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I l setting

Dalle prime concettualizzazioni psicoanalitiche a oggi si è assistito a un succe­


dersi di teorie sul funzionamento della mente e della psicopatologia accompagnate
da una teoria della tecnica finalizzata a definire i criteri del trattamento. La teoria
della tecnica, a sua volta, ha subito una serie di cambiamenti sia all'interno dell'evo­
luzione della medesima teoria freudiana, sia nelle varie evoluzioni che hanno seguito
la teoria psicoanalitica, fino ad arrivare alle diverse forme di terapia psicodinamica
e di interventi psicosociali presenti oggi nel panorama dell'intervento psicologico.
Un parametro fondamentale che definisce le varie forme di trattamento è il
setting, ossia quel complesso di tecniche che informano il contesto terapeutico
e a cui è dedicato questo capitolo, che ha come obiettivo quello di ripercorrere
l'evoluzione del concetto di setting e la sua funzione all'interno dell'intreccio tra i
modelli psicoanalitici e la teoria della tecnica, seguendo parallelamente la prospet­
tiva storica e quella concettuale dell'evoluzione della modellistica psicoanalitica.
La teoria pulsionale freudiana ha rappresentato il centro dal quale, negli anni
successivi, si sono sviluppati vari modelli, alcuni dei quali si sono chiaramente
differenziati dal modello freudiano, come le prime divergenze teoriche di Jung e
Adler intorno agli anni '20, mentre altri lo hanno sviluppato, come la psicologia
dell'Io da una parte e quella delle relazioni oggettuali dall'altra, tra gli anni '30 e
'40. Ulteriori contributi e diversificazioni sono emersi successivamente con l' af­
fermarsi della psicologia del Sé e della psicoanalisi interpersonale fino ad arrivare
alla corrente che oggi definiamo relazionale e che racchiude sia l'evoluzione dei
precedenti modelli sia gli orientamenti derivati dagli studi sull' in/ant research,
l'intersoggettività e le neuroscienze.
Nuovi modelli di funzionamento della mente hanno prodotto, quindi, nuove
ipotesi psicopatologiche che si sono declinate in cambiamenti della teoria della tec­
nica: ciò ha inevitabilmente modificato nel tempo il significato attribuito al setting.
Sul piano dell'evoluzione dei costrutti teorici si è passati da una teoria pulsiona­
le concentrata su come si mascherano gli impulsi disturbanti e fonte di sofferenza
nella mente individuale all'interno di un modello diacronico e fasico (il passato
«determina» il presente) , a una teoria relazionale che rintraccia la fonte della sof-

Questo capitolo è di Stefania Cataudella e Giulio Cesare Zavattini.


286 CAPITOLO 1 1

ferenza nelle relazioni e via via riconosce l'importanza non solo del passato, ma
anche delle relazioni attuali accentuando il tema dello scambio in seduta (psicologia
unipersonale vs psicologia bipersonale) [Bromberg 201 1 ; Eagle 201 1 ; Lichtenberg,
Lachmann e Fosshage 20 1 1 ] .
Questi cambiamenti concettuali, a loro volta, hanno avuto ripercussioni sul
modo di intendere la relazione terapeutica: si è passati, cioè, da una teoria «realista>> ,
che vede la relazione psicoterapeuta-paziente caratterizzata da una distorsione,
operata dal paziente, della relazione attuale con lo psicoterapeuta basata sulle sue
precedenti relazioni, a una teoria «costruzionista», nella quale la vita del soggetto,
così come la relazione terapeutica, sono il risultato di un processo con,diviso che si
dispiega in una matrice relazionale. :
Nel primo caso lo psicoterapeuta, mantenendo un atteggiamento neutrale, aiuta
il paziente ad affrontare la «realtà» attraverso l'interpretazione della relazione tran­
sferale e il setting funge da cornice stabile che favorisce l'emergere di un processo
da interpretare (le proiezioni del paziente sullo psicoterapeuta) ; nel secondo caso
lo psicoterapeuta, partecipando attivamente alla relazione e influenzando così il
transfert, aiuta il paziente a cocostruire un significato della «realtà».
n passaggio, quindi, da un'epistemologia oggettivista a una costruttivista com­
porta il passaggio dal considerare il setting soprattutto come la cornice all'interno
della quale si svolge il processo psicoanalitico, costituito dal transfert del paziente
e dall'interpretazione dello psicoterapeuta, al considerare il setting come parte in­
tegrante del processo stesso, in quanto facilitatore dell'emergere di funzionamenti
mentali verso i quali la coppia psicoterapeuta-paziente costruisce nuovi significati
[Aron 1 996; Ferraro e Genovese 1 986; Zavattini 1 988; Nissim Momigliano e Ro­
butti 1992 ] .

1. Il setting: definizione

Rispetto a un colloquio che qualunque professionista intrattiene con il suo clien­


te, il colloquio psicologico ha in sé alcune peculiarità tra le quali la più rilevante sta
nel fatto che è la relazione stessa che lo psicoterapeuta intrattiene con il paziente a
essere oggetto di osservazione e intervento. Il setting si configura, pertanto, come
l'insieme di procedure che regolano i ritmi spazio-temporali delle sedute e la mo­
dalità del rapporto fra psicoterapeuta e paziente [Giuffrida 1995 ; Zavattini 2006] .
L'attenzione agli aspetti inconsci della comunicazione, specificità dell'ottica
psicodinamica, comporta la necessità di guardare il setting da due punti di vista:
l. esterno, ossia l'insieme di procedure che regolano le sedute;
2. interno, ossia la logica cui attenersi come posizione dello psicoanalista
rispetto alla sua funzione come psicoterapeuta.
Il setting esterno è, quindi, l'insieme di regole formali che prefigurano la situa­
zione terapeutica, ossia la sistemazione della stanza, la modalità dell'incontro, la
regolarità delle sedute, la durata delle stesse, l'onorario, e così via. Queste regole
possono essere considerate come delle invarianti che consentono lo svolgersi del
processo terapeutico [Meltzer 1 967 ] .
I l setting interno s i riferisce all'assetto mentale dello psicoterapeuta che s i at­
tiva nell'incontro con il paziente consentendogli un ascolto interiore che implica
un'attenzione uniformemente sospesa e fluttuante - free floating - rispetto ai propri
SETTI01G 287

stati interni [Parsons 2007 ] . Lo psicoterapeuta, immerso in quanto accade nella


seduta, contemporaneamente vive le emozioni e le osserva; ascolta ciò che dice il
paziente e ascolta ciò che accade dentro di sé; coglie i significati più evidenti e cerca
di esplorare il campo di altri eventuali significati condensati nel punto che si sta
esaminando; tiene a bada le emozioni più immediatamente emergenti e contiene ciò
che il paziente non può ancora riprendere, mentre cerca contatto con altri possibili
stati affettivi [Di Chiara 1 97 1 ; Di Chiara et al. 1 985 ] .
Il setting esterno è, quindi, quello che crea l'ambiente più favorevole al mante­
nimento di questo assetto della mente e allo svolgimento di questo particolare tipo
di lavorio mentale; si configura come un'area privilegiata in cui le azioni compiute,
le parole scambiate, i silenzi assumono un valore terapeutico [Fiorentini et al. 1 995;
Friedman e Rizzuto 2000] .
Nel corso del tempo e delle evoluzioni teoriche la parola «setting» è stata
anche sostituita con denominazioni come «cornice», «dispositivo», «procedura»,
«situazione analitica», suggerendo di volta in volta un cambiamento nel modo di
intendere la relazione psicoterapeuta-paziente [Green 2002] . Tale cambiamento è
stato in particolare sollecitato dal trattamento di nuove tipologie di pazienti (bam­
bini, adolescenti, coppie), di nuove forme di psicopatologia e dalla conseguente
costruzione di nuove ipotesi psicopatologiche [Gigli, Velotti e Zavattini 2012;
Lupinacci e Zavattini 20 1 3 ] .

