Prof. Giannini
LEZIONE 1
Nel loro insieme, queste caratteristiche offrono una possibile descrizione di carattere molto
generale di cosa venga comunemente inteso per psicoterapia.
Finalità => un intervento psicoterapeutico può avere quattro principali finalità, che sono tra
loro molto diverse e si connetto con modalità di trattamento diverse:
1. Vi si può far ricorso per far fronte ad una situazione di emergenza, ad un momento di crisi,
a situazioni di difficoltà psicologica transitoria; ad es. sofferenza che accompagna un
divorzio, la scoperta di una malattia incurabile, un lutto, un evento traumatico, un periodo
di difficoltà coniugali o familiari.
2. Alcune volte non è neppure corretto parlare di psicoterapia e sarebbe più adeguata
l’espressione “counseling psicologico”: una consulenza, alcuni incontri, informazioni,
suggerimenti, sostegno psicologico.
3. Altrettanto spesso la psicoterapia è richiesta per una condizione psicopatologica in atto,
tanto per fronteggiare la sintomatologia che le è connessa quanto per identificare le cause
psicologiche che l’avessero scatenata; ad es. il trattamento degli attacchi di panico, dei
disturbi d’ansia, dell’anoressia nervosa, dei disturbi sessuali e così via. Fin dalle origini
della psicoterapia, una sua definizione popolare è stata “curare con le parole”.
4. Altre volte il ricorso alla psicoterapia ha senso dopo che il paziente abbia risolto la
situazione acuta con trattamenti psicofarmacologici, con un ricovero ospedaliero o altre
modalità di cura. L’intervento psicoterapeutico è in questi casi volto a prevenire possibili e
probabili ricadute. Ad es. nei casi di depressione maggiore, abuso di alcol, dipendenza da
cocaina, di episodio psicotico, mancato suicidio.
Tuttavia, le definizioni viste finora potrebbero apparire piuttosto ampie. Alcuni modelli di
terapia non vi sono però inseriti.
1. Fattore cognitivo
• Universalità => il cliente migliora quando realizza che non è solo, che altri hanno problemi
simili e che la sofferenza umana è universale.
• Insight => la crescita avviene quando il cliente arriva a capire se stesso (?) e gli altri e
raggiunge prospettive diverse circa i propri comportamenti e le proprie ragioni.
• Modeling => le persone traggono benefici osservando gli altri. Un cliente può modellare se
stesso o se stessa sul terapeuta (transfert per la psicanalisi).
2. Fattore affettivo
• Accettazione => questo fattore riflette il senso di ottenere una considerazione positiva
incondizionata specialmente dal terapeuta.
• Altruismo => il cambiamento può risultare riconoscendo che si è destinatario dell’amore e
della cura del terapeuta o degli altri membri del gruppo, o diventando colui che procura
amore e cura agli altri tanto quanto sta sentendo di aiutare gli altri.
• Transfert => questo fattore identifica il legame emotivo che avviene tra il terapeuta e il
cliente o tra i clienti in un setting di gruppo.
3. Fattore comportamentale
• Testare la realtà => i cambiamenti diventano possibile quando i clienti sperimentano nuovi
comportamenti in sicurezza nell’ora di terapia, ricevendo supporto e feedback dal terapeuta e
dagli altri membri del gruppo.
• Ventilare => questo fattore comprende quelle affermazioni che attestano il valore di “soffiare
via il vapore” per mezzo di grida, pianto, o mostrando collera in un contesto nel quale è
possibile sentirsi ancora accettati.
• Interazione => i clienti migliorano quando riescono ad ammettere apertamente al gruppo
che c’è qualcosa che non va nel loro comportamento o in loro stessi.
PSICOTERAPIA E PSICOTERAPEUTI
Sembra esservi concordanza tra la personalità di un innovatore di psicoterapia e il sistema che
ha sviluppato.
Se qualcuno si è orientato verso la psicoterapia, allora la teoria e la metodologia migliore da
usare dovrebbe essere quella che uno sente più vicina. Lo psicoterapeuta non sarà né
affermato né felice utilizzando un metodo non consono alla propria personalità. Il terapeuta
realmente affermato sviluppa una teoria e una metodologia coerente con la propria personalità
(Cfr. Corsini, 1991, e Dumont & Corsini, 2000).
Nel cercare di determinare quale scuola di psicoterapia sembri più sensata, l’aspirante
psicoterapeuta dovrebbe sforzarsi di trovarne una che si adatti alla sua filosofia di vita, una
che sembri più giusta in base a quello che propone teoricamente, e una con un metodo di
lavorare che appaia più attraente.
ARTE O SCIENZA?
Quali specifici interventi terapeutici producono specifici cambiamenti in specifici pazienti in
specifiche condizioni?
“Prima che questo modello (relativo alla ricerca) possa essere completato avremmo bisogno di
una tassonomia dei problemi dei clienti o dei disturbi psicologici…; una tassonomia delle
personalità dei clienti; una tassonomia delle tecniche terapeutiche…; una tassonomia dei
terapeuti; e una tassonomia delle circostanze. Se noi avessimo avuto tali sistemi di
classificazione, i problemi pratici sarebbero stati insormontabili. Assumendo cinque classi di
variabili, ognuna con dieci classificazioni,… un disegno di ricerca richiederebbe
10x10x10x10x10 o 100.000 celle” (Patterson, 1987).
La psicoterapia è un’arte basata sulla scienza, e come è vero per qualsiasi arte, con ci possono
essere munire semplici di attività così complesse (Corsini & Wedding, 2007).
LEZIONE 2
Teorie e Modelli
Possiamo considerare il termine Modello per includere tutte le forme di rappresentazioni
generalizzate e semplificate. Ogni set di fenomeni può essere rappresentato con diversi tipi di
modello. Ogni modello ha caratteristiche diverse e proprietà logiche specifiche. Ci sono,
fondamentalmente, 3 tipi di Modelli: Iconici, Analogici e Simbolici.
Modelli Iconici:
• Si tratta di un modello bi- o tridimensionale che assomiglia a quello che rappresenta;
• Fotografia, Pittura e Scultura sono modelli iconici come anche una macchinina o un
mappamondo;
• Pur potendo rappresentare eventi dinamici (ad es. foto di oggetti in movimento), sono meno
utili di altri tipi di modello.
Modelli Analogici:
• Diversamente dai modelli iconici, la rappresentazione è analoga non isomorfa (ad es. una
mappa o un grafico in cui una relazione matematica è espressa da un’immagine). Si usano
regole di trasformazione.
Modelli Simbolici:
• Rappresentano idee, cose o eventi e non c’è somiglianza con quello che rappresentano;
• Descrizioni verbali e formule matematiche sono esempi di questi modelli;
• Un set di regole di trasformazione è richiesto per comprendere il significato dei simboli;
• Ad es. le rappresentazioni matematiche seguono le regole di un particolare sistema (ad es. la
geometria);
• Il Modello Medico è un modello simbolico che fornisce i professionisti di uno schema generale
all’interno del quale vengono definite le caratteristiche, le cause, l’eziologia, la prognosi e il
metodo di trattamento di ogni specifica malattia che possa essere identificata;
• Il DSM-5, l’ICD-10 e il PDM-2 che noi utilizziamo descrivono modelli simbolici
(rappresentazioni prototipiche di differenti tipi di sindromi psichiatriche).
• Anche metodi utilizzati dai professionisti della salute sono modelli simbolici e vengono
chiamati Modelli Procedurali e Protocolli di Trattamento.
• La Terapia Freudiana così come quella Comportamentale sono Modelli Procedurali; tali
modelli sono collegati, o derivano, da un Modello Proposizionale o Teoria.
• Ad es. la Teoria Freudiana dei Meccanismi di Difesa conduce a Modelli Procedurali che
includono metodi per superare le resistenze del paziente (Associazioni libere).
LIVELLO DEI MODELLI = si va dai Micromodelli a quelli più inclusivi definiti Metamodelli
(Cellule => Galassia). Ad es. la famiglia è il livello primario di osservazione del terapeuta
familiare (unità di analisi) mentre per il genetista a questo livello si osservano i componenti
della cellula. La psicoterapia spesso richiede la conoscenza di interazioni multilivello: ad es. la
sintomatologia depressiva potrebbe dipendere da una formazione tumorale o da un problema
cognitivo o sociale; da qui diversi modelli procedurali. Inoltre sappiamo quanto sia importante
una disfunzione dei neurotrasmettitori negli stati depressivi.
TEORIA E PSICOTERAPIA = [ le teorie su cui si fondano le varie psicoterapie sono modelli che
rappresentano la natura degli esseri umani ] => ogni teoria è costruita all’interno di una
cornice che include assunti o credenze che vengono accettate. Queste vengono chiamate
Metamodelli, Paradigmi o Visioni del mondo.
Le differenti Visioni del mondo rappresentano:
1. Le diverse risposte alle domande sulla realtà, una spiegazione delle cause prime della
realtà, prescindendo da qualsiasi dato dell’esperienza. => Metafisica
2. Come gli esseri umani conoscono la realtà (Conoscenza ordinaria, Conoscenza Scientifica e
Analisi Filosofica sulla scienza e sulla conoscenza ordinaria).
=> Epistemologia
Psicoanalisi Tradizionale
1. Metafisica
• A. Ontologia = Idealista
• B. Cosmologia = Organismica
2. Epistemiologia = Empirista (combinazione di posizioni Realiste e Rappresentazionaliste).
Comportamentismo
1. Metafisica
• A. Ontologia = Materialismo
• B. Cosmologia = Meccanicismo
2. Epistemiologia = Empirista con enfasi sul Realismo
Cognitivismo
1. Metafisica
• A. Ontologia = Idealista
• B. Cosmologia = Meccanicista
2. Epistemologia = Realista e Costruttivista
Psicoterapia Umanistica
1. Metafisica
• A. Ontologia = Idealista
• B. Cosmologia = Organismica
2. Epistemologia = Razionalismo e Intuizionismo
Terapie Integrate
1. Metafisica
• A. Ontologia = Interazionismo o Monismo doppio aspetto
• B. Cosmologia = Auto-organizzata
2. Epistemologia = Pluralista
LEZIONE 3
Psicanalisi:
1. Metafisica
A. Ontologia: Idealista
B. Cosmologia: Organismica
2. Epistemologia: Empiristica (combinazione di posizioni Realiste e Rappresentazionale.
La Psicoterapia Psicodinamica (PP) si differenzia dalla psicoanalisi per quanto riguarda: durata,
valutazione generale ecc. Si differenza anche dal fatto che richiede la formulazione (perlomeno
implicita) di una diagnosi.
Otto assunti fondamentali per far sì di parlare di psicoterapia psicodinamica (Fonagy e Target):
I meccanismi di difesa possono essere misurati (ad es. come il DSQ) e sono stati descritti in
vari modi. Meccanismi di difesa primitivi: “acting out”, rimozione..
Meccanismi di difesa intermedi: formazione reattiva..
Meccanismi di difesa più evoluti: sublimazione
Sullivan (psicologia umanistica) => è colui che ha dato maggiore importanza alla relazione
terapeutica
Maslow & Rogers => hanno riletto questo contributo in chiave psicoanalitica, privilegiando la
relazione face to face a discapito del “classico” lettino.
Orientarsi con i concetti della psicoanalisi può risultare molto difficile, si ha a che fare con
termini molto fumosi e descritti in maniera differente da diversi autori. Per questo è utile nella
professione il “Dizionario della Psicoanalisi” (Laplanche, Pontalis, 1967). Ad esempio:
- Affetto (Affekt)= espressione qualitativa della quantità dell’energia pulsionale e delle sue
variazioni; ogni pulsione si esprime come affetto o come rappresentazione).
- Libido = energia come substrato delle trasformazioni della pulsione sessuale riguardo
l’oggetto, la meta e la fonte dell’eccitazione sessuale; l’energia delle pulsioni attinenti a tutto
ciò che può essere compendiato nella parola amore (Freud).
- Pulsione = spinta che fa tendere l’organismo versa la meta; Freud distingue soltanto due
grandi tipi di pulsioni: le pulsioni sessuali e le pulsioni di autoconservazione e un una seco
da fase le pulsioni di vita e le pulsioni di morte.
I conflitti che caratterizzano la mente umana si caratterizzano attorno a tre temi principali:
1. Scontro tra desideri e ingiunzioni morali
2. Scontro tra desideri e realtà
3. Scontro tra realtà interna ed esterna.
La capacità dell’Io di generare difese si è imposta come il fondamento della teoria e del lavoro
clinico.
Trance Eriksoniana: una sorta di ipnosi che si può utilizzare durante la seduta, sempre secondo
la suscettibilità dell’individuo.
Differenza terapia gestaltica e psicanalitica:
- gestaltica => consapevolizzare e agire
- psicoanalitica => consapevolizzare, ma non agire
Jacques Lacan: ha riproposto nel movimento psicoanalitico francese il modello strutturale
tripartito freudiano.
Punto di riferimento della psicoanalisi in Italia: Società Psicoanalitica Italiana (SPI).
Teorie Psicoanalitiche
• Anna Freud = modello generalizzato della psicopatologia basato sulle caratteristiche di uno
sviluppo di personalità normale e anormale in cui la psicopatologia è descritta e spiegata
come una deviazione dalle linee evolutive e dall’organizzazione strutturare normali.
• Melanie Klein = sviluppo precoce del bambino e attenzione ai disturbi mentali più gravi.
• Heinz Hartmann = evoluzione delle strutture mentali necessarie all’adattamento. Sono stati
approfonditi i normali conflitti evolutivi fra le strutture mentali che si verificano nell’infanzia o
in età prescolare.
• Margareth Mahler = mappa dei primi tre anni di vita del bambino elaborando un modello
delle originino evolutive dei disturbi di personalità.
• Otto Kernberg =modello evolutivo dei disturbi borderline e narcisistici.
• Heinz Kohut = modello dei disturbi narcisistici basato sull’ipotesi di un deficit delle cure
genitoriali precoci.
• Stephen Mitchell = la teoria relazionale intersoggettivista sostiene che le prime esperienze
creano un prototipo di comunicazione sociale.
• Daniel Stern = teorie psicoanalitiche degli schemi.
• Peter Fonagy = modelli basati sulla mentalizzazione.
