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Seguitando una discussione

MICRO-ANALISI E STORIA SOCIALE

Dopo quelli di P. Villani e di R.


Romanelli, comparsi sul n. 34,
pubblichiamo due nuovi contributi sul
tema della «storia sociale». Sono
previsti altri interventi nei prossimi
fascicoli.

1. Sul n. 34 di «Quaderni Storici» Villani e Romanelli rilanciano la discussione sulla


storia (sociale) contemporanea. Il primo, un tipico «ottimista», cerca di scoprire la nuova
alba in una serie di lavori recenti di ineguale valore e coerenza; il secondo, un tipico
«pessimista», si chiede perché l'alba non arriva e ne attribuisce la colpa agli schemi
pratici e mentali degli storici contemporaneisti. Tale «reificazione» si compie in due
direzioni: contro la semplificazione ideologico-politica dell'analisi marxista come
principio storiografico, e contro la semplificazione teorica derivante dalla generalizzata
assunzione di categorie e di un modello interpretativo, sorti per spiegare un processo
storico specifico come la rivoluzione industriale e il capitalismo inglesi. Di conseguenza
la critica è doppia, nel senso che ima semplificazione copre l'altra: donde una
conclusione scettica, temperata o accentuata, come si dirà, da una sorta di escatologia
storiografica, affidata alla micro-analisi. Meno drammaticamente Villani, che predilige il
«divenire storicistico», vede nella micro-analisi storica un momento complementare e
subalterno per un lavoro di sintesi, ponendo esplicitamente il problema della
ricostruzione della stratificazione sociale su scala nazionale in una prospettiva di «grandi
problemi» - ma senza indicare i supporti analitici e i modi operativi. Un esempio di
«semplificazione teorica»? In effetti i grandi problemi hanno acquistato ima sorta di
dimensione intuitivo-ideologica: un po' come quel tale che invariabilmente risponde alle
vostre questioni, richiamandovi alla complessità del reale - il che poi è un invito a lasciar
perdere.
L'atteggiamento è comunque assai diffuso: la storia sociale è identificata col
problema delle classi, della stratificazione e della struttura sociali, nel presupposto che
si tratti di realtà in
sé, oggettuali. In proposito possiamo ricordare la polemica degli antropologi (da
Leach in poi) contro questa entificazione della struttura (ad es. la struttura di parentela),
coerente col punto di vista di E. Thompson che nega questa realtà in sé alla classe,
proponendola invece come «relazione». Ma vale anche l'insegnamento che gli storici
possono ricavare dai lavori della Daumard e dei suoi, ove comunque le classi sono
empiricamente articolate nei gruppi socio-professionali, così come da parte marxista si
distingue «classe in sé» e «classe per sé» sulla base di quella discriminante «coscienza»
che Thompson appunto risolve nella relazione (che poi egli abbia risolto questa
prospettiva in termini impressionistici e letterari, è altra questione).
Se questo, a un di presso, è il viluppo critico di fronte al quale ci troviamo, occorre
considerare le possibilità della ricerca storica nella loro angolazione analitica. Non v'è
dubbio che l'astrazione in termini di professioni e livelli di fortuna consente il massimo
di aggregazione generale (in effetti, basta «contare»), prescindendo ovviamente dalle
infinite possibilità delle aggregazioni ideoiogico-intuitive, manipolabili a proprio agio. Il
fatto è però che questa ricerca finisce col rivelare da sé la propria qualità astratta, tale
da richiedere integrazioni complementari, riconducibili a un esame dei comportamenti:
tanto per qualificare i gruppi - per es. gli «stili di vita» o i regimi alimentari - quanto fra i
gruppi: come interagiscono, come l'uno è riflesso nella coscienza dell'altro. Sicché il
progetto aggregativo rischia di frantumarsi: l'esame dei rapporti fra gruppi (e nel gruppo)
impone una rigida concretezza socio-parziale.
Sottolineiamo il passaggio analitico dal concetto di classe a quello di gruppo
sociale: non a torto E. Wolf ha lamentato la carenza di una teoria dei gruppi sociali nella
elaborazione teorica marxista, ciò che ha finito per confinare il concetto di classe a una
dimensione di pregiudiziale, cioè non analitico-operativa. E questi gruppi sociali possono
esser qualificati diversamente integrando dati (età, sesso, fortune, professioni) e
comportamenti (residenza, scelta del coniuge, alleanza/rivalità, ecc.). A Villani vorrei
ricordare l'interesse di alcune ricerche recenti (Le Couturier, A. Anderson, J. Foster) che
propongono, in termini rigorosamente quantitativi l'esame delle solidarietà sociali,
incrociando appunto dati e comportamenti.
Val la pena osservare in proposito come la nuova storia urbana inglese ricorra
sistematicamente non ai censimenti, ma alla rilevazione di base costituita dai «fogli di
censimento»,
precedenti ogni elaborazione: e ciò corrisponde a un'ovvia verità, e cioè la
differenza fra gli scopi degli storici di oggi e quelli delle autorità censimentarie di ieri. Il
ricorso ai fogli di famiglie individuali è presupposto di ogni integrazione prosopografica
e quindi della stessa base concreta della ricerca analitica; partire dai censimenti elaborati
significa già condizionare unilateralmente il lavoro, astrattizzare il sociale, avvilupparci in
uno sterile confronto con le categorie di aggregazione delle passate autorità
amministrative.
Come trascurare per esempio un aspetto di rilevanza ormai acquisita, quale
quello della corrispondenza fra morfologia sociale e morfologia insediativa, sul quale
insistono concordemente storici antichi e medievali, antropologi e sociologi e che la
stessa dinamica delle città contemporanee ripropone e ha riproposto costantemente? E
così per l'esame dei comportamenti matrimoniali, un tema recente della storia
demografica, ma da sempre un tema ovvio a qualificare le omogeneità dei gruppi sociali.
In questo senso del resto i temi di analisi sono destinati a moltiplicarsi anche in termini
qualitativi, quando maturi una metodologia adeguata.
Ed è per questa via, certo di più pesante economia di lavoro, che può esser posto
un problema altrettanto importante come quello della crescita della scala sociale, cioè
dell'ampliamento dell'unità socio-parziale rilevante. Anche se ancora non ci è dato di
vedere come possa operarsi in sede storico-analitica per corrispondere alla diagnosi dei
processi di unificazione culturale all'opera come effetto di un'articolata strutturazione
istituzionale, dell'alfabetismo, della politicizzazione e dei modelli d'imitazione. Poniamo
questa semplice domanda: l'industrializzazione ha distinto o ha omogeneizzato le
strutture sociali? Posto in questi termini il problema è di storia comparativa, e poiché
esso va ovviamente riferito allo spazio e al tempo è difficile vedere come si possa
procedere diversamente se non attraverso una serie di case-studies - per poi,
eventualmente, considerare delle tipologie. Villani sembra postulare che esista ima
mappa muta a dimensione nazionale (quella del censimento) da riempire con segni noti
o comunque precostituiti (le classi o i gruppi socio-professionali, desunti dai censimenti).
Alla base opera qui lo stesso processo di semplificazione teorica che denuncia Romanelli:
l'attesa che per questa via si possa arrivare a quadri comparabili nel tempo che
qualifichino la dinamica sociale come progresso, sempre prescindendo dallo spazio -
secondo i
moduli correnti del modello liberal-marxista. Questo è appunto il «divenire
storicistico», il «senso» per Romanelli, di frante al quale la micro-analisi vale come «una
sospensione del giudizio, una presa d'atto dello - smarrimento del senso - che mi pare il
primo passo per la riconquista d'una verità». Accettiamo la presentazione retorica di
un'inversione dei valori (senso-non senso). In verità noi riconosciamo una disgiunzione
fra gli assunti teorici del pensiero dominante cui si riferisce Romanelli e gran parte dei
prodotti storiografici, considerati come illustrazione di un'operatività analitica
indipendente. Rispetto a quegli assunti, che non riguardano solo il modello del
capitalismo industriale, la prospettiva di microanalisi storica che si cerca di illustrare qui,
ha certamente un significato radicalmente contestativo.