2. Il setting classico: la visione freudiana

La psicoanalisi, in quanto metodo di cura, nasce come modalità di trattamento


della nevrosi, intesa come risultato di un conflitto intrapsichico. Secondo il modello
freudiano la nevrosi insorge quando non si sviluppano strutture psichiche (Es, Io,
Super-io) in grado di gestire gli intrinseci conflitti psichici tra le strutture stesse, e
tra esse e la realtà esterna: il soggetto è incapace di percepire gli oggetti del mondo
esterno Oe persone) in modo adeguato e realistico e li confonde con gli oggetti
originari infantili (come i genitori o i fratelli e le sorelle) dai quali dipendeva. Il
nevrotico, in altre parole, non percepirebbe le persone, ma le immaginerebbe e le
tratterebbe come surrogati di oggetti interni proiettando inconsciamente le loro
caratteristiche sugli oggetti reali (vedi cap. 7 ) .
Ciò implica due forme di distorsione, una di natura affettiva (per l a quale, ad
esempio, un marito prova sentimenti di dipendenza affettiva dalla moglie come
se questa fosse sua madre) e una seconda distorsione di natura rappresentazionale
(per la quale, ad esempio, il nevrotico interpreta in modo distorto le sue esperien­
ze e le sue relazioni) . Da questa formulazione generale della psicopatologia ne
deriva che l'intervento psicoterapeutico deve essere volto ad aiutare il paziente
a distinguere tra fantasia e realtà, ossia tra il proprio mondo interno (fantasie di
relazione proiettate sullo psicoterapeuta) e la realtà esterna (relazione attuale con
lo psicoterapeuta) .
Come si legge nel noto saggio di Ellenberger [ 1970] , la prima descrizione di
una psicoterapia propriamente freudiana appare negli Studi JU!l'isteria [Freud
1 892-95 ] . In questa prima fase si può seguire un rapido sviluppo delle tecniche
utilizzate da Freud con le sue pazienti, da Emmy von N., con la quale utilizza
l'ipnosi, l'elettroterapia e il massaggio, fino a Elisabeth von R., con cui utilizza il
288 CAPITOLO 1 1

metodo della suggestione ipnotica per portare alla luce i l ricordo patogeno coe­
rentemente con le prime concettualizzazioni sulle origini dell'isteria intesa come
esperienza traumatica rimossa. Il setting, pertanto, può essere così ricostruito: uno
spazio protetto, costituito da una stanza tranquilla, dove il paziente si possa sentire
accolto, e un divano che possa favorire il rilassamento fisico utile alla suggestione
ipnotica. Freud pone le mani sulla fronte del paziente, gli dice di chiudere gli occhi
e di concentrarsi; mentre gli preme la mano sulla fronte, lo rassicura sul fatto che il
ricordo riaffiorerà. In questa prima fase, relativamente alla dimensione temporale,
si fa cenno solo a una certa regolarità nella frequenza delle sedute.
L'incontro fra psicoterapeuta e paziente ha l'obiettivo, quindi, di riportare alla
coscienza del paziente ciò che è stato rimosso. Le riflessioni fatte nell'esperienza
con i primi pazienti e che portano all'individuazione dei meccanismi di «resistenza»
e di «transfert» indurranno Freud a modificare la procedura e quindi il setting.
Freud non si è mai occupato di trattare l'argomento del setting come argomento
a sé, anche se gli si attribuisce un'ortodossia nella definizione delle caratteristiche
del setting che in realtà è stata ricostruita retrospettivamente dai suoi successori
[Glover 1955 ] . Nei testi classici non esiste, infatti, alcuna esplicita definizione di
come dovrebbe essere un setting; la parola inglese «setting», di uso relativamente
recente in campo psicoanalitico, non ha un termine corrispettivo nel vocabolario
tedesco freudiano.
Sebbene né Freud né i suoi primi fedelissimi seguaci, da Abraham a Feniche!,
da Alexander a Reich, nei loro scritti dedicati alla tecnica, forniscano un preciso
modello1 [Argentieri Bondi 200 1 ] , è tuttavia possibile ricostruire l'idea di setting
utilizzata da Freud attraverso i passaggi rintracciabili nei suoi scritti che si con­
centrano sulle procedure e su ciò che lui chiamerà «suggerimenti» o «consigli».
Sono in particolare tre i lavori nei quali Freud [1912; 1913b; 1 9 1 3 - 14] definisce
la tecnica, che si può così riassumere: alcuni incontri preliminari consentono allo
psicoterapeuta di valutare l' analizzabilità del paziente (funzionamento del suo Io,
motivazione a svolgere un lavoro psicologico) . Definita l'analizzabilità, le sedute
terapeutiche avvengono all'interno di una serie di regole.
Il trattamento sarebbe così garantito dal rispetto di queste regole. Definite le
regole iniziali, dopo qualche settimana, grazie al ritmo della frequenza delle sedute,
il paziente impara a superare la propria resistenza e a parlare liberamente: avviene
un graduale fluire più libero delle associazioni e anziché seguire una successione
definita e determinata di pensiero, il paziente salta da un'idea all'altra (le libere
associazioni permettono l'indagine dell'Inconscio) ; appaiono sempre più ricordi
dell'infanzia, misti a ricordi di sogni e fantasie, e il paziente comincia ad avere un'im­
magine affettivamente distorta dello psicoterapeuta (inizio del transfert) nel senso
che viene proiettata su di lui una riattivazione di antichi atteggiamenti verso i geni­
tori. Il lento sviluppo e la successiva risoluzione della nevrosi di transfert attraverso
l'interpretazione vengono considerati, infine, gli strumenti principali della tecnica.
n fine di questa serie di regole è, quindi, quello di permettere: l'instaurarsi di
una condizione di isolamento che protegga dalla realtà esterna; il mantenimento di

1 Nei dizionari classici di psicoanalisi, come le opere di Laplanche e Pontalis [ 1967 ] , il termine

non compare. Lo troviamo invece nei moderni e correnti manuali di psicologia, nella generica accezione
sperimentale di contesto di ricerca, di area spazio-temporale vincolata da regole e limiti da tenere in
considerazione.
SETTI!';(; 289

QUADRO 1 1 . 1 .
Regole del setting freudiano

Secondo Freud il setting terapeutico dovrebbe prevedere:


l. una stanza tranquilla con un divano/lettino su cui si sdraia il paziente;
ciò favorisce la regressione necessaria al trattamento spostando il paziente dalla
forma abituale di comunicazione quotidiana, facilitandogli il contatto con il
mondo dei ricordi, dei sogni e dell'immaginazione;
2. un contratto che fissa tempi, frequenza e modalità delle sedute, ed entità
del pagamento;
3. la regola fondamentale, ossia l'impegno alla sincerità da parte del pazien­
te (il paziente è invitato a dire tutto ciò che gli viene in mente);
4. un'attenzione fluttuante dello psicoterapeuta che deve ascoltare in modo
imparziale tutte le comunicazioni del paziente senza privilegiarne a priori parti
specifiche;
5. la regola dello specchio, ossia il fatto che gli aspetti personali dello psi­
coterapeuta rimangano incogniti, come uno specchio vuoto, è una condizione
indispensabile affinché il paziente possa proiettare su di lui i propri vissuti senza
che questa proiezione sia disturbata da conoscenze extraterapeutiche sulla per­
.
sonalità dello psicoterapeuta;
6. la regola dell'astinenza, secondo la quale lo psicoterapeuta frustra i
tentativi del paziente di soddisfare desideri inconsci ed evita di dare consigli.

una condizione di sospensione dell'azione affinché possa emergere più intensa la


produzione emozionale; la possibilità di arginare eventuali irruzioni in controllabili
della realtà interna del paziente (e dello psicoterapeuta), e di consentire il graduale
sviluppo del transfert e della sua successiva risoluzione [Genovese 1 988] .
In altri termini, possiamo vedere, nei vari aspetti messi sopra in evidenza, in che
modo la teoria della nevrosi si declina in prassi organizzando il setting e guidando
lo strutturarsi della relazione tra psicoterapeuta e paziente. Riassumendo:
• il setting esterno è costituito dall'organizzazione della stanza, dal contratto

e dalla regola fondamentale (punti l , 2 , 3 ) ;


• il setting interno è costituito dall'atteggiamento dello psicoterapeuta (punti

4, 5 , 6);
• la relazione psicoterapeuta-paziente si caratterizza per il fatto che lo psico­

terapeuta non fissa la propria attenzione in una determinata direzione (attenzione


liberamente fluttuante) , interviene il meno possibile, e lo fa solo per interpretare,
ovvero per favorire, nei momenti opportuni, la presa di coscienza del significato
dei moti affettivi del paziente; il paziente si trova in una condizione che favorisce
la regressione in quanto è sdraiato sul divano/lettino (diminuzione della motri­
cità; pastura supina) e ha lo psicoterapeuta alle sue spalle; in modo speculare
all'«attenzione liberamente fluttuante» dello psicoterapeuta deve dire tutto ciò che
gli viene in mente (libere associazioni ) .
Come scrive Merton Gill [ 1 994; trad. it. 1996, 38], «La concezione del tran­
sfert sostenuta a lungo è che non ci sia una relazione tra due persone, ma piuttosto
una visione distorta dello psicoanalista da parte dell'analizzando». Se, infatti, lo
psicoterapeuta svolge correttamente il suo lavoro, in modo cioè neutrale e anoni­
mo, il transfert si manifesta spontaneamente e non viene distorto dalla personalità
290 CAPITOLO l ]

