ovvero, è costituita e
compresa da una ragione (principio, contenuto) che le è immanente. Così annota Gentile:

Il passaggio dall’a posteriori all’a priori, come ragione della realtà, nell’idealismo si
intende; ma nel materialismo di Marx è inconcepibile.

L’attività sensibile di Marx – la prassi come principio monistico della realtà – non può concludere ad un
apriori, che possa giustificare la pretesa marxiana per cui tutto è essenzialmente realtà materiale
(continuamente trasformata dalla prassi – cfr. più sopra, “monismo della sostanza”). Perché possa svolgere la
funzione attribuitale da Marx – o che quantomeno Gentile ascrive alle intenzioni di Marx –, la prassi

34
Gentile, p. 226: “L’idealismo osserva che i concetti, le leggi razionali, dominano la realtà; e così, p. es., non vi sono
corpi chimici che si sottraggano ai rapporti matematici delle rispettive formule”. L’a priori è la ragione della realtà.
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dovrebbe essere concepita non come attività sensibile, bensì come attività dello spirito. P. es., la società è
prodotto di una prassi originaria che non può essere opera di un’attività sensibile, in quanto la società non è
una giustapposizione empirica di meri individui; la società, come realtà originaria, è invece “ vincolo etico,
mente, razionalità (…), relazione, che non si tocca, né si vede, né si ode” – come scrive Gentile. Concepita
come insieme di relazioni, la società trascende la sensibilità; né la costituzione sensibile dei singoli termini
sociali – isolatamente considerati – viene negata; piuttosto, nel concepire l’essenza della società, l’attività
spirituale del soggetto compie una sintesi tra sensibilità ed intelletto, facendone una sintesi a priori: il
concetto di società, la sua ragion d’essere. La prassi marxiana – per come la interpreta e la espone Gentile –
non è né un principio sufficientemente stabile, dal pdv. metafisico; né sufficientemente esplicativo, dal pdv.
gnoseologico. Se approfondita e sviluppata, questa prassi sembra capovolgere le intenzioni filosofiche di
Marx e le sue dichiarazioni materialistiche. Osserva il Gentile (p 229):

Ma che materialismo è dunque codesto? Come ogni materialismo, esso non vuol riconoscere
per reale se non ciò che è sensibile; ma questo sensibile, che è statico per ogni altro
materialismo, il marxismo lo intende dinamico, in perpetuo fieri; donde il suo appellativo di
materialismo storico. Ed ecco che questo materialismo, per essere storico, è costretto a negare
il proprio fondamento: che cioè non vi sia altra realtà all’infuori del sensibile. Questo,
insomma, è un materialismo che, per essere storico, non è più materialismo. Una profonda
contraddizione lo travaglia.

Né è possibile che sia la mera materia sensibile il contenuto della dialettica storica. Già Hegel notava come
lo spirito sia storia, si faccia storia e faccia la storia. La materia sensibile, invece, è sempre identica a se
stessa, è inerte, a-dialettica: e dove non c’è mutamento, non c’è nemmeno storia. La materia marxiana,
quindi, non può essere principio della storia, neppure se fosse considerata nelle trasformazioni cui essa
perviene per opera della prassi: come si è visto, infatti, questa prassi soggettiva – che Marx dice essere
originariamente correlata alla materia – trasforma la materia, ma non la pone, né può di conseguenza
giustificarla senza ricorrere all’attività dello spirito, e cioè trascendendo la sensibilità. Principio della storia è
invece lo spirito, l’attività spirituale, un contenuto in sé mobile, dialettico; quindi coerentemente connesso
con la forma dialettica del procedere storico. Questa coerenza è assente nella metafisica materialista
marxiana – così come Gentile la ricostruisce; occorre tenere a mente ciò, specie considerando come Marx
non definisca mai la propria concezione in termini metafisici. Dialettica e spirito sono due principi – uno
formale, l’altro contenutistico – tra loro conciliabili. Invece, dialettica e materia sensibile (attività
sensibile) sono termini tra loro in contraddizione: il difetto capitale della costruzione metafisica di Marx,
così come della sua filosofia della storia, risiede in una sproporzione tra forma-contenuto della dottrina. Se la
forma della filosofia marxiana della prassi è la dialettica; il suo contenuto è invece la materia sensibile, in sé
a-dialettica. Marx – chiosa Gentile (p. 231) – “non pare si sia minimamente curato di vedere in che modo la
prassi si potesse accoppiare alla materia, in quanto unica realtà”35.

35
Marx non considera mai la materia in sé, al di là dell’esercizio continuo della prassi. In questo senso, egli sembra
negare la sua concezione monistica della realtà e ricadere nel dualismo metafisico da cui intende divincolarsi.
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Il materialismo storico – superfetazione metafisica che si dirama dalla filosofia della storia marxiana – è una
tentata sintesi di Hegel e Feuerbach. Come più sopra notato, Marx intende correggere Hegel con
Feuerbach; Feuerbach con Hegel. Pure, da queste premesse, egli elaborò una dottrina costitutivamente
contraddittoria, per lo stesso motivo – inconciliabilità di forma-contenuto – che era stato rilevato nella critica
gentiliana del materialismo storico in quanto filosofia della storia, e non già metafisica. Tale è la valutazione
ultima di Gentile in riferimento alla filosofia di Marx:

Un eclettismo di caratteri contraddittori è il carattere generale di questa filosofia del Marx .


Molte idee feconde vi sono a fondamento che, separatamente prese, sono degne di meditazione;
ma, isolate, non appartengono a Marx, né possono giustificare l’intendimento del marxismo
come filosofia schiettamente realistica.

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LUKÀCS – STORIA E COSCIENZA DI CLASSE

INTRODUZIONE

In questa raccolta di saggi, L. discute questioni teoriche riguardanti il movimento rivoluzionario comunista,
di cui egli era membro in Ungheria. In particolare, suddette questioni vengono declinate e trattate nei loro
aspetti metodologici. Dunque, L. non intende indagare la correttezza dei contenuti delle teorie marxiane,
quanto piuttosto le loro “premesse e conseguenze metodologiche”. Come emergerà nel corso delle
riflessioni lukacsiane, la chiave per una comprensione esaustiva del metodo di Marx è rappresentata dalla
produzione teorica – e dalla coerenza pratico-politica – di Lenin: la sua opera, dice L., è fondamentale per
comprendere ed applicare correttamente il metodo marxiano, “il giusto metodo per la conoscenza della
società e della storia”: ovvero, per la conoscenza del presente. Esula dagli intendi di L. una trattazione
analitica dei singoli problemi del presente storico a lui coevo; piuttosto, il suo compito dichiarato è quello di
indagare l’essenza e la fecondità del metodo marxiano in relazione alle singole questioni pratiche occorrenti
in una data società – problemi altrimenti insolubili. Il nervo vitale del metodo marxiano è la dialettica: di qui,
l’osservazione di L.: “non è possibile trattare della dialettica concreta e storica senza esaminare da vicino
Hegel, ed il rapporto tra Hegel e Marx”. Soltanto in questo orizzonte di ricerca sarà possibile individuare sia
i passaggi in cui le categorie del metodo hegeliano si sono rivelate decisive per il materialismo storico; sia i
punti in cui le vie di Hegel e Marx si sono divise.

I. CHE COSA È IL MARXISMO ORTODOSSO?

Specificando la domanda: quale è la quintessenza del marxismo? qual è, cioè, quel nucleo di tesi che è
imprescindibile accogliere, per potersi definire autenticamente – ortodossamente – marxisti? Per individuare
questa essenza di fondo del marxismo, osserva Lukàcs, non sarà sufficiente “commentare scolasticamente,
come se fossero versetti biblici, le frasi e le asserzioni che si trovano nelle vecchie opere di Marx ed Engels,
in parte superate dalla ricerca moderna, cercandolo in esse soltanto la fonte della verità”. Il marxismo
ortodosso non può essere un atto di fede, un’accettazione acritica, nei confronti dei risultati della ricerca
marxiana. Né le cose potrebbero stare così, poiché l’ortodossia marxista non concerne il contenuto, bensì il
metodo del marxismo.

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Ortodossia marxista: convinzione scientifica che nel marxismo dialettico si sia scoperto il metodo corretto
della ricerca attorno alla società ed alla storia; che inoltre questo metodo possa essere sviluppato soltanto
nella direzione indicata dai suoi fondatori.

Come già visto, il marxismo è connessione intrinseca ed incessante di teoria e prassi. Nella teoria, infatti,
sono presenti elementi che la rendono veicolo di una determinata prassi; in particolare, nella teoria marxiana
si può rinvenire una serie di momenti che veicola una prassi rivoluzionaria – si tratterà allora di comprendere
quali momenti interni alla teoria rendano questa una prassi, una potenza materiale, secondo l’espressione del
Marx. L’essenza pratica della teoria marxiana trova il proprio fondamento nel metodo dialettico e nel suo
rapporto con l’oggetto. Se ciò che rende pratico-rivoluzionaria la teoria marxiana è la dialettica, allora questo
significa che la dialettica materialistica è in sé una dialettica rivoluzionaria. Ma tale unità di teoria-prassi –
presupposto della funzione rivoluzionaria della teoria – è possibile soltanto se il pensiero comprende la realtà
e, di converso, la realtà comprende il pensiero; soltanto se la funzione storica della teoria consiste nel fatto di
rendere praticamente possibile il passo decisivo del processo storico verso il proprio compimento; soltanto
se, dunque, è data una situazione storica in cui la corretta conoscenza della società si converte, per una classe
sociale determinata, in condizione della propria affermazione nella lotta di classe. Poste queste condizioni –
confermate dalla comparsa storica del proletariato –, bisognerà riconoscere alla teoria di Marx la facoltà
di intervenire materialmente nel processo di rivoluzione della società. Nella misura in cui la teoria non è
altro che la fissazione e la coscienza di un passo storico che deve necessariamente compiersi, essa si
trasforma al contempo in premessa necessaria per il compimento di tale passo, nonché di quello
immediatamente successivo.

Comprendere questa funzione storico-pratica della teoria consente altresì di scorgere l’essenza di questa
stessa teoria: il metodo dialettico. La teoria marxiana può quindi congiungersi alla prassi soltanto nella
misura in cui essa teoria è sorretta da un metodo dialettico – propriamente rivoluzionario. Ciò che rende
rivoluzionario tale metodo è l’assunzione dell’interazione dialettica tra soggetto ed oggetto nel processo
storico: non è possibile concepire il soggetto separatamente (astrattamente) dalla sua relazione con l’oggetto,
e viceversa; dunque, in virtù di questo rapporto correlativo tra soggetto ed oggetto, alla teoria non si
richiederà più di interpretare il mondo – che risulterebbe così oggetto statico dell’intuizione di un soggetto
meramente recettivo – bensì, con la celebre undicesima tesi di Marx su Feuerbach, di modificarlo, cambiarlo.
Per il metodo dialettico (teoria) la questione centrale è dunque la modificazione della realtà (prassi); di qui,
la peculiarità della filosofia di Marx – ed ovviamente di Hegel –, e cioè la rinuncia alla separazione tra teoria
e prassi, metodo e realtà, pensiero ed essere. Nella formula marxiana: “Come in generale accade in ogni
scienza storico-sociale36, le categorie esprimono forme e condizioni di esistenza”. Le categorie dipendono
dall’esistenza e – correlativamente – questa può essere modificata dalle categorie. Se si trascura questo senso

36
Si noti la limitazione alla realtà storico-sociale, da cui è esclusa la natura fisica: nella conoscenza della natura non
sono presenti le determinazioni della dialettica – basti pensare all’esempio di Krug e della deduzione dialettica della
penna.
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della dialettica, dice L., allora essa apparirà un freno all’indagine cosiddetta concreta, spregiudicata, dei fatti;
“una costruzione vuota ed ornamentale, per amore della quale il marxismo fa violenza ai fatti”*.

* [Revisionismo di Bernstein – occultamento del nucleo rivoluzionario della dialettica; pretesa di un


marxismo scientifico fondato sulla liberazione del materialismo storico dai residui della dialettica di Hegel.
Pure, privato della dialettica, il materialismo marxiano perde la propria portata rivoluzionaria; ne deriverà
allora – e questo proposito sarà coerentemente presente nell’attività politica di Bernstein – una
riconfigurazione del marxismo, quale teoria di un avvento graduale e riformistico del socialismo, senza la
necessità di rivoluzione proletaria e lotta di classe].

A questo punto sorge il problema del significato dei fatti da pdv. generalmente metodologico. L’intera
conoscenza della realtà si fonda sui fatti, su ciò che è dato ad un’esperienza possibile. In generale, i fatti sono
allora tali soltanto all’interno di un’elaborazione metodologica: e cioè, i fatti sono necessariamente – sempre
e comunque – appresi secondo un contesto ed uno scopo metodologici, differenti in base al fine con cui si
intende elaborare una conoscenza. Il problema è allora quello di riuscire a riconoscere quali fatti, ed in quale
contesto metodologico, si debbano considerare rilevanti per la conoscenza – in questo caso, la conoscenza
propria del socialismo scientifico. I revisionisti (“opportunisti”) rifiutano il metodo dialettico del
materialismo marxiano, sostituendogli il metodo delle scienze naturali, presentato come l’unico metodo
disponibile per una conoscenza autenticamente materialistica della realtà storico-sociale. Qui, osserva
Lukàcs, occorre rilevare come la priorità in genere riconosciuta al metodo naturalistico altro non sia se
non un prodotto dello sviluppo capitalistico, il quale tende a favorire e replicare una simile impostazione
di pensiero. I fatti puri delle scienze naturali sono derivati da un’osservazione, una sperimentazione, una
spiegazione astratte dei fenomeni naturali: per ricavare i caratteri conformi a legge di un dato fenomeno, il
metodo naturalistico astrae suddetto fenomeno dalla trama delle sue relazioni naturali, così da poterne
osservare le cause e gli effetti in termini rigidamente unilaterali ed infine definirne l’essenza in quantità
misurabili. Scrive L.: “È proprio dell’essenza del capitalismo produrre i fenomeni di questa forma” [forme
di oggettualità].

Gli effetti dello sviluppo capitalistico – il feticismo delle merci, la reificazione dei rapporti umani, la
razionalizzazione del lavoro – trasformano i fenomeni sociali e, contemporaneamente, l’appercezione di essi.
Capitalismo e naturalismo metodologico producono dunque un genere di fatti, in cui questi risultano isolati,
autosufficienti, oggettivi – mentre invece l’isolamento è astrattezza, l’autosufficienza è apparenza,
l’oggettività è parzialità. Di ciò non si rendono conto i revisionisti, misconoscendo così la natura della
dialettica marxiana che – a differenza del naturalismo – non intende la realtà storico-sociale come un insieme
estrinsecamente giustapposto di sistemi parziali e di fatti isolati, bensì come un’unità di relazioni concrete
ed in continuo sviluppo, della quale i fatti isolatamente considerati costituiscono momenti. Ciò che è
concreto per il metodo dialettico è l’unità organica e diveniente dei momenti che la costituiscono, la
realizzano, la sviluppano: concreto, dunque, non è il singolo fatto, bensì l’intero delle relazioni fattuali. In
questo senso bisognerà altresì sottolineare come, a differenza del metodo naturalistico, la dialettica coglie il

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carattere storico dei fatti empirici socio-storici. Poiché il metodo naturalistico fissa i fenomeni, ne
presuppone una costanza ripetibile nel tempo, esso non può riconoscere il carattere storico dei fatti sociali, e
cioè l’appartenenza di tali fatti ad un incessante processo di rivolgimento della realtà storico-sociale; né esso
metodo può supportare un’autentica scienza della società.

Assumendo come scientificamente imprescindibile il metodo naturalistico, l’economia classica borghese non
soltanto disconosce il carattere intrinsecamente storico dei fatti socio-economici, ma si preclude altresì la
possibilità di un’analisi degli sviluppi presenti e prossimi dei medesimi fatti. A tal proposito, si legga quanto
scrive Marx riferendosi all’economia classica: “Per la storia contemporanea in corso è quindi costretta a
considerare come data ed immutabile la situazione economica che si riscontra all’inizio del periodo da essa
considerato”. In altri termini, l’economia borghese – dichiaratamente esatta, naturalistica, positivistica – non
riesce a tenere il passo con lo sviluppo storico dei fatti economici, né quindi potrà pretendere alcuna
autentica scientificità. In ordine al superamento di questa scienza borghesemente condizionata, bisogna
inoltre ricordare come i fatti – la loro forma di oggettualità, anzitutto – siano prodotti non già genericamente
storici, bensì di un’epoca storica ben determinata: in questo caso, l’epoca dello sviluppo capitalistico. Le
forme di oggettualità dipendono necessariamente, essenzialmente, dalle determinazioni poste da una
particolare epoca storica, essa stessa iscritta come momento dialettico dell’intero corso storico. Di
conseguenza, osserva Lukàcs, quella scienza che – non riconoscendo quanto sopra delineato – individui
l’immediata datità dei fatti quale base della fattualità scientificamente rilevante, e che assuma la forma di
oggettualità presente dei fatti come premessa indiscutibile (data) dell’elaborazione concettuale dei fatti
stessi; quella scienza, così configurata, si adagerà placidamente sul piano della società capitalistica,
assumendo acriticamente l’essenza, la forma di oggettualità, la legalità, dei fatti che essa società contribuisce
a produrre – ed a mistificare. Per divincolarsi dalle mistificazioni della società attuale, occorre abbandonare
il pdv. a partire dal quale i fatti vengono assunti come immediatamente dati; occorre cioè accogliere e
trattare i fatti sociali secondo una metodologia storico-dialettica.

L’essenza intima delle cose non corrisponde alla loro forma fenomenica manifesta. Se si intende
comprendere correttamente i fatti sociali, occorre anzitutto cogliere la distinzione tra il nucleo strutturale,
storico, dei fatti e la loro esistenza reale, immediata. Così operando, tuttavia, non si intende affatto di negare
la forma fenomenica dei fatti; piuttosto, ciò che preme è: da una parte liberare i fenomeni da questa forma di
immediatezza intuitiva, trovando le mediazioni tramite cui riferirli alla loro essenza; dall’altra – compito non
meno rilevante – bisogna riconoscere nella forma fenomenica dei fatti una loro manifestazione necessaria.
La forma fenomenica risulta necessaria a causa dell’essenza storica dei fatti, e cioè per il fatto che essi si
sono sviluppati sul terreno di una determinata struttura sociale. Quindi, da un lato si ha l’essenza storica dei
fatti, che richiede necessariamente una mediazione per essere colta; dall’altro lato, invece, la forma
fenomenica fattuale necessariamente immediata. La relazione dialettica consiste dunque in questa duplice
determinazione complementare; in questo contemporaneo riconoscimento-superamento dell’essere

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immediato dei fatti. La dialettica è l’unico metodo di liberazione dalle forme di pensiero instillate e sorrette
dalla forma capitalistica di produzione.

La dialettica, dunque, invita a riconoscere la connessione esistente tra i fatti sociali: questi sono
essenzialmente integrati come momenti della totalità organica dello sviluppo storico. Questa totalità è la
realtà concretamente esistente, nelle sue plurime manifestazioni contraddittorie e sinteticamente divenienti, a
cui non è dato accedere in modo immediato e precostituito. La totalità del reale è prodotto di mediazioni
concettuali: essa, cioè, non è immediatamente data, ma è ricavata tramite la riproduzione nel pensiero del
ritmo dialettico della realtà.

Se l’idealismo si illude che tale riproduzione della realtà nel pensiero sia in verità un processo di
strutturazione della realtà stessa; il materialismo volgare – come lo nomina Lukàcs, riferendolo alla corrente
bernsteiniana – rimane invece ancorato alla riproduzione delle sole determinazioni immediate della fattualità
socio-economica. Così procedendo nella convinzione della sua esattezza scientifica, questo materialismo si
riduce inconsapevolmente ad assumere – senza ulteriore analisi, senza sintesi nella totalità concreta – le
determinazioni apparenti ed astratte (mistificanti) della realtà sociale come fossero il solo fondamento
possibile per una scienza esaustiva della realtà materiale. Marx: “L’assenza di concetto sta proprio nel fatto
di inserire in un contesto meramente riflessivo cose che sono organicamente connesse”; al contrario, il
materialismo naturalistico di Bernstein considera i fatti sociali quasi fossero monoliti indipendenti dal
contesto in cui emergono, spiegandoli poi mediante l’elaborazione di leggi altrettanto astratte, prive di ogni
riferimento alla totalità onnicomprensiva delle relazioni storiche tra i fatti sociali. Così facendo, poi,
l’orientamento naturalistico del marxismo – espressione inconscia delle forme di pensiero capitalistiche –
occulta il carattere storico e transitorio della società capitalistica, facendo inoltre apparire le sue
determinazioni immediate come categorie atemporali, presenti in tutte le forme sociali possibili. Non appena
il marxismo positivistico ha minato la validità del metodo dialettico; non appena le parti non hanno più
trovato nella totalità – elemento metodologicamente prioritario – il proprio concetto; e non appena la totalità
è stata screditata come mera idea priva di carattere scientifico, allora le singole parti – e con esse la loro
legalità riflessiva – si sono presentate come leggi atemporali di ogni società umana 37.

Per contrastare questa deriva, occorre ristabilire il dominio metodologico della totalità sui singoli
momenti: questa soltanto può essere la premessa di metodo e la chiave per una conoscenza storica delle
relazioni sociali. P. es., al fine di meglio comprendere l’importanza del concetto di totalità, si osservi come la
differenza reale dei gradi dello sviluppo sociale si estrinseca molto meno chiaramente nelle modificazioni a
cui sono sottoposti i singoli momenti isolati della struttura sociale, che non nelle modificazioni subite dalla
funzione che suddetti momenti svolgono nel processo storico complessivo. Pur allontanandosi nettamente dal
pensiero ordinario, la considerazione dialettica della totalità è l’unico metodo per cogliere la concretezza e la
37
La contesa tra metodo dialettico-naturalistico è un problema sociale. Riferito allo sviluppo sociale, l’ideale
metodologico delle scienze naturali è un mezzo della lotta ideologica borghese. Per la borghesia è questione vitale,
da una parte concepire la forma del proprio ordinamento produttivo come se fosse eterna; dall’altra, valutare le
contraddizioni socio-economiche come meri fenomeni di superficie, anziché come fattori intrinseci all’ordinamento
produttivo capitalistico.
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complessità della realtà. La totalità dialettica è la categoria autentica, principale, della realtà. La
giustezza di questa concezione si rivela quando si consideri il centro della riflessione marxiana, il sostrato
materiale della sua indagine: ovvero, la società capitalistica, con l’antagonismo ad essa immanente tra forze-
rapporti di produzione. Il metodo delle scienze naturali non ammette contraddizioni, antagonismi, nei propri
oggetti. Tuttavia, in relazione alla realtà sociale, le contraddizioni non sono segni di una comprensione
ancora imperfetta della realtà, ma appartengono invece all’essenza della realtà stessa, della società
capitalistica in particolare. Nell’orizzonte metodologico della totalità, le contraddizioni vengono rilevate e
risolte, senza che tuttavia cessino di esistere contraddittoriamente; piuttosto, esse contraddizioni vengono
comprese in quanto contraddizioni necessarie, ovvero i fondamenti antagonistici di una determinata
formazione sociale.

Lukàcs (p. 15): “La teoria, come conoscenza della totalità, può mostrare una via per il superamento di
queste contraddizioni, soltanto indicando quelle tendenze reali del processo di sviluppo sociale che, nel
corso dello sviluppo medesimo, sono destinate a sopprimere realmente queste contraddizioni nella realtà
sociale”.

Il metodo naturalistico, invece, non può affatto concepire – né favorire – un superamento delle
contraddizioni: questo, nella misura in cui esso metodo non coglie affatto le tendenze realmente,
concretamente, operanti entro i confini della società capitalistica. Così, le scienze socio-economiche fondate
sull’assunzione di questa metodologia non possono che risultare una apologia della società borghese; allo
stesso modo, in quanto tenta di sopprimere – o di ridefinire criticamente – il metodo dialettico intrinseco al
materialismo storico, il marxismo revisionistico di Bernstein consegue il medesimo risultato apologetico
(mistificante) delle scienze di cui sopra, che fissano la struttura sociale capitalistica come forma eterna di
ogni società possibile. Oltre a tali incoerenti – ed ingenue – deviazioni apologetiche, tra le implicazioni
dovute al rifiuto revisionistico del metodo dialettico, bisognerà inoltre annotare la sopraggiunta incapacità
di elaborare una conoscenza della storia, intesa questa non già come sequenzialità di eventi particolari,
bensì come processo unitario, in cui soltanto possono assumere significato i singoli avvenimenti. Dunque, il
metodo naturalistico auspicato dal materialismo di Bernstein ostacola non soltanto l’intendimento dei singoli
fatti sociali, ma anche una comprensione unitaria del processo storico. Scrive Lukàcs (p. 17): “ È senz’altro
possibile che qualcuno conosca un certo evento storico in modo sostanzialmente corretto, senza per questo
essere in grado di cogliere ciò che questo evento è nella sua realtà effettiva, nella sua funzione reale
nell’intero storico cui appartiene; quindi, senza coglierlo storicamente”.

Come più volte ripetuto, la categoria di totalità è metodologicamente fondamentale: si è visto, infatti, che
essa sola permette di elaborare una conoscenza storica unitaria, nella misura in cui essa soltanto rende
possibile la conoscenza della natura storica dei fatti sociali, cogliendo la loro collocazione in contesti
realmente determinati e la loro funzione rispetto alla totalità della realtà sociale. Né la categoria della totalità
sopprime in una identità astrattamente indifferenziata i momenti particolari in essa compresi. Facendo uso
della categoria di totalità, la forma fenomenicamente indipendente dei singoli fatti sociali – o dei singoli

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domini di fatti – si rivela essere mera apparenza, prodotta nel solco dell’ordinamento capitalistico e delle sue
espressioni ideologiche. In verità, i singoli fatti costituiscono momenti dinamici, differenze peculiari,
all’interno di una totalità dialettica, al di là della quale essi non potrebbero sussistere in quanto tali. Da qui,
l’apparente indipendenza fenomenica di cui sopra. La totalità dialettica è un’unità intimamente
differenziata38, costituita di interazioni tra elementi costantemente divenienti. Non bisogna intendere tale
interazione dialettica come un rapporto causale bilaterale tra oggetti altrimenti immodificabili – si ricadrebbe
nel materialismo intuizionista, statico. Qualsiasi oggetto è essenzialmente modificabile, poiché oggetto
storico che esiste in un dato contesto ed intrattiene una data relazione con la totalità. Il rapporto con la
totalità, soprattutto, è di capitale rilievo nella conoscenza degli oggetti: ciò che determina e modifica la
forma di oggettualità degli oggetti è proprio il loro rapporto con questa totalità.

La forma di oggettualità degli oggetti, dunque, dipende dalla totalità in cui essi sono compresi e dalla
funzione che in essa svolgono. Gli oggetti, dunque, non sono di per sé immodificabili; anzi, essi sono
costitutivamente modificabili e – ancora una volta – proprio in virtù del loro collocamento in una totalità
dialettica di relazioni. Scrive eloquentemente Marx: “Un negro è un negro: solo in determinate condizioni
egli diventa uno schiavo. Una macchina filatrice di cotone è una macchina per filare il cotone: soltanto in
determinate condizioni, però, essa diventa capitale; sottratta a queste condizioni, essa non è capitale, allo
stesso modo che l’oro in sé e per sé non è denaro, e lo zucchero non è il prezzo dello zucchero”. La forma di
oggettualità della macchina filatrice, dunque, è quella del capitale, e tale rimane fintantoché la macchina
manterrà la funzione che svolge all’interno del sistema di produzione capitalistico (totalità determinata).
Poiché dunque è possibile avere conoscenza degli oggetti soltanto a partire dalla funzione e dalle interazioni
che essi intrattengono entro una totalità determinata, si può concludere che la sola categoria dialettica di
totalità può comprendere la realtà come presente accadere sociale. In questo orizzonte, si dissolvono le
forme di oggettualità che il sistema capitalistico produce come apparenze: quand’anche siano
riconosciute come manifestazioni necessarie nello stato di cose presente, queste non cessano di essere
apparenze: la macchina filatrice non cessa di apparire come una forma di capitale, pur essendo stata
demistificata la sua forma di oggettualità ordinaria (feticistica). Stando all’ideologia della classe borghese,
infatti, la macchina filatrice di cotone continuerà necessariamente a rappresentare il capitale, e continuerà
dunque ad apparire immediatamente come tale – come se questa forma fosse una determinazione eterna della
macchina stessa*.

* P. 19: “Le determinazioni riflessive delle forme feticistiche dell’oggettualità hanno la funzione – ideologica
– di far apparire i fenomeni della società capitalistica come essenze sovra-temporali. La conoscenza della
reale oggettualità di un fenomeno, del suo carattere storico e della sua funzione reale nell’intero sociale
formano dunque un atto indiviso della conoscenza. Questa unità viete lacerata da un’impostazione
apparentemente scientifica”.

38
Con Marx: “Il risultato a cui perveniamo non è il fatto che produzione, distribuzione, scambio, consumo, sono
identici, ma che essi formano i membri di una totalità, differenze all’interno di un’unità”.
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Per celare il proprio carattere storico e transeunte, il capitalismo riproduce forme di oggettualità che
occultano l’essenza reale (concreta) dei suoi fenomeni costitutivi. Questo occultamento diventa possibile
nella misura in cui tutte le forme in cui il mondo presente si manifesta all’uomo della società capitalistica – e
dunque in primo luogo le forme economiche – occultano la loro essenza di forme esprimenti rapporti tra
uomini, presentandosi invece come forme di rapporti tra cose. Con Engels: “L’economia non tratta di cose,
ma di rapporti tra persone e, in ultima istanza, tra classi; ma tali rapporti sono costantemente legati alle
cose e come cose dunque appaiono”. Pertanto, il metodo dialettico deve demistificare tanto l’eternità, quanto
la cosalità, delle categorie e delle determinazioni borghesi. Per quanto riguarda la cosalità, si noti come in
ogni categoria economica viene propriamente concettualizzato un determinato rapporto tra gli uomini ad un
determinato stato del loro sviluppo sociale; poiché l’ordinamento economico costituisce la struttura
fondamentale di una società, ciò significa che la stessa società può essere concepita soltanto come
prodotto di questi rapporti umani, nonché di una serie di forze che, generate da questi medesimi rapporti,
si sono sottratte al loro controllo cosciente.

Per queste ragioni, le categorie economiche sono dialettiche in un duplice senso: da una parte, in qualità di
categorie puramente economiche, esse si trovano in una costante interazione che, una volta compresa,
consente di conoscere i meccanismi e le legalità operanti in un dato segmento temporale dello sviluppo
sociale; d’altra parte, invece, poiché sorgono da rapporti umani (ed anzi contribuiscono al processo della loro
trasformazione), queste medesime categorie esprimono l’essenza di un dato ordinamento sociale nella sua
totalità. Dunque, con altre parole, se da una parte le categorie economiche interagiscono tra di loro, rendendo
così possibile l’elaborazione di teorie economiche; dall’altra, mantenendo intatto il rapporto con il sostrato
reale da cui provengono, esse rendono manifestamente visibili ed intelligibili i rapporti umani correnti in una
data società. La produzione e la riproduzione di una determinata totalità economica sono intrattengono una
relazione dialettica e necessaria con la produzione e la riproduzione di una determinata società nella sua
interezza.

Con Marx: “Il processo di produzione capitalistico non produce e riproduce soltanto plusvalore [I funzione
categorie economiche], ma produce e riproduce anche il rapporto capitalistico stesso: da un lato il
capitalista, dall’altro l’operaio salariato [II funzione]”.

Produrre, riprodurre – prodursi, riprodursi: attributi essenzialmente riferibili al dispiegamento della realtà.
Su questo punto occorre rilevare una sostanziale affinità tra la filosofia hegeliana ed il materialismo storico:
infatti, sia Hegel sia Marx concepiscono l’esistenza della realtà in termini dinamico-dialettici: la realtà pone
se stessa e, contemporaneamente, pone le condizioni per il superamento di sé, in un processo continuamente
diveniente. Pure, su questo stesso piano emerge anche una differenza non meno decisiva tra i due pensatori
in relazione al modo di concepire la realtà del processo storico unitario. Se per entrambi questo processo
deve essere inteso dialetticamente; per Hegel il principio che muove la storia è lo spirito, per Marx è invece
la materia sensibile. Ma, osserva Marx, assumendo lo spirito come principio della dialettica storica, lo Hegel
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espone una dialettica in cui si ripresenta la dualità tra pensiero-essere: dunque, una dialettica storica
inevitabilmente apparente. Con le parole di Marx: “In Hegel lo spirito assoluto della storia ha nella massa
(nei popoli naturalmente esistenti) il suo materiale e solo nella filosofia la sua espressione adeguata”: e cioè,
il pensiero cosciente dello sviluppo storico si produce soltanto quando lo spirito “ha già inconsapevolmente
compiuto il movimento reale”. Dove persiste una separazione netta tra elementi, non si dà dialettica, né
quindi propensione pratica rivoluzionaria.

Secondo Marx, Hegel non seppe sviluppare pienamente la portata storica del metodo dialettico: così facendo,
dunque, egli non seppe nemmeno cogliere le forze reali che muovono la storia, individuando invece nei
popoli – più precisamente in un mitologico spirito del popolo, e non già nel sostrato materiale su cui si basa
l’esistenza di un popolo – il veicolo trainante lo sviluppo storico. La ragione di questa incomprensione
hegeliana è duplice: da una parte, al tempo in cui si veniva formando il sistema hegeliano, le forze materiali
dello sviluppo storico non erano ancora sufficientemente visibili; dall’altra, nonostante gli sforzi in direzione
opposta, lo stesso Hegel – dice Marx – rimase prigioniero del dualismo kantiano tra pensiero-essere,
soggetto-oggetto, che gli precluse la possibilità di pensare la materia sensibile non già come oggettualità
immutabile già data all’intuizione, bensì, richiamando la I tesi su Feuerbach, come attività umana sensibile,
come prassi.

Stando a questa interpretazione marxiana, bisogna imputare ad Hegel l’elaborazione di concetti mitologici, in
cui ancora sopravvivono valori eterni, a-storici. Con Lukàcs, un concetto mitologico esprime l’inafferrabilità,
da parte del pensiero umano, di un fatto fondamentale dell’esistenza – un fatto che ha implicazioni a cui non
è possibile sottrarsi. L’incapacità di penetrare questo fatto fondamentale trova un surrogato intellettuale in
forze trascendenti, che costruiscono e strutturano in modo mitologico la realtà effettiva, il rapporto tra gli
oggetti, il rapporto degli uomini con gli oggetti, le evoluzioni storiche di questi medesimi rapporti. Dunque,
un concetto mitologico altro non è se non un concetto trascendente, ovvero irriducibile ad un sostrato
materiale. Per come lo concepisce Hegel, sebbene comprenda in sé l’idea di totalità diveniente, lo spirito
assoluto è una mitologia. D’altra parte, invece, riconoscendo nel sostrato materiale il principio di
produzione-riproduzione della realtà, la base a partire da cui la vita umana può essere realmente cosciente di
sé, Marx ha conseguito il punto di vista tramite cui diveniva possibile rimuovere qualsiasi mitologia
trascendente e, soprattutto, concepire l’identità di pensiero ed essere, spirito e materia.

Soltanto assumendo questo punto di vista, il nucleo del materialismo marxiano – non è la coscienza
dell’uomo che determina il suo essere, ma il suo essere sociale che determina la sua coscienza – può andare
al di là della sfera puramente teoretica, e coinvolgere al contempo il problema della prassi. Infatti, soltanto
riconoscendo la caratura sociale dell’essere inerente alla vita umana, sarà possibile cogliere la relazione
dialettica tra pensiero ed essere: in questo senso, si avrà piena coscienza di come l’essere sia prodotto
dell’attività umana, e non già mera datità inerte, dinanzi alla quale il soggetto è costretto alla passività
recettiva. L’attività umana – pensiero, spirito, soggetto, prassi – è l’elemento fondamentale nella
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trasformazione dell’essere che, a sua volta, retroagisce sulle determinazioni della suddetta attività. L’uomo è
soggetto-oggetto dell’accadere storico-sociale. Al contrario, l’essere mistificato dalla ideologia capitalistica
– ovvero le forme sociali presentate come determinazioni naturali e sovratemporali – è posto dinanzi
all’uomo come un dato rigido, immodificabile, indisponibile a qualsiasi trasformazione pratica operata dal
soggetto. Al più, entro questo orizzonte ideologico e mistificato, la prassi diviene una possibilità riservata
alla coscienza individuale – all’individuo borghese isolato nella società: la prassi, cioè, viene trasfigurata in
una forma etica.

La società capitalistica è mistificante, sotto ogni riguardo: soprattutto, essa è organizzata in modo così
capillare e surrettizio da comprendere e distorcere tutti i rapporti inter-umani, fino ad apparire alla coscienza
dei singoli individui come la sola realtà sociale umanamente possibile: anzi, come la realtà stessa. Pur
tuttavia, solamente con l’apparire della classe proletaria può giungere a compimento la conoscenza
della realtà sociale, nella misura in cui si è trovato nel punto di vista del proletariato il punto da cui la
società è unitariamente visibile. Poiché per il proletariato è di vitale importanza (prassi) conoscere
chiaramente la propria situazione di classe; e poiché questa situazione diviene comprensibile soltanto
nell’ottica di una conoscenza globale della società, si potrà allora comprendere per quale ragione il
materialismo storico risulti essere – con le parole di L. – “ad un tempo la teoria delle condizioni di
liberazione del proletariato, ed insieme la teoria del processo complessivo dello sviluppo sociale”. In altri
termini, solamente maturando una conoscenza dell’intera struttura sociale, il materialismo storico può
considerarsi premessa necessaria per la prassi rivoluzionaria proletaria.

Dunque, nel materialismo storico – espressione del punto di vista del proletariato, della sua situazione
storico-sociale – vengono a coincidere la conoscenza di sé del proletariato e la conoscenza della totalità
sociale39; in questo senso, il proletariato è soggetto ed oggetto della propria conoscenza – allo stesso modo
in cui risulta essere soggetto ed oggetto della propria attività rivoluzionaria: è soggetto perché agisce in linea
con la propria presa di coscienza teorica; è oggetto in quanto (il proletariato) viene trasformato dalla propria
stessa attività. Maturata la presa di coscienza circa la propria condizione alienata, il proletariato può e deve
emanciparsi. Pure, esso non potrà emanciparsi senza prima sopprimere – negare – le proprie condizioni di
vita; ma per sopprimere tali condizioni, esso proletariato dovrà altresì sopprimere tutte le forme sociali
capitalistiche: ovvero, tutte le condizioni che regolano ordinariamente la vita nella società capitalistica. Per
emancipare se stessa, la classe proletaria – mediante la lotta di classe – dovrà rivoluzionare l’intero assetto
sociale capitalistico, che le impone inesorabilmente le condizioni di vita (alienata, reificata) di cui sopra.

Non bisogna separare l’essenza metodica del materialismo storico dalla attività pratico-critica del
proletariato: la conoscenza della realtà ottenuta mediante il metodo dialettico coincide con il punto di vista
del proletariato: dunque, coincide con la coscienza che il proletariato sviluppa della propria condizione nella
società borghese e della società borghese in generale; questa coscienza è premessa necessaria per la lotta di

39
Marx, Sacra famiglia: “Nelle condizioni di vita del proletariato sono riassunte tutte le condizioni di vita dell’odierna
società, nella loro forma più inumana”.
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classe proletaria. In quanto prodotti dello stesso sviluppo storico-sociale, materialismo storico e pdv.
proletario sono correlati: anzi, il materialismo storico non può sussistere al di là del punto di vista del
proletariato – dal quale soltanto, come si è già detto, può derivare una conoscenza reale della totalità
sociale. Per esplicitare ulteriormente questo passaggio, e per riprendere una questione di capitale rilievo: il
riconoscimento della totalità quale presupposto metodologico della scienza sociale è un prodotto della storia
in duplice senso. Da un lato, la possibilità formale di questa categoria – così come Marx la intende – dipende
dallo sviluppo socio-economico che ha prodotto il proletariato e, con questo, il mutamento delle forme
relazionali umane e delle forme di oggettualità; dall’altro lato, la possibilità formale diviene reale soltanto
con lo sviluppo graduale del proletariato stesso.

Quale è lo scopo finale della lotta proletaria, del movimento operaio? Certo la rivoluzione sociale,
l’istituzione di una forma comunistica di produzione sociale. Questo scopo finale, osserva L., non è una
condizione che in qualche modo attenda il proletariato, come Stato futuro, alla fine del suo movimento, anzi
quasi indipendentemente da questo. Piuttosto, la forma in cui il proletariato deve intendere tale scopo finale –
al fine di sorreggere la propria prassi rivoluzionaria – è quella della presa di coscienza del fatto che ogni
propria azione è costitutivamente in rapporto con l’intero del processo sociale. Lo scopo della lotta
proletaria è la presa di coscienza del fatto che la lotta rivoluzionaria trasforma non soltanto la condizione
proletaria, bensì l’intera società. Scrive Lukàcs: “Il momento della lotta quotidiana acquista realtà
solamente attraverso questo rapporto cosciente con l’intero della società. (…) Nel rapporto di tutti i
momenti parziali con le loro radici nell’intero diventano visibili quelle tendenze che spingono verso il centro
della realtà, verso ciò che si suole chiamare scopo finale ”. Emerge nuovamente la centralità indissolubile
dell’unità teoria-prassi.

Lo scopo finale così configurato, dunque, non sussiste in qualità di ideale regolativo astratto, esterno alla
lotta della classe proletaria; piuttosto, esso è intrinseco ai vari momenti concreti della lotta, si pone come
direzione di riferimento per le singole azioni rivoluzionarie, altrimenti costrette ad una dimensione
particolare, e non già universale. Ogni azione rivoluzionaria concreta deve prendere coscienza della sua
direzione: la società, l’intero. In ogni azione rivoluzionaria concreta deve esprimersi la sua provenienza
dall’intero, la sua direzione verso l’intero. Quanto più tale espressione diviene limpida e diffusa, tanto più
aumenta la responsabilità della classe proletaria. A questo punto, si potrà riprendere la questione iniziale del
marxismo ortodosso. La funzione del marxismo ortodosso è quella di saldare questa responsabilità del
proletariato, richiamando costantemente la necessità (pratica) di pensare il rapporto tra il momento
presente e la totalità del processo storico. Il marxismo ortodosso deve favorire la coscienza della caratura
essenzialmente storica del momento presente – e dunque dei compiti che questa storicità impone. Per ciò
fare, il marxismo ortodosso dovrà incessantemente contrastare l’influenza mistificante dell’ideologia
borghese sulla coscienza del proletariato – nel caso qui trattato, l’influenza del marxismo revisionista.

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II. ROSA LUXEMBURG MARXISTA

Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è tanto la priorità che quello
assegna alle forme economiche nella spiegazione del processo storico, quanto invece il punto di vista della
totalità. La categoria della totalità – il dominio dell’intero sulle parti – è l’essenza del metodo di Marx, che
egli mutua da Hegel e, riformulando secondo nuovi principi, pone a fondamento di una nuova scienza
proletaria, marcatamente rivoluzionaria. La caratura rivoluzionaria della scienza marxiana non consiste
solamente nel fatto che essa contrappone contenuti rivoluzionari alle elaborazioni ideologiche del pensiero
borghese, concentrandosi invece nell’essenza propriamente rivoluzionaria del metodo dialettico: la
categoria di totalità è il veicolo del principio rivoluzionario nella scienza.

Come più sopra accennato, il principio rivoluzionario interno al metodo marxiano, già latamente presente
nella dialettica hegeliana, implica in primo luogo un radicale rivolgimento metodologico rispetto
all’impostazione delle scienze borghesi. Infatti, mentre la scienza borghese attribuisce – ingenuamente o
criticamente – legalità autonoma e realtà effettiva a quelle mere astrazioni che sorgono dalla considerazione
intuitiva e individualistica degli oggetti della ricerca, la scienza marxiana sopprime e supera tali
considerazioni parziali, elevandole e riducendole a momenti dialettici di una totalità. Sebbene l’isolamento
astrattivo degli elementi sia certamente inevitabile, necessario dal pdv. delle scienze particolari, esso deve
tuttavia essere inteso soltanto come mezzo per la conoscenza dell’intero: in questo modo, ogni elemento
astrattamente considerato, ogni dominio specifico dell’indagine scientifica, rimarrà iscritto nel contesto di
una totalità che presuppone e richiede al fine di poter esistere, e sarà infine possibile una scienza unitaria
dello sviluppo della società come totalità.