2. Tanto vale indicare subito il «campo d'interesse» specifico a rischio di cadere
nel ridicolo dell'astrazione più grave, quella del totale concreto. Diciamo che si tratta
dell'«universo relazionale» e cioè del campo delle relazioni interpersonali, forzatamente
per una microarea. Questa spiega l'interesse per la storia demografica, cioè la disciplina
storica che pone i suoi problemi in relazione diretta con la società totale. Che questo
avvenga soltanto per contare e, in particolare, per contare gli eventi vitali, è
relativamente secondario. Infatti la ricostruzione delle famiglie consente l'identificazione
di questi nuclei-base, la qualificazione della loro situazione in un ciclo di sviluppo,
l'ulteriore elaborazione di genealogie. Tali schede possono essere arricchite. Anzitutto
sulla base di ima più sistematica utilizzazione della stessa fonte dei registri parrocchiali,
rilevando ad esempio testimoni di nozze, padrini di battesimo e di cresima, ciò che
consente di cartografare relazioni non secondarie. E ancora soprattutto sulla base di altre
fonti finora poco sfruttate come contratti notarili, atti di giurisdizione civile e criminale,
catasti, parlamenti, contabilità, atti privati che rimandano a fonti «centrali» di carattere
giudiziario, contabile, fiscale, politico, censimentario. Ogni notizia esprime un dato o, più
spesso, una relazione. Esiste così la possibilità di ricostruire storie di famiglia e talora, per
qualche fortunata coincidenza di fonti, storie individuali sufficientemente ricche - tipiche
o eccezionali - e ancora è possibile rilevare relazioni inter-individuali continue, cioè
strutturate (es. rapporti di debito/credito).
Consideriamo per esempio il notarile. Vi possiamo distinguere diversi tipi di
notizie come dotazioni, testamenti, riconosci-
mento di debiti (eventualmente motivati) contratti di lavoro, procure, censi, e poi
riunioni di fabbricerie, oratori, università, comunità, ecc.; linguaggio e tipo del rapporto
documentato valgono come documenti storici nel senso pieno del termine: oltre a porre
la relazione fra due o più soggetti hanno cioè un senso culturale (consuetudine, tipicità).
Si presenta a questo punto un problema tecnico specifico: quello cioè del come
raccogliere i dati e come elaborarli, un problema che Le Couturier in particolare ha
discusso da tempo e che ha indotto altri a dichiarare la morte dello storico-artigiano.
Tuttavia non intendo trattare di questo problema, quanto di quello della organizzazione
«concettuale» dei dati, che è poi primario rispetto alla predetta questione.
Ritengo che lo studio delle società contadine, cioè quella che viene chiamata
antropologia delle società complesse, possa offrire diversi suggerimenti e strumenti
concettuali operativi. Questo, pur nella consapevolezza che la cartografia documentaria
dei rapporti interpersonali corrisponde solo approssimativamente alla ricerca sul
terreno.
D'altronde la rapida espansione degli studi di comunità europee negli anni 1960-
70 e nella corrente decade, ha posto il problema specifico della utilizzazione delle fonti
storiche. W.A. Douglass, commentando alcuni di questi lavori («Current Anthropology»,
1975), insiste che i dati dell'antropologo non sono soltanto «il flusso della vita sociale
così come si svolge di fronte agli occhi di un osservatore partecipe». Il lavoro sul campo
è di solito troppo breve, né può seguire direttamente i molti cicli di attività che
caratterizzano anche le più piccole comunità donde il ricorso a inchieste, tecniche di
campionatura, interviste informali e dirette, documenti scritti. Quel che distingue
l'antropologia dalle altre scienze umane dunque non è tanto la metodologia, quanto
l'enfasi caratteristica sull'approccio olistico allo studio del comportamento umano,
nonostante che, per ovvie ragioni euristiche, sia necessario porre confini che delimitano
la ricerca in corso. Douglass sostiene la complementarietà fra lavoro storico e lavoro
antropologico; Davis, l'autore di ima ricerca su Pisticci, parla in proposito di un «uso
creativo della storia». Che cosa intenda risulta chiaro dal cap. 6 del suo People of the
Mediterranean, 1977. È difficile però trovare sviluppi o illustrazioni ulteriori di questi e
simili temi, poiché questo comporta una corrispondente definizione del lavoro storico,
non considerabile riduttivamente nei termini di una semplice utilizzazione delle
fonti scritte. Cole e Wolf definiscono la rilevanza della storia a partire
dall'esperienza sul campo: «una storia delle strutture rilevanti alla nostra zona, il loro
determinarsi nel tempo e le loro reciproche relazioni» (The Hidden Frontier, 1974).
Noi ci poniamo dall'altro versante di questa prospettiva di complementarietà. Ma
è chiaro che non si tratta della corrispondente rilevanza del presente per il passato
quanto, per così dire, di una rilevanza «analogica», che fonda la possibilità di un impiego
di concetti e schemi euristici connessi col suddetto approccio olistico che ha conseguenze
radicalmente critiche nei confronti di certi parametri settoriali che governano la ricerca
storica e distinguono i campi d'indagine (il politico, l'economico, il religioso, il
demografico, il sociale, ecc.) spesso correlati con discipline scientifiche specifiche (la
scienza economica, la demografia. . .).
Problemi come quello storico-demografico della pianificazione familiare in una
società contadina di «ancien regime» hanno recentemente evocato elementi di
necessità, di coercizione culturale nell'ambito familiare e sociale che possono rivelarsi
congruenti con modelli di spiegazione generale quali ad esempio il «familismo amorale»
di Banfield o l'«immagine del bene limitato» di Foster. Lo storico insiste più sugli elementi
di necessità economica ma volge la sua analisi anche al problema della distanza fra i
matrimoni all'interno della famiglia, considera le fasi critiche del ciclo familiare, esamina
le pratiche di successione ereditaria e ne pone in rilievo la portata condizionante. Su
questo terreno si può dire comunque che il confronto fra gli storici e gli antropologi stia
già avvenendo. Se tuttavia l'accertamento del comportamento fattuale è comune,
sembra rimanere caratteristica distintiva dell'antropologo la proiezione culturale più
ampia. Si pensi ad esempio al significato che il «ciclo di successione ereditaria» assume
nel citato lavoro di Cole e Wolf, la dicotomìa che esso propone fra ideologia e pratica e
insieme la rilevanza della distinzione ideologica - primogenitura in S. Felix, divisione
egualitaria in Tret - per la complessiva organizzazione delle relazioni sociali nei due
villaggi alpini. Questo è un indubbio beneficio del lavoro sul terreno: la possibilità cioè di
cogliere immediatamente le connessioni fra fenomeni diversi, fra il problema che è
oggetto di analisi e «il resto», laddove lo storico sembra destinato a giustapporre una
serie di analisi distinte: ciò che non vieta che, analogicamente, possa pianificare e
orientare la sua complessiva (e successiva) strategia analitica.
D'altra parte è vero che il modello culturale generale può privilegiare una
diagnosi sintetica e intuitiva, non pienamente circostanziata dalle analisi e quindi,
eventualmente, pregiudiziata. Comunque anche l'elaborazione di temi quali il ruolo
dell'invidia come meccanismo di controllo sociale o dei valori di onore e vergogna nel
processo di conformizzazione della comunità possono risultare evidenti considerando
direttamente la qualità delle relazioni inter-personali, più difficilmente ricostruibile in
sede storica. Almeno in difetto di una loro precisa istituzionalizzazione e salve comunque
le possibilità di caratteristiche «rivelazioni» (soprattutto nelle carte giudiziarie).
Caratteristicamente lo storico lavora su molte testimonianze indirette: in questa
situazione il documento eccezionale può risultare eccezionalmente «normale», appunto
perché rivelante.
