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La ricerca sull’outcome in psicoterapia: una revisone critica.

Maria Antonietta Coccanari de’ Fornari* e Leonardo Spanò*

Attualmente viene sempre più richiesto allo psicoterapeuta di dar prova della
efficacia della cura intrapresa. Si reclamano da lui tecniche di intervento economiche
e soddisfacenti. La psicoanalisi, le psìcoterapie di ispirazione psicoanalitica e tutti i
trattamenti apparentati suscitano una certa diffidenza. Si rimprovera loro di favorire
la dipendenza dei pazienti a fronte di una diffusa incertezza che questi processi siano,
in fin dei conti, realmente terapeutici. Probabilmente è proprio questa pressione
sociale e ancor più proveniente dal mondo scientifico che ha condotto allo sviluppo
di sempre nuovi strumenti di ricerca in ambio psichiatrico e psicoterapico. Come
alcuni autori hanno fatto notare (1, 2), il campo della ricerca in psicoterapia
assomiglia ad una azienda agricola, o a una “piccola industria che ricorre al lavoro a
domicilio” (cottage industry), se paragonato alla ricerca medico-farmacologica o ad
altri campi di ricerca delle scienze “dure” che sono dotati di ricchi finanziamenti. La
ricerca in psicoterapia infatti, pur essendo più costosa, nella maggior parte dei casi è
costretta a basarsi sugli incerti finanziamenti pubblici e sull’impegno di gruppi di
lavoro particolarmente motivati. Eppure, anche dietro la spinta, soprattutto
nordamericana, di verificare il rapporto costi/benefici da parte delle case assicuratrici
e delle agenzie governative, negli ultimi anni sono proliferati molti gruppi di ricerca
in tutto il mondo. Illuminante in tal senso è l’evoluzione della ricerca sull’outcome in
terapia psicoanalitica. Innanzitutto occorre chiarire i termini di outcome research e di
process research, due settori nei quali è consuetudine dividere il campo della ricerca
in psicoterapia. “Outcome” in inglese significa “risultato”, per cui Voutcome research
è la ricerca sul risultato della terapia, misurabile dopo che la terapia è terminata, ad
esempio in termini di differenze tra la stato pre- e post-terapia misurate con
determinate scale o strumenti di valutazione standardizzati. La process research
invece è la ricerca sui vari aspetti del “processo” della terapia, misurabili mentre la
terapia è in corso e anche indipendentemente dal risultato; esempi di process research
sono lo studio del rapporto tra misurazioni della alleanza terapeutica (tramite precise
scale di valutazione) in varie fasi della terapia rapportate ad altre variabili del
processo stesso quali sesso o età di entrambi paziente e terapeuta, percentuale del
tempo della seduta occupato dalle parole dell’uno o dell’altro, numero delle sedute,
frequenza settimanale, e così via. E’ da notare però che alcuni autori rifiutano questa
dicotomia tra ricerca sul risultato e ricerca sul processo, sostenendo che si tratta di
due facce della stessa medaglia, nel senso che gli studi sul processo possono
rappresentare misurazioni ad interim del risultato, e che comunque si tratta pur
sempre di studiare gli “effetti” di determinati comportamenti o processi. Si può anche
sostenere che la ricerca sul processo ha ben poco valore se non viene mai correlata
col risultato del processo stesso, per cui può essere giustificato considerare questi due
settori di ricerca come non separati, tenendo anche conto che molte ricerche sul
processo correlano singoli aspetti del processo con determinate variabili del risultato.
In determinati periodi storici è stato comunque prevalente un tipo di ricerca sull’altro:
ad esempio le classiche ricerche sul risultato hanno caratterizzato una prima fase
della ricerca sulla psicoterapia, mentre la fase attuale è caratterizzata da un relativo
abbandono della ricerca sul risultato in favore della ricerca sul processo, se non
addirittura sui microprocessi terapeutici, considerata più utile al fine di comprendere
cosa veramente accade in terapia. In altre parole, mentre una volta la domanda era
semplicemente “la psicoterapia funziona?”, in seguito è diventata “come e per chi
essa funziona?”, cioè si è passati da domande sul risultato a domande sul processo.
Sarà bene tenere a mente che, a tutt’oggi, le questioni principali della ricerca tanto in
psicoanalisi quanto nelle psicoterapie psicanalitiche supportive e espressive non sono
rappresentate esclusivamente dalla questione dell’outcome (ossia quali cambiamenti
hanno luogo nel corso e come conseguenza di una terapia) ma anche dalla questione
dei processi ( in altre parole in quale modo tali cambiamenti si realizzano, o in quale
modo sono stati prodotti, attraverso l’interazione di quali fattori propri del paziente,
del terapeuta e della terapia stessa). Per quanto questi due temi appaiano
necessariamente legati ed embricati fra loro, sul piano degli studi sono stati trattati di
solito in modo distinto e proprio in questo senso si muove il presente lavoro.