dello psicoterapeuta stesso. Certamente il transfert coinvolge sempre la coppia


psicoterapeuta-paziente, ma in questa prospettiva il processo avviene nella mente
del singolo paziente.
Secondo questa visione, quindi, nella stanza terapeutica ci sarebbe un solo
attore, il paziente, osservato con attenzione da un'altra persona, lo psicoterapeuta,
che si fa interprete, ma non direttamente partecipe, della trama che il paziente
proietta sullo schermo bianco costituito dallo psicoterapeuta medesimo, a parte le
dinamiche controtransferali che, sia se le consideriamo un elemento di disturbo da
eliminare, sia se le vediamo come veicolo di informazioni sul transfert del paziente,
sono esclusivamente utilizzate per comprendere l'unico attore in scena.
Lo psicoterapeuta in questo modo, protetto da un coinvolgimento emotivo ,
dal silenzio, dalla distanza, dall'anonimato oltre che dalla sua specifica formazione,
è in grado di aiutare a discernere ciò che è reale da ciò che è una distorsione del
paziente. Lo psicoterapeuta sceglie, così, la cornice che reputa «vera» e «oggettiva»
e il suo lavoro è finalizzato a interpretare tutte le modificazioni di questa cornice,
operate dal paziente, che costituiscono il «falso» [Codignola 1 977] . Nella teoria
pulsionale è implicita, quindi, una visione monadica della mente: l'unità fondamen­
tale dello studio è l'individuo e tutto ciò che è interpersonale deve essere riportato
alle vicissitudini della pulsione e della difesa, all'intrapsichico e all'ambito della
psicologia unipersonale.
Si configura così un'impostazione filosofico-epistemologica realista che vede la
funzione del setting come una cornice prestabilita e statica all'interno della quale
si sviluppa il processo terapeutico.
Queste regole, per quanto approfondite e occasione di molti dibattiti, sono
rimaste un punto di riferimento fisso per i terapeuti di formazione psicoanalitica
per molti anni, ma il loro significato nell'economia del processo terapeutico ha
subito una serie di trasformazioni.
Pur rintracciando un'ortodossia nella tecnica evidenziata, come si diceva, più
dai successori che dal medesimo Freud, appare interessante soffermarsi su alcuni
passaggi nei quali Freud mostra una grande apertura che apre la strada ai cambia­
menti che successivamente emergeranno modificando la funzione del setting, in
particolare relativamente alla funzione dello psicoanalista nel suo ruolo di psico­
terapeuta [Collovà 2013 ] .
Nei Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico Freud scrive:

le regole tecniche che mi accingo a proporre sono state ricavate dalla mia personale plu­
riennale esperienza, dopo che risultati sfavorevoli mi h anno indotto ad abbandonare altri
metodi che avevo intrapreso. [ . . . ] ; devo tuttavia dire esplicitamente che questa tecnica si è
rivelata l'unica adatta alla mia individualità e non pretendo di escludere che una personalità
medica di tutt'altra natura possa essere spinta a preferire un atteggiamento diverso di fronte
al malato e al compito che deve affrontare [Freud 1912; trad. it. 1975, 532-54 1 ] .

E in Inizio del trattamento aggiunge:

comunque mi sembra opportuno presentare queste regole come «consigli» e non pretendere
che vengano accettate incondizionatamente. La straordinaria diversità delle costellazioni
psichiche di cui siamo costretti a tener conto, la plasticità di tutti i processi psichici e la
quantità dei fattori che si rivelano di volta in volta determinanti, sono tutti elementi che si
oppongono a una standardizzazione della tecnica [Freud 1 9 1 3b; trad. it. 1975, 3 3 3 ] .
SETTINC; 291

3. G l i svi l u ppi della psicoanalisi e le prime variazioni sul setting

I diversi teorici della psicoanalisi che hanno lavorato a partire dalle idee di
Freud, operando e scrivendo secondo il proprio quadro teorico di riferimento
influenzato dai vari contesti storici e sociali in cui si sono trovati a vivere, hanno
impresso un complesso sviluppo alla teoria c alla prassi della psicoanalisi.
Fino agli anni '50, infatti, non esiste una sistematizzazione delle procedure
relative alla teoria della tecnica. Nel 1 939 Glover pubblica un questionario sommi­
nistrato a giovani terapeuti inglesi al fine di raccogliere informazioni sulle pratiche
e le abitudini dei suoi colleghi in gran parte proprio su quegli aspetti che oggi
sintetizziamo sotto la voce «setting».
Successivamente Feniche! pubblica il suo volume sulla tecnica psicoanalitica,
in cui, a parte l'insistenza sulla neutralità dello psicoterapeuta e qualche breve
riflessione sull'uso del divano, non fa riferimenti ad altri elementi concernenti il
setting [Fenichel 1 94 1 ] .
Nel 1953 con Eissler si comincia a problematizzare l a dimensione del setting.
Eissler, psicoanalista custode degli archivi di Freud, cerca di dare una sistematiz­
zazione teorica alle modificazioni che sempre più psicoanalisti introducono nel
setting. Queste modificazioni sono motivate, in parte, dalla maggiore gravità dia­
gnostica dei pazienti a seguito dell'allargamento dell'applicazione della psicoanalisi
e dall'aumento dei pazienti che proprio in quel periodo, a cavallo degli anni '50, si
rivolgono agli psicoanalisti. Eissler chiama «modello tecnico di base» quello fondato
sull'interpretazione come strumento tecnico esclusivo, essendo tuttavia consapevole
del fatto che tale strumento non è sempre utilizzabile, ma a volte è accompagnato
o sostituito da strumenti come «rassicurazioni», «consigli», strumenti che chiama
«parametri di una tecnica».
La questione sulle variazioni e modificazioni del setting diventa quindi centrale
intorno agli anni '50 e il dibattito sul setting comincia ad assumere la fisionomia di
un campo d'indagine relativamente autonomo e definito.
Alcuni autori [Nissim Momigliano 1988; Ferraro e Genovese 1986] sintetizzano
il dibattito di quegli anni da una prospettiva soprattutto storico-sociale. Nel corso
degli anni '30, mentre la psicoanalisi e il movimento psicoanalitico sono ormai
largamente affermati in quasi ogni paese, avviene la diaspora degli psicoterapeuti
viennesi, tedeschi e ungheresi in grande maggioranza di origine ebraica. Alcuni
andranno a Londra dove, al fianco di Anna Freud, si confronteranno con gli psico­
analisti più vicini alle posizioni teoriche e alla tecnica psicoterapeutica di Melanie
Klein, che si dichiara la vera erede di Freud. Molti altri, invece, si trasferiranno nel
Nord America, dove contribuiranno in modo determinante a quello sviluppo in
senso ortodosso che verrà denominato «classico» e che sarà tipico della psicoanalisi
americana negli anni '40 e '50.
Si vanno delineando così due diverse direzioni teoriche che percorreranno la
storia del movimento psicoanalitico, quella che possiamo chiamare il modello strut­
turale delle pulsioni e quella che in senso ampio possiamo denominare modello delle
relazioni oggettuali, con un baricentro via via sempre più posizionato sul rapporto
tra mondo interno e relazioni interpersonali.
Nel movimento psicoanalitico si dispiegano quindi posizioni teoriche diverse,
che avranno diversi sviluppi: la psicologia dell'lo, che rimane la corrente teorica
più vicina al modello pulsionale freudiano; la psicoanalisi delle relazioni oggettuali,
292 CAPITOLO 11

che sposta più l'accento sugli aspetti relazionali, ma focalizzandosi sulle relazioni
interiorizzate e sulle fantasie inconsce; la psicoanalisi interpersonale, che si concentra
maggiormente sul concetto di «campo interpersonale» e sul ruolo dell'ambiente
nello sviluppo dell'individuo; la psicologia del Sé, intorno agli anni '70, che si con­
centra anch'essa sugli aspetti relazionali, ma ponendo l'attenzione sul polo del Sé
nelle relazioni piuttosto che sul campo interpersonale2•
Queste diversificate evoluzioni teoriche nascono in parte dalla necessità di
declinare e mettere a punto nella prassi clinica le concettualizzazioni freudiane e
in parte dalla necessità di comprendere se la tecnica messa a punto da Freud sia
estendibile a nuovi quadri psicopatologici (psicosi o gravi disturbi di perSonalità),
diversi da quelli trattati dallo stesso Freud, che si vanno delineando anche a causa
dei cambiamenti storico-sociali di quegli anni, come ad esempio le due guerre mon­
diali. Tutto ciò si traduce in dibattiti e controversie che vengono affrontati in vari
scritti e in alcuni importanti congressi internazionali della Società psicoanalitica.
Le questioni centrali sono:
l. la tecnica classica è estendibile a pazienti con un Io non integro, cioè non
in grado di mantenere un adeguato rapporto con la realtà?
2. l'interpretazione del transfert è l'unico strumento terapeutico?
La prima questione nasce, come si diceva, dalla necessità di trattare nuovi
quadri psicopatologici, come psicosi o gravi disturbi della personalità, mentre la
seconda questione nasce dalla pratica clinica che spinge ad approfondire la natura
e lo sviluppo del transfert.
Sono molti gli autori [Macalpine 1950; Lagache 1 95 3 ; Greenacre 1 954] che
contribuiscono, in quegli anni, a segnare una svolta, approfondendo in modo
particolare questo tema. L'attenzione si sposta sensibilmente da quella distanza e
neutralità dello psicoterapeuta concepita da Freud a ciò che accade nella relazione
terapeutica nel «qui e ora». Balint, nella sua rassegna del 1950 sul cambiamento
degli obiettivi e delle tecniche in psicoanalisi, sostiene che Freud, a causa della sua
tendenza «fisiologica o biologica», ha limitato la propria teoria definendo i concetti
e gli obiettivi di base della psicoanalisi in termini di mente individuale, e sottoli­
nea che, nella relazione terapeutica, le relazioni verso l'oggetto sono d'importanza
preponderante, proponendo quindi un'integrazione tra la teoria classica e quella
delle relazioni oggettuali.
Come ricordano Nissim Momigliano [ 1 988] e Genovese [1988] , ci sono state al­
cune occasioni importanti (tre congressi tenutisi rispettivamente nel 1957, nel 1961
e nel 1 975) durante le quali gli psicoterapeuti si sono confrontati su questi temi.
Si passa da posizioni moderatamente inclini a considerare utili alcune variazioni
della tecnica classica, purché molto limitate e non sostitutive dell'interpretazione
[Greenson 195 8 ; Loewenstein 1 958] , a quelle rigorosamente fedeli al primato
assoluto dell'interpretazione [Rosenfeld 1 958; Eissler 1958] , a quella decisamente

