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La disponibilità dell'analista 1
Dott.ssa Silvia Saraceno Fasce Ph.D 2

Dai lavori di Freud sul transfert e il suo riferimento al lavoro analitico fino ai
giorni nostri sono state sviluppate diverse prospettive sulle forme che assume
l'incontro paziente-analista. Ciò è dovuto al fatto che la clinica sta cambiando e la
teoria deve accompagnare questo cambiamento.

Non esiste una teoria della tecnica universalmente applicabile a tutti i


pazienti nel corso della loro vita e la diversità delle situazioni cliniche che si
presentano quotidianamente richiede di conseguenza una diversità di approcci
tecnici.

È da qui che ho iniziato a interrogarmi sulla posizione che l'analista


dovrebbe avere nella clinica attuale, con l'obiettivo di enfatizzare ciò che l'analista
può apportare alla relazione terapeutica: la sua disponibilità, soprattutto con i
pazienti che vanno oltre il campo delle psiconevrosi.

Da qui ho intrapreso un percorso di ricerca sulla questione di cosa si


intende per disponibilità dell’analista, con l'obiettivo di ampliare la visione del lavoro
di cura che viene svolto oggi nelle nostri studi.

Freud ha sottolineato che, nella psiconevrosi, per far progredire un'analisi è


necessario condurre il paziente a decifrare da un contenuto manifesto la ricerca
del latente, rendendo cosciente l'inconscio, attraverso il sollevamento della
repressione, rendendo così possibile il cambiamento psichico ricercato. Ciò
richiede l'instaurazione del transfert, la cui idea centrale è la riedizione di tutta una
serie di esperienze psichiche precedenti che non sono vissute consciamente come

1 Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su Revista de Psicoanálisis Asociación


Psicoanalítica Argentina. Volume LXXIII. N° 4, 2016. Buenos Aires.

2 ssaracenofasce@gmail.com. Psicologo. Master in Psicoanalisi. Dottore in Psicologia.


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qualcosa di passato, ma che agiscono come un legame attuale con la persona


dell'analista. L'analista, attraverso l'interpretazione, creerà delle differenze rispetto
al passato che si ripete nel presente, rivelando così il significato nascosto delle
comunicazioni del paziente, aiutandolo a capire e a ricordare. Ciò si tradurrà in
efficacia analitica e successo del trattamento.

Affinché ciò avvenga, è necessario che il paziente abbia un riconoscimento


dell'alterità, dell'altro, e che si sviluppi una condizione relazionale che renda
possibile il cambiamento.

Una situazione diversa si verifica con molti dei pazienti che si rivolgono oggi
ai nostri studi: in loro vi sono situazioni di sofferenza iniziale nell'educazione, che
porta con sé un'organizzazione psichica con caratteristiche differenziali rispetto alla
psiconevrosi. Si tratta di pazienti in cui, secondo Killingmo (1989), "l'evoluzione
stessa del sé è stata danneggiata", vale a dire che non si tratta di pazienti
conflittuali ma di pazienti con un deficit nella strutturazione dell'immagine di se
stessi, del sé, come le personalità narcisistiche e i pazienti borderline, in cui è
evidente "la mancanza, l'eccesso o l'inadeguatezza" (Zukerfeld 2006) delle cure
elementari che il soggetto avrebbe dovuto ricevere durante le diverse fasi
evolutive.

È in questo tipo di situazione che, come terapeuti, ci troviamo di fronte


all'esperienza di aver bisogno di qualcosa in più e cominciamo a interrogarci sulla
possibilità di rendere più flessibile l'approccio terapeutico classico, per poter
coniugare teoria e realtà clinica.

Numerosi autori, sia post-freudiani che contemporanei, hanno preceduto


questa ricerca, poiché hanno tenuto conto nelle loro teorie dell'influenza
dell'ambiente di accudimento sulla strutturazione psichica.