Indubbiamente il comune orientamento sincronico suggerisce un'epistemologia
funzionalista: lo stesso tema diacronico del ciclo familiare postula la riproduzione
culturale «semplice» della società che risulta in qualche modo entificata nella sua
struttura. Da questo punto di vista non è sufficiente considerare una tipologia di
comunità (Wolf) che pur è un modo indiretto di accogliere il principio della
trasformazione (confronto di morfologia che postula il passaggio dall'un all'altro tipo),
ma occorre risolvere analiticamente il problema dei nessi individuo-società. Dal punto di
vista dell'antropologia sociale è questa l'istanza del cosiddetto individualismo
metodologico (F. Barth). Dal punto di vista storico possiamo supporre che la
giustapposizione delle analisi non avvenga in senso congruente e unidirezionale, ma in
senso multidirezionale, facendo registrare margini statistici idi deviazione rispetto al
significato, indubbio, delle congruenze o correlazioni. Lo stesso storico-demografo in
effetti registra fenomeni di divergenza, rispetto alla continuità di residenza e
all'endogamia, ai vertici e alla base della comunità. Tuttavia simili divergenze di
comportamenti valgono soprattutto a qualificare i gruppi sociali, a evidenziare cioè
regolarità differenziali. Ciò non toglie che, per qualche aspetto, la verifica delle
correlazioni non sia univoca all'interno di un gruppo (qualificato dalla corrispondenza di
altre) consentendo di individuare fenomeni di devianza come elementi innovatori o
disgregatori o semplicemente marginali della cultura della comunità. Un modello di
divergenza di gruppo ai vertici (di cui l'esogamia e la mobilità di residenza sono
certamente alcuni elementi) esprime un tipico concetto antropologico, quello dell'élite-
broker cioè me-
diatrice fra la comunità e la società più larga: tale posizione ha un'importanza
strategica fondamentale per il sistema politico locale. Nondimeno la caratteristica qualità
della società contadina come «società e cultura parziali» (Kroeber) non si limita al fatto
di questa mediazione. Le alternative «economiche» che interessano tutta la comunità
postulano un brassage demografico di varia rilevanza e soprattutto forme di mobilità
non definitiva, spesso legate all'età e differenziate per sesso.
Da questo punto di vista come da altri la storia delle società europee riscopre,
approfondendo le tradizioni folkloriche, le costanti di una struttura sociale distinta per
sessi e gruppi di età (N. Zemon Davis, 1975; Y. Castan, 1974). Così come la storia della
campagna europea sembra indicare la straordinaria costanza delle associazioni
territoriali, aggregato di vicini non necessariamente parenti, solidale nell'esecuzione di
certi compiti quali ad esempio il riparto, la disposizione o la provvisione di risorse di
interesse comune. «Uno dei massimi contributi della ricerca europea all'antropologia
sociale - scrive S. Freeman - potrebbe penso derivare da uno studio comprensivo, storico
ed etnologico, delle forme di organizzazione comunitaria» («The American
Anthropologist», 1973). Di qui l'interesse per lo studio delle forme di insediamento e la
possibilità di tracciare un quadro mobile e funzionalmente differenziato dei riferimenti
socio-territoriali. Infatti la struttura sociale ha necessariamente una sua definita rilevanza
spaziale: come tale è meglio definibile stilla base di rapporti che indicano omogeneità
(per es. lo scambio matrimoniale) o di altri che indicano asimmetria (come generalmente
lo scambio economico).
L'interesse per istituti come la clientela e la parentela rituale - meglio esplorati
finora dall'antropologo - deriva dal fatto che essi consentono di cartografare i rapporti
inter-personali, tanto di tipo verticale, quanto, nel caso della parentela fittizia, di tipo
orizzontale, entrambi forse, almeno nel contesto mediterraneo, meglio inquadrabili nella
formula del «contratto diadico» (G. Foster). Di fatto questi rapporti postulano uno
scambio, che in qualche caso, come per esempio in quello dei prestiti di danaro, può
essere sistematicamente documentato. La dilatazione di questi rapporti oltre lo spazio
della comunità amplia per ciò stesso la dimensione territoriale della struttura sociale al
livello di una fondamentale asimmetria intracomunitária, ciò che non esclude
l'approfondimento analitico della struttura specifica della comunità subalterna. Il
conflitto politico, come per
altro verso la festa, appaiono momenti di rivelazione della struttura sociale sotto-
giacente, già faticosamente cartografata sulla base di una ricostruzione sistematica delle
relazioni interpersonali. Le analisi, tipicamente antropologiche, del rituale e del
simbolismo scoprano così tutta la loro rilevanza analogica per la ricerca storica.
3. Poiché la scienza economica ha costituito finora un supporto privilegiato della
ricerca storica mi pare utile mostrare le implicanze dell'approccio sopra illustrato nei
confronti di tale «ortodossia».
Cito una supplica del tardo Seicento in cui la comunità di Monterosso (oggi in
provincia di La Spezia), colpita dalle méte imposte da Genova sul vino rossese, una delle
poche risorse del luogo, protesta contro il fatto che sono sempre gli stessi mercanti che
vengono al borgo, che essi offrono stoffe scadenti e grano avariato a prezzi fissati a loro
arbitrio in cambio di un vino a prezzo vincolato dall'amministrazione. In termini di analisi
economica l'asimmetria dello scambio deriva da un gioco offerta/domanda libero contro
un gioco domanda/offerta vincolato. Ma ‘a «libertà» del primo rimane una funzione
della ristrettezza del mercato, ciò che è assolutamente normale in una società pre-
industriale: il mercato è non solo ristretto ma anche occasionale e tale occasionalità è
strettamente collegata con «quei» mercanti. Che il prezzo del grano sia frutto di un
incontro di offerta e domanda è quantomeno tautologico: infatti si assume
preliminarmente che lo sia comunque, e non si vede perché l'analisi processuale del
confronto debba venir trascurata. I poveri vignaiuoli di Monterosso hanno
perfettamente ragione di presentare la loro situazione nei termini di un rapporto inter-
personale: non possono attendere altri mercanti e cioè non hanno alternative. I mercanti
«caricano» sulle loro merci un profitto «ad libitum», proprio come doveva avvenire di
solito, ma questa volta non era possibile contrapporre una contrattazione, in qualche
misura bilanciante, sul prezzo del rossese: ed è questa appunto la variazione - chiave
rispetto alla consuetudine - donde la protesta e la richiesta, utopistica, di altre relazioni
interpersonali, che, in quanto tali, non sono in questione. Come ha detto qualcuno, non
c'è mai stato scambio se non ineguale, ed è per questo che le relazioni di scambio sono
una spìa essenziale dell'articolazione e della struttura sociale (S. Mintz). Ciò si ricollega a
quanto osservato nel paragrafo precedente. Ma il carattere ecce-
zionale della protesta, motivata dall'innovazione delle méte, induce a postulare
un adattamento, in tempi «normali», alla situazione di scambio.
I contadini avevano bisogno di grano e non avevano da offrire che il loro vino. Nel
caso specifico sembra non esser esistita una élite di negozianti locali (brokers o mediatori
con la società più larga), ma è indubbio che, ricorrendo queste visite stagionali, s'erano
creati dei rapporti personali da compratori a venditori che andavano nei due sensi, con
possibilità, forse più difficili nel caso di mercanti-visitatori, di compensazioni nel tempo.
Considerato che i dati della situazione di scambio erano elementari, possiamo
ragionevolmente supporre che la novità amministrativa si risolvesse nella possibilità di
ottenere meno grano con la stessa quantità di vino dell'anno precedente - astraendo
dalle variazioni di produzione che in ogni caso dovevano verificare la solidarietà fra i
negozianti (il monopolio dei compratori).