2 Fuori da questi sviluppi, in un binario concettuale parallelo, si collocano la psicologia individuale

di Adler (intorno al l 9 1 1 ) e la psicologia analitica di Jung (intorno al 1 9 13 ). Adler, in particolare, cri­


tica il ruolo attribuito da Freud agli istinti sessuali, mettendo in luce, invece, quello svolto dai fattori
ambientali e sociali. ] ung, da parte sua, si distacca da Freud per un dissenso sulle nozioni di «libido» e
di «Inconscio». Per Jung la libido freudiana è troppo ricca di determinazioni sessuali; bisogna, invece,
intenderla come un'energia primaria desessualizzata; ]ung distingue, inoltre, l' «Inconscio personale>>,
di cui parla Freud, dall' «Inconscio collettivo>>, costituito da un complesso di «archetipi>>, cioè di im­
magini simboliche che formano la memoria dell'umanità [Vegetti Finzi 1986] .
SETTJNG 293

più aperta di Bouvet [ 1 958] , che suggerisce in talune situazioni delle vere e proprie
modificazioni del setting o della neutralità dello psicoanalista [Nacht 1958] come
fattori terapeutici complementari.
Talvolta il dibattito ruota intorno alla questione dell'analizzabilità, con il meto­
do classico, di pazienti psicotici e borderline e dell'importanza (spesso teoricamente
negata, ma clinicamente riconosciuta) di elementi della relazione terapeutica diversi
dall'interpretazione.
Il dibattito centrato sui concetti di transfert e interpretazione e sulla rigidità o
flessibilità del setting è animato quindi dalla necessità di trovare nuove soluzioni.
La riflessione analitica si sposta così dalla prevalente esigenza di assimilare il pa­
ziente alla tecnica a quella di confrontarsi con i problemi reali posti dall'utenza,
ponendosi quindi nella direzione di contestualizzare la tecnica; in quest'ottica il
rapporto interpretazione/setting assume una diversa configurazione rispetto a
quella tradizionalmente proposta. Il setting cessa di essere una situazione di cor­
nice per cominciare a essere considerato come elemento che ha specifici effetti sul
processo terapeutico.
Da un punto di vista concettuale si va verso l'approfondimento, in particolare,
degli stati preverbali come matrici originarie della patologia psichica: ciò impone una
discussione sulla funzione esclusiva dell'interpretazione come fattore terapeutico.
Di particolare interesse è la riflessione di Codignola [ 1 977 ] , il quale si interroga
sulla funzione del setting nel processo interpretativo e si sofferma su alcuni aspetti
che superano una certa rigidità della visione tradizionale. Codignola suggerisce la
necessità di rivedere il concetto stesso di interpretazione, inteso come unico stru­
mento dello psicoterapeuta per svelare il «falso» del paziente e sollecita la necessità
di prendere in considerazione «variazioni» del setting su due piani: uno verticale,
storico, in cui un determinato setting è stato molto presto assunto come ideale ed
è rimasto tale ma solo perché l'unico possibile, per le nevrosi, in una determinata
situazione storico-sociale; e un altro piano, orizzontale, in cui le variazioni del set­
ting sono sollecitate da nuovi orientamenti teorici e nuovi quadri psicopatologici.
L'incontro della psicoanalisi, quindi, con nuove tipologie di pazienti porta allo
sviluppo di nuovi modelli di ftmzionamento della mente e nuove ipotesi psicopato­
logiche: tale sviluppo, come si diceva, cambia la funzione del setting nel processo
di cura.

4. Gli effetti delle nuove ipotesi psicopatologiche sul setting

Le evoluzioni teoriche della psicoanalisi alle quali si accennava (la psicologia


dell'lo, la psicoanalisi delle relazioni oggettuali, la psicoanalisi interpersonale, la
psicologia del Sé) , pur differenziandosi tra loro sul modo di concettualizzare la
psicopatologia, hanno in comune il fatto di ipotizzare l'origine della psicopatologia
nelle fasi precoci dello sviluppo, in particolare nel periodo preedipico, a differenza
di Freud che colloca l'origine della nevrosi nella fase edipica. Questo modello di
psicopatologia, che Mitchell [ 1 988] definisce «modello dell'arresto evolutivo»,
pone l'accento sulla relazione più primitiva del bambino con la madre. In questo
caso l'azione terapeutica ha l'obiettivo di modificare le distorsioni prodotte dalle
«fantasie» legate a queste prime vicissitudini dello sviluppo e annovera tra i maggio­
ri esponenti di questo modello autori come Melanie Klein, Bion, Winnicott e Kohut.
294 Ci\PITOLO 11

L e concettualizzazioni di Melanie Klein [ 1 952a] e le successive modifiche di


Bion [ 1 959] portano a una visione della relazione psicoterapeuta-paziente divers a
da quella di Freud, nel senso che psicoterapeuta e paziente sono coinvolti molto
più profondamente sul piano della relazione reciproca che nella visione freudiana.
Il paziente non si limita a rivelare i contenuti della sua mente a un osservatore
neutro, ma vive la relazione terapeutica come molto più legata alle dinamiche
affettive che prendono corpo nella stanza d'analisi. A volte lo psicoterapeuta può
essere percepito come il seno buono e le sue interpretazioni «sono» il buon latte,
protettivo e nutriente; a volte è il seno cattivo e le sue interpretazioni possono es­
sere sentite come dannose. I kleiniani rimangono fermi sulla necessità del massimo
rigore nell'osservanza del setting nell'idea che non esistano fenomeni «neutri» o
da trattare meramente in senso oggettivo (vedi per esempio la discussione sulle
regole del setting esterno) e danno enfasi all'uso dell'interpretazione di transfert
come strumento analitico centrale. Un'ulteriore differenza con la posizione classica
è legata alla concettualizzazione sulla natura del transfert che viene inteso come
«situazione totale» Uoseph 1 989] , ossia il presupposto che ogni elemento della
relazione terapeutica e della cornice del setting possa avere sempre anche una
connotazione affettiva transferale e alla maggiore attenzione al «qui e ora» della
situazione analitica.
Secondo Winnicott l'obiettivo della cura è fornire le funzioni genitoriali man­
canti sia nella situazione psicoanalitica sia nella persona dello psicoterapeuta. Per
lui la psicopatologia rappresenta una fissazione sul piano evolutivo in quanto lo
sviluppo del Sé procede secondo un corso prefissato di bisogni emotivi ai quali il
caregiver risponde fornendo l'ambiente affettivo necessario. Se il caregiver non è di­
sponibile il processo di sviluppo del Sé rallenta fino ad arrestarsi e i bisogni precoci
insoddisfatti si conservano in un guscio protetto da difese; la crescita è possibile solo
quando e se le funzioni del caregiver mancanti vengono ottenute e/o compensate
in qualche modo. Nella prospettiva di Winnicott, quindi, il setting diventa di per
sé un fattore terapeutico, in quanto per il suo carattere di regolarità, attendibilità
e sostegno si pone come «ambiente facilitante» il processo maturativo, allo stesso
modo delle iniziali cure materne. Winnicott [ 1963 ] considera, infatti, il setting, per
la sua stabilità e fonte di sicurezza, come l'occasione di un «ritorno organizzato
alla dipendenza primitiva»: la regressione nel setting appare un fattore necessario
in quanto si ipotizza che l'ambiente attuale possa, sebbene in ritardo rispetto alle
problematiche dell'infanzia, adattarsi adeguatamente ai bisogni del paziente.
Va anche precisato che ciò che è importante, per Winnicott, non è tanto il
contenuto dell'interpretazione e la sua capacità di generare insight, ossia il suo
aspetto disvelante, quanto il modo in cui l'interpretazione permette al paziente di
vivere la relazione con lo psicoterapeuta nei termini della relazione madre-bambino.
Da questo spostamento d'accento dall'interpretazione, come unico strumento
terapeutico, al setting, come fattore terapeutico esso stesso, consegue che talvolta
l'uso dell'interpretazione può risultare addirittura dannoso se il processo matura­
rivo del paziente non ha ancora portato a un sufficiente rafforzamento dell'Io, tale
da consentire non solo l'elaborazione dei contenuti, ma anche solo la tollerabilità
della funzione interpretativa. È ciò che vari autori [Bonaminio 1 993 ; Marion 2006]
hanno affrontato nei termini del «non interpretare», alludendo appunto al fatto
che con pazienti il cui processo di integrazione del Sé e la cui costruzione di uno
spazio psichico personale, all'interno del quale la propria esperienza può essere
SETTI:--IG 295