All’origine del disturbo viene ravvisato uno sviluppo deficitario dell’Io. Le nevrosi e le psicosi in
un adulto si sviluppano quando un impulso teso alla gratificazione di una pulsione regredisce
verso una precedente modalità di soddisfacimento infantile. I sintomi rappresentano soluzioni
di compromesso che riflettono ripetuti tentativi dell’Io di ripristinare l’equilibrio fra istanze
contrapposte, costituite da realtà esterna, Super-Io e rappresentazioni pulsioni inaccettabili. La
presenza di problemi psicologici o organici può indurre una regressione dell’Io che all’origine
della psicopatologia. La psicosi comporta una minaccia di completo annientamento dell’Io. Un
Io che riprende a funzionare a un livello caratteristico della prima infanzia risulterà dominato
da pensieri irrazionali, magici e da impulsi che sfuggono al suo controllo. La malattia mentale
può quindi essere vista come un fallimento dell’Io nel garantire un’interazione pacifica fra le
istanze psichiche a livelli adeguati all’età.
Questa sequenza evolutiva porta alla formazione dell’identità. Erikson ha inoltre descritto la
sindrome della Diffusione dell’Identità ovvero l’assenza di continuità temporale dell’esperienza
del Sé nei contesti sociali. In particolare, per Erikson, la presenza, o l’assenza, di crisi o di
impegno, nei vari stadi, definisce quattro condizioni di identità:
1. Identità diffusa = la persona non ha fatto esperienza né di una crisi di identità né di un
impegno, è facilmente influenzabile dagli altri, cambia spesso le proprie opinioni.
2. Sotto ipoteca = si è assunta degli impegni, ma non ha esperito una crisi di identità. Accetta
senza obiettare, opinioni, atteggiamenti e un’occupazione basati sul punto di vista altrui.
3. In moratoria = una persona che si trova in un serio stato di crisi d’identità e non è ancora
capace di assumere degli impegni.
4. Persona che ha raggiunto un’identità = è passata con successo attraverso una crisi
d’identità e ha sostenuto un certo numero di impegni personali.
Il principio organizzante del Sé si basa su relazioni e scambio interpersonali e sullo sviluppo di
una fiducia di base.
Anna Freud è conosciuta anche per gli scontri avuti nel corso della sua vita con Melanie Klein,
psicoanalista austriaca-britannica famosa per i suoi lavori nel campo della psicoanalisi infantile.
• Secondo Anna Freud il gioco è un’attività naturale dell’infanzia e quindi non sempre può
essere interpretato come materiale simbolico, mentre per la Klein si può interpretare
simbolicamente il gioco se si verificano precise condizioni: ripetitività dei contenuti, presenza
di intensi stati affettivi di angoscia e colpa, manifestazioni di tendenze reattive.
• Per Anna Freud i bambini non potevano essere trattati analiticamente come gli adulti perché
non erano ritenuti in grado di mettere in atto il transfert. Al contrario, la Klein sosteneva che
il bambino era in grafo sin da subito di mettere in atto il transfert.
Anna Freud Center: istituto situato a Londra e adibito alla ricerca e al trattamento dei disturbi
psicologici e psichiatrici infantili. Fondato del 1941 come Hampstead War Nurseries, un rifugio
per bambini rimasti senza casa per i bombardamenti. Nel 1947 divenne Hampstead Child-
Therapy Training Course and Clinic. L’isituto ha avuto un sostanzioso aiuto economico grazie al
testamento di Marylin Monroe (25% del patrimonio) in favore di Marianne Kris che scelse il
centro di Anna Freud.
Per Anna Freud il disturbo psicologico può essere meglio studiato nel suo processo di
evoluzione. Il profilo delle linee evolutive permette di osservare il rischio di patologia per ogni
bambino.
Teoria del conflitto: sviluppo visto come un compromesso tra desideri, bisogni, percezioni,
realtà fisiche e sociali e relazioni oggettuali tra loro incompatibili.
Importanza dell’analisi dell’Io. Importanza dell’analisi delle richieste provenienti dal mondo
esterno, dall’Es e dal Super-Io. I meccanismi di difesa possono essere raggruppati a seconda
della maturità evolutiva.
Anna Freud si è principalmente occupata di sviluppo infantile, dando poi origine ad un gruppo
di collaboratori che hanno ampiamente diffuso le sue idee.
Seguendo ciò che avendo detto il padre, ha dato particolare importanza al ruolo dei genitori
reali e al processo di interiorizzazione di questi da parte del bambino, ma considerando sempre
le relazioni oggettuali in secondo piano rispetto alle pulsioni. Ha utilizzato il modello delle linee
evolutive: risultato dell’interazione tra pulsioni e istanze psichiche, e tra queste e le influenze
ambientali (A. Freud, 1965). Linee evolutive che vanno dalla dipendenza emotiva all’autonomia
e alle relazioni adulte.
Vi sono otto fasi:
1. Prima fase Unità biologica madre-bambino.
2. Seconda fase Relazione analitica (indica la situazione di appoggio di un soggetto, per
esempio il bambino, a un oggetto, per esempio la madre, di soddisfacimento di bisogni
corporei tra bambino e oggetto). Madre buona vs madre cattiva. Sviluppo di
rappresentazioni della mente della madre come separata da quella del bambino.
3. Terza fase Rappresentazione coerente della madre, indipendente soddisfacimento pulsione,
che permette separazioni più lunghe.
4. Quarta fase Ambivalenza normale: sentimenti positivi e negativi verso la stessa persona
(terrible twos). Desiderio di indipendenza, ma anche di dedizione della madre.
5. Quinta fase Desiderio di possesso del genitore del sesso opposto e gelosia verso il genitore
dello stesso sesso. Fase cruciale per lo sviluppo dei problemi nevrotici.
6. Sesta fase Spostamento della libido verso i pari o altre persone dell’ambiente circostante.
7. Settima fase Ribellione preadolescenziale: comportamenti oppositori, impulsivi e
pretenziosi. Ritorno delle fantasie infantili, che aumentano il conflitto intrapsichico.
8. Ottava fase Adolescenza: l’Io deve lottare contro l’aumento improvviso di aggressività e
sessualità. Utilizzo di due meccanismi di difesa principali: intellettualizzazione e ascetismo.
Deve avvenire il lavoro di lutto per i genitori persi dell’infanzia. Ritiro della libido verso il
Sé, che determina la grandiosità narcisistica e l’onnipotenza tipiche dell’adolescenza.
Anna Freud pone l’accento sulla resilienza e sula capacità di recupero del bambini, che gli
permette, a volte, di superare anche gravi traumi.
Anna Freud ha distinto la paura del mondo interno dall’”angoscia oggettuale”. Ha notato come
il pericolo di un trauma era probabile che si sviluppasse quando la potenza della minaccia
esterna veniva a contatto con l’aggressività reale interna al bambino. Riteneva che le paure
arcaiche della prima infanzia potessero essere diminuite da una sufficiente rassicurazione del
bambino. Pensava che la natura dell’angoscia del bambino indicasse la qualità del suo sviluppo.
Credeva che l’esito dell’angoscia del bambino dipendesse dai meccanismi di difesa da lui
utilizzati.
Anna Freud sottolinea la necessità che il bambino riesca ad integrare il suo potenziale
costituzionale con l’impatto con il mondo esterno e con la graduale costituzione della propria
personalità. Se ciò non avviene, si avranno degli squilibri, che possono portare problemi di
varia natura. La psicopatologia è quindi determinata da squilibri tra le forze deve istanze
psichiche, che derivano, a loro volta, da fattori ambientali e costituzionali. Gravi disturbi di
personalità derivano da mancanze strutturali nell’evoluzione delle difese, nel test di realtà,
nella tolleranza all’angoscia, nel Super-Io e sono dovuti a disarmonie evolutive.
Disturbo borderline di personalità = incapacità di arrivare ad un giusto compromesso;
Disturbo narcisistico = precoce deprivazione emotiva.
Ha identificato l’importanza della prima relazione madre-bambino e le conseguenze di
un’eventuale separazione; ha introdotto il concetto di linee evolutive, che hanno permesso di
suddividere in unità più piccole le tre grandi istanze psichiche, facilitando così lo studio dello
sviluppo. Ciò che ha reso unico questo modello è stata l’importanza data al metodo
osservazionale.
Narcisismo => Freud riteneva che il bambino fosse, per natura, orientato in senso narcisistico,
ovvero sul proprio corpo, con una grande capacità di godimento fisico che solo
successivamente veniva concentrata su di un organo particolare (i genitali) e subordinandola
ad una meta (la funzione genitale, ovvero la procreazione) che è imposta non dal principio di
piacere ma da quello di realtà. Quello che Freud definisce Narcisismo Primario è uno stadio
evolutivo precoce durante il quale il bambino investe tutta la sua libido su se stesso: l’Io, in
questo caso, è posto alla stregua di un oggetto esterno. Il Narcisismo Secondario designerebbe
invece un ripiegamento sull’Io della libido, sottratta ai suoi investimenti oggettuali.
Narcisimo Primario => Freud designa come narcisismo primario quella fase nella quale il
bambino assume se stesso come oggetto d’amore, prima di scegliere oggetti esterni. Il periodo
durante il quale questa fase si sviluppa sarebbe il primo stadio della vita, antecedente alla
costituzione dell’Io, ed il cui archetipo è quello della vita intrauterina.
Teoria Pulsionale => Il concetto di narcisismo mette in difficoltà Freud (questo perché se la
libido narcisistica è rivolta verso il soggetto non è possibile distinguerla dall’istinto di auto
conservazione) e determina una radicale trasformazione dell’originaria teoria pulsionale, che
contemplava la contrapposizione tra principio di piacere e di realtà, verso la formulazione
definitiva di questa, che vede la contrapposizione tra istinti di vita (Eros) e di morte
(Thanatos), espressa in “Al di là del principio di piacere” (1920). Narcisismo, pulsioni ed
oggetti sono dunque concetti strettamente correlati.
Oggetto in Freud:
1. Oggetto come correlato della pulsione: l’oggetto è ciò in cui e con cui la pulsione tende a
raggiungere la soddisfazione (com’è noto Freud nella pulsione distinse oggetto e meta:
l’oggetto, in questo senso, è il mezzo per il soddisfacimento);
2. Oggetto come qualcosa che prescinde dalla pulsione (ammesso che questa possa essere
considerata in maniera indipendente rispetto agli oggetti). Indica ciò che per il soggetto è
oggetto di attrazione e di amore. Ma questo secondo significato è particolarmente sfumato.
Solo alla pubertà, innatati, interviene per Freud la scelta oggettuale. Nel bambino le
pulsioni vengono considerate parziali, ed i concetti di “auto-erotismo” e “narcisismo”
indicano ambedue l’assenza di un orientamento oggettuale vero, rivolto verso l’altro.
Melanie Klein => La teoria delle pulsioni è sostituita, almeno in termini, dalla teoria
dell’oggetto e quindi lo sviluppo emozionale sembra caratterizzato dalle relazioni oggettuali più
che dallo sviluppo pulsionale. Parla di fantasie più che di rimozioni e definisce compito della
psicoanalisi l’interpretazione di queste fantasie più dell’interpretazione delle difese contro le
pulsioni inconsce.
I termini Relazione Oggettuale e di Fantasia sembrerebbero indicare una strutturazione teorica
sensibilmente diversa rispetto a quella freudiana. Tuttavia, anche per Klein esiste la dualità
delle pulsioni di vita e di morte, è operante sin dalle primissime fasi della vita e si esprime
sull’oggetto “seno”, il primo oggetto del bambino, che viene ad essere scisso in seno buono
(quello che nutre) e seno cattivo (quello che si ritira o si rifiuta).
Analoga sorte subiscono tutti gli oggetti, sia quelli parziali che quelli totali, in un vero e proprio
circolo vizioso in virtù del quale il bambino proietta il suo amore sull’oggetto buono e la sua
aggressività su quello cattivo ed introietta l’amore dell’oggetto buono e la persecutorietà di
quello cattivo. Lo sviluppo dell’Io è un processo di continue introiezioni e proiezioni. Nel
bambino è dunque la pulsione di morte freudiana, la cui intollerabile malvagità può essere
sostenuta solo attraverso la scissione dell’oggetto in seno buono e seno cattivo. Il successivo
adulto vivrà un’esistenza tragica, nel continuo ed altrettanto inutile tentativo di riparazione dei
danni immaginari prodotti dall’odio e dall’invidia, tentativo comunque destinato al più totale
insuccesso.
Tutto si origina dall’innato istinto di morte; tutto si svolge attraverso il meccanismo della
proiezione su ipotetici oggetti i quali sembrano non avere, di per sé, alcuna capacità o
coloritura affettiva. L’Io di fronte all’istinto di morte, lo deflette proiettandolo sul seno. La Klein
sembra ignorare il concetto di desiderio e, tanto meno, la possibilità di soddisfazione di esso.
Parlare in termini coerenti di rapporto oggettuale però significa considerare l’esistenza di due
soggetti diversi, in rapporto tra loro; ciascuno dei due con proprie caratteristiche umane che
non possono essere intese esclusivamente nei termini di presenza-assenza (fisica): il seno non
è necessariamente buono solo in virtù del fatto di essere presente, così come non può essere
considerato cattivo perché assente. Sebbene la Klein rifiuti il concetto di narcisismo primario,
in realtà le relazioni oggettuali del neonato sono dominate da quello che Freud aveva definito
sadismo originario (che al narcisismo primario è intimamente collegato), come espressione
mentale dell’istinto di morte. Una contrapposizione quindi tra pulsioni e relazioni oggettuali più
apparente che reale.
Verso le relazioni oggettuali => Come detto, in Freud, l’oggetto non è caratterizzato da altra
condizione se non quella di procurare il soddisfacimento. Inoltre, solo un preciso oggetto, per
ogni individuo, od un suo sostituto, può procurare tale soddisfacimento. Freud sostiene che la
scoperte di un oggetto è sempre una riscoperta. La concezione freudiana delle pulsioni e degli
oggetti ha sollevato obiezioni che possono essere così riassunte da Fairbain: “La libido è alla
ricerca del piacere oppure, primariamente, dell’oggetto in quanto tale?”. Il termine Relazione
Oggettuale compare raramente in Freud, e certamente il concetto non appartiene alla sua
metapsicologia. Per Balint, tutti i termini della psicoanalisi, ad eccezione dei termini Oggetto e
Relazione Oggettuale, si riferiscono all’individuo da solo (One-Body psychology, Rickman).