La categoria di totalità non determina solamente l’oggetto, ma anche il soggetto della conoscenza. Nelle
produzioni ideologiche borghesi, il soggetto è l’individuo – dal punto di vista del quale non si può
raggiungere alcuna totalità. Lo stesso soggetto, dunque, deve costituirsi in quanto totalità: infatti, data la
correlatività di soggetto-oggetto, la già annotata totalità dell’oggetto può essere posta soltanto se il soggetto
che la pone è esso stesso una totalità. Nella società moderna, solamente le classi rappresentano un
soggetto in quanto totalità. L’economia classica borghese – Smith, Ricardo, Malthus – ha sempre
considerato il processo capitalistico dal pdv. dell’individuo, del singolo capitalista, sviluppando di
conseguenza una serie di contraddizioni insolubili che Marx, operando una svolta metodologica, demistifica
assumendo i problemi dell’intera società capitalistica come problemi delle classi in cui essa è strutturata –
borghesia capitalistica e proletariato, intesi come soggetti di una totalità. Non bisogna dunque intendere le
questioni sociali come riferibili a singoli individui o gruppi – sociologicamente pensati; la classe sociale non
è un segmento sociologicamente rilevabile di una data società.
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Dopo decenni di volgarizzazioni e fraintendimenti, l’opera di Rosa Luxemburg – L’accumulazione del
capitale – riprende la questione sociale dal punto di vista propriamente dialettico della totalità. Negli ultimi
decenni del XIX sec., infatti, si registra un appiattimento del marxismo – revisionismo – sulle forme
scientifiche borghesi, generalmente riluttanti alla comprensione, quindi all’ammissione, del metodo
dialettico. Pure, le conseguenze necessarie di questo atteggiamento revisionistico sono state infine imposte
all’evidenza degli esponenti di questa corrente – su tutti Bernstein, Bauer. Lo sviluppo economico
dell’epoca imperialistica, infatti, ha reso sempre più impossibili non soltanto gli attacchi apparenti – quelli
revisionistici – al sistema capitalistico, ma anche le analisi falsamente scientifiche dei fenomeni sociali
astrattamente considerati. Il colonialismo imperialistico ha rappresentato l’insorgere di un bivio capitale
nella storia del marxismo: diveniva infatti inappellabilmente necessario o considerare dialetticamente
l’intero sviluppo sociale, ed in tal caso dominare il fenomeno dell’imperialismo dal pdv. teoretico ed insieme
pratico; oppure sottrarsi a questo appello, limitandosi ad indagare dal pdv. di una scienza particolare i diversi
momenti nella loro astratta singolarità.

L’orientamento ad un marxismo volgare (o borghese) e l’attitudine a-dialettica dei revisionisti (o


opportunisti) emergono chiaramente nelle posizioni da questi sostenute nel dibattito attorno al problema
dell’accumulazione, sollevato dall’opera di Luxemburg. Anziché dibattere circa la correttezza della
soluzione proposta da Luxemburg, i suoi avversari negavano che quello dell’accumulazione rappresentasse
un problema intrinseco allo sviluppo capitalistico. In linea di continuità con i presupposti del revisionismo –
dunque con il pdv. metodologico dell’economia e delle scienze borghesi: ovvero, con il pdv. del singolo
individuo capitalista – l’accumulazione del capitale non costituisce, né potrebbe farlo, un problema effettivo.
Dalla prospettiva del singolo capitalista, infatti, l’accumulazione illimitata di capitale – e ciò che la precede,
ovvero una produzione infinita di plusvalore – non può rappresentare una contraddizione interna al
capitalismo, che egli considera un sistema regolato da leggi eterne, immutabili, alle quali occorre adeguare il
proprio faire e laisser faire. Al più, l’accumulazione potrà rappresentare un problema che insorge
accidentalmente, ma niente affatto avere un legame con il destino complessivo del capitalismo.

Da quanto più sopra accennato, il movimento revisionista – che nella teoria politica si costitutiva come
opportunismo, mentre tra le formazioni politiche di fine XIX sec. rappresentava il sostrato teorico della
socialdemocrazia – non potrà che apparire l’espressione ideologica di quella aristocrazia operaia piccolo-
borghese che, in piena espansione imperialistica, era subdolamente cointeressata allo sfruttamento intensivo
e disumano delle risorse mondiali e, tuttavia, tentava miseramente di sfuggire al proprio destino:
all’imminente guerra mondiale. Per queste ragioni, i revisionisti socialdemocratici non potevano non
concepire lo sviluppo capitalistico come se l’accumulazione si potesse realizzare nello spazio vuoto delle
formule marxiane40, ovvero senza ingenerare problemi, conflitti, guerre. Da qui, certo senza volerlo,
40
Lukàcs, p. 41: “Bauer e soci non hanno capito che, per principio, con queste formule non si coglierà mai la realtà
economica, dal momento che il loro presupposto è un’astrazione da questa realtà complessiva – da cui deriva pertanto
la considerazione della società come se consistesse soltanto di capitalisti e proletari”.
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inconsciamente, i revisionisti divennero essi stessi custodi di quella eternità ideologica del capitalismo, e
delle fatali e rovinose conseguenze sociali, politiche, militari, culturali di questo ordinamento economico,
che essi pure intendevano colpire e riformare gradualmente.

All’opposto delle suddette distorsioni ideologiche, Luxemburg si situa invece in linea con i presupposti
metodologici marxiani. Per confutare i suoi oppositori, la filosofa polacca – seguendo l’esempio del Marx di
Miseria della filosofia – delinea una trattazione dal pdv. storico della letteratura concernente la questione
dell’accumulazione. Questa forma della strutturazione espositiva è riconducibile – ancora una volta – al
metodo dialettico che, soprattutto nella hegeliana Fenomenologia dello Spirito, presenta una
complementarietà tra storia della filosofia e filosofia della storia. Traducendo questa formula nei termini del
problema qui trattato, sarà possibile concludere alla complementarietà tra l’esposizione storica di una
letteratura scientifica e l’evoluzione storica dei nessi socio-economici alla base di quella forma di
elaborazione ideologica. Pertanto, posta la correlazione marxiana tra ideologia ed economica, si comprenderà
come l’esposizione scientifica di un problema costituisca una forma peculiarmente espressiva di una data
totalità sociale, delle sue possibilità e delle sue contraddizioni. La trattazione storica di una data
letteratura riflette la problematicità insita ad un processo storico. Con Hegel, la storia della filosofia
riflette la filosofia della storia. Dunque, in Rosa Luxemburg così come in alcune parti dell’opera di Lenin, è
rinvenibile un’esposizione storico-letteraria della genesi dei problemi concreti trattati: così facendo, scrive
Lukàcs, “essi fanno emergere con una vivezza altrimenti irraggiungibile il processo storico stesso, di cui la
loro stessa impostazione è concretamente il frutto”. Unità metodologica di teoria-storia, pensiero-essere: in
questa prospettiva, conclude lo stesso L., “la storia del problema, in relazione al problema stesso, non
diviene affatto un’inutile zavorra di dati espositivi”.

Ammettere il problema dell’accumulazione equivale ad ammettere l’interna contraddittorietà del capitalismo,


così destinato ad una crisi mortale, dunque impossibilitato ad una sussistenza eterna. Scrive Luxemburg: “ È
chiaro che, una volta ammessa l’illimitata accumulazione del capitale, si è anche provata l’illimitata
validità del capitale stesso. Se il modo di produzione capitalistico è in grado di assicurare un incessante
accrescimento delle forze produttive, allora esso è imbattibile”.

Come si potrà intendere, il problema dell’accumulazione del capitale non è affatto astrazione concretamente
inservibile: infatti, tale problema conduce alla questione essenzialmente storica circa le concrete condizioni
di possibilità di un’accumulazione illimitata. La questione diviene la seguente: sono concretamente possibili
condizioni tali per cui sia possibile accumulare infinitamente denaro in un orizzonte mondato finito?
Dal pdv. capitalistico, l’inconcepibilità di simili condizioni equivale ad ammettere l’impossibilità di
un’espansione illimitata delle forze di produzione, e pertanto la necessità storica di una crisi irreversibile del
sistema capitalistico. Per questa ragione, ed in continuità con quanto più sopra riportato, il marxismo
revisionista è necessariamente portato – per via dei suoi interessi economici di classe – a disconoscere il
problema dell’accumulazione. Così facendo, i revisionisti alla Bauer, dice Lukàcs, risultano essere dei
prosecutori del velleitario programma di Proudhon: preservare gli aspetti buoni del capitalismo, evitando

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quelli cattivi41. Ma, come insegna Marx, questi aspetti cosiddetti cattivi ineriscono indissolubilmente
all’essenza del capitalismo; in questo senso, dunque, l’aspetto cattivo dell’accumulazione non è affatto
risolvibile come problema parziale e scindibile dal contesto unitario del capitalismo: non è affatto
risolvibile, cioè, senza una netta negazione del capitalismo. Dunque, non è concepibile un capitalismo
senza gli aspetti cosiddetti cattivi – tra essi bisogna comprendere non soltanto lo sfruttamento della classe
operaia, ma anche la reificazione dei rapporti umani, l’omologazione ideologica della cultura, l’imperialismo
economico, l’inquinamento ambientale, e così via.

Suddette posizioni ed implicazioni sono il diretto risultato del rifiuto revisionista di una metodologia
dialettica e della conseguente assunzione di un individualismo metodologico. Dal pdv. dell’individuo
empirico – sia esso il capitalista, o il singolo proletario – il mondo circostante appare come qualcosa di
inavvicinabile, di insensato e fatale, rispetto al quale egli si riconosce essenzialmente estraneo. Un mondo
così configurato appare inoltre inesorabilmente sottratto ad ogni influenza proveniente dalla singola azione
individuale – dinanzi ad un simile mondo, l’individuo è costretto ad una passività meramente contemplativa.
In questo orizzonte esperienziale, ideologicamente confermato dalle apologie scientifiche borghesi, sono
disponibili al singolo individuo soltanto due possibilità pratiche – la tecnica, l’etica: entrambe vie
puramente apparenti per una modificazione attiva del mondo, dice Lukàcs. Al contrario, la prassi marxiana
è una trasformazione radicale della realtà, che risulta possibile soltanto ove si concepisca l’unità dialettica
di teoria-prassi, soggetto-oggetto, che viene invece scissa nella considerazione borghese, a-dialettica, della
realtà. Scrive Lukàcs (p.50):

La realtà può essere afferrata e penetrata soltanto come totalità e solo un soggetto, che sia
esso stesso una totalità, è in grado di compiere questa penetrazione – che trasforma la realtà.

Al di là della categoria di totalità, la realtà non può essere concepita e compresa se non come
giustapposizione affatto coerente di momenti parziali. Sulla realtà in quanto totalità di parti interconnesse,
dunque, potrà operare soltanto un soggetto che esprima esso stesso il pdv. di una totalità: un soggetto che,
sviluppata una conoscenza complessiva della realtà in cui è compreso, possa esprimere un’azione coerente
con tale oggetto di conoscenza: un’azione che sia trasformativa rispetto ad un intero.

La totalità che deve essere conosciuta e trasformata dal soggetto è il processo storico nella sua realtà
diveniente; si comprenderà certo come nessun individuo particolare, nessun gruppo disomogeneo di
individui, possa agire in senso trasformativo rispetto a questa realtà unitaria ed onnicomprensiva. Il soggetto
di un’autentica prassi – di un’attività pratico-critica rivoluzionaria – dovrà essere esso stesso una totalità

41
Lukàcs, p. 48: “I marxisti di centro sono diventati i portavoce ideologici della società borghese. Essi auspicano un
capitalismo altamente sviluppato, ma senza eccessi imperialistici; una produzione regolata, ma senza le perturbazioni
della guerra”. Nella stessa direzione convergono le parole di Luxemburg: “Questa concezione tende ad ammonire la
borghesia che imperialismo e militarismo le sono funesti dallo stesso pdv. dei suoi specifici interessi di classe”.
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in cui si compie l’unità di teoria e prassi: in questa dinamica, il soggetto conosce la totalità del mondo in cui
già agisce, dunque matura una conoscenza dialettica e, in base a questa, agisce nuovamente sul mondo;
quindi viene modificato dalla sua stessa azione e – soprattutto – dagli effetti da questa indotti sul mondo, e
così via, in un incessante divenire del soggetto e del mondo. Nella società moderna questo soggetto, esso
stesso totalità, è la classe sociale, in specie la classe proletaria, che può trasformare la realtà sociale nella
sua totalità tramite un’autentica prassi, la lotta di classe – che supera l’ideologia fatalistica di un
capitalismo eterno, nonché l’apparente praticità della tecnica e dell’etica individuale. La lotta di classe – e la
sua necessità – è prodotto dello sviluppo storico stesso. A tal proposito, Luxemburg scrive: “ La conquista
del potere (tramite lotta di classe) di grandi masse popolari coscienti può essere solo il prodotto di un crollo
in atto della società borghese. In ciò si rileva anche la legittimazione di questa conquista di potere: i
contrasti sociali e politici, infatti, sono il prodotto dell’insostenibilità economica del sistema capitalistico”.

“Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata infligge a se stessa producendo il proletariato
stesso”, scrive Marx. Il proletariato è dunque sia prodotto della crisi permanente del capitalismo, sia, il
soggetto che porta a compimento le tendenze alla crisi interne al capitalismo stesso. Il proletariato agisce in
quanto conosce la propria situazione; e conosce la propria situazione, in quanto è in lotta contro il
capitalismo. Esso, conoscendo la propria situazione, sviluppa una coscienza di classe. Questa coscienza non
è affatto qualcosa di stabilmente dato; piuttosto, essa matura al passo con i gradi dello sviluppo sociale: in
questo senso, la coscienza di classe del proletariato è la coscienza della sua posizione nello sviluppo
storico della società. Di conseguenza, il carattere praticamente rivoluzionario della coscienza di classe si
manifesta nella sua forma autentica soltanto nel momento in cui il processo storico stesso impone che essa
intervenga; oppure, il che è la medesima cosa, la coscienza di classe manifesta pienamente se stessa nel
momento in cui una crisi economica si inasprisce a tal punto da imporre a questa coscienza di spingersi fino
all’azione rivoluzionaria. Fintantoché la crisi del capitalismo non si acutizza, la coscienza proletaria rimane
latente, potenziale: rimane incosciente.

Pure, lo stato del processo storico che imprime alla coscienza di classe del proletariato un carattere latente, di
mera istanza potenziale, deve pur produrre una forma fenomenica reale che, come tale, intervenga
attivamente nel corso del processo storico. Questo grado della coscienza di classe proletaria è la forma
del partito. Per i revisionisti – per i volgarizzatori meccanici, scrive L. – il partito costituisce una mera
funzione di organizzazione del proletariato. D’altra parte, Luxemburg ha correttamente riconosciuto che
l’organizzazione del proletariato rappresenta più una conseguenza che un presupposto del processo
rivoluzionario, ed anzi ha concluso che il proletariato si organizza in classe solamente attraverso questo
stesso processo. Il partito, infatti, non può né indurre, né impedire, il processo rivoluzionario, il quale emerge
dal movimento storico interno alla società. L’organizzazione partitica del proletariato è conseguenza di
un processo rivoluzionario già in atto. Per quanto riguarda la funzione specifica del partito, Lukàcs scrive
(p. 54):

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Al partito spetta l’alta funzione di essere portatore della coscienza di classe del proletariato –
e della coscienza della sua missione storica.

Di contro alla posizione, solo apparentemente più realistica, che attribuisce al partito soltanto compiti di
organizzazione, la concezione di Luxemburg si trasforma in fonte di attività autenticamente rivoluzionaria
del partito. Sorto nel corso di un processo rivoluzionario già visibilmente in atto, nell’inasprirsi delle tensioni
e della lotta di classe, il partito si costituisce come “realtà operante, infondendo nel movimento spontaneo di
massa la verità che risiede in esso, ed elevando questo movimento dalla necessità economica della sua
origine alla libertà dell’agire cosciente” (Lukàcs, p. 54) – di qui si deduce come sia autenticamente libero
l’agire cosciente della necessità della propria determinazione in rapporto ad una totalità dialettica. Il partito,
dunque, non deve tanto organizzare il proletariato impegnato nell’agone classista, quanto invece – e
soprattutto – sviluppare e diffondere la coscienza di classe proletaria; a quel punto, la massa che agisce in
conformità con tale coscienza, si raccoglierà sempre più saldamente, risolutamente, coscientemente
(liberamente) attorno alla causa del proletariato. Il partito deve produrre ed incentivare una conoscenza – una
coscienza – che sia di supporto ad una prassi autenticamente rivoluzionaria. Esso è veicolo della coscienza di
classe proletaria e, mediante essa, della prassi rivoluzionaria. [paragrafo importante].

La forza del partito è una forza primariamente morale – la coscienza di classe è l’etica del proletariato –,
prima ancora che una forza tecnico-amministrativa, o politica. Questa forza morale viene costantemente
accresciuta dalla fiducia che le masse, spontaneamente e necessariamente rivoluzionarie, ripongono nel
partito come forma visibile della propria coscienza di classe – ancora non pienamente maturata. Il partito è il
luogo in cui le masse rivoluzionarie devono prendere piena coscienza di sé. Separando ciò che per sua natura
è inscindibile – ovvero teoria e prassi, pensiero e storia; rifiutando di conseguenza il metodo dialettico, i
revisionisti socialdemocratici si sono preclusi da sé la possibilità di formare un partito ed una classe
proletaria autenticamente attivi in direzione rivoluzionaria. D’altra parte, invece, Rosa Luxemburg è un
esempio vivente di attività rivoluzionaria, di unità teoria-prassi, di marxismo ortodosso; fino al punto da aver
consacrato la sua stessa vita per la liberazione economica, politica, ideologica del proletariato e dell’intera
società. Guida spirituale del proletariato.

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III. COSCIENZA DI CLASSE

L’articolazione della società in classi deve essere determinata secondo la posizione che ciascuna di esse
occupa nel processo di produzione. Se questo può essere sufficiente per individuare le classi sociali, non lo
sarà altrettanto in ordine ad una determinazione essenziale delle classi stesse: questa determinazione è
raggiunta soltanto nella coscienza di classe. Cosa significa coscienza di classe? Qual è invece, dal punto di
vista pratico, la funzione della coscienza di classe? E ancora: l’essenza e la funzione della coscienza di classe
sono un’unità indissolubile e già compiuta, oppure si possono distinguere diversi livelli, strati di sviluppo
della coscienza di classe – e quale sarebbe, allora, il loro significato?

Per quanto l’essenza della storia consista nel fatto che nulla accade senza intenzione cosciente – senza un
fine posto da una volontà cosciente –, per giungere ad un’autentica comprensione della storia occorre
approfondire ulteriormente la questione del rapporto coscienza-storia. In questo senso, dunque, ai fini di una
comprensione storica, non è sufficiente incentrare la propria ricerca attorno alla semplice coscienza
individuale: infatti, da un lato, la prospettiva ed i risultati delle singole coscienze assumono una rilevanza
secondaria rispetto al risultato complessivo del processo storico, che non è riducibile ad una mera somma
delle intenzioni coscienti personali; dall’altro lato, invece, occorre esulare dai confini della coscienza,
ricercando la funzione determinante svolta dalle forze motrici della storia rispetto alla genesi dei singoli
moventi coscienziali. Si afferma dunque la necessità – propria del materialismo storico – di determinare
queste stesse forze motrici della storia, che mettono in movimento interi popoli, masse, classi sociali. Allo
stadio primitivo della conoscenza, che il materialismo storico intende demistificare ed oltrepassare, queste
forze motrici vengono generalmente considerate come se fossero leggi naturali eterne, indisponibili ad ogni
modificazione proveniente dalla volontà umana. Ma, rileva Marx, queste forze – che si sedimentano in forme
della vita umana ordinaria – non hanno affatto una caratura naturale: piuttosto, esse sono forze materiali
storicamente condizionate. La critica del materialismo storico all’economia classica ed al pensiero
borghese si dispiega nell’intenzione di dissolvere la rigidità, l’immobilità a-storica delle forze motrici della
storia – e delle formazioni sociali che da esse procedono dialetticamente; e, dunque, nell’intenzione di
evidenziare il carattere storico di queste forze-formazioni, ineluttabilmente destinate a tramontare. Occorre
pertanto elaborare una storia di queste forze-formazioni, della loro evoluzione in quanto forme dell’unione
sociale; in quanto forme che, a partire dai rapporti economici concreti, dominano la totalità dei rapporti
umani.

Assunto ciò, il pensiero borghese – il cui interesse ideologico è quello di affermare l’immutabilità
dell’ordinamento presente – incontra uno dei suoi limiti costitutivi: la storia gli si presenta infatti come un
oggetto di cui esso non può avere conoscenza; come un compito che esso non è ( non può essere) in grado di
assolvere. Due sono gli orientamenti borghesi nella concezione della storia: da una parte, tendenza a
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sopprimere il processo storico ed intendere le forme presenti (dell’organizzazione sociale, economica,
culturale, politica, e così via) come leggi naturali eterne; dall’altra parte, tendenza ad espungere ogni finalità
intrinseca al corso storico, per attenersi invece all’irriducibile singolarità di ogni epoca storica e della sua
irreplicabile perfezione. Entrambi gli orientamenti negano, per motivi opposti, la realtà dello sviluppo
storico lineare: così facendo, si perde ogni possibilità di concepire la genesi storica delle formazioni sociali.

Entro i limiti del pensiero borghese, la storia si irrigidisce; i suoi oggetti appaiono regolati da leggi
immodificabili, ulteriori al divenire; l’impronta umana viene totalmente rimossa dalle vicende storiche, che
smarriscono la loro natura di rapporti tra uomini. Sicché, osserva Marx: “Il movimento sociale prodotto dai
rapporti umani possiede – per gli uomini intrisi di ideologia borghese – la forma di un movimento di cose,
sotto il cui controllo essi si trovano, invece di controllarle”. In questo senso, il proposito del materialismo
storico è quello di rendere manifesta la presenza (occultata, distorta) dei rapporti umani nelle forme di
oggettualità reificate dell’ordinamento economico-sociale capitalistico. Per portare un esempio dell’opera
demistificatoria marxiana, si legga il seguente passo tratto dal Capitale: “Il capitale non è una cosa, ma un
rapporto sociale tra persone mediato da cose”. La cosalità delle forme economico-sociali viene ricondotta
alla sua genesi nei rapporti umani. Pure, così facendo, non viene affatto soppressa la legalità e l’obiettività
di queste forme economico-sociali – ovvero, la loro razionalità manifesta e l’indipendenza di tali forme
rispetto alla singola volontà umana. Come si ricordava più sopra, anche quando venissero demistificate, le
forme economico-sociali preservano una loro manifestazione fenomenicamente necessaria ed autonoma; pur
tuttavia, questa manifestazione si scopre essere essenzialmente storica, e dunque affatto eterna: la sua
legalità, infatti, è valida soltanto nell’ambito del mondo storico che la produce, laddove la sua obiettività
riflette l’auto-obiettivazione della società umana ad un determinato grado del suo sviluppo.

Si potrebbe pensare che il materialismo storico privi la singola coscienza della capacità di agire
concretamente – con efficacia determinante – nel corso storico; invece, il materialismo marxiano non nega
affatto agli uomini la facoltà di compiere atti storici con coscienza di essi: piuttosto, esso sostiene che tale
coscienza sia, propriamente, una falsa coscienza. Pure, il metodo dialettico non consente di arrestarci alla
mera constatazione della falsità di questa coscienza, riflesso apparente di una rigida opposizione verità-
falsità; richiede invece di indagare questa falsa coscienza come momento di una totalità storica complessiva.
L’errore della scienza borghese consiste nell’assolutizzare questa (falsa) coscienza – psicologicamente data;
personale o di massa – come momento eminentemente concreto nello sviluppo storico. Eppure, così facendo,
alla scienza borghese sfugge per intero la concretezza storica, che può rinvenirsi non già nel dato particolare,
bensì nel pdv. della totalità, ovvero della società come totalità di rapporti – “questi rapporti non sono
rapporti tra individuo e individuo, ma fra operaio e capitalista, fra contadino e proprietario fondiario, ecc.:
cancellati questi rapporti, sarà annullata l’intera società”, scrive Marx.

Un’indagine concreta attorno alla coscienza di classe impone dunque di considerarla nel rapporto che essa
per sua natura intrattiene con la totalità sociale. Sotto questo profilo, non sarà sufficiente considerare la

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coscienza come la funzione che si pone obiettivi immediati, irriducibilmente soggettivi; sarà invece
necessario pensarla come ciò che promuove e raggiunge gli scopi oggettivi dello sviluppo sociale, di cui ha
una cognizione per lo più parziale, quando non completamente offuscata. Dal pdv. dell’immediatezza
soggettiva, di tale coscienza non si può offrire più di una descrizione di ciò che essa – in determinate
situazioni storiche di classe – ha di fatto pensato, voluto, agito. La ricerca storico-empirica si arresta a questa
soglia.

Il rapporto con la totalità concreta della società, e le determinazioni dialettiche che ne conseguono,
impegnano tuttavia a spingersi al di là di questa mera descrizione fattuale, e danno così luogo alla
fondamentale categoria della possibilità oggettiva. Essa – riferita ad una determinata coscienza di classe –
comprende quel nucleo di idee, volontà, disposizioni, che i membri di una classe sociale avrebbero in una
data condizione storica, se essi fossero in grado di cogliere pienamente la loro situazione – e cioè la
posizione occupata nella totalità in cui sono compresi in quanto classe e gli interessi da essa emergenti –, non
solo in rapporto al proprio agire immediato, ma anche alla struttura sociale complessiva. La possibilità
oggettiva iscritta in una coscienza di classe – considerata in un dato momento del suo sviluppo – rappresenta
ciò che per essa coscienza sarebbe oggettivamente adeguato pensare-fare-volere in relazione alla propria
situazione di classe ed al suo necessario sviluppo. Dunque, le determinazioni essenziali delle possibilità
oggettive riferibili ad una data coscienza di classe dipendono dalla peculiare posizione – situazione
storicamente oggettiva – che i membri di tale classe sociale occupano nel processo di produzione sociale.

Assunto quanto sopra, la coscienza di classe è dunque “la reazione razionalmente adeguata che viene
attribuita di diritto (ovvero come possibilità oggettiva?) alla classe sociale che occupa una determinata
situazione in un processo di produzione dato” – con le parole di Lukàcs. In altri termini, la coscienza di
classe non è una media ponderata di ciò che pensano-fanno-vogliono i singoli individui costituenti una classe
sociale, bensì ciò che necessariamente tali individui dovrebbero pensare-fare-volere, laddove conoscessero
pienamente la propria condizione di vita in rapporto alla totalità sociale. Si comprende allora come tale
coscienza di classe non sia interamente data una volta per tutte, ma debba invece dialetticamente maturare
nel tempo. L’agire storicamente determinante di una classe sociale dipende dunque da questa coscienza di
classe, e non già dalle inclinazioni delle singole coscienze empiriche degli individui – sommariamente,
astrattamente radunate. Si dà pertanto una distanza formale tra la coscienza di classe e le idee empiriche,
psicologiche, che gli individui maturano circa la propria situazione di vita. Suddetta distanza muta forme e
significati a seconda della particolare coscienza di classe indagata – che a sua volta muta secondo la
relazione tra la classe e l’intero sociale. Di qui, occorrerà indagare quale sia la funzione storico-pratica della
coscienza di classe rispetto allo sviluppo storico-sociale.

Anzitutto, occorre domandarsi fino a che punto una classe sociale possa complessivamente cogliere – dal suo
proprio pdv., e cioè dalla posizione che essa occupa nel processo di produzione sociale – la totalità
economica di una determinata società. Come si potrà intendere, tale questione muterà connotati e risultati a

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seconda della classe sociale analizzata e del grado di sviluppo da essa raggiunto in rapporto alle sue
possibilità oggettive. In certi casi è infatti possibile che la coscienza che una determinata classe sviluppa
risulti essere, con le parole di Lukàcs, – anche – “un’inconsapevolezza classisticamente determinata circa la
propria situazione economica storico-sociale”. Determinate condizioni e congiunture storiche costringono la
coscienza di una data classe ad una incolpevole parzialità (falsità); altre, invece, consentono alla coscienza di
classe di emanciparsi dall’apparenza in cui è costretta, spingendosi fino al punto di cogliere pienamente la
propria connessione con la totalità e – presupposto di questo intendimento – la totalità economica della
società attuale.

L’elemento infine decisivo in ogni lotta di classe è il possesso, da parte di una delle classi antagoniste, di
questa coscienza di classe: della coscienza cioè che una classe ha maturato circa la propria posizione nel
processo di produzione, ovvero circa i propri interessi in rapporto alla totalità sociale, e – soprattutto –
coscienza del fatto che le è diventato possibile organizzare (ri-organizzare) l’intera società secondo quei
medesimi interessi, destinati a diventare dominanti nel processo di produzione. Con Lukàcs: “La
destinazione di una classe al potere significa che è possibile, a partire dai suoi interessi di classe,
organizzare l’intero della società secondo questi interessi”. La coscienza di classe borghese, sebbene si sia
sviluppata a tal punto da realizzare l’ordinamento capitalistico della società, non ha tuttavia maturato
pienamente se stessa, né potrebbe farlo senza al contempo segnare il tramonto del capitalismo. Infatti, la
borghesia capitalistica è prigioniera di una falsa coscienza, che le impedisce di ammettere il problema
dell’accumulazione illimitata del capitale e della conseguente crisi sistemica: ammettere ciò significherebbe
riconoscere la storicità del capitalismo, nonché la necessità di un suo oltrepassamento. Di qui, dati i suoi
interessi economici ed ideologici, la coscienza di classe borghese non può non occultare quei momenti (crisi)
in cui emergono problemi la cui soluzione rinvia al di là del capitalismo.

Non sempre dunque la coscienza di classe è in grado di formarsi completamente, potendo così influire
coscientemente sugli eventi storici. Nelle epoche pre-capitalistiche, lo sviluppo pienamente compiuto della
coscienza di classe è anzi di per sé precluso. Ciò che caratterizza qualsiasi società pre-capitalistica è il fatto
che, in essa, gli interessi di classe non possono mai emergere perspicuamente: infatti, data la particolare
organizzazione di queste società – gerarchica, castale –, gli elementi economici strutturali sono
inestricabilmente sovrapposti con elementi politico-religiosi. In queste società non è possibile concepire
categorie economiche pure, attorno alle quali organizzare il complesso sociale. Soltanto l’ascesa della
borghesia, la cui vittoria comporta la soppressione dell’organizzazione sociale secondo caste rigidamente
gerarchiche, garantirà le condizioni necessarie a che l’ordinamento sociale possa declinarsi secondo
un’articolazione di classi puramente economiche.

Differenze società pre-capitalistiche / società capitalistiche. Dal pdv. economico, la società pre-
capitalistica forma un’unità incomparabilmente meno coerente, omogenea, di quella capitalistica; in essa,
infatti, l’indipendenza delle parti è molto maggiore che nel capitalismo mercantile, o industriale. Essendo

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produzione e scambio di beni definiti secondo modalità e scopi incommensurabili rispetto alla società
moderna, nelle società antiche e medievali (schiavismo e feudalesimo) le singole fasce sociali risultano per
lo più autarchiche, oppure – è il caso della nobiltà greco-romana – affatto partecipi nella vita economica
della società. Sarà possibile comprendere come, in questo contesto storico-sociale, l’organizzazione
complessiva delle forme di vita – politica, giurisprudenza, istituzioni, morale, cultura – risulti in larga parte
indipendente rispetto alla vita economica (reale) della società. Le classi economicamente dominanti nelle
diverse società pre-capitalistiche non sono dunque in grado di produrre un’organizzazione complessiva di
tutta la società secondo i propri interessi: in questo senso, il loro dominio rimane apparente, incapace di
trasformare la struttura fondamentale della società, ovvero il processo di produzione e distribuzione di
beni, ed il suo rapporto con le forme di lavoro. Pur tuttavia, queste società costituiscono un’unità economica
– se così non fosse, nemmeno sussisterebbero in quanto tali. Si tratta però, come si diceva più sopra, di unità
economiche latamente disomogenee.

Ammessa l’unità economica ancora sommaria delle società pre-capitalistiche, occorre indagare se la
coscienza di classe dei gruppi operanti in dette società potesse maturare una forma distintamente economica.
Altrimenti detto: nell’inevitabile susseguirsi degli antagonismi sociali, le classi pre-capitalistiche (le caste,
gli stati) avevano la possibilità oggettiva di portare alla loro coscienza le basi economiche di questi
antagonismi? avevano cioè la possibilità oggettiva di cogliere la caratura fondamentalmente economica delle
lotte che sostenevano? Poiché la stratificazione della società pre-capitalistica implicava che la fissazione
delle sue posizioni gerarchiche costitutive apparisse naturalmente fondata, e dunque economicamente
incosciente, si può concludere che, nell’alveo di queste società, fosse impossibile la genesi di una coscienza
di classe realmente economica. In questo senso, si comprenderà inoltre come l’organizzazione sociale pre-
capitalistica, l’articolazione castale, l’istituzione di privilegi non soltanto economici, dipendessero
costitutivamente – e non soltanto ideologicamente, come nell’ordinamento capitalistico – dall’esercizio del
potere politico-giuridico. Seppure irresistibilmente presente, la rilevanza delle forme economiche nella
strutturazione sociale pre-capitalistica risultava – appariva – decisamente marginale rispetto alle forme
prioritarie della legalità politica, giuridica, religiosa. Per concludere, con le parole di Lukàcs (p.75):

All’interno di una simile organizzazione sociale, non è concepibile alcuna posizione dalla
quale possa essere resa cosciente la base sociale di tutti i rapporti sociali.

Naturalmente, ciò non nega affatto la fondazione economica oggettiva di tutte le forme sociali pre-
capitalistiche, il cui contenuto rimane costitutivamente (ed inconsciamente) economico, sebbene la loro unità
sia prodotta in sede giuridica. Necessariamente, stando così le cose, la coscienza di classe dei gruppi
produttivi pre-capitalistici non risulterà affatto in grado di avvicinare la comprensione della totalità
economica della società, continuando pertanto ad assicurare i propri interessi non già mediante la ri-
organizzazione dell’assetto sociale in base a questi stessi interessi, bensì tramite l’auto-riconoscimento
immediato di privilegi giuridico-politici (nobiltà, clero, corporazioni). Fintantoché non si sarà prodotta una
trasformazione dell’ordinamento sociale, le caste, i ceti, potranno anche essere già interamente dissolti dal
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pdv. economico; essi manterranno tuttavia una salda coesione (ideologica) attorno al suddetto sistema di
privilegi, considerato fondamento irrinunciabile della propria condizione oggettiva. L’immediata e statica
apparenza dei privilegi obnubila ogni possibilità di autentica coscienza classista in epoca pre-capitalistica.
[Qualcosa di analogo si può rinvenire nella società capitalistica stessa, a proposito di tutti i gruppi privilegiati
– ancora una volta, il clero – la cui situazione di classe non è fondata su basi puramente economiche].

L’interesse economico di classe, come motore dello sviluppo storico-sociale, è emerso con il capitalismo
– di conseguenza, soltanto in questa epoca della storia umana è stato possibile elaborare una teoria della
storia come il materialismo marxiano. Nelle epoche pre-capitalistiche, dunque, le autentiche forze motrici
della storia non riuscirono a manifestarsi alla coscienza degli uomini nella loro evidenza; nemmeno il ricorso
alla categoria metodologica della possibilità oggettiva consentirebbe, de iure, di riconoscere ai gruppi sociali
pre-capitalistici una coscienza di classe. A questa altezza storica, l’ideologia ostacolava la coscienza dei
motivi economici.

Con il capitalismo, con la soppressione della struttura castale e – soprattutto – con la costruzione di una
società articolata in senso puramente economico, la coscienza di classe può diventare effettivamente
cosciente, ovvero può avvicinare sempre più il pdv. della totalità; può maturare coscienza della propria
condizione rispetto all’intero; può cogliere la totalità economica della società e demistificare la sua
organizzazione classista. Ammesse queste possibilità oggettive della coscienza di classe in epoca
capitalistica, si potrà altresì intuire come questa coscienza, così configurata, possa porsi come nuovo
fattore storico determinante.

La borghesia ed il proletariato sono le uniche classi pure della società capitalistica: la loro esistenza, così
come la loro evoluzione dipendono esclusivamente dallo sviluppo del processo di produzione capitalistico;
dall’altra parte, solo a partire dalle loro condizioni di esistenza è pensabile la società capitalistica stessa.
Queste due non sono le uniche classi sociali realmente esistenti: si dà, p. es., la classe contadina, ma essa è
del tutto irrilevante per il destino del capitalismo, né la sua esistenza reale si fonda sulla posizione occupata
nel processo capitalistico di produzione, essendo piuttosto il residuo economico-sociale di un’epoca pre-
capitalistica. Soltanto gli interessi di borghesia e proletariato, dunque, risultano rilevanti in ordine alla
struttura complessiva del capitalismo; laddove gli interessi delle classi marginali si concentrano invece sui
fenomeni economici parziali. Per queste ragioni, soltanto borghesia e proletariato potranno sviluppare
autentiche coscienze di classe. Nella misura in cui ampissimi strati della popolazione produttiva vivono in
condizioni economico-sociali che implicano una netta distinzione tra i loro modi di vita, i loro interessi e la
loro cultura e quelli di altre classi, ed anzi li contrappongono ad esse in modo ostile, quegli stessi strati –
collettivamente considerati – costituiscono una classe sociale destinata a sviluppare una coscienza di classe.

La coscienza di classe concerne anzitutto gli interessi attribuibili di diritto ad una classe – di diritto, si
dice: ovvero, non già gli interessi di fatto, immediati e parziali; bensì gli interessi economici complessivi che,

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ricorrendo alla categoria della possibilità oggettiva, è possibile riferire ad una classe sociale in quanto
totalità. Nel caso della borghesia, coscienza di classe ed interessi di classe si trovano in opposizione
dialettica, cioè: se la borghesia prendesse piena coscienza della propria situazione economico-sociale, essa si
riconoscerebbe inesorabilmente destinata al tramonto, al crollo dei suoi interessi economici; d’altra parte, il
pieno sviluppo di questi interessi presuppone un obnubilamento parziale della sua coscienza di classe (falsa
coscienza). La presente condizione contraddittoria della coscienza di classe borghese fa sì che, non appena
raggiunto il punto più alto del suo sviluppo, essa cada in un’irrisolvibile contraddizione con se stessa,
premessa della sua prossima disgregazione. La contraddittorietà della coscienza di classe borghese si
declina su molteplici piani. Basterà annotare alcuni esempi: dal pdv. politico-giuridico, la borghesia ha
rappresentato un’istanza di libertà che, nel momento della sua affermazione storica, si è rovesciata in una
nuova forma di sfruttamento; dal pdv. sociologico, benché essa abbia portato a manifestazione l’essenza
della lotta di classe, la borghesia si adopera affinché questa sia rimossa dalla coscienza sociale; o ancora, dal
pdv. ideologico, se da una parte la cultura borghese si prodiga per affermare la priorità dell’individuo,
dall’altra parte le condizioni prodotte dal capitalismo tendono a sopprimere ogni forma di individualità. Tutte
queste contraddizioni riflettono contraddizioni intrinseche allo stesso capitalismo.

Poiché nella coscienza di classe borghese sussistono contraddizioni irresolubili – se venissero riconosciute e
risolte, il capitalismo sarebbe costretto ad auto-sopprimersi –, alla classe borghese sarà preclusa la possibilità
di esercitare un dominio completo sull’ordinamento capitalistico in cui, pure, risulta essere il soggetto
dominante. Anzitutto, questo dominio le è negato in sede teorica: nella misura in cui, come più volte si è
rimarcato, esse rigettano il pdv. della totalità dialettica, per assumere invece il pdv. del singolo capitalista, la
scienza e la coscienza di classe borghesi risultano inevitabilmente deficitarie, parziali, false. La prospettiva
individualistica facente capo alla coscienza borghese si rivela foriera di ulteriori e decisive contraddizioni: p.
es., considerando la vita economico-sociale dal pdv. del singolo capitalista e della proprietà privata, la
borghesia è necessariamente costretta a concepire il processo economico – che essa stessa sorregge – come
un movimento indipendente dalla sua facoltà di determinazione pratica. Di qui, sorge immediata la netta (ed
ideologica) opposizione tra l’individuo e la sfera sociale – autonoma, retta da una legalità sovrapersonale ed
eterna. Ne deriva pertanto l’impossibilità di dominare, in teoria-in pratica, i problemi che sorgono in
seno al sistema capitalistico. Perché possa fare ciò, la classe borghese dovrebbe (auto-distruttivamente)
prendere coscienza del fatto che “il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso”, come
scrive Marx.

I limiti oggettivi della produzione capitalistica segnano i limiti della coscienza di classe borghese, che
non sarà perciò in grado di svilupparsi fino al punto di cogliere la totalità economica della società. Questo
necessario mantenersi in una parziale inconsapevolezza dei limiti economici del sistema capitalistico – tale
per cui, con Lukàcs, “ciò che in realtà è il massimo grado di inconsapevolezza, la forma più evidente di falsa
coscienza, si manifesta nel fatto che cresce sempre più l’apparenza di un dominio della coscienza borghese
sui fenomeni economici” – questa inconsapevolezza, si diceva, si esprime nell’insanabile contraddizione
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tra teoria-prassi, dovuta alla succitata opposizione dialettica tra individuo e storia, capitalista e processo
socio-economico. Questa auto-contraddizione dialettica interna alla coscienza di classe borghese si acuisce
ulteriormente nella misura in cui i limiti del capitalismo non producono soltanto momenti negativi (crisi), ma
ingenerano altresì una figura storica cosciente ed attiva: la classe proletaria, soggetto principale
dell’inaggirabile lotta di classe capitalistica. Con lo sviluppo del proletariato e propriamente nella società
capitalistica, la lotta di classe – presente in qualsiasi genere di ordinamento sociale – esplode alla massima
manifestazione: la teoria e la prassi del proletariato portano alla perspicuità della coscienza sociale questo
fondamentale antagonismo intrinseco alla società capitalistica. Nella lotta di classe proletaria, tutti i
momenti che restano altrimenti celati dietro la superficie mistificata della vita economica – delle sue forme
di oggettualità manifeste – assumono un risalto impossibile da trascurare: in questo modo, non si
comprenderà soltanto l’evidenza dello sfruttamento di classe, ma si renderà altresì perspicuo il motore dello
sviluppo storico: la lotta di classe. L’azione classista del proletariato, inoltre, esacerba ulteriormente le
contraddizioni insite nella falsa coscienza della borghesia, ora sospinta, dall’imperversare dell’antagonismo
sociale, ad una posizione coscientemente difensiva. L’inconsapevole falsa coscienza borghese diviene ora
una consapevole ed ideologica falsità della coscienza borghese, timorosa dell’accresciuta forza sociale del
proletariato. Questa mutata attitudine della coscienza borghese influisce in modo determinante su tutte le
prese di posizione della classe borghese, in tutte le situazioni e questioni vitali che la riguardano.

Per affrontare con maggiore forza ed intensità la lotta classista per il consolidamento del proprio dominio e
dei propri interessi, la borghesia deve necessariamente agire ideologicamente, con un duplice intento:
anzitutto, costruire e rendere cosciente a sé medesima la fede nella propria destinazione storica dominante;
d’altra parte, incentivare la mistificazione della coscienza delle restanti classi sociali, la cui incoscienza
costituisce una premessa indispensabile per la prosperità del sistema capitalistico. La lotta di classe non può
affatto trascurare la rilevanza decisiva dei momenti ideologici. Scrive Lukàcs (p.87):

La storia ideologica della borghesia non è altro che una lotta disperata contro la comprensione
della vera essenza della società creata dalla borghesia stessa; contro la reale presa di
coscienza, da parte della borghesia, della sua situazione di classe. Invano: il verdetto è già
stato eseguito: la capitolazione della coscienza di classe della borghesia dinanzi a quella del
proletariato.