Winincott (1958) ha attribuito un'importanza vitale all'holding e alla madre


sufficientemente buona, Balint (1959) ha coniato il termine "mancanza di base",
Bion (1962) ha sviluppato due concetti strettamente correlati, il contenente-
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contenuto e la funzione di rêverie, Bowbly (1962) la teoria dell'attaccamento, Kohut


(1990) ha scritto sulle derivazioni cliniche derivanti da una cattiva genitorialità nelle
prime fasi e sul termine empatia. Killingmo (1989) ha sottolineato l'importanza
della presenza costante di un altro nella strutturazione psichica. Green
(1996-2007-2010) ha sollevato la necessità che nel processo analitico con questi
analizzandi l'analista "presti il suo pensiero", sottolineando l'importanza
dell'immaginazione, della comprensione e della creatività dell'analista. Inoltre, ha
espresso la necessità di articolare i modelli freudiani e post-freudiani, integrandoli
per costruire un nuovo modello che superi i limiti esistenti e affronti le nuove sfide
cliniche. Benyakar-Lezica (2006) hanno sottolineato l'importanza del mondo
esterno, cioè della presenza di un altro, rappresentato da adulti significativi, nei
processi di trasformazione psichica. Chiariscono che nella sua forma più usuale e
caratteristica gli adulti significativi che svolgono questa funzione sono i genitori, ma
in casi particolari può essere svolta da altri significativi, tra i quali l'analista. Infine,
citerò Hornstein (2006) che ha fatto un'analogia tra la funzione materna e la
funzione dell'analista con queste parole:

"A una madre che non è stata sufficientemente buona si


opporrà un analista in grado di compensare questa
mancanza, contro la mancanza di cure elementari si
lotterà per riprodurre stati e sensazioni infantili, per
alleviare l'isolamento verbale si useranno
abbondantemente le parole".

A questo punto è necessario precisare che la selezione degli autori non


esaurisce coloro che hanno lavorato sull'importanza dell'ambiente nella
strutturazione dell'apparato psichico, ma esemplifica la svolta che si è verificata dal
movimento post-freudiano in poi, quando si è reso necessario introdurre nella
pratica clinica quei pazienti in cui i fallimenti ambientali precoci erano ripetitivi,
necessitando quindi della presenza dell'analista per svolgere una funzione
strutturante in alcuni momenti del processo.
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Qualità e funzioni di un analista disponibile.

R Zukerfeld (2005) nel suo lavoro "Psychoanalytic Framing and Identity:


Curiosities and Arguments", riferendosi agli interventi dell'analista, ha sottolineato
che tutti dipenderanno da: un certo livello di diagnosi, in cui si valuta chi è il
paziente e di cosa soffre, dalle particolarità della domanda che si traduce in cosa
vuole? e dalla disponibilità controtransferale che consiste nel rispondere a tre
domande: cosa posso , cosa voglio e cosa devo fare? Senza ignorare l'importanza
fondamentale di questi tre vertici per realizzare un intervento, in questa ricerca
pongo l'accento sulla disponibilità, aggiungendo altre due domande a quelle già
poste: chi sono e cosa faccio? Questo mi ha permesso di approfondire le qualità
che dovrebbe avere un analista disponibile e che funzioni dovrebbe svolgere
affinché questi pazienti possano accedere a un processo terapeutico.

Nel chiedermi chi sono io? considero che non solo l'incontro tra analista e
paziente è determinato da aspetti inconsci, ma che la persona reale di entrambi è
ugualmente coinvolta in questo scambio, influenzando la situazione clinica e
facilitando o meno il processo analitico. In questa prospettiva, è di grande
interesse studiare come la persona dell'analista partecipi all'esperienza analitica,
come i diversi aspetti della sua personalità e della sua storia abbiano un impatto,
come abbia scelto le sue teorie di riferimento tenendo conto della sua formazione,
della sua supervisione e della sua stessa analisi. E, inoltre, come si può mettere in
gioco tutta questa complessità in un determinato contesto con un determinato
paziente.

In altre parole, rivolgiamo la nostra attenzione non solo alle caratteristiche


del paziente e alle sue modalità di elaborazione psichica, ma anche a una serie di
qualità personali del terapeuta, che si ritiene abbiano un impatto sull'incontro
analitico.
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Senza volerne fare un elenco completo, vorrei sottolineare le qualità che


sono emerse nella mia ricerca: per porsi con umiltà di fronte alla clinica, come
direbbe Freud in Consigli al medico (1912) "...Je le pansai, Dieu le guérit" ("Ho
curato le sue ferite, Dio lo ha guarito"), l'analista deve accontentarsi di qualcosa di
simile. Essere abbastanza flessibile da adattare la tecnica analitica alla soggettività
del paziente. Sviluppare una capacità di ascolto che, come dice Bion (1992), "se
ascoltiamo abbastanza a lungo, potremmo essere in grado di "vedere" dove fa
male". Tenere conto anche delle "diverse modalità di presenza del terapeuta nella
situazione clinica" (Fiorini 1999) cioè della sua capacità di dedizione, della sua
sensibilità e del suo modo particolare di contattare l'altro in modo tale da poter
avviare e sostenere il processo analitico. Infine, sarà necessario anche mettere da
parte i pregiudizi, mostrando un grado di apertura che permetta al paziente di
dispiegare il suo mondo psichico in un clima di spontaneità e libertà.