Volendo tracciare una storia della ricerca sull’outcome ed evidenziarne lo sviluppo,


appare conveniente distinguere diverse “generazioni” di ricerche, ognuna delle quali
è caratterizzata da una sempre maggiore raffinatezza tecnica e metodologica. A
partire da inizio secolo, più precisamente dal 1917, le generazioni che Wallerstein (3)
individua sono quattro. Il criterio classificatorio seguito dall’autore è sì di tipo
temporale ma soprattutto distingue le ricerche in base al livello di raffinatezza e
complessità concettuale e metodologica.

La prima generazione, inquadrabile in un arco di tempo che va dal 1917 fino agli anni
Sessanta, appare caratterizzata da semplici calcoli statistici sull’outcome, così come
esso veniva osservato in diverse categorie di pazienti. Tra tutti gli studi di prima
generazione quello più ambizioso è stato il rapporto del Centrai Fact-Gathering
Committee dell’American Psychoanalytic Association (1): i dati erano stati raccolti in
un periodo di cinque anni, a partire dal 1952; nel complesso erano state inviate circa
diecimila risposte a questionari preliminari da parte di circa ottocento analisti e
candidati, con circa tremila questionari finali ricevuti a trattamento concluso. Rimane
emblematico come studi di prima generazione perché contiene in se quelle che sono
le caratteristiche di base comuni a tutti questi tipi di studi e anche le tante mancanze
(i criteri per la diagnosi e il miglioramento rimanevano non specificati). Rimane
quindi, come risultato, un rapporto che oggi può venir considerato altro se non una
“rassegna esperienziale”, che consisteva in dati demografici relativi alla pratica degli
analisti, alle opinioni degli analisti circa la diagnosi dei loro pazienti e infine sempre
le loro opinioni circa i risultati terapeutici raggiunti. Sono quindi fin troppo evidenti
le storture e le imperfezioni metodologiche di questi studi: quasi a tutti i livelli
mancano criteri stabiliti su base consensuale ed i giudizi espressi dai singoli terapeuti
(giudizi che non sono passati al vaglio di nessun tipo di critica) costituiscono l’unica
raccolta dei dati. La difficoltà maggiore di ordine metodologica era invece
rappresentata dal fatto che fossero tutti studi retrospettivi (quindi plausibilmente
affetti da bias di vario ordine).

Gli studi di seconda generazione, che hanno avuto inizio in America a partire dagli
anni Cinquanta e Sessanta, nascono proprio dalla necessità di mettere in evidenza i
problemi degli studi precedenti e di introdurre indagine prospettiche e l’abitudine a
confermare o falsificare le ipotesi sulla base di valutazioni successive. I progetti
maggiori sono sei, tutti quanti americani: tre basati sullo studio di gruppi di pazienti e
tre invece sullo studio di casi singoli. Prima di descriverli, meritano di essere citati
anche tre progetti europei che si sono sviluppati all’interno di questo approccio alla
ricerca di seconda generazione: la chart review dell’Anna Freud Center (2, 3), lo
studio della German Psychoanalitic Association (4), ed uno studio multicentrico, al
quale hanno partecipato analisti di molti centri europei (5).

I tre studi americani condotti su gruppi di pazienti sono invece quelli del Boston
Psychoanalytic Institute (6), del Columbia Psychonalytic Center (7) e del New York
Psychoanalytic Institute (8, 9, 10); mentre i tre basati sullo studio di casi singoli sono
stati condotti a New York (11, 12, 13), San Francisco (14, 15, 16) e Chicago (17).
Tutti questi studi di seconda generazione -sia gli ampi studi statistici basati sul
confronto fra gruppi, sia gli studi intensivi su casi singoli –hanno molte
caratteristiche in comune: hanno tutti utilizzato strumenti di misura e scale,
valutazioni precedenti e successive al trattamento e previsioni circa l’outcome atteso,
ma - d’altro canto - non sono stati in grado di isolare i dati sull’outcome, rilevati alla
fine del trattamento, rispetto al problema della loro stabilità o instabilità, rilevata in
un momento prestabilito di follow-up successivo al termine della terapia. Rimangono
aperte, di fatto, tutte le possibilità: che i risultati conseguiti attraverso il trattamento
possano essere confermati o incrementati nel futuro, che possano semplicemente
mantenersi, oppure che si possa verificare una regressione allo stato precedente il
trattamento. In termini più tecnici si può affermare che questi studi non hanno reso
possibile l’attribuzione di uno specifico status teorico a ciò che Rangell ha chiamato
“fase postanalitica”.