Spitz ha notato come Freud abbia confrontato il problema dell’oggetto libidico dal solo punto di
vista del soggetto. La maggior attenzione posta al concetto di Relazione oggettuale nel senso
di Fairbain comporta un cambiamento radicale di prospettiva sia in campo teorico che clinico.
Nelle concezioni successive a Freud viene ridimensionata l’importanza delle pulsioni e
l’attenzione viene posta maggiorente sulle qualità dell’oggetto. I concetti di fonte pulsione e
meta (ovvero soddisfacimento) perdono importanza, mentre ne acquista il concetto di
relazione. La libido dunque ricerca prima di tutto la relazione, e non semplicemente la
soddisfazione come de-tensione pulsionale. Risulta modificato lo status dell’oggetto. La
relazione oggettuale si presenta come un concetto olistico e differenziatore nello sviluppo della
personalità.
Il contributo della psicologia dell’Io, formulata da Hartmann, è che determinate funzioni dell’Io
si sviluppano in maniera autonoma rispetto al soddisfacimento personale. Queste formulazioni
si sono sviluppate in conseguenza di inadeguatezze implicite nella teoria pulsionale freudiana di
cui possono essere considerate tentativi di correzione. La psicologia dell’Io propone
un’alternativa all’ipotesi freudiana che il pensiero si sviluppi poiché il tentativi di Allucinazione
del seno (1899) fallisce, implicitamente affermando che qualora allucinare il seno riuscisse, il
pensiero e l’Io non potrebbero svilupparsi.
[Allucinare in Freud =>Quando l’oggetto è assente e quindi non in grado di offrire le
soddisfazioni richieste, il bambino allucina cioè presentifica l’oggetto alla mente, in forma
particolarmente intensa ed eccitante, per compensare la delusione dell’assenza. Solo
gradualmente, attraverso il ritmo assenza-presenza, la madre permette al bambino di
riconoscere una presenza reale fuori di sé e di rinunciare alla gratificazione allucinatoria in
nome dell’oggetto reale].
Le formulazioni di Hartmann si pongono come tentativo di correzione delle incompatibilità
esistenti tra la specifica teoria freudiana e la realtà dei processi maturativi e come tentativo di
conciliazione tra teoria psicoanalitica e la realtà biologica e fisiologica che la teoria pulsionale
freudiana contraddiceva. La teoria delle Relazioni Oggettuali, nata allo scopo di affermare
l’autonomia delle relazioni d’oggetto rispetto alle pulsioni, si è spinto sino al rifiuto pressoché
totale della teoria pulsionale stessa. Se la psicologia dell’Io tendeva a mantenere intatta la
validità della teoria delle pulsioni, la teoria delle relazioni oggettuali sostituisce il primato
pulsionale con la tendenza alla ricerca dell’oggetto.
Fairbain => E’, almeno inizialmente, nella tradizione del pensiero kleiniano che si pone il
pensiero di Fairbain (1952), il quale sostituisce in maniera pressoché totale il concetto
freudiano di pulsioni con quello di Relazione Oggettuale, sostenendo che l’indagine
psicopatologica deve essere indirizzata allo studio, anziché delle pulsioni, degli oggetti verso i
quali esse sono dirette. Fairbain sostiene che “la libido ricerca l’oggetto e non il piacere”,
affermando contemporaneamente che le relazioni oggettuali sono primarie ed autonome e non
semplicemente conseguenza secondaria del soddisfacimento, con ciò contraddicendo l’idea
freudiana secondo la quale l’oggetto altro non sarebbe se non il mezzo, lo strumento,
attraverso cui la pulsione realizza il proprio scopo. Gli assunti della teoria di Fairbain possono
essere considerati i seguenti:
1. Vi sarebbe una progressiva evoluzione da uno stato di relativa mancanza di
differenziazione tra sé ed oggetti verso una condizione di crescente differenziazione;
2. Caratteristica di tale evoluzione sarebbe il senso crescente della propria separatezza;
3. Vi sarebbe una progressiva acquisizione di capacità relazionali sempre più valide basate sul
senso di separatezza;
4. Il tempo di tale evoluzione sarebbe quello della vita precoce, il luogo quello della relazione
madre-bambino;
5. La psicopatologia si configurerebbe come conseguenza di alterazioni del rapporto tra
madre e bambino e quindi di difficoltà nello svolgersi dello sviluppo preedipico piuttosto
che edipico.
Balint => D’altra parte Balint (1937) aveva già sostenuto che esistono precocemente relazioni
oggettuali, ad esempio nel lattante, quindi un Amore Oggettuale Primario sarebbe in pratica
inconciliabile con la nozione di Narcisismo Primario: separatezza e rapporto intersoggettivo
sono i risultati comuni dell’attuale ricerca psicoanalitica incentrata sull’osservazione del
neonato.
Winnicott => Winnicot (1951) sostiene che le cure materne rappresentano una componente
essenziale senza la quale non potrebbe esistere alcun bambino, prendendo a sua volta
radicalmente le distanze dal concetto di narcisismo primario di Freud. In genere tutti gli autori
che hanno privilegiato le teorie delle relazioni oggettuali si sono, esplicitamente o meno,
opposti al concetto freudiano di narcisismo primario ed a quello del primato pulsionale. Per
Winnicott l’aspetto relazionale è fondamentale. Ritiene che nel neonato già possa esistere una
vita psichica, affermando contemporaneamente però che il neonato non esiste se non in
relazione ad una madre che se ne prenda cura. Il funzionamento psichico si struttura su quello
che Winnicott chiama Sé, istanza psichica preliminare alla costituzione dell’Io: con questo
termine Winnicott indica il senso di continuità garantito dalle capacità di adattamento della
madre verso il bambino. Questa consente al neonato l’illusione che il seno sia parte di lui: “… la
madre pone il seno laddove il bambino è pronto a crearlo, e nel momento giusto” (1964).
Bion => Bion (1963) ha accantonato totalmente il concetto di pulsione di morte attribuendo la
priorità dello sviluppo emozionale del bambino al concetto che ha definito di Reverie materna,
concetto analogo a quello già espresso da Winnicott di Madre sufficientemente buona. Bion
ritorna in qualche modo all’antica contrapposizione tra principio di piacere (che definisce
desiderio) e principio di realtà, laddove il principio di realtà è rappresentato, questo volta, dalla
madre che può essere, o meno, capace di adeguata Reverie. In Bion è presente un prioritario
interesse per le qualità dell’oggetto, interesse però che pare stemperarsi intensamente quando
afferma che ciò che vi è di centrale, nel destino umano, è la capacità del bambino di far fronte
alla realtà e alle frustrazioni, e che tale capacità è innata, ereditata geneticamente.
Emde => Emde (1981), sottolineando come il bambino, sin dal suo esordio di vita, sia pronto
all’interazione sociale e partecipe degli scambi con coloro i quali lo accudiscono, ha criticato
anche il concetto di Relazione Oggettuale come inadeguato a descrivere le capacità della
gamma di significati cui la dizione Relazione Oggettuale può condurre (il riferimento agli
oggetti kleiniani appare evidente).
Paradigma => indica quel complesso di regole metodologiche, modelli esplicativi, criteri di
soluzione di problemi, che caratterizza una comunità di scienziati in una fase determinata
dell’evoluzione storica della loro disciplina: a mutamenti di paradigma sarebbero in tal senso
riconducibili le cosiddette rivoluzioni scientifiche.
Nuovo Paradigma => Se le formulazioni espresse dalla psicologia dell’Io potevano essere
con facilità integrate nella teoria pulsionale freudiana, considerate ius completamento di
questa, la Teoria delle Relazioni Oggettuali può invece essere ragionevolmente ritenuta un
cambiamento di paradigma della teoria psicoanalitica. Il primato eziologico dello sviluppo
umano spetta non alle vicissitudini del soddisfacimento pulsionale, ma alla qualità affettiva
delle originarie relazioni oggettuali. E’ la qualità dell’oggetto ad essere primaria. In base alla
teoria delle relazioni oggettuali, uno stabile e definitivo senso di sé può essere ottenuto solo ed
esclusivamente nel contesto di una relazione oggettuale valida e sostenente. Un mondo
psichico privo di relazioni oggettuali sarebbe, in questo senso, di per sé schizoide, ed un
adeguato senso di sé sarebbe possibile solo nell’ambito di una relazione d’oggetto
soddisfacente. Sottolineare cioè l’importanza di relazioni oggettuali vere è senz’altro
fondamentale ai fini della comprensione dello sviluppo umano.
Dubbi legittimi => Green (1991) ha sottolineato il rischio di ipervalorizzare l’oggetto e di
svilire, conseguentemente, il ruolo svolto dalle pulsioni: l’oggetto infatti può essere
considerato, in base alle sue qualità, il rivelatore dell’esistenza delle pulsioni. Analogamente
Mancia (1992) ha sostenuto che la teoria delle relazioni oggettuali “… non può reggersi da sola,
in quanto l’oggetto, senza la pulsione, sembra privo di vita”.
La Psicoanalisi in Italia. Dalle origini agli anni ’80.
Gli inizi: i primi scritti di tipo informativo sulla teoria freudiana si devono a due psichiatri. Nel
1908 Luigi Baroncini (1878-1939), assistente al laboratorio di psicologia sperimentale
dell’Ospedale psichiatrico di Imola, pubblica sulla “Rivista di Psicologia” un saggio, peraltro
apprezzato da Freud: “Il fondamento e il meccanismo della psico-analisi”, e la traduzione di un
articolo di Jung sulla psicologia criminale.
Nello stesso anno Gustavo Modena, (1876-1958), figura che si rivelerà contraddittoria rispetto
alle sorti della psicoanalisi in Italia, allora vicedirettore del manicomio di Ancona, scrive per la
“Rivista sperimentale di freniatria”: “Psicopatologia ed etimologia dei fenomeni psiconevrotici:
contributo ala dottrina di Freud”.
Quando dopo il 1910 lo psichiatra e neuropatologo Marco Levi Bianchini (Rovigo 1875-1961) si
accosta alla psicoanalisi, la sua adesione entusiastica alla teoria freudiana lo induce a
promuovere varie iniziative per favorirne la conoscenza e la diffusione in Italia. Nel 1925 fonda
a Teramo la Società psicoanalitica italiana di psicoanalisi, che raccoglie i medici interessati alla
psicoanalisi. Tale società è un sodalizio nominale, senza punti di contatto con quanto oggi si
può intendere con questa denominazione, pertanto non fece mai parte dell’Associazione e
Psicoanalitica Internazionale che esisteva dal 1910.
Levi Bianchini non può essere considerato propriamente un analista, dal momento che non era
stato analizzato.
Edoardo Weiss (Trieste 1889 - Chicago 1971) è l’unico psicoanalista italiano formatosi a Vienna
presso la scuola freudiana. Inizia un’analisi presso Paul Federn, che durerà 18 mesi, al termine
della quale s’instaura un sodalizio scientifico, che porta Weiss ad adottare lo specifico
orientamento fenomenologico di Federn. Prima di laurearsi, nel 1913, Weiss viene accettato
come Membro della Società Psicoanalitica di Vienna, iniziando così la frequentazione delle
serate famose del “mercoledì”.
Negli anni di permanenza a Trieste, Weiss si mette in contatto con i pochi italiani che
dimostrano un autentico interesse per la psicoanalisi e li incontra ufficialmente a Firenze al IV
Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicologia. Quello sparuto gruppo era formato da
Marco Levi Bianchini, Sante De Sanctis, uno dei fondatori della neuropsichiatria infantile
italiana, docente a Roma di psicologia sperimentale, scienziato diviso fra gli studi psichiatrici,
psicopatologici e la psicologia scientifica, e Vittorio Benussi.
Vittorio Benussi (Trieste 1878 - Padova 1927) dal 1902 lavora a Graz presso il laboratorio di
Psicologia sperimentale, affrontando lo studio dei fenomeni ipnosuggestivi, che lo
familiarizzano con l’opera di Freud. Rientrato in Italia, grazie all’intercessione del De Sanctis
ottiene a Padova la cattedra di psicologia con una procedura straordinaria: “per chiara fama”.
Cesare Musatti, suo assistente a Padova, racconta che Benussi si era sottoposto ad analisi a
Graz e che intorno al 1923 per un paio d’anni aveva analizzato i suoi due assistenti: Musatti
appunto e la futura sua prima moglie, Silvia De Marchi, con la motivazione espressa che una
maggiore conoscenza e consapevolezza personale facilitano il lavoro di ricerca. Nel 1927
Benussi si suicida assumendo un tè al cianuro; Musatti scopre il suicidio, ma tiene segreta la
causa della morte fino agli anni ’80, per timore di possibili ripercussioni negative sulla
psicologia italiana, all’epoca sottoposta a forti pressioni sia dal regime fascista che dalla chiesa
cattolica. Sarà Musatti a tenere il primo corso universitario di psicoanalisi presso l’Università di
Padova nell’anno accademico 1933-1934.
SPI => intanto, per sottrarsi al fascino ufficiale dell’ospedale psichiatrico dove lavora, spronato
anche da Freud a costituire un movimento analitico in Italia, impresa più semplice da Roma
che da Trieste, Weiss si trasferisce. L’anno successivo, nel 1932, rifonda la Società
Psicoanalitica Italiana ufficiale, per la quale nel 1935 ottiene il riconoscimento formale dell’IPA
(International Psychoanalitical Association) e pubblica il suo organo ufficiale, la Rivista Italiana
di Psicoanalisi. Questa avrà vita breve, perché dopo due anni non sarà più autorizzata dalle
autorità con questa motivazione: per tutelare la moralità. Lo sparuto gruppo, ma coeso e
motivato, che si raccoglie intorno allo psicoanalista triestino è costituito da: Nicola Perrotti ed
Emilio Servadio i quali dopo aver letto il saggio di Weiss con l’introduzione di Freud, gli
chiedono di iniziare un’analisi, Cesare Musatti e Alessandra Wolff Stomersee Tomasi di Palma,
principessa di Lampedusa (1896-1982). A Loro si aggiungono la moglie di Weiss, la pediatra
Vanda Shrenger e pochi altri soci aderenti. La principessa è l’unica donna a rivesteire la carica
di presidente della SPI (dal 1954 al 1959).