A questo punto, è opportuno porre la domanda che Freud si poneva in


"Analisi terminabile e interminabile" (1937): "Dove acquisirà dunque il povero
diavolo quell'attitudine ideale che gli manca nella sua professione?". La risposta
data da Freud stesso ci dice: attraverso la propria analisi , compresa l'autoanalisi,
lo studio dei testi analitici e la supervisione. Tre regole alla base della formazione e
della funzione analitica.

È qui che, riflettendo sulla funzione analitica, sorge la domanda "che cosa
faccio?", mettendo in primo piano la messa in discussione della posizione
dell'analista durante l'incontro analitico con i pazienti, dove non è in gioco solo
l'intrapsichico, ma anche la relazione con gli altri svolge un ruolo di tale importanza
da far ripensare la clinica nel corso di diversi anni. Così, seguendo la prospettiva
psicoanalitica relazionale di J. Puget e Isidoro Berenstein (1997), si ritiene che la
posizione di un analista disponibile verrebbe ampliata tenendo conto di "tre spazi
psichici": l'intrasoggettivo, l'intersoggettivo e il transoggettivo. Vale a dire,
considerando un mondo interno in cui il soggetto ospita le rappresentazioni del
proprio corpo, così come quelle del proprio funzionamento mentale, un altro
mondo interpersonale in cui il sé è con gli altri in qualche relazione di intimità
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privilegiata e, infine, il mondo circostante o socio-culturale, dato che, come ha


affermato Pichon-Rivière (1971) l'uomo come un essere in situazione, è
impossibile che sia avvicinato senza tenere conto del contesto geografico e sociale
in cui emerge.

Da questo punto di vista, l'analista non potrebbe svolgere soltanto una


funzione, ma la sua disponibilità si concretizzerebbe nel poter svolgere diverse
funzioni, dando conto di una disponibilità variabile e non costante, che ci
permetterà di muoverci tra diverse posizioni strumentali. Vale a dire: sostenendo,
empatizzando, contenendo, aiutando a creare nuovi percorsi di pensiero,
trasformando l'attività pulsionale iniziale in uno stato di maggiore capacità
elaborativa, fornendo le condizioni che permettano lo sviluppo di intensi fenomeni
transferali, caratteristici di questi pazienti, e utilizzando l'interpretazione come
strumento primario quando possibile. L'immaginazione e la creatività saranno
utilizzate anche per approfondire il dialogo analitico, offrendosi, come dice
Winnicott (1968), come un ulteriore oggetto nella scatola dei giochi da "usare" da
parte del paziente. In questo modo, verrà fornita la necessaria costanza
dell'oggetto mancante per offrire un nuovo adattamento ambientale affidabile.

Bolognini (2004) fornisce una metafora che aiuta a ragionare in questo


senso:

"È fondamentale che ogni marinaio salpi con la sua barca


portando con sé il bagaglio tecnico e culturale necessario
per affrontare il mare nelle migliori condizioni; ma il
marinaio sufficientemente esperto sa che dovrà adattare
le proprie tecniche al mare e alle condizioni
meteorologiche, e che ogni viaggio sarà, in qualche
misura, imprevedibile e diverso da quelli precedenti".

Per questo sarà necessario rendere il quadro più flessibile, senza perdere la
sua specificità, e allo stesso tempo utilizzarlo come strumento diagnostico per
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poter variare tra le diverse posizioni strumentali, lasciando che la soggettività del
paziente si dispieghi, accompagnandolo nelle diverse fasi del processo.

Da questa posizione, l'analista diventerà così un oggetto affidabile,


contenente, "con la capacità di fornire cure, integrando la mancanza di qualcosa
che non è mai esistito" (Green, 1984), creando uno spazio tra il se - stesso e l'altro
che permetta di ripercorrere il cammino in condizioni migliori di quelle originarie.