L’aspetto ideologico della lotta di classe ruota attorno alle determinazioni della coscienza di classe. In questo
contesto, emerge il ruolo fondamentale del materialismo storico. Come sul piano economico, così anche
su quello ideologico la borghesia ed il proletariato sono classi situate in un rapporto necessariamente
correlativo. Per il proletariato, il materialismo storico rappresenta e determina un costante aumento di
coscienza e di potere. Il medesimo processo che alla coscienza borghese appare come una crisi inarrestabile,
alla coscienza proletaria si rivela – tramite il materialismo storico – un invito a concentrare le proprie forze e
contribuire praticamente alla realizzazione del proprio destino storico. Per la classe proletaria, e soltanto per
essa, una chiara comprensione teorica dell’essenza della società capitalistica costituisce un fattore di potere

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di importanza decisiva. La teoria storica marxiana consente al proletariato di non rimanere prigioniero degli
eventi storici particolari, ma di riconoscersi anzi come forza motrice della storia, in grado di maturare un
pdv. complessivo ed oggettivo sul processo di sviluppo sociale e, assunta l’unità di teoria-prassi, di
intervenirvi in modo determinante. Bernstein ed i marxisti revisionisti hanno trascurato l’imprescindibile
funzione svolta dalla coscienza di classe – in questo caso informata dal materialismo storico – nella lotta di
classe proletaria, sostituendovi invece una inessenziale Realpolitik. Così facendo, scrive Lukàcs, “i marxisti
volgari si dispongono sul piano di coscienza della borghesia”, ovvero strutturano la coscienza di classe
proletaria secondo le determinazioni, false e contraddittorie, della coscienza borghese. Ma se le apparenze
auto-ingannatrici della coscienza borghese risultano quantomeno in accordo con la situazione della
borghesia; “nel proletariato, invece, una simile coscienza non soltanto ha in sé le contraddizioni borghesi,
ma si trova anche in contrasto con le necessità di quell’azione verso la quale è orientata la sua situazione
economica”. Il marxismo revisionista impedisce al proletariato di agire secondo le esigenze storicamente
imposte alla sua situazione economico-sociale; ovvero, di agire in modo proletario.

Il materialismo storico è il fondamento della superiorità storica del proletariato sulla borghesia, che
pure risulta senza dubbio superiore dal pdv. economico, politico, intellettuale, organizzativo, e così via. La
superiorità storica del proletariato – della sua coscienza di classe – consiste nel fatto che esso è in grado di
considerare la società nella sua interezza, a partire dal suo centro vitale, acquisendo quindi la facoltà di agire
centralmente, ovvero di modificare il nucleo della realtà presente. Altrimenti detto, il materialismo storico,
rivolgendosi alla coscienza di classe proletaria, le indica lo spazio in cui deve dispiegarsi la sua prassi
rivoluzionaria.

La rilevanza della coscienza proletaria – e dunque del materialismo storico – si deve valutare anche in ordine
al fine complessivo della storia. Infatti, l’esito della rivoluzione proletaria non si risolve semplicemente
nella destituzione del dominio classista borghese e nell’istituzione di un ordinamento comunistico, privo
dunque di rapporti di proprietà e di diseguaglianze economiche; ma, tale esito rivoluzionario comprende
altresì l’avvento del regno della libertà, la fine della preistoria umana, ovvero la dissoluzione degli effetti
reificanti del capitalismo e la coscienza dei rapporti sociali in quanto rapporti umani. Che il processo storico
tenda di per sé in questa direzione umanistica e comunistica, non significa affatto che la prassi umana sia
inessenziale e priva di libertà. Infatti, il procedere già oggettivamente direzionato della storia conduce e
scorta l’umanità soltanto fino al punto in cui il fine ultimo di cui sopra si trovi ad una prossimità ormai
autonomamente e coscientemente raggiungibile. Con Lukàcs (pp. 91-2):

Se è iniziata la crisi economica finale del capitalismo, allora il destino della rivoluzione – e con
esso quello dell’umanità intera – dipende dalla maturità ideologica del proletariato, dalla sua
coscienza di classe. Per il proletariato questa coscienza – l’ultima coscienza di classe nella
storia dell’umanità – non è una bandiera sotto la quale esso lotta, ma è essa stessa la posizione
del fine ed un’arma, la sua forza migliore.

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Senza dubbio, gli ostacoli frapposti al completo disvelamento della coscienza di classe proletaria sono
immani. Anzitutto, alla coscienza dell’uomo – in particolare dell’uomo posto all’interno della reificazione
capitalistica dei rapporti – la società, in sé stessa qualcosa di costitutivamente unitario, non appare affatto
come tale, ma si manifesta piuttosto come una pluralità di forze e domini reciprocamente indipendenti.
Inevitabilmente, questa situazione produce lacerazioni all’interno della stessa coscienza di classe
proletaria, la quale, per esempio, tende a considerare separatamente lotta di classe economica / lotta di
classe politica. Al contrario, nell’essenza di ogni lotta economica è implicita la sua conversione nella sfera
politica – e viceversa. La causa di tali nefaste distorsioni si annida nella scissione che percorre la rivoluzione
proletaria stessa, divisa tra l’impegno in ordine alla realizzazione di fini particolari e la costante tendenza ad
uno scopo ultimo complessivo. Infatti, proprio a causa dell’inconsapevolezza della loro coscienza di classe
rispetto alla struttura economica oggettiva e rispetto alla propria funzione nel processo storico-sociale, le
classi che nelle società pre-capitalistiche erano destinate al potere si trovavano – da un pdv. soggettivo – di
fronte ad un compito minimo: imporre, mediante l’uso della violenza, i propri interessi immediati,
particolari. Il senso storico-sociale di questa prassi si manteneva pertanto occulto, inaccessibile, alla
coscienza di queste classi. Per quanto riguarda il proletariato, invece, esso costituisce il soggetto destinato
ad una trasformazione cosciente dell’intera società. Di qui, risulterà inevitabile che nella coscienza
proletaria si desti la contraddizione dialettica tra interessi immediati e scopo ultimo della propria azione
rivoluzionaria. La natura di questi interessi immediati, che costituiscono un momento della totalità
economico-sociale, è necessariamente compresa entro i confini della legalità e dell’oggettualità
capitalistiche; ovvero, gli interessi immediati del proletariato sono ancora compresi entro il dominio
borghese. Di qui, si dà il rischio che essi si dissolvano dinanzi all’affermata legalità borghese, ostacolando la
realizzazione dello scopo ultimo del proletariato. Sarà allora necessario comprendere questi interessi nella
totalità del processo storico, mettendoli quindi in relazione con lo scopo finale, affinché essi risultino
oggettivamente rivoluzionari42.

Se nelle società pre-capitalistiche il rapporto tra interessi immediati soggettivi-scopo sociale oggettivo veniva
compiuto e sviluppato dal cieco – apparentemente autonomo – procedere della storia; nel caso del
proletariato, il conseguimento di questo rapporto è posto alla coscienza di classe proletaria come compito
ineludibile. Concretamente, realizzare tale rapporto significa, per la situazione del proletariato, questo: non
tanto affermare il proprio dominio di classe (interesse immediato), quanto invece sopprimere in generale il
dominio classista (scopo ultimo). In altri termini, per compiere il proprio destino, il proletariato è chiamato
a sacrificare i propri interessi economici immediati, al fine di porre le condizioni per il dissolvimento del
sistema capitalistico – e, con esso, della reificazione, dell’alienazione, dello sfruttamento salariale, e così via.
Tutto ciò, giova ripeterlo, è un problema essenzialmente legato alla coscienza di classe – che, a differenza

42
Lukàcs, p. 95: “Soltanto con il crescere della consapevolezza ed attraverso l’azione e l’auto-critica cosciente, la
mera intenzione verso la verità della coscienza proletaria si trasforma, liberandosi da ogni suo falso occultamento,
nella conoscenza realmente corretta, storicamente rilevante e capace di operare degli autentici rivolgimenti sociali”.
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della coscienza borghese, non potrà affatto arrestarsi alla mera superficie ideologica del già-dato dei
fenomeni economico-sociali.

Dunque, riassumendo, il superamento della scissione dialettica tra interesse di classe / interesse sociale
insito nella coscienza proletaria rappresenta un momento fondamentale nelle sorti dell’antagonismo sociale
capitalistico; un momento che, se pienamente compreso e dispiegato, rende possibile l’affermazione del
proletariato. Di qui, sarà più semplice comprendere come, in definitiva, la coscienza di classe non sia affatto
la percezione psicologica che il proletariato matura circa la propria situazione in un dato presente
cronologico, quanto invece la presa di coscienza della propria situazione e destinazione nel presente
storico, ovvero nel presente come momento di una totalità storica processuale. Tuttavia, quanto si è finora
affermato non significa in alcun modo rigettare gli interessi economici immediati in quanto tali: ciò
comporterebbe infatti una ricaduta nelle più irreali ingenuità utopistiche. È necessaria quindi una mediazione
della coscienza, che impedisca alla classe proletaria di sovrastimare la rilevanza delle sue lotte quotidiane,
dimenticandosi in questo modo come essa non sia chiamata tanto a combattere gli effetti del capitalismo,
quanto invece a trasformarli, agendo sulle loro cause meno appariscenti, più riposte (mistificate) 43.

La forza della coscienza di classe proletaria consiste nell’assunzione del pdv. della totalità economico-
sociale, ovvero nella capacità di cogliere, dietro i singoli fenomeni e momenti che intervallano il processo
economico, la sua unità come sviluppo sociale complessivo ed onnicomprensivo. La classe borghese, d’altra
parte, risulta invece costitutivamente incapace di elevarsi al di sopra della comprensione degli elementi
parziali e dei sintomi del processo economico. Quanto più avanza la crisi economica del capitalismo, tanto
più emergono, da un lato, le implicazioni pratiche di questa incapacità della coscienza borghese; dall’altro
lato, le potenzialità oggettive della coscienza proletaria, che diviene sempre più capace di comprendere – e
trasformare dal pdv. pratico – la totalità socio-economica. L’esacerbarsi della crisi capitalistica44 (contesto
economico oggettivo) pone le condizioni concrete per lo sviluppo decisivo della coscienza proletaria,
chiamata infine a prendere le redini della propria missione45: ovvero, chiamata a divincolarsi dalle forme di
esistenza reificata del capitalismo, dismettere gli interessi economico-sociali immediati ed operare in vista di
una radicale trasformazione dell’assetto sociale. Per concludere, si legga quanto scrive Lukàcs (p. 105):

43
Lukàcs, pp. 96-7: “La fonte di ogni opportunismo si trova proprio nel fatto che esso prende le mosse dagli effetti, e
non dalle cause; dalle parti, e non dall’intero; dai sintomi, e non dalla cosa stessa. Nell’interesse particolare,
l’opportunismo non vede un mezzo formativo in vista dello scopo finale, la cui realizzazione dipende dalla coscienza
attribuita di diritto (coscienza di classe); ma vi vede invece qualcosa che è valide in sé e per sé. In una parola, il
marxismo opportunistico confonde lo stato di coscienza psicologico e fattuale dei proletari con la coscienza di classe
del proletariato”.
44
Lukàcs, p. 99: “Per tutto il tempo in cui la coscienza proletaria non sussiste, la crisi capitalistica è permanente,
ritorna sempre al suo punto iniziale, riproduce la situazione presente; finché, dopo pene infinite e terribili tortuosità,
l’insegnamento dei fatti storici porta a compimento il processo della coscienza nel proletariato, affidando così nelle
sue mani la guida della storia”.
45
Lukàcs, p. 100: “Il proletariato non può sottrarsi alla sua missione. Si tratta soltanto di sapere quanto esso debba
ancora soffrire prima di raggiungere la maturità ideologica, la giusta conoscenza della propria situazione di classe: la
coscienza di classe”.
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Il proletariato si realizza soltanto in quanto si auto-sopprime, in quanto porta ad effettuazione
la società senza classi, conducendo così fino all’ultimo la propria lotta di classe. La lotta per
questa società non è diretta soltanto contro il nemico esterno, la borghesia, ma è anzitutto una
lotta del proletariato con se stesso: ovvero, con gli effetti distruttivi e degradanti del sistema
capitalistico sulla sua coscienza di classe. Il proletariato ha ottenuto una reale vittoria, solo se
ha superato questi effetti in se stesso.

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IV. LA REIFICAZIONE E LA COSCIENZA DEL PROLETARIATO

- IL FENOMENO DELLA REIFICAZIONE

Il Capitale – massimo tentativo marxiano di esporre la struttura complessiva della società capitalistica –
prende avvio dall’analisi del concetto di merce. Non si tratta di un caso, o di una scelta meramente
espositiva: infatti, non esiste problema interno al capitalismo che non rimandi al suddetto concetto, e la cui
soluzione non debba essere ricercata in esso – nella struttura della merce. Sarà dunque necessario fissare
l’attenzione sui problemi derivanti: 1) dall’estensione dilagante del feticismo delle merci; 2) dal
comportamento soggettivo correlato a questo fenomeno.

Nella società capitalistica, la merce assume una centralità predominante su tutti gli altri aspetti del processo
di produzione e circolazione di beni (mercificati). Questa centralità della merce si esplicita nell’influenza da
essa operata sulla determinazione qualitativa delle forme di oggettualità (Gegenstendlickheitform)
presenti nella società capitalistica. La forma di oggettualità – il modo-di-essere-oggetto – dei fatti empirici
dati nella società capitalistica è determinata dalla struttura della merce: in altri termini, nell’orizzonte
capitalistico, gli oggetti si danno, appaiono, immediatamente come merci. Questa condizione è
assolutamente inconcepibile entro i limiti dei sistemi di produzione pre-capitalistici, in cui la considerazione
degli oggetti veniva operata ancora secondo il loro valore d’uso, non ancora ridotto a valore di scambio. Nel
sistema capitalistico – e bisognerà indagare le ragioni di questo avvicendamento – la merce diviene la
forma dominante di strutturazione sociale: essa permea e costituisce la totalità delle manifestazioni
fenomeniche sociali, siano esse soggettive o oggettive. La merce è dunque afferrabile nella sua essenza
soltanto in quanto categoria universale della totalità sociale capitalistica: in questa totalità, bisogna
comprendere tanto lo sviluppo oggettivo dal pdv. socio-economico, quanto le trasformazioni intervenute
nella struttura della coscienza sociale delle classi (reificazione). Assunto ciò, sarà opportuno domandarsi: in
quale modo si è prodotta questa situazione storico-sociale?

La riflessione lukacsiana sulla reificazione prende le mosse – come più sopra anticipato – dalle analisi di
Marx, proposte nel Libro I del Capitale, attorno al feticismo delle merci. Il feticismo è l’atteggiamento
soggettivo di chi attribuisce ad un determinato oggetto (feticcio) qualità antropomorfe, nonché la capacità
sovrannaturale di condizionare la realtà umana. In genere, al feticcio vengono riconosciute proprietà
magiche. Tale è il caso della merce: per effetto di processi e di mistificazioni che occorrerà chiarire, nelle
società capitalistiche la merce – celando la propria origine sociale – assurge a vita autonoma, in grado di
agire al di là del controllo umano. L’oggetto-merce – e questa è la forma di oggettualità di tutti gli oggetti

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dati entro il sistema capitalistico – diviene oggetto di desiderio, di amore, di odio, di riverenza; a questo
oggetto, poi, viene attribuita la facoltà di soddisfare bisogni, esaudire desideri, produrre felicità, accrescere la
propria reputazione, e così via. Determinazioni di carattere esclusivamente umano, quindi, vengono
feticisticamente trasferite alla merce. Stando così le cose, il feticismo delle merci esprime un culto delle
merci.

Ovunque dilagante, questo culto (ideologico) delle merci impedisce agli uomini di considerare gli oggetti al
di là di questa specifica forma di oggettualità. Come già sopra rimarcato, la forma di oggettualità esprime il
modo- di-essere-oggetto di un determinato oggetto empirico, formalmente costituito a partire dall’insieme
reale delle condizioni materiali (sociali, economiche) di una data epoca. Dunque, a seconda del quadro
materiale di riferimento, un medesimo oggetto empirico può assumere differenti forme di oggettualità:
ovvero, differenti modi di essere, di apparire alla coscienza 46. La forma di oggettualità capitalistica è quella
di merce, la quale si distingue per i seguenti caratteri:

1) Priorità del valore di scambio sul valore d’uso: un oggetto ha significato soltanto in virtù della sua
costituzione mercificata;
2) Annullamento della comparazione qualitativa tra gli oggetti: essi sono commensurabili soltanto
in termini quantitativi, monetari;
3) Accumulazione e consumo: l’oggetto è tale soltanto se risponde alle finalità di questi usi.

Così configurata e considerata, la merce appare alla coscienza soggettiva come proprietà naturale, trans-
storica, di tutti gli oggetti esistenti, dai quali è immediatamente occultata l’origine materiale. È proprio del
feticismo delle merci oscurare la storia della produzione sedimentata nella forma fenomenica di un oggetto
mercificato. Con le parole di Lukàcs, gli effetti prodotti dal feticismo delle merci sono tali per cui “una
relazione tra persone [merce come oggetto-prodotto e prodotto-commerciato] riceve il carattere della
cosalità (…) che occulta nella sua legalità autonoma, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia
della propria essenza fondamentale: il rapporto tra gli uomini”. Ma, ancora una volta, per via di quale
congiuntura storica – materiale ed ideologica – si produce questa specifica configurazione della forma-
merce? Che cosa determina la mercificazione di tutti gli oggetti e le relazioni umane: di tutta la società? La
mercificazione del lavoro.

Il processo di produzione del capitale si regge su di uno scambio apparentemente paritario: il lavoratore
mette a disposizione del capitalista la propria forza-lavoro, in cambio di una somma equivalente al valore
della forza-lavoro commerciata (salario). Dal pdv. del capitalista – che dispone di un più ampio potere
contrattuale – il valore di scambio della forza-lavoro operaria consiste nella quota di salario necessaria per il

46
La nozione lukacsiana di forma di oggettualità sembra anticipare il concetto di a priori storico di Foucault: infatti, la
forma di oggettualità richiama la costituzione trascendentale di un oggetto, la quale è però storicamente (materialmente)
determinata, ma non per questo riducibile ad un singolo oggetto – o un singolo aspetto – empiricamente condizionato.
Da un pdv. meramente empirico, infatti, ogni oggetto presenta una serie di peculiarità fattuali irriducibili ad una
qualsivoglia forma di oggettualità.
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sostentamento materiale dell’operario. Dunque: in cambio di una quantità salariale che gli consenta di
sostentarsi e di mantenersi in grado di operare, il lavoratore vende la propria forza-lavoro – come se fosse
una merce47.

Si considerino ora le seguenti determinazioni:

- M: merce venduta dal lavoratore (forza-lavoro);


- D: denaro impiegato dal capitalista per l’acquisto della forza-lavoro (salario erogato);
- D’: denaro accumulato dal capitalista (profitto).

Com’è possibile che, alla fine del ciclo produttivo-commerciale, il valore D’ sia accresciuto, e non abbia
invece semplicemente compensato il valore D, originariamente destinato all’acquisto di M? Oppure, con
altre parole: che cosa ha reso possibile l’aumento di D (denaro investito) in D’ (denaro capitalizzato)?

Dalla prospettiva del capitalista, la relazione tra i termini occorrenti appare in questa forma: D-M  D’.
Questa formulazione, in linea con l’immaginario feticistico, risulta pienamente mistificante: infatti,
assumendo come valido l’ordine di cui sopra, si attribuisce – feticisticamente – al denaro la capacità di auto-
moltiplicarsi, ovvero di essere l’elemento decisivo nel processo di valorizzazione del capitale. In questo
senso, stante la mediazione puramente funzionale operata da M (forza-lavoro in veste di merce, che si
applica meccanicamente nella produzione di ulteriore merce), l’investimento di una quota di denaro D
sembra possedere un’intrinseca e naturale facoltà di aumentare esponenzialmente il proprio valore  D’.
Tuttavia, segnando una rottura decisiva rispetto all’economia classica, Marx rileva come in questa
formulazione (D-M-D’) sussista una mistificazione, un occultamento: infatti, la forza-lavoro operaia non
viene impiegata dal capitalista secondo il valore M, stabilito in sede contrattuale; bensì secondo il valore M’,
indicativo della quantità di tempo-lavoro effettivamente erogata dall’operaio. In altri termini, secondo quanto
privatamente pattuito, l’operaio viene retribuito secondo la quantità di valore M, che corrisponde alla quota
di tempo-lavoro necessaria alla produzione di una quantità di merce equivalente al valore del salario operaio.
P. es., se l’accordo contrattuale prevede che l’operaio guadagni mille, ciò significa che gli verrà retribuito un
salario pari alla quantità di tempo-lavoro da esso spesa nella produzione di merci il cui valore di scambio
frutterà al capitalista la somma mille. Ma – e qui emerge il punto decisivo – la quantità di tempo-lavoro
effettivamente erogata dall’operaio non equivale al valore retribuito M.

Acquistando il lavoro operaio come merce, infatti, il capitalista non entra in possesso di una quantità
determinata di lavoro (come la stima salariale lascerebbe intendere), bensì dispone dell’intero complesso
delle energie psico-fisiche di un lavoratore. Il capitalista compra tutto l’operaio, non soltanto una sua parte.
Di qui, egli potrà impiegare la forza-lavoro operaia per un tempo-lavoro superiore a quello retribuito

47
Per lavoratore e per capitalista non bisogna affatto intendere singoli individui astratti rispetto alle relazioni ed alle
condizioni socio-economiche del sistema capitalistico. In questo senso, dunque, lavoratore e capitalista non
rappresentano individui empirici particolari, bensì i componenti di classi sociali antagoniste.
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per contratto. Nelle formule dell’economia classica (D-M-D’), questo passaggio viene surrettiziamente
occultato, essendo rimossa l’esistenza di un ulteriore fattore: M’, e cioè la quantità di lavoro effettivamente
fornita dall’operaio, comprensiva della quota di tempo-lavoro eccedente il valore di M (salario). In questo
senso, la formulazione esatta del processo di valorizzazione del capitale sarebbe la seguente: D-M-(M’)-D’.
Impostando il rapporto capitalistico in questi termini, si potrà intendere come la chiave di volta per la
capitalizzazione del denaro investito sia M’, ovvero il tempo-lavoro estorto all’operaio. Questa estorsione
capitalistica di tempo-lavoro – che sarebbe infinita, se non si desse una resistenza da parte della classe
proletaria – è quanto rende concretamente possibile la moltiplicazione del capitale. Quindi: non è il denaro
ad accrescere – feticisticamente – il proprio valore; non è il denaro l’elemento realmente produttivo in senso
capitalistico, bensì il lavoro operaio – da intendersi come capacità potenzialmente indefinita di operare, e
non già quantità prestabilita di tempo-lavoro. La vera fonte di valore (plus-valore) è il lavoro; di per sé,
invece, il capitale è lavoro morto.

L’immaginario feticistico occulta l’assoluta priorità del lavoro operaio nel processo capitalistico di
produzione. Così, questo immaginario ideologicamente distorto non soltanto aliena il lavoro dell’operaio –
che cessa di essere una facoltà eminentemente umana, per trasformarsi invece in un’attività funzionale al
capitale, ovvero in una mera funzione appartenente alla logica produttiva-riproduttiva del capitale; ma, esso
immaginario, contribuisce altresì a consolidare la falsa concezione di un capitale in grado di auto-
moltiplicarsi. Con le parole di Marx nel Libro III del Capitale:

Questo feticcio automatico – valore che genera valore, denaro che produce denaro – fa sì che il
rapporto sociale giunga a compiersi come rapporto di una cosa (il denaro) con se stessa. (…)
In D-D’ noi abbiamo la forma aconcettuale del capitale, il rovesciamento e la cosalizzazione
del rapporto di produzione: la mistificazione del capitale nella sua forma più stridente. Dunque,
una forma in cui la fonte del profitto non è più riconoscibile.

Questo occultamento, del tutto trascurato di tutti gli agenti sociali, è il risultato non già delle volontà
coscienti degli imprenditori capitalisti, quanto piuttosto della struttura stessa del capitalismo: essa, infatti,
necessita di uno sfruttamento del tempo-lavoro operaio, affinché sia possibile produrre profitto ed
accumulare capitale. Le trasformazioni operate sul lavoro – razionalizzazione ed estorsione di tempo –
costituiscono pertanto il nerbo vitale del capitalismo, altrimenti incapace di sussistere e di progredire. Le
conseguenze di questo stato di cose, per lo più mistificato ed inattingibile, si dispiegano ad ogni altezza della
vita sociale. Per es., nel processo di circolazione delle merci, i consumatori sono generalmente portati a
riconoscere due principi incontrovertibili, nonché complementari: ogni cosa ha un prezzo; il denaro può
comprare ogni cosa. Pure, gli stessi consumatori trascurano completamente 1) che ogni cosa (ogni merce) è
innanzitutto prodotto di un lavoro umano; 2) che il denaro erogato nel momento dell’acquisto copre una
quantità di tempo-lavoro non-retribuita (incorporata nel prezzo di mercato della merce).

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Come anticipato più sopra, tali implicazioni sono conseguenza della struttura del capitalismo, che tende a
trasformare l’oggettualità di qualsiasi produzione del lavoro umano in merce, ovvero in una cosa il cui
valore coincide interamente con il suo valore di scambio (prezzo di mercato). Così, imponendo la priorità del
valore di scambio sul valore d’uso di un oggetto, non soltanto si conclude una mercificazione di ogni
prodotto del lavoro umano, ma – risultato di questa mercificazione – viene altresì mistificata l’origine sociale
sedimentata nella costituzione della merce. Così configurati, gli oggetti perdono le proprie irripetibili qualità
distintive, divenendo merci, contrassegnabili e commensurabili soltanto da un pdv. quantitativo (leggi del
mercato, domanda-offerta, valore corrente della moneta, e così via). Il denaro – marxianamente: equivalente
generale – diviene il criterio unico ed universale per la valutazione e la comparazione degli oggetti
mercificati. In questo senso, avendo il denaro assunto una rilevanza universale, esso consolida la convinzione
generalizzata secondo cui il concetto di merce rappresenterebbe la qualità naturale ed eterna di qualsiasi
oggetto, e non già il prodotto di una relazione sociale storicamente determinata.

La reificazione operata dalla struttura e dall’ideologia capitalistiche occulta la componente umana


(lavoro) e sociale (classi) dal concetto di merce, di capitale e dalla descrizione del processo di
valorizzazione.

Smascherare simili mistificazioni ed occultamenti significa decostruire la logica di dominio e sfruttamento


che si ripete ad ogni declinazione della totalità sociale. Infatti, lungi dall’essere circoscritto all’impresa
industriale, lo sfruttamento della forza-lavoro operaia è all’origine di più ampie configurazioni socio-
politiche. (In questo senso, basti pensare alla teoria marxiana dello Stato borghese). Con la dovuta cautela, si
potrà allora affermare che tutte le sfere della moderna vita sociale dipendano dai processi della
produzione capitalistica. Questa tesi, non completamente sviluppata in Marx, costituisce il manifesto
teorico dell’operaismo marxista risalente al II dopo-guerra. Secondo questa corrente interna all’alveo dei
marxismi novecenteschi, la società contemporanea avrebbe assunto la forma strutturale di una fabbrica. Si
tratterebbe allora, riconfigurando un’espressione di derivazione marxiana, di una sussunzione reale
dell’intera società nel capitale: ovvero, nulla viene risparmiato dalla presa capitalistica; la logica del
capitale sussume, subordina a sé, la totalità sociale. In Marx, questa proliferazione del capitalismo si arresta
ad una sussunzione (ancora) formale della società nel capitale: con altre parole, sebbene la mercificazione
capitalistica abbia investito l’intera società, non tutte le relazioni sociali sono state ancora distorte e corrotte
– si pensi alle relazioni mediche, accademiche, giuridiche, ecc. Pertanto, trattando di sussunzione formale si
intende quanto segue: la logica capitalistica è già ovunque dominante, ma per lo più soltanto indirettamente;
d’altra parte, questa logica è invece pienamente e concretamente operativa all’interno della fabbrica. A tal
riguardo, nello stesso Marx, si può certamente parlare di sussunzione reale nel capitale a proposito della
relazione occorrente tra lavoratore-imprenditore (rapporto produttivo fondamentale): in questo caso, infatti,
in quanto le condizioni di vita dei soggetti interessati dipendono dalla natura del loro rapporto, essi
risulteranno interamente sussunti sotto la logica del capitalismo –saranno dunque essenzialmente determinati
da essa nelle loro azioni e nei loro interessi di classe. Il rapporto lavoratore-imprenditore è realmente
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sussunto nel capitale, ovvero: il lavoro – fonte di tutte le ricchezze sociali – viene compreso nella logica,
nelle esigenze strutturali del capitale. Con l’estensione del capitalismo, inarrestabilmente avvenuta nei
decenni successivi alla morte di Marx, si è indubbiamente concretato il passaggio da una sussunzione
soltanto formale ad una sussunzione autenticamente reale della società nel capitale: tutti i rapporti sociali
sono pertanto capitalisticamente determinati – e deteriorati. La vita umana è così reificata nella totalità dei
suoi aspetti.

La distorsione prodotta dal feticismo delle merci e dalla mercificazione del lavoro pone il soggetto in
contrapposizione rispetto alla propria attività lavorativa, che gli appare qualcosa di oggettivo ed
indipendente, regolato da leggi estranee ed incontrovertibili. Dal pdv. oggettivo, sorge un mondo di cose e di
rapporti tra cose (merci); dal pdv. soggettivo, l’individuo si riconosce incapace di influire attivamente sul
decorso della realtà. Dunque, l’attività umana si oggettiva dinanzi all’uomo: e cioè si aliena, trasformandosi
in altro da sé: in merce, incapace di coscienza e forza di emancipazione. Scrive Marx: “Solo in questo
momento [nell’oggettivazione mercificata del lavoro] si generalizza la forma di merce dei prodotti del
lavoro”. Infatti, l’universalità della forma-merce come forma di oggettualità di tutti gli oggetti diviene
dominante nella misura in cui tali oggetti si concepiscono come formalmente eguali e scambiabili, a fronte
delle loro specifiche differenze qualitative. Si afferma dunque un’uguaglianza formale di tutti gli oggetti
mercificati: ciò si rende possibile soltanto in un contesto socio-economico in cui il lavoro è astratto,
oggettivato – quindi esso stesso mercificato. In altri termini, la possibilità storica di un’affermazione
universale della forma-merce si fonda sul processo di astrazione del lavoro (razionalizzazione,
mercificazione). Un lavoro così configurato – che è insieme presupposto e risultato del processo di
produzione capitalistico – non potrà produrre altro che oggetti-merce e comportamenti soggettivi reificati.

In epoca capitalistica, il lavoro diviene oggetto di una crescente razionalizzazione, il cui esito è, per
necessità, l’espulsione delle proprietà qualitative del lavoratore dal processo lavorativo scientificamente
uniformato. A partire dalla fine del XVIII sec., si rileva la tendenza degli imprenditori, coadiuvati da tecnici
e scienziati, a favorire una trasformazione del lavoro industriale: trattasi della scomposizione capitalistica
delle procedure lavorative, progressivamente frazionate ed organizzate in atti sempre più elementari,
specializzati, calcolabili secondo criteri di efficienza e prevedibilità 48. Queste introduzioni tecnico-
scientifiche impongono una pianificazione scientifica del lavoro, che si rivela tanto più redditizia, quanto più
astratta rispetto alle esigenze materiali dei lavoratori. Presto, tali principi di pianificazione e specializzazione
del lavoro oltrepasseranno i confini dell’industria, diffondendosi capillarmente nell’intero orizzonte
professionale della società capitalistica, inducendo una inedita concezione del tempo-lavoro, nonché
un’ascendente indistinzione tra lavoro manuale-intellettuale. Senza dubbio, però, l’applicazione più vasta e
48
È molto più semplice prevedere i risultati di un ciclo produttivo, se il lavoro viene parcellizzato in operazioni
ripetitive, elementari, tipizzate. Lukàcs, p. 115: “La razionalizzazione intesa come pre-calcolabilità sempre più esatta
di tutti i risultati a cui si tende è raggiungibile soltanto mediante la più precisa scomposizione di ogni complesso nei
suoi elementi, mediante l’indagine delle leggi parziali speciali della loro produzione. Questa calcolabilità esige che
non si abbia più a che fare con l’unità organica, sempre condizionata in senso qualitativo, del prodotto stesso. Il
prodotto unitario come oggetto del processo lavorativo si dissolve”.
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disumana di questi principi si manifesta nelle fabbriche (vedi fordismo, taylorismo: efficientamento
scientifico di tempo ed energie degli operai che, in queste condizioni, divengono macchine parlanti, e cioè
parti meccaniche intercambiabili di un più ampio ingranaggio produttivo, all’interno del quale essi sono
tenuti a ripetere incessantemente pochi e semplici gesti. In questo modo, si produce la subordinazione
reificante del lavoratore alle logiche formali e contabili del capitalismo).

In forza di questa inarrestabile meccanizzazione e razionalizzazione del lavoro, si producono due


conseguenze immediate, entrambe fonti di alienazione dell’operaio: da una parte, infatti, la frammentazione
del lavoro rende inaccessibile alla coscienza operaia l’oggetto compiuto della sua attività; dall’altra, diviene
possibile elaborare una stima obiettivamente calcolabile del tempo-lavoro socialmente necessario per la
produzione di una determinata merce. In questo senso, il tempo-lavoro, dapprima fissato soltanto
empiricamente, diviene oggetto della medesima pianificazione razionale applicata alle procedure operative:
di qui, il tempo-lavoro si fissa come una quantità di lavoro obbiettivamente calcolabile, che si contrappone al
lavoratore in un’autonomia impenetrabile. Non soltanto gli atti, ma anche il tempo49 del lavoratore diviene
alienato, reificato, rispetto alla sua personalità complessiva, oramai costretta al margine del processo
produttivo oggettivato. Dunque, da una parte la scissione dell’oggetto, che smarrisce la propria unità di
prodotto dell’attività umana, divenendo piuttosto l’esito di operazioni parziali meccanicamente giustapposte;
dall’altra parte, questa scissione si replica sul piano soggettivo: i gesti ed il tempo dell’operaio gli vengono
alienati, mentre le sue peculiarità umane appaiono – dalla prospettiva capitalistica – come mere fonti di
accidentalità ed errore dinanzi al funzionamento oggettivo di procedure già stabilmente calcolate.

Paradossalmente, a fronte della sfrenata consunzione lavorativa degli operai industriali, Lukàcs ritiene che,
in queste succitate condizioni, l’attività dell’operaio perda sempre di più il suo carattere di pratica,
trasformandosi invece in un comportamento contemplativo. Infatti, nell’esecuzione del proprio lavoro,
l’operaio si trova posto dinanzi ad un sistema già concluso, che funziona in piena indipendenza, secondo
leggi alle quali egli si deve adeguare, senza potervi in alcun modo imprimere la propria volontà, o creatività:
di qui, e cioè dinanzi a questa apparente legalità naturale e sovrapersonale del processo lavorativo, sulla
quale l’attività umana non può nulla, l’atteggiamento operaio sarà necessariamente contemplativo. Il
frenetico attivismo della produzione capitalistica corrisponde ad una profonda passività della coscienza
operaia, costretta a contemplare non soltanto l'oggettivazione mercificata della propria forza-lavoro, ma
anche la fissità di un sistema produttivo onnipervasivo, che si mostra inscalfibile ed inattingibile, tanto
quanto può esserlo soltanto una legge di natura. Sicché, stando così le cose, l’operaio diviene spettatore sia
rispetto alla propria esistenza, sia rispetto al processo in cui viene meccanicamente incluso 50. A questo stato

49
Marx: “Non bisogna più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma che un uomo di un’ora vale un
altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più nulla”. Il tempo perde così il suo carattere qualitativo,
mutevole, fluido: esso si irrigidisce in un continuum esattamente delimitato, quantitativamente misurabile, riempito da
operazioni reificate e meccaniche. Trasfigurazione del tempo secondo i caratteri fisicalistici dello spazio.
50
Lukàcs, p. 117: “La meccanizzazione della produzione trasforma i lavoratori in atomi astrattamente isolati, che non
si trovano più in una relazione reciproca, organica: la loro coesione è invece mediata con crescente esclusività dalle
leggi astratte del meccanismo nel quale sono inseriti”.
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di cose – surrettiziamente naturale – gli operai sono costretti a piegarsi ed adattarsi supinamente: ancora una
volta, contemplativamente.

Nella fabbrica si realizza al massimo grado la struttura reificata dell’intera società capitalistica.
L’operaio assomma in sé il destino generale della società di cui è parte51, né questo sarebbe possibile in un
contesto pre-capitalistico: infatti, la razionalizzazione meccanica del lavoro – con le sue conseguenze: la
reificazione della coscienza individuale e di tutti i rapporti sociali – diventa possibile soltanto laddove sia
sorto il lavoratore-mercificato, ovvero il lavoratore che, per sostentarsi, è costretto a vendere sul mercato
(come se fosse una merce) la propria forza-lavoro, intesa come il complesso delle sue qualità psico-fisiche.
Per poter raggiungere questa altezza dello sviluppo storico-sociale, è necessario che l’intero soddisfacimento
dei bisogni della società si svolga nella forma dello scambio di merci. In questo senso, tutte le premesse
economico-sociali del moderno capitalismo – separazione del produttore dai suoi mezzi di produzione;
declino del valore d’uso; annientamento delle relazioni economiche naturali; e così via – convergono verso
l’affermazione dell’universalità dominante della forma-merce che, in irrefrenabile espansione, pone la
necessità della razionalizzazione del processo produttiva e, di conseguenza, della reificazione dei soggetti in
esso operanti. Con Lukàcs (p.119):

Soltanto in quanto la vita intera della società viene così polverizzata in atti isolati di scambio di
merci può sorgere il lavoratore “libero” [colui che vende liberamente la propria forza-lavoro];
al tempo stesso il suo destino si trasforma necessariamente nel destino tipico dell’intera
società. (…) Ciò che rende tipico il suo destino in rapporto alla struttura di tutta la società è
che questa auto-oggettivazione, questo trasformarsi in merce di una funzione umana [il lavoro]
rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di
merce.

Il processo di oggettivazione (estraneazione reificante, mercificante) non interessa soltanto i soggetti del
lavoro capitalisticamente pianificato, ma anche gli stessi oggetti prodotti e circolanti nel reticolo sociale.
Come già si è anticipato, in epoca capitalistica diviene predominante la forma di oggettualità della merce, in
ragione della quale i valori d’uso degli oggetti vengono ridotti al loro valore di scambio. In questo orizzonte,
viene pertanto occultato il carattere materiale e qualitativo degli oggetti che – apparendo da subito come
merci formalmente equivalenti l’una all’altra – ricevono un’inedita oggettività, nella quale si dissolve il loro
originario ed autentico carattere di cosa materiale. Con Marx: “La proprietà privata non aliena soltanto
l’individualità degli uomini, ma anche quella delle cose. Di per sé, la macchina non ha niente a che fare con
il profitto” – essendo il profitto un attributo la cui esistenza dipende dalle condizioni socio-economiche, e
dunque in alcun modo inerente alle determinazioni intrinseche della macchina in quanto mero oggetto. Per
via del loro carattere di merce, dunque, i singoli oggetti empirici vengono deformati nella loro oggettualità:
si attenuerà in essi ogni pur minima traccia delle relazioni sociali che li costituiscono. Per la coscienza degli
individui – che in questo processo è oggetto di reificazione – questa forma di oggettualità diviene la forma

51
Lukàcs, p. 119: “Per la prima volta nella storia, l’intera società, almeno tendenzialmente, è sottoposta ad un
processo economico unitario ed il destino di tutti i membri della società viene mosso da leggi unitarie”.
81

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fenomenica immediata e necessaria della vita sociale. La coscienza reificata è incapace di spingersi oltre
questa immediatezza, mentre tende invece a fissarla come stato-di-cose eterno, approfondendone
scientificamente le leggi costitutive. E più questa ricerca scientifica progredisce ignara dei propri limiti
metodologici, più la reificazione si insinua nel fondo della coscienza e delle relazioni sociali. Nel
capitalismo, tutto diviene oggetto di reificazione (feticismo delle merci).

(Apparente) incontrovertibilità della reificazione: persino quei pensatori che si sono – più o meno –
pienamente resi conto del fenomeno della reificazione e dei suoi effetti umanamente disastrosi, si sono
limitati a descrivere l’immediatezza del fenomeno, senza compiere alcun tentativo di penetrarlo sino al suo
fondamento originario, ovvero il fenomeno socio-economico dell’oggettualità mercificata. Essi – Lukàcs cita
il Simmel di Filosofia del denaro – non oltrepassano il piano della pura e semplice descrizione (intuizione)
del fenomeno, indugiando pertanto attorno alle forme fenomeniche esterne della reificazione. Questo limite
concettuale – apparentemente invalicabile – si deve al fatto che il processo di reificazione si dispiega sulla
totalità delle forme e delle relazioni fenomeniche della società capitalistica. Lo sviluppo capitalistico
reificante ha perciò favorito la formazione di un proprio Stato, una propria amministrazione, un diritto
rispondente alla struttura dei suoi bisogni economici. “Dal pdv. della scienza sociale – scrive Weber – lo
stato è un’azienda così come la fabbrica: vi si possono trovare gli stessi rapporti di potere. (…) L’azienda
capitalistica è intimamente fondata sul calcolo: essa, per esistere, ha bisogno di un apparato amministrativo
e giudiziario il cui funzionamento possa essere, almeno in linea di principio, calcolato razionalmente. (…)
L’elemento specifico del capitalismo moderno – l’organizzazione razionale del lavoro – non sorse mai, né
avrebbe mai potuto sorgere all’interno di una struttura statale irrazionale ”52.

Dunque, la reificazione esonda dall’alveo strettamente economico, per comprendere e trasformare


razionalisticamente lo stesso piano sovrastrutturale della società: e cioè il suo assetto politico, giuridico,
amministrativo, il quale viene riconfigurato secondo le esigenze capitalistiche di sistematizzazione generale,
di prevedibilità calcolistica dei fenomeni, di oscuramento delle loro accidentalità particolari. Così disposto,
tale assetto sovrastrutturale si contrappone ai singoli eventi della vita sociale come qualcosa di esattamente e
rigidamente stabilito, una volta per tutte. È pur vero che non di rado intervengono conflitti locali
(manifestazioni irrazionali) tra le esigenze costantemente mutevoli del sistema economico e la fissità del
suddetto assetto ordinamentale; tuttavia, questi conflitti vengono immediatamente appianati mediante la
formulazione di nuove codificazioni (sempre più astratte e specifiche) da introdursi nel dominio interessato
dal conflitto. Di qui, si otterrà una nuova configurazione sistematica del dominio sovrastrutturale in
questione: pure, il nuovo sistema dovrà mantenere la medesima rigidità strutturale e sovrapersonale del
52
Il passo continua: “Le forme aziendali moderne, con il loro capitale fisso ed il loro calcolo esatto, sono troppo
sensibili all’irrazionalità del diritto e dell’amministrazione. Di qui, esse possono sorgere soltanto laddove il giudice è
come una macchina automatica, nella quale si introducono dall’alto gli atti del processo, insieme alle spese ed agli
onorari, per riceverne in basso la sentenza con le sue motivazioni più o meno plausibili – una macchina il cui
funzionamento è, approssimativamente, calcolabile”. Il giudice può operare soltanto mediante una razionalità di tipo
formale, strumentale; il ricorso alle virtù giuridiche della prudenza, della saggezza, dell’equità, non è contemplabile, in
quanto esse non costituiscono misure pratiche calcolabili. La persona del giudice è indifferente nell’emanazione di una
sentenza.
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suo precedente. In questo senso, per es., nonostante il diritto moderno si trovi in un continuo processo di
trasformazione dei propri contenuti, esso mostra una struttura inaggirabilmente statica ed ostile alla libertà
pratica del soggetto. Si ripresenta qui, in piena luce, la natura contemplativa dei comportamenti del soggetto
capitalista. Scrive Lukàcs (p. 127):

Il decorso di determinati eventi viene conosciuto e calcolato secondo leggi necessarie ed


indipendenti dall’arbitrio individuale. Il comportamento dell’uomo si esaurisce quindi nel
corretto calcolo delle occasioni di questo decorso.

Non potrà sfuggire un’analogia strutturale tra la forma contemplativa di questi atteggiamenti –
inconsciamente – generalizzati e l’attività dell’operaio posto di fronte alla macchina, di cui si trova al
servizio, e che si limita ad osservare, controllandone contemplativamente (passivamente) il funzionamento
previsto. In questo senso, pertanto, si potrà concludere che la struttura della coscienza e dell’attività
lavorativa di un esponente politico, giudiziario, o amministrativo, non è affatto altra rispetto a quella di un
operaio industriale. Le differenze eventualmente riscontrabili saranno quantitative, e non già differenze
qualitative nella struttura della coscienza soggettiva. Ad ogni altezza sociale, quindi, si ha un adattamento del
modo di vita e di lavoro – e con ciò della coscienza – ai presupposti economico-sociali del modo di
produzione capitalistico. Ovunque, in conseguenza della razionalizzazione formale dell’intera società,
dilagano il frazionamento specialistico delle procedure professionali; la ricerca di leggi razionali che
sovraintendano impersonalmente a questi domini sociali parziali ed astratti; la massiva alienazione degli
individui, costretti a piegarsi ad una sempre più profonda separazione del lavoro dalle capacità e dai bisogni
dei lavoratori. In altri termini, occorre divincolarsi dalle mistificazioni ideologiche e cogliere la reificazione
come fenomeno strutturale fondamentale dell’intera società borghese.