Il dopoguerra. Se gli anni ’20 la psicoanalisi è considerata in modo dispregiativo una teoria
tedesca, negli anni ’30 un sistema di pensiero ebraico, nel 1968 sarà una moda americana. Nel
1945 la psicoanalisi risulta sconosciuta alla maggioranza degli psichiatri italiani e assente
dall’ambito accademico; inoltre la guerra aveva tagliato i fili con le culture d’oltralpe. La
ricostruzione della Società Psicoanalitica avviene gradualmente a partire dagli anni
immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, attorno ai fondatori che si riuniscono
il mercoledì a Roma; i primi verbali sono stilati dal giovane Gaddini. I quattro, cui si aggiunge
Claudio Modigliani (1916-2007), sono uniti da un forte intento comune, ancorati alla lettura dei
testi di Freud e alla metapsicologia, disponibili a svariare tipologie di esperienza, aperti alla
ricerca e al confronto con le nuove impostazioni kleiane. Servadio (1904-2011) era rientrato
nel 1946 da Bombay, dove era emigrato nel ’38 per sfuggire alle persecuzioni razziali. Perrotti
(1897-1970), l’unico medico del gruppo, e anche l’unico a non essere ebreo, assegna alla
psicoanalisi un compito clinico e politico. Musatti è il grande divulgatore e comunicatore nei
dibattivi accademici e culturali del suo tempo. Dal momento che le personalità, le provenienze
culturali, gli ambiti di ricerca dei caposcuola sono estremamente diversificati, dopo un periodo
di lavoro comune a Roma nella sede di via Annone, le divergenze sui criteri e sulle modalità del
training formativo nel 1961 costringono l’IPA ad intervenire.
Gli anni’60. Viene sancita la costruzione di tre gruppi d’insegnamento: all’Istituto di Psicoanalisi
di Via Salaria guidato da Perrotti, che è all’origine della Prima Sezione Romana dell’Istituto
Nazionale di Training, nel 1962 si aggiunge l’Istituto del Centro psicoanalitico presieduto da
Servadio. Nel ’63 si costituisce il Centro milanese di psicoanalisi che fa capo a Musatti. Di fatto
la SPI è tenuta sotto tutela fino al 1967. Nel frattempo a Palermo alla Principessa succede
Francesco Corrao (1922-2007), al quale si deve la creazione nel 1978 del Centro Psicoanalitico
di Palermo, lo studio della Klein e di Lacan e soprattutto l’introduzione in Italia del pensiero di
Bion, di cui traduce le opere negli anni ’60-70. In questa prima fase la formazione degli analisti
avviene sia a Roma che a Milano in modo poco burocratico, con uno spazio di ricerca
riconosciuto ai diversi istituti e ai singoli docenti; lo Statuto e il regolamento SPI garantiscono
una linea unitaria.
Gli anni ’60-70. Tra gli anni ’60-70, con entusiasmi più marcati nel ’68-69, connessi alla
psicoanalisi internazionale, si delineano dei filoni di ricerca che sono approfonditi sia in modo
individuale che in gruppo, nei Centri della SPI.
A Milano tre allievi di spicco di Musatti, nella loro elaborazione si confrontano con altri sistemi
teorici; Franco Fornari (1921-1985) è legato al pensiero kleiniano, Giancarlo Zapparoli è
interessato alla cura degli psicotici e orientato dal pensiero psicoanalitico americano di Sullivan
e Davide Lopez (1925-2010) si avvicina alle teorie del gruppo degli indipendenti inglesi.
All’allargamento di campo della prassi analitica alla terapia di gruppo, la psicoanalisi ufficiale
risponde irrigidendosi in un atteggiamento di difesa, modalità totalmente assente fra i
fondatori della SPI. Si diffonde la cultura dei piccoli gruppi. Psicoanalisti come Pier Francesco
Galli, Mara Selvini Palazzoli, Enzo Spaltro fondano il “Gruppo milanese per lo sviluppo della
psicoterapia”, che nel ’78 diviene “Psicoterapie e scienze umane”. Nel ’67 a Roma Fabrizio
Napoletani apre la prima Comunità terapeutica di gruppo, mentre il fratello Diego, in aperto
dissenso con la SPI, fonda l’AMAG, associazione milanese d’analisi di gruppo.
Lacan. Nel 1952 Daniel Lagache e Jacques Lacan si dimettono dalla Società Psicoanalitica
Francese. Con gli anni ’70 si entra in un secondo tempo di Lacan in Italia - come scrive
Giacomo Contri, che lo aveva incontrato a Parigi nel ’68, era divenuto suo analizzando, e ne
aveva tradotto in italiano gli Ecrits, pubblicati nel 1974 presso Einaudi. Lacan nel ’74 propone a
tre dei suoi diretti allievi, Contri, Drazien e Verdiglione di costituire insieme un’associazione,
con la denominazione La cosa freudiana.
La Psicoanalisi Oggi
Scienza negli anni 2000? La psicoanalisi non può aspirare a entrare nel novero delle scienze
hard. Non sembra soddisfacente, come alternativa, la scelta ermeneutica, che vede la
psicoanalisi come una sorte di pratica narrante, dove l’interpretazione è libera, ma
abbandonata all’arbitrio. Sembra più appropriata, in una dimensione euristica, l’idea di uno
sviluppo verso un modello scientifico; una strategia di ricerca, più che un’affermazione
preliminare di principi.
L’ortodossia psicoanalitica:
• International Psychoanalityc Association (IPA)
• International Journal of Psychoanalysis
• Società Psicoanalitica Italiana (SPI)
• Rivista di Psicoanalisi
I membri componenti dell’IPA sono più di 12.000. Più gli allievi. Organizzati in circa 70 istituti.
Il Congresso Internazionale si tiene ogni 2 anni. In Italia gli Psicoanalisti SPI sono oltre 600.
Oltre alla SPI, l’IPA riconosce la Italian Psychoanalytical Association (AIPsi).
In Italia. Freud definì “selvaggi” coloro che prevedevano di curare analiticamente e fornivano
interpretazioni ai pazienti senza essersi sottoposti preliminarmente all’analisi e al training [Cfr.
Freud S. (1926)]. In Italia alcuni nostri pionieri erano laureati in materie diverse dalla
Medicina. Musatti in Matematica, Servadio e Pietro Veltri in Giurisprudenza.
Test proiettivi
Test di Percezione Tematica (TAT) di Murray e Morgan :
- Modello teorico di riferimento = fece la sua prima apparizione nel 1935, ma la sua versione
attuale venne pubblicata solo nel 1943. La genesi del test è determinata dalla teoria dei
bisogni e delle pressioni di cui Murray è fautore. Teoria che determina fortemente il metodo
di interpretazione proposto dall’autore: il comportamento umano è determinato e si disegna
seguendo i contorni proprio di questi due concetti. I bisogni sono forze che definiscono non
solo la percezione, ma anche quelle interpretazioni personali che portano poi all’azione. I
bisogni possono essere “primari” (viscerogeni) e quindi connessi a soddisfazioni prettamente
biologiche (fame, sete, sesso) o “secondari” (psicogeni) che hanno a che vedere con la parte
più evoluta di noi (essenzialmente bisogni di autonomia, affiliazione e realizzazione).
Le pressioni sono invece le forze ambientali che agiscono sull’individuo, e Murrray le divide
in pressioni alfa (oggettive, ad esempio il dolore fisico) e beta (legate alla soggettività di chi
subisce questa pressione, ad esempio la soglia del dolore diversa per ciascuno). Bisogni e
pressioni interagiscono tra loro, creando una tela complessa e articolata che definisce le
peculiarità e le scelte dell’individuo. Bisogni e pressioni sono dunque le aree oggetto di
indagine del Test. Il TAT è ancora oggi ampiamente utilizzato, pur con tutte le controverse
statistiche che lo accompagnano. E’ il quarto test più utilizzato dagli Psicologi clinici e, nella
lista dei proiettili, è secondo solo al Rorschach.
- Cosa misura = aiuta a creare un profilo della personalità, indagando l’individuo, i suoi
bisogni, le sue motivazioni, le sue aspettative e il suo modo di percepirsi e percepire l’altro.
Il test è quindi utili per comprendere come il soggetto si muove nel suo mondo interiore e
nella realtà esterna.
- Ambiti di utilizzo = non è adatto a formulare una diagnosi descrittiva, ma risulta utile
proprio per delineare aspetti importanti della personalità.
- Somministrazione = 20 tavole somministrate in due sessioni, anche se poi usualmente se ne
somministrano meno in una sola seduta - c’è un’ampia variabilità nella scelta.
- Si compone di = serie di tavole; manuale d’istruzioni; manuale clinico del TAT.
- Presentazione del Test = si compone di 31 tavole (tutte in bianco e nero tranne una tavola
interamente bianca) in cui compaiono figure che risultano fortemente ambigue, e la loro
somministrazione varia per quel che concerne il numero e la scelta delle tavole. Da manuale
si “dovrebbero” somministrare 20 tavole in due sessioni, ma di solito se ne utilizzano meno -
circa dieci - in un unico incontro. La scelta delle tavole varia in funzione del sesso e dell’età:
questa fluidità definisce la problematica principale del TAT. Senza dubbio il TAT è uno
strumento prezioso, anche se non è possibile definirlo un test diagnostico in senso stretto.
Di fatti con esso non è possibile delineare diagnosi descrittive, anche se può dare indicazioni
estremamente importanti proprio in funzione di un’ipotesi diagnostica, se utilizzato in un
contesto più ampio di strumenti e tecniche. Le indicazioni del TAT da dare al paziente
rimangono piuttosto semplici, dato che siamo al cospetto di un’immagine che nella sua
ambiguità chiede di essere svelata: cosa sta accadendo in questa figura? Cosa è accaduto
prima? Quale sarà l’epilogo? Un quadro completo e in movimento, nel quale le dinamiche
interne della persona vengono proiettate sul materiale-stimolo, e potremmo quasi
permetterci di definirla un’esperienza artistica. Ma il TAT ha un importante ditelo: ha qualità
psicometrie deboli, con una scarsa attendibilità legata all’enorme quantità di metodi di
scorni in uso, il che non consente quindi il rigore scientifico, per come esso viene
usualmente inteso.
Il Test di Rorschach
Fu stimato da Hermann Rorschach nel 1921 e pubblicato nel volume Psychodiagnostik. E’
comunemente classificato come test proiettivo, ma sarebbe più opportuno classificarlo come
test cognitivo-percettivo (o problem soling o space performance). Il paziente non conosce né
gli obiettivi del test, né il modo in cui le sue risposte saranno valutata; è inoltre
completamente libero di rispondere, organizzando soggettivamente contenuto e forma degli
stimoli che gli vengono presentati. Questo genere di test conduce, generalmente, ad
interpretazioni della personalità del paziente, supportate dalla teoria cognitiva o da quella
psicoanalitica.
- Il materiale = il testo consiste nella presentazione standardizzata e sequenziale al paziente
di 10 tavole (formato 23x17 cm), su ciascuna delle quali compare una macchia di inchiostro
non particolarmente strutturata e simmetrica rispetto all’asse centrale. Le tavole possono
essere in bianco e nero (I-IV-V-VI-VII), rosse e nere (II-III) o a colori (VIII-IX-X).
- Somministrazione = ci sono diverse forme di somministrazione che dipendono dal sistema di
scorni scelto. Le tavole, ordinate dalla prima alla decima, vengono presentate al paziente
una alla volta. Per quanto riguarda la consegna, nel Sistema Comprensivo di Exner, lo
psicologo dice semplicemente: “Cosa potrebbe essere questo?”. Posto di fronte a ciascuna
tavola, il soggetto è libero di osservarla, capovolgerla e quindi organizzarla percettivamente,
oppure di non fare o dire nulla: questo fornisce, di per sé, dati utili al fine della diagnosi.
Compito dello psicologo è trascrivere tutto ciò che il paziente riferisce in corrispondenza di
ciascuna tavola, su un foglio bianco, ripartito in due colonne: nella prima scriverà le
risposte, nella seconda riporterà i dati derivati dall’inchiesta. Questa fase segue la
somministrazione di tutte le tavole, per non influenzare il rendimento del paziente, e
consiste fondamentalmente in una seconda presentazione delle stesse con rilettura delle
interpretazioni al paziente, al fine di ottenere informazioni utili per la siglatura precisa. La
siglatura è un sistema di codifica che permette l’elaborazione del profilo.
- Siglatura e interpretazione = nell’interpretazione del Rorschach, l’accento è posto sul modo
in cui il paziente organizza la percezione, dà forma alla sua risposta, sulle motivazioni che
fornisce e sui contenuti che presenta, spesso ricorrenti da una tavola all’altra. In generale,
percezioni che sono compatibili con la macchia di inchiostro stanno ad indicare un buon
livello di funzionamento psicologico e una buona capacità di tenere conto della realtà; al
contrario, risposte indegnità, disarmoniche, bizzarre, sono indici di una vita fantasmatica
irrealistica, conflittuale e fortemente connotata emotivamente. I principali parametri da
considerare sono la forma, il movimento, il colore, il chiaroscuro e il contenuto, ma ce ne
sono molti altri. Siglatura e interpretazione del Rorschach sono complesse e controverse: il
Sistema Comprensivo di Exner, tendente ad integrare le proposte dei principali autori,
rappresenta il metodo attualmente più in uso.
I MECCANISMI DI DIFESA
Un meccanismo di difesa, nella teoria psicoanalitica, è una funzione propria dell’Io attraverso la
quale questa istanza intrapsichica si protegge da eccessive richieste libidiche o da esperienze
di pulsioni troppo intense che non è in grado di fronteggiare direttamente. lo studio dei
meccanismi di difesa è originato da Sigmund Freud ed è stato ripreso da diversi psicoanalisti.
Sono di ampio rilievo i contributi della figlia di Freud, Anna Freud nel suo libro “L’Io e i
meccanismi di difesa” 1968.
La psiconevrosi di difesa, 1894 => “…nella loro vita ideativa si era presentato un caso di
incompatibilità […] che aveva suscitato un affetto talmente penoso, che il soggetto aveva
deciso di dimenticarlo, convinto di non avere la forza necessaria a risolvere, per lavoro
mentale, il contrasto esistente tra questa rappresentazione incompatibile e il proprio Io”
(p.123).
Rimozione: “il pilastro su cui poggia l’edificio della psicoanalisi” (Freud, 1915).