rappresentata e pensata, sono stati compromessi è maggiormente necessario soste­


nere il paziente più che interpretarne i conflitti.
Concetti come quello di «madre-ambiente» e di «spazio-transizionale» hanno
quindi inciso profondamente sulla definizione del setting, così come, nella medesi­
ma direzione, hanno avuto un notevole impatto nella riflessione relativa alla teoria
della tecnica psicoanalitica i concetti di «contenimento» e «reverie» materna di Bion
[ 1 959] , in quanto attribuiscono al setting di per sé una precisa funzione terapeutica.
Il contributo di Kohut [ 1 97 1 ] ha portato anch'esso a una revisione e a un ap­
profondimento del concetto di setting in particolare rispetto alla valorizzazione di
aspetti come «idealizzazione» e «gratificazione» nella relazione di transfert che era­
no stati messi da parte nella visione tradizionale. Per Kohut l'indisponibilità emotiva
dei genitori nei riguardi del bambino è la radice fondamentale della psicopatologia,
così come la disponibilità degli stessi a lasciarsi «usare», come oggetti-Sé, dal Sé in
via di sviluppo è la radice della salute mentale. Kohut, in particolare, sostiene che
quando i genitori falliscono nel provvedere al sostentamento dei bisogni narcisistici
dei figli il Sé grandioso arcaico e l'immagine parentale idealizzata si irrigidiscono
portando al fallimento del processo d'integrazione delle varie strutture del Sé. Il
transfert permette la proiezione da parte del paziente di bisogni non gratificati: lo
psicoterapeuta, attraverso l'analisi del transfert, può individuare le strutture psi­
cologiche deficitarie e, ponendosi come oggetto-Sé di cui il paziente ha bisogno,
può facilitare una maturazione del Sé a partire dal momento in cui lo sviluppo è
stato bloccato.
L'evoluzione dei concetti cui abbiamo sopra fatto cenno relativi alla teoria della
tecnica ha via via gettato un ponte tra una psicologia esclusivamente unipersonale
e una psicologia bipersonale con un dibattito che è ancora in corso}. Il setting è
ancora una cornice e al posto dello psicoterapeuta come «schermo bianco» subentra
il concetto di psicoterapeuta «seno» [Klein 1952a] , «contenitore» [Bion 1 959] o
«colui che offre holding» [Winnicott 195 6] , «oggetto-Sé» [Kohut 1 97 1 ] . Da questo
momento in poi però si comincia a delineare nella tecnica psicoanalitica una mag­
giore attenzione alla modalità «disposizionale» della mente dello psicoterapeuta che
non coincide con l'interpretazione, ma che tuttavia la fonda e la rende possibile.
Prende progressivamente forma, come abbiamo già osservato, distinguendosi dal
setting esterno, l'immagine del setting interno come atteggiamento mentale dello
psicoterapeuta.
In un importante lavoro sul setting, Bleger [ 1 967] distingue, infatti, tra «cor­
nice» come componente costante, istituzionale costituita dal setting, da un lato, e

3 Sebbene il movimento psicoanalitico abbia accentuato l'interesse verso gli aspetti rclazionali

e intersoggettivi del rapporto psicoterapeutico, come ampiamente segnalato nei vari contributi di
questo testo, vi sono nella psicologia dinamica posizioni differenziate: per esempio, secondo Aron
[1 996) , se l'accento è posto prevalentemente sulle relazioni intcriorizzate saremmo ancora dentro
una visione più vicina alla psicologia unipersonale nel senso che lo psicoterapcuta sarebbe meno
interessato all'esperienza della relazione da pane del paziente che alla wmpremione della stessa (cfr.
Fonagy c Target 2009; trad. it. 2010, 43 ] . In realtà vi è negli ultimi anni un crescente confronto tra gli
psicoterapeuti che fanno riferimento alla prospettiva della psicoterapia dinamica, per esempio tra gli
autori che seguono il modello kleiniano-bioniano e quelli che seguono maggiormente la prospettiva
intersoggettivistica. In quest'ultima direzione sono assai interessanti sia il già citato saggio di Seligman
[201 0 J , sia il recente dibattito su «Psychoanalytic Dialogues» sul concetto di Jlnalytic Pield a partire
da due saggi di Donne! Stcrn [Ferro e Civitarese 201 3 ; Stern 201 3a; 2013 b] .
296 CAPITOLO 1 1

«processo» definito dall'insieme delle variabili nella relazione terapeutica, dall'altro.


Bleger attribuisce alla parte invariante del setting la funzione di alleato della parte
psicotica della personalità, la parte più indifferenziata che avrebbe il compito di
proteggere dalla separazione e confermare la funzione di sostegno della simbiosi.
La funzione del setting, per Bleger, sarebbe quella di dare modo alla relazione pri­
mitiva simbiotica e indifferenziata di essere rivissuta e di poter avviare un processo
di desimbiotizzazione [Civit arese 2008] .
Ciascuna di queste correnti di pensiero nel tempo sarà spinta ad approfondire
sempre di più gli aspetti relazionali, la natura del transfert e del controtransfert,
influenzata dai nuovi cambiamenti di prospettiva che cominciano a configurarsi a
partire dagli anni '60. Il passaggio dal considerare il setting la cornice �ll'interno
della quale si svolge il processo terapeutico al considerarlo parte integrante del pro­
cesso stesso è avviato, ma dobbiamo vederlo come un processo ancora in progress.

5. Variazioni e rotture del setting

Come abbiamo già accennato nei paragrafi iniziali si verifica un cambiamento


concettuale fondamentale intorno agli anni '60 con il concetto di «campo biperso­
nale», che segna un punto di valico tra la visione classica e i nuovi sviluppi teorici
interessati maggiormente agli aspetti relazionali legati al contributo dell' in/ant
research e della teoria dell'attaccamento. La struttura delle relazioni precoci non è
più ricostruita retrospettivamente (il cosiddetto «bambino clinico»), ma le relazioni
vengono direttamente osservate nel loro sviluppo e nelle loro implicazioni sullo svi­
luppo dell'individuo; il ruolo dell'ambiente acquista sempre più rilevanza essendo
riconosciuto come determinante non solo nelle prime fasi della vita, ma in tutto il
ciclo vitale. Ciò, di conseguenza, modifica il modo di intendere la psicopatologia
e la relazione terapeutica.
Il concetto di «campo bipersonale», introdotto dai Baranger [Baranger e Ba­
ranger 1 969] , rappresentanti dello sviluppo della psicoanalisi in Argentina, nasce,
infatti, come approfondimento della teoria delle relazioni oggettuali e dalle sol­
lecitazioni delle varie correnti che concentrano sempre più l'attenzione verso la
relazione terapeutica in quanto tale approfondendone i meccanismi del transfert e
del controtransfert. Per questi autori la relazione terapeutica deve essere formulata
non come situazione di una persona di fronte a un personaggio indefinito e neutrale,
ma come situazione di due persone inestricabilmente legate e complementari per
la durata della relazione e contenute in uno stesso processo dinamico. I Baranger si
concentrano sulla relazione terapeutica nella sua complessità fatta anche di scambi
verbali e non verbali e una tematica importante che approfondiscono, non a caso,
è quella del linguaggio del corpo: nel setting la partecipazione del corpo non è,
infatti, una caratteristica solo del paziente, ma anche lo psicoterapeuta risponde con
il proprio corpo alla comunicazione inconscia del paziente (vedi a tale proposito
il recente saggio di Alessandra Lemma [2014] ) .
Comincia a emergere così una visione diversa del coinvolgimento e del ruolo
dello psicoterapeuta, che diventa sempre più soggetto e non oggetto nella relazione.
Il lavoro dei Baranger viene introdotto in Italia da Ferro [ 1 996] e da altre figure
significative del panorama italiano come Corrao [ 1986] e Gaburri e De Simone
Gaburri [ 1 976] e Turillazzi Manfredi [ 1 994] , che mettono in evidenza come,
SETTJNG 297