Uno scambio naturale, dunque, ma ricondotto alle misure monetarie
(condizionate dai prezzi di méta). Questa era certamente ima costante importante delle
transazioni commerciali pre-industriali tale che rafforza l'elemento personale della
transazione, legato parimenti alla consuetudine eventuale di differire e risolvere nel
tempo le compensazioni monetarie. Nondimeno le possibilità di queste risoluzioni erano
limitate, stante le diverse urgenze di vendere e comprare fra produttori e produttori,
produttori e negozianti, tali che favorivano il consolidamento dei notabili, capaci di
generalizzare le proprie posizioni di privilegio economico: grandi proprietari, negozianti
e trasportatori. È intuibile così la possibilità di una corrispondenza fra clientela e
indebitamento. Ed è evidente che è difficile distinguere rapporti sociali, rapporti
economici e rapporti politici: alla base dì questa asserzione sta il fatto che i rapporti di
significato «economico» erano anzitutto rapporti interpersonali, sicché non v'è motivo
di privilegiare gli schemi dell'analisi economica. Possiamo invece considerare che il
mercato più ampio riguardasse anzitutto i gruppi dirigenti (funzione di «mediazione») e
solo direttamente i subalterni, sui quali i primi potevano scaricare eventualmente il peso
della congiuntura negativa, ma sempre in modi e secondo valutazioni non riconducibili
alla «razionalità economica». L'analisi e il confronto fra i prezzi vanno così inseriti in
quest'ambito dimensionale, a segnalare improvvise crisi della struttura sociale,
spostamenti di solidarietà, emigrazio-
ni, eoe. Come si è accennato le fonti li) ci consentano di ricostruire tali strutture di
dipendenza: se la transazione mercantile non risulta segnalata che di rado in quanto tale,
più regolare è la certificazione o la quietanza di un debito, sicché spesso la soddisfazione
di un debito è condizione per un nuovo credito. Gli inventari «post-mortem» (soprattutto
redatti per la divisione fra i figli di beni comuni) ci consentono attraverso la notazione dei
crediti, di cartografare la clientela di un notabile e le relazioni specifiche possono esser
perseguite di generazione in generazione. Il rapporto può cambiare qualità: i debiti
vengano consolidati in un censo o in una vendita che hanno per garanzia e oggetto
soprattutto la terra, sicché l 'ex-proprietario diventa così fittavolo o enfiteuta.
Esaminato analiticamente, il mercato della terra evidenzia non solo - come ha
mostrato G. Levi - le logiche dei cicli familiari ma anche le divergenze ai diversi livelli
dell'oggetto della transazione («Quaderni Storici», 33). Chayanov ci ha ben spiegato che
quel prezzo non corrisponde al valore della rendita capitalizzata. Diremmo con lui che
esso è semplicemente una funzione della demografia e quindi, ancora una volta, della
domanda? (The Theory of Peasant Economy, 1966). Considerando processualmente lo
schema «verticale» che siamo venuti delineando sopra, non mi sembra proprio il caso.
La finzione dell'incontro offerta/domanda diventa in questo caso risibile. In effetti è da
considerare se l'analisi economica acquisti maggior significato quanto più le schede di
domanda e offerta assumono carattere di «massa», e quali siano le soglie strategiche.
Non possiamo gettare alle ortiche infatti a cuor leggero il patrimonio di razionalizzazione
interpretativa dei processi sociali e del corso della storia che esse ci consentono.
Naturalmente però lo scambio di beni e servizi ha anche le sue dimensioni
orizzontali. In particolare è questa la caratteristica dimensione della reciprocità
contadina, più spesso intesa come reciprocità differita di servizi (lavoro), un fenomeno
di più difficile illustrazione storica. Ma le transazioni orizzontali vanno al di là di questi
scambi come risulta evidente oggi in molte società contadine dove l'intermediazione è
particolarmente sviluppata e una serie di legami diadici preferenziali solidifica i canali del
commercio attraverso l'istituzionalizzazione di rapporti interpersonali (la «pratik»
haitiana di S. Mintz). È ovvio che ciò rientra ancor più difficilmente nella registrazione
notarile: dove tuttavia sarà possibile controllare transazioni mi-
nute che riguardano non solo piccole porzioni di terra, ma anche quote-parti di
bestiame, nonché debiti minimi. In particolare risultano registrate le transazioni dotali:
lo scambio incrociato delle spese che consente di risparmiare le doti rappresenta per i
più poveri una forma di reciprocità rigorosamente bilanciata.
Si immaginano facilmente differenze e soglie fra comunità e comunità,
conseguenti alla diversa penetrazione dell'economia mercantile e cioè dal ruolo diverso
dell'auto-sussistenza: questo può significare anche che certe transazioni incontrino
obiezioni culturali. Come ha scritto D. Riches: «la protezione del settore di sussistenza è
la base probabile per le ideologie di molte economie contadine relative alle sfere di
scambio» («Man», 1975). In effetti il concetto antropologico delle sfere di scambio ha
possibilità di generalizzazione anche in un'economia monetaria, dove per esempio le
transazioni di alcuni beni comportano la loro risoluzione nell'ambito del sistema
creditizio, mentre le transazioni di altri beni comportano l'immediata erogazione di
moneta: sicché, certificati i beni protagonisti, avremo due sfere di scambio relativamente
distinte. Possiamo indicare questa come una terza (linea di difesa della società contadina
dopo la difesa dell'autosussistenza che comporta un articolato orientamento produttivo
e la disapprovazione culturale per transazioni che interessino i beni alimentari di base, e
dopo lo scambio orizzontale che opera spesso come forma di mutualità (S. Mintz).
Questo nel quadro di una comune resistenza delle società contadine a una radicale
monetizzazione degli scambi che le interessano.
Considerando la società agraria nel suo complesso la storiografia economica
pone come fondamentale il problema del rapporto fra popolazione e risorse e, di solito,
a scala territoriale ampia (dalla regione in su). Di qui la costruzione ex-post di un'ipotesi
omeostatica fondata sul malthusianesimo. Al livello micro-analitico che qui si propone,
può esser posto il problema delle singole unità domestiche che investono lavoro (non
contabilizzabile in termini monetari) e ricavano beni destinati, in parte attraverso la loro
conversione di mercato, alla difesa e alla riproduzione dello «status» tradizionale. Poiché
tale «status» è definito culturalmente, quindi in termini eminentemente relazionali,
sono le forme di organizzazione sociale della comunità che sono in questione e che
hanno dunque rilevanza «economica». Benché la base produttiva sia ristretta e
atomizzata e gli atteg-
giamenti culturali in parte conseguenti, è pur presente una solidarietà di destini che
spiega in ultima istanza le forme di integrazione sociale. Sahlins ha mostrato come
l'applicazione del modello Chayanov (evoluzione della ratio consumatori-produttori
secondo il ciclo di sviluppo domestico) non spieghi la continuità idi alcune società
semplici, che risulta così inconcepibile senza la presenza di forme istituzionalizzate di
compartecipazione (Stone Age Economics, 1975); in modo di evidenziare il carattere
«economico» della struttura sociale. Nelle società complesse la mobilità delle risorse di
appoggio o sostitutive cresce: intensificazione del lavoro, diverso modo di sfruttamento
delle risorse, opportunità «esterne» (lavoro, mercato). In altre parole la comunità, se è
vero che anche la famiglia può in certa misura controllare le sue dimensioni, può
adattarsi e assicurare la sua sopravvivenza in modi diversi. Diciamo che il fatto che arrivi
a una irreparabile e fatale «contraddizione» con le risorse di cui dispone non è affatto
automatico e necessario, cioè va verificato. La drammatica dialettica popolazione-risorse
come spiegazione dello sviluppo storico è una semplice ipotesi, per di più inverificabile
alla scala territoriale in cui è stata posta, tanto è vero che E. Boserup ha potuto porre con
piena plausibilità l'ipotesi opposta (Evolution agraire et pression démographique, 1970).
In effetti essa rappresenta la tesi di ripiegamento rispetto all'altra grande proiezione
storico-etnocentrica della «civilisation» europea: lo sviluppo come trionfo progressivo
del mercante, del mercato e della città.
4. Ritorniamo così al tema iniziale. Se Romanelli denunciava l'ancoramento delle
prospettive storiografiche contemporanee a un modello univoco e poco «elastico», può,
credo a ragione, sostenersi che si tratta di prospettive storiografiche generali, largamente
condizionate dall'economia come «scienza sociale più avanzata». Lo «smarrimento del
senso» è il rifiuto di un senso largamente precostituito, «ideologico» in questa accezione.