“La sua essenza consiste semplicemente nell’espellere e tener lontano qualcosa dalla
coscienza” (Freud, 1915). L’individuo affronta conflitti emotivi e fonti di stress interne od
esterne tramite il non essere in grado di ricordare o il non essere cognitivamente consapevole
di desideri, sentimenti, pensieri o esperienze disturbanti.
Una schematica lettura dell’opera di Freud permette di riassumere alcune delle caratteristiche
che Freud considera le proprietà generali delle difese dell’Io:
A. Caratterizzano sia i quadri psicopatologici sia la vita del soggetto normale;
B. Sono lo strumento principale con cui il soggetto gestisce gli istinti e gli affetti negativi;
C. Sono inconsce;
D. Sono discrete l’una rispetto all’altra;
E. Possono essere reversibili;
F. Possono essere sia adattive sia patologiche;
G. Quando ripetitive e inattuali finiscono per preparare e favorire lo scoppio della nevrosi.
(Freud, 1937, p.521).
Un meccanismo di difesa entra in azione con modalità al di fuori della sfera della coscienza: di
fronte a una situazione che genera eccessiva angoscia, per esempio, l’Io ricorre a varie
strategie per fronteggiare l’estrema portata ansiosa dell’evento, con lo scopo preminente di
escludere dalla coscienza ciò che è ritenuto inaccettabile e pericoloso.
Anna Freud = “I mezzi difensivi rilevati ora dalla psicoanalisi mirano tutti ad uno scopo: aiutare
l’Io nella sua lotta contro la vita istintuale. Sono usati da tre tipi di angoscia a cui l’Io si trova
principalmente esposto”. (1936):
• Angoscia morale (Es - Super-Io)
• Angoscia del reale (Es - realtà esterna)
• Angoscia istintuale (Es - Io)
Anna Freud propone un elenco di meccanismi di difesa che comprende quelli già esposti dal
padre (rimozione, formazione reattiva, isolamento, annullamento retroattivo, spostamento,
isteria, ossessioni e compulsioni e fobie) ed alcuni nuovi meccanismi (sublimazione,
identificazione con l’aggressore, altruismo). Secondo la Freud tale lista raggruppa sia
meccanismi di difesa semplici che complessi; questi ultimi in particolare, sono il risultato di una
combinazione di diversi meccanismi semplici che agiscono in concerto e in sinergia. Secondo
Anna Freud tutte le difese possono essere ordinate lungo una linea evolutivo-maturativa.
L’adeguatezza e l’adattività di un determinato meccanismo in un determinato individuo
possono essere valutate sulla base di quattro importanti criteri:
• INTENSITA’, ossia proporzione quantitativa di impiego di una difesa;
• ADEGUADEZZA RISPETTO ALL’ETA’, ossia prematurità, fissazione o regressione del
meccanismo;
• REVERSIBILITA’, ossia abilità dell’individuo nel disattivare la difesa quando cessa di essere
funzionale;
• EQUILIBRIO TRA LE DIFESE, ossia utilizzazione da parte dell’individuo di un alto numero di
difese o loro impiego in numero ristretto e in modo rigido.
In questo modo, Anna Freud introduce e indaga l’esistenza di una possibile correlazione tra le
difese utilizzate dal soggetto e lo stato di salute dell’Io di quest’ultimo.
Anna Freud è infatti la prima a tentare una standardizzazione e una valutazione oggettiva del
materiale relativo ai meccanismi di difesa sulla base delle informazioni che emergono in un
contesto squisitamente clinico. Tale tentativo pionieristico trova la sua massima espressione
nella pubblicazione, successiva ad un lungo lavoro protrattosi per oltre un trentennio, del suo
famoso Indice Hampstead. Questo indice si suddivide principalmente in due parti, una
manualistica ed una pratica. Nella prima vengono presentati definizioni ed indicazioni
preliminari circa l’uso di termini specifici e circa l’organizzazione e la struttura della seconda
sezione; quest’ultima consiste in una raccolta del materiale clinico assemblato dagli analisti
dell’allora Hampstead Clinic (oggi Anna Freud Center) durante il trattamento analitico di
bambini. L’obiettivo principale che la Freud vuole raggiungere con la compilation dell’Indice
Hampstead è quello di rendere il materiale prettamente clinico più accessibile alla ricerca,
all’insegnamento ed alla consultazione; ciò permette anche, secondo la Freud, di facilitare il
confronto tra casi differenti e di fornire nuovi spunti e ulteriori impulsi alla ricerca.
Melanie Klein = studia i meccanismi di difesa primitivi, legati agli stati psicotici. Divide le difese
in psicotiche (contro le angosce derivanti dall’istinto di morte) e nevrotiche (contro la libido).
Le difese non si limitano a proteggere l’Io da sentimenti dolorosi, ma rappresentano principi
organizzativi della vita psichica. Per quanto la Klein (1930) abbia distinto le difese psicologiche
in nevrotiche e psicotiche, di fatto si è occupata quasi unicamente delle seconde. Uno dei punti
di rottura tra Melanie Klein e Anna Freud fu proprio che mentre quest’ultima era interessata al
funzionamento delle difese, e dunque al ruolo dell’Io nello sviluppo del carattere, la Klein
mirava soprattutto a individuare il contenuto profondo delle fantasie angosciose (Lingiardi &
Madeddu, 2002). La novità introdotta dalla Klein deriva dall’osservazione che il bambino
introietta parti del corpo del genitore, su cui ha proiettato le sue pulsioni nelle fasi precoci dello
sviluppo del Super-Io, prima di interiorizzare i genitori come oggetti interi e distinti. Questa
ipotesi le permette di suggerire che certe difese siano suscitate da impulsi associati a
rappresentazioni di sé interiorizzate (per esempio, fantasie di parti del Sè, prodotti corporei,
ecc.) e poi proiettate negli oggetti. In questo modo, le difese come la scissione,
l’identificazione proiettiva, l’idealizzazione e l’onnipotenza implicano percezioni distorte del Sè o
del mondo esterno, legate a stati pulsioni interni.
Kernberg = secondo Kernberg i meccanismi di difesa possono essere definiti come fenomeni
intrapsichici, volti a governare tutti quei conflitti interiori che coinvolgono al loro interno
diverse componenti del soggetto, tra cui, in particolare, il concetto di SE’ e le relazioni
oggettuali interiorizzate. le teorizzazioni di Kernberg derivano principalmente dalle sue
esperienze in ambito clinico e , per questo , i suoi studi sulle difese rimangono fortemente
collegati alla psicopatologia. Kernberg basa tutti i suoi approfondimenti sui meccanismi di
difesa su una concezione delle difese come disposto lungo un ipotetico continuum gerarchico
ed evolutivo, di gravità: i pazienti più gravi sono pertanto quelli che persistono nell’uso di
meccanismi patologici che risultavano tipici e fisiologici nel corso di fasi molto precoci dello
sviluppo psichico.
• Meccanismi di difesa primitivi => Organizzazione borderline e psicotica
• Meccanismi di difesa di alto livello (nevrotiche) => Organizzazione nevrotica
• Meccanismi di difesa maturi => Organizzazione sana
Esempi:
- Difese primitive = Scissione, Identificazione Proiettiva, Proiezione, Diniego, Dissociazione,
Acting Out
- Difese di alto livello (nevrotiche): Rimozione, Intellettualizzazione, Isolamento, Formazione
Reattiva
- Difese Mature: Repressione, Umorismo, Sublimazione.
George Vaillant = secondo Vaillant i meccanismi di difesa sono dei processi che entrano in
azione nel soggetto in relazione ad un conflitto psichico che può manifestarsi in seguito a
turbamenti provenienti da diverse realtà: i bisogni istintualità (Es), il mondo esterno, la
coscienza morale e l’eredità culturale (Super-Io) e, in ultimo, le relazioni con altri significativi.
Uno sconvolgimento in questi campi può destabilizzate l’equilibrio psichico ed emotivo
dell’individuo; i meccanismi di difesa sono appunto uno strumento attraverso cui cercare il
contenimento del dolore psichico derivante da queste perturbazioni, la riduzione dell’ansia
affinché sia tollerabile e un recupero dell’equilibrio perduto attraverso differenti modalità
(quali, ad esempio, il differimento nel tempo e la riduzione delle pulsioni istintuali).
- LIVELLO 1. DIFESE NARCISISTICHE-PSICOTICHE: proiezione delirante, diniego psicotico,
distorsione della realtà esterna.
- LIVELLO 2. DIFESE IMMATURE: proiezione, fantasia schizoide, ipocondriasi, comportamento
passivo-aggressivo, acting out, dissociazione.
- LIVELLO 3. DIFESE NEVROTICHE: isolamento/intellettualizzazione, rimozione, spostamento,
formazione reattiva.
- LIVELLO 4. DIFESE MATURE: altruismo, umorismo, repressione, anticipazione, sublimazione.
Cristopher J. Perry = Perry esamina le difese dal punto di vista della teoria del conflitto
psichico, definendole come un meccanismo che media tra i desideri, le necessità, gli affetti e
gli impulsi del soggetto da un lato, e le proibizioni interiorizzate e la realtà esterna dall’altro
(Perry & Cooper, 1986). Elabora la Defense Mechanism Rating Scale (DMRS). Sulla base della
classificazione della DMRS e della ricca letteratura che essa stessa ha stimolato, Perry giunge
alla costruzione di una scala di valutazione del funzionamento difensivo (la Defensive
Functioning Scale, DFR, Perry, 1993), da inserire come ulteriore asse psicodinamico all’interno
del DSM IV (APA, 1994), sottolineando l’importanza della valutazione dei meccanismi di difesa
dell’individuo per una comprensione più ampia del disagio mentale.
Mentre nella psicoanalisi classica le difese sono configurazioni psicologiche inconsce che
riducono il conflitto (e, di conseguenza, l’angoscia), mantengono un equilibrio intrapsichico,
regolano l’autostima e modulano l’angoscia nel modello psicodinamico relazionale e le difese
sono considerate meccanismi di protezione per preservare il Sé autentico.
Nell’ambito della psicologia sociale e sperimentale le difese vengono invece identificate con le
strategie di coping, con la capacità di affrontare i problemi. Sono i meccanismi consci e e volti
soprattutto alla risoluzione di minacce esterne. Il cognitivismo tende a definirli Processi di
Regolazione Involontaria.
DIFESE DI ACTING.
• Acting out = il soggetto reagisce senza riflettere o senza tener conto delle conseguenze
negative personali o sociali (spesso comportamenti antisociali o autodistruttivi); questo
acting out presenta relazioni con affetti o impulsi che il soggetto non può tollerare. Questo
permette al soggetto di scaricare o esprimere gli impulsi che non sono controllabili e che
riflettono gli eventi dolorosi.
• Aggressività passiva = il soggetto esprime in maniera indiretta e dissimulata aggressività
verso gli altri, presentando, sotto una facciata di cooperazione e benevolenza, una resistenza
nascosta verso gli altri; sentimenti di ostilità e risentimento indiretti e dissimulati; incluso il
rivolgere l’aggressività contro di sé.
• Ipocondriasi = comporta l’uso ripetuto di lamentele attraverso le quali il soggetto
ostentatamente chiede aiuto, esprimendo contemporaneamente sentimenti nascosti di
aggressività o di risentimento nei confronti degli altri, sotto forma di rifiuto di qualsiasi
proposta di assistenza.
DIFESE BORDERLINE
• Scissione = il soggetto descrive se stesso o gli altri come solo buoni o solo cattivi, senza
riuscire a integrare in un’immagine coesa gli aspetti positivi e negativi di sé e degli altri
(descrizioni contraddittorie), come se il mondo fosse diviso in due campi distinti, il bene e il
male, il che gli consente di ridurre l’angoscia legata al processo utilizzato per discernere e
comprendere gli atteggiamenti e le reazioni degli altri.
• Identificazione proiettiva = la rappresentazione dell’affetto o della pulsione è proiettata su
qualcun altro, come se fosse realmente l’altro l’origine dell’affetto o della pulsione. A
differenza della proiezione, il soggetto non nega il contenuto della proiezione e rimane
cosciente dell’affetto che attribuisce all’altro; tuttavia non è cosciente di essere all’origine del
materiale proiettato.
DIFESE DI DINIEGO
• Negazione = il soggetto rifiuta di riconoscere alcuni aspetti della realtà esterna o della sua
realtà psichica (affetti e rappresentazioni) che sono evidenti agli altri.
• Proiezione = il soggetto attribuisce agli altri, senza esserne consapevole, i propri sentimenti,
impulsi o i suoi pensieri, il che gli permette di evitare di confrontarsi direttamente con
emozioni e variabili che lo renderebbero troppo vulnerabile se ammettesse la loro presenza
in se stesso.
• Razionalizzazione = il soggetto elabora le spiegazioni rassicuranti e utili per giustificare i
propri comportamenti o quelli degli altri, i veri motivi non sono percepiti dal soggetto per
evitare di prendere coscienza delle motivazioni autentiche di questi comportamenti.
ALTRE
• Fantasia autistica (o schizoide) = il soggetto si rifugia eccessivamente in sogni a occhi aperti
come sostituti di rapporti umani e sociali, al fine di proteggersi dai conflitti o permettere la
soddisfazione di impulsi e desideri, ottenendo così soddisfazioni temporanee e sostitutive
senza confrontarsi con il principio di realtà.
DIFESE NARCISISTICHE
• Onnipotenza = il soggetto sviluppo, attraverso l’auto-attribuzione di capacità o di poteri
straordinari, un’immagine di sé onnipotente e superiore a quella degli altri, che lo protegge
da una diminuzione di autostima; l’autostima è artificiosamente ingigantita, deformando la
valutazione dei conflitti che si accompagnano a sentimenti opposti.
• Idealizzazione = il soggetto attribuisce qualità esagerate a se stesso o ad altri, cosa che gli
procura una fonte di soddisfazione e una protezione contro i sentimenti di impotenza, nel
senso che ciò che gli permette di mantenere un’immagine perfetta e irreprensibile
dell’oggetto idealizzato.
• Svalutazione = il soggetto attribuisce “qualità” eccessivamente negative a se stesso o ad
altri, vale a dire affermazioni denigratorie, sarcastiche su se stessi o sugli altri in modo da
aumentare l’autostima.