Paradossalmente, la reificazione della coscienza del lavoratore si rileva in maggiore grado – in un grado
ancora più incoscientemente disumano – tra gli ordini professionali più socialmente elevati. Anche qui, come
nel caso dell’operaio industriale, si ripresenta infatti la separazione della forza-lavoro dalla personalità del
lavoratore, e la sua conseguente trasformazione in una cosa, che egli vende sul mercato. L’affermazione di
Marx relativa al lavoro di fabbrica, secondo cui l’individuo viene diviso, trasformato nel congegno
automatico di un lavoro parziale, appare tanto più evidente, quanto più questa divisione del lavoro richiede
operazioni spirituali, e cioè di carattere più evoluto rispetto all’esercizio genericamente operaio della forza
fisica. Il burocrate, il giurista, il giornalista, il tecnico, mercificano la propria capacità spirituale, ovvero
quella stesa capacità che, sola, potrebbe favorire l’emancipazione soggettiva. Scrive Lukàcs (p. 227):

Il processo della reificazione, la mercificazione dell’operaio, mentre da un lato annientano


l’operaio stesso – fin quando egli non si ribella coscientemente –, dall’altro non trasformano in
merce la sua stessa essenza spirituale-umana. L’uomo reificato nella burocrazia, ecc., è invece
reificato, meccanizzato, diventa merce, in quegli stessi organi spirituali che sono veicolo della
sua rivolta contro questa reificazione, Anche i suoi pensieri ed i suoi sentimenti vengono
reificati nel loro essere qualitativo.

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Unificando la struttura economica dell’intera società, il capitalismo ha prodotto una struttura di coscienza
formalmente unitaria per ogni strato sociale esistente. In questo senso, dunque, le trasformazioni apportate
dall’organizzazione capitalistica della produzione non si limitano alla mercificazione di qualsiasi oggetto
destinato a soddisfare i bisogni sociali, ma esondano fino a deformare la stessa coscienza soggettiva. Le
qualità e le facoltà coscienziali non si connettono più nell’unità organica della persona, ma appaiono invece
come cose che l’uomo possiede, oggettiva, commercia. La reificazione non si arresta quindi all’altezza della
corporeità dell’individuo, ma comprende altresì le sue determinazioni psichiche e spirituali: a tal proposito,
si ricordi quanto scrive Hegel: “È molto più difficile rendere fluida la rigidità dei pensieri, anziché quella
dell’esserci sensibile”.

La razionalizzazione reificante della società capitalistica incontra i propri limiti strutturali espansivi nel
carattere meramente formale della sua razionalità. La razionalità capitalistico-borghese concentra la propria
azione su singoli elementi, o settori, astrattamente considerati, dei quali si premura di indagare la sola
legalità formale, prescindendo metodologicamente dalla considerazione della materialità particolare dei fatti
interessati. Ne deriva una pluralità di leggi e domini particolari, in sé largamente approfonditi, ma totalmente
isolati dai rapporti che intrattengono concretamente con altri leggi e domini. Si costituiscono pertanto
indefiniti complessi di leggi in sé assolutamente autonomi – es. il dominio del diritto, dell’economia, della
sociologia, e così via; questi si mostrano formalmente connessi tra di loro (ovvero: i loro rapporti possono
essere formalmente sistematizzati), ma dal pdv. concretamente materiale questi domini presentano
connessioni tra loro puramente accidentali. In altri termini, p. es., sebbene dal pdv. formale si possano
stabilire connessioni sistematiche tra le legalità del diritto e dell’economia, dal pdv. materiale risulta
impossibile penetrare le relazioni concretamente reali tra gli ambiti delle pratiche giuridiche ed economiche.
Pertanto, di fatto, le relazioni sistematiche tra diritto-economia appariranno costitutivamente accidentali.

Tali incoerenze esplodono apertamente nei tempi di crisi, nei quali si manifesta l’improvvisa
disgregazione del complesso di leggi – apparentemente naturali e coese – che reggono il funzionamento della
società capitalistica. Questo cedimento dell’impalcatura sistematica capitalistica, all’apparenza così rigida ed
inscalfibile, si rende possibile – con Lukàcs – “poiché i legami interni tra i suoi elementi, tra i suoi sistemi
parziali, mantengono un carattere di accidentalità, e non già di bronzea compiutezza, anche nei momenti del
loro più normale funzionamento”. Entro i limiti della struttura capitalistica, le crisi economiche risultano non
soltanto inevitabili, ma anche permanenti: infatti, la logica della produzione capitalistica risulta in costante
oscillazione tra la prevedibilità conforme a legge dei singoli fenomeni, o settori sociali, e l’irrazionalità del
processo complessivo; ovvero, la produzione capitalistica è permanentemente in crisi, nella misura in cui
essa si situa tra la razionalità formale dei vari sistemi particolari 53 e l’irrazionalità generale del sistema
capitalistico. Questo apparente paradosso si dipana nell’attimo in cui si consideri come la razionalizzazione
capitalistica è pressoché settoriale: fintantoché rimarrà limitato alle singole parti del sistema capitalistico,

53
Razionalità formale che, inevitabilmente, produce conflitti di genere locale: per es., esigenze fiscali / accumulazione
di capitale. A ben vedere, tali disfunzionalità locali sono riflessi dell’irrazionalità sistemica del capitalismo.
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occultando per di più gli aspetti concreti e materiali a fondamento di queste parti sistemiche, questa pur
capillare razionalizzazione non comprenderà la totalità del sistema di produzione che, pertanto, sarà costretta
ad un’irrazionalità non soltanto incomprensibile, ma anche – e soprattutto – indisponibile ad ogni
modificazione reale per opera dei soggetti. In altri termini, ad una razionalizzazione dei sistemi e delle
istituzioni particolari della società moderna non corrisponde un’adeguata razionalità dell’intero sistema
economico-sociale. [Per es., è possibile razionalizzare fino ai minimi termini la produzione di un dato
articolo di consumo, ma non è affatto possibile razionalizzare – quindi prevedere, calcolare – l’andamento di
tale articolo sul mercato54].

Si noti bene: questa irrazionalità, questa legalità estremamente problematica dell’intero rispetto alla
razionalità delle parti, non è soltanto un presupposto del funzionamento generale dell’economia capitalistica,
ma è altresì un prodotto della moderna organizzazione del lavoro. Come si è già avuto modo di
evidenziare, la divisione capitalistica del lavoro implica una lacerazione di qualsiasi processo – o complesso
– organicamente unitario, scomposto nei suoi elementi e nelle sue funzioni essenziali, a loro volta oggetto di
una progressiva ed astratta specializzazione. Ognuna di quelle parti scomposte tenderà infine a costituire un
dominio a sé stante, formalmente – fittiziamente – indipendente, sviluppandosi ulteriormente secondo la
propria specificità logica. In altri termini, posto l’inesauribile processo di divisione e di specializzazione del
lavoro, si potrà comprendere come l’interesse economico degli individui penderà verso le opportunità
dispiegate dalle singole parti, dai singoli sistemi parziali, e non già da un intero economicamente disutile.

Così, va perduta ogni possibile immagine dell’intero. Ma, non potendosi mai estinguersi l’esigenza di
cogliere l’intero sociale, quantomeno dal pdv. conoscitivo, sorge l’impressione che – rimanendo vittima
dell’immediatezza – la scienza laceri la totalità del reale in frammenti tanto più inconciliabili, quanto più
oggetto di indagini specialistiche. Con Marx: “I momenti non vengono afferrati nella loro unità”. La ragione
di queste deficienze concettuali si radica nel carattere formale del moderno metodo scientifico, rispetto al
quale il mondo circostante, il suo autentico sostrato di realtà, diviene inafferrabile. La formalità
metodologica neutralizza il materiale su cui opera, rendendolo astrattamente eguale ad ogni altro materiale,
al di là delle differenze empiriche particolari. Il limite della scienza moderna è propriamente
l’annichilimento di queste differenze qualitative riferibili agli oggetti reali, in favore di un’uguaglianza
astratta e quantitativa. In questo senso, il fine della scienza moderna non potrà essere che una legalità
astratta, posta a fondamento di un sistema formale e parziale, incapace sia di cogliere il proprio sostrato
materiale (assunto quindi come datità immodificabile), sia di comprendere la propria posizione rispetto alla
totalità dei fatti e dei processi reali. A proposito di questo paradigma formalistico, astorico del metodo
scientifico moderno, si leggano le parole di Lukàcs (p. 136):

La scienza diventa di intendere il sorgere ed il passare, il carattere sociale della propria


materia, delle possibili prese di posizione rispetto ad essa e del proprio sistema formale.
54
Lukàcs, p. 133: “Le occasioni della valorizzazione, le leggi del mercato, debbono certo essere razionali, ma soltanto
nel senso di un calcolo probabilistico; esse non possono invece essere dominate da una legge rigida ed immutabile”.
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A questa altezza emerge chiaramente l’interazione sostanziale tra la costituzione di una metodologia
scientifica e l’essere-sociale della classe che ne dispone (i suoi interessi socio-economici). L’inintelligibilità
della crisi è una conseguenza della situazione e degli interessi di classe della borghesia: infatti, se la classe
borghese prendesse pienamente coscienza della struttura delle crisi del sistema di produzione capitalistico,
essa comprenderebbe la propria caratura storica, nonché le contraddizioni e le storture del sistema
capitalistico, inevitabilmente destinato al tramonto. Quella medesima metodologia scientifica e formalistica,
che è al contempo presupposto e prodotto dell’affermazione capitalistica, segna altresì il limite invalicabile
della coscienza borghese, incapace di comprendere un fenomeno strutturale – la crisi – che eccede una
considerazione meramente formalistica dei fatti. Infatti, l’essere-qualitativo delle cose, che ordinariamente
appare come una cosa in sé incomprensibile, e che la scienza borghese pensa di poter impunemente
trascurare, nelle crisi diventa il fattore decisivo, giacché proprio i suoi effetti concreti ed imprevedibili
ostacolano il corso delle usuali leggi economiche. L’inconoscibilità del contenuto qualitativo degli oggetti
concreti è la ragione fondamentale dell’inintelligibilità delle crisi. Con le parole di Hilferding: “L’economia
borghese opera soltanto con concetti economici come capitale, profitto, accumulazione, e così via, credendo
che, per possedere la soluzione del problema della crisi, basti individuare i rapporti quantitativi che danno
luogo a squilibri. Si dimentica però che a questi rapporti quantitativi corrispondono delle condizioni
qualitative; (…) ci si dimentica che si ha a che fare anche con macchine, materia prima e forza-lavoro”. Da
queste considerazioni emergerà certo quanto poco i concetti fondamentali dell’economia borghese,
astrattamente elaborati ed impiegati, siano in grado di cogliere e chiarire il movimento reale della vita
economica nel suo complesso.

Le dinamiche più sopra riferite all’economia borghese si replicano strutturalmente identiche in qualsiasi altra
scienza collocata entro l’alveo della società capitalistica. Si prenda l’esempio della scienza giuridica, da
sempre alle prese con il problema della relazione tra forma-contenuto. Come insegna il formalismo giuridico,
il contenuto degli istituti giuridici non è mai di natura giuridica, ma sempre di natura politica ed economica.
Di qui, alle forme giuridiche sarà costitutivamente preclusa la comprensione dei propri relativi contenuti
giuridici. In questo senso, il diritto appare come un mero sistema formale di calcolo, tramite cui diviene
possibile calcolare, per l’appunto, le conseguenze giuridiche di determinate azioni. Questa concezione del
diritto trasforma il sorgere ed il passare del diritto, ovvero: i suoi contenuti storicamente determinati, in
qualcosa di giuridicamente inintelligibile. Il sostrato materiale del diritto assume così una caratura
imperscrutabilmente trascendente, tale da rendere impossibile ogni ricomposizione dell’unità forma-
contenuto. Sarebbe altresì velleitario sperare che la ricomposizione di questo intero, alla cui conoscenza le
scienze borghesi hanno rinunciato allontanandosi dal sostrato materiale della propria costruzione concettuale,
possa essere operata dalla filosofia. Ciò sarebbe possibile, soltanto se la scienza filosofica oltrepassasse i
limiti dell’imperante razionalismo formalistico, cogliendone la genesi e la necessità storica, nonché
impostando in modo radicalmente diverso da esso i problemi della conoscenza. A tal fine, sarebbe necessario
un “metodo filosofico che sia internamente unificante”, come scrive Lukàcs: “ma una modificazione
radicale del punto di vista è impossibile sul terreno della società borghese”.
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Il carattere fondamentale dello sviluppo della filosofia borghese si può rinvenire nella sua tendenza a
lasciarsi passivamente sopravanzare dalle scienze particolari, delle quali essa filosofia si limita a riconoscere
e giustificare in sede speculativa la necessità dei risultati e dei metodi. In quanto le costruzioni concettuali
della scienza borghese vengono assunte dalla filosofia come datità incontestabili, in tanto essa si allontana
dalla possibilità di cogliere e rovesciare la reificazione insita nel formalismo della metodologia scientifica.
Anche la filosofia, dunque, cede dinanzi alla presa della reificazione, piegandosi ad una passiva
contemplazione della datità55. Per la stessa filosofia, il mondo reificato appare come l’unico mondo
possibile, comprensibile, dato. Ma – con Hegel – ciò che è immediatamente dato non è, per ciò stesso,
anche necessariamente legittimo: compito della filosofia è comprendere il sorgere ed il passare delle datità
reali: la loro genesi ed il loro divenire nella storia.

Il problema della reificazione si traspone nella questione di ciò che i filosofi considerano come datità –
ovvero come presupposto da assumere dogmaticamente, senza che il pensiero possa giustificarlo, derivarlo
geneticamente. Derivare geneticamente un dato significa mostrare il processo che ha condotto alla sua
produzione. Di conseguenza, per superare la dimensione reificata del pensiero, è necessario trasformare il
dato in prodotto; è necessario dissolvere la rigidità del fatto nella fluidità dei processi che presiedono alla
sua costituzione. Pure, per conseguire questa possibilità metodologica, occorre anzitutto ricostruire la storia
filosofica della reificazione. Dunque: quali specificità e declinazioni teoretiche assume la reificazione nella
filosofia moderna?

Il corrispondente filosofico della reificazione (socio-economica) è il concetto di datità. In questo senso,


qualunque filosofia assuma il mondo reale come presupposto già dato, già costituito, è una filosofia reificata,
incapace di percepire e comprendere la genesi di ciò che immediatamente appare allo sguardo soggettivo.
Nota bene: con l’espressione mondo reale, si intende indicare il mondo storico-sociale. Con Vico: “La storia
umana si distingue da quella della natura perché noi abbiamo fatto la prima, e non la seconda”. Il mondo
reale di cui si intende derivare la genesi è il mondo storicamente divenuto.

55
Lukàcs, p. 157: “La scienza particolare lascia il sostrato materiale delle proprie leggi nella sua intatta irrazionalità
(ingenerabilità, datità), così da poter operare senza impedimenti, in un mondo in se stesso concluso e reso
metodologicamente puro, con categorie dell’intelletto illimitatamente applicabili. Queste categorie non vengono
nemmeno più applicate al sostrato realmente materiale, ma ad una materia intelligibile [vd. esperimento]. E la filosofia
non interviene consapevolmente in quest’opera delle scienze particolari. Essa considera anzi questa sua rinuncia come
un progresso critico. La sua funzione si limita così all’indagine delle condizioni formali di validità delle scienze
particolari che essa lascia intatte senza introdurre elementi di correzione”.
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- LE ANTINOMIE DEL PENSIERO BORGHESE

Vi è una correlazione tra il razionalismo moderno ed il fenomeno della reificazione. Più precisamente: la
moderna filosofia critica è sorta dalla struttura reificata della coscienza. In questo processo, e nelle questioni
che seguiranno alla sua delucidazione, occorre riconoscere la centralità della figura di Kant e
dell’impostazione da questi conferita al problema della conoscenza. Con Kant, la filosofia si pone il
problema di conoscere il mondo come proprio prodotto, senza più assumerlo come qualcosa che è già dato
indipendentemente rispetto al soggetto della conoscenza. Il motivo determinante della svolta kantiana – già
anticipata da alcuni suoi predecessori, su tutti Vico – è la concezione secondo cui l’oggetto della conoscenza
è conoscibile soltanto laddove esso sia stato prodotto dal soggetto stesso: altrimenti detto, l’oggetto della
conoscenza è tale – è oggetto ed è conoscibile – nella misura in cui è posto dal soggetto stesso, e non è
invece semplicemente assunto dal soggetto in quanto dato. A questo punto, si sarà compreso come, per
Lukàcs, la filosofia di Kant – e sulla sua scia l’intero idealismo tedesco – rappresenti l’immane tentativo del
pensiero borghese di oltrepassare la datità (l’ideologia del dato) e, con essa, la moderna reificazione del
pensiero.

L’operazione principale della critica kantiana consiste nel porre l’oggetto conosciuto come prodotto
dell’applicazione delle forme soggettive alla materia sensibilmente recepita (contenuto). Pure, sebbene
l’oggetto della conoscenza risulterà costituito dall’attività delle forme trascendentali della soggettività, il
materiale cui queste forme si applica rimarrà – con Fichte – un residuo dogmatico, una datità
irriducibilmente indipendente rispetto all’attività soggettiva: una cosa-in-sé, ovvero il presupposto che è
necessario assumere come già dato, affinché le forme a priori della soggettività possano applicarsi nella
realtà. Gli oggetti della conoscenza sono, sempre e comunque, soltanto fenomeni: ovvero, essi possono
essere conosciuti esclusivamente secondo il modo in cui appaiono, una volta sensibilmente recepiti ed
intellettivamente sintetizzati. Entro i confini della filosofia critica trascendentale di Kant, la cosa-in-sé – il
noumeno – riveste una duplice funzione capitale: 1) da una parte, essa costituisce la materia su cui il soggetto
può dispiegare l’attività delle sue forme conoscitive; 2) dall’altra, questa nozione permette di riconoscere il
ruolo del soggetto nella produzione della realtà fenomenica. Pur tuttavia, la cosa-in-sé costituisce un’aporia
invalicabile nella filosofia kantiana. Infatti, il soggetto è detto porre le condizioni a priori di ogni
esperienza possibile; ma, allo stesso tempo, il medesimo soggetto condizionante risulta esso stesso
condizionato dall’effettività di un presupposto indispensabile per l’espletamento delle sue funzioni
trascendentali. Il residuo noumenico della cosa-in-sé segnala la presenza di un presupposto, di una realtà,
che, per principio, sfugge alla presa delle operazioni razionali della soggettività. In definitiva, il noumeno
kantiano rappresenta un irriducibile residuo di irrazionalità; una datità essenzialmente indeducibile56.
56
Si noti bene: il carattere aporetico ed incompiuto di questa teoria della conoscenza non sfugge affatto all’acume di
Kant. Per risolvere l’aporia interna alla ragion pura teoretica, Kant sposta l’asse della discussione sul piano della ragion
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Il dispiegamento della razionalità kantiana non può prescindere dall’assunzione della cosa-in-sé, fondo
dogmatico ed ingiustificabile. In Kant, il centro dell’esperienza – il suo contenuto reale– rimane una datità di
per sé inconoscibile. Nonostante il tentativo kantiano di oltrepassare la moderna dicotomia forma-contenuto
recuperandone l’unità in seno al dispiegamento delle forme a priori della soggettività, sul piano della
riflessione di carattere trascendentale rimane razionalmente indeducibile la genesi della datità reale,
concretamente materiale dell’esperienza. Nella misura in cui il contenuto dell’esperienza reale rimane per
principio inconoscibile, risulterà altresì preclusa la possibilità di una comprensione della totalità organica
dell’esperienza. Consapevole di questo limite, Kant dedica alcuni passaggi della KU alla discussione del
rapporto parti-intero. Si tratta, in quelle righe, del problema della contingenza, dell’accidentalità del reale:
esso rende impossibile una concordanza organica tra le diverse leggi della realtà naturale – laddove esse si
integrino, infatti, sembrano farlo in modo casuale. La questione dell’accidentalità non solo dei contenuti
della conoscenza possibile (oggetto di esperienza possibile), ma anche di tutte le leggi che si riferiscono ad
essi e che li ordinano, pone in evidenza il problema fondamentale della possibilità del sistema in generale. La
contingenza, riflesso della datità di cui sopra, è infatti il limite che impedisce alla ragione umana di
conseguire una conoscenza della totalità del reale (si veda KrV: contingenza-essere necessario)57.

Correlazione tra questione del contenuto delle forme conoscitive / della totalità della conoscenza58. Nella
misura in cui il contenuto della conoscenza è presupposto come datità noumenica che –
incomprensibilmente59 – si dà alla intuizione ricettiva (passiva) del soggetto, viene giocoforza negata la
possibilità di accedere ad un sistema compiuto di tutti gli oggetti della conoscenza. L’essere-così dei

pratica. Pure, la distinzione fenomeno-noumeno si mantiene attiva anche a questa altezza, trasfigurandosi nella
dicotomia libertà-necessità. In questo modo, lungi dal risolvere definitivamente la dualità fenomeno-noumeno, questa
viene trasferita all’interno del soggetto; con Lukàcs (p.163): “Anche il soggetto si scinde in fenomeno e noumeno, e la
sua più interna struttura è raggiunta dalla frattura irrisolta ed insolubile tra necessità e libertà”. Alla libertà
noumenica viene dunque preclusa la possibilità di operare sul piano del mondo dei fenomeni, regolati secondo
necessità. Di qui, formalismo etico kantiano.
57
Analogia tra razionalità critica-razionalità borghese. Entrambe le forme di razionalità – è propriamente inesatto
parlare di due forme di razionalità distinte, nella misura in cui la ragion critica sorge sul terreno del pensiero borghese –
rimangono prigioniere di una datità invalicabile e, in conseguenza di ciò, si negano una comprensione della totalità
dell’esperienza. Come ricordato in precedenza, infatti, la razionalità capitalistica – interessata allo sviluppo di soli
sistemi razionali parziali – è assolutamente incapace di comprendere e governare la totalità del sistema capitalistico e
dei suoi processi. Per il pensiero borghese, datità e totalità rimangono frontiere invalicabili – due aspetti di un
medesimo problema. A proposito del rapporto tra filosofia moderna e razionalità capitalistica, cfr. Lukàcs, p. 158: “Nel
pensiero della società borghese si è imposta, sul terreno della filosofia, una doppia tendenza: infatti, se da una parte la
società borghese domina sempre più i momenti parziali della sua esistenza sociale, sottomettendoli alle forme dei suoi
bisogni; dall’altro, ed anche qui in misura crescente, essa perde la possibilità di arrivare a dominare con il pensiero la
società come totalità e, quindi, anche la destinazione a dirigerla. La filosofia classica tedesca segna un particolare
momento di transizione in questo sviluppo; essa sorge ad un grado dello sviluppo della classe nel quale questo
processo è tanto avanzato da consentire la presa di coscienza di questi problemi in quanto tali; ma, al tempo stesso,
essa sorge in un milieu nel quale essi possono arrivare alla coscienza soltanto come problemi puramente intellettuali,
puramente filosofici, che, nonostante ciò, colgono tuttavia i paradossi più laceranti della situazione storica presente”.
58
Lukàcs, p. 150: “Problema della totalità inerisce alla comprensione di quegli oggetti ultimi della conoscenza che,
soli, consentono di raccogliere i diversi sistemi parziali in modo tale da formare una totalità, un sistema del mondo
compreso nella sua interezza”.
59
Kant: “La causa non sensibile di queste rappresentazioni ci è del tutto ignota, e non la possiamo perciò intuire
[dunque conoscere] come oggetto. Potendo noi chiamare oggetto trascendentale la causa meramente intelligibile
[pensabile, ma non conoscibile] dei fenomeni in generale, con ciò noi abbiamo soltanto qualcosa che corrisponde alla
sensibilità come recettività”.
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contenuti sensibili resta una datità che non può assolutamente essere risolta. Tale irrazionalità del contenuto
– della fatticità del contenuto – è gravida di conseguenze, specie in relazione alla questione della totalità,
ovvero dell’istanza razionalistica del sistema, per cui si richiede che ogni singolo momento del sistema possa
essere generato dal suo principio fondamentale e, in base a questo stesso principio, possa essere esattamente
prevedibile nelle sue conseguenze e relazioni. Di qui, risulterà immediatamente comprensibile per quale
motivo la matematica – conoscenza deduttiva a partire da assiomi – abbia rappresentato il modello
metodologico per tutta la filosofia moderna. In tal senso, risulterà altrettanto chiaro il fatto che, assunta
questa esigenza sistematico-formale, al razionalismo moderno sarà precluso il riconoscimento del carattere
fattuale, contingente, dei contenuti della conoscenza. In definitiva, questo contenuto permarrà in quanto
fatticità irriducibile; datità indeducibile a partire dai principi formali del sistema.

Ora, scrive Lukàcs (pp. 153-4): “La grandiosità, la paradossalità e la tragicità della filosofia classica
tedesca consiste nel fatto che essa, anziché far sparire ogni datità come non-essente dietro la monumentale
architettura delle forme razionali, comprende invece il carattere irrazionale della datità del contenuto,
sforzandosi di andare al di là di questo accertamento e di superarlo in ragione della costruzione del
sistema. (…) La datità deve essere rielaborata fino al punto da poter essere inclusa senza residui nel
sistema razionale dei concetti dell’intelletto”. In altri termini, l’irrazionalità del dato diviene un compito per
il pensiero: per comprendere il contenuto entro le maglie di un sistema formalistico compiuto, esso pensiero
dovrà non già assumere la datità, bensì – oltrepassando il momento sintetico kantiano – generarla a partire
dalle sue stesse forme. Emerge quindi il problema della genesi del dato, che troverà la propria massima
espressione in Fichte.

Il problema della genesi del dato implica la ricerca di un principio che possa cogliere il sorgere ed il passare
dei contenuti della realtà: ovvero, un principio che, a partire da una forma specifica, possa produrre –
generare – la datità del reale nei suoi contenuti concreti, senza lasciare alcunché di presupposto o inspiegato.
Tale principio deve rendere possibile la dissoluzione della rigidità dei fatti empirici dati, di cui sarà pertanto
opportuno rigettare il carattere apparentemente statico ed immutabile, privilegiando al contrario una
metodologia in grado di risolvere tale fattualità nel processo della sua generazione trascendentale.
Metodologia genetica: pensare il fatto come prodotto di un processo in divenire; pensare il processo come
movimento di produzione del dato. Quindi, da un lato il fatto / l’atto / l’essere [Tat]; dall’altro,
correlativamente, ciò che lo fa / ciò che è in atto / il divenire [Handlung]. Fichte è stato il primo pensatore ad
intuire che, al fine di completare l’impresa kantiana e superare le pieghe aporetiche della cosa-in-sé, fosse
necessario ricorrere a questa metodologia e, per il suo tramite, porre all’interno della struttura trascendentale
della soggettività un principio di tipo non già sintetico (Io penso kantiano), bensì genetico (Io assoluto
fichtiano).

L’attività sintetica del soggetto kantiano, le cui forme trascendentali risultano prive di caratura genetica
rispetto ai contenuti della sua conoscenza, è costitutivamente insufficiente al fine di comprendere e

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legittimare la datità del reale. L’Io fichtiano, invece, in quanto principio primo della realtà assolutamente
incondizionato, presenta una compenetrazione costitutiva tra contenuto-forma: ovvero, tra l’Io che viene
posto (contenuto; A) e l’Io che si pone in identità formale con se stesso (forma; A=A). Tale è la struttura del
principio assoluto fichtiano: l’Io come Tat-handlung: come atto-in-atto, azione e risultato dell’azione stessa,
contemporaneità e complementarità di essere-divenire. L’Io si pone (Handlung) ed è posto dalla propria
azione in quanto contenuto (Tat). Nella misura in cui l’Io si pone a partire da se stesso, e cioè senza
presupporre nient’altro che se stesso, si è ottenuto un contenuto, un dato, di cui è possibile individuare la
genesi – il sorgere ed il passare – nell’attività produttrice del Io trascendentale. Così facendo, si è giunti alle
soglie di un principio che compendia l’assolutamente reale (contenuto) e l’assolutamente coerente (forma;
sistema): l’Io assoluto: l’autocoscienza.

Nelle intenzioni di Fichte, la struttura trascendentale dell’Io assoluto consente di colmare senza ulteriori
residui lo iato irrazionale tra soggetto-oggetto, che latita irriducibile nell’impostazione critica kantiana. Con
le parole di Fichte, la filosofia kantiana rimane prigioniera “della proiezione assoluta di un oggetto, del cui
sorgere non è possibile rendere conto; di conseguenza, tra la proiezione ed il proiettato vi è l’oscurità ed il
vuoto: uno iato irrazionale”. Altrimenti detto: nella distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, l’oggetto
reale viene proiettato dinanzi al soggetto della proiezione come qualcosa di non-pienamente deducibile, e
cioè irrazionale. Con la posizione fichtiana di un principio che non si limita ad applicare sinteticamente le
proprie forme ai contenuti della realtà, ma produce geneticamente questi medesimi contenuti, viene –
apparentemente – infranto il limite costituito dalla datità. Il pensiero viene così spinto al di là della semplice
assunzione della realtà già data, al di là della mera contemplazione intuitiva. (Come si avrà modo di vedere,
nemmeno Fichte sarà del tutto in grado di superare definitivamente tale orizzonte contemplativo, che ancora
il soggetto alla mera intuizione del dato).

Con Fichte giunge a piena maturità l’esigenza – peraltro già presente in Kant – di risolvere la dualità
soggetto-oggetto. Beninteso, ciò non significherà affatto negare la dicotomia soggetto-oggetto attiva sul
piano empirico, che anzi, nota Lukàcs, costituisce “la struttura fondamentale dell’oggettualità empirica”.
L’esigenza fichtiana tende piuttosto ad individuare quel punto di unità soggetto-oggetto a partire dal quale si
renda possibile dedurre – generare – la dualità soggetto-oggetto rilevante all’altezza dell’oggettualità
empirica. In altri termini, contrariamente all’assunzione dogmatica di una realtà immediatamente data ed
aliena al soggetto, sorge l’esigenza di dissolvere questa datità noumenica (trascendente, irrazionale),
riconducendola al luogo originario della sua genesi: il punto di identità soggetto-oggetto: fichtianamente, l’Io
assoluto, l’Io principio genetico della realtà. Con ciò, rilevando la necessità di un principio filosofico
genetico (produttivo, pratico), Fichte segna un primo – e tuttavia incompleto – superamento della mera
contemplazione. Nell’Introduzione alla Wissenschaftslehre, Fichte osserva: “La filosofia deve prendere le
mosse da un atto, cioè da una pura attività che non presuppone alcun oggetto, ma lo produce da se stessa;
se essa prende le mosse dall’atto, si troverà proprio nel punto di congiunzione tra i due mondi – tra soggetto
ed oggetto”.
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Già Kant, preso dall’insolubilità delle aporie della ragion pura, aveva maturato una svolta in direzione
pratica, di cui è manifestazione la KpV. Ciò nonostante, anche l’etica kantiana replica le difficoltà logico-
metodologiche (distinzione forma-contenuto) già espresse nella sua gnoseologia. In conseguenza di ciò,
l’etica kantiana risulterà puramente formale, priva di ogni contenuto qualitativo: anzi, con le parole di Hegel,
“il dovere puro [forma dell’agire etico in generale] è semplicemente indifferenza rispetto ad ogni contenuto”.
Il tentativo kantiano di soluzione pratica del problema forma-contenuto non riesce dunque a divincolarsi
da quei medesimi vincoli nei quali è stata precedentemente costretta anche l’impostazione contemplativa
della ragion pura teoretica. Pertanto: il carattere dell’oggetto etico kantiano (l’azione morale) rimarrà
irriducibilmente formale. Ma, nonostante le intenzioni e la monumentale architettura dell’etica kantiana, essa
non coglie l’essenza della praticità. Come già parzialmente manifesto in Fichte, la praticità (prassi) come
principio filosofico consiste nella soppressione di quell’indifferenza kantiana tra forma-contenuto della
conoscenza – sia essa teoretica, o pratica. Un principio autenticamente pratico implica allora l’assunzione di
un concetto di forma, che non presupponga più – come base della propria validità – la pura astrazione da
ogni determinatezza contenutistica; ma che riconosca invece la propria costitutiva correlatività con il
concetto di contenuto. Altrimenti detto: la forma pratica di un principio deve essere predisposta al sostrato
materiale (contenutistico) dell’agire, per poter influire attivamente su di esso: e cioè, per poter modificare o
generare tale sostrato, e non già passivamente contemplarlo. Di fatto, questa impostazione consente di
avvicinare la soluzione delle antinomie emerse sul piano contemplativo. Infatti – assumendo che teoria e
prassi si riferiscano ai medesimi oggetti; e che questi siano un complesso inscindibile di forma-contenuto –
la specificità dell’atteggiamento pratico rispetto alla mera contemplazione determina una disposizione
soggettiva alla peculiarità qualitativa e contenutistica dell’oggetto in questione. Al contrario, come si è
visto, la contemplazione teoretica dell’oggetto implica proprio l’oscuramento di questa disposizione – e, con
ciò, l’incapacità del soggetto di intervenire sulla costituzione della realtà, di cui è costretto a rimanere un
semplice osservatore. Con Lukàcs (p. 165): “La purificazione teoretica dell’oggetto culmina in una
crescente estrapolazione dei suoi elementi formali, liberati da ogni carattere contenutistico; così facendo,
tale dominio teoretico60 crede – ingenuamente, irrazionalmente – di poter ottenere i contenuti dalle sue
stesse forme”.

60
Lukàcs, pp. 169-70: “Questo dominio teoretico della realtà consiste soltanto nella contemplazione della positività e
della correttezza dei risultati ottenuti, necessariamente e senza alcun intervento autenticamente soggettivo, per mezzo
di un astratto calcolo combinatorio di relazioni e proporzioni tra forme”. In questo contesto, l’agire umano si riduce a
ciò: “ad afferrare calcolisticamente, in anticipo, nella misura del possibile, i probabili effetti delle leggi formali della
sezione di realtà indagata” – effetti ai quali il soggetto moderno è interessato esclusivamente ai fini dei propri scopi
economici. Il carattere contemplativo, incapace di azione, non si riflette soltanto nella coscienza dell’operaio; lo
stesso capitalista, infatti, “non agisce, ma anzi subisce un’azione; la sua attività si esaurisce nel calcolo e nella
osservazione corretta dell’operare oggettivo delle leggi naturali-sociali” (Lukàcs, p. 175). Per di più, a dispetto della
loro pur vastissima capacità conoscitiva, il calcolo e l’osservazione razionalistici rimangono prigionieri di una
“necessità oggettiva che, nonostante la razionalità e la legalità del suo manifestarsi, resta insopprimibilmente
accidentale, nella misura in cui la sua fatticità, il suo sostrato materiale continua ad essere trascendente” (ibidem).
Dinanzi ad una simile necessità, non si può dare se non una libertà formale: vuota di contenuti, di vita vivente;
costretta entro i limiti della coscienza soggettiva. Nel capitalismo, l’uomo non agisce; piuttosto egli reagisce alle leggi
naturali-sociali reificanti.
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Prima di tornare a Fichte che, come si diceva, per primo individua la necessità della prassi, dell’attività,
come principio fondamentale della filosofia, sarà bene indugiare rapidamente su di un passo lukacsiano,
lucidamente riassuntivo del fondo problematico fin qui trattato. Si legga (p. 168):

La contraddizione emergente tra soggetto-oggetto nei moderni sistemi formali-razionalistici,


(…) il contrasto tra la loro essenza di sistemi soggettivamente prodotti e la necessità fatalistica
ed estranea all’uomo posta da questi medesimi sistemi: tutto ciò non è altro che la
formulazione sul terreno logico-metodologico (filosofico) dello stato della società moderna.
Uno stato in cui gli uomini, da un lato, infrangono sempre più i legami puramente naturali e
fattuali con la realtà, staccandosi da essi; dall’altro, e nello stesso tempo, erigono attorno a sé
una sorta di seconda natura, il cui decorso si contrappone ad essi con un inesorabile carattere
di legge.

Riprendendo ora il tracciato inaugurato da Fichte, il quale pone il soggetto trascendentale come attività
incondizionata, si rende anzitutto necessario segnalare il limite dell’operazione fichtiana. Sebbene Fichte
rimuova l’aporia kantiana della cosa-in-sé mediante l’assunzione di un principio assolutamente
incondizionato, il quale procede nell’espletamento delle proprie funzioni senza la necessità di assumere un
presupposto irrazionale ed inconoscibile; sebbene, cioè, Fichte risulti in definitiva ancora più radicale
rispetto all’impostazione kantiana, l’Io assoluto fichtiano ricade tuttavia nelle pieghe di un soggettivismo
incapace di comprendere il Non-Io, ovvero la natura, che sembra dunque collocarsi al di là dell’identità
soggetto-oggetto posta entro i confini della soggettività trascendentale. L’Io trova dinanzi a sé un Non-Io:
ovvero, un insieme di realtà non determinate a priori dall’attività trascendentale del soggetto; dunque, un
insieme di ostacoli materiali – ancora una volta, già dati – che muovono una resistenza irriducibile contro il
libero dispiegamento dell’Io, stimolandone tuttavia la produttività tesa al superamento di queste limitazioni
reali. Il Non-Io rappresenta tutte le storture e le defezioni della realtà effettuale, che impongono al soggetto
un incessante intervento modificatore di questa stessa realtà, al fine di istituire quelle condizioni necessarie
alla piena realizzazione del soggetto. Così, se la conoscenza del soggetto kantiano è condizionata da un dato
irriducibile alla conoscenza stessa; così, l’attività dell’Io fichtiano risulterà altresì condizionata da un dato –
il Non-Io – irriducibile al dispiegamento dell’attività soggettiva 61.

61
Come più sopra ricordato, il Non-Io fichtiano è il complesso della natura, ovvero di tutto ciò che risulta alieno rispetto
alla coscienza soggettiva. Un tentativo di includere la natura nella sfera della razionalità è compiuto da Schelling.
Secondo questi, infatti, la natura non si oppone affatto alla ragione, nella misura in cui è essa stessa razionale, composta
come è da un’intrinseca forza di auto-organizzazione secondo principi di armonia e coerenza. Lungi dall’identificarsi
con un ambito dell’essere irrazionale e caotico, la natura è invece una totalità organica vivente, in grado di porsi ed
accrescersi secondo una propria razionalità. Si compirebbe così, nell’Assoluto schellinghiano, l’autentica identità di
soggetto-oggetto, ancora incompiuta in Fichte per via della sua declinazione soggettivistica. Pur tuttavia, la
comprensione di tale Assoluto si offre, secondo Schelling, esclusivamente mediante intuizione intellettuale, ovvero: per
vie ulteriori alla concettualità discorsiva. Sull’intelletto intuitivo: in Kant, genere di intelletto (propriamente divino) in
cui già l’intuizione è spontaneamente produttiva di realtà, e non semplicemente recettiva, come nel caso dell’intelletto
umano. L’intelletto intuitivo divino trasmette immediatamente l’essere al contenuto pensato. In Schelling. Invece,
l’intelletto intuitivo appartiene alle stesse potenzialità dell’uomo, in particolare dell’artista: più specificamente, l’arte è
l’esemplificazione concreta della potenza creativamente produttiva dell’umano intelletto intuitivo. Tale intelletto coglie
l’identità di soggetto-oggetto nell’Assoluto e, soprattutto mediante la pratica dell’artista, mostra ciò che non è possibile
dimostrare concettualmente: ovvero, l’identità di cui sopra. Per Lukàcs, l’intelletto intuitivo di Schelling è una forma di
mitologia concettuale, in cui rischia di scivolare ogni teoria estetica (vd. Schiller).
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Inevitabilmente, anche in Fichte, la concettualizzazione soggettiva della realtà, il movimento genetico dell’Io
nella costituzione del reale – e cioè, in altri termini, l’applicazione di categorie soggettive ai dati della realtà
– sono costretti a riprodurre un presupposto indeducibile. Tale riemersione del problema della datità si deve,
in primo luogo, al suddetto soggettivismo idealistico fichtiano. Sebbene il soggetto fichtiano ponga un
contenuto a partire da se stesso, risolvendo in questo modo la dualità forma-contenuto, Lukàcs osserva come,
al di là dei confini dell’Io assoluto, la questione rimane inevaso. Sul piano dell’esperienza effettuale,
infatti, i contenuti delle forme logiche62 esercitano la propria determinazione soltanto in rapporto ai dati di
cui si fa esperienza. Come in Kant, l’oggetto di applicazione di queste forme logiche – categorie – è un dato,
che certamente viene elaborato dalla concettualità soggettiva, ma il cui materiale ultimo rimane
ineludibilmente estraneo all’attività soggettiva. Anche in Fichte, dunque, si ripresenta il problema della
fattualità; si mantiene cioè l’irresolubile problema dello iato irrazionale posto tra proiezione-proiettato. Il
contenuto fattuale, empirico e contingente di un qualsiasi oggetto, si riafferma costantemente come
inderivabile. Consapevole di questa resistenza da parte del Non-Io, Fichte rileva la necessità di una
deduzione della radicale indeducibilità del dato. In altre parole, Fichte dimostra la necessità, per le
operazioni del soggetto, di un limite indeducibile – la datità fattuale – che può essere compreso soltanto
nella misura in cui viene dimostrato incomprensibile. In ciò, si rivela un’ulteriore e capitale differenza Kant-
Fichte: ciò che in Kant si presentava come presupposto indeducibile, in Fichte viene dedotto in quanto tale –
cioè in quanto presupposto necessario e necessariamente indeducibile 63.

Evidente aporia: qualcosa di incomprensibile viene compreso mediante la dimostrazione della sua
incomprensibilità. L’intero corso seguente alla linea kantiana e fichtiana consisterà – secondo Lukàcs – nella
formalizzazione di questa aporia, la quale manifesta apertamente l’irriducibilità di un principio irrazionale
entro i confini della razionalità critico-trascendentale. Stando così le cose, dunque, lo stesso soggetto
fichtiano risulta inadatto al superamento di quello iato irrazionale, che impedisce il processo idealistico di
deduzione scientifica e sistematica dell’intera realtà. Lo iato irrazionale esprime la scissione teoreticamente
incomponibile tra forma-contenuto, soggetto-oggetto; con la terminologia fichtiana: tra Io e Non-Io. A
questo punto, al pari di Kant, Fichte stesso si vede costretto ad operare una svolta in direzione della
razionalità pratica – ovvero, dell’azione che si presenta come produttiva non più di conoscenza, bensì di
modificazioni sul piano del mondo reale. Anche a questa altezza, tuttavia, permane – trasfigurata – l’aporia di

62
Si ricordi che, già a partire da Kant, la logica trascendentale presenta forme logiche che non si limitano a
rappresentare norme per il corretto funzionamento del pensiero (logica formale classica), bensì dispongono di un
contenuto determinato:
basti pensare alle determinazioni concettuali delle categorie kantiane. In Kant, tuttavia, tali contenuti non sono posti
dalle forme stesse: a tal proposito, si ricordi altresì la critica di Fichte alla deduzione kantiana delle categorie, debitrice
– a suo dire – della logica formale aristotelica.
63
Fichte: “Noi abbiamo compreso come necessario l’intero sapere fattuale, purché si ammetta che vi sia un fenomeno
che può restare appunto l’assoluto presupposto per il pensiero, e che il dubbio su di esso possa essere sciolto soltanto
dall’intuizione fattuale. Per il contenuto fattuale di questa intuizione, comprendiamo soltanto che ce ne deve essere
uno, ma non abbiamo alcuna legge che ci spieghi perché si tratti proprio di questo; ma comprendiamo anche che una
legge di questo genere non può neppure esserci, e che perciò proprio questa mancanza di una legge è la legge
qualitativa di questa determinatezza. In questo senso, comprendiamo come a priori l’intera fattualità, l’intera
empirica, in quanto la abbiamo dedotta come indeducibile”.
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cui sopra: si contrappongono ora necessità-libertà, essere della sensibilità e dover-essere della ragione.
Permane, quindi, la resistenza di una materia non del tutto riducibile all’attività soggettiva: di conseguenza,
la libertà appare come un’esigenza in continua tensione, mai pienamente compiuta. La filosofia
trascendentale (borghese) rimane prigioniera di un fondo irrazionale, che la mantiene arenata tra gli ostacoli
delle proprie antinomie.