Il disegno, più o meno esplicito, è quello di ricondurre la storia a una contestualità e a
una vocazione analitiche in cui l'oggetto dell'analisi è basicamente indicato come la serie
o il reticolo dei rapporti interpersonali: di qui la scelta di una società a scala ridotta come
il villaggio contadino, una scelta guidata senza dubbio dall'esempio parallelo
dell'antropologia. In linea di principio la scelta potrebbe cadere anche sul quartiere
urbano. Ma anche prescindendo dalla scala della società indicata
che soddisfa almeno teoricamente la «virtù» dell'approccio olistico, la prospettiva,
ritengo, conserva una sua validità come prospettiva generale di storia sociale, ove, a mio
avviso, la strada maestra è indicata dallo studio dei comportamenti e delle relazioni
interpersonali (come paradigma di referenza). Ovviamente per l'età contemporanea è
più abbondante la documentazione quantificata o quantificabile, mentre si perde in
parte, probabilmente, il beneficio delle convergenze locali della documentazione come
materiale immediatamente utilizzabile ai fini delle ricostruzioni prosopografiche. Ma
questo vuol dire, come è mostrato dagli esempi già indicati, che le analisi, più sezionali
ma più rigorose, sono moltiplicabili.
La micro-analisi sociale si lega più al carattere di base dei dati presi in
considerazione che non alla dimensione dell'area sociale in quanto tale. In questo senso
non c'è frattura fra storia medievale e storia contemporanea. Invece quel che noi
registriamo oggi è uno iato gigantesco nei criteri di rilevanza della produzione
storiografica: in un settore si premia la novità storico-analitica; nell'altro, almeno in Italia,
domina un'aspettativa di sintesi politico-ideologica che scarta sistematicamente i
processi sociali, dandoli per scontati e noti secondo una griglia di tesi e temi che sono
spesso un miscuglio di «idee ricevute».
È significativo che l'antropologia, che pur verte necessariamente su società
contemporanee, abbia da tempo stimolato soprattutto la storiografia medievale, se non
quella antica. Né questo può essere imputato alla corrispondenza dell'oggetto (società
relativamente più «semplici»). Difatti lo stesso problema del social-change è stato
discusso e illustrato analiticamente dagli antropologi. E cosa può essere la storia
contemporanea se non una storia di trasformazioni sociali? E perché deve essere
l'aggregato-nazione e non la comunità o la città o il mestiere il luogo d'elezione per lo
studio di queste trasformazioni?
In fondo l'argomentazione che ho cercato di illustrare in questo intervento
equivale alla difesa di un principio, che la storia sociale è storia delle relazioni fra persone
e gruppi. Il problema ulteriore e fondamentale dell'individuazione dei concetti e delle
possibilità operative qui svolto solo in modo molto parziale, può essere indefinitàmente
arricchito e mi pare indubbio che, nell'ambito della vicenda sociale contemporanea, tali
possibilità crescono e non diminuiscono, anche prescindendo dalle indicazioni della
storia orale (dalle quali comunque, di fatto, non bisogne-
rà prescindere). La crescita dell'«amministrazione>> osservazioni e rilevamenti e
innumerevoli depositi documentari (sezionali, funzionali o di associazioni), oggi destinati
al macero, sono suscettibili di diventare oggetto di improvvise illuminazioni storico-
analitiche.
Il compito di una storiografia sociale contemporanea è quello di conquistare la
distanza culturale dalla società che stiamo vivendo, di oggettivarla nei suoi contenuti di
relazione, di ricostruire l'evoluzione e la dinamica dei comportamenti sociali.

Edoardo Grendi

MICRO-ANALISI E STORIA SOCIALE


Edoardo Grendi
Quaderni storici, Vol. 12, No. 35 (2), Oral History: fra antropologia e storia
(maggio/agosto 1977), pp. 506-520 (15 pages)
https://www.jstor.org/stable/43900497
II
RIPENSARE LA MICROSTORIA?
Il carattere collettivo della proposta storiografica della microanalisi in Italia è stato più
che altro legato a un fatto di stilla storia come pratica, fondata su una forte
consapevolezza teorica, rivolta soprattutto a risultati analitici, contro la visione retorica
della professione dello storico in un paese a lungo dominato da ideologismi legati
all'eredità idealistica e al radicato dualismo politico, con un'indubbia propensione alla
storia-sintesi. In questo senso, quella proposta s'innestava concretamente negli sviluppi
in corso nella storiografia europea il cui risultato, l'«histoire en miette»1, creava una
decisa frattura nei confronti appunto dell'aspettativa di sintesi; la quale era stata assunta
come modello comunicativo paradigmatico, in perfetta coerenza con la dimensione
retorica della figura dello storico, formalmente accreditato come interprete delle
dinamiche secolari della vicenda umana, comprese quelle presenti, escludendo perciò
tanto gli scienziati sociali quanto i «maitres à penser» di altri contesti nazionali2. Quello
«stile» prendeva corpo nella proposta di una scala d'indagine («micro», quindi a
grandissima scala) che per se stessa, quasi provocatoriamente, ratificava la dissoluzione
della storia-sintesi provocando un certo scandalo nella corporazione. Di conseguenza,
fino e forse cinche dopo la loro pratica dissoluzione istituzionale3, i «microstorici» hanno
formato malgré eux
una sorta di «coterie»: circostanza in parte paradossale, in quanto essi non avevano
certo quell'ampiezza di riscontri (basiche, progettualità ecc.) che potesse loro suggerire
una coscienza di scuola, men che meno inquadrabile in quella etichetta. Risulta in effetti
difficile individuare i «testi fondanti» della microanalisi storica, sia in termini di testi
teorici che di ricerche esemplari. Il «discorso microstorico», che ha cominciato a circolare
informalmente alla metà degli anni settanta, si collocava coscientemente dunque in un
preciso trend tematico della storiografia, approfondendo la diagnosi di tendenza con la
proposta, innovativa, di una radicale opzione per la scala dell'osservazione che si
riteneva più di ogni altra congrua a far fruttare analogicamente, nel lavoro storico, la
lezione dell'antropologia sociale; a sperimentarne cioè quei procedimenti categoriali che
potevano consentire di sfuggire alle logiche entificanti del discorso storico generale,
quali ad esempio lo stato, il mercato, la stratificazione sociale, la famiglia. L'indicazione
generalissima delle relazioni interpersonali come corretto soggetto storico implicava
appunto quella decisa opzione di scala.
Non è forse molto noto che il local historian inglese Hoskins avesse già pensato
al termine «micro-history», scartandolo in nome di un certo rigore anti-formulistico; ma,
nella sua ottica, il riferimento era la comunità, inquadrata in quella prospettiva
topografico-economica che costituisce l'elemento distintivo della local history inglese4.
Laddove la centralità delle relazioni sociali, come una sorta di «prius» imprescindibile,
corrisponde a quello che Phithy an- Adams definisce, proprio in un intervento di
riflessione sulla English local history, come il «societal point of view», e cioè una
prospettiva storiografica successiva alla fase classica di quella importante esperienza
storiografica 5. Beninteso, l'elemento più trendy della proposta microanalitica
corrispondeva all'istanza, allora corrente, di una «storia dal basso» - seguendo,
nell'intreccio delle fonti la traccia del nome proprio - e della «ricostruzione del vissuto»6.