DIFESE NEVROTICHE
• Rimozione = il soggetto è incapace di ricordare o essere cognitivamente consapevole dei
conflitti (desideri, sentimenti, pensieri o esperienze), il che lo protegge da ciò che prova o ha
provato; le componenti emozionali sono presenti, mentre le componenti cognitive rimangono
fuori dalla coscienza.
• Dissociazione = il soggetto altera la funzione integrativa della coscienza o dell’identità e un
affetto o una pulsione determinata agisce nella sua vita psichica senza che ne sia cosciente,
cosa che gli può provocare la perdita di una funzione o un comportamento insolito. Es.
confusione, sensazione di vertigine, presenza di sintomi fisici senza riconoscimento di ciò che
potrebbe essere un legame con i sintomi.
• Formazione reattiva = ad affetti o pensieri inaccettabili, il soggetto attribuisce un senso
diametralmente opposto, che gli permette di evitare i sensi di colpa.
• Spostamento = il soggetto sposta una rappresentazione o un affetto legato ad un oggetto su
un altro oggetto, meno angosciante e meno conflittuale; il conflitto è così spostato su cose
secondarie.
DIFESE OSSESSIVE
• Isolamento = il soggetto è incapace di essere simultaneamente cosciente delle componenti
affettive e cognitive esperite perché l’affetto rimane distanziato dalla coscienza. Il soggetto
non è cosciente del contenuto emozionale associato a un’idea, pur rimanendo comunque
cosciente dei contenuti cognitivi.
• Intellettualizzazione = il soggetto esprime le sue emozioni e i suoi sentimenti in forma di
astrazioni o di generalizzazioni al fine di prendere le distanze a fronte dell’affetto o pulsione.
• Annullamento retroattivo = il soggetto ha pensieri o comportamenti che hanno un significato
opposto a pensieri, affetti o comportamenti passati o presenti, attraverso i quali il soggetto
tenta di annullare i conflitti collegati ai componenti originali; questo meccanismo corrisponde
a un processo di riparazione di aspetto “magico”. Comportamenti o commenti sono così
immediatamente seguiti da propositi o attitudini che hanno un senso opposto (atti di
riparazione).
DIFESE MATURE
• Affiliazione = il soggetto si rivolge agli altri per avere aiuto o sostegno, per confidarsi al fine
di sentirsi meno solo. Aumenta così la sua capacità di far fronte ai suoi problemi ricevendo il
sostegno e la comprensione degli altri, siano un consiglio o un aiuto pratico.
• Altruismo = il soggetto si dedica agli altri, realizzando in parte i propri bisogni, ricevendo in
questo modo delle gratificazioni parziali o indirette da parte degli altri.
• Anticipazione = il soggetto anticipa dal punto di vista psichico le emozioni associate a
problemi probabili o futuri, considerando soluzioni alternative e anticipando le reazioni
emotive, in modo da permettere la preparazione di una migliore risposta adattiva, così da
attenuare gli effetti dei futuri conflitti e dello stress.
• Umorismo = il soggetto insiste sugli aspetti comici o ironici del conflitto e dello stress.
L’umorismo tende così ad alleviare le tensioni permettendo agli altri di condividerle e
permette di esprimere simbolicamente gli affetti o i desideri di intralcio.
• Autoaffermazione = il soggetto esprime le proprie emozioni e pensieri per raggiungere i suoi
obiettivi di ridurre l’ansia o il dolore psichico associato a elementi conflittuali.
• Introspezione/Autosservazione = il soggetto riflette sui propri pensieri, affetti, motivazioni e
comportamenti, ciò che gli permette di comprendersi meglio e di meglio adattarsi alle
esigenze della realtà esterna.
• Sublimazione = il soggetto dirige le sue emozioni e pulsioni, giudicate inaccettabili o
discutibili verso nuovi oggetti socialmente apprezzati (ad esempio lo sport o i giochi che
canalizzano le pulsioni aggressive, le creazioni artistiche che canalizzano i conflitti pulsionali),
il che porta al soggetto un riconoscimento o gratificazione a livello sociale.
• Repressione = il soggetto mette momentaneamente da parte i problemi, desideri o affetti
che lo disturbano per affrontarli o risolverli al momento opportuno, facendoli poi ritornare
alla coscienza.
Breve Storia del Comportamentismo
Gli autori:
J.B. Watson è il padre del comportamentismo. Altri autorevoli esponenti di questo modello
sono:
- Ivan Pavlov
- Edward Thorndike
- Max Meyer
- Walter Samuel Hunter
- Zing-Yang Kuo
- Karl Lashley
- Edward Chace Tolman
- George HerbertMead
- Henry Piéron
- Clark. L. Hull
- Edwin Ray Guthrie
- Burrhus Frederic Skinner
- Kenneth Wartinbee Spence
- Jacob Robert Kantor
- Albert Paul Weiss
- Albert Bandura
………
Aaron Temkin Beck (Rhode Island 1921) => professore emerito di Psichiatria nell’Università
della Pennsylvania, di formazione psicoanalitica, già dal 1964 preferiva definirsi come
terapeuta cognitivo piuttosto che razionale o razionalista. Beck applicò le sue teorizzazioni e
tecniche terapeutiche prima con i disturbi depressivi e poi con quelli d’ansia. La tecnica fu
descritta, replicata e dimostrata secondo i canoni usati negli ambiti della medicina, e fu una
delle prime volte che ciò avveniva per una psicoterapia. Beck aveva creato un nuovo modello
teorico e clinico. L’utilizzo di alcune tecniche di tipo comportamentismo fece sì che la terapia
assumesse il nome di Cognitive Behavioral Therapy (CBT, Terapia Cognitivo Comportamentale
o TCC). Questo successo portò la psicoterapia cognitiva a espandersi negli anni ’70 e negli anni
’80. La teoria cognitiva si coniuga bene con le neuroscienze; sono state poste le basi fin da
quegli anni di una reciproca e proficua collaborazione per la spiegazione e comprensione di
molti processi mentali.
Alcuni terapeuti continuarono ad applicare le tecniche di Beck e a seguire la sua scuola. Questa
terapia è definita Terapia Cognitiva Standard, per distinguerla dalle altre terapie cognitive. E’ la
terapia cognitiva più conosciuta, diffusa e applicata.
LA TERZA ONDA => la terza onda non sembra scaturita da una crisi vera e propria, ma si
affianca con quello che già esiste portando i suoi elementi di novità.
Kabat-Zinn (1944 New York) => il concetto di Mindfulness deriva dagli insegnamenti del
Buddhismo dello Zen e delle pratiche di meditazione yoga. Riscoperta dell’importanza del
corpo, superamento del dualismo mente-corpo. Posizione osservativa anziché logica
razionalista, nessun tentativo di modificare, ma accettazione, la compassione per sé (self-
compassion) al posto del dialogo socratico.
TERZA ONDA => credenze cognitive standard, schemi complessi, terapeuta emotivamente
coinvolto. E’ il modello elaborato da Jeffrey Young: Schema Therapy. Accettazione, impegno e
mindfulness vengono utilizzate nella Acceptance and Commitment Therapy di Steven Hayes.
Modello Cognitivo => sviluppato prima da Ellis e poi da Aaron Beck nei prima anni ’60, si è
molto evoluto e differenziato; il pensiero è “il problema psicologico fondamentale”, ma anche
“il suo rimedio psicologico”. Efficace e rido per aiutare le persone a risolvere difficoltà di
adattamento o crisi evolutive (difficoltà nelle relazioni sociali o nel lavoro, ansia da esame,
reazioni disadattate al lutto, difficoltà nella coppia o nella gestione dei figli, ecc..). Tale modello
postula una complessa relazione tra emozioni, pensieri e comportamenti, sottolineando come
molti dei nostri problemi (tra i quali quelli emotivi) siano influenzati da ciò che facciamo e ciò
che pensiamo nel presente, qui ed ora. L’essenza del pensiero cognitivista può essere riassunto
da questa frase di Epiteto: “Le persone sono disturbate non dalle cose, ma dell’interpretazione
che essi ne danno”.
Non è la situazione di per sé a determinare ciò che le persone sentono, ma il modo in cui
interpretano tale situazione. Sono i pensieri della persona, la sua percezione degli eventi, che
influenzano le emozioni e il comportamento.
L’ipotesi è che, comune a tutti i disturbi psicologici, via sia il pensiero distorto o disfunzionale
(che influenza l’umore e il comportamento del paziente). Il modello alla base dell’approccio
cognitivo-comportamentale si oppone ad una visione deterministica delle emozioni e dei
comportamenti umani: le situazioni che ognuno di noi vive non determinano direttamente le
nostre reazioni (emotive e/o comportamentali). Esiste, invece, un terzo elemento che agisce
fortemente sulle nostre reazioni e cioè il pensiero. Spesso le interpretazioni che diamo agli
eventi non sono solo quelle che diamo a livello razionale. Prima ancora di dare un “giudizio”
positivo o negativo di un evento, nella nostra mente scattano dei pensieri cosiddetti
“automatici” che sfuggono alla nostra coscienza poiché non sappiamo riconoscerli. Sono loro la
vera causa delle emozioni negative e dei comportamenti disfunzionali che proviamo e/o
agiamo in risposta ad alcuni eventi. Una valutazione realistica (che non significa “pensiero
positivo” in senso letterale) e la modificazione del modo di pensare producono ad esempio un
miglioramento dell’umore e del comportamento. Miglioramenti duraturi si ottengono con
modificazione a livello più profondo delle credenze disfunzionali sottostanti del paziente.
Agendo attivamente ed energicamente sui nostri pensieri e sui nostri comportamenti attuali,
possiamo liberarci da molti dei problemi che ci affliggono da tempo.
Perché interpretiamo gli eventi? Per cercare di dare un senso a ciò che ci circonda e
organizzare l’esperienza per non essere sopraffatti dalla grande quantità di stimoli a cui siamo
sottoposti ogni giorno. Con il passare del tempo le varie interpretazioni portano ad alcuni
convincimenti e apprendimenti, che possono essere più o meno aderenti alla realtà e più o
meno funzionali al benessere della persona.
Abbiamo tre livelli di cognizioni:
1. Convinzioni profonde, centrali o core beliefs o schemi cognitivi;
2. Convinzioni intermedie;
3. Pensieri automatici.
• Convinzioni profonde, centrali, di base (o core beliefs o schemi cognitivi) => sin dall’infanzia
le persone sviluppano alcune convinzioni su se stessi, sugli altri e sul mondo. Sono
comprensioni così profonde che spesso le persone non le esplicitano neppure a se stesse.
Sono considerate verità assolute. Quando la credenza di base è attivata, la persona
interpreta le situazioni attraversi le lenti di questa credenza, nonostante l’interpretazione sia,
su basi razionali, palesemente falsa. Così la credenza si mantiene. Sono delle strutture
interpretative di base con cui la persona rappresenta se stessa e gli altri e organizza il suo
pensiero. In altre parole, uno schema è una tendenza stabile ad attribuire un certo
significato agli eventi. Sono globali, rigidi e ipergeneralizzati. Possono riguardare noi stessi
(schema di sé), gli altri (schema dell’altro) e la relazione di sé con l’altro (schema
interpersonale)
- convinzioni di inadeguatezza/impotenza (sono inadeguato, incompetente, fuori controllo, un
fallimento, debole, difettoso, ho bisogno degli altri).
- convinzioni di non amabilità (non sono amabile, senza valore, diverso, indesiderabile, non
voluto, non attraente, cattivo, rifiutato).
Ad esempio, una persona che ha uno schema di sé del tipo “Non sono amabile” penserà che
nessuno mai potrà amarlo e può interpretare la fine di una relazione non come un evento che
può capitare a tutti e che di solito è influenzato da più fattori, ma come la prova che nessuno
lo può amare. I contenuti degli schemi cognitivi vengono considerati come delle verità
assolute.
• Pensieri automatici => Sono le cognizioni più vicine alla consapevolezza conscia e sono delle
parole, piccole frasi o immagini che attraversano la mente della persona ad un livello più
superficiale (es. “Sarò sempre un fallito!”). Ne siamo appena consapevoli. Lo siamo di più
delle emozioni che ne conseguono. In genere i pensieri automatici si accettano acriticamente
come veri. E’ possibile imparare a identificarli prestando attenzione ai propri cambiamenti
dell’umore: “Che cosa mi stava passando per la mente in quel momento?”. Sono facilmente
modificabili e sono direttamente responsabili delle emozioni provate dalla persona. Sono
pensieri brevi, velocissimi, quasi telegrafici (“sarà un disastro”). Sono angoscianti perché
producono emozioni negative; sono distorti perché forniscono interpretazioni erronee e poco
realistiche degli eventi. Non sono peculiari delle persone con una sofferenza psicologica:
sono comuni a tutti.
Come abbiamo visto, il modello cognitivo ipotizza che, attraverso le esperienze che facciamo a
partire dall’infanzia e via via nel corso della vita, ci formiamo delle convinzioni soggettive
(cognizioni) che condizionano il nostro modo di “percepire”, “capire” gli avvenimenti, di
“interpretarli”, e che condizionano di conseguenza le nostri azioni ed il nostro comportamento.
in alcuni casi, il pensiero distorto disfunzionale può portare allo sviluppo di circoli viziosi che
mantengono la sofferenza nel tempo. Ad esempio, una persona con depressione può pensare
du sé: “Sono un fallito!” (pensiero) e provare uno stato di tristezza (emozione); a sua volta, la
tristezza porta all’apatia e alla passività nel comportamento, che possono essere interpretate
dal soggetto come un ulteriore prova del proprio fallimento personale. In altre parole, la
persona potrebbe pensare di sé “Sto qui senza fare niente, sono proprio un fallito!” (pensiero);
tale interpretazione può generare altra tristezza (emozione) e così via. Possiamo dunque
considerare i disturbi emotivi come il prodotto di circoli viziosi che mantengono i sintomi nel
tempo. E’ possibile supporre che, senza tali meccanismi di mantenimento, la persona
troverebbe da sola la soluzione dei suoi problemi psicologici utilizzando la capacità di
risoluzione dei problemi (problem-solving) insita nell’essere umano. E’ necessario, pertanto,
intervenire sui pensieri automatici negativi, sulle convinzioni intermedie e sugli schemi
cognitivi disfunzionali al fine di regolare le emozioni dolorose, interrompere i circoli viziosi che
mantengono la sofferenza nel tempo e creare le condizioni per la soluzione del problema. Gli
studi sul trattamento dei disturbi emotivi indicano che se si ottiene una modificazione profonda
delle convinzioni si hanno meno probabilità di ricaduta in futuro. Identificare le emozioni
negative e i pensieri angoscianti e valutare quanto essi siano realistici mettendo in luce le
interpretazioni errate e proponendone delle alternative - ossia, delle spiegazioni più plausibili
degli eventi - si produce una diminuzione quasi immediata del malessere, dei sintomi.