Lo sforzo fichtiano si arresta dunque dinanzi al tentativo di accordare le aspirazioni soggettive (Io) e le
condizioni ostruttive dell’oggettività materiale (Non-Io), così da restituire all’uomo la piena coscienza della
propria totalità ed unità. A questa stasi, prodottasi con Kant e rimasta irrisolta nell’opera di Fichte, cerca di
offrire una nuova risposta Schiller. Il tentativo schilleriano di oltrepassare la dicotomia fondamentale –
forma-contenuto, da cui discende ogni altra dualità filosofica – si compie nell’elevazione dell’arte a
principio costitutivo di una totalità concreta. Nella produzione artistica si realizza l’intreccio di forma e
contenuto: la forma è direttamente correlata al carattere contenutistico del suo sostrato materiale. La forma si
adegua al contenuto dato; viceversa, il contenuto si compie e si dà nella mediazione della forma. In questo
modo, si ottiene una totalità concreta, e non già idealistica (Fichte), che non soltanto rende essenziale il
nesso forma-contenuto, ma consente altresì – con Lukàcs – di “dissolvere la relazione accidentale tra parti-
intero, di sopprimere il caso e la necessità come opposti puramente apparenti”.

Contrariamente all’impulso alla forma / alla materia, Schiller fissa il principio estetico come impulso al
gioco. Il paradigma schilleriano del gioco costituisce la via di accesso alla totalità ricongiunta delle facoltà
umane: nel gioco, libertà e necessità, soggetto ed oggetto, forma e contenuto, si integrano reciprocamente. In
tal senso, si compie il superamento dell’antinomia pratica – esigenza di libertà del soggetto / resistenza della
realtà – in cui si era arrestato il pensiero di Fichte. Infatti, nella pratica del gioco, la necessità propria delle
sue regole non ostruisce la libertà del soggetto, ma è anzi la condizione di espressione di tale libertà. In altri
termini, l’oggettività delle regole non impedisce affatto la libertà soggettiva; al contrario, è quella stessa
oggettività normativa a consentire alla libertà soggettiva di dispiegarsi gioiosamente nell’attività ludica.
Forma (libertà) e contenuto (necessità normativa) si integrano in un rapporto correlativo, che consente al
soggetto di esprimere al massimo grado la propria personalità – affatto isolata, bensì operante entro una
dimensione intersoggettiva. La creatività artistica replica la struttura del gioco: i canoni, le tecniche, i
materiali, e così via, rappresentano il contesto per l’esercizio della libera creatività dell’artista. Il gioco
artistico non rappresenta, nell’orizzonte della vita umana, una pratica tra le altre; piuttosto, esso costituisce il
principio che sorregge la realizzazione dell’essenza umana: scrive Schiller, “l’uomo gioca soltanto quando è
uomo nel pieno significato del termine, ed egli è interamente uomo soltanto quando gioca”. Così
configurato, il gioco è quella modalità esistenziale che può ricomporre la totalità delle facoltà umane,
disperse nella frammentazione reificante della società moderna.

Nonostante la direzione schilleriana presenti una serie di intuizioni di rilievo ai fini della presente questione
– su tutte, il decisivo riconoscimento dell’intersoggettività come fattore costitutivo della personalità

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individuale –, occorrerà segnalarne i limiti di validità. Affinché il paradigma ludico-estetico di Schiller si
potesse compiere senza riserve, sarebbe necessario: 1) estetizzare il mondo, rischiando così di distorcerlo in
modo consolatoriamente illusorio e di ricondurre parallelamente il soggetto nelle secche della mera
contemplazione; 2) oppure, sovrastimare la portata del principio estetico, considerandolo come carattere
necessario di ogni attività umana. Nel primo caso si produrrebbe un’alienazione della realtà; nel secondo
caso, un’alienazione dalla realtà umana. In altri termini: per inverare il paradigma schilleriano, è necessario
sacrificare o il mondo, o l’uomo. Ad ogni modo, in entrambi i casi si produrrebbe una lacerazione, una
dispersione, dell’unità intrinseca al soggetto; una ricaduta nell’estraneazione reificante, nell’impossibilità di
un’azione autenticamente libera. Pur tuttavia, l’accordo tra necessità-libertà che si manifesta nella
partecipazione ludica è, per Lukàcs, un indice della possibilità di riconfigurare le questioni fin qui trattate
(datità, totalità, lacerazione soggettività) su un piano ulteriore rispetto a quelli della speculazione teoretica e
della praticità morale. Si intravede, a questa altezza, l’opportunità di un salto dal pdv. del soggetto
individuale al pdv. della socialità del noi: ovvero, diviene possibile – ed anzi necessario – assumere la
prospettiva di un soggetto collettivo.

Lukàcs rende perspicua la necessità di un’integrazione Fichte-Schiller: ovvero, la necessità di


un’assimilazione tra l’elemento produttivo e genetico della Tathandlung e l’elemento della libera
associazione regolata secondo norme collettivamente assunte. Ne deriva l’idea di un soggetto collettivo che,
liberamente consociato secondo un fine, si dispiega nel tentativo di produrre la propria esistenza, di
modificare la realtà secondo le aspirazioni della propria essenza. Un simile tentativo, specie se
collettivamente perseguito, non potrà che manifestarsi nel contesto di realtà più ampio possibile: la storia. In
questo senso, il soggetto collettivo di cui sopra si declinerà in quanto soggetto collettivo produttore di
storia. La produzione di un simile soggetto non può compiersi al di fuori della metodologia dialettica – con
Lukàcs, “la genesi, la dissoluzione dell’irrazionalità della cosa-in-sé, il risveglio dell’uomo sepolto, trovano
il proprio centro concreto nella questione del metodo dialettico”, il quale è un metodo essenzialmente
storico. La peculiarità del metodo dialettico è quella di assumere il movimento in divenire tra soggetto-
oggetto come spazio della verità, che, secondo le celebri parole di Hegel, dovrà pertanto essere intesa “ non
soltanto come sostanza, ma anche come soggetto”. La sostanza di cui si dice, e che è elemento costitutivo
della verità dialetticamente conseguita, è la storia – l’autentico terreno della genesi, del sorgere e del passare
delle cose.

La storia – il divenire – costituisce per il razionalismo moderno un limite costantemente trascurato,


insuperato. In quanto tende alla calcolabilità formale dei contenuti astrattamente considerati, suddetto
razionalismo si trova costretto a concepire tali contenuti come immutabili. Senza contenuto qualitativo e
contingente, non si dà alcun divenire: pertanto, l’oscurità mistificata dei contenuti materiali della conoscenza
rende impenetrabile il sostrato storico della realtà. In altri termini, il metodo formale soggiacente al
razionalismo moderno preclude la via per la conoscenza del contenuto, da un lato; della storia, dall’altro.
Mediante il calcolo, infatti, non si può cogliere né il concreto, né il divenire. Vi è quindi una relazione tra
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problema-contenuto e problema-storia. Soltanto il divenire storico sopprime la rigidità già-data,
noumenica, dell’oggettualità reale e dei suoi contenuti a-storici. Di qui, si ammetterà come l’unico luogo
possibile per la comprensione dei contenuti qualitativamente peculiari del reale – altrimenti detto: per la
genesi del particolare – sia la totalità concreta del processo storico. La verità del contenuto si offre soltanto
nel “delirio bacchico di cui ogni membro è ebbro”, come scrive Hegel.

Comprendere i contenuti del reale come momenti della totalità concreta della storia significa allo stesso
tempo comprendere questa medesima totalità come prodotto soggettivo. Con le parole di Lukàcs: “Noi
abbiamo fatto la nostra stessa storia, secondo il detto vichiano; se siamo in grado di considerare l’intera
realtà come storia, abbiamo allora raggiunto un pdv. dal quale possiamo comprendere la realtà come
nostro atto”. Giunti a questo punto, diviene dunque necessario illuminare la natura determinata del soggetto
dell’atto genetico che pone la storia e che, ponendo questa, pone altresì se stesso. Come pensare tale
soggetto genetico, generatore, che si dispiega sul piano della storia? Innanzitutto, questo soggetto della /
nella storia non può essere concepito come un dato fattuale: se così fosse, infatti, non soltanto si riaprirebbe
lo sfondo aporetico delle distinzioni più sopra discusse, ma quelle irrazionalità aporetiche – su tutte: dualità
forma-contenuto – ricadrebbero sulla costituzione di questo stesso soggetto, invalidandone la realtà. Stando
così le cose, occorre, con Lukàcs, “produrre il soggetto del produttore”: mostrare come il soggetto
produttore di storia possa produrre anche se stesso.

Colui che tenta di comprendere la genesi produttrice del soggetto collettivo – ed a sua volta produttore –
della storia è Hegel, in particolare nelle pagine della Fenomenologia dello Spirito, in cui viene descritto il
processo mediante cui la coscienza (il soggetto) matura dialetticamente la consapevolezza del proprio essere
e divenire. In altri termini, secondo Lukàcs, la Fenomenologia costituisce l’imponente tentativo hegeliano di
produrre la genesi non già di un oggetto, bensì del soggetto collettivo della storia. Al di là di questa
operazione – che mira a mostrare in che modo il soggetto collettivo possa essere soggetto della sua propria
produzione storica –, non si dà alcun soggetto collettivo nel senso qui ricercato; oppure, si incontrerebbe al
più una collettività fattuale e contingente, semplicemente data: e cioè, un aggregato sociologicamente inteso,
incapace di produrre lo spazio storico in cui realizzare il proprio compimento dialettico. Con Hegel, dunque,
il movimento genetico è duplice: da una parte, il movimento genetico del soggetto rispetto alla datità
oggettuale; dall’altra, appare con Hegel la necessità di un ulteriore movimento genetico, quello del soggetto
rispetto a se stesso. Il compimento di questi movimenti genetici può realizzarsi soltanto storicamente – e
dunque, dal pdv. metodologico: dialetticamente.

Il problema-genesi (irrazionalità del dato; iato) può essere risolto soltanto sul piano della storia 64 intesa come
totalità concreta di momenti particolari; d’altra parte, il problema-storia (sorgere e passare dei dati) può
essere compreso soltanto secondo una prospettiva genetica, che dissolva la contingenza fattuale nella totalità
64
“La storia: questo, e solo questo, è il terreno della genesi” (Lukàcs, p. 189). Soltanto nella storia potrà
effettivamente compiersi il principio fichtiano della Tathandlung: il soggetto costituisce attivamente la realtà storica,
insieme costituendo sé medesimo nel rapporto con tale realtà.
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storica. Si dà dunque una necessità logico-metodologica del rapporto tra genesi-storia. Il fulcro di questo
rapporto complementare è la dialettica. Rispetto al problema-genesi, la dialettica è il metodo che consente di
dissolvere la fattualità dei contenuti reali (ovvero: il loro carattere di datità irrazionale) nel processo che li ha
costituiti, e che impedisce di assumerli ingenuamente in quanto meri presupposti. Per quanto tale movimento
genetico sia in linea di massima assimilabile alla concezione fichtiana della genesi, occorre segnalare una
peculiarità decisiva della genesi hegeliana del contenuto. Infatti, dialetticamente condotta, la genesi
hegeliana non si impegna a semplicemente-negare le differenze che occorrono tra soggetto-oggetto, forma-
contenuto, e così via, nei dati reali; piuttosto, essendo la dialettica un tentativo di comprensione concettuale
delle differenze, la genesi hegeliana avrà il compito di articolare suddette differenze – concretamente date – e
di mostrarne l’intima e dinamica potenzialità dialettica. Anziché compensarle in un’identità astratta e statica,
la dialettica hegeliana comprende la differenza (contraddizione) come motore della storia; di conseguenza,
essa dialettica non potrà che disporsi ad accogliere e riassorbire le differenze in quanto mediazioni per la
genesi di ulteriori differenze, ovvero: per la genesi di nuovi contenuti della storia. Emerge a questa altezza il
carattere concreto della dialettica hegeliana. Rispetto al problema-storia, invece, la dialettica hegeliana
consente di collocare la fattualità dei contenuti reali – non più immediata, bensì geneticamente mediata –
come momento di una totalità storica processuale65.

Pur impostando correttamente i termini della relazione genesi-storia, Hegel risulta tuttavia incapace di
cogliere il soggetto concreto della genesi della realtà storica – il soggetto-oggetto della storia, ovverosia
quel soggetto che, producendo la storia, viene al contempo prodotto da questa. Come è noto, il soggetto della
storia hegeliana è lo Spirito del mondo, che si manifesta in figure particolari concretamente determinate: lo
Spirito del popolo, ovvero la configurazione complessiva assunta da una civiltà in un periodo particolare
della storia universale. A questa altezza, emergono i limiti della concezione hegeliana. Nonostante elabori
una metodologia dialettica fondamentale per il superamento dei limiti del razionalismo moderno (cosa-in-sé
e totalità), Hegel – riservando alla dimensione teoretica del sapere, della coscienza, la priorità in ordine alla
sua costruzione logico-sistematica – risulta tuttavia incapace di sviluppare completamente le potenzialità di
questo metodo. Di conseguenza, nello stesso Hegel si ripresenteranno alcuni degli incessanti dilemmi della
filosofia classica tedesca. In merito a ciò, Lukàcs rileva i seguenti punti, in cui la filosofia di Hegel rimane
ancorata alle aporie razionalistiche.

1) Naturalismo. Nella figura concettuale dello Spirito del popolo – incarnazione particolare, e tuttavia di
valenza universale, dello Spirito del mondo – permangono determinazioni ingiustificabili, non derivabili
secondo genesi razionale: tali determinazioni risultano perciò, come ammette lo stesso Hegel, dedotte
naturalmente, e cioè da accadimenti storici concreti, e razionalizzate soltanto ex post. Pertanto, nel concetto
di cui sopra – che pure è di rilevante portata in ordine alla determinazione hegeliana del soggetto della storia
– si ritrovano residui di cieca irrazionalità a-dialettica.
65
Lukàcs (p.192): “Ciò che l’atto (Tathandlung) ha tentato di dimostrare – l’unità soggetto-oggetto, essere-pensiero –
trova la sua effettiva realizzazione nell’unità tra la genesi delle determinazioni del pensiero e la storia del divenire
della realtà”.
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2) Astuzia della ragione. Popoli ed individui non comprendono mai pienamente il significato delle loro
azioni, il quale si rivela soltanto ex post, per opera della riflessione filosofica attorno alla logica sottesa ai
particolari eventi e periodi della storia. Di conseguenza, per quanto riguardi l’agire degli uomini nel presente,
esso risulta sotterraneamente diretto dallo Spirito del mondo – emblematicamente rinominato astuzia della
ragione –, che muove le azioni storicamente determinate degli uomini secondo i propri fini universali. In
questo senso, però, non soltanto il significato degli eventi storici viene continuamente differito al momento
filosofico a posteriori, ma si perde altresì il senso autonomo dei molteplici spiriti del popolo, oscurato da un
più ampio e totalizzante soggetto storico – lo Spirito del mondo, unico autentico soggetto della storia. Si
configura pertanto un rapporto di tipo strumentale tra Spirito del mondo / Spirito del popolo. Infatti, la logica
degli avvenimenti storici non è trasparente ai suoi stessi agenti, i quali sono guidati dal destino dello Spirito
del mondo, che ha uno scopo suo proprio, ulteriore a quello degli agenti particolari della storia. In definitiva,
si tratta di una processualità storica che dispiega una radicale eterogenesi dei fini. Con Lukàcs, “l’agire
diventa trascendente all’agente stesso, e la libertà apparentemente raggiunta si trasforma in quella fittizia
libertà di riflettere sulle leggi da cui si viene mossi”. [L’astuzia della ragione è un concetto mitologico 66 per
esprimere il dispositivo che conduce il processo storico complessivo verso la sua realizzazione nello Spirito
Assoluto: nelle forme di arte, religione, filosofia].

3) Contemplazione. Per il tipo di rapporti che Hegel instaura tra razionalità filosofica e processualità storica,
risulta conseguente – all’interno del suo complesso sistematico – il riconoscimento della priorità della
teoria, del pensiero, della contemplazione (non passivamente intesa), rispetto al principio pratico. Pur
tuttavia, questo non significa che la prassi sia trascurata, negata, da Hegel: piuttosto, l’agire storico degli
uomini è iscritto nel processo di sviluppo dello Spirito. L’agire trova il proprio compimento nella coscienza
di sé che, come si è visto sopra, si rivela soltanto ex post, nella riflessione filosofica. La prassi è dunque
presente in Hegel, è anzi necessaria, ma – come emerge nel concetto di astuzia della ragione – è pienamente
subordinata allo sviluppo storico del sapere. Così, risulta inevitabile una ricaduta hegeliana nella dualità
contemplativa soggetto-oggetto.

4) Iato irrazionale. Conseguenza della suddetta priorità della contemplazione sulla prassi è la
ripresentazione di un fondo di irrazionalità persistente nella stessa dialettica hegeliana, che si rende
pienamente manifesto – p. es. – nel passaggio tra logica e filosofia della natura (tra idea-in-sé / idea-fuori-di-
sé). Per spiegare in che modo, pervenuta alla pienezza del suo dispiegamento speculativo, l’idea debba uscire
da sé, alienandosi nelle forme della natura, Hegel ricorre ad un’espressione ambigua: “ L’idea si decide ad
uscire da sé”. Si tratta senza dubbio di un passaggio incomprensibile, ulteriore alla capacità genetica del
soggetto: il movimento dell’idea hegeliana mantiene al proprio fondo la voragine del fichtiano iato
irrazionale. La riproposizione di questo dualismo predispone tuttavia il luogo per la ridefinizione della

66
Lukàcs, pp. 193-4: “Questo è il punto in cui la filosofia di Hegel viene spinta per necessità di metodo verso la
mitologia. Infatti, non avendo potuto trovare ed indicare l’identico soggetto-oggetto nella storia stessa, essa è costretta
ad andare al di là della storia e ad erigere in questo al di là il regno della ragione che ha raggiunto se stessa, a partire
dal quale si può comprendere il cammino della storia come astuzia della ragione”.
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dialettica hegeliana e – in conseguenza di ciò – apre lo spazio per l’irruzione di un nuovo soggetto storico:
non più lo Spirito del mondo, bensì la classe sociale, portatrice di una nuova storia – ulteriore alla fine della
storia prospettata dal sistema di Hegel.

In definitiva, Lukàcs rileva come la filosofia classica tedesca abbia condotto al limite estremo tutte le
antinomie iscritte nel proprio fondamento di vita (essere-sociale), portato queste alla loro massima evidenza
teoretica. Nonostante ciò, come si è visto, tali antinomie – “l’espressione più profonda e più grandiosa delle
antinomie che si trovano alla base dell’essere della società borghese, e che vengono da essa
ininterrottamente prodotte e riprodotte, naturalmente in forme più confuse” – tali antinomie, si diceva, si
ripropongono incessantemente, restando infine irrisolte ed irrisolvibili. Relativamente allo sviluppo storico,
la filosofia classica tedesca si trova quindi in una posizione paradossale, tragica: da una parte, essa prende
le mosse dal tentativo di superare, sul piano del pensiero, la società borghese e la frammentazione del
soggetto da essa derivante; dall’altra, tuttavia, nelle sue manifestazioni più rilevanti essa è costretta a
riprodurre intellettualmente la struttura di questa stessa società. A dispetto di questi esiti teoretici i cui limiti
risultano invalicabili – “la filosofia classica può lasciare in eredità solo queste antinomie irrisolte”, scrive
Lukàcs –, in questa immensa fase della riflessione filosofica emerge tuttavia un elemento che mostra la via
per il superamento della società borghese: il metodo dialettico.

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- IL PUNTO DI VISTA DEL PROLETARIATO

Il punto di vista del proletariato costituisce la posizione che esso occupa – ed in quale esso si afferma –
rispetto al processo di sviluppo storico-sociale. La conoscenza dell’essenza sociale capitalistica si dispiega
unicamente a partire da questo pdv. Per questa ragione, soltanto a partire dalla presa di coscienza di tale pdv.
storicamente necessario diviene possibile la dissoluzione dell’ordinamento capitalistico. L’autoconoscenza
del proletariato (della propria posizione e condizione sociale) è al contempo la conoscenza oggettiva
dell’essenza della società. Di qui, l’identità tra gli scopi dello sviluppo proletario e gli scopi dello sviluppo
oggettivo della società: senza la presa di coscienza del proletariato (in quanto soggetto-oggetto della storia:
soggetto che muove la storia / oggetto del processo storico), lo sviluppo della società rimane ad uno stadio
puramente astratto, incompiuto. Cosa accade, nel momento in cui si produce la coscienza proletaria del
proprio pdv. nella società e nella storia? Immediatamente, nulla – dice Lukàcs: la valutazione della realtà
oggettiva è stata semplicemente compiuta a partire da un nuovo punto di vista, ed il proletariato è apparso
come prodotto da questa medesima realtà. Nella sua apparenza immediata, la realtà oggettiva della società
rimane immutata: e cioè, reificata, e per la borghesia, e per il proletariato, nonostante queste classi sociali
operino tramite categorie di mediazione fondamentalmente differenti. Pure, ritenere che l’influenza esercitata
dalle categorie della mediazione conoscitiva sulla realtà data sia solamente di tipo soggettivo, prospettico,
laddove invece questa realtà rimarrebbe effettivamente immutata ed identica a sé, significherebbe ricadere
ancora una volta nell’aporia borghese della cosa-in-sé.

La ricaduta nell’aporia della cosa-in-sé consisterebbe essenzialmente nel considerare i fatti storici come pure
fattualità astratte, di cui è impossibile ricostruire geneticamente le relazioni costitutive, ed a partire da cui
viene dunque preclusa la conoscenza della totalità storica in quanto tale, ovvero in quanto “forza storica
reale, (…) che non può essere separata dalla realtà dei fatti storici particolari, senza sopprimere la loro
stessa realtà”. La totalità storica è una forza reale poiché concorre essa stessa alla produzione
effettuale dei fatti storici, che a loro volta ne scansionano il dispiegamento. In altri termini, la totalità
storica è il fondamento di realtà – condizione di possibilità e di conoscibilità – dei singoli fatti storici. Stando
così le cose, questa totalità storica è altresì l’autentica realtà storica, che non sussiste affatto al di là
dell’intero del processo storico, nella misura in cui la realtà storica è l’effetto processuale della totalità
storica come potenza in dispiegamento. Ciò significa che l’assunzione del pdv. della totalità storica
costituisce non già una prospettiva soggettiva sulla realtà fattuale, bensì – essendo tale totalità la condizione
di realtà e conoscibilità dei fatti storici – ne modifica l’intima struttura oggettuale: “[con l’imposizione di un
pdv. determinato] subisce infatti una modificazione fondamentale anche la struttura oggettuale, la
costituzione contenutistica, del singolo fenomeno in quanto tale” – scrive Lukàcs67.
67
Il passo prosegue, esemplificando quanto enunciato: “Il modo di considerazione borghese [il pdv. della coscienza
borghese], nel quale la macchina si presenta nella sua isolata particolarità, nella sua individualità di fatto, deforma la
101

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Sembrerà forse che il pdv. della totalità storica costituisca un puro movimento astrattivo del pensiero. Questa
apparenza sorge dalle abitudini di pensiero instillate dalla mera immediatezza esperienziale e conoscitiva,
nella quale – con Lukàcs – “le forme cosali immediatamente date degli oggetti, il loro immediato esserci ed
essere-così appaiono come l’elemento primario, oggettivo, mentre invece i loro rapporti sembrano essere
piuttosto qualcosa di secondario, di puramente soggettivo”. L’influenza di tale apparenza immediata è tanto
persistente ed onnipervasiva da costituirsi al pari di un’irremovibile seconda natura. La sola via che conduca
ad un’autentica comprensione degli oggetti e dei fenomeni storici – e quindi alla rimozione della fittizia
seconda natura di cui sopra – è il pdv. della totalità storica, la quale consente di riconoscere la forma
oggettuale costitutivamente relazionale di questi medesimi oggetti e fenomeni. Per tramite di questo pdv., il
pensiero deve perciò oltrepassare la rigida fissità astratta degli oggetti; deve ricostruire i nessi di relazioni in
cui ogni oggetto sussiste; deve porre sullo stesso piano di realtà i reciproci rapporti tra oggetti, l’interazione
tra questi molteplici rapporti e gli oggetti stessi. Quanto più ci si allontana dalla mera immediatezza
empirica, tanto più intelligibili diventano i singoli fatti storici, i loro rapporti, i loro processi di continuità /
mutamento; e, parallelamente, tanto più sarà possibile emancipare l’uomo moderno dalla reificazione.

Dunque, per poter maturare un’autentica conoscenza degli eventi storici – e, con essi, della stessa
processualità storica –, occorre fruire di alcune categorie di mediazione, consci del fatto che il loro uso non si
limita affatto a produrre una semplice prospettiva arbitraria sulla storia. La realtà storica può dunque essere
conosciuta soltanto tramite un complesso processo di mediazione dell’immediatezza: questo processo
corrisponde alla genesi della datità: ovvero al dissolvimento di tale datità, cristallizzata e presupposta, nel
processo di generazione (relazioni, trasformazioni, scissioni: mediazioni) che la ha prodotta nel suo essere-
così. Al soggetto della conoscenza immediata (ingenua) ogni oggetto appare già-dato, già-costituito in una
forma di oggettualità eterna; restare prigionieri di questa immediatezza equivale a mantenersi in un perenne
fraintendimento dell’autentica essenza non soltanto degli oggetti empirici, ma anche dell’intera realtà storica.
L’essere di ogni oggetto reale, di ogni fatto, è costitutivamente storico: altrimenti detto, questo essere è
qualcosa che è divenuto così-come-è soltanto nel corso di un determinato processo di genesi – che si tratterà
dunque di rendere esplicito al pensiero. Produrre la genesi di un oggetto significa pertanto mediare
l’apparente immediatezza dell’oggetto dato, ricostruendone lo specifico processo di generazione. Perché ciò
sia possibile, è necessario non opporre rigidamente le categorie (infrastrutturali) di immediatezza-
mediazione, in quanto costituiscono momenti logico-metodologici di un medesimo processo dialettico.
Anziché contrapporre immediatezza-mediazione, occorrerà piuttosto risolvere l’immediatezza del fatto nel
complesso processuale (dunque mediato) che lo ha geneticamente posto. Conclude Lukàcs: “Genesi
concettuale e genesi storica coincidono”. Trascurando il riconoscimento di questa identità logico-
metodologica, la riflessione borghese sopprime la storia: “Vi è stata una storia, ma ora non c’è più”, scrive
Marx a proposito dell’economia borghese e dei suoi effetti a-storici.

sua reale oggettualità, attribuendole come suo eterno nucleo essenziale la funzione che essa assolve nel processo
capitalistico di produzione. Questo modo di considerazione – questa ideologia – trasforma ogni oggetto storico che
esso tratta in una monade immodificabile, cui sembrano inerire come elementi insopprimibile le proprietà che essa
possiede nella sua esistenza immediata” (Lukàcs, p.202).
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L’oltrepassamento dell’immediatezza empirica – reificata e reificante – non dovrà ridursi alla mera
negazione degli aspetti immediati della realtà, né dovrà altrimenti ricercare la soluzione di questi problemi in
un trascendimento dell’immanenza storico-sociale (vd: istanza kantiana del dover-essere 68). Piuttosto,
l’oltrepassamento di questa immediatezza necessita di fare ricorso alla leva metodologica della mediazione,
la quale sola consente di comprendere la fattualità empirica senza meramente negarne l’apparenza immediata
(che è una forma fenomenica necessaria), ma anzi assumendola e risolvendola in quanto momento di una
totalità in costante divenire genetico. Questa totalità, che non è immediatamente data, opera come
mediazione dell’immediatezza empirica. Si noti dunque un aspetto fondamentale: la categoria della
mediazione non interviene dall’esterno sugli oggetti, arbitrariamente; non è nemmeno, come si diceva in
precedenza, un dover-essere opposto all’essere-immediato; piuttosto, suddetta categoria riflette l’intima
struttura (relazionale, storica) degli oggetti considerati. Non viene quindi operata alcuna dissociazione tra
la categoria, l’oggetto e la sua genesi nella totalità storica. Infatti, la mediazione sarebbe metodologicamente
impossibile, se l’esistenza stessa degli oggetti non fosse già intimamente, strutturalmente, mediata. La
parvenza dell’immediatezza oggettuale resiste soltanto ove sia assente una coscienza della mediazione già
intrinsecamente depositata nella costituzione degli oggetti; ovvero, resiste dove gli oggetti vengono
mistificati, astratti dal complesso delle loro determinazioni relazionali – ciò accade soltanto all’altezza della
falsa coscienza borghese. Ancora una volta, risulterà utile ricordare il detto lukacsiano: genesi concettuale e
genesi storica coincidono.

I limiti concettuali della coscienza borghese nell’intendimento della realtà oggettuale e storica non
dipendono affatto da presunte incapacità intellettuali dei suoi geniali esponenti – Kant, Fichte, Schiller,
Schelling, Hegel. Si deve invece alla struttura ideologica dell’ordinamento capitalistico il fatto che la
conoscenza venga elaborata dal pensiero in questo modo astratto, a-storico, ancorato nell’immediatezza
reificata. Come si è visto, la forma di produzione capitalistica produce un’ideologia (una falsa coscienza)
incapace di rilevare – o di denunciare – la massiva reificazione della vita sociale. Il pdv. del proletariato è
chiamato a rigettare le mistificazioni di tale coscienza, ad operare una trasformazione dell’atteggiamento
metodologico ed ideologico della borghesia nei confronti della datità storico-oggettuale. Nella differenza
pdv. borghese-proletario si esprime non tanto una semplice attitudine speculativa, quanto invece la
diversità dell’essere-sociale delle due classi, ovvero: la diversità delle loro condizioni, dei loro interessi, dei
loro scopi socio-economici. “Ogni metodo è necessariamente collegato con l’essere-sociale delle classi
corrispondenti, (…) il quale, attraverso l’azione motrice degli interessi di classe, trattiene la borghesia in
questa immediatezza, mentre sospinge il proletariato al di là di essa”, scrive Lukàcs (pp. 216-7)

68
Il dover-essere presuppone di principio un essere (l’immediatezza) cui si applichi in qualità di istanza. Così facendo,
però, nonostante l’intenzione di invalidare (mediare) la persistente presa dell’immediatezza reale, le viene invece
conferita “una conferma ed una consacrazione filosofica: essa viene resa eterna”, ovvero eternamente insuperabile,
considerato il carattere inesauribile del dover-essere kantiano a fronte della “fissazione del meccanismo della natura
come forma immodificabile dell’essere” (Lukàcs, pp. 212-3).
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Poiché “nell’essere-sociale del proletariato viene alla luce il carattere dialettico del processo storico, e
quindi il carattere mediato che ogni momento detiene in quanto riceve la propria verità solo nella
mediazione della totalità” (Lukàcs, p. 217), il pdv. del proletariato si distingue per il riconoscimento della
funzione determinante della mediazione nella conoscenza della realtà. La realtà è attraversata da mediazioni
in ogni sua declinazione: lo sviluppo di tali mediazioni non può che dispiegarsi sul piano della storia, il luogo
in cui si articola il processo di generazione di ogni datità storico-oggettuale. Se così è – se cioè la datità degli
oggetti e degli eventi storici può essere compresa soltanto ricostruendo il processo di mediazioni genetiche
incorporate nella costituzione della datità immediatamente apparente –, allora la storia deve necessariamente
essere pensata come una totalità, nella misura in cui soltanto entro una totalità organica le relazioni
(mediazioni) che generano una qualsiasi datità si presentano come iscritte nell’alveo di un insieme coerente e
strutturato di elementi intelligibili, e non già di una congerie irrazionale di relazioni accidentali. Come si
accennava in precedenza, questa totalità storica non è né una sommatoria di tutti gli eventi storici, né una
prospettiva di carattere trascendente rispetto ai singoli eventi; piuttosto, si diceva, la totalità storica è una
reale potenza storica, che concorre alla produzione effettiva dei fatti storici. La realtà storica è il risultato
processuale di una potenza (Macht) immanente al corso dialettico degli eventi stessi – ovvero, di una potenza
effettuale (Wirklichkeit) che partecipa alla determinazione di quelle stesse parti che ne scansionano il
dispiegamento. Com’è possibile, però, avere conoscenza di questa totalità?

1) Prospettiva hegeliana. Si assume che il divenire storico si sia interamente dispiegato e


cristallizzato in un essere non ulteriormente sviluppabile – in particolare, in Hegel, nella piena auto-
consapevolezza dello Spirito Assoluto, culmine della storia dello sviluppo della coscienza. La
filosofia hegeliana come termine della storia, dunque, che si lascia riconoscere come totalità
completamente compiuta ed intelligibile.
2) Prospettiva marxiana-lukacsiana. La prospettiva di una conoscenza della totalità storica si
dispiega soltanto nella comprensione di alcune tendenze oggettivamente operanti nel presente
storico. In questo contesto, le tendenze storiche costituiscono potenzialità oggettive immanenti al
presente; individuare e riconoscere come tali queste tendenze del movimento storico significa
cogliere le linee di forza che hanno concorso al costituirsi di un determinato presente e che ne
indirizzano il divenire (si badi: in senso non-deterministico). Dunque, la totalità della storia può
essere compresa soltanto laddove si riconoscano e si ricostruiscano le tendenze in essa operanti che,
a loro volta, possono essere conosciute soltanto da un soggetto storico adeguato alla loro
comprensione e disposizione. Riconoscere e favorire il corso delle tendenze storiche attive nel
contesto di una determinata società necessita dell’attivazione di un soggetto, il cui pdv. e la cui
destinazione storica gli rendano possibile – e necessario – intervenire sulle coordinate del contesto
storico in cui tali tendenze operano, portandole al loro compimento. Con Marx, questo soggetto
storico è il proletariato, una volta che abbia pienamente acquisito la coscienza di sé in quanto classe
sociale destinata a rovesciare la totalità delle condizioni storico-sociali presenti entro l’ordinamento
capitalistico.
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Attraversato e costituito da tendenze storiche oggettive, il presente è storia : storia divenuta e
storia diveniente, e non già – al modo della riflessione borghese – una datità immediata, resa
ideologicamente eterna.

L’essenza a-storica del pensiero borghese si manifesta soprattutto nella sua incapacità di intendere il
presente come problema storico, di coglierne l’intrinseca storicità. “Per il proletariato diventare cosciente
dell’essenza dialettica del processo storico [così da coglierne le tendenze di sviluppo insite nel presente] è
una questione che può condurre al suo successo o alla sua rovina; d’altra parte, la borghesia occulta nella
vita quotidiana, con le astratte categorie riflessive della quantificazione, la struttura dialettica del processo
storico” – osserva Lukàcs (p. 217). Per il proletariato è dunque assolutamente vitale cogliere il presente
come storia; e cioè prendere coscienza della propria situazione nella totalità delle tendenze e dei processi
che la hanno prodotta69. In altri termini, soltanto riconoscendo il presente come storia in continuo divenire
dialettico, il proletariato può sviluppare una coscienza di classe che sia autentica espressione – teorica e
pratica – del proprio pdv. storico-sociale, e che gli consenta pertanto di affermarsi come soggetto produttore
di storia, destinato a prevalere nella lotta di classe contro la borghesia. Il successo storico del proletariato è
dunque direttamente proporzionale alla sua capacità di prendere coscienza del presente in quanto orizzonte
temporale non già puramente dato, a-storico ed indisponibile all’attività trasformatrice dell’uomo; ma
(presente) in quanto prodotto dialettico di un divenire secondo forze storiche reali (tendenze), che già si sono
dispiegate e che tuttora continuano a svilupparsi entro il contesto socio-economico. Il presente è il punto in
cui si concentra e si dispiega la totalità della storia. O ancora, in altre parole: il presente è l’attualità-
diveniente della totalità storica70.

Data la sua specifica posizione nel processo di produzione sociale, il proletariato si dimostra dunque capace
di intendere l’intrinseca storicità del presente. Stando così le cose, il pdv. del proletariato consente di operare
una radicale trasformazione del rapporto immediatezza-mediazione: infatti, se il presente è riconosciuto
come storia, allora la stessa immediatezza empirica si rivelerà intimamente mediata, e cioè non già astratta
69
La coscienza proletaria della propria situazione nella totalità dei processi e delle tendenze che la hanno prodotta è la
coscienza stessa del presente storico, il quale non può essere pensato al di là del suo divenire processuale e delle
tendenze che lo mantengono in tensione dialettica. In quanto coniuga ed esprime nella propria essenza gli elementi 1)
del divenire e 2) del carattere tendenziale di questo divenire, il presente storico è la totalità storica stessa. Soltanto il
proletariato, in quanto soggetto-oggetto della storia, può maturare un’autentica coscienza (conoscenza) del presente
come totalità storica. Questa coscienza è invece preclusa alla borghesia: “ciò dipende dal fatto che, per la borghesia, il
soggetto e l’oggetto del processo storico-sociale sono pensati in una duplice forma; il singolo individuo
coscienzialmente contrapposto all’immensa necessità oggettiva dell’accadere sociale. (…) [In realtà], soggetto ed
oggetto del processo storico-sociale si trovano in un rapporto di interazione dialettica” (Lukàcs, pp. 217-8).
70
Lukàcs, p. 278 (Il mutamento di funzione del materialismo storico): “Che cos’è il materialismo storico? A differenza
dei metodi storici della borghesia, esso è al tempo stesso in grado di considerare dall’angolo visuale della storia anche
il presente, di cogliere in esso non soltanto i fenomeni di superficie, ma anche quelle profonde forze storiche dalle
quali vengono mossi in realtà gli avvenimenti. Di conseguenza, il materialismo storico ha, per il proletariato, un valore
molto più alto di quello di un metodo di ricerca scientifica: esso è il suo più importante mezzo di lotta. Il ridestarsi
della coscienza del proletariato è conseguenza della conoscenza vera della propria situazione storico-sociale. Il
materialismo storico non è fine a se stesso; esso deve invece consentire al proletariato di prendere coscienza della
propria situazione, e poter agire correttamente in essa, in modo corrispondente alla propria condizione di classe. Per
il proletariato sarebbe un suicidio arrestarsi al carattere propriamente scientifico del materialismo storico, scorgendo
in esso unicamente uno strumento conoscitivo”.
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ed auto-sufficiente, bensì attraversata e costituita da una molteplicità di relazioni e tendenze. L’immediatezza
si rivela per ciò che è realmente, dialetticamente: ovvero la forma fenomenica necessaria – solo
all’apparenza fattuale, puramente data, e così via – prodotta dalla mediazione operata dalle forze e dalle
tendenze storicamente agenti. La mediazione è principio costruttivo strutturale dell’immediatezza reale.
Di conseguenza, occorrerà intendere la mediazione non più come mera categoria della conoscenza
speculativa; ma anche, e soprattutto, come principio immanente alla struttura ontologica dell’immediatezza
storico-oggettuale. Nella misura in cui ogni immediatezza è intrinsecamente mediata, vale quanto detto in
precedenza: e cioè che la categoria della mediazione rappresenta la leva metodologica necessaria per
comprendere e collocare l’immediatezza in quanto forma fenomenica necessaria di una processualità storico-
dialettica.

Riassumendo: la trasformazione del rapporto immediatezza-mediazione si declina in questo modo:


l’immediatezza non viene più riconosciuta e vissuta come datità irriducibile; piuttosto, se ne coglie ora – dal
pdv. proletario – il carattere essenzialmente mediato. Le forze di mediazione – tra cui il lavoro, le forze di
produzione – si rivelano allora fattori realmente determinanti in ordine alla costituzione delle forme di
oggettualità imperanti all’altezza dell’esperienza immediata. In questo senso, per es., una forma reificata di
lavoro (mediazione) determinerà una forma di oggettualità altrettanto reificata (immediatezza - merce).
Pertanto, con il mutare delle forze storiche di mediazione (es. forze produttive, rapporti di produzione, forme
del lavoro, ecc.), muterà anche la forma di oggettualità immediatamente data – socialmente ed
ideologicamente dominante – degli oggetti. In questo senso, al proletariato si presenta il compito di
trasformare – a partire dalla sua stessa azione mediatrice – le forme di oggettualità immediatamente presenti
entro l’ordinamento sociale capitalistico. Altrimenti detto, per compiere la propria destinazione storica, il
proletariato riunito in classe sociale deve intervenire sulle forme di oggettualità esistenti: e cioè, 1)
demistificare il complesso di mediazioni (di principi costruttivi strutturali e tendenze reali di movimento
degli oggetti stessi – Lukàcs) incorporato nelle oggettualità immediate; 2) radicare nell’essere-sociale una
nuova forma di oggettualità, che sia in continuità con le tendenze storiche del presente. L’azione del
proletariato deve quindi produrre la genesi di una nuova oggettualità storica. Stando così le cose, si
rileva allora la scommessa avanzata da Lukàcs: il proletariato come concrezione storico-materiale della
Tathandlung fichtiana – ovvero: come ultimo e vero erede della filosofia classica tedesca.

Come già anticipato, per adempiere alla propria missione storica, il proletariato deve riconoscere il presente
in quanto storia, in quanto prodotto ed attraversato da una totalità di tendenze realmente operanti. Ciò non
significa affatto che il proletariato debba piegarsi supinamente al corso delle tendenze storiche, le quali
necessitano invece di essere colte ed attivate per poter dispiegare la propria funzione storica. Le tendenze
storiche, infatti, non operano al pari di leggi naturali, deterministiche; non permettono cioè previsioni
rigidamente meccaniche circa il corso fattuale della direzione storica e delle azioni umane; piuttosto, queste
tendenze, oggettivamente iscritte nella costituzione del presente, indicano delle linee di sviluppo percorribili,
che soltanto l’attività pratico-politica del soggetto storico – qui, il proletariato che abbia maturato una
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coscienza di classe – può disvelare ed inverare nella realtà storico-sociale. Per favorire questi due momenti
decisivi nella vicenda storica del proletariato – 1) riconoscimento del presente in quanto storia; 2) sviluppo di
una coscienza di classe –, il proletariato deve prendere le mosse dalla “ auto-conoscenza della propria
situazione sociale”, come scrive Lukàcs. La condizione preliminare e prioritaria per ogni sviluppo della
coscienza proletaria – nell’unità teoria-prassi – è la conoscenza demistificata della propria situazione di
classe all’interno della società capitalistica.

Situazione del proletariato:

- forza produttiva motrice dell’intera società, e tuttavia sfruttata ed oltremodo reificata;


- soggetto-oggetto della storia, per cui il proletariato si costituisce come una figura necessaria
nell’articolazione genetica del corso storico [il proletariato deve riconoscersi in quanto soggetto
storicamente necessario, destinato a condurre la rivoluzione dell’intero assetto sociale];

Come già anticipato, il proletariato è l’inveramento storico-materiale del soggetto fichtiano della genesi.
Tuttavia, essendo mutata – da Fichte a Marx – la configurazione del soggetto della genesi, muterà giocoforza
anche l’espletamento della sua necessaria funzione genetica. Infatti, se in Fichte la genesi si compie sul piano
della speculazione trascendentale, in Marx essa di risolve nella storia; ed ancora: se in Fichte occorre
ricostruire speculativamente le condizioni di possibilità della genesi del dato operata dal soggetto
trascendentale, in Marx – così come viene interpretato da Lukàcs – le condizioni di possibilità della genesi
sono realmente iscritte nelle condizioni storiche (nel presente) del proletariato: in altri termini, le condizioni
di possibilità del dispiegamento della facoltà genetica del proletariato sono date nella storia, più precisamente
nel presente e nelle tendenze che lo informano. Dunque, affinché il proletariato risulti pienamente in grado di
espletare la propria forza genetica produttrice di storia, è necessario che maturi coscienza della propria
condizione-situazione nel presente storico: soltanto a questa altezza, infatti, il proletariato può rinvenire
l’indicazione della necessità della propria attività genetica. Per riassumere, con Lukàcs (p. 210):

La conoscenza storica del proletariato ha inizio con la conoscenza del presente in quanto
storia, con l’auto-conoscenza della propria situazione sociale, con l’indicazione della sua
necessità (nel senso della genesi).