L'episodio, la storia-caso, tanto più felice quanto più densa era la cronaca (giudiziaria o
meno) che consentiva di ricostruirlo, era proiettato in un contesto di tipo storico-
culturale; e in questo senso la sua rilevanza era per lo meno duplice: in quanto
esemplificazione di un particolare problema storiografico (per esempio il rapporto fra
alta e bassa cultura) e in quanto illustrativo della cultura del tempo, più che non di quella
di uno specifico gruppo sociale. È evidente che qui alludo al lavoro di Carlo Ginzburg (Il
formaggio e i ver-
mi è del 1976) che stava maturando un suo proprio ricerca. Va da sé che la procedura
analitica attravercasi» poteva operare altrimenti, accostando spezzoni di vita e di
esperienza al fine della ricostruzione storico-istituzionale di uno specifico gruppo
sociale7. Sull'altro versante della microanalisi storica - quello, per intenderci della
contestualizzazione sociale (distinta dalla contestualizzazione culturale di Ginzburg) -
diventavano invece operativi procedimenti analitici diversi, volti alla ricostruzione dei
reticoli di relazione e all'individuazione specifica della scelta (individuale o collettiva);
donde la fortuna ambigua del termine «strategia» che ha certamente un significato
iperrazionalistico, ma che, per altro verso, è garante di un protagonismo che la tradizione
storiografica attribuiva soltanto alle élites . In ogni caso si trattava di una inferenza logica
basata sul riconoscimento del primato delle relazioni interpersonali. Ed è su questo
versante che la sperimentazione dei procedimenti analitici dell'antropologia sociale
poteva essere condotta con più rigore. Del resto, proprio la più precisa opzione di un
«milieu» sociale specifico localizzava fortemente l'indagine microstorica, esponendola
alla caratteristica critica dal punto di vista della storia-sintesi, quella della
rappresentatività del caso sudiato. Fu subito chiaro che le proposte microstoriche erano
almeno due, distinte (ma sull'asse di una distinzione sfuggente e imprecisa) fra il
«sociale» e il «culturale». Non a caso, nell'introduzione al numero di «Quaderni storici»
dedicato a Famiglia e comunità, si legge questa osservazione rivelatrice: «la socialità di
cui partecipa Menocchio (il mugnaio de II formaggio e i vermi), gli oltre dieci amici e
compari che egli cita nelle sue deposizioni, rimandano a un reticolo sociale che è
necessario conoscere proprio per giudicare una vicenda individuale», e, più in generale,
si fa obiezione alla scelta di casi eccezionali che riduce, scartando l'«individuo
quotidiano», l'«ambito di conoscibilità dello storico»8.
Val la pena di osservare che la contrapposizione sopra elementarmente
formulata fra il «sociale» e il «culturale» ha avuto un suo futuro proprio in
considerazione dell'influenza maggiore che l'antropologia culturale, come antropologia
simbolica e interpretativa, ha finito col conquistare su buona parte della storiografia. È
opportuno riconoscere comunque che il progetto, maturato piuttosto sull'esperienza
dell'antropologia sociale, ha avuto sviluppi assai diversificati. Come è stata sviluppata
infatti in termini analitici la vecchia intuizione del sostantivismo economico di Karl
Polanyi, che pur rappresentava un riferimento impor-
tante del progetto microanalitico? Si può citare il lavoro di Levi sul mercato della
terra, che si proponeva esplicitamente questo scopo, di una verifica cioè dell'
imbricazione sociale nello scambio economico, ma poco altro davvero9. Così i temi del
luogo di mercato, dei circuiti distinti di scambio, della <<moneta di scopo speciale» ecc,
non hanno avuto sviluppi storico-analitici. Si è certamente verificata una certa recessione
della storia economica, ma è pur vero che queste tematiche le erano esterne, se si
esclude l'orientamento più istituzionalista di quella storiografia 10.
È probabile che la svolta - dalla produzione/scambio al
linguaggio/rappresentazione - possa essere segnalata come un elemento chiave
dell'esperienza storiografica dell'ultimo decennio. E in questo senso è significativo invece
che sul versante storico-politico l'ispirazione microanalitica abbia fruttificato. Qui lo
stimolo veniva anche dal confronto continuo con la storiografia italiana e dal perenne
dibattito sulla formazione dello stato. D'altronde i riferimenti della lezione antropologica
(clientele, faide, mediatori ecc.) erano in qualche modo più liberi, meno obbliganti a un
rigoroso procedimento dimostrativo, mentre l'ispirazione microstorica si traduceva
naturalmente nell'assunzione di una prospettiva «dalla comunità». Più giovani
«microstorici» potevano ricuperare appieno il senso pregnante (e appunto trendy) dei
fenomeni di comunicazione attraverso la ricostruzione di «idiomi politici», visti come
interazioni fra culture locali e istanze di legittimazione11. Il particolare addensamento
delle fonti, provocato dalla microconflittualità locale, e dal conseguente intervento
centrale (che appunto produce documenti), consente di ricostruire gli schieramenti locali
e la loro mobilità, coerenti del resto con altre testimonianze, oltre alla pura cronaca, che
assume subito comunque i suoi precisi significati simbolici. La ricerca maturava, come si
è detto, sotto lo stimolo di una sfida immediata all'assunto etnocentrico della progressiva
costruzione statuale, proposta dalla storia-sintesi. Ma c'è un termine che ricorre nel
fascicolo di «Quaderni storici» a cui qui si fa riferimento, sul quale vale la pena insistere:
quello di «pratiche sociali». Ci sono delle pratiche sociali e politiche messe in atto dalle
comunità che hanno carattere rituale e che perciò partecipano ampiamente della cultura
locale, rappresentando esse stesse una forma di comunicazione, forme di un linguaggio
generale12.
Quel che mi interessa qui è rilevare la diffusione crescente del termine, la sua
generalizzazione e infine la sua eventuale coerenza con la proposta microanalitica.
Probabilmente il termine «pra-
tiche» nasce originariamente in connessione con la storia della tecnica, nella sua
accezione contestualizzata di storia del lavoro, che mira a ricostruire gli effettivi
procedimenti d'uso, cioè appunto le «pratiche». Non è un caso che il termine ricorra in
primo luogo negli scritti di studiosi che hanno maturato le capacità di osservazione e
linguaggio congruenti con questo tipo di ricerca storico-sociale. È chiaro che
l'osservazione di un solco o di una zona vegetale è fondamentalmente una forma
specifica di lavoro sul campo, quindi puntuale e circostanziata: la sua storicizzazione è
passibile di inquadramenti generici di tipo classificatorio, ma sinché di inquadramenti
puntuali e specifici, cioè microanalitici. E questo vale per l'esperienza contadina ma
anche per quella artigianale. Il riferimento è comunque a un gruppo o a una comunità:
l'approccio ha un chiaro significato polemico nei confronti, poniamo, di certi presupposti
di storia agraria o di geografia del paesaggio, e in questo senso proprio la ricostruzione
topografica vale ad affilarne il taglio critico13. Si potrà osservare che una tale ricerca,
spesso connessa con l'archeologia (un'esperienza di ricerca puntuale, «di sito») e le
relative pratiche di ricostruzione storica, possa facilmente consentire il recupero, nella
contestualizzazione, della priorità delle relazioni sociali. L'evocazione in proposito di
«saperi contadini» ha un certo sapore evasivo, anche se vale certamente a rivendicare
una cultura non assimilabile all'ortodossia agronomica.
Ma è interessante, dicevo, che il termine, così caratteristicamente «collettivo», di
«pratiche sociali» tenda a generalizzarsi. Dal magma di una cronaca (di polizia e
giudiziaria), sempre straordinariamente allusiva, possono essere ricavate tracce e schemi
di pratiche collettive che hanno una straordinaria rilevanza simbolica, tale da fondarne il
significato storico-culturale. In proposito il termine «consuetudine» evoca subito le più
canonizzate pratiche giuridiche (canonizzate in quanto oggetto di rilevamento e
trascrizione), ma suggerisce anche le tematiche cultuali del cerimoniale così
strettamente connesse con l'espressività politica, e non solo con quella. È evidente che
ci si colloca in questo modo in una prospettiva diversa da quella dell «individualismo
metodologico», che parte dai rapporti interpersonali (reticoli, schieramenti, mediazioni
ecc.). Ma siamo comunque su un terreno squisitamente «antropologico»: la
ricostruzione della cultura attraverso l'esplorazione delle pratiche sociali. È possibile così
ricuperare ad esempio le forme espressive della concorrenza territoriale (confini); le
forme varie del possesso; le forme attraverso
le quali si esprimono tanto l'«appartenenza>> quanto la microconflittualità territoriale e
così via. Ed è interessante rilevare come tutte queste forme di azione espressive, che
postulano schemi di valore condivisi socialmente (donde l'opportunità di non ridurre il
«culturale» al «mentale»), siano strettamente collegate con lo spazio, il luogo, il
territorio, cioè dei riferimenti spesso trascurati dalla tradizione storiografica. Non mi
pare dubbio che questo tipo di analisi storica sia strettamente connesso con una
percezione dell'alterità dell'esperienza passata, del passato come «un paese straniero»,
ciò che è una buona garanzia di correttezza esegetica.