Il decorso abituale dell’intervento cognitivo prevede un lavoro iniziale sui pensieri automatici,
sulle emozioni negative e sugli errori di ragionamento.
Si insegna al soggetto ad identificare i pensieri automatici, a valutarli per poi modificarli.
Successivamente l’intervento si sposta sulle convinzioni intermedie e centrali che sono valutate
e modificate attraverso strategie specifiche. La loro modificazione porta il soggetto a percepire
gli eventi in modo tale da sviluppare reazioni emozionali fisiologiche e comportamentali meno
disfunzionali.
Secondo il modello cognitivo, la modificazione delle convinzioni centrali porterebbe il soggetto
a cambiamenti profondi e dovrebbe ridurre il rischio di ricadute.
Ristrutturazione cognitiva:
1. Succede qualcosa di spiacevole
2. Emozione: provi un’emozione spiacevole (termometro delle emozioni)
3. Ci pensi in modo irrazionale: pensieri automatici, distorsioni cognitive
4. Metti in discussione i pensieri irrazionali
5. Cominci a pensare in modo razionale
6. Valuti l’utilità e le conseguenze dei nuovi pensieri
7. Come ti senti a pensare in modo nuovo?
Triade cognitiva: la triade cognitiva di Beck, nota anche come triade negativa, è una visione
cognitivo-terapeutica dei tre elementi chiave del sistema di credenze di una persona presente
nella depressione. Fu proposta da Beck nel 1976. La triade fa parte della sua teoria cognitiva
della depressione e il concetto è usato come parte della CBT, in particolare nell’approccio
“Trattamento dei pensieri automatici negativi” (Tratment of Negative Automatic Thoughts
TNAT). La triade implica “pensieri negativi automatici, spontanei e apparentemente
incontrollabili” su: il Self, il Mondo o l’Ambiente, e il Futuro.
Beck: assunti
• Ogni disturbo è associato a uno specifico contenuto negativo
• Depressione => triade cognitiva
• Ipomania => visione positiva esagerata
• Ansia => pericolo personale
• Fobia => pericolo connesso con specifico oggetto o situazione; situazioni evitabili
• Paranoia => abuso, persecuzione, ingiustizia
• Ossessioni => dubbi o allerta
• Compulsioni => auto comandamenti per scongiurare il pericolo e dubbio ossessivo
• Non c’è una singola causa per la depressione o altri disturbi psicologici.
Schemi => strutture di conoscenza organizzate che influenzano il modo in cui percepiamo,
interpretiamo e richiamiamo le informazioni. Uno schema è un “pacchetto” di conoscenza, che
memorizza informazioni e idee sul nostro sé e sul mondo che ci circonda. Questi schemi sono
sviluppati durante l’infanzia e, secondo Beck, le persone depresse possiedono degli schemi
negativi, che possono derivare da esperienze negative, ad esempio da critiche, da genitori,
colleghi o persino insegnanti. Schemi cognitivi negativi (pensieri come “Io non sono amabile”)
portano ad una maggiore vulnerabilità per l’insorgenza e il ripetersi della depressione. Una
persona con un auto-schema negativo è in grado di interpretare le informazioni su se stessa in
modo negativo, il che potrebbe portare a bias cognitivi.
Young e colleghi hanno individuato 18 SMP specifici suddivisi in 5 macro aree. La maggior
parte dei pazienti ne presenta almeno due o tre e spesso anche di più.
1. DISTACCO E RIFIUTO
3. MANCANZA DI REGOLE
5. IPERCONTROLLO E INIBIZIONE
2. Mode COPING DISFUNZIONALE. E’ attraverso questi tre stili che gli schemi esercitano la
propria influenza sul nostro comportamento e lavorano per assicurare la propria
sopravvivenza:
A. ARRENDERSI ALLO SCHEMA: segnica cedere passivamente a esso, accettare come vero e
agire in modo tale che venga confermato. Per esempio, un giovane con uno schema di
Esclusione sociale potrebbe rintanarsi in casa e allontanarsi da qualunque contesto,
confermando così il suo senso di isolamento. Questa modalità di coping darà luogo ad un
Mode che prende il nome di ARRESO COMPIACENTE: la persona si sottomette cioè agli
schemi ridiventando il bambino passivo e impotente che si arrende agli altri;
B. EVITARE LO SCHEMA: significa evitare, cognitivamente, emotivamente e nei
comportamenti, di attivare schemi che potrebbero causare emozioni negative. Le persone
possono scegliere volontariamente di non concentrarsi su un aspetto della loro personalità
o su un evento che ritengono inquietante; possono rendersi insensibili ai sentimenti al fine
di ridurre al minimo il dolore, bere o abusare di droghe. Per esempio una donna con uno
schema di Fallimento potrebbe evitare di confrontarsi con un nuovo lavoro che potrebbe
essere, in realtà, un’esperienza gratificante per lei. Questa modalità di coping darà luogo
ad un Mode che prende il nome di PROTETTORE DISTACCATO: la persona fugge dal
dolore attraverso il distacco dalle emozioni, l’assunzione di stupefacenti, la continua ricerca
di stimoli o forme di fuga come l’isolamento.
C. SOVRACOMPENSARE LO SCHEMA: significa comportarsi in modo diametralmente opposto a
quello che suggerisce lo schema per evitare di innescarlo. Apparentemente questo
meccanismo può sembrare sano, ma in molti casi genera ulteriori problemi. Per esempio,
un giovane con uno schema di Inadeguatezza/Vergogna potrebbe ipercompensare facendo
ogni cosa alla perfezione e criticando gli altri. Questo porterebbe probabilmente a critiche
che, a loro volta, confermerebbero la sua convinzione di essere imperfetto. Questa
modalità di coping darà luogo ad un Mode che prende il nome di AUTOESALTATORE: la
persona combatterà gli schemi maltrattando gli altri, assumendo comportamenti estremi e
quasi sempre disfunzionali.
Valutazione => gli studi condotti sulla ST mostrano che questo tipo di terapia è spesso efficace
nell’affrontare:
- Stress post traumatico
- Problemi alimentari
- Comportamento criminale
- Ansia
- Abuso di sostanze
- Problemi nelle relazioni interpersonali
- Depressione cronica
- Alcuni disturbi di personalità
La ST si è dimostrata particolarmente efficace nel trattamento della personalità borderline e la
ricerca mostra che gli individui in ST hanno abbandonato a tassi più bassi rispetto a quelli degli
altri tipi di trattamento. Inoltre, la ST ha dimostrato un discreto potenziale come trattamento
per la personalità narcisistica. Ulteriori ricerche potrebbero essere necessarie per stabilire
completamente la ST come trattamento efficace per il narcisismo, in quanto individui con
personalità narcisistica non cercano comunemente il trattamento volontariamente.
La ST è una forma abbastanza nuova di intervento psicologico e la ricerca su questo approccio
al trattamento sta ancora emergendo. Una recente revisione della ricerca sulla ST ha trovato
prove iniziali di efficacia, ma ha anche rilevato la necessità di una base di ricerca più completa
per quanto riguarda risultati positivi e costo-efficacia.
Dato che la ST funziona per trattare problemi cronici, il trattamento richiede spesso più tempo
e costa di più di altri interventi basati sull’evidenza limitati nel tempo. Ma, poiché le condizione
di salute mentale cronica spesso diventano costose per le organizzazioni sanitarie se non
trattate, la ST può, alla fine, essere meno costosa rispetto ai costi associati a condizioni
croniche quando queste non vengono curate con successo.
La forma standard di DBT è costituita da terapia individuale, gruppo di stil training, coaching
telefonico e team di consulenza di un terapeuta. I pazienti in DBT standard frequentano la
terapia e un gruppo di formazione professionale settimanale. I gruppi sono progettati per
aiutare coloro che sono in trattamento a sviluppare abilità comportamentali attraverso il lavoro
di gruppo e compiti a casa. Questi incarichi permettono alle persone di praticare abilità apprese
nella vita di tutti i giorni. Anche l’assistenza telefonica è una parte importante della DBT: aiuta
le persone in terapia a rivolgersi al terapeuta per ricevere supporto quando si verifica una
situazione difficile tra una sessione e l’altra. Le questioni affrontate da molti pazienti che
utilizzano la DBT possono essere complesse e gravi. A causa di ciò, un gruppo di consulenza è
considerato essenziale per i terapeuti DBT. Il team è composto dal leader del gruppo e
terapeuti individuali. Può offrire supporto, motivazione e terapia ai terapeuti che lavorano con
problemi difficili.
La DBT è stat sviluppata da Marsha Linehan negli anni ’70. La Linehan ha sviluppato la DBT
attraverso il suo lavoro con due popolazioni di persone con problemi mentali: persone con
pensieri cronici di suicidio e persone con diagnosi di disturbo borderline di personalità. La
Linehan era affascinata dalla reputazione della terapia cognitivo-comportamentale (CBT). Ha
deciso così di utilizzare la CBT standard nella sua pratica. La Linehan e i suoi colleghi tuttavia
hanno avuto diverse difficoltà dopo aver condotto ricerche relative all’efficacia della CBT nella
popolazione scelta. Hanno scoperto tre problemi principali con l’applicazione della CBT
standard:
1. I partecipanti hanno sperimentato gli interventi focalizzati sul cambiamento come
invalidanti. Questi sentimenti hanno spesso portato all’abbandono della terapia,
all’aggressione verso i terapeuti o ad una fluttuazione di entrambi;
2. I partecipanti e i terapeuti hanno ricreato uno schema di rinforzo, ma il lavoro si è bloccato
ed è comparso l’evitamento. Quando i terapeuti hanno spinto per il cambiamento, i
partecipanti hanno reagito con rabbia. Quando i terapeuti hanno invece permesso un
cambiamento scelto dal soggetto, i partecipanti hanno reagito con calore e feedback
positivi;
3. A causa dell’intensità delle situazioni legate alla crisi, i terapeuti passavano molto tempo ad
affrontare problemi relativi alla sicurezza, come pensieri o gesti suicidi, ostilità e minacce
nei loro confronti, o comportamenti autolesionistici. Spesso, era rimasto poco tempo per
insegnare le capacità di coping o per affrontare il funzionamento comportamentale.
Dopo aver analizzato questi problemi, la Linahan ha modificato il trattamento CBT. Questi
cambiamenti andavano direttamente sui bisogni del paziente. Sono state incluse tecniche
basate sull’accettazione per garantire che i partecipanti si sentissero supportati e (con)validati
prima di chiedere loro di concentrarsi sul cambiamento. Inoltre, la dialettica è stata incorporata
per consentire ai terapeuti e ai partecipanti al trattamento di concentrarsi sulla sintesi degli
opposti polari, come l’accettazione e il cambiamento. Cioè li ha aiutati ad evitare di rimanere
intrappolati in schemi di presa di posizione estrema. Questi e altri adattamenti sono stati
aggiunti alla pratica della CBT. Nel 1993 la Linehan ha pubblicato il primo manuale di
trattamento ufficiale, Cognitive Behavioral Treatment of Borderline Personalità Disorder. Da
allora, la pratica DBT è cresciuta molto in popolarità. Negli ultimi decenni, una grande quantità
di ricerche ha supportato l’efficacia della DBT; questa forma di terapia è ora praticata in diversi
paesi in tutto il mondo.
Te principali quadri teorici si combinano per formare la base per la DBT:
1. Un modello biosociale della scienza comportamentale dello sviluppo dei problemi della
salute mentale cronica: la teoria biosociale tenta di spiegare come si sviluppa le questioni
legate alla personalità borderline. La teoria postula che alcune persone nascano con una
predisposizione verso la vulnerabilità emotiva. Ambienti privi di una solida struttura e
stabilità possono intensificare le risposte emotive negative di una persona. Possono anche
influenzare i modelli di interazione che diventano distruttivi. Questi schemi possono
danneggiare le relazioni e il funzionamento in tutte le impostazioni. Possono spesso
comportare un comportamento suicidario e/o una diagnosi di personalità borderline.
2. La pratica Mindfulness del Buddhismo Zen: la DBT attinge alle tecniche di mindfulness dal
Buddhismo Zen per usare la presenza qui ed ora della mente. Ciò può aiutare le persone in
terapia a valutare in modo obiettivo e calmo le situazioni. Il training mindfulness
(allenamento consapevole) consente alle persone di fare il punto della loro esperienza
attuale, valutare i fatti e concentrarsi su una cosa alla volta.
3. La Filosofia della dialettica: la dialettica è usata per supportare sia il terapeuta che la
persona in trattamento. I terapeuti usano la dialettica per aiutare le persone ad accettare le
parti di se stessi che non gli piacciono. Usano anche la dialettica per fornire motivazione e
incoraggiamento ad affrontare il cambiamento. Sintetizzare gli opposti polari può ridurre la
tensione e aiutare a far avanzare la terapia. La prospettiva dialettica sostiene diversi
aspetti sulla natura della realtà e del comportamento umano. La dialettica sostiene come
primo aspetto la fondamentale interrelazione e unitarietà della realtà, implicando che è
limitata l’analisi delle singole parti di un sistema se non vengono inserite negli specifici
contesti contingenti in cui si esplica il comportamento dei singoli e dei singoli nel gruppo.
Un secondo aspetto è che la realtà non viene concepita come statica, ma composta da
forze interne opposte (tesi e antitesi) in mutamento, e la cui sintesi genera una nuova
tensione tra forze opposte. In tal senso, i pattern di pensiero e di comportamento
disfunzionali dicotomici ed estremizzati dei pazienti borderline sono considerati come dei
fallimenti dialettici: la persona è bloccata su polarità estreme e fatica a muoversi
dinamicamente verso una sintesi. Il terzo aspetto che caratterizza la visione dialettica
riguarda l’assunto secondo il quale la natura della realtà è fondata sul cambiamento e sul
processo, l’individuo e l’ambiente sono in costante mutamento. Dunque la terapia non mira
al mantenimento di uno stato stabile in un ambiente stabile e coerente, ma vuole
promuovere le capacità di gestire il cambiamento.