QUADRO 1 1 .2 .
Quadranti del setting

Ferro individua quattro quadranti o aspetti prevalenti del setting:


l. setting come insieme di regole formali (aspetti pratico-organizzativi che ca­
ratterizzano l 'incontro, come le caratteristiche della stanza, l'orario, l'onorario ecc.);
2 . setting come assetto mentale dello psicoterapeuta, definito anche «set­
ting interno» (contributo che lo psicoterapeuta dà con la sua mente, le sue
fantasmatizzazioni, la sua creatività al lavoro con il paziente) ;
3. rotture del setting da parte del paziente (sedersi in un posto diverso da
quello indicato, chiedere continui sposta menti dell'orario delle sedute, mancare
alle sedute ecc . ) . Tali rotture, se osservate e non interpretate, permettono di
cogliere alcune modalità del funzionamento mentale del paziente;
4. rotture del setting da parte dello psicoterapeuta. Tali rotture possono
essere formali (annullamento o spostamento delle sedute per malattia o impegni
professionali) o sostanziali (pensieri riguardanti altri pazienti o difficoltà perso­
nali). Le rotture sostanziali, in particolare, generano delle distorsioni nel setting
diminuendo la ricettività dello psicoterapeuta.

rispetto alla tecnica classica più centrata sul paziente, siano maggiormente da sot­
tolineare le modalità trasformative del campo dinamico bipersonale, fondato dalla
situazione analitica, nell'ambito della quale si verificano gli eventi che coinvolgono
i due coattori delle vicende processuali e cicliche della ricerca e della cura. Ferro,
in particolare, propone alcune considerazioni specifiche riguardanti il setting, i
quadranti del setting, in base ai quali la visione del setting appare assai articolata
comprendendo sia un insieme di regole formali, sia l'assetto mentale dello psico­
terapeuta, sia la condizione che implica possibili rotture del setting stesso da parte
del paziente e/o dello psicoterapeuta.

Come sottolinea Bleger [ 1 967] , il setting è di per sé muto; ci rendiamo con­


to della sua importanza solo quando si infrange o viene a mancare e proprio in
quanto virtualmente stabile e al di fuori della processualità diventa, appunto, il
garante della possibilità del cambiamento psichico. Flegenheimer [ 1982] osserva
acutamente che «il setting è come il buio al cinematografo, come il silenzio nella
sala da concerto».
Argentieri Bondi [2001 ] mette in evidenza alcune variazioni del setting, varia­
zioni che rappresentano degli attacchi al setting e che si manifestano a volte a livello
inconscio e a volte a livello della coscienza. Rispetto ai primi fa riferimento a due
possibili «patologie del setting»: l' ossessività e l'imitazione. Per la sua importanza
basilare il setting è esposto a continue insidie da parte delle forze che si oppongono
al processo terapeutico: difese, resistenze che tentano di eludere il cambiamento
per la ragione che cambiare è doloroso. Quando il setting assume una caratteristi­
ca ossessiva di rispetto delle regole, perde totalmente la sua funzione benefica al
servizio del rapporto. La coppia psicoterapeuta-paziente lo usa, invece, come una
corazza difensiva, che tiene a bada le tempeste emozionali.
Un'altra possibile «patologia» è quella di usare la procedura terapeutica in
maniera imitativa nel senso che gli elementi esteriori del rituale sono i più facili
298 CAPITOLO 11

da mimare divenendo una sorta di rituale stereotipato e fine a se stesso. L'uso del
lettino, il silenzio, fattori estremamente importanti all'interno della costruzione di
uno scenario terapeutico, possono, per esempio, diventare nna sorta di atteggia­
mento ieratico e rituale in psicoterapia prendendo il posto della capacità di ascolto
e di riflessione.
L'ossessività e l'imitazione possono quindi divenire attacchi al setting essen­
zialmente di ordine difensivo Inconscio in quanto lo degradano dalla sua funzione
di protezione e sostegno a una difesa e lo tradiscono nel suo significato profondo
proprio fingendo di rispettarlo. Ci sono, tuttavia, anche attacchi di altra natura che
operano, invece, a livello della coscienza.
Qualunque sia, infatti, l'accordo iniziale preso con il paziente il setting può
subire dei cambiamenti, in termini di variazioni dovute a situazioni cqntingenti
della vita reale del paziente e dello psicoterapeuta, o in termini di rotture del setting
messe in atto dal paziente oppure dallo psicoterapeuta stesso. In questa direzione
Argentieri Bandi distingue tra variazioni, modificazioni e deviazioni.
• Le variazioni, spesso microvariazioni, sono quelle che avvengono quotidia­

namente nel rapporto con i vari pazienti, di cui ci si rende conto solo dopo che
la variazione è avvenuta: ritardare di qualche istante ad aprire la porta; indugiare
oltre l'orario stabilito; concedere uno spostamento o un recupero di una sedu­
ta saltata; accettare qualche piccolo dono. È la capacità di consentirsi queste mi­
crovariazioni quotidiane, e di riconoscer/e come tali, come sintomi di un ulteriore
problema da capire e da ricondurre sul terreno della terapia, a distinguere un
rapporto vivo e vitale da uno sclerotico dell' ossessività e della coazione e da quello
della falsa perfezione imitativa. È evidente come sia proprio la virtuale fissità del
setting che conferisce senso e valore a queste variazioni, come oscillazioni intorno
a un baricentro al quale fare continuamente riferimento e ritorno. Un processo,
come scrive Bleger [ 196 7] , può essere studiato solo se si mantengono sempre le
stesse costanti: ciò che conta non è la realizzazione di un setting ideale, ma la ten­
denza a mantenerlo.
• Le modificazioni si riferiscono ai vari psicoanalisti di diverse aree geografi­

che e culturali che hanno attuato innovative modificazioni della tecnica classica.
Rosenfeld, ad esempio, in polemica con Eissler nel Congresso del 1 957 a Parigi,
ha mostrato come si possano curare con la psicoanalisi pazienti «impossibili», un
tempo relegati nella categoria delle controindicazioni. Rosenfeld ha trattato psico­
tici e borderline, tossicodipendenze e perversioni nell'assetto del setting classico,
sia pure con una serie di presidi istituzionali integrativi.
• Le deviazioni possono riguardare il ritmo degli incontri o la posizione reci­

proca dei due protagonisti. A livello manifesto possono essere anche molto simili
alle variazioni o alle modificazioni, ma ciò che le distingue è l'atteggiamento dello
psicoterapeuta che le attua; la conseguenza dannosa, infatti, non è quasi mai legata
alla trasgressione in sé, ma al fatto che non venga riconosciuta come tale, per esempio
come evento significativo e ineludibile di una crisi del rapporto. In altri termini, il
fatto che la seduta duri 45 o 50 minuti, che ci si dia del lei o del tu, che il paziente
stia seduto o sdraiato, potrebbe non essere molto rilevante, ciò che conta è che
proprio quel particolare contratto, che all'inizio del rapporto era stato stipulato in
un certo modo, con quel singolo paziente, venga poi violato e infranto senza che
ci sia un'elaborazione: ciò può compromettere non solo l'alleanza terapeutica, ma
anche ostacolare la lettura dell'evoluzione del processo terapeutico.
Sr:TTING 299

Anche Collovà [20 13 ] , rispetto ai possibili cambiamenti del setting, distingue


tra variazioni imposte, conquistate e occasionali:
• le variazioni imposte sono determinate da una contingenza reale della vita del

paziente, come cambiamenti nel lavoro, che impongono di variare l'organizzazione


temporale delle sedute. Queste variazioni rimandano sempre a una dimensione
emotiva che deve essere oggetto del lavoro terapeutico;
• le variazioni conquistate prevedono una graduale costruzione del setting con

particolari tipologie di pazienti e vengono effettuate tenendo conto del materiale


che il paziente porta nella fase iniziale della terapia. Si può passare così da due
sedute settimanali vis à vis a tre sedute settimanali sul lettino cocostruendo con il

QUADRO 1 1.3.
Rotture d el setting: esempi clinici

La rottura del setting da parte del paziente


Nino Ferro in una vignetta clinica mette in luce come un paziente potrebbe
vivere a distanza di tempo l'avere saltato una seduta: «Una volta mio fratello
mi aveva colpevolizzato tantissimo perché a Ercolano da un grande mucchio di
sassolini ne avevo portato via uno; mi aveva detto che così facendo rischiavo che
non potessero più ricostruire un intero mosaico, perché sarebbe mancato quel
pezzettino». Nel paziente emergono la colpevolizzazione e il timore che saltare
una seduta del «mucchio» possa rovinare la terapia [Ferro 1 996, 156] .