Prima di procedere oltre, sarà necessario fare un passo indietro, domandandosi: che cosa spinge il
proletariato verso la necessità di riconoscere la propria condizione storica al di là della sua apparenza
immediata? Oppure, in altre parole: che cosa spinge il proletariato ad oltrepassare l’immediatezza? Si è
visto che, all’altezza di tale esperienza immediata, il proletariato appare come mero oggetto dell’implacabile
accadere storico-sociale, principale preda dell’attuale processo di reificazione capitalistica. Si è altresì
osservato il carattere socialmente organico della proliferazione reificante del capitalismo che, estendendosi
ad ogni livello della vita sociale, non risparmia nemmeno la coscienza borghese. Pure, se dinanzi alle forme
reificate dell’intera società, la coscienza borghese conserva la vitale illusione di un “attivo dispiegarsi del

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suo soggetto, sia pure oggettivamente apparente”; d’altra parte, per la coscienza proletaria “il carattere
reificato dell’immediatezza capitalistica si spinge fino alle estreme conseguenze: (…) per l’operaio, infatti,
la lacerazione della sua coscienza [la mercificazione di sé, della propria forza-lavoro] conserva la forma
brutale di un asservimento tendenzialmente illimitato”. Le medesime forme dell’essere-sociale reificato
appaiono, ad uno sguardo puramente immediato (a-storico), vitali per la borghesia; mortali per il proletariato.
Nella vita dell’operaio, il riflesso delle categorie quantitative della razionalità e dell’organizzazione
capitalistiche si converte in condizioni qualitativamente degradanti, come si legge nelle parole di Lukàcs (p.
219): “egli è costretto a subire [passivamente] la propria mercificazione, la propria riduzione a quantità”.

Le forme quantitative, motore dello sviluppo degli interessi di classe borghesi, si convertono in
determinazioni qualitativamente degradanti e laceranti per l’esistenza fisica, spirituale e morale del
proletariato. In particolare, tra tutte le espressioni quantitative operanti nell’organizzazione capitalistica della
produzione, quella di tempo-lavoro rappresenta la categoria che più interviene nella determinazione
qualitativa della condizione proletaria. È nella questione del tempo-lavoro che si rivela con massima
chiarezza come la “quantificazione sia un velo reificante e reificato che si stende sulla vera essenza degli
oggetti”. Infatti, con il processo di razionalizzazione del lavoro, il tempo-lavoro diventa l’oggetto
privilegiato su cui si applicano il calcolo e la pratica trasformativa delle tecno-scienze capitalistiche: in forza
di ciò, il tempo-lavoro diviene una funzione del capitale, espropriata di qualsiasi attinenza qualitativa con la
dimensione umana del tempo vissuto e del lavoro. Il momento dialettico di conversione della quantità in
qualità raggiunge qui – nel problema tempo-lavoro – il proprio culmine negativo, nella misura in cui “per
l’operaio il tempo di lavoro non è soltanto la forma di oggetto della sua merce venduta, ma è al contempo
anche la forma determinante di esistenza del suo esserci in quanto soggetto” – con Lukàcs (p. 221). Poiché a
questa altezza si registra il culmine della reificazione, sarà proprio qui che il soggetto proletario potrà
riconoscere la propria condizione di oggetto lacerato, mercificato, sfruttato, senza più adagiarsi nella ingenua
rassegnazione per cui tale condizione sarebbe immediatamente e fatalisticamente data. In questa fase ancora
primordiale del suo sviluppo storico, il proletariato prende a riconoscere la propria condizione nel presente
non più come un dato irrevocabile, bensì come il prodotto generato e costantemente rinvigorito da un
complesso di forze, categorie e mediazioni operanti all’interno del sistema della produzione capitalistica.
Dunque, nel problema del tempo-lavoro emerge inequivocabilmente il carattere di oggetto dell’essenza
proletaria; ma, allo stesso tempo, questo medesimo problema “spinge necessariamente il pensiero proletario
ad oltrepassare l’immediatezza [della propria condizione]”. Riprendendo la domanda inizialmente posta: che
cosa spinge il proletariato ad oltrepassare l’immediatezza?, bisognerà dunque rispondere: la conversione
quantità-qualità, nelle declinazioni più sopra rimarcate.

Dunque, il punto in cui si produce la forma più estrema di reificazione delle condizioni proletarie – questione
tempo-lavoro71 – costituisce al contempo il luogo in cui emerge la forma primitiva della coscienza
71
Il culmine – ma anche il presupposto – della reificazione proletaria si situa all’altezza della divisione razionalizzata
del lavoro operaio, la quale comporta la scomposizione del processo lavorativo in procedure meccaniche e calcolabili.
In base a questo modello di organizzazione del processo lavorativo, diviene possibile stimare oggettivamente,
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proletaria. L’auto-conoscenza della propria situazione sociale e, con essa, l’emersione di una primitiva
forma di coscienza di classe proletaria possono avere inizio soltanto a questa altezza dello sviluppo storico-
sociale. Infatti, soltanto “per effetto della scissione che si produce a questo punto tra oggettività e
soggettività nell’uomo che si oggettiva come merce”, il proletariato può divenire cosciente della propria
situazione, oltrepassando – ma non ancora rimuovendo – l’immediatezza apparente. La coscienza del
proletariato emerge – ancora tutta da svilupparsi – nel momento in cui la lacerazione prodotta dalle forme
capitalistiche si manifesta nella coscienza operaia come pungolo al superamento dell’immediatezza data, in
precedenza oggetto di fatalistica contemplazione. Si riproduce qui lo schema fondamentale della logica
dialettica: il momento del negativo (lacerazione, contraddizione) come motore del superamento della rigidità
dei termini immediatamente contrapposti. Nello sviluppo dei processi dialettici, la coscienza sorge e si
sviluppa nei punti di rottura, di esasperata tensione contraddittoria.

Da quanto emerge fin qui, il carattere fondamentale della situazione storico-sociale del proletariato – dal
quale soltanto può emergere la coscienza di classe operaia – è la mercificazione di forza-lavoro e tempo-
lavoro. Il primo movimento in ordine alla costituzione di una coscienza di classe operaia è il riconoscimento
delle forme di reificazione latenti nell’essenza immediatamente data della situazione operaia; e cioè, in altri
termini, l’auto-riconoscimento del proletariato in quanto merce. Il proletariato, dunque, può prendere
coscienza del suo essere-sociale soltanto nel momento in cui diventa cosciente di se stesso in quanto merce.
Ciò posto, la natura mercificata della propria esistenza non sarà più contemplativamente assunta dal
proletariato, ma verrà invece presa per ciò che è realmente: ovvero il risultato di molteplici mediazioni e
mistificazioni storico-sociali. Prendendo coscienza di sé in quanto merce, il proletariato non soltanto
demistifica l’immediatezza della propria posizione nel contesto produttivo, ma coglie anche la declinazione
feticistica della merce, la quale, dietro l’apparenza di un’oggettualità puramente cosale, nasconde in sé il
complesso di rapporti sociali che la costituiscono. Dunque, in questo passaggio , da una parte il proletariato
prende coscienza di sé come merce; dall’altra, proprio in virtù di questa presa di coscienza, lo stesso
proletariato disvela il carattere feticistico della merce, nella quale “riconosce se stesso ed i propri rapporti
con il capitale”. Stando così le cose, occorre soprattutto evidenziare come la neonata coscienza proletaria si
costituisce in quanto autocoscienza della merce. Con Lukàcs (p. 222):

impersonalmente, la quota di tempo-lavoro che ogni operaio deve erogare in cambio della retribuzione salariale
contrattualmente pattuita. Il tempo-lavoro viene razionalizzato, quantitativamente definito: così, la forza-lavoro operaia
viene comprata e retribuita in base alla sua spendibilità temporale. Si osservi bene quanto segue: la reificazione si salda
irremovibile nella mistificazione contrattuale, la cui apparenza è quella di uno scambio tra equivalenti: forza-lavoro per
salario. Come si è visto nelle pagine precedenti, l’immediatezza di questa equazione occulta il fatto che il salario non
compensa l’erogazione proletaria di una determinata quantità di lavoro, bensì acquista ed impiega la totalità delle
capacità psico-fisiche del lavoratore. Così, si accentua ancora di più la conversione quantità-qualità: l’operaio viene
acquistato e retribuito per una quantità di tempo-lavoro predefinita; viene invece effettivamente impiegato (sfruttato)
come complesso di facoltà costantemente malleabili: ciò produce conseguenze qualitativamente degradanti per la
condizione socio-economica ed esistenziale del proletariato.
Recuperando le già citate parole di Marx: “Non si deve più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo,
ma piuttosto che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora”.
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… il proletariato…, la sua coscienza è l’autocoscienza della merce; oppure, l’auto-
disvelamento della società capitalistica fondata sulla produzione e sullo scambio di merci.

Coscienza del proletariato come autocoscienza della merce, dunque. L’essenza immediata, oggettiva, del
proletariato è quella di merce (nella forma della forza-lavoro): perciò, sviluppare una coscienza di sé
equivale qui a produrre un’autocoscienza della merce stessa. E cioè: la merce si riconosce e si rivela per ciò
che è realmente: il prodotto di relazioni umane storicamente determinate, nonché feticisticamente dissimulate
per tramite delle ubique categorie quantitative di origine capitalistica. In questo senso, allora,
nell’autocoscienza della merce si manifesterà la specifica oggettualità della merce: 1) il suo carattere
reificato; 2) la sua essenza originariamente qualitativa e sociale. Trapassando il velo mistificante
dell’immediatezza, queste determinazioni non si limitano a contemplare l’oggetto cui si riferiscono;
piuttosto, nell’alveo dell’unità dialettica teoria-prassi, questo genere di conoscenza (l’autocoscienza della
merce) “realizza una modificazione oggettuale, strutturale, nel suo stesso oggetto”. Tale conoscenza, in altre
parole, è già una pratica, una facoltà trasformativa del reale: infatti, la merce che si riconosca in quanto tale,
che riconosca il deposito di mediazioni e di relazioni in sé incorporate, è – non già in un unico momento –
divincolata dai lacci dell’immediatezza. La merce che prende coscienza di essere tale, non è più semplice
merce: diviene merce autocosciente, ovvero classe proletaria cosciente di sé in quanto merce. La merce
autocosciente è la coscienza proletaria. L’avvento di questa rinnovata, risvegliata, coscienza inizia ad operare
nel senso di una demistificazione del velo di reificazione sparso attorno alla coscienza sociale capitalistica ed
alle sue forme di oggettualità. In questa congiuntura di passaggi teorico-pratici, e propriamente dialettici, la
coscienza di classe proletaria inizia il proprio processo di maturazione – di soggettivazione – al termine
del quale il proletariato dovrà conseguire la coscienza di sé in quanto soggetto della storia avvenire.

[Il proletariato si riconosce come merce: dal pdv. formale questa forma di merce risulta strutturalmente
identica ad ogni altra merce disponibile in commercio; epperò, la merce rappresentata dalla forza-lavoro
dispone di una proprietà decisiva: si tratta infatti di una merce in grado di produrre plus-lavoro, e con ciò
plus-valore. Con Marx, la forza-lavoro come capitale variabile. La merce che prende coscienza di sé – il
proletariato che prende coscienza di sé in quanto merce che produce valore – trasforma la propria
oggettualità: non è più una semplice merce, bensì diviene ora l’espressione di un nuovo soggetto della storia:
la classe sociale proletaria in lotta per la propria emancipazione. Questa trasformazione, determinata a partire
dalla presa di coscienza del proletariato in quanto merce, si rende praticabile nella misura in cui la merce non
è una cosa, ma è invece il prodotto di un determinato rapporto interumano.]

Si noti un’ulteriore diramazione derivante dall’autocoscienza della merce: come si è visto, la presa di
coscienza del proletariato in quanto merce (l’autocoscienza della merce) consente di oltrepassare l’apparente
e mistificata immediatezza delle forme capitalistiche, infine dissolte nel processo di mediazioni che le ha
generate e quindi ricondotte al loro fondamento: la merce, nei suoi momenti di produzione, distribuzione,
commercio, consumo, e così via. La merce – la mercificazione – si scopre essere il fondamento della

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società capitalistica. Infatti, nella coscienza di sé in quanto merce, il proletariato disvela ciò che il
capitalismo dissimula: la matrice sociale della merce e delle mediazioni in essa depositate. E cioè:
riconoscendo la mercificazione socialmente prodotta nei riguardi della propria forza-lavoro 72, il proletariato
riconosce al contempo la pervasività della forma-merce come forma generale e strutturale dell’intera società
capitalistica, dei suoi oggetti, delle sue oggettivazioni, dei suoi rapporti. Con Lukàcs (p. 225): “La
trasformazione di tutti gli oggetti in merci, la loro quantificazione in valori feticistici di scambio, (…) è un
processo di diffusione estensiva di queste forme sull’intero dell’essere-sociale”. Stando così le cose: e cioè,
essendo stato individuato il fondamento reificante del sistema produttivo capitalistico, sarà allora possibile
produrre una conoscenza non più ideologica, bensì scientifica, della totalità 73 sociale e storica del
capitalismo: in altre parole, sarà possibile una scienza della società capitalistica.

Riassumendo, l’atto di presa di coscienza del proletariato produce: 1) trasformazione pratica della stessa
merce, ora soggetto cosciente di sé  genesi del proletariato stesso in quanto classe; 2) la possibilità di
un’autentica scienza del capitalismo.

Riprendendo il punto 1), ci si domanda: perché l’essenza feticistica della merce si rivela soltanto alla
coscienza del proletariato, se la struttura della reificazione informa di sé la totalità delle categorie sociali e
professionali (burocrazia) del capitalismo moderno? Perché la mercificazione del lavoro arriva a
trasformarsi in coscienza di classe rivoluzionaria soltanto nel proletariato? In primo luogo, perché la
divisione razionalistica del lavoro operaio – l’organizzazione del lavoro di fabbrica – costringe i lavoratori a
riconoscersi quali ingranaggi intercambiabili di un sistema produttivo meccanico ed auto-sufficiente 74. La
reificazione della professione operaia comprende gesti, uso del corpo, prassi materiali: per questo motivo,
“la mercificazione dell’operaio (…) non trasforma in merce la sua stessa essenza spirituale-umana ” –
Lukàcs (p. 227). A differenza del burocrate, del giornalista, del professore, e così via; il lavoratore operaio
non mercifica il proprio stesso spirito, le proprie capacità spirituali. La presa (l’atto) di coscienza richiede
l’uso di tali facoltà spirituali che, nel caso delle altre forme professionali, rappresentano l’oggetto stesso della
reificazione capitalistica. Dunque, nella misura in cui la reificazione non raggiunge ancora l’essenza

72
Lukàcs (p. 223): “In quanto viene in primo piano la specifica oggettualità di questo genere di merce [la forza-lavoro,
in quanto merce che produce plus-lavoro e plus-valore] – il suo essere un rapporto tra uomini sotto veli di cosa, un
nucleo qualitativo e vivente sotto una crosta quantificante – il carattere di feticcio fondato sulla forza-lavoro può
essere scoperto come carattere di ogni merce: in ognuna il suo nucleo, il rapporto tra gli uomini, interviene come
fattore nello sviluppo sociale”.
73
Lukàcs (pp. 224-5): “In ogni momento correttamente compreso in modo dialettico è contenuta la totalità; da ogni
momento si può sviluppare il metodo nella sua interezza. (…) Il capitolo sul carattere di feticcio della merce cela in sé
tutto il materialismo storico, l’intera auto-conoscenza del proletariato come conoscenza della società capitalistica.
(…) Il momento particolare non è un pezzo di una totalità meccanica, composta appunto di siffatti frammenti; in ogni
momento particolare si cela piuttosto la possibilità di dispiegare da esso la ricchezza contenutistica della totalità. Ma
ciò accade solo se il momento viene mantenuto in quanto tale, e cioè inteso come punto di trapasso nella totalità.”.
Soltanto a partire da tali premesse metodologiche, propriamente dialettiche, sarà possibile elaborare una scienza della
società capitalistica.
74
“Nella sua datità immediata”, scrive Lukàcs, “il lavoro dell’operaio possiede la nuda forma della merce, mentre
nelle altre forme [professionali] questa struttura mercificante è nascosta dietro una facciata di lavoro spirituale” (p.
226).
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spirituale-umana dell’operaio, quest’ultimo costituisce il “punto in cui la struttura capitalistica arriva alla
coscienza e può, in questo modo, essere praticamente infranta”. La condizione proletaria è pertanto l’unico
pdv.75 all’intero del capitalismo borghese a partire dal quale si possa costituire una coscienza di classe
rivoluzionaria – fattore decisivo per lo sviluppo dell’intera umanità.

Assunto il fatto che soltanto nel proletariato si possa manifestare una coscienza della realtà sociale
capitalistica, una coscienza della merce in quanto fondamento feticistico dell’organizzazione sociale;
occorrerà considerare alcuni aspetti costitutivi della coscienza di classe proletaria e della sua formazione.
Con coscienza di classe non si intende affatto indicare la coscienza del singolo operaio, della sua condizione
esistenziale, o ancora dei suoi interessi economici immediati; né, d’altra parte, tale espressione si riferisce ad
una generica coscienza del proletariato, ottenuta per giustapposizione, o astrazione, di singole coscienze di
operai accidentalmente riuniti. In entrambi questi casi, infatti, non si produce alcuna emancipazione
dall’immediatezza data, superare la quale è invece l’intento del carattere peculiarmente pratico dell’autentica
coscienza di classe proletaria. La coscienza di classe in nulla interessa la coscienza empirica degli individui;
essa è invece è la coscienza di una totalità – genitivo soggettivo / oggettivo. In questo senso, allora, si
comprenderà il passaggio in cui Lukàcs afferma che il carattere peculiare della coscienza di classe proletaria
si rileva nella sua “intenzione diretta alla totalità della società (…), nel movimento ininterrotto verso questa
totalità, quindi nel processo dialettico dell’immediatezza che costantemente si auto-sopprime”. Nella
coscienza di classe del proletariato, questa propensione alla totalità non appare soltanto in quanto attitudine
metodologica, tale per cui la coscienza proletaria prende a riconoscere in ogni momento particolare la
struttura della totalità; ma – considerata l’unità teoria-prassi – una medesima propensione si ritrova altresì
nella pratica rivoluzionaria del proletariato, “rivolta alla modificazione dell’intero”, e cioè alla soppressione
delle forme di oggettualità (di vita) costitutive della totalità sociale capitalistica.

In linea con la propria condizione sociale e con le tendenze operanti nel presente storico, la coscienza di
classe del proletariato – che né si produce, né si dispone, al di là della storia, altro non essendo se non “ la
contraddizione dello sviluppo sociale divenuta cosciente” (p. 234) – si deve trasformare in pratica
rivoluzionaria. Quindi, la coscienza di classe del proletariato è una conoscenza di sé e della società nella
storia, ed è allo stesso tempo – in modo complementare a tale conoscenza – una pratica di trasformazione del
sé e della società. La presa di coscienza è tale soltanto quando “si trasforma in punto di passaggio per la
praxis”. Questi passaggi risultano certo storicamente necessari, dialetticamente determinati e deducibili, ma
ciò non significa che essi siano parte di uno sviluppo meccanico della storia: infatti, se anche la coscienza di
classe proletaria e la sua prassi rivoluzionaria sono elementi storicamente destinati ad apparire e svilupparsi
nel corso delle vicende umane, bisogna d’altra parte rilevare come nella storia nulla sia propriamente
inevitabile. La presa di coscienza del proletariato non è una necessità nel senso meccanico-causale, tale per
cui dato A  deriva inevitabilmente B. Piuttosto, la presa di coscienza del proletariato è una necessità
75
Lukàcs, p. 238: “Se il carattere cosale del capitale si risolve nel processo ininterrotto della sua produzione e
riproduzione, da questo pdv. [proprio del proletariato] può arrivare alla coscienza il fatto che il vero soggetto di questo
processo – sia pure ancora incatenato ed in un primo tempo inconsapevole – è il proletariato stesso”.
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storica che si pone alla libertà degli uomini. Come nota Lukàcs (p. 235): “La decisione sul destino dello
sviluppo storico-sociale è necessariamente rimessa all’attività cosciente degli uomini”. Il tema della
decisione è di primario rilievo nella considerazione degli aspetti politici, organizzativi, propagandistici, della
vicenda proletaria nella società borghese. [Si tenga sempre presente il fatto che tali riflessioni si devono
iscrivere all’altezza del capitalismo come esso si declina nelle forme della società borghese].

La decisione cui il proletariato è di volta in volta chiamato nel corso di congiunture storiche favorevoli /
contrarie alla sua affermazione presuppone due momenti fondamentali, tra loro interconnessi: la presa di
coscienza del proletariato in quanto merce e, a partire da questa, la comprensione del presente in quanto
storia, in quanto luogo di espressione della totalità delle tendenze storiche. Per quanto riguardi questo
secondo momento, e cioè la comprensione del presente come storia, si è in precedenza osservato come la
ragione dell’essere del presente coincida – hegelianamente – con il suo divenire, il suo essere-divenuto ed il
suo essere-in-divenire per tramite di tendenze oggettive storicamente operanti. “Ciò significa che alle
tendenze di sviluppo della storia spetta un più alto grado di realtà che ai fatti della mera empiria ” – scrive
Lukàcs (p. 239). Di conseguenza, le decisioni radicalmente rivoluzionarie del proletariato devono essere
ponderate ed assunte da esso, non già a partire dalla semplice contemplazione dei fatti presenti, quanto
invece in ragione della valutazione dialettica delle tendenze operanti entro la società capitalistica – tendenze
che, secondo Marx, convergono al tramonto del capitalismo. Le decisioni – tattiche, strategiche,
organizzative – della classe proletaria devono fondarsi non sull’immediatezza dei fatti (degli interessi
astratti, particolari), bensì sulla realtà oggettiva delle tendenze storiche (l’intenzione diretta alla totalità).
Come si è visto, per realizzarsi compiutamente, queste tendenze necessitano dell’attivazione di un soggetto
in grado di comprenderle e di favorirle praticamente. Sebbene oggettivamente attive, tali tendenze storiche
né costringono meccanicamente, né dirigono fatalisticamente, l’azione del proletariato, la quale è invece
affidata alla capacità – alla libertà, alla decisione – dei soggetti rivoluzionari.*

* [Lukàcs, pp. 274-5: “Lo sviluppo economico oggettivo ha potuto soltanto creare la posizione che il
proletariato occupa nel processo di produzione, e dalla quale viene determinato il suo punto di vista; esso
può solo far sì che la trasformazione della società diventi per il proletariato possibile e necessaria. Ma
questa trasformazione potrà essere operata soltanto dalla libera azione del proletariato stesso”.]

La storia è mossa dalle tendenze in essa operanti – che, si badi, non sono estranee all’attività umana,
essendone anzi il prodotto stesso. Queste tendenze non agiscono secondo la finzione hegeliana dell’astuzia
della ragione, né si impongono agli uomini come un inesauribile dover-essere trascendente la realtà storica 76
(revisionismo di Bernstein); piuttosto, con Lukàcs, esse rappresentano reali forze storiche, che devono essere
intercettate. dalla coscienza e realizzate dalla libertà dei soggetti storici. La teoria della storia marxiana

76
Lukàcs (p. 241): “Il dispiegarsi di una tendenza dialettica dello sviluppo non è un progresso all’infinito che si
approssima alla meta attraverso graduali incrementi quantitativi. Le tendenze di sviluppo della società si esprimono
piuttosto in una trasformazione qualitativa della struttura sociale”. Le tendenze e le trasformazioni storiche si
impongono quindi per rotture, salti, decisioni.
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(materialismo storico) considera le tendenze dello sviluppo storico complessivo come più reali dei fatti
meramente empirici. Il divenire delle tendenze storiche è anzi la condizione di esistenza dei singoli fatti della
storia – ovvero gli eventi: l’essere nella sua contingenza empirica, astratta. Assunto ciò, Lukàcs intesse una
radicale critica dell’ideologia dei fatti, intesi dal pensiero borghese (positivistico) come realtà ultima ed
immutabile, già data, indifferente ed indipendente rispetto al corso storico ed alla realtà umana. I fatti non si
riducono a mera datità, come ritiene la scienza positivistica, o il senso comune. Dalla prospettiva marxiana
della storia come movimento dialettico di reali tendenze oggettive, diviene possibile cogliere il fondamento
storico-sociale sotteso al sorgere ed al passare di ogni singolo fatto storico – che dunque non può essere
compreso e trasformato nella sua isolata datità, ma che, per essere correttamente concepito, deve essere
dissolto nella totalità concreta di cui è parte. Conclude Lukàcs (p. 243):

Soltanto se si infrange la priorità metodologica dei fatti; se si riconosce la processualità di


ogni fenomeno, si comprende che anche ciò che si suole denominare fatto consiste nel
processo; che allora i fatti non sono altro che parti, momenti del processo complessivo che
sono stati separati, irrigiditi ed isolati artificialmente (…) In questa fattualità pietrificata tutto
si irrigidisce in una “grandezza fissa”, e la realtà immediatamente data si presenta in una
completa immutabilità.

Dissolvendo l’intera fattualità feticistica nei processi e nelle tendenze che la hanno generata, sarà infine
lecito affermare che, stando così le cose, l’uomo è misura di tutte le cose sociali. Il mondo umano si presenta
adesso non più come rigida fissità in balia dell’accadere sociale, bensì come un sistema di forme relazionali
tra uomini – tra uomini e uomini / cose / natura – che si trasformano incessantemente, dialetticamente. Ma se
così è, allora l’uomo è altresì la misura della storia. “La storia non si presenta più come accadere
enigmatico, che si compie accanto all’uomo ed alle cose (…). La storia è invece il prodotto dell’attività
dell’uomo; d’altro lato, è l’avvicendarsi di quei processi nei quali si sovvertono le forme di questa attività,
le relazioni che l’uomo stabilisce con se stesso, con gli altri uomini e con la natura” – Lukàcs (p. 245).
Altrimenti detto: la storia consiste proprio nella dissoluzione di tutte le rigidità fattuali; è quindi
“l’ininterrotto sovvertimento delle forme di oggettualità che plasmano l’esistenza dell’uomo”. I singoli fatti,
le singole forme di oggettualità immediatamente date, non sono comprensibili in quanto tali, se non come
datità indeducibili, trascendenti; risultano invece storicamente comprensibili, nella misura in cui essi
vengono riconosciuti per la funzione e la posizione che ricoprono nella totalità concreta della storia.

Soltanto da questo pdv. metodologico, la storia diventa realmente storia dell’uomo. Infatti, scrive Lukàcs,
“in essa non accade nulla che non possa essere ricondotto all’uomo, ai rapporti degli uomini tra loro, come
ultimo fondamento di essere e di spiegazione” (p. 246). Perché questa prospettiva storica sia ammissibile, è
opportuno concepire lo stesso uomo in quanto essenza dialettica, e non già – al modo di Feuerbach – come
essenza rigida, a-dialettica ed a-storica (cioè assoluta 77). L’uomo non è un presupposto, bensì un esito in
77
Lukàcs, p. 247: “L’assoluto è la fissazione concettuale, la formulazione mitologicamente positiva dell’incapacità del
pensiero di comprendere concretamente la realtà come processo storico. Finché nel sistema si comprende, sia pure
inconsapevolmente, l’assoluto sarà sempre il principio logico prevalente rispetto ai tentativi di relativizzazione
dialettica”.
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costante divenire del processo storico. L’uomo non è una pacifica assolutezza astratta, ma un’essenza
diveniente, e cioè: conflittuale, contraddittoria, dialettica. In continuità con Hegel, Marx assume la dialettica
come l’essenza stessa della storia – e, inseparabile da essa, dell’uomo, essendo questi parte integrante del
processo dialettico, “sia in quanto base oggettuale della dialettica storica, sia in quanto soggetto-oggetto
che si trova al suo fondamento”. Tali conoscenze, che presuppongono l’unità di teoria-prassi nella storia,
possono essere comprese e sviluppate soltanto dal punto di vista del proletariato divenuto cosciente di sé in
quanto classe. Scrive Lukàcs (p. 251):

L’applicazione corretta [operabile soltanto dal pdv. del proletariato] delle categorie dialettiche
all’uomo come misura delle cose è, al tempo stesso, la completa descrizione della struttura
economica della società borghese, la vera conoscenza del presente.*

* [Questa conoscenza è attività pratico-critica rivoluzionaria – Tesi su Feuerbach, I – che né


assume, né accetta, la realtà immediatamente data. Dissolvendo la realtà data nelle sue
mediazioni costitutive, la dialettica è di per sé una pratica trasformativa del reale e della sua
oggettualità. La dialettica – avulsa tanto dall’empirismo, quanto dall’utopismo – è una dialettica
rivoluzionaria. Per questa ragione, “l’arma decisiva del proletariato è la sua capacità di vedere
la totalità della società come totalità concreta, storica, dialettica” – p. 259]

Tutte le considerazioni di cui sopra devono essere intese nell’unità teoria-prassi, volta ad infrangere la
struttura reificata del capitalismo borghese, e così favorire le tendenze storiche indicanti l’avvenire
comunistico. Questa infrazione, questa rottura del presente capitalistico, è possibile soltanto nella presa di
coscienza del proletariato circa la propria condizione storico-sociale e – di conseguenza – circa le
contraddizioni immanenti nel processo stesso della produzione capitalistica. Per tramite di questo atto di
coscienza, scrive Lukàcs (p. 260), “il proletariato può riconoscersi e presentarsi come soggetto-oggetto
della storia, e la sua praxis divenire una praxis di modificazione della realtà”. Dove mancasse tale atto di
coscienza, non soltanto sarebbe negata la possibilità di una costituzione del proletariato in quanto classe
sociale (e non già in quanto mero aggregato sociologico); ma, essendo stata preclusa – mancata – la
formazione del proletariato in quanto soggetto storico rivoluzionario, le contraddizioni presenti rimarrebbero
insolute, ed anzi si riprodurrebbero con accresciuta intensità, riducendo la praticabilità di una rivoluzione
anti-capitalistica. Si rivela qui il genere di necessità insito nella processualità storica: per realizzare il corso
delle tendenze storiche, è oggettivamente necessario che i soggetti storici prendano coscienza di sé / del
presente storico; al di là di questi atti di coscienza teorico-pratica, le contraddizioni sono necessariamente
destinate a mantenersi tali, confermando ed aggravando l’immediatezza del presente.

Ciò che distingue peculiarmente la prassi rivoluzionaria del proletariato (nei suoi plurimi momenti:
decisione, strategia, organizzazione del partito, e così via) è l’intenzione diretta alla totalità: ovvero, la
consapevolezza che 1) la prassi si iscrive in una totalità; 2) l’oggetto della prassi è esso stesso “un momento
particolare avente in sé la struttura dell’intero”. In questo senso Lukàcs può concludere nei seguenti termini
(p. 261): “Sul piano della praxis, dalla decisione presa in un’occasione apparentemente irrilevante può

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dipendere il destino di un intero gruppo. (…) Perciò, nella valutazione della giustezza o dell’erroneità di un
determinato passo, ciò che importa è la funzionalità di questa giustezza o erroneità in rapporto allo sviluppo
complessivo [della storia]”. L’azione del proletariato può dunque dirsi autenticamente rivoluzionaria,
soltanto nella misura in cui essa sia coscientemente rivolta alla totalità dello sviluppo storico-sociale,
oltrepassando l’immediatezza degli interessi politici e socio-economici. In questo senso, si comprenderà
allora per quale ragione la coscienza proletaria è destinata a trasformare l’intera società capitalistica – per
la ragione di cui sopra: la coscienza del proletariato, già pratica fin dal suo sorgere, determina una prassi
diretta alla totalità storico-sociale, della quale il proletariato soltanto può avere conoscenza, rappresentando
esso “le tendenze evolutive divenute coscienti” (p. 263).

Per agire in direzione della totalità, il soggetto storico deve cogliere il presente nella sua storicità. Come
detto in precedenza, il presente è il momento in cui si concentra l’intera totalità storica, in cui si possono
intercettare le tendenze storiche nella loro articolata complessità. Come osserva Lukàcs (p. 269): “Soltanto
se l’uomo è in grado di afferrare il presente, in quanto riconosce in esso quelle tendenze dal cui contrasto
dialettico egli è capace di creare il futuro; il presente diventa il suo presente”: lo spazio storico in cui tale
uomo può riconoscere la propria destinazione storica e – preso coscienza di essa – iniziare a trasformare il
mondo. Si noti: la coscienza di classe del proletariato divenuta pratica è la sola che possa realizzare una
trasformazione del mondo reificato dal capitalismo. Una coscienza limitata al dominio della contemplazione
è destinata ad una stordita immobilità, ad una inesauribile ripetizione dell’identico e dell’immediato.

[L’essenza dialettica del pensiero può compiersi soltanto nella sua praticità. Così Lukàcs (p. 271): “Il
pensiero proletario è anzitutto soltanto una teoria della prassi, per trasformarsi poi, a poco a poco, in una
teoria pratica che trasforma la realtà”.]

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IV. MUTAMENTO DI FUNZIONE DEL MATERIALISMO STORICO

La rivoluzione proletaria e la transizione della totalità sociale alla forma di produzione comunistica non sono
affatto l’esito automatico e deterministico di leggi storiche sé moventi. Per conseguire e mantenere il
successo di una rivoluzione in senso comunistico, è necessaria la presa di coscienza del proletariato: questo,
costituitosi in classe, dovrà a questo punto agire nella società, intraprendere una serrata e decisiva lotta di
classe politica, (eventualmente) assumere decisioni ai limiti della legalità costituita. Emerge il problema
della violenza – della violenza politica.

L’economicismo revisionista contesta l’importanza della violenza nel passaggio da un ordinamento della
produzione ad un altro ordinamento. Esso si appella alla legalità naturale dello sviluppo economico, che – si
dice – deve attuare la transizione per sua propria forza, gradualmente, senza alcuna violenta rottura
rivoluzionaria. Per Lukàcs, invece, “un rapporto economico che non sia intrinsecamente connesso con la
violenza aperta o latente non è nemmeno pensabile” (p. 298). La netta separazione concettuale tra violenza
ed economia è sorta soltanto nella misura in cui la parvenza feticistica della cosalità interna ai rapporti
economici occulta il carattere umano e sociale di questi rapporti, trasformandoli – i rapporti economici – in
una seconda natura che circonda e governa fatalisticamente le vite umane. Sicché, prosegue Lukàcs:
“Distinzioni come diritto-violenza, ordine-ribellione, violenza legale-illegale, respingono sullo sfondo la
base comune di violenza di tutte le istituzioni delle società classiste” (p. 299). Nelle epoche rivoluzionarie,
questi occultamenti emergono evidenti alla luce della coscienza sociale.

Nelle epoche di autentica transizione rivoluzionaria, la società non è dominata da nessuno dei sistemi di
produzione confliggenti: la loro lotta è ancora pienamente aperta. In tali condizioni diventa impossibile
parlare di una qualsiasi legalità economica che domini l’interezza della società. Il vecchio ordinamento della
produzione ha già perduto il proprio dominio sulla società come intero, mentre il nuovo ordinamento non ha
ancora ottenuto questo dominio. Si produce uno stato di intensa conflittualità, di lotta per il potere. Ma come
sarà possibile completare la transizione dalla vecchia legge economica alla nuova, ancora priva di validità
generale?

La lotta di classe e la potenzialità presente della transizione segnano momenti di crisi sociale. Ogni crisi
rappresenta un punto morto nello sviluppo del capitalismo, ma solo dal pdv. del proletariato – del
materialismo storico – risulta possibile cogliere questo punto morto come momento necessario della
produzione capitalistica. A questo punto, il problema diventa il seguente: “se il proletariato viva la crisi
come puro oggetto, o in quanto soggetto di decisione” (p. 303). La passività del proletariato nei momenti di
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crisi – l’essere puro oggetto della crisi – consente alla classe capitalistica di rimettere ancora una volta in
moto il sistema di produzione capitalistico. Per Lukàcs, per attuare la rivoluzione delle forme di produzione,
il proletariato deve costituirsi ed agire in quanto soggetto, in quanto figura responsabile di decisioni; questa
condizione è la differenza specifica delle crisi decisive, e non già transitorie. Così, “l’organizzazione del
proletariato passa dallo stadio di negatività, o dell’azione puramente frenante e di temporeggiamento, allo
stadio dell’attività” (p. 304). Stando così le cose, la violenza diventa la potenza economica decisiva nella
situazione apicale della lotta di classe. [Marx: “Fra diritti eguali, decide la violenza”.]

Nell’attualità del passaggio tra sistemi di produzione, la violenza è un elemento inaggirabile. Il problema è: il
genere e la funzione specifica della violenza di cui un soggetto storico intende disporre in ordine ad una
transizione socio-politica. La natura dei sistemi di produzione in lotta esercita un’influenza determinante sul
genere e sulla funzione della violenza come potenza economica attiva in un momento di transizione; in altri
termini: la violenza del passaggio feudalesimo-capitalismo è costitutivamente differente dalla violenza della
transizione capitalismo-comunismo. Osserva Lukàcs: “Come i sistemi di produzione determinano la
struttura delle classi, così i contrasti che sorgono da essi determinano il genere di violenza necessaria alla
trasformazione” (p. 307). Pensare le modalità della transizione è un compito essenziale al marxismo: il
materialismo storico deve fungere da metodo anche per ciò che riguardi il futuro della società, e non già
solamente consentire una comprensione storico-dialettica del passato e del presente. In questo senso, il
materialismo storico ed il complesso degli studi e degli scritti di Marx devono costituire una guida per
l’intendimento del genere di violenza che è necessariamente implicato nel passaggio capitalismo-
comunismo.

La funzione della violenza rivoluzionaria proletaria è quella di produrre un salto da un sistema di produzione
all’altro. Il salto implica rottura, frattura, trasformazione coatta. Dall’altra parte, invece, la transizione
graduale propugnata dal marxismo revisionista non tiene presente il fatto – fondamentale – per cui “il
processo di produzione capitalistico non produce solo merce, ma produce e riproduce il rapporto
capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato”, con le parole di Marx.
Lasciato a se stesso, il capitalismo procede senza limiti: ogni crisi sopravvenuta verrà superata rimettendo in
moto, ancora una volta, il medesimo sistema produttivo, riadattandolo in rapporto alle esigenze quantitative
del rinnovato contesto storico-tecnologico. “È possibile modificare lo sviluppo sociale, solo se viene
impedita l’auto-riproduzione capitalistica”, scrive Lukàcs (p. 310). Questo impedimento presuppone
dunque la costituzione del proletariato come soggetto di decisione, di rottura rivoluzionaria. Di conseguenza
– Lukàcs, p. 310:

Si dà la necessità di assumere sul piano della praxis, nel momento della svolta rivoluzionaria,
la categoria del ‘radicalmente nuovo’, del rovesciamento della struttura economica presente,
del mutamento di direzione del processo capitalistico: quindi, la categoria del salto.

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Naturalmente, questo salto non rappresenta un atto che si compie una volta per tutte; un atto che cioè
realizzerebbe fulmineamente, senza momenti intermedi, l’immane trasformazione della società in direzione
comunistica – il salto dal regno della necessità al regno della libertà, con Engels. Al contrario, il salto non è
un affatto un compimento immediato della rivoluzione: è invece un processo lento, complesso, la cui
caratteristica decisiva consiste “nel fatto che il salto è ogni volta orientato verso qualcosa di
qualitativamente nuovo; nel fatto che in esso trova espressione l’agire cosciente del proletariato, la cui
intenzione è diretta alla società conosciuta come intero, cosicché esso vive già – nella sua intenzione e nel
suo fondamento – nel regno della libertà” (p. 311). Propriamente, dunque, il salto caratterizza la qualità di
un’azione, di una decisione rivoluzionaria: in quanto tale prassi è coscientemente rivolta alla totalità sociale,
essa scava lo spazio per il salto; essa è già salto. Il salto non è la negazione della processualità della
transizione rivoluzionaria; è invece la netta negazione della processualità puramente meccanicistica del
passaggio capitalismo-comunismo.

Salto e violenza sono momenti essenzialmente complementari. Di conseguenza, nella misura in cui il salto si
caratterizza per la sua tensione alla totalità, la violenza rivoluzionaria del proletariato dovrà essa stessa
assumere questa direzione onnicomprensiva. Perché ciò sia possibile, questa violenza dovrà rivolgersi non
già alle sovrastrutture – e cioè alla particolarità dei rapporti giuridici, politici, istituzionali, culturali, e così
via –, bensì alla struttura economica del capitalismo, il fulcro della totalità sociale. E – aspetto fondamentale
– questa stessa violenza rivoluzionaria non dovrà colpire l’economia con il semplice intento di instaurare un
nuovo sistema di produzione; infatti, lo scopo del proletariato è di ridefinire completamente l’economia, non
già semplicemente offrendole nuove modalità produttive, bensì riconvertendola “al servizio dell’uomo e del
suo dispiegamento in quanto uomo. (…) [Qui, la violenza] è la volontà del proletariato di sopprimere se
stesso – e cioè il dominio dei rapporti reificati a cui gli uomini sono assoggettati, il dominio dell’economia
sulla società” (p. 313).

A questo punto, si potrà proporre una più specifica determinazione della categoria di salto: “il dirigersi verso
la radicale novità di una società coscientemente regolata, la cui economia è subordinata all’uomo ed ai suoi
bisogni”. Il salto è la prassi che si dirige verso la soppressione della società classista, la quale non può
prodursi come esito automatico di un procedere fatalistico della storia.

La conoscenza dei rapporti economia-violenza, della specificità della transizione, dell’autentica finalità della
rivoluzione: tutto ciò dipende dal mutamento di funzione del materialismo storico, non più ancorato alla
comprensione del passato e del presente della società, bensì disposto alla prospettiva del futuro, all’impegno
cioè di “mostrare in che modo debba essere percorso il cammino che conduce al controllo cosciente ed al
dominio della produzione, verso la libertà dalla coercizione dei poteri sociali oggettivati” (p. 315).

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V. LEGALITÀ ED ILLEGALITÀ

Non vi è alcun partito, per quanto opportunistico, che in date circostanze non si spinga nell’illegalità.
Tuttavia, ciò che realmente conta in questa dinamica non sono i semplici fatti, quanto invece i moventi e le
tendenze in essi intrinseci. In ogni movimento rivoluzionario vi sono momenti in cui predomina o l’azione
legale, o quella illegale. Ciò che senza dubbio occorre superare è il romanticismo dell’illegalità. Come
bisogna intendere, dal pdv. del marxismo, i concetti di legalità-illegalità? Tale interrogativo pone il problema
della violenza politica organizzata, dell’ordinamento giuridico costituito, dello Stato.

Gli organi del potere – politico, giuridico, amministrativo – sono conformi e conseguenti alle condizioni
socio-economiche vigenti in una data società. Incapaci di cogliere il carattere storico di questi organi,
generalmente gli uomini tendono a concepirli come “ambiente necessario della propria esistenza, come
poteri naturali a cui essi si sottomettono volontariamente” (p. 318). Di conseguenza, si rende possibile
modificare un organismo di potere soltanto quando – sia a livello della classe dominante, sia a livello delle
classi dominate – sia stata scossa la fede nell’ordinamento esistente come unico ordinamento possibile. La
riforma dell’ordinamento del potere di una data società può avvenire – in ultima istanza – soltanto come esito
di una rivoluzione economica; pure, ciò non toglie che sia al contempo necessaria anche una riforma della
coscienza degli uomini, posti a confronto con l’essenza del processo di cui sono parte. “tale riforma della
coscienza è il processo rivoluzionario stesso”, scrive Lukàcs (p. 321).

Lo Stato è un fattore di potere. A questa altezza, si dà una differenza determinante tra marxismo
rivoluzionario e revisionistico: il primo considera lo Stato borghese e capitalistico come elemento di potere,
contro il quale è necessario mobilitare la forza del proletariato; il secondo, invece, lo immagina come
istituzione superiore alla partizione classista della società. Di qui, il marxismo revisionistico concepisce
l’esistenza dello Stato in quanto mera realtà di fatto: sicché, l’opposizione al capitalismo dovrà tentare di
modificare legalmente l’impostazione classista dello Stato e della società. Tuttavia, contrariamente al
pensiero revisionistico, “lo Stato della società capitalistica deve essere considerato e valutato nella sua
esistenza come fenomeno storico”, scrive Lukàcs (p. 323). La potenza mistica dello Stato consiste nel modo
assolutamente ideologico in cui esso giunge a riflettersi nella coscienza degli uomini come istituzione sovra-
storica. In questo senso, e si tratta di un aspetto di portata decisiva, “l’ideologia non è soltanto una
conseguenza della struttura della società, ma è anche il presupposto del suo funzionamento”.

Il marxismo conduce gli uomini a prendere coscienza del fatto che l’ordinamento giuridico-politico costituito
non costituisce una realtà naturale intrascendibile: “la validità dello Stato e del diritto deve essere quindi
trattata come un fatto meramente empirico” (p. 324). Questa radicale presa di coscienza – che implica la
maturazione di una conoscenza che sia insieme un’attività pratico-critica – è fortemente ostacolata
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dall’inesauribile presa ideologica della borghesia. “Ancora durante la crisi mortale del capitalismo, le
larghe masse del proletariato sentono lo Stato, il diritto e l’economia della borghesia come l’unico mondo
possibile”78 (p. 325).