Mi sembra utile rilevare così una divaricazione di prospettiva: la ricostruzione
delle pratiche di lavoro, spesso condotta a partire da un oggetto, appare un'operazione
analitica caratteristicamente realista, senza che la loro lettura simbolica, che è pur di
moda, aggiunga molto; la ricostruzione delle altre pratiche sociali, spesso condotta a
partire da testimonianze, implica invece una lettura simbolico-concreta necessaria per la
stessa interpretazione realistica. Osservo che questo può essere un senso dell'ossimoro
eccezionale/normale: dove la testimonianza/documento è eccezionale in quanto riflette
una normalità, tanto normale da risultare più spesso sottaciuta 14. Ma si dà il caso, ed è
frequente, di pratiche ipertestimoniate. Il processo non è poi dissimile da quello del
ricupero storico-analitico del folclore, liberato dalla sua patina di esotica curiosità per
essere restituito al suo contesto relazionale e sociale. Se questa operazione implica un
approccio storiografico «dal basso» (si pensi a E. P. Thompson e al tema della wife sale)15,
non si può negare che la rilevazione delle pratiche sociali possa essere presentata come
uno speciale risultato dell'approccio microanalitico, e cioè dell'opzione di scala: anche
se si può facilmente consentire che la concentrazione su un tema e sulle testimonianze
letterarie di uno specifico gruppo sociale, possa consentire gli stessi risultati. C. Walker-
Bynum, ad esempio, non estrae pepite documentarie dalla sua ricerca, ma reinterroga,
con singolare acume, fonti ben note 16. Quanto son venuto dicendo varrà forse a chiarire
la mia opinione di fondo: e cioè che la microanalisi ha rappresentato una sorta di «via
italiana» verso la storiografia sociale più avanzata (teoricamente guidata), in una
situazione relativamente bloccata in termini di ortodossia gerarchica delle rilevanze
storiche e di chiusura alle scienze sociali.
L'intervento di Carlo Ginzburg su queste pagine è del tutto
congruo con l'interpretazione che io do della sua «vocazione microstorica»:
semplicemente una indicazione di lavoro, un termine-etichetta, di non grande rilevanza
tutto sommato, che ha incontrato per strada e gli è piaciuto, gli è parso intuitivamente
consono con il suo orientamento di ricerca. L'intervento, molto più idiosincratico, di
Giovanni Levi che espressamente parla della propria «biografia scientifica»17, mi sembra
altrettanto significativo della sua vocazione di storico-sperimentatore, non vincolato
all'«onda lunga» di un tema di ricerca. Lo stesso Carlo Poni, i cui interessi storici erano e
sono certamente congrui con quanto ho esposto (in termini di «pratiche sociali» ad
esempio), ha preferito estendere analogicamente l'etichetta a temi caratteristici della
storia economica, ovviamente del tutto indipendenti, quali la storia delle aziende
signorili rurali e la protoindustria 18. Un'ulteriore conferma, mi pare, della eterogeneità e
della informalità assoluta dei «microstorici». Possiamo rilevare un'influenza più generale
della microstoria, per esempio nelle pagine di «Quaderni storici», soprattutto nel
«periodo aureo», compreso, diciamo, fra il 1976 e il 1983? Possiamo dire che è valsa per
esempio a reinterpretare i «sistemi di carità» di antico regime in senso politico, cioè
come relazione benefattori-beneficati a doppia direzione: «casi che valgono come
esemplificazione di una prassi interpersonale di carità che costituisce il supporto
indispensabile e direi la realtà stessa della carità istituzionale»?19 È valsa a spezzare la
nozione ambigua di religione popolare in una serie di casi e situazioni illustrative
(«religioni popolari») che fanno emergere «la fisionomia quanto mai varia dei rapporti
che nelle società dell'Europa pre-industriale coinvolgevano, sul terreno religioso, classi
egemoni e classi subalterne», dimostrando «la gamma ricchissima di possibilità»
connesse con le traduzioni effettive di quella relazione?20 Ha ispirato la proposta, ad
opera di un gruppo di donne storiche, collocatesi volutamente a latere della rivista, in
termini di «momenti storici della biografia femminile»: una serie di storie-casi
tematizzate sulla seduzione-iniziazione, la gravidanza e il parto, il puerperio e
l'allattamento, e cioè i momenti di più rilevante tensione, politica e simbolica, del
controllo sessuale e della «pericolosità femminile?21 E così via. Sarebbe in realtà una
inutile e pedante operazione di verifica e controllo: proprio perché credo che non abbia
senso postulare un'ispirazione univoca, tanto più quando, come s'è detto, mancavano
precisi paradigmi e perfino ricerche-modello.
Val la pena insistere invece sul dualismo originario della pro-
posta microanalitica: da una parte un’indicazione forte, nel senso del condizionamento
storico-teorico dei percorsi di ricerca, suggeriti per analogia con gli schemi analitico-
operativi dell’antropologia sociale e quindi, in qualche modo, l’istanza di procedimenti
dimostrativi; dall'altra una consonanza più piana e meno legata allo «specifico
microanalitico>>, con approci e tecniche di lavoro maturati indipendentemente,
nell’attenzione agli <<episodi illustrativi», le «storie-casi», la cui indubbia rilevanza
analitica rimaneva legata ad altre matrici, altri paradigmi storiografici. Questo non ha
certamente escluso una dialettica di scambi, di imprestiti reciproci 22. E del resto si è visto
come la dialettica originaria contestualizzazione sociale/contestualizzazione culturale
fosse relativamente astratta, destinata a un parziale, successivo superamento. E quel
dualismo si è riprodotto, e ulteriormente ampliato (per fortuna diremmo) nella seconda
iniziativa legata con la proposta microstorica: le «Microstorie» einaudiane. Questa bella
collana che conta ad oggi 22 titoli 23 rappresenta un caso raro, forse unico, nell'editoria
italiana: un'operazione condotta integralmente da tre studiosi su un piano scientifico,
proponendo quasi sempre percorsi di ricerca originali. Si tratta di ricerche generalmente
medio-brevi, incentrate su un tema circostanziato: la biografia di una suora o di un
giovane pittore; la trasformazione industriale o le dinamiche socio-politiche di una valle;
un caso criminale; la carriera di un esorcista; una festa politica carnevalesca e così via.
Quello che ha contato è stato l'implicito invito ad una percezione più libera, episodico-
illustrativa della storia, suscettibile di un richiamo per un pubblico più ampio, fuori della
cerchia degli specialisti, e fuori soprattutto dalle vecchie tematiche e dalle tradizionali
gerarchie delle rilevanze. Un'idea della storia certamente nuova per l'Italia e corroborata
dal riconoscimento, generale da parte degli storici italiani, che l'opzione microanalitica
era un'operazione impegnativa e non rappresentava certamente una scorciatoia
estemporanea volta alla ricostruzione del «vissuto».
Questo orientamento partecipava, come ho detto, di una congiuntura
storiografica europea. Troppo spesso si era soliti diagnosticare ritardi della storiografia
italiana in questo o in quel settore di studi storici che aveva fatto registrare altrove un
forte precipitato di innovazione. La «lamentatio» poteva finire; le opzioni e i percorsi di
ricerca venivano definiti liberamente in proprio secondo scelte analitiche congeniali. Ed
è in questo affrancamento della disciplina dalle ritualità accademiche e ideologiche che
va individuato lo specifico significato italiano della microsto-
ria. E ovviamente non avrebbe avuto senso il vincolo dell’omogeneità dei percorsi di
ricerca: l'etichetta assumeva il suo catalizzatore, in virtù dell'invito alle tematiche
circostanziate ed episodiche contenuto nella proposta di una particolare scala
dell’osservazione. Può sembrare una diagnosi un po' riduttiva, ma corrisponde
esattamente al senso «minimale» che ho attribuito fin dall'inizio a una «scuola» che non
è stata una scuola, che non ha prodotto alcun manifesto, che non ha disegnato una sua
progettualità di ricerche. Ma non tutto certamente è riducibile al massiccio déplacement
dei soggetti storici: per lo meno atrettanto importanti sono i procedimenti analitici.