Gli studi che Wallerstein definisce di terza generazione, si sono sviluppati, a ben
guardare, nello stesso periodo degli studi di seconda generazione appena descritti, ma
se ne discostano notevolmente dal punto di vista concettuale e metodologico. Si tratta
infatti di programmi di ricerca sulla terapia psicoanalitica sistematici e formalizzati.
Hanno provato a misurare l’ outcome dell’analisi prendendo in esame una vasta
gamma di casi e anche a esaminare i processi attraverso i quali l’outcome è stato
raggiunto, utilizzando il metodo dello studio longitudinale intensivo di ogni singolo
caso. Se vogliamo, i progetti di terza generazione hanno combinato gli approcci
metodologici degli studi di seconda generazione sui gruppi con quelli, sempre di
seconda generazione, basati sui casi singoli. Sono studi estremamente accurati nel
definire i termini utilizzati, nel creare le scale di valutazione e nel tentativo di cercare
di operazionalizzare i criteri relativi ad ogni elemento che viene valutato. Il punto
centrale che differenzia queste ricerche da quelle di seconda generazione è come, in
questo caso, la distinzione tra i risultati ottenuti al termine dello studio e quelli
rilevati in un successivo momento di follow-up stabilito precedentemente (dai due ai
dieci anni dopo) è indicato in modo preciso. Essi hanno cioè distinto con cura
Voutcome misurato al termine del trattamento con il funzionamento rilevato in un
successivo follow-up. E, se è possibile, si sono spinti anche oltre, tentando di
spiegare gli ulteriori cambiamenti che hanno luogo durante la “fase post-analitica”
(18, 19, 20).

Due sono i gruppi di studi di terza generazione più interessanti. Abbiamo gli studi del
Boston Psychoanalytic Institute (21, 22, 23, 24, 25, 26) e quelli, forse ancora più
ambiziosi dello Psychotherpy Research Project della Menninger Foundation (27, 28,
29). Entrambi questi studi hanno consentito di arrivare a conclusioni molto
interessanti e soprattutto sorprendenti, che possono essere sintetizzate attraverso una
serie di proposizioni relative all’appropriatezza, all’efficacia, agli obiettivi e ai limiti
della psicoanalisi e delle psicoterapie psicoanalitiche siano esse supportive o
espressive:

i cambiamenti conseguiti nelle terapie più supportive sono sembrati spesso già
sufficienti a rappresentare la medesima quota di cambiamento strutturale dei
cambiamenti conseguiti dai soggetti che avevano effettuato analisi più espressive.

Il cambiamento terapeutico era almeno proporzionale al grado di risoluzione dei


conflitti conseguito

L’effettiva risoluzione di conflitti è stata una condizione necessaria almeno per alcuni
tipi di cambiamento.

Gli approcci terapeutici supportavi spesso hanno raggiunto obiettivi di gran lunga
superiori a quelli attesi.

La psicoanalisi, come modalità terapeutica espressiva, ha spesso raggiunto risultati


inferiori a quanto previsto, come se, in accordo con la revisione della teoria
intrapsichica freudiana classica, la relazione si dimostri ineludibile e centrale rispetto
all’insight.

Arriviamo infine agli studi di quarta generazione. Sviluppatisi a partire dagli anni
Ottanta, impiegano nuove misure dell’outcome specificatamente studiate per la
valutazione della struttura psicologica e del cambiamento strutturale, coordinandole
con misure dei processi più sofisticate e impiegando gli strumenti audiovisivi, che
consentono l’osservazione diretta del processo e dell’outcome. L’area di sviluppo più
importante è costituita dalla crescita della ricerca sui processi. Un secondo
orientamento di quarta generazione consiste in una più cospicua focalizzazione, tanto
negli studi clinici quanto in quelli di ricerca, sulla fase post-analitica e quindi nel
tentativo di incoraggiare la conduzione di studi sistematici di follow-up sia in setting
clinici sia nella pratica privata. Terzo polo di ricerca, come accennato poc’anzi, è
stato ed è tutt’ora la ricerca di scale valide ed attendibili relative alla struttura di
personalità e al cambiamento strutturale; le principali sono: la SPC (Scale of
Psychological Capacites), la KAAP (Karolinska Psychodynamic Profil), l’OPD , la
STIPO, la MSI, la APS, il PQS, l’ORI e la SWAP.

È questo l’insieme di strumenti che rappresenta la quarta generazione di ricerca


sull’outcome della psicoterapia, ovviamente ancora in corso e, dunque, non ancora
consolidata: sono finalizzati ad andare al di là di scale e valutazioni di sintomi e
comportamenti manifesti, nel tentativo, invece, di trovare scale e misure della
struttura di personalità e del cambiamento strutturale che siano in grado realmente di
valutare quali tipi di cambiamenti possono essere prodotti, in quale tipo di pazienti e
attraverso quali modalità terapeutiche. Nel complesso, si può dire che in questa
quarta fase la ricerca dell’outcome in psicoterapia si è consolidata, con molti gruppi
di lavoro in vari paesi, e una nuova generazione di ricercatori che sta avvicendandosi
ai pionieri; molti pregiudizi sull’utilità della ricerca in psicoterapia sono stati
abbattuti.

La panoramica che questo lavoro vuole offrire è quella di un campo ancora in pieno
sviluppo e nel quale probabilmente nuove generazioni di ricerche in grado di
integrare e migliorare le precedenti raggiungendo gradi di completezza ancora
maggiori.

Bibliografia

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30. Wallerstein R.S. (1986), Forty-two lives in treatment: a study of psychoanalysis


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31. Wallerstein R.S. (1988), Psicoanalisi e psicoterapia: un riesame dei ruoli


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Franco Angeli, Milano, 1993.

Note

* Day Hospital Psichiatrico – Dipartimento di Psichiatria e Medicina Psicologica –


Sapienza Università di Roma.

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