Per agire in senso autenticamente rivoluzionario – al di là delle parvenze di legalità-illegalità –, il proletariato


organizzato in partito deve anzitutto emanciparsi dall’ideologia circostante e supportante l’esistenza dello
Stato borghese. Perché ciò sia possibile, è necessario maturare una conoscenza della totalità dei processi
sociali, che consenta di attribuire allo Stato la sua effettiva potenza e di organizzare una prassi effettivamente
anti-capitalistica, e non già semplicemente infatuata dell’illusorio romanticismo dell’illegalità. Nella misura
in cui i mezzi ed i metodi illegali conservano l’accento dell’unica autenticità rivoluzionaria possibile, alla
legalità dello Stato esistente viene attribuita una validità ancora super partes ed ostinatamente vincolante. Al
contrario, “se vi è una piena spregiudicatezza comunista nei confronti del diritto e dello Stato, la legge e le
sue conseguenze non hanno né più, né meno importanza di un qualsiasi altro fatto della vita empirica ”. La
piena spregiudicatezza comunista, di cui scrive Lukàcs, consiste in un’emancipazione spirituale – riforma
della coscienza – dall’autorità dall’ordinamento borghese. Posta tale emancipazione, il problema legalità-
illegalità diviene tattico.

Il proletariato può liberarsi dalla dipendenza ideologica – dalla prostrazione alla legge dello Stato
capitalistico – soltanto quando abbia appreso ad agire indipendentemente dall’influenza delle istituzioni
borghesi e dei loro apparati di potere giuridico-militare. Prodotta questa liberazione ideologica, che scinde
l’ordinamento vigente dalla sua identificazione metafisica con l’essenza del diritto, diverrà possibile “ una
tattica concreta e positiva, che usi ogni mezzo legale ed illegale, guidata esclusivamente da motivi di
rispondenza agli scopi perseguiti” (p. 329).

Rimane il problema sociale delle classi borghesi destituite dalla rivoluzione, ostili ad arrendersi
pacificamente alla novità dell’ordinamento istituito dalla presa di potere del proletariato. Infatti, scendere a
compromessi con la borghesia declassata significherebbe rafforzare la convinzione in cui essa si trincera,
secondo cui il nuovo ordinamento giuridico-politico è costitutivamente illegale, opera di brutali soprusi e, di
conseguenza, inadatto a ricevere il proprio assenso. Ciò che il proletariato, una volta raggiunto il potere, deve
necessariamente tentare di produrre nella classe borghese declassata è invece una rottura ideologica, che
affievolisca la naturale resistenza reazionaria di una contro-rivoluzione borghese. La medesima rottura
ideologica deve interessare anche lo stesso proletariato, affinché le sue masse si emancipino definitivamente
dalle sopravvivenze ideologiche del periodo capitalistico e considerino pertanto l’inedito stato di cose come
l’esito pienamente legittimo del diritto proletario a costituire un ordinamento statale secondo i propri
interessi – e dell’intera società –, e non già come il risultato di un’usurpazione del potere destinata ad essere
rovesciata.
78
Lukàcs, p. 329: “Il carattere necessariamente immaturo della presa di potere del proletariato: esso prende il potere
in un tempo ed in una condizione spirituale in cui esso sente ancora nel proprio intimo l’ordinamento borghese come
l’ordinamento autenticamente legale”.
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[Pace di Brest-Litovsk, 1918: ratificazione della legittimità del potere instaurato dalla rivoluzione bolscevica
 maturità ideologica del proletariato russo.]

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ALTHUSSER – PER MARX

PREFAZIONE – OGGI

Denuncia di una profonda carenza di cultura teorica marxista nella storia del movimento operaio francese,
cui non poteva affatto sopperire l’impegno militante e polemico dei giovani iscritti al Partito Comunista
Francese. Ma, osserva Althusser, “presupponendo il gigantesco lavoro teorico di fondazione e sviluppo di
una scienza e di una filosofia senza precedenti, il socialismo marxista non poteva che essere frutto di uomini
che avevano una profonda formazione storica, scientifica e filosofica; di intellettuali di grandissimo valore ”.
Altrove – è il caso della Polonia di Luxemburg; della Russia di Plekhanov, Kautksy, Lenin; dell’Italia di
Labriola e Gramsci – le imperanti condizioni socio-politiche, religiose, ideologiche, costringevano gli
intellettuali ad un rassegnato asservimento alle classi dominanti (feudalo-borghesi, ecclesiastiche); di qui, gli
intellettuali di questi paesi non potevano non assecondare l’afflato rivoluzionario della classe proletaria in
lotta per libertà e futuro. Ciò spiega la florida fecondità della cultura teorica marxista nel resto dei paesi
europei, eccettuata – per lo più – la Francia: qui, a partire dalla fine del XVIII sec., la borghesia un tempo
rivoluzionaria aveva consolidato un indissolubile rapporto con l’élite culturale francese: gli intellettuali erano
stati generalmente associati al moto rivoluzionario della borghesia liberale, e questa reciproca solidarietà si
era perpetuata per l’intero corso dell’Ottocento. Scrive Althusser: “[La borghesia] aveva saputo utilizzare le
sue posizioni di forza e tutti i titoli acquisiti nel corso del suo passato, per offrire agli intellettuali
abbastanza futuro e abbastanza spazio, funzioni sufficientemente onorevoli, margini di libertà e di illusioni
sufficienti a tenerli sotto la sua legge ed il suo controllo ideologico (…). Il partito francese è nato in queste
condizioni di vuoto teorico” (pp. 26-7).

In questa congiuntura storico-politica, prima ancora che teorico-culturale, gli intellettuali marxisti della
Francia del primo Novecento dovettero o camuffarsi ecletticamente, diluendo Marx con Hegel, Husserl, o
Heidegger; o, dall’altra parte, accettare la precaria esistenza filosofica del marxismo 79. In questo
disorientamento intellettuale, si diffuse la tentazione della fine della filosofia; della dichiarazione della sua
impossibilità al di fuori del rivolgimento proletario della totalità sociale; della sua dissoluzione nella prassi
rivoluzionaria, così come sembrava essere annunciata da Marx nella celebre tesi sulla trasformazione del
mondo (Tesi su Feuerbach, XI). In questo orizzonte, la filosofia sembrava doversi ridurre ad una religione
della prassi militante: veniva pertanto perdendosi ogni attitudine scientifica – teorica, anti-dogmatica – della
filosofia marxista francese. La morte di Stalin (1953) ed il XX Congresso (1956) segnarono una svolta nella
libertà e nel desiderio di ricerca filosofica degli intellettuali marxisti.*

79
Althusser, p. 29: “Eravamo politicamente e filosoficamente convinti di essere sbarcati sulla sola terra ferma al
mondo, ma non sapendone dimostrare filosoficamente l’esistenza e la fermezza, nessuno credeva che avessimo questa
terra sotto i piedi: solo convinzioni. (…) Noi, che pensavamo di detenere i principi di ogni filosofia possibile, e
dell’impossibilità di ogni ideologia filosofica, non arrivavamo a dare la prova obiettiva dell’apoditticità delle nostre
convinzioni”.
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* Althusser, p. 31: “La fine del dogmatismo ci ha restituito il diritto di impegnarci nel rigore della ricerca ;
ci ha messo di fronte questa realtà: che la filosofia marxista, fondata da Marx nell’atto stesso della
fondazione della sua teoria della storia, è in gran parte ancora da costruire”.

Sorgevano allora le questioni attorno allo statuto della filosofia marxista: esiste una filosofia marxista? se
sì, ha diritto di esistere? quale è la sua specificità? Per tentare di rispondere a questi interrogativi, risultava
necessario rivolgersi alle opere giovanili di Marx, nelle quali si dispiega un serrato confronto con Hegel e
Feuerbach. Per Althusser, la lettura di queste opere giovanili di Marx – su tutte: Critica della filosofia
hegeliana del diritto pubblico, Manoscritti economico-filosofici, Sacra Famiglia – poneva inaggirabilmente
“il problema della differenza specifica della filosofia marxista, [che] assunse così la forma della questione
di sapere se esistesse o meno, nello sviluppo intellettuale di Marx, una rottura epistemologica che segnasse
la nascita di una nuova concezione della filosofia” (p. 32). Sicché, nella misura in cui le opere del giovane
Marx impongono un’attenta considerazione del problema di una rottura epistemologica tra ideologia-scienza,
le opere di cui sopra rivestono un’importanza storico-teorica decisiva nella auto-coscienza e nella formazione
teorica della filosofia marxista.

Per opportunamente avvicinare la questione di una rottura epistemologica presente nello sviluppo
intellettuale marxiano, sarebbe insufficiente – dice Althusser – limitarsi ad assumere la celebre citazione
tratta dall’Ideologia Tedesca, per cui Marx avrebbe completato “la liquidazione della coscienza [filosofica]
di un tempo”. Per poter collocare e comprendere correttamente questa sentenza, occorrerà invece delineare
una metodologia che 1) sia in linea con i concetti teorici di uso marxiano; 2) consenta di pensare la realtà e
la storia delle formazioni teoriche in generale (ideologia, filosofia, scienza). Per costruire una metodologia
che possa corrispondere alle esigenze di cui sopra, Althusser recupera: da Martin, il concetto di problematica
– l’unità di intenti e questioni operante in una formazione teorica; da Bachelard, il concetto di rottura
epistemologica, “per pensare la mutazione della problematica teorica contemporanea alla fondazione di
una disciplina scientifica; la mutazione di una problematica pre-scientifica in problematica scientifica” (p.
33). Soltanto con il supporto di questi due concetti diverrà possibile analizzare il processo della
trasformazione teorica del giovane Marx.

Althusser riconosce in Marx l’attuazione di una rottura epistemologica all’altezza dell’anno 1845. Tale
rottura divide così il pensiero di Marx in due periodi: il periodo ideologico (1840-1844/5); il periodo
scientifico (1845-1883), che comprende le opere della maturazione teorica (1845-57) e opere della maturità
teorica (1857-83).

Dunque:

- 1840-1844/45: opere giovanili – Critica filosofia hegeliana del diritto; Manoscritti; Sacra Famiglia
- 1845: opere della rottura – Tesi su Feuerbach; Ideologia tedesca
- 1845-1857: opere della maturazione – Manifesto; Miseria della filosofia; Salario, prezzo e profitto
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- 1857-1883: opere della maturità – Per la critica dell’economia politica, Il Capitale

Porre in rilievo questi passaggi storico-teorici è di fondamentale rilievo per ricostruite nella sua correttezza
sia filologica, sia filosofica ed epistemologica , l’opera marxiana – e, con essa, l’intero corso del marxismo.
“Che il marxismo possa e debba essere esso stesso l’oggetto della questione epistemologica, (…) è una
necessità per una teoria che si definisce non solo scienza della storia (materialismo storico), ma anche
filosofia, capace di dar conto della natura delle formazioni teoriche, e della loro storia: capace cioè di
rendere conto anche di se stessa, prendendo se stessa a proprio oggetto” (p. 38). Soltanto procedendo in
senso primariamente epistemologico sarà possibile realizzare il lavoro teorico necessario sia per leggere
Marx al di là delle deformazioni ideologiche, sia per proseguire l’elaborazione della stessa teoria marxista.

Conclude Althusser (p. 39): “Questa teoria che sola permette un’autentica lettura dei testi di Marx, una
lettura insieme epistemologica e storica, non è altro che la teoria marxista stessa”.

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I. CONTRADDIZIONE E SURDETERMINAZIONE

In continuità con le questioni di cui sopra – in particolare: il problema della differenza specifica della
filosofia marxista – occorre rilevare la priorità da riservarsi all’analisi critica del rapporto Hegel-Marx. In
genere, infatti, si tende ad equivocare la posizione ed il debito di Marx nei confronti di Hegel, limitandosi ad
intendere questo rapporto sotto l’ambigua espressione: Marx opera un rovesciamento di Hegel. Per intendere
il senso di questa operazione, si ricordino le parole di Marx nella Postfazione alla seconda edizione del
Capitale:

La dialettica, in Hegel, è a testa in giù. Per scoprire il nocciolo razionale racchiuso nella
ganga mistica, bisogna rovesciarla.

Il rovesciamento di cui parla Marx, dice Althusser, deve essere inteso in senso metaforico, indicativo.
Anzitutto, il rovesciamento di cui sopra interessa la dialettica hegeliana, e non già l’intera costruzione
speculativa e metafisica dell’idealismo hegeliano. Non si tratta, cioè, di un rovesciamento della filosofia
speculativa in quanto tale: chi pretendesse di semplicemente rovesciare l’idealismo, non incontrerebbe altro
che un materialismo altrettanto metafisico – dipendente dai medesimi principi ideologici che informano
l’idealismo. Si tratta invece di rovesciare la dialettica hegeliana. Ad una prima lettura del passo succitato, si
potrebbe essere indotti a ritenere che il nocciolo razionale coincida essenzialmente con la dialettica, laddove
la ganga mistica corrisponderebbe invece al complesso speculativo e sistematico della filosofia hegeliana. In
questa interpretazione, rimane implicito un presupposto deleterio, e cioè che la dialettica hegeliana sussista
come metodo indipendente dalla ganga mistica, dal sistema hegeliano; e che pertanto sia possibile estrarre il
nocciolo dalla ganga, la dialettica nella sua purezza logico-metodologica rispetto all’involucro mistico che la
include. A questo punto, risulterebbe infine praticabile l’effettivo rovesciamento della dialettica hegeliana,
applicandola non più allo sviluppo di un’Idea, bensì alla processualità storico-sociale. Il rovesciamento della
dialettica hegeliana operato da Marx non consiste dunque nell’applicazione della medesima dialettica
hegeliana non più all’Idea, bensì al Reale. Così inteso, il rovesciamento si limiterebbe alla direzione
applicativa della dialettica, che permarrebbe invece costitutivamente intatta nella sua valenza e
configurazione metodologiche.

A fronte di tutto ciò, Althusser nota: “È impensabile concepire, in virtù dei principi stessi
dell’interpretazione marxista dei fenomeni ideologici, che la dialettica possa essere collocata entro il
sistema di Hegel come un nocciolo nel proprio involucro”. Altrimenti detto, è inconcepibile il fatto che
l’ideologia del sistema idealistico non abbia contaminato l’essenza stessa della dialettica in Hegel; oppure,
ciò che è equivalente, “è impossibile che la dialettica hegeliana possa cessare di essere-hegeliana e
divenire-marxista tramite il semplice miracolo di un’estrazione” (p. 83). Stando così le cose, decade
l’affrettata impressione che la ganga mistica (il sistema hegeliano) rappresenti un elemento estrinseco al
nocciolo dialettico; e si rende inoltre evidente la necessità di riconoscere che la ganga mistica, nella sua

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contiguità con il nocciolo razionale, riguarda la dialettica stessa. Di qui si rileverà l’impossibilità di
concepire la dialettica hegeliana separatamente dal sistema filosofico di cui è parte e fattore, come se essa
costituisse un elemento neutro, indifferente rispetto alla sua collocazione. In altri termini, non si dà una
forma pura della dialettica, anteriore – o ulteriore – rispetto alle determinazioni proprie del sistema di cui
essa è fulcro metodologico. Pertanto, quando Marx afferma la necessità di un rovesciamento della dialettica
hegeliana, non intende limitare questa prassi teorica alla sola negazione dell’involucro sistematico hegeliano,
come se divenisse così possibile estrarre il nocciolo della dialettica in una sua pretesa forma pura.

Di necessità, la ganga mistica contamina di sé il nocciolo razionale: consapevole di ciò, Marx stesso
determina la dialettica hegeliana come una forma mistificata di dialettica. A questo punto, commenta
Althusser, si comprenderà come “la ganga mistica non è altro se non la stessa forma mistificata della
dialettica: e cioè, non già un elemento esterno alla dialettica (il sistema), bensì una qualità intrinseca della
dialettica hegeliana”. La ganga mistica è pertanto la forma mistificata della dialettica hegeliana: sicché, per
operare un autentico rovesciamento della dialettica di Hegel – del nocciolo razionale –, occorre in primis
“liberarla dal primo involucro (il sistema); bisogna poi liberarla da questa seconda ganga che aderisce al
suo stesso corpo [del nocciolo dialettico]”. Dunque, in definitiva, l’operazione di Marx non si esaurisce in un
mero rovesciamento di termini, di categorie; il rovesciamento compiuto da Marx comprende infatti anche il
momento della rimozione dell’involucro mistico del sistema e, in aggiunta, della ganga di cui è avvolto –
come fosse la sua pelle – il nocciolo della dialettica. Il rovesciamento marxiano, in questo senso, è
un’autentica trasformazione di ciò che viene estratto in ultima istanza: la dialettica. Rispetto ad Hegel, muta
in Marx la natura stessa della dialettica, e non soltanto la sua direzione applicativa.

“Il rovesciamento della dialettica pone non già il problema degli oggetti cui si tratterebbe di applicare un
metodo identico (il mondo dell’Idea in Hegel – il mondo reale in Marx), ma appunto il problema della
natura della dialettica considerata in se stessa, cioè il problema delle sue strutture specifiche. Il
rovesciamento non interessa quindi la direzione della dialettica, quanto la trasformazione delle sue
strutture” (p. 85).

Se la dialettica razionale marxiana è per essenza l’opposto della dialettica mistificata hegeliana, questa
differenza radicale si manifesterà nelle stesse strutture e determinazioni proprie delle declinazioni dialettiche
in questione. Da ciò consegue che alcune strutture (determinazioni / categorie / momenti) fondamentali della
dialettica hegeliana – contraddizione, su tutte – possiedono in Marx una struttura differente rispetto
all’impostazione hegeliana. Altrimenti detto, tra la configurazione delle dialettiche di Hegel e di Marx
sussiste una differenza strutturale. Recuperando l’immagine iniziale, nel passaggio Hegel-Marx è il nocciolo
stesso a subire un rovesciamento (una trasformazione), e non soltanto il rivestimento – il sistema, che viene
negato, rimosso. Per cogliere e sviluppare il carattere di questa differenza strutturale, occorre avvicinare la
trasformazione operata da Marx sulla categoria dialettica di contraddizione.

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Per illuminare la specificità della contraddizione marxianamente intesa, Althusser prende in considerazione il
caso della Rivoluzione bolscevica del 1917. Il successo di questa rivoluzione proletaria non può essere
limitato allo sviluppo della contraddizione strutturale (forze produttive – rapporti di produzione) intrinseca
alla società russa. Piuttosto, occorre rilevare come nel periodo 1914-1917 si siano accumulate, intrecciate,
esacerbate, più contraddizioni – più generi di contraddizione – operanti all’interno della processualità socio-
economica zarista, ma altresì vivide e laceranti su scala internazionale. Ovunque, infatti, dilagavano eventi e
congiunture storiche, tali da rendere la situazione europea oggettivamente rivoluzionaria 80. L’imperialismo
coloniale; la concentrazione dei monopoli e l’ascesa della finanza; la guerra mondiale; il desiderio di
riconvertire le sorti dell’Europa: questi fattori ebbero implicazioni ed echi in ogni nazione europea, ma
soltanto in Russia – tra le grandi potenze europee, quella più arretrata e marginale – provocarono il trionfo
della rivoluzione proletaria. Questa paradossale eccezione si dissolve quando si riconosca come, nel periodo
1914-1917, si accumularono ed esasperarono nella sola Russia tutte le contraddizioni storiche allora
possibili, al loro massimo grado. Lacerata da un turbine molteplice e policentrico di contraddizioni
decennali, la Russia di inizio Novecento rappresentava l’anello più debole nella catena degli Stati
imperialisti.

Contraddizioni – nazionali ed internazionali – Russia sotto zar Nicola II (1896-1917):

- Società divisa tra massa contadina sotto sfruttamento feudale / massa operaia nelle grandi città;
- Fatalistica rassegnazione contadina / coscienza di classe rivoluzionaria del proletariato;
- Condizione medievale delle campagne / estremo sviluppo urbano dei processi capitalistici;
- Esigenze alimentari della popolazione russa / esigenze belliche internazionali;
- Zaristi e forze militari / anti-zaristi (ampi strati della società confluivano nell’alveo anti-zarista);

A tali contraddizioni socio-economiche e politico-militari, si aggiungevano poi altre circostanze


peculiarmente determinanti l’eccezionalità della situazione Russa all’epoca della Rivoluzione, come per es.:
le memorie della Rivoluzione del 1905 e dei soviet; il livello intellettuale ed organizzativo dell’élite
rivoluzionaria russa, che si riflette nell’organica costituzione del partito bolscevico; l’insperata pace di Brest-
Litovsk; il decisivo appoggio delle forze politiche franco-inglesi, storicamente ostili allo zarismo russo. “In
breve”, conclude Althusser, “la situazione privilegiata della Russia risulta da un’accumulazione e
un’esasperazione di contraddizioni storiche e di eventi inintelligibili al di fuori della Russia, ad un tempo la
nazione più ritardataria e la più avanzata del blocco imperialista: contraddizione immensa, che le sue classi
dominanti non potevano eludere, ma nemmeno risolvere. In altri termini, la Russia si trovava in ritardo di
una rivoluzione borghese, alla vigilia di una rivoluzione proletaria” (pp. 88-9).

80
Lenin: “Sono le condizioni oggettive riunite dalla guerra imperialista ad aver condotto l’umanità intera in un vicolo
cieco e ad averla posta dinanzi al dilemma: o annientare la civiltà europea, o trasferire il potere in tutti i paesi
civilizzati al proletariato rivoluzionario, e cioè compiere la rivoluzione socialista”.
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Ogni situazione potenzialmente, oggettivamente, rivoluzionaria è l’esito di un’accumulazione ed
un’esasperazione di contraddizioni tra loro intrecciate; pertanto, non sarà mai una singola contraddizione –
fosse anche la contraddizione strutturale tra forze-rapporti di produzione – a porre le condizioni oggettive per
una rivoluzione proletaria. La contraddizione strutturale (c. in generale) è sufficiente a determinare una
situazione di possibile, o probabile, rivoluzione; per converso, tale contraddizione strutturale non potrà, per
sua semplice virtù diretta, condurre automaticamente ad una situazione rivoluzionaria, o addirittura al trionfo
della rivoluzione stessa. In altri termini, lo sviluppo di una rivoluzione necessita di un’unità di rottura,
ovvero di un’accumulazione di contraddizioni, di circostanze, di eventi particolari (anche tra loro
contraddittori, o contraddittori con lo scopo della rivoluzione 81). Quando si produce una simile
accumulazione di contraddizioni, diviene impossibile pensare la singolarità monolitica di una contraddizione
generale, più di altre decisiva in ordine alla dialettica della rivoluzione. Certo, è indubbio che la
contraddizione strutturale si perpetua e si dirama in tutte le contraddizioni che si aggregano nell’unità di
rottura rivoluzionaria; pur tuttavia, non è ammissibile concludere che le singole contraddizioni storiche non-
strutturali e l’unità di rottura che ne deriva siano il semplice fenomeno superficiale della contraddizione
strutturale. Le contraddizioni secondarie e l’unità di rottura dipendono strutturalmente dai termini della
contraddizione generale, epperò reagiscono esse stesse – in ciò manifestando una propria autonoma
consistenza – su questa medesima contraddizione, sviluppandola fino al suo culmine. Senza contare che
queste stesse contraddizioni secondarie (esistenti sul piano delle sovrastrutture) contribuiscono alla
definizione ed alle trasformazioni dei termini della contraddizione generale: e cioè delle forze e dei rapporti
di produzione. Il rapporto struttura-sovrastruttura non è affatto unidirezionale, lineare.

Le forme delle contraddizioni secondarie non dipendono esclusivamente dalle determinazioni della
contraddizione strutturale. Nell’orizzonte sociale si sviluppa una pluralità di contraddizioni, non solamente
economiche, né sempre interamente riconducibili al piano della struttura; queste contraddizioni – secondarie
– sono risultato di istanze sovrastrutturali, di congiunture internazionali, di imprevisti naturali. Tali
contraddizioni, com’è ovvio, non procedono isolatamente l’una dall’altra, ma anzi si intrecciano, fino a
costituire ed incrementare quella già citata accumulazione di contraddizioni. L’intento di Althusser è quello
di affermare la relativa consistenza autonoma delle contraddizioni secondarie, così contestando
l’economicismo marxista, il quale vorrebbe la riduzione di tutte le contraddizioni storico-politiche alle
determinazioni economiche della contraddizione strutturale. Nota Althusser: “A condizione che si fondano in
un’unità reale, [queste contraddizioni secondarie] non si dissipano come un puro fenomeno nell’unità
interiore di una contraddizione semplice” (p. 92). In tal senso, l’unità di rottura costituita dall’accumulazione
di contraddizioni non riflette il solo antagonismo attivo al livello strutturale – e che si propaga
nell’antagonismo classista. Piuttosto, questa unità si costituisce in modo organicamente cumulativo: gli
effetti di ciascuna contraddizione secondaria si intrecciano con le determinazioni apposte dalle altre
contraddizioni operanti nell’unità di rottura. Che la forma specifica dell’unità di rottura risulti infine il

81
Althusser, p. 91: “(…) contraddizioni, di cui alcune sono radicalmente eterogenee, e non hanno tutte la stessa
origine, né lo stesso senso, né lo stesso livello e luogo di applicazione, e che tuttavia si fondono in un’unità di rottura”.
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risultato di un’accumulazione di contraddizioni, non toglie il fatto – fondamentale – che la contraddizione in
ultima istanza decisiva rimanga quella strutturale. Ma, stando così le cose, quale è la natura di questa
contraddizione strutturale?

Il modo in cui le contraddizioni secondarie si costituiscono e si intrecciano dipende – in ultima istanza –


dalla contraddizione strutturale; ma, al contempo, lo stesso sviluppo della contraddizione strutturale è
relativamente determinato dall’attività delle contraddizioni secondarie. Emerge in questo passaggio una
prima qualificazione della natura della contraddizione strutturale: essa è inseparabile dalla totalità sociale
di cui è parte e fattore; ovvero, è inseparabile dal complesso dialettico che lega struttura-sovrastruttura. In
secondo luogo, la natura di questa contraddizione strutturale subisce essa stessa – fin nel proprio nucleo
interno – gli effetti delle contraddizioni secondarie che da essa derivano in ultima istanza. Allora, la natura
della contraddizione strutturale “è bensì determinante, ma anche determinata in unico e medesimo
movimento” per opera delle cd. contraddizioni secondarie che, in questo senso, si configurano dunque come
condizioni di esistenza della stessa contraddizione strutturale. Con Althusser (p. 92):

[La contraddizione strutturale] è determinata dai diversi livelli e dalle diverse istanze della
formazione sociale che essa anima: potremmo definirla, surdeterminata nel suo stesso
principio.

La surdeterminazione della contraddizione è la differenza specifica tra l’impostazione dialettica


hegeliana e marxiana. La nozione althusseriana di surdeterminazione si costituisce come calco della
surdeterminazione di origine freudiana. Secondo la teoria psicoanalitica freudiana, una qualsiasi realtà
sintomatica – anche onirica – è il risultato di un accumulo di molteplici cause co-determinanti. Sicché, per
comprendere tale realtà occorre ricostruire non uno, bensì molteplici processi causali, tutti e ciascuno
concorrenti alla formazione della realtà intenzionata. Questa forma di determinazione causale
costitutivamente cumulativa (sur-determinata) si dà come fondamento di tutte le realtà significativamente
complesse, stratificate. Pertanto, una realtà sur-determinata non è affatto riconducibile ad un livello di
spiegazione unico ed unitario. Althusser trasferisce il concetto di surdeterminazione dall’ermeneutica psico-
analitica alla teoria dei processi di formazione sociale.

La forma della contraddizione hegeliana è semplicemente determinata. Infatti, per quanto nella
Fenomenologia si mantenga costante l’impressione di una complessità di contraddizioni, in realtà tale
complessità è apparente. La complessità che attornia e costituisce la coscienza della Fenomenologia non è –
propriamente – una surdeterminazione, quanto invece la complessità di un’interiorizzazione cumulativa. Ad
ogni momento del proprio divenire, la coscienza si riconosce attraverso gli echi e le figure di un passato
soppresso-conservato: altrimenti detto, nell’essenza presente della coscienza hegeliana agiscono
determinazioni riconducibili al suo stesso passato, a ciò che essa è-stata prima di essere-divenuta ciò che è-
attualmente. La coscienza è dunque determinata da una pluralità di figure riducibili al suo proprio passato:
sicché, “queste figure passate della coscienza non esercitano mai degli effetti sulla coscienza presente in

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quanto determinazioni effettive differenti da lei stessa: queste figure, questi mondi passati, non la
riguardano se non come degli echi di ciò che essa è divenuta, cioè come allusioni a sé” (Althusser, p. 93). Le
determinazioni operanti nel presente della coscienza possono quindi essere ricondotte al principio di questa
stessa coscienza, dal quale prendono origine tutte le figure ed i momenti del mondo storico. In quanto tali
determinazioni non sono differenti – in ultima istanza – dalla coscienza stessa; in quanto cioè le cause non
sono essenzialmente differenti dall’effetto risultato, ma ne sono invece un’eco dal passato, ne consegue che
la contraddizione hegeliana sarà semplice, riducibile ad un unico centro (la coscienza) e costitutivamente
non-surdeterminata. Commenta Althusser (p. 93):

La coscienza ha un solo centro, che, solo, la determina: le servirebbero dei circoli con un
centro diverso dal suo, per poter essere modificata nel suo stesso centro dalla loro efficacia –
per dirla in breve, perché la sua essenza fosse surdeterminata da tali circoli. Ma questo non è il
caso.

Riassumendo: la contraddizione emergente nella dialettica della Fenomenologia non è affatto


surdeterminata, nella misura in cui i termini in contraddizione – le figure della coscienza: passate e presenti –
sono riconducibili ad un medesimo principio di sviluppo della coscienza, e non già ad essa estrinseci. Per una
maggiore chiarezza, si pensi allo sviluppo hegeliano delle civiltà. Ogni civiltà è costituita da indefinite
determinazioni concrete: da leggi, da istituzioni, da tradizioni, da culture, e così via. Pure, nessuna di queste
determinazione è, per principio, differente rispetto alle altre; tutte sono invece espressioni, oggettivazioni
concrete, di un principio in divenire, che racchiude in sé l’intera ed unica verità dell’immane procedere di
una civiltà. Per Hegel, le grandi civiltà si originano e si dispiegano a partire da un principio capitale dello
Spirito: p. es., la civiltà greca esprime l’Eticità; la civiltà romana il Diritto; la civiltà cristiano-germanica la
Libertà Soggettiva. Tutte le produzioni determinate di queste – e di ogni – civiltà sono il puro fenomeno di
un principio dello Spirito interno alla costituzione della civiltà stessa. Così, scrive Althusser: “questa totalità
[di determinazioni] si riflette in un unico principio interiore, che è la verità di tutte queste determinazioni
concrete. Così Roma (…) non è altro che la manifestazione nel tempo – ed in seguito la distruzione – del
principio interno della personalità giuridica astratta” (p. 93). Si intende qui, con la nozione di principio
interno, l’essenza internamente unitaria di un periodo storico. Tutta la vita concreta di una civiltà – dalla
genesi al dissolvimento – procedono da questa essenza semplice originaria, “che non è mai nient’altro, in
definitiva, se non la forma più astratta della coscienza di sé di questo mondo”.

Se ogni termine contraddittorio è riconducibile ad un medesimo principio di derivazione, ogni


contraddizione sarà per necessità semplice. In Hegel è dunque articolato un concetto semplice di
contraddizione82, nella misura in cui i termini della contraddizione rappresentano momenti di una Idea

82
Nota bene: la semplicità della contraddizione è il riflesso della semplicità del principio unitario della coscienza,
o del principio interno di una civiltà. Di qui Althusser: “Si capisce pertanto in che senso la ganga mistica tocca e
contamina il nocciolo. (…) [Tutte le determinazioni speculative hegeliane] non sono miracolosamente confinate alla
sola concezione del mondo, al solo sistema di Hegel, ma anzi si riflettono nella struttura, nelle strutture stesse della sua
dialettica. Ecco perché il rovesciamento marxiano della dialettica hegeliana è tutt’altro che un’estrazione pura e
semplice. Se ci si rende chiaramente conto dell’intimo rapporto che la struttura hegeliana della dialettica intrattiene
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sempre essenzialmente identica a sé. Viceversa, in Marx la contraddizione generale è costitutivamente
surdeterminata, né dunque è possibile che da essa si origini un modello dialettico lineare e monocentrico, in
continuità con quello di Hegel. Piuttosto, nella dialettica marxiana della formazione sociale, la
contraddizione è policentrica: si dispiega cioè su più direttrici, su più livelli. Rimossa la monolitica centralità
della coscienza dello Spirito hegeliano, Marx può infine rilevare una pluralità di centri, di nuclei,
fondamentali per la sussistenza di una formazione sociale: nella loro essenza, questi centri risultano essere
reciprocamente contraddittori. Un centro della contraddizione sarà il rapporto tra struttura-sovrastruttura. Ma
ancora: all’interno della struttura, si ritrova la contraddizione fondamentale lavoro-capitale, ovvero forze
produttive - rapporti di produzione. Ed ancora: all’interno della sovrastruttura, sono tra loro in costante
contraddizione i domini della politica, della giurisprudenza, della potenza militare, dell’arte e della cultura, e
così via. La dialettica di marxiana è policentrica. I centri contraddittori sono molteplici, per cui possono
prodursi – nello stesso momento – più contraddizioni, a più livelli, con differenti gradi di intensità. La
contraddizione strutturale avrà sempre il suo centro nella dialettica forze-rapporti di produzione; ma questo
non significa che questa contraddizione sarà sempre e comunque dominante in una determinata unità di
rottura e congiuntura storiche.

Se la contraddizione si può produrre in più modi, in più versioni ed intensità, allora lo stesso concetto
marxiano di contraddizione dovrà essere intimamente differenziato – a seconda che la contraddizione si
sviluppi entro la struttura, o la sovrastruttura, o nel rapporto struttura-sovrastruttura. La contraddizione
marxiana è policentrica e surdeterminata; ed ogni contraddizione in Marx è tale, agisca essa entro l’alveo
strutturale, o sovrastrutturale: ogni contraddizione si definisce – si surdetermina – nell’intreccio con una
pluralità di altre contraddizioni. Di qui, si comprenderà come la semplicità e la purezza delle contraddizioni e
degli schemi dialettici sussistano in Marx soltanto come parole d’ordine – o parafrasi semplificatorie – per la
pedagogia, o psicagogia, delle masse rivoluzionarie. Nella retorica del senso comune, il marxismo inscena la
bella contraddizione Capitale-Lavoro; così facendo, si riduce il marxismo ad economicismo deterministico.
A questo proposito, siano lette le seguenti parole di Engels: “Siamo Marx ed io a portare la responsabilità
del fatto che, talvolta, i giovani attribuiscano più peso del dovuto all’aspetto economico. Di fronte ai nostri
avversari, era necessario sottolineare il principio essenziale che essi negavano, e perciò non trovavamo
sempre il tempo, il luogo, l’occasione, per concedere il giusto posto agli altri fattori che partecipano
all’azione rivoluzionaria”.

La contraddizione marxiana è sempre surdeterminata, ovvero “specificata dalle forme e dalle circostanze
storiche concrete, entro le quali essa si esercita; specificata dalle forme della sovrastruttura; specificata
dalla situazione storica interna ed esterna [ad una nazione]” (p. 97). In questo senso, riprendendo l’analisi
attorno alla Rivoluzione russa del 1917, bisognerà concludere che la situazione russa non era affatto
eccezionale, nella misura in cui “l’eccezione si scopre essere la regola, la regola della regola”: ovvero, una
con la concezione del mondo di Hegel, cioè con la sua filosofia speculativa, è impossibile gettare alle ortiche questa
concezione del mondo, senza con ciò essere al contempo obbligati a trasformare profondamente le strutture di questa
stessa dialettica ” (pp. 94-5).
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situazione storica in cui si intrecciano molteplici e distinte contraddizioni è la norma ordinaria della
processualità storico-dialettica. Perciò, la contraddizione non si presenta mai allo stato puro della semplice
opposizione di due poli in tensione: “è [questa stessa] purezza a fare eccezione”. Il corso ordinario della
storia procede quindi secondo il ritmo di contraddizioni policentriche, surdeterminate.

Come la semplicità della dialettica hegeliana costituiva un riflesso della concezione della storia di Hegel;
così la surdeterminazione intrinseca alla dialettica – in particolare alla contraddizione – marxiana rinvierà
alla teoria marxiana della storia. Occorre pertanto illuminare il legame necessario tra la struttura della
dialettica marxiana (il nocciolo) e la sua concezione del mondo (la ganga). Per dimostrare questo legame
necessario, è innanzitutto necessario assicurarsi che la teoria marxiana della storia non sia essa stessa il mero
rovesciamento del modello idealistico e metafisico hegeliano. Se di mero rovesciamento si trattasse – come
sembra ad una lettura approssimativa –, ciò significherebbe che Marx ha mantenuto intatti i termini della
dialettica storica hegeliana, limitandosi a rovesciare la direzione del loro rapporto. Così, laddove in Hegel è il
politico-spirituale (lo Stato come momento oggettivo dello Spirito) a costituire l’essenza, la verità, della vita
economico-materiale della società; in Marx sarebbe invece l’aspetto economico-materiale a determinare
l’essenza del momento politico-spirituale. Sicché, scrive Althusser (p. 99): “Al principio puro della
coscienza di sé di un’epoca – principio semplice che, in Hegel, è principio di intelligibilità di tutte le
determinazioni di un popolo storico; si sarebbe così sostituito un altro principio semplice, contrario al
primo: l’economia – che diventerebbe a sua volta l’unico principio di intelligibilità di tutte le determinazioni
di un popolo storico”. Se dunque il rapporto delle concezioni storiche Hegel-Marx fosse di puro
rovesciamento, al principio dell’Idea si sostituirebbe il principio dell’Economia.83

Marx non ha semplicemente rovesciato Hegel – nel senso di un’inversione del rapporto tra determinati
termini. Non può trattarsi di un rovesciamento di questo genere, nella misura in cui “M arx non ha
conservato, sia pure rovesciandoli, i termini del modello hegeliano di storia e società; piuttosto, egli vi ha
sostituito altri principi” – scrive Althusser (p. 100). In questo senso, si potrà notare come i termini di uso
marxiano siano radicalmente differenti dal lessico concettuale di Hegel; quando invece alcuni termini-
concetti siano ripresi, Marx ne riscrive la natura. Si prendano ad esempio alcuni termini fondamentali nelle
concezioni socio-politiche di Hegel-Marx. Per Hegel, ogni società è costituita da un duplice ed intrinseco
ordinamento sociale: la società civile e lo Stato, dove quest’ultimo è la verità, l’essenza, della società civile.
La nozione di società civile compare in Marx solo per scopi polemici; per il resto, essendo tale nozione
l’esito di un presupposto fortemente criticato da Marx (il concetto di homo oeconomicus), giocoforza essa
sarà rifiutata da Marx. Si pensi alle Tesi su Feuerbach, numeri IX-X84. Anziché assumere – in continuità con

83
Althusser, p. 100: “Questo tentativo finisce nella riduzione radicale della dialettica della storia alla dialettica
generatrice dei modi di produzione, cioè al limite delle differenti tecniche di produzione”. [Economicismo,
teconolgismo].
84
IX: “Il grado più alto al quale abbia condotto il materialismo intuizionista, cioè il materialismo che non concepisce
la sensibilità come attività pratica, è l’intuizione dei singoli individui nella società borghese [civile]”.
X: “Il pdv. dell’antico materialismo è la società borghese [civile]; il pdv. del nuovo, la società umana, o l’umanità
consociata”.
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gli autori dell’economia politica del XVIII secolo – i comportamenti economici astratti degli homini
oeconomici come presupposti inconcussi, Marx commisura questi stessi comportamenti alle loro condizioni
di esistenza materiali: e cioè, nella terminologia marxiana, ai modi di produzione, alle forze produttive, ai
rapporti di produzione vigenti in una determinata formazione sociale. Quanto alla teoria dello Stato,
risultano immediatamente evidenti i mutamenti intervenuti nel passaggio Hegel-Marx 85.

Dunque, teoria socio-politica (compresa nelle rispettive teorie della storia):

- in Hegel: Stato come verità - essenza - compimento oggettivo della società civile;
- in Marx: struttura-sovrastruttura, dove la verità sta esattamente nella relazione tra queste due
istanze determinanti l’essenza della formazione sociale data. Decade quindi la modalità relazionale
hegeliana: essenza-fenomeno dell’essenza. Compare invece in Marx un nuovo genere di rapporto tra
gli elementi costitutivi della società: “da una parte, la determinazione ‘in ultima istanza’ del modo
di produzione; dall’altra, la relativa autonomia delle sovrastrutture e la loro efficacia specifica” (p.
102).

Come si può dedurre dagli accenni di cui sopra, la formazione sociale marxianamente intesa è costituita da
un complesso di relazioni e stratificazioni irriducibili ad un’unità semplice, pura – nemmeno quella della
struttura, che, con le parole di Engels, “è il fattore determinante, ma solo in ultima istanza”86. Riprendendo la
questione del legame necessario tra struttura dialettica e teoria della storia in Marx, si può concludere che,
effettivamente, la concezione marxiana della formazione sociale rappresenta l’orizzonte indispensabile per
una configurazione della dialettica che proceda per contraddizioni surdeterminate. Per Marx, la formazione
sociale è storicamente determinata a seconda delle relazioni tra i livelli e gli elementi in essa presenti ed
operanti. Entro la formazione sociale, dunque, si dispiegano indefinite e diverse relazioni tra gli elementi
strutturali e quelli sovrastrutturali, da non intendersi in direzione unilaterale, come vorrebbe il marxismo
economicista: con le parole di Althusser, è necessario tenere sempre presente “l’accumulazione di
determinazioni efficaci (prodotte dalle sovrastrutture e dalle circostanze particolari) sulla determinazione in
ultima istanza da parte dell’economia” (p. 103).

Mettendo in luce la natura dei rapporti struttura-sovrastruttura entro una formazione sociale storicamente
data, si è dunque reso possibile indicare il fondamento di possibilità della nozione di surdeterminazione, che
appare ora concettualmente consolidata. Conclude Althusser (p. 104):

85
Althusser, p. 101: “[Concetto di classe sociale – rapporti di produzione]. Questo intervento di nuovi concetti consente
a Marx di riconfigurare l’essenza dello Stato, che ormai non è più al di sopra dei gruppi umani, ma è invece al servizio
della classe dominante; che non ha più la missione di compiersi nell’arte, nella religione e nella filosofia, ma si
prodiga invece al fine di mettere queste al servizio degli interessi della classe dominante; che smette dunque di essere
la verità della società, per diventare lo strumento di azione e di dominio di una determinata classe sociale”.
86
Engels: “La situazione economica è la base, ma i diversi elementi della sovrastruttura – le forme politiche della lotta
di classe; le costituzioni stabilite dalla classe dominante; le forme giuridiche ed ideologiche – esercitano anch’essi la
loro azione nelle lotte storiche, ed in molti case ne determinano la forma in modo preponderante”.
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Questa surdeterminazione diventa inevitabile, e pensabile, dal momento in cui si riconosce
l’esistenza reale – in gran parte specifica ed autonoma, irriducibile dunque a puro fenomeno –
delle forme della sovrastruttura e della congiuntura nazionale ed internazionale.

Riassumendo. Una contraddizione è surdeterminata quando in essa converga una pluralità di processi e cause
che, tra loro più o meno indipendenti, si dispiegano intersecandosi a vicenda ed avvitandosi nel punto nodale
di una contraddizione, la cui comprensione implica una ricostruzione di linee causali molteplici e complesse.
Per recuperare l’esempio paradigmatico della Rivoluzione bolscevica, nella Russia del 1917 la
contraddizione dominante* era di tipo politico-istituzionale: come si è visto, questa contraddizione era
surdeterminata da una pluralità di fattori storico-congiunturali: dalla situazione bellica alla carestia
alimentare; dalla secolare vessazione zarista all’ascesa del partito bolscevico, passando– in ultima istanza –
per la posizione socio-economica del proletariato russo.