La rottura del setting da parte dello psicoanalista


Una paziente (bambina Ji 10 anni con balbuzie) all'inizio di una seduta che
lo psicoterapeuta comincia con 1 0 minuti di ritardo dice:
Paziente: «Oggi non ho nulla in mente».
Psicoanalista: «Succede, dovremo essere pronti a utilizzare il nostro acchiap­
pa pensieri!».
Paziente: <<Ho deciso, ti spiego come si fanno i puzzle. Devi cominciare dalla
cornice, altrimenti non capisci nulla, non hai punti di riferimento. Per esempio
adesso sto facendo un puzzle di 750 pezzi e quasi tutto sul rosso, per questo è
molto difficile».
Psicoanali.rta: «Deve essere molto faticoso dover mettere tanti pezzi insieme
e mi sono sempre chiesto se esiste una tecnica per iniziare».

Paziente: «Adesso ti faccio vedere».


Prende un foglio e comincia a disegnare dei pezzi di un puzzle disposti tutti
intorno finché non chiude completamente il rettangolo e li colora di un rosso
molto tenue. Poi, dal centro alla base, inizia a disegnare dei pezzi in verticale
nella direzione del centro dell'immagine e comincia così a rintracciare una figura
che diventa una tigre con la bocca spalancata di un rosso fuoco, sollevata sulle
zampe posteriori.
La paziente risponde assumendo la funzione di «custode del setting». Riesce a
comunicare la rabbia che l'attesa le ha provocato e grazie alla comprensione dello psi­
coterapeuta riesce a trasformare «oggi non ho nulla in mente» in un disegno/sogno
e a ricordare, inoltre, allo psicoterapeuta l'importanza della cornice dell'incontro,
cornice che fa da contenitore alla possibilità stessa di pensare [Collovà 201 3 , 44-45 ] .
3 00 CAPITOLO 1 1

paziente il significato che questa variazione spazio-temporale assume rispetto alle


sue dinamiche interne;
• le variazioni occasionali si riferiscono, ad esempio, alla necessità dello psi­

coterapeuta di saltare una o due sedute. Anche queste variazioni possono deter­
minare l'attivarsi di funzionamenti mentali inconsci sia nel paziente che nello
psicoterapeuta e questi, se elaborati, possono essere funzionali a consentirne una
loro analizzabilità.

6. La funzione del setting nella visione attuale

Come abbiamo già osservato, il modo di concepire le relazioni subisce un'im­


portante svolta a partire dagli anni '70 grazie anche al contributo dato dal paradig­
ma teorico dell'in/ant research, dalla teoria dell'attaccamento e dalla prospettiva
intersoggettiva. Questi cambiamenti concettuali conducono a un nuovo modello
di psicopatologia, definito da Mitchell [ 1 988] «modello del conflitto relazionale»:
le persone non vengono più viste come vittime passive dei loro traumi infantili,
ma nel concetto relazionale di conflitto gli antagonisti sono le configurazioni re­
lazionali. In questo modello, inoltre, Mitchell sottolinea il senso di essere causa
delle proprie azioni.
Il metodo psicoanalitico, pertanto, non è qualcosa che mette in luce ciò che si
trova nascosto sotto la superficie ma è un modo di organizzare ciò che si esprime
negli aspetti peculiari di quella relazione psicoterapeutica. Secondo la prospettiva
ermeneutica di Spence [ 1 982], il processo psicoanalitico non è, in altri termini, un
processo di ricostruzione archeologica, ma è la costruzione attiva di un racconto
della vita del paziente; pertanto lo psicoterapeuta mette insieme, sulla base della
propria teoria (come abbiamo già segnalato nelle conclusioni del cap. 1), un qua­
dro coerente della vita del paziente che si basa su una «verità narrativa» e non su
una «verità storica»; psicoterapeuta e paziente non scoprono ma creano pattern
di significato.
Schafer [ 1983] sostiene che la realtà è sempre mediata dalla narrazione e che le
narrazioni alle quali si arriva in terapia sono sempre costruite sulla base della teoria
dello psicoterapeuta. In questa prospettiva la teoria non guida lo psicoterapeuta
alla scoperta di ciò che c'è già nella mente del paziente (Inconscio), ma lo guida a
dar forma e a organizzare il materiale tratto dalle libere associazioni del paziente.
Schafer, Spence e Hoffman propongono di abbandonare il positivismo come pa­
radigma fondamentale della psicoanalisi per passare a una visione costruttivista.
A loro avviso il positivismo, o oggettivismo, incoraggia a credere che lo psicote­
rapeuta possa eliminare l'impatto della propria soggettività e possa osservare da
una prospettiva distaccata l'oggetto d'indagine, il paziente, mettendosi al di fuori
del sistema e scoprendo così una «verità oggettiva» che risulta affidabile proprio
in quanto indipendente dalla soggettività dell'osservatore. Il costruttivismo, di
contro, sostiene che l'osservatore gioca un ruolo preciso nel dar forma, costruire
e organizzare ciò che viene osservato.
La posizione di Hoffman [ 1 983 ] è ancora più radicale di quella di Schafer e
Spence: laddove Schafer e Spence sottolineano che è la teoria dello psicoterapeuta
a esercitare una continua influenza, Hoffman sostiene che è la personalità dello
psicoterapeuta ad avere un'influenza continua. L'idea centrale, quindi, del modello
SJ::TTTNG 301

relazionale è che i desideri e i conflitti apparentemente infantili che s i rivelano nelle


asso ciazioni del paziente non siano soltanto, o prevalentemente, resti del passato
imposti artificialmente nel campo terapeutico, ma siano riflessi delle interazioni
reali e degli incontri con quello specifico psicoterapeuta, con tutte le sue caratteri­
stiche. La personalità dello psicoterapeuta influenza non solo l'alleanza terapeutica
o la relazione reale, ma la natura stessa del transfert come del resto osserva anche
Gill [ 1 984] .
Queste ultime considerazioni rimandano alla rilevanza che il concetto di «in­
tersoggettività» ha assunto nella riflessione clinica attuale, per cui nonostante possa
essere considerato in diverse accezioni ai fini del discorso che stiamo affrontando
in questo paragrafo, possiamo intenderlo come un processo dialettico in cui i sog­
getti si riconoscono reciprocamente come centri separati di esperienza soggettiva,
oppure, come nel contesto degli studi di Stern sull'età evolutiva, una raggiunta
capacità di riconoscere l'altra persona come un centro separato di esperienza con
cui condividere stati mentali. Rispetto a questo tema Stolorow [ 1 997] osserva che il
concetto di intersoggettività è inteso come processo esistente «tra mondi soggettivi
in interazione, a qualsiasi livello di sviluppo tali mondi siano organizzati».
Così, mentre in una psicoanalisi centrata sull'intrapsichico il campo della sog­
gettività prende forma dalla dialettica tra conscio e Inconscio (Freud), o tra posi­
zioni schizoparanoide e depressiva (Klein), o tra Sé e oggetto-Sé (Kohut), in quella
intersoggettiva si dà un ruolo più rilevante alla dimensione esperienziale rispetto
all'ambito dell'Inconscio intrapsichico, concepito tradizionalmente come sede
privilegiata di conflitti e formazioni di compromesso. Anche la prospettiva inter­
soggettiva, infatti, presta attenzione a questi fenomeni, sia in teoria che in pratica,
ma attraverso un mutato paradigma scientifico: l'Inconscio dinamico non consiste
in derivati pulsionali rimossi, ma in stati affettivi difensivamente controllati; la
regolazione dell'esperienza affettiva non è il prodotto di meccanismi intrapsichici
isolati, ma una proprietà di un sistema di reciproca e mutua influenza del siste­
ma bambino caregiver. Ciò che in questa prospettiva è valorizzato è lo specifico
-

contesto intersoggettivo nel quale prendono forma i conflitti.


Nella prassi clinica la prospettiva intersoggettiva si interroga sul modo in cui
lo psicoterapeuta fa uso della propria soggettività; in questo senso comprende una
varietà di concetti clinici come la «self-disclosure»4 (contrapposto a neutralità e
astinenza), spontaneità e autenticità, analisi del controtransfert. Tra psicoterapeuta
e paziente si stabilisce un processo di comunicazione nel quale l'influenza fluisce
in entrambe le direzioni. La soggettività dello psicoterapeuta nella relazione tera­
peutica non può e non deve essere eliminata ma usata.
Il campo intersoggettivo che emerge dalle «menti che si incontrano» [Aron
1996] è l'aspetto privilegiato della prospettiva intersoggettiva: il focus non è l'og­
getto in relazione al soggetto (teoria delle relazioni oggettuali), ma il modo in cui
due soggettività si relazionano.
In quest'ottica il setting diventa una parte integrante del processo terapeutico
in quanto rappresenta quella condizione che permette l'emergere di funziona­
menti mentali ai quali è possibile attribuire un significato cocostruito dalla coppia
psicoterapeuta-paziente.