È chiaro che questo processo avviene con resistenze multiple, che sono più
frequenti e intense nei pazienti con deficit che in quelli nevrotici. Ma quando la
disponibilità dell'analista viene colta da loro, c'è la possibilità di costruire un legame
che permette di creare un'interazione strutturante, mettendo in moto un nuovo
processo evolutivo. Si passa così da un deficit strutturale del sé, con un Io fragile e
instabile, a un Io più forte, più coeso e più discriminante nei confronti degli oggetti.
Si afferma la categoria dell'esterno, installando il riconoscimento dell'alterità,
propiziando un processo analitico che farà nascere il senso e la parola dove c'era il
vuoto e l'atto, passando, secondo Killingmo (1989), da "scoprire significati a
costruire significati", dispiegando una situazione di collegamento in grado di
produrre livelli più alti di elaborazione simbolica e dove avviene il cambiamento
psichico.

La disponibilità come concetto multidimensionale

Nel corso di questa ricerca, è stato necessario mettere in discussione i


confini della psicoanalisi classica e post-freudiana per estenderli alla psicoanalisi
contemporanea, poiché questa promuove l'estensione dei limiti dell'analizzabilità
verso il trattamento di pazienti non nevrotici. Esplora, quindi, variazioni del metodo
classico che offrono nuove prospettive per adeguare e innovare l'azione analitica in
modo da poter includere nella pratica clinica i diversi modi in cui la sofferenza
psichica si presenta oggi.

Quindi, a mio avviso, quando parliamo di disponibilità ci troviamo di fronte a


un concetto multidimensionale, che ci offre un ampio spettro di modalità che
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potranno essere attivate nell'incontro analitico. In altre parole, l'analista, utilizzando


le sue diverse qualità personali, può diventare un altro significativo affidabile e
muoversi tra diverse posizioni strumentali, svolgendo un ruolo strutturante, che
contribuirà a creare un incontro paziente-analista con caratteristiche differenziate.

Va chiarito che non vogliamo cadere nella fantasia ingenua di un analista


sempre disponibile, né nella totale efficacia terapeutica di questa posizione.
Ricordando le parole di Freud (1937) quando dice: "E sembrerebbe addirittura che
l'analisi sia la terza di quelle professioni "impossibili" in cui l'inadeguatezza del
risultato può essere data per scontata in anticipo. Le altre due, già note, sono
educare e governare".

Si è quindi pienamente consapevoli dei limiti che possono sorgere di fronte


alla disponibilità precedentemente proposta e dell'impegno affettivo
particolarmente intenso che deve essere messo al servizio del trattamento.

Mantenere questa posizione, quindi, produce nell'analista una marcata


tensione che dovrà essere tradotta in lavoro psichico, creando uno spazio di
ricettività emotiva che permetta al paziente di sperimentare ed esprimere un'ampia
gamma di esperienze difficili.

Così, ogni tratto del paziente avrà un impatto sul lavoro clinico, costituendo
una serie di ostacoli e difficoltà che richiedono un chiaro impegno della soggettività
dell'analista, che implica sia una riflessione sulla propria pratica sia una formazione
teorica continua posta al servizio del processo analitico.

Pertanto, se l'analista considera la sua disponibilità come una risorsa


analitica imprescindibile per attivare il processo, dovrà chiedersi: può continuare a
prendere a modello il chirurgo che lascia da parte tutti i suoi affetti e persino la sua
umana compassione ? oppure dovrà, attraverso il suo coinvolgimento soggettivo,
affetti compresi, credere nella propria trasformazione per poter valorizzare
l'incontro con l'analizzando? Da questo punto di vista, sembra che non sia solo il
paziente a dover cambiare.
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Non si tratta di disconoscere i pilastri tecnici fondamentali della


psicoanalisi, ma di contribuire ad ampliare il contributo di Freud alla cultura,
all'ospitalità mentale nella cura dell'essere umano sofferente.

Si tratta, quindi, di permetterci di poter accompagnare senza limitarsi a


ripetere ciò che si è appreso, integrando il maggior numero di variazioni che
arricchiscono l'esperienza analitica, integrando la concezione psicoanalitica
tradizionale del conflitto con la concezione psicoanalitica del deficit. Aprendoci così
a un posizionamento più creativo e comprensivo che permette di accogliere sia la
complessità che l'unicità insite in ogni incontro umano. Perché riflettendo : chi di
noi non ha avuto bisogno, in qualche momento della propria vita, di un analista
disponibile?

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