* [Contraddizione strutturale / contraddizione dominante. La contraddizione dominante è l’espressione


storica della contraddizione fondamentale che, tuttavia, può collocarsi su altri piani rispetto a quello socio-
economico. La manifestazione della contraddizione dominante, se in ultima istanza è sempre dipendente
dalla struttura di una determinata società, può essere in larga misura determinata dall’accumulazione di
contraddizioni storiche e dalla particolare congiuntura di un passaggio epocale. Per intendersi, la
contraddizione dominante entro una formazione sociale è la contraddizione all’ordine del giorno; la
contraddizione che, più di ogni altra, muove la teoria-prassi dei soggetti, nella misura in cui tutte le
contraddizioni storico-sociali esistenti si condensano – in diversi modi e misure – nel punto di raccordo di
tale contraddizione, che risulterà al contempo dominante e surdeterminata. Si noti infine: il concetto di
contraddizione dominante non sarebbe pensabile senza il concetto di surdeterminazione: infatti, la
contraddizione dominante rileva in quanto surdeterminata, in quanto punto di condensazione dell’unità di
rottura rivoluzionaria. Per converso, il concetto di surdeterminazione non sarebbe esso stesso pensabile senza
la posizione di una contraddizione dominante, espressione della relativa autonomia della sovrastruttura
rispetto alla struttura: in questo senso, data la relazione policentrica, bilaterale, tra struttura-sovrastruttura si
rende possibile la surdeterminazione di una contraddizione. Dove si dà una surdeterminazione, là sarà data
anche una contraddizione dominante.]

Tramite il concetto di surdeterminazione – e quello di contraddizione dominante, di cui si vedrà in seguito


più approfonditamente – Althusser riconfigura il rapporto tra struttura-sovrastruttura come segue: la
sovrastruttura non è né assolutamente dipendente, né determinata in senso meccanicistico, dalla
configurazione di una struttura economica data. Con Gramsci, Lenin è colui che ha emancipato il marxismo
dall’interpretazione ortodossa dei rapporti struttura-sovrastruttura ed ha affermato politicamente la relativa
autonomia della sovrastruttura – in particolare della politica e dell’organizzazione partitica – rispetto alla
struttura.

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L’introduzione dei concetti di surdeterminazione e contraddizione dominante segna una radicale differenza
tra Althusser e Lukàcs. Più precisamente:

- Lukàcs: indiscussa assunzione dell’impianto metodologico della dialettica hegeliana,


materialisticamente declinata secondo i presupposti e le prerogative marxiane. L’analisi lukacsiana
di Marx non può prescindere da una serie di eredità della filosofia classica tedesca, tra cui la
Tathandlung ed il modello dialettico hegeliano – orizzonte indiscutibile della filosofia marxiana.

- Althusser: differenza specifica tra la dialettica di Hegel (monocentrica) e di Marx (pluricentrica).


Ma nella pluricentrica, multiversa e complessa dialettica marxiana del capitalismo, chi è il soggetto
privilegiato del processo capitalistico? chi è il soggetto del capitale? chi sostituisce la figura del
proletariato lukacsiano? Per Althusser, il capitale è un processo senza soggetto; piuttosto, il soggetto
è un effetto della struttura capitalistica, e non invece un agente presupposto – un necessario punto di
partenza e di arrivo – della formazione sociale in questione. Il soggetto è dunque un effetto delle
relazioni strutturali che investono e informano una determinata formazione sociale. Il soggetto – un
determinato soggetto, si intende – cessa di essere il protagonista ed il produttore della storia; in
questo senso, la stessa pratica politica viene de-soggettivata. Politica: pratica deputata a: 1)
individuare la contraddizione dominante in una data congiuntura storica; 2) articolare la relazione
tattica-strategia, ovvero il nesso tra obiettivi immediati ed orizzonte complessivo dell’azione politica.
Così configurata, la politica non necessita di un soggetto peculiare, quale è il proletariato lukacsiano;
sicché, essa cessa altresì di avere una tangenza intrinseca con questioni etiche (Lukàcs sulla
violenza) o questioni storiche inerenti ad una soggettività peculiarmente rivoluzionaria (Lukàcs sul
proletariato). Soltanto così, conclude Althusser, il marxismo può raggiungere piena dignità
epistemologica di scienza della struttura sociale – ovvero, scienza delle relazioni e delle
contraddizioni interne ad una determinata formazione sociale.

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II. SULLA DIALETTICA MATERIALISTICA – (L’ineguaglianza delle origini)

In apertura di articolo, Althusser raduna in sintesi le accuse che gli sono state mosse a fronte della
proposizione dei concetti di surdeterminazione e contraddizione dominante. In breve: 1) aver fin troppo
nettamente tracciato una discontinuità tra la dialettica di Hegel e di Marx; 2) aver inopportunamente
sostituito il monismo marxiano della storia con una concezione pluralistica ed indeterminata: cosa
rimarrebbe, in questo senso, della necessità storica, del ruolo fondamentale dell’economia nel corso della
Storia? In entrambe le accuse, ciò che costituisce oggetto di discussione è la dialettica di Marx: “in cosa
consiste la specificità della dialettica marxiana?”. Con piena evidenza, si tratta di un quesito eminentemente
teorico. La soluzione di un problema teorico necessita in primo luogo della corretta formulazione del
problema – del dominio in cui sorge, dei suoi termini concettuali; in secondo luogo, questa soluzione implica
la produzione di una “conoscenza nuova, organicamente connessa alle altre conoscenze del medesimo
campo teorico” (p. 144).

Nel caso specifico, la soluzione del problema teorico di cui sopra – quale sia, cioè, la specificità della
dialettica marxiana – esiste già entro i limiti della pratica del marxismo. Stando così le cose, “porre e
risolvere il nostro problema teorico consiste in questo: nell’enunciare teoricamente la soluzione che esiste
già allo stato pratico; (…) nel colmare, su un punto preciso, uno scarto tra teoria e pratica” – scrive
Althusser (p. 145). L’esistenza della soluzione sul piano pratico del marxismo è riconoscibile, ma non per ciò
anche teoricamente conosciuta. Ci si potrebbe tuttavia chiedere: a cosa serve questo sforzo di enunciazione e
produzione di conoscenza teorica, se nella pratica il problema è stato riconosciuto e risolto? Con la celebre
citazione di Plekhanov, ripresa anche da Lenin: “Senza teoria, niente pratica rivoluzionaria”. Occorre
indagare in cosa consista allora l’essenzialità della teoria rispetto alla pratica. In che cosa la teoria è
irrinunciabile per il dispiegamento della pratica? Al fine di avvicinare una risposta a tale interrogativo, sarà
necessario definire i due termini in questione.

- Pratica: processo di trasformazione di una determinata materia data  in un determinato prodotto;


questa trasformazione viene realizzata tramite un determinato lavoro e determinati mezzi. Nel
processo pratico così concepito, il momento fondamentale non è né la materia data, né il prodotto
ottenuto, bensì “il momento del lavoro di trasformazione, che mette all’opera un determinato
lavoro, dei mezzi ed un metodo tecnico di utilizzo dei mezzi” (p. 146). All’interno di una totalità
sociale, si dà una molteplicità di pratiche sociali: tra queste, nell’attuale formazione sociale, la
pratica in ultima istanza determinante è “la pratica di trasformazione della natura data in prodotti
d’uso, per mezzo dell’attività degli uomini che operano mediante l’impiego metodicamente regolato
di mezzi di produzione determinati, nel quadro di rapporti di produzione determinati” (p. 147). Oltre

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alla pratica di produzione di merci, la pratica sociale comporta altri livelli pratici essenziali: pratica
politica, pratica ideologica e pratica teorica.

- Teoria: “una forma specifica della pratica, appartenente anch’essa all’unità complessa della
pratica sociale di una società umana determinata” (p. 147). La materia prima su cui opera la teoria –
la pratica teorica – è il complesso di fatti-rappresentazioni-concetti, posto in essere dall’esercizio di
altre pratiche sociali. Nella sua forma più generale, la pratica teorica comprende:

 pratica teorica pre-scientifica, o ideologica;


 pratica teorica scientifica: “… trasforma in conoscenze (verità scientifiche) i prodotti
ideologici delle pratiche sociali esistenti”.

Il punto di passaggio tra pratica pre-scientifica / scientifica si può indicare con il termine (di
Bachelard) di rottura epistemologica, atto fondativo di una scienza, che si distacca dalla sua
preistoria ideologica. Entro l’orizzonte della scienza, Althusser propone ulteriori distinzione teoriche,
“necessarie per poter dare alla domanda: <a cosa serve enunciare teoricamente una soluzione
esistente allo stato pratico?> una risposta teoricamente fondata”:

o teoria: ogni pratica teorica di carattere scientifico (fisica, ecc., marxismo); [scienza]

o “teoria”: unità complessa di concetti e leggi a fondamento di una determinata scienza


(“teoria” della gravitazione, ecc., “teoria” del materialismo storico); [conoscenze
scientifiche]87

o Teoria: teoria della pratica in generale  per Althusser, la dialettica materialistica, che
pone le condizioni formali per l’esercizio della pratica in generale – compresa la pratica
teorica. La Teoria corrisponde alla “dialettica materialistica nella sua specificità”. [teoria
del metodo]

La risposta al quesito di cui sopra può formularsi esclusivamente all’altezza della Teoria. Infatti, è soltanto
sul piano della Teoria che diviene possibile illuminare il rapporto tra teoria-pratica – ovvero tra pratica
teorica e processo di trasformazione in generale. Sicché, quando Lenin afferma: “senza teoria, niente azione
rivoluzionaria”, da una parte intende riferirsi alle “teoria” che sostiene la pratica politica marxista, e cioè il
materialismo storico come scienza dello sviluppo delle formazioni sociali; dall’altra parte, però,
indirettamente egli enuncia anche una tesi – sul rapporto tra “teoria” e pratica politica – sussumibile sotto la

87
Conoscenze scientifiche, che occorre accuratamente distinguere dalle conoscenze che si limitano a riflettere uno scopo
meramente tecnico, cioè estrinseco alla scienze, e che costituiscono “il regno delle pretese teorie che non hanno nulla a
che vedere con la vera teoria, ma sono solo sottoprodotti dell’attività tecnica. Il pericolo ideologico più minaccioso:
(…) il Pensiero Tecnocratico” (Althusser, p.150, nota).
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Teoria. In egual misura, anche il nostro problema – enunciazione teorica di una soluzione pratica – rientra
nella Teoria, ovvero nell’orizzonte della dialettica materialistica, che riferisce alle varie pratiche esistenti la
loro intrinseca processualità dialettica, nonché la loro costituzione essenzialmente non-ideologica.

Alcune pratiche – la pratica teorica marxista e la pratica politica leninista – hanno accolto il fondamento
della Teoria, e cioè hanno assunto la dialettica materialistica come proprio fondamento metodologico, senza
tuttavia esplicitare teoricamente questa assunzione.

A. La pratica teorica marxista. Come ogni pratica teorica, la teoria marxiana (la scienza marxista)
risulta un processo di trasformazione di una materia data  in prodotto determinato: conoscenza,
ottenuta per il tramite di determinati mezzi: i concetti della “teoria” già elaborati ed il metodo della
loro applicazione. In queste definizioni è all’opera la Teoria. Ora, una pratica teorica reale può
svolgere la propria teoresi, senza provare il benché minimo bisogno di elaborare la Teoria della
propria pratica, del proprio processo di produzione teorica di conoscenza. È il caso di quasi tutte le
scienze: esse mancano di una Teoria della propria pratica teorica, del proprio metodo; tale
elaborazione è necessaria “per risolvere problemi teorici o pratici insolubili da parte della pratica
immersa nel proprio operare” (p. 152). [Già qua si dà risposta al problema dell’enunciazione teorica
di una soluzione pratica]. In Marx è assente una
formulazione esplicita della Teoria della propria pratica teorica (la scienza delle formazioni sociali).
Pur tuttavia, sebbene gli estremi di questa Teoria non siano esplicitati teoricamente, essi sono
indubbiamente operativi nella pratica teorica marxiana. Altrimenti detto: Marx non elabora un
discorso sulle procedure che costituiscono e costruiscono la sua pratica teorica – questo discorso
sarebbe stata la promessa Dialettica che non redasse mai. Ma nonostante ciò, tali procedure sono
costantemente operative nella produzione teorica marxiana. Stando così le cose, la Teoria della pratica
teorica marxiana è, in Marx, disseminata nella medesima pratica teorica marxiana.
Althusser: “Il metodo che Marx impiega nella sua pratica teorica, nel suo
lavoro scientifico sul ‘dato’, che trasforma in conoscenza, è appunto la dialettica marxista; ed è
appunto tale dialettica che contiene in sé, allo stato pratico, la soluzione del problema dei rapporti
Hegel-Marx. (…) La dialettica marxista esiste quindi nel Capitale, ma allo stato pratico” (p. 153).
Occorrerà dunque enunciare questa esistenza ancorata sul piano dell’esecuzione pratica della teoria
marxiana.

B. La pratica politica leninista (marxista). Nella pratica della lotta di classe durante la Rivoluzione
russa del 1917 – ed in particolare nella conduzione di Lenin – è manifestamente operativa la dialettica
marxista nella sua specificità, ma ancora allo stato pratico. Anche la pratica politica – la cui materia
sono i rapporti sociali ed il cui prodotto è la trasformazione di questi stessi rapporti – può esistere e
svilupparsi, almeno per un certo lasso temporale, senza provare il bisogno di elaborare la Teoria della
propria pratica, ovvero del proprio metodo. Questo bisogno può rimanere celato, “fino al momento in
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cui il suo oggetto – mondo dei rapporti sociali – non opporrà una resistenza sufficiente ad obbligare
[la pratica] a colmare questo scarto, a pensare il proprio metodo, così da produrre le soluzioni
adeguate ed i mezzi per produrre tali soluzioni, nonché le nuove conoscenze corrispondenti al nuovo
stato della pratica” (p. 154). Apparirà certo sorprendente la disamina di Althusser, nella misura in cui
abbondano le opere di Lenin (Che fare?) che mettono a fuoco la questione della metodologia politica
del partito comunista e della lotta di classe.
Pure, se le opere di Lenin definiscono i fondamenti della pratica bolscevica, non rappresentano
tuttavia una riflessione teorica sulla pratica politica in quanto tale; un’elaborazione teorica attorno al
problema del metodo operante nella pratica politica in generale. Non si tratta di una mancanza
imputabile a Lenin; piuttosto, la riflessione sulla Teoria non era il proposito delle opere leniniste, le
quali sono invece “testi di uso politico, redatti da un uomo impegnato nella rivoluzione. [In questo
senso, allora, Che fare?] non è un testo sulla dialettica, benché la dialettica marxista vi sia all’opera”
(p. 155). I testi di Lenin attorno alla lotta di classe colgono l’essenza specifica della pratica politica
marxista (l’oggetto, il campo applicativo, gli strumenti), illustrandola attraverso l’esempio circoscritto
della pratica politica di un dirigente marxista nella congiuntura del 1917. In altre parole, Lenin
risponde alla domanda: quale è la specificità della pratica politica?, analizzando il momento attuale –
l’attualità strutturata – della Rivoluzione russa. “Lenin analizza quelle articolazioni essenziali, quegli
anelli, quei nodi strategici, dai quali dipende la possibilità e la riuscita di ogni pratica rivoluzionaria.
(…) L’insostituibilità dei testi di Lenin è in questo: nell’analisi della struttura di una congiuntura, che
l’azione politica dovrà trasformare”, commenta Althusser (pp. 156-7).
Dunque, per quanto attraversata dalla dialettica marxista, la disamina di Lenin – situata ad una
precisa altezza storica – non potrà essere un’esposizione teorica di quella medesima dialettica che, in
questa sua declinazione, “non è la teoria di un fatto compiuto, ma un metodo rivoluzionario” (p. 158).
In definitiva, la risposta di Lenin alla questione circa la specificità della dialettica marxista nella
pratica politica viene trattenuta allo stato pratico, essendo la sua riflessione in materia circoscritta alla
trattazione di una congiuntura storicamente determinata.

Si è visto dunque che il problema della specificità della dialettica marxiana è presente ed è risolto nella
pratica teorica marxista e nella pratica politica marxista-leninista. In entrambe queste pratiche, infatti, è
propriamente all’opera la dialettica marxiana nelle sue determinazioni essenziali e specifiche. Si tratterà ora
di enunciare tale soluzione pratica da una prospettiva puramente teorica. Un tentativo di risposta teorica al
problema di cui sopra è situato nello scritto di Mao Tse-tung, Sulla contraddizione (1937). Secondo Mao la
contraddizione è di certo una categoria universale ma, nella misura in cui l’universale esiste solo nel
particolare, ne seguirà che la contraddizione si presenta sempre come forma specificata. La contraddizione è
sempre specifica. Di conseguenza, dinanzi ad una contraddizione data come immediatamente universale,
occorrerà sempre esercitare un processo di specificazione dell’universale, così da “interdire a questo
universale l’astrazione o la tentazione ideologica” (p. 160). In altri termini, l’universalità specifica –
concreta – di una contraddizione è sempre il risultato di “un lavoro su un universale preliminare”.
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[Riassumendo: universale preliminare ideologico  lavoro di specificazione  universale specificato.]

A partire da queste indicazioni di Mao, Althusser elabora il processo della pratica teorica, ovvero il
processo di produzione scientifica che opera su materiale ingenuamente rappresentativo, o ideologicamente
astratto, per trasformarlo infine in conoscenza scientifica. Il concetto di pratica teorica risulterà il concetto di
fondamentale rilievo per 1) divincolare definitivamente l’impianto epistemologico marxista dalla presa della
dialettica hegeliana; 2) affermare il marxismo come scienza. Pratica teorica: l’espressione appare
paradossale; ma, oltrepassando questa apparenza superficiale, si riconoscerà certo come la teoresi sia essa
stessa una pratica, un processo trasformativo non già di materie prime empiriche, ma di ciò che è dato come
universale della rappresentazione (concetto) del senso comune o della pratica ideologica. Sicché, il lavoro
della pratica teorica si esplicita sempre su un materia prima teorica che già possiede carattere generale:
Althusser nomina tale materia Generalità I. Contrariamente all’ideologia empiristica, una scienza non lavora
mai su un esistente nella sua singolarità data, immediata (fatti individuali); piuttosto, la scienza lavora
sempre sul generale, anche quando questo si presenti come puro dato oggettivamente empirico. In altre
parole, “quando una scienza si costituisce, essa lavora sempre su concetti esistenti, su Generalità I di natura
ideologica, al fine di elaborare fatti scientifici, cioè scientificamente specificati” (p. 161). Il complesso dei
fatti scientifici elaborati da una scienza determinata costituisce la Generalità III, l’universalità concreta della
conoscenza scientifica, il piano del concetto scientifica. “È dunque trasformando Generalità I in Generalità
III che la scienza lavora e produce”.

Ma cosa lavora? cosa propriamente produce il passaggio e la trasformazione da Generalità I a Generalità III?
Quale è, nella pratica teorica scientifica, il momento corrispondente ai mezzi della produzione? La risposta di
Althusser è situata nella nozione di Generalità II, “costituita dal corpo dei concetti, la cui unità determina
la ‘teoria’ della scienza nel momento storico considerato – la ‘teoria’, cioè il campo in cui viene
necessariamente posto ogni problema della scienza” (pp. 161-2). In altri termini, la Generalità II rappresenta
il piano di esistenza dei concetti che non sono ancora conoscenza scientifica propriamente detta, ma che
permettono il transito dalle rappresentazione ideologiche alle conoscenze scientifiche. Pertanto: i concetti
della Generalità II non sono già conoscenze fini a se stesse, bensì concetti che costituiscono i mezzi di
produzione della scienza.

[“La pratica teorica produce Generalità III attraverso il lavoro di Generalità II su Generalità I” (p. 162).]

Contrariamente a quanto si potrebbe ingenuamente pensare, il passaggio dalla Generalità I alla Generalità III
corrisponde al passaggio dall’astratto al concreto. Per comprendere questa affermazione, occorre assumere
le determinazioni marxiane – peraltro già presenti in Hegel – di ‘astratto’ e ‘concreto’. Se da un pdv.
superficiale si ritiene che “l’astratto designa la teoria stessa (scienza), mentre il concreto designa le realtà
concrete di cui la pratica teorica produce la conoscenza” (p. 163); in realtà, bisogna osservare che il
risultato al quale perviene la pratica scientifica è il concreto-conoscenza, come lo nomina Althusser. Il pdv.

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superficiale è prigioniero di un’illusione ideologica che confonde due concetti differenti di ‘concreto’ 88: vi
sono il concreto-conoscenza / il concreto-realtà, che è l’oggetto della conoscenza. Tale concreto-realtà non è
affatto, come si è visto sopra, il punto di inizio della pratica scientifica, che lavora sempre su universalità
preliminari, ideologiche, e non già su essenti concretamente individuali, “che sussistono invece nella loro
indipendenza all’esterno del pensiero”. Il risultato della pratica teorica è il concreto-conoscenza – ovvero
Generalità III, l’universalità specificata, per essenza differente rispetto all’universalità astratta, ideologica,
preliminare di Generalità I.

Questa differenze essenziale non viene riconosciuta in Hegel: “Le apparenze della concezione hegeliana
della auto-genesi del concetto, del movimento dialettico tramite cui l’universale astratto si produce esso
stesso come concreto89, riposano sulla confusione della specie di ‘generalità’ operante nella pratica teorica”
(p. 164). Tale confusione è dovuta alla concezione ideologica dell’universale in Hegel, inteso come
astrattezza in cui è già iscritto il principio della conoscenza scientifica, e che si tratta soltanto di sviluppare,
senza pertanto operare alcuna trasformazione. Ma, stando all’impostazione epistemologica di Althusser, la
realtà della pratica teorica implica una effettiva trasformazione dall’astratto-ideologico al concreto-
conoscenza. In questo senso, “la Generalità II è un processo di trasformazione nel senso forte del termine,
cioè un processo che non ha la forma di un semplice sviluppo (sul modello hegeliano: sviluppo dall’in-sé al
per-sé), ma ha invece la forma di mutazioni e ristrutturazioni che provocano discontinuità qualitative reali ”
(p. 165). In altri termini, ciò che distingue Hegel-Marx nelle rispettive pratiche teoriche, è il fatto che Hegel
“prende il concetto universale che sta all’inizio del processo della conoscenza (es.: concetto di ‘essere’
nella Logica) per l’essenza ed il motore del processo di trasformazione scientifica”, il quale necessita invece
di una differenza essenziale tra Generalità I – Generalità II – Generalità III 90.

Diversamente da Hegel, dunque, in Marx la Generalità I esce sempre realmente trasformata dal lavoro
pratico della teoria; diviene tutt’altra generalità: non più ideologica, bensì una generalità scientifica
specificata. Sulla soglia della Generalità I si arrestano le scienza ideologiche borghesi (hegelismo compreso),
le quali assumono come scienza la generalità preliminare ed astratta che legittima l’esistente in quanto tale,
senza cioè realmente trasformare i dati delle sue rappresentazioni ideologiche in conoscenza scientifica della
sua struttura – sua, dell’esistente. Osserva Althusser: “La discontinuità qualitativa che interviene nelle
diverse Generalità, Hegel la nega, o piuttosto non la pensa; e se invece la pensa, ne fa il fenomeno di
un’altra realtà, ideologica in tutto e per tutto: il movimento semplice dell’Idea, che – tramite la nozione di

88
Althusser, p. 163: “La critica che oppone l’astrazione della teoria / al concreto del reale, è una critica ancora
ideologica, perché nega la realtà della pratica scientifica, la realtà di quel ‘concreto’ teorico che è la conoscenza
scientifica. Questa critica rimane dunque nell’ideologia del rovesciamento di astratto-concreto”.

89
Althusser, pp. 164-5: “Come dire, per usare un paragone tratto da un’altra pratica, che è il carbone a produrre,
tramite il suo auto-sviluppo dialettico, la macchina a vapore e le fabbriche, e così via”.
90
Althusser, p. 165: “La generalità astratta dell’inizio (I), cioè la generalità lavorata, non è la medesima generalità
che lavora (II) e, a maggior ragione, non è la generalità specificata prodotta da questo lavoro (III)”.
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autogenesi del concetto – egli proietta sulla realtà della pratica teorica” (p. 165). È in questo genere di
operazioni che si definisce l’idealismo hegeliano.

Ciò detto, si potrà ora comprendere ancora più chiaramente il senso del rovesciamento marxiano di Hegel. Se
nella dialettica hegeliana il concetto si compie nel ritorno-a-sé dell’universale astratto – nello sviluppo
dall’in-sé al per-sé, ovvero nel ripiegamento cosciente su di sé dell’Idea alienata; nella dialettica marxiana,
presentata come il rovesciamento di quella hegeliana, si produce una trasformazione (e non uno sviluppo)
dell’universale astratto. Non si tratta, qui, di mero rovesciamento: infatti, il rovescio dello sviluppo hegeliano
sarebbe propriamente un non-sviluppo, laddove in Marx si produce invece una trasformazione
dell’universale. In questo senso, Marx opera uno spostamento rispetto ad Hegel, una riconfigurazione della
dialettica stessa, e non soltanto un semplice rovesciamento. Con Althusser: “Arrivati a questo punto, si vede
che non può più essere questione di rovesciamento: non si ottiene una scienza rovesciando un’ideologia. Si
ottiene invece una scienza, a condizione di abbandonare il terreno della problematica ideologica, per
fondare – nel campo di una nuova problematica – l’attività della nuova teoria” (p. 168).

Si dà un secondo fraintendimento del rovesciamento marxiano di Hegel. Ad una lettura ingenua,


sembrerebbe che il rovesciamento marxiano si riduca all’inversione dei termini di astratto-concreto: per cui,
se Hegel parte dal concreto per ottenere l’astratto (dal concetto di frutto  il frutto nella sua concretezza);
Marx, invece, parte dal concreto per derivare l’astratto. Questo genere di rovesciamento semplice è proprio
della filosofia di Feuerbach e, in quanto tale, viene criticato da Marx nelle Tesi su Feuerbach, I91. Come si è
visto più sopra, il punto di partenza della pratica scientifica non è un concreto-reale, bensì è già un
universale, è già un astratto. In ciò, Marx si differenzia da Feuerbach e da tutto il materialismo intuizionista,
che proponeva invece come punto di partenza della scienza l’astrazione operata dal soggetto sul concreto-
reale; ma, come scrive Althusser, “l’atto di astrazione che estrarrebbe dagli individui concreti la loro
essenza è un mito ideologico. [Infatti], la Generalità I – p. es. il concetto di ‘frutto’ – non è il prodotto di
un’operazione di astrazione, bensì il risultato di un complesso processo di elaborazione, in cui convergono
numerose pratiche concrete e distinte, di livelli differenti, empiriche, tecniche, ideologiche. (…) Anche la
Generalità I rifiuta quindi il modello dell’ideologia empiristica presupposta dal ‘rovesciamento’ di Hegel ”
(p. 167).

Ad ogni modo, le riflessioni di cui sopra si sono intrecciate a partire dall’affermazione di Mao Tse-tung
attorno all’universalità specificata della contraddizione. Assunte le considerazioni attorno alla pratica teorica,
si potrà ora concludere che l’universalità della contraddizione specificata rientra nella Generalità III – cioè la
contraddizione marxianamente intesa, in quanto universale specificato, è una conoscenza scientifica. In cosa
consiste la specificità della contraddizione marxiana? Dalle indicazioni di Mao:

91
Marx, Tesi su Feuerbach, I: “Il difetto capitale di tutto il materialismo passato – compreso quello di Feuerbach – è
che il termine del pensiero, la realtà, il sensibile, è stato concepito soltanto sotto forma di oggetto, o di intuizione, e
non già come attività sensitiva umana, come prassi, soggettivamente. (…)”.
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- contraddizione principale / contraddizioni secondarie;
- aspetto principale / aspetto secondario di una contraddizione;
- sviluppo ineguale della contraddizione.

La prima distinzione – tra contraddizione principale / secondarie – presuppone immediatamente l’esistenza


di una pluralità di contraddizioni: dunque, l’esistenza delle contraddizioni entro l’alveo di un processo
complesso. Con Mao: “In ogni processo complesso di sviluppo dei fenomeni esiste tutta una serie di
contraddizioni, tra le quali ce n’è sempre una che è la contraddizione principale”. Da questa configurazione
della processualità dei fenomeni e delle contraddizioni, discende anche la distinzione interna agli aspetti di
una contraddizione. Ciò che rileva in queste rapide considerazioni è l’accento di Mao sulla complessità del
processo intimamente contraddittorio. L’oggetto della dialettica marxiana è una processualità complessa, in
cui si dà una molteplicità di elementi tra sé contraddittori. In Marx, dunque, non sussiste alcun processo
dialettico semplice, in cui esistano soltanto due contrari tra sé contraddittori: il processo storico-sociale
determinato – l’oggetto della dialettica di Marx – non procede come sviluppo di un’unità originaria semplice
(l’Uno scisso in due parti contraddittorie). Questa unità semplice originaria costituisce la matrice della
contraddizione hegeliana. In Hegel, infatti, si dispiega un processo dialettico che si sviluppa per
opposizione semplice di due poli contraddittori. L’esistenza della complessità è soltanto un fenomeno
dell’unità semplice, “che si sviluppa in se stessa in virtù della negatività, senza mai restaurare, in tutto il suo
sviluppo, una totalità più concreta di quella unità e di quella semplicità originarie” (p. 173).

In Marx – osserva Althusser sulla scorta di Mao – la complessità non è un fenomeno derivante dalla
semplicità; non è l’evoluzione transeunte di un’unità semplice destinata a ricomporsi nel superamento delle
sue alienazioni e delle sue contraddizioni. Piuttosto, nella dialettica marxiana, anche “la più semplice
categoria economica non può mai esistere, se non come relazione unilaterale ed astratta di una totalità
concreta e vivente già data”, scrive Marx. Sicché, ogni processo ed ogni categoria sono sempre parti di una
complessità organica e strutturale: un Tutto complesso strutturato già-dato, secondo la notazione di
Althusser. Quando si intende assumere una categoria come essenza semplice ed eterna di un qualsiasi
processo, bisognerebbe tenere presente – insegna Marx – che tale categoria è sempre il risultato di un
determinato stadio dello sviluppo storico-sociale dell’umanità; dunque, il risultato di una complessità
strutturata già data. In questo senso, la semplicità non è affatto una condizione originaria dei processi
dialettici storico-sociali; al più, quando sussista, tale semplicità è invece il prodotto di un determinato
processo complesso. “È questo principio fondamentale che rigetta definitivamente la matrice hegeliana
della contraddizione”, commenta Althusser (p. 172). La matrice hegeliana della contraddizione – il
presupposto di un’origine semplice e radicale – non è, ancora una volta, semplicemente rovesciata da Marx:
“questo presupposto è soppresso: del tutto soppresso (del tutto!, e non nel senso dell’Aufhebung) e
rimpiazzato da tutt’altro presupposto teorico: [un Tutto complesso strutturato già-dato]”. Ciò implica il fatto
che, nella dialettica marxiana, siano attive categorie totalmente altre rispetto a quelle della dialettica
hegeliana – in primis, la categoria di contraddizione.
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Si è dunque considerata la specificità della contraddizione sotto il riguardo della distinzione tra
contraddizione principale / secondarie e – in conseguenza di questa determinazione – tra aspetto principale /
secondario interno alla singola contraddizione. Rimane da considerare ciò che è propriamente l’essenziale
della specificità propria della contraddizione marxiana: la legge dello sviluppo ineguale della
contraddizione. Tale legge rappresenta la condizione di possibilità delle specificità essenziali della
contraddizione precedentemente trattate: infatti, la distinzione principale / secondario è possibile soltanto
dove si dia una struttura ineguale del processo dialettico, e cioè una struttura in cui sia costitutivo il rapporto
di dominanza-subordinazione tra le contraddizioni operanti nel momento considerato. “La dominanza di una
contraddizione sulle altre non può essere, per il marxismo, il fatto di una distribuzione contingente di
contraddizioni differenti in un insieme considerato come oggetto”, scrive Althusser (p. 176). La totalità di
cui il marxismo è scienza non è dunque un mero ‘oggetto’, essenzialmente a-dialettico; piuttosto, la totalità
marxiana è una complessità strutturata, la cui logica implica il rapporto dominanza-subordinazione tra i suoi
poli contraddittori. Sicché, “la dominanza non è un fatto indifferente, né tantomeno contingente; è invece un
fatto essenziale alla complessità stessa, alla sua struttura”. Stando così le cose, l’affermazione dello
sviluppo ineguale – a dominante – delle contraddizioni non implica affatto un lascito al pluralismo
contingente degli elementi di un determinato processo storico-sociale. Come in Hegel, così anche in Marx si
registra una priorità logico-metodologica dell’unità – della totalità – sulle parti costitutive; tuttavia, se in
Hegel si definisce un’unità semplice, in Marx la totalità in sviluppo è un’unità complessa: l’unità di una
struttura complessa articolata a dominante. È questa struttura specifica che permette l’esistenza di rapporti
di dominanza tra le contraddizioni ed i loro aspetti intrinseci.

L’unità marxiana è dunque intimamente articolata, differenziata – a differenza del modello di unità
ascrivibile all’idealismo hegeliano ed al materialismo meccanicistico, in cui si assume come indiscutibile
l’unità semplice e non ulteriormente specificabile di una determinata sostanza, o essenza. Nell’unità
marxiana – la totalità concreta dello sviluppo sociale, considerata ad una determinata altezza storica – non si
rilevano essenze fissamente immutabili. La totalità concreta e complessa marxiana non è dunque assimilabile
allo sviluppo semplice di una essenza, o sostanza, unica, originaria ed immutabile [dialettica monologica e
monocentrica di Hegel]. In altre parole: differenza essenziale tra il genere di unità (totalità) hegeliano /
marxiano, così riassumibile:

- totalità hegeliana: sviluppo alienato di un’unità semplice originaria (Idea), che si mantiene
identica in tutte le manifestazioni fenomeniche a sé essenzialmente riconducibili. I momenti di
questo sviluppo alienato – che cioè procede per alienazioni che si pongono e si negano
dialetticamente – sono fenomeni dell’unità ideale. In questo senso, trattandosi di fenomeni, tutte le
articolazioni concrete che figurano nella totalità hegeliana costituiscono “i momenti dell’alienazione
del principio semplice della totalità”. Di conseguenza, poiché i momenti che articolano la dialettica
hegeliana costituiscono al più fenomeni dell’unità originaria dell’Idea, dinanzi a questa medesima
unità, suddetti momenti – figure, differenze, determinazioni concrete e contraddittorie – risultano
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l’uno indifferentemente uguale all’altro: ragione per cui “in Hegel nessuna contraddizione
determinata è mai dominante”.

- totalità marxiana: sviluppo di un’unità complessa strutturata a dominante; non si dà un’essenza


specifica che si sviluppa mediante l’alienazione delle proprie determinazioni in fenomeni tra loro
indifferenti; i momenti della totalità marxiana – le contraddizioni principali e secondarie –
costituiscono una trama di relazioni complesse, irriducibili ad unità semplice. Sicché, “se ogni
contraddizioni lo è di una totalità strutturata a dominante, non si può concepire tale totalità al di
fuori delle sue contraddizioni, al di fuori del rapporto fondamentale di diseguaglianza [tra le
contraddizioni]” – mentre invece, nella dialettica di Hegel, il rapporto tra le contraddizioni era di
fondamentale indifferenza. Osserva pertanto Althusser: nella configurazione dialettica marxiana, “le
contraddizioni ed il rapporto generale tra esse nella struttura a dominante della totalità
costituiscono le condizioni di esistenza di questa totalità”.

L’esistenza determinata della totalità storico-sociale considerata riflette dunque l’articolazione


specificamente assunta dalle contraddizioni presenti nella struttura a dominante della totalità. In altri termini:
ciò che concretamente esiste nel momento attuale di una totalità storico-sociale data, altro non è che il
riflesso delle contraddizioni articolate ed operanti secondo la struttura a dominante della totalità in questione.
“La struttura del tutto (…) è l’esistenza stessa del tutto” (p. 179). Ciò produce una conseguenza decisiva
nella dialettica marxiana, e cioè che le contraddizioni secondarie non sono affatto il mero fenomeno della
contraddizione principale; non ricoprono cioè la medesima funzione – logica ed ontologica – dei momenti
dell’Idea hegeliana. Piuttosto, in Marx, le contraddizioni secondarie mantengono una relativa autonomia, a
fronte della contraddizione principale – determinante in ultima istanza. Di qui, nella dialettica marxiana vale
quanto segue: le contraddizioni secondarie sono condizioni di esistenza della contraddizione principale, così
come la contraddizione principale è condizione di esistenza delle contraddizioni secondarie. In una struttura
a dominante, non si darebbe rapporto principale / secondario, se tali distinzioni non fossero vicendevolmente
essenziali. Per una maggiore chiarezza: le contraddizioni – generalmente – secondarie della sovrastruttura
non sono affatto il semplice fenomeno della contraddizione principale della sovrastruttura; ne sono invece
anche una condizione di esistenza.

Il condizionamento di esistenza delle contraddizioni le une sulle altre “non sfocia, nella sua apparente
circolarità, nella distruzione della struttura a dominante che costituisce la complessità e l’unità del tutto
storico-sociale” (p. 180). Al contrario, questo condizionamento reciproco esprime la realtà della struttura a
dominante. Se è data una struttura a dominante delle contraddizioni, se cioè le contraddizioni sono
organizzate secondo il rapporto dominanza-subordinazione; ne segue allora che l’essenza di ogni
contraddizione dipenderà dalla sua peculiare posizione nell’articolazione dominanza-subordinazione vigente
nella totalità storico-sociale assunta. Ed anzi, proprio questa collocazione strutturale delle contraddizioni
pone la possibilità della surdeterminazione delle contraddizioni. Infatti, ogni contraddizione riflette

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all’interno di se stessa la totalità strutturata complessa in cui è collocata come parte; ogni contraddizione si
determina e si sviluppa nel reciproco condizionamento di esistenza operato dalle contraddizioni.

“Questo riflettersi della struttura articolata a dominante all’interno di ciascuna contraddizione determinata
– e cioè nei suoi rapporti di ineguaglianza rispetto alle altre contraddizioni esistenti, nonché nel suo
rapporto di ineguaglianza tra i suoi due aspetti; questo riflettersi è il tratto più profondo della dialettica
marxiana, che ho tentato di cogliere con il concetto di surdeterminazione”, osserva Althusser (p. 180).
D’altra parte, invece, in una totalità semplice a due contrari (Hegel) non è concepibile una surdeterminazione
delle contraddizioni.

Dunque, ogni contraddizione riflette in sé, nella propria costituzione essenziale, la struttura a
dominante della totalità in cui esiste realmente. Ciò significa allora che le condizioni di esistenza di una
qualsiasi contraddizione corrispondono esattamente alle condizioni esistenti nella totalità storico-sociale
considerata. Altrimenti detto: ciò che rende possibile la realtà di una contraddizione è esattamente il
complesso di condizioni esistenti, di circostanze (non in senso contingente), in cui essa si dà. Oppure: ciò che
rende concretamente possibile una determinata contraddizione è esattamente la configurazione strutturale
propria dell’esistente considerato, dove tale configurazione si riflette all’interno della contraddizione stessa –
surdeterminandola nella sua concretezza. In definitiva: le condizioni esistenti – considerate in un
determinato momento storico – non corrispondono agli aspetti contingenti della realtà empirica; piuttosto, le
condizioni esistenti sono le condizioni di esistenza stesse sia delle contraddizioni particolari, sia della totalità
complessa della struttura sociale – in cui tali contraddizioni si collocano come riflessi surdeterminati delle
condizioni esistenti nella congiuntura storica considerata. Così, diversamente da Hegel, che ritiene le
condizioni esistenti / di esistenza storico-naturali del reale come semplice contingenza; Marx assume invece
tali condizioni come determinazioni essenziali della totalità considerata: con le parole di Lenin: “l’anima del
marxismo è l’analisi della situazione concreta” – l’analisi cioè delle condizioni esistenti / di esistenza della
realtà.

L’ammissione delle condizioni esistenti / di esistenza nella comprensione della totalità storico-sociale è
quanto permette di cogliere lo sviluppo ineguale delle contraddizioni, ovvero il mutare delle loro funzioni in
rapporto ai mutamenti delle condizioni esistenti. Stando così le cose, si può concludere che “le categorie
[come quella di contraddizione] cessano di avere un ruolo ed un senso determinati una volta per tutte” (p.
183). Ed è proprio in ragione di questa cessata immutabilità che le contraddizioni possono 1) essere
determinate dalla complessità strutturale della totalità: e cioè, essere surdeterminate; 2) svolgere un ruolo
differente a seconda del momento storico considerato  “è questo tipo di determinazione – la
surdeterminazione – che permette di comprendere le variazioni e le mutazioni reali [non soltanto di una
contraddizione particolare, ma anche] della complessità strutturata di una formazione sociale”.

Tutte le contraddizioni sottostanno alla legge dell’ineguaglianza di sviluppo – che si tenterà di definire
più oltre. Le variazioni e le mutazioni delle contraddizioni non seguono infatti uno sviluppo lineare,
unidirezionale; piuttosto, nella misura in cui riflettono le condizioni esistenti nella realtà concreta, tali
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cambiamenti procedono secondo la logica strutturale e policentrica della totalità storico-sociale. E cioè:
variazioni e mutazioni seguono un andamento né meccanicistico, né deterministico, ma prevedibile e
comprensibile secondo linee tendenziali. Ad ogni modo, i cambiamenti della struttura e della funzione delle
contraddizioni in una totalità data si possono raggruppare in due movimenti specifici:

- spostamento: cambiamento di ruolo tra le varie contraddizioni ed i loro aspetti interni, in base al
quale si definiscono i rapporti di dominanza-subordinazione vigenti nella totalità considerata. In altre
parole, lo spostamento permette ad una determinata contraddizione di risultare dominante,
principale;

- condensazione: accumulazione delle varie contraddizioni in un punto di fusione: unità di rottura.


Tale fenomeno consente ad una contraddizione già-dominante di risultare effettivamente decisiva in
ordine alla realtà della rivoluzione marxista.

“La contraddizione principale prodotta per spostamento diventa decisiva, esplosiva, soltanto per fusione,
per condensazione” (p. 184).

Questi movimenti interni alla totalità storico-sociale data riflettono il gioco mutevole delle contraddizioni92,
cioè l’ineguaglianza nello sviluppo delle contraddizioni, che – già nella loro essenza surdeterminata –
risultano intimamente ineguali. L’ineguaglianza riguarda ogni formazione sociale nella sua essenza e lungo
tutto il corso della sua esistenza: ovverosia, con Althusser, “la teoria e la pratica marxista incontrano
l’ineguaglianza non solo come effetto dell’interazione tra diverse formazioni sociali esistenti, ma anche – e
soprattutto – come proprietà interna di ciascuna formazione sociale” (p. 185). Ogni formazione sociale è
dunque strutturalmente contraddittoria. Il superamento delle contraddizioni necessita la condensazione delle
medesime in una lotta di classe reale, situata in un luogo preciso della struttura della totalità considerata.

Riassumendo:

- problema: specificità teorica della dialettica marxista;


- passaggio risolutivo: studio della dialettica e della contraddizione dal pdv. della pratica teorica; [?]
92
Althusser, p. 184: “Se la struttura a dominante della totalità resta costante, tuttavia il gioco dei ruoli vi cambia. Ci
sono sempre una contraddizione principale e delle contraddizioni secondarie, ma queste cambiano ruolo nella
struttura articolata a dominante che, invece, rimane stabile”. Questo passo si integra con: “È l’economicismo che
identifica per sempre i ruoli e gli attori, senza capire che la necessità del processo consiste nello scambio dei ruoli
secondo le circostanze. È l’economicismo che assimila per sempre questo aspetto (forze produttive, economia) con il
ruolo principale, e quell’altro aspetto (rapporti di produzione, politica, ideologia, teoria) con il ruolo secondario –
laddove invece la determinazione in ultima istanza decisiva dell’economia si esercita proprio negli scambi di ruoli tra
economia, politica, teoria” (p. 186). In qualche modo, l’economicismo di cui parla Althusser è la prosecuzione
dell’ideologia borghese lukacsiana delle leggi naturali-sociali, dei caratteri storici trasfigurati in essenze metafisiche.
Inoltre, se l’economicismo fosse l’autentica espressione della scienza marxista delle formazioni sociali, diventerebbero
incomprensibili i riferimenti marxiani alla lotta di classe come motore della storia. “Come si potrebbe allora dar
conto della necessità di passare per il livello specifico della lotta di classe politica, se essa non fosse, benché distinta,
ed in quanto distinta, non già il semplice fenomeno, bensì il punto di condensazione reale della contraddittorietà
esistente, in cui la totalità storico-sociale si riflette?” (p. 188)
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- risultato:
“La differenza specifica della contraddizione marxista è la sua ineguaglianza, o surdeterminazione, che
riflette in sé le condizioni esistenti della totalità” (p. 189).

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