4 La sel/-disclosure, intesa come autorivelazione, indica l'atto di presentare al paziente, da parte

dello psicoterapeuta, elementi personali, controtransferali e/o della sua vita privata.
3 02 CAPITOLO 11

Conclusioni

Se riprendiamo la definizione iniziale di setting come un insieme di procedure


che regolano i ritmi spazio-temporali delle sedute e la modalità del rapporto tra
psicoterapeuta e paziente, possiamo osservare che ogni modello teorico ha man ­
tenuto costanti le categorie spazio-tempo, ma ne ha via via modificato i ritmi e il
modo di intendere la relazione psicoterapeuta-paziente.
Secondo la teoria classica il setting è quella cornice all'interno della quale si
sviluppa un processo che permette al contenuto psichico, che si trova all'intern o
della mente del paziente, di diventare manifesto: la cornice spazio-temporale e
il ruolo dello psicoterapeuta come schermo bianco permettono il riattivarsi del
conflitto edipico; lo psicoterapeuta osserva i contenuti del transfert e li interpreta
rendendo cosciente il paziente delle sue dinamiche profonde.
In quest'ottica tutti i contenuti che emergono nello sviluppo della relazione
terapeutica sono prodotti dalla mente del paziente. Come fa notare Codignola
[ 1 977] , questo setting è stato l'unico pensabile, per le nevrosi, in una determinata
situazione storico-sociale, nel senso che l'Europa degli anni che precedono la Prima
guerra mondiale, anni in cui nasce la psicoanalisi, era un luogo e un tempo molto
più autoritario della società in cui oggi viene praticata la psicoanalisi e ogni forma
di intervento di matrice psicodinamica. Ciò spiegherebbe la posizione positivista
di Freud e l'asimmetria della relazione psicoterapeuta-paziente che pone lo psico­
terapeuta in una posizione di «potere» rispetto al paziente.
Vari autori, come Racker [ 1968] , successivamente metteranno in luce il rischio
di questa asimmetria sottolineando che in quest'ottica la realtà psichica e la realtà
obiettiva vengono scisse in quanto il transfert, la realtà psichica e tutto ciò che è
pensato come retaggio infantile vengono attribuiti al paziente, mentre l'obiettivi­
tà, la comprensione della realtà esterna, la salute mentale vengono attribuite allo
psicoterapeuta.
L'evoluzione dei modelli teorici, come abbiamo visto, e i cambiamenti storici e
sociali conducono a nuove concettualizzazioni della psicopatologia: i vari modelli
che condividono l'ipotesi psicopatologica dell'arresto dello sviluppo condividono
una maggiore attenzione all'ambiente e alla relazione, ma rimangono ancora lon­
tani dal considerare la relazione terapeutica come un incontro tra due individui.
I vari autori rintracciano l'origine della psicopatologia nell'infanzia, ma nel perio­
do preedipico, quindi ancora più precocemente di quanto sostenuto da Freud,
concettualizzando diversamente l'organizzazione di queste fasi, ma condividendo
l'idea che l'organizzazione individuata, in periodi così precoci, si riproduca nella
relazione terapeutica attraverso il transfert. L'unica realtà psichica della relazione
terapeutica da cambiare rimarrebbe quindi ancora una volta quella del paziente;
ciò che si modifica è la natura del transfert.
Gli autori che hanno invece accentuato il peso della «partecipazione» dello
psicoterapeuta al lavoro in seduta in un certo senso vanno oltre, in quanto lo
psicoterapeuta interpreta il transfert, ma si coinvolge maggiormente nella relazio­
ne per permettere al paziente di vivere quell'esperienza emotiva che è venuta a
mancare e che aveva arrestato il procedere dello sviluppo e quindi a lui di essere il
seno buono, oppure il contenitore, la madre sufficientemente buona, l'oggetto-Sé
che prima gratifica e poi delude a seconda dei concetti che i modelli cui abbiamo
precedentemente accennato sottolineano.
SHIING 303

Per svolgere tali «funzioni» di sostegno ed elaborazione lo psicoterapeuta deve


modificare alcune delle regole che avevano contraddistinto la visione classica: ad
esempio, per essere un seno buono, o una madre sufficientemente buona, bisogna
spogliarsi dal presupposto di essere come uno schermo bianco, non frustrare, ma
gratificare, o per lo meno sostenere emotivamente il paziente. Ciò implica una serie
di variazioni delle caratteristiche originali del setting (abbandono della neutralità,
dell'astinenza) che, a seconda delle varie posizioni teoriche, erano state considerate
delle violazioni del setting stesso [Gabbard e Lester 1995].
Un cambiamento concettuale ed epistemologico importante può essere visto
nelle prospettive che si racchiudono dentro quella che oggi viene definita l'ottica
relazionale: il concetto di campo bipersonale dei Baranger, ripreso da Ferro in Italia,
che accentua il passaggio da una psicologia unipersonale a una bipersonale, l' in/ant
research e la teoria dell'attaccamento (come ampiamente affronteremo nei capp.
14 , 15 e 16) che hanno influenzato Io sviluppo della psicoanalisi intersoggettiva
che enfatizza l'idea della relazione terapeutica come incontro tra due soggettività.
In quest'ottica lo psicoterapeuta viene coinvolto, ma come «soggetto» e non
come «oggetto» della relazione; paziente e psicoterapeuta non perseguono una
verità nascosta oggettiva, ma cercano di costruire un sistema di significati [Mitchell
1 988] che è negoziato e cocostruito: ne consegue che le interpretazioni dello psi­
coterapeuta risentono della soggettività dello psicoterapeuta stesso e quindi non
possono essere pensate come «vere» e «neutrali» in assoluto.
L'orientamento relazionale si costituisce dialetticamente e trae le sue origini
nella relazione intersoggettiva implicando l'abbandono progressivo di un'imposta­
zione filosofico-epistemologica reali:,;ta a favore di un'impostazione costruttivista
della realtà.
Il setting si configura così come un insieme dinam ico e flessibile di condizioni
che riflettono i continui sforzi dello psicoterapeuta di creare l'ambiente ottimale
per svolgere il trattamento. In questa direzione assume una particolare rilevanza il
setting come assetto mentale dello psicoterapeuta, nel senso che il setting esterno
dovrebbe essere quello che crea l'ambiente più favorevole al mantenimento di un
assetto della mente (setting interno).
L'attenzione al setting come assetto della mente dello psicoterapeuta potrebbe
prestarsi all'applicabilità dell'approccio psicodinamico nei vari contesti dell'in­
tervento psicologico5• Contesto pubblico, contesto privato, pazienti bambini-

5 Tra i contesti d'intervento possibili è importante fare anche riferimento a internet, figlio della
società attuale. Il diffondersi di internet come canale di comunicazione e il diffondersi delle psicoterapie
a distanza costringe a una riflessione su similitudini e differenze tra un incontro vis à vis e un incontro
virtuale. Carta [2005] e Fiorentini [20 12] mettono in evidem.a che in nessun modo si può praticare
la psicoterapia on line o a distanza in quanto, in un setting caratterizzato da due stanze collocate in
due luoghi diversi e collegate da un computer e una telecamera, vengono a mancare le condizioni che
permettono l'incontro tra due soggettività, condizioni caratterizzate, come si diceva, dalla complessità
degli aspetti consci e inconsci della comunicazione, complessità che caratterizza ed è strumento della
relazione terapcutica. Le possibilità offerte da internet possono consentire, suggeriscono gli autori, di
praticare brevi consulenze per incoraggiare coloro che desidererebbero iniziare una psicoterapia; di
mantenere una continuità nei casi in cui, per motivi di lavoro, il paziente sarebbe costretto a interrom­
pere un percorso psicoterapeutico già iniziato (variazioni del setting). Anche in caso di grande distanza
e di isolamento di un soggetto è chiaro che il mezzo informatico può costiruire un surrogato, ma solo
in vista della costituzione di un setting adeguato per lo svolgimento di una psicoterapia, surrogato che
mai può e deve spacciarsi per psicoterapia esso stesso.
3 04 CAPITOLO 11

adolescenti-adulti-coppie-famiglie, riconducono tutti alla necessità che l'aspetto


più rilevante non sia tanto l'insieme di una serie di regole fisse e, in un certo
senso, predefinite, ma soprattutto di un assetto mentale che di volta in volta p uò
declinarsi in un dato setting esterno che deve tener conto di tutte le variabili in
gioco: caratteristiche dello psicoterapeuta, della tipologia di paziente, del contesto
e della finalità del trattamento. Tutte queste variabili influenzano lo sviluppo della
relazione terapeutica che ha nelle vicissitudini dello scambio relazionale in seduta,
nel «qui e ora», il perno centrale.

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