Edward Muir offre nel suo saggio una sorta di celebrazione di Carlo Ginzburg come
storico e teorico del lavoro storico, pur individuando, mi pare, una specifica «cultural
microhistory»24. Le elaborazioni teorico-metodologiche di Carlo Ginzburg - sempre così
tese nella loro chiave di suggestivo alternativismo - mi sono sempre parse strettamente
connesse col suo specifico lavoro storiografico, che si muove per intero nell'ambito del
problema storico delle «forme culturali». E questo è senza dubbio il segno di una forte
onestà esegetica: la coerenza con se stesso e l'«autorivelazione». Non mi pare infatti che
Ginzburg sia attivamente e analiticamente interessato a trovare le mediazioni con il
«sociale», le «relazioni interpersonali»: il discorso rimane interno alle forme espressive,
al complesso rapporto fra alta e bassa cultura, all'analisi e alla ricostruzione dei rapporti
e nessi fra quelle «forme» e le loro filiazioni. È noto che uno dei più vistosi trend della
storiografia attuale è l'interesse per l'espressività-rappresentazione: nel caso estremo la
«fonte» diviene «testo» e la realtà storica è una illusione 25. In ogni caso non ci si difende
da questo relativismo trascurando le forme espressive e gli assunti di interpretazione
storica che esse pongono. A me pare comunque che questa difesa analitica della realtà
storica può essere organizzata meglio integrando lo studio delle forme con l'analisi
storico-sociale volta a ricostruire dei processi di cui azioni e espressioni sono componenti
fondamentali: un'immagine non è solo figlia di altre immagini, è anche connessa con una
situazione che essa esprime e organizza. Lo storico può fruttuosamente immaginare e
sperimentare schemi interpretativi che gli consentano di rendere intellegibili quei
processi. Tanto più che, a tal fine, lo soccorre la tradizione delle scienze sociali: si tratta
di modificare, adattare e anche inventare procedure di analisi, ma non necessariamente
di costruire tutto un percorso stretto e serrato. Questo confronto non è avvenuto
nell'ambito
della microstoria, non tanto per definire un’ortodossia, quanto per creare una dialettica
alta. È tutto sommato strano che la doppia anima della microstoria, chiara fin dall’inizio,
non abbia dato luogo a un processo di chiarificazione o quanto meno di discussione.
Come spesso accade, la rinuncia a un «impegno alto» spiega la fine di un'esperienza
collettiva.
Per fortuna tuttavia non si tratta di «ripensare» e rilanciare nulla. Oggi «ripensare
la microstoria» significa cercare di farne la storia, ed è insufficiente a tal fine collocarla
unicamente nella situazione della storiografia generale, prescindendo dal contesto
italiano, dalla «storia dei microstorici». Per il resto mi pare indubbio che la «pratica
microstorica» sia entrata a pieno diritto nelle pratiche storiografiche più vive e
analiticamente più ricche, come pratica fondamentalmente legata all'opzione di scala,
nell'assunto fondamentale che quella opzione rappresenta l'occasione per un
arricchimento dei significati dei processi storici attraverso un fondamentale
rinnovamento delle categorie interpretative e la loro verifica sperimentale. È ben
probabile in questo senso che i microstorici italiani abbiano molti fratelli nel mondo che
ancora non conoscono. Il passaggio essenziale per l'esperienza italiana era il passaggio
datila storiografia alla «pratica storiografica a forte consapevolezza teorica» e, su questo
terreno, il confronto può continuare: la storia diventa una scienza sociale che si
costruisce sulle dimensioni del tempo e dello spazio.

Edoardo Grendi
Dipartimento di Storia moderna e contemporanea,
Università di Genova
NOTE AL TESTO
1 Ricordo gli interventi di B. Farolfi su «Quaderni Piacentini», che diagnosticavano
precocemente, per l'Italia, questo fenomeno.
2 In questo senso è rivelativo il dibattito sul «senso comune storiografico» in «Quaderni
storici», 41 (1979) e seguenti.
3 C'è stato un ricambio generazionale nella conduzione della rivista negli anni recenti
che è stato stimolato anche da una crisi della vecchia direzione.
4 W. G. Hoskins, English Local History: The Past and the Future, Leicester 1967.
5 C. Phytian-Adams, Rethinking English Local History, Leicester 1987.
6 Cfr. C. Ginzburg, C. Poni, Il nome e il come: scambio ineguale e mercato storiografico,
in «Quaderni storici», 40 (1979), ripubblicato da E. Muir, G. Ruggiero (a cura di),
Microhistory and the Lost People of Europe, Baltimore 1991.
7 Cfr. G. Pomata, Madri illegittime fra Ottocento e Novecento: storie cliniche e storie di
vita, in «Quaderni storici», 44 (1989), ristampato nella raccolta americana citata alla nota
6.
8 «Quaderni storici», 33 (1976). L'introduzione è firmata da me.
9 G. Levi, L'eredità immateriale. Carriera di un esorcista nel Piemonte del Seicento, Torino
1985.
10 Mi riferisco in particolare ai lavori di storia annonaria di Revel, Macry ecc.
11 «Quaderni storici», 63 (1986), Conflitti locali e idiomi politici, a cura di S. Lombardini,
O. Raggio e A. Torre.
12 Cfr. il mio La pratica dei confini: Mioglia contro Sassello, 1715-1745, ibidem, pp. 81 1-
45.
13 D. Moreno, Premessa a «Quaderni storici», 49 (1982), Boschi: storia e archeologia.
Ma si veda anche C. Poni, Fossi e cavedagne benedicon le campagne, Bologna 1982, in
particolare il cap. 1.
14 Quell'ossimoro da me proposto in Micro-analisi e storia sociale, in «Quaderni storici»,
35 (1977), è stato certamente sopravalutato.
15 E. P. Thompson, Customs in Common, London 1991.
16 C. Walker-Bynum, Holy Feast and Holy Fast: The Religious Significance of Food to
Medieval Women, Berkeley 1987.
17 G. Levi, On Microhistory, in P. Burke (a cura di), New Perspectives on Historical Writing,
Oxford 1991.
18 C. Poni, Premessa a «Quaderni storici», 39 (1900), Aziende agrarie e microstoria.
19 «Quaderni storici», 53 (1983).
20 «Quaderni storici», 41 (1979).
21 «Quaderni storici», 44 (1980). Diversi articoli ristampati nel volume curato da E. Muir,
G. Ruggiero, Sex and Gender in Historical Perspective, Baltimore 1990.
22 Per esempio Giovanni Levi, col suo concetto di «biografia modale», ha mostrato la
logica di un utilizzo di un tema legato all'illustrazione e alla storia-caso nel discorso
dimostrativo (cfr. L'eredità immateriale cit.).
23 La collana ha perso piena autonomia, assorbita nella collana «Paperbacks» Einaudi e
poi è stata soppressa.
24 La scelta antologica di Muir e Ruggiero citata alla nota 6 è soprattutto rivolta a testi di
Ginzburg. È comunque francamente comico che, sulla base altamente indiziaria che gli
autori italiani più noti in America (Ginzburg e Eco) provengono dall'università di Bologna,
si argomenti che la microstoria è nata a Bologna!
25 Si veda il dibattito sul post-modernism sui recenti numeri di «Past and Present».

RIPENSARE LA MICROSTORIA?
Edoardo Grendi
Quaderni storici, NUOVA SERIE, Vol. 29, No. 86 (2), COSTRUIRE LA
PARENTELA: Donne e uomini nella definizione dei legami familiari (agosto 1994),
pp. 539-549 (11 pages)
https://www.jstor.org/stable/43778720

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