Valutazione => i risultati di più studi riflettono l’efficacia della DBT. Può essere particolarmente
efficace nel trattare problemi di personalità borderline, stress post-traumatico, autolesionismo
e suicidio. Uno studio controllato condotto in regime ospedaliero da Bonus et al. (2004) ha
rivelato che le persone in terapia che hanno ricevuto tre mesi di DBT sono migliorate ad un
tasso maggiore rispetto a quelli che hanno ricevuto il trattamento standard. Secondo il
SAMHSA National Registry of Evidence-based Programs and Practices, più studi controllati e
studi indipendenti hanno rilevato che un anno di DBT ha diminuito le istanze di comportamenti
autolesionisti ad un tasso maggiore rispetto ai trattamenti alternativi. Uno di questi studi ha
riportato che i partecipanti che hanno ricevuto DBT hanno avuto solo 0.5 casi di
comportamento autolesionisti nell’arco di un mese, rispetto a 9.33 incidenti tra coloro che
hanno ricevuto il trattamento standard. Uno studio condotto da Linehan et al. (2006)
suggerisce che la DBT possa essere efficace nel ridurre i tentativi di suicidio. Questo studio ha
riportato che coloro che hanno utilizzato la DBT avevano la metà delle probabilità di tentare il
suicidio; hanno avuto meno ospedalizzazioni psichiatriche e hanno meno probabilità di
abbandonare il trattamento rispetto a quelli che hanno ricevuto la psicoterapia da professionisti
considerati esperti nel trattamento del suicidio e dell’autolesionismo. Un corpus significativo di
ricerche suggerisce che la DBT sia un trattamento efficace per diversi problemi di salute
mentale. Ma ci sono alcune critiche e limiti. Gran parte della ricerca disponibile sull’efficacia del
DBT comprendeva piccole dimensioni del campione e si concentrava su un settore specifico
della popolazione della salute mentale. I critici sostengono che dovrebbero essere fatte ulteriori
ricerche per determinare se la DBT funziona bene per chi ha problemi di salute mentale. La
DBT utilizza un manuale dettagliato e richiede una solida formazione da implementare. In molti
degli studi di ricerca in cui la DBT è risultata efficace, i fornitori che implementavano il
trattamento DBT erano studenti di dottorato. La maggior parte è stata addestrata dallo
sviluppatore, Marsha Linehan; ciò non indica necessariamente una debolezza nel modello
stesso, ma sottolinea la quantità intensiva di formazione richiesta per fornire i servizi come
progettato. Pertanto, espandere la disponibilità di una formazione completa potrebbero essere
utile per le organizzazioni di salute mentale della comunità. Molti dei trial di ricerca DBT sono
durati fino ad un anno; alcuni includevano un colloquio follow-up post-trattamento. Tuttavia,
non è stato determinato se i guadagni terapeutici siano durati oltre le interviste di follow-up
post-trattamento. A causa della natura cronica delle condizioni trattate, la valutazione
potrebbe trarre beneficio da ulteriori ricerche che misurano miglioramenti molto tempo dopo la
somministrazione della DBT.
La Mindfulness => può essere descritta come mantenere il contatto con il momento presente
piuttosto che andare alla deriva col pilota automatico. Consente ad un individuo di connettersi
con il sé osservatore, la parte che è consapevole ma separata dal sé pensante. La Mindfulness
spesso aiuta le persone ad aumentare la consapevolezza di ciascuno dei cinque sensi e dei loro
pensieri ed emozioni.
I sei pilastri => Secondo l’Acceptance and Commitment Therapy, la flessibilità psicologia si può
promuovere attraverso interventi su quelli che vengono considerati i sei pilastri del modello
ACT. I sei processi chiave sottendono due macro-aree:
• i “processi di mindfulness e accettazione”;
• i “processi di modificazione comportamentale e azione impegnata secondo i valori”.
I sei pilastri del modello ACT sono:
1. L’Evitamento esperienziale: è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo
scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni
o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Tentativi per controllare
l’ansia, pensieri per controllare altri pensieri (es. rimuginare), cercare in tutti i modi di non
pensare o di non ricordare un dolore tramite comportamenti dannosi e disfunzionali.
L’evitamento esperienziale si concretizza anche nei tentativi di fuga o di controllo
dell’esperienza esterna, come evitare situazioni ansiogene, evitare i conflitti o l’espressione
della rabbia. Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienziale nell’ACT viene
chiamato “Accettazione” e può definirsi come “lasciare spazio” o “aprirsi all’esperienza”
delle emozioni dolorose e ai pensieri e ricordi dolorosi. In tal senso ACT mira a promuovere
alcune tendenze di accettazione: a) non giudicare le nostre esperienze interne (ed esterne)
con lo sguardo malevolo dell’inquisitore di noi stessi; b) accogliere gli stati emotivi e dar
loro l’importanza “informativa” che meritano; c) indebolire il potere dei pensieri sul nostro
comportamento e sulla nostra esperienza quotidiana.
2. La fusione cognitiva: in ACT si definisce “fusione cognitiva” la tendenza degli esseri
umani ad essere catturati, “imbrigliati” dai contenuti dei propri pensieri. Il principio che
giustifica la disfunzionalità di tale “aggancio ai pensieri” è riassunto nella seguente frase:
non è tanto ciò che pensiamo a crearci problemi e sofferenza, ma il modo con cui noi ci
mettiamo in relazione con ciò che pensiamo. Quando siamo “fusi” con i nostri pensieri,
sopratutto quelli disfunzionali, dimentichiamo che stiamo interagendo con un pensiero e
non con un evento reale, un pò come se in nostri pensieri e le nostre valutazioni sulla
realtà vivessero al posto nostro. La controparte virtuosa della fusione cognitiva, nell’ACT è
la Defusione. Quindi è di primaria importanza intervenire non sui contenuti dei pensieri
disfunzionali, bensì su come l’individuo si relaziona con i propri pensieri. In questo modo, ci
si concentra sull’atteggiamenti nei confronti dei propri pensieri e non sui pensieri in sé. Ad
esempio, fare pensieri disfunzionali di tipo depressivo o di tipo ansioso non fa molta
differenza dal punto di vista dell’ACT: è l’influenza che hanno sulla vita dell’individuo
(dettata dall’atteggiamento che l’individuo stesso ha nei confronti dei propri pensieri) a
definirne l’impatto sulla sofferenza individuale.
3. Dominanza del passato e del futuro sul momento presente: tale processo si può
definire come un insieme di difficoltà a dirigere e mantenere l’attenzione sul momento
presente e a cambiare il focus dell’attenzione tra le varie dimensioni della propria
esistenza. Tutte le energie dell’individuo sono concentrate su un “tema” o una difficoltà e
da quell’argomento non riesce ad uscire, limitando così la sua influenza nella propria vita.
Esempi prototipici di dominanza del passato o del futuro sul momento presente sono il
rimuginio e le ruminazioni depressive. Nel momento n cui si rimugina o si rumina sul
passato, tali processi richiedono molte energie e concentrano tutta la nostra attenzione sul
processo stesso. La proposta di intervento dell’ACT è promuovere il contato con il momento
presente, essere psicologicamente presenti e disponibili verso ciò che accade nel momento
presente. Noi esseri umani, per motivi legati a una sorta di “economia mentale” tendiamo
naturalmente a svolgere moltissime attività quotidiane senza porre attenzione a quello che
facciamo, come se le nostre azioni fossero gestite da un “pilota automatico” che ci
permette di svolgere più attività contemporaneamente. Sebbene, in molte occasioni, tale
automaticità sia utile e funzionale, esistono diverse occasioni in cui agire in automatico e
perdere il contato con ciò che stiamo facendo è dannoso e disfunzionale per la nostra vita.
Entrare in contato con il momento presene significa anche scegliere consapevolmente di
portare la propria attenzione su ciò che sta accadendo dentro di noi e nel mondo fisico
esterno in quel preciso momento.
4. Il sé concettualizzato: potremmo definire il sé concettualizzato come un insieme di
“fusioni” di definizioni di noi stessi che la mente di ognuno d noi ci racconta. Queste
definizioni, solitamente, toccano aspetti nucleari e rilevanti per la definizione di sé e di sé-in
relazione agli altri. Quando questo processo è molto presente, può essere dannoso e ci si
identifica fortemente con i contenuti della propria mente. Ci sono varie forme che il sé
concettualizzato può assumere nella nostra quotidianità. Alcune tra le più frequenti possono
essere le “etichette” che noi stessi ci diamo. Pensiamo, ad esempio, all’essere “il malato”,
“lo sfortunato”, “l’imbranato”. In altre occasioni ancora, il sé concettualizzato può essere
caratterizzato da “fusioni” con alcuni aspetti di sé rigidi e astratti/valutativi. Il sé
concettualizzato è una maschera talmente incollata alla pelle del nostro viso che ci
scordiamo di averla addosso e diventa i nostri occhi, le nostre orecchie e la nostra bocca;
contiene una descrizione complessa di noi stessi, a cui ci siamo affezionati e che presto
diventa così cristallizzato che lo scambiamo per la realtà assoluta. Quindi, ad esempio, un
problema d’ansa si trasforma nel sé concettualizzato “io sono un tipo ansioso” e non
importa quante esperienze io faccia in cui non ho provato quell’ansia forte e spaventosa, io
continuo a descrivermi verbalmente con “io sono un ansioso”. Ciò che l’ACT suggerisce
come controparte virtuosa del sé concettualizzato è il Sé Come Contesto: è un punto d
vista nuovo, talvolta mai sperimentato, in cui impariamo a osservare la nostra esperienza
interna ed esterna da un punto di vista privilegiato, cioè quello di un “osservatore
partecipe, gentile, compassionevole e curioso” della propria esperienza. Ciò che l’ACT
promuove è l’osservazione delle esperienze mentre esse avvengono, tramite uno sguardo
attento e consapevole di autoriflessione della propria esperienza mentre avviene. Questo
potrebbe portare a scoprire che noi stessi possiamo imparare ad osservare la nostra
esperienza mentre avviene, a guardarla in modo curioso e allargare in questo modo
l’orizzonte delle possibilità, delle scelte e riconoscere quale sia la maschera che indossiamo.
5. Mancanza di contatto con i propri valori: con tale espressione si intende l’insieme di
difficoltà legate all’individuazione di ciò che per il singolo individuo è importante e
rende(rebbe) la propria vita significativa e ricca. In taluni casi si può osservare la
confusione e la vacuità degli scopi personali e delle mete individuali. In sostanza, le
persone che presentano difficoltà in questo processo hanno difficoltà a rispondere alla
domanda: “cosa voglio dalla vita?”, oppure “cosa è importante per me?” oppure “quali sono
i miei valori?”. Con il termine valori nell’ACT si intende qualcosa di diverso dagli obiettivi
personali, dalle aspirazioni concrete e dalla morale. Potremmo definire i valori come “long-
term desired qualities of life” (qualità della vita desiderate a lungo termine; Hayes et al.,
2006). I valori sono ciò che motiva le persone al cambiamento, ad affrontare momenti
difficili, scelte che spesso vengono fatte proprio facendoci guidare dai nostri valori. Spesso i
valori sono mete finali, che guidano l’azione impegnata nella vita. Possiamo avvicinarci ai
nostri valori tramite insieme di obiettivi, concreti, fattibili (workable, una delle parole
chiave dell’ACT) e praticabili.
6. Mancanza di attività e impegno per perseguire un valore personale: con questa
espressione si fa riferimento al fenomeno per cui anche quando riusciamo a diventare
consapevoli dei nostri meccanismi dannosi, delle nostre fusioni, delle maschere che
indossiamo e dei momenti di mindlessness, resta ancora un passo importante da fare, e
cioè impegnarsi per agire e per perseguire i propri valori. Gli ostacoli più dannosi a tale
impegno possono essere riassunti in due categorie di comportamenti: impulsività ed
evitamento persistente. Entrambi tali comportamenti portano a vivere una vita
caratterizzata da restrizione delle attività e rigidità del repertorio comportamentale. Fare
sempre le stesse cose, evitare sempre le stesse situazioni, equivale a non fare. La proposta
dell’ACT risiede nel concetto di “azione impegnata”: il termine è usato per definire l’azione
personale guidata dai propri valori, prevede invece che l’individuo “faccia i conti” con le
proprie difficoltà e fragilità. Accogliendo e prendendo contatto con le proprie fragilità, e
guidando le proprie azioni partendo dai valori personali, permette di perseguire una vita
significativa e ricca, non senza sofferenze, ma soddisfacente e scelta. In particolare è
importante per l’ACT il concetto della workability, della “fattibiltà”. Un’azione impegnata e
guidata dai propri scopi deve essere anche fattibile, perseguibile. In atre parole, l’azione
impegnata consiste nello scegliere continuamente di impegnarsi in azioni nella direzione dei
propri valori personali, nonostante le emozioni difficili che si potranno incontrare durante il
percorso.
Valutazione => ad oggi l’ACT si presenta come una terapia capace di affrontare un ampio
spettro di disturbi psicopatologici e molteplici forme di disagio psicologico, pur privilegiando il
trattamento dei disturbi d’ansia, ma nonostante questo i limiti metodologici delle ricerche
presenti richiedono ulteriori approfondimenti prima che l’ACT possa essere consigliata come
trattamento funzionale nei disturbi d’ansia.
COSTRUTTIVISMO
Secondo il nuovo Dizionario APA (VandenBos, 2007), il Costruttivismo è la prospettiva teorica,
in cui le persone costruiscono attivamente la loro percezione del mondo e interpretano gli
oggetti e gli eventi che li circondano in termini di ciò che già conoscono. In questo modo il loro
attuale stato di conoscenza guida l’elaborazione, influenzando in modo sostanziale il modo in
cui vengono acquisite nuove informazioni (p.221).
Con il termine costruttivismo si indica un orientamento, condiviso da diverse discipline,
secondo il quale la realtà non può essere considerata come qualcosa di oggettivo, indipendente
dal soggetto che la esperisce, perché è il soggetto stesso che crea, costruisce, inventa ciò che
crede che esista.
George Kelly viene considerato il padre del costruttivismo. La Teoria dei Costrutti Personali
(PCT) (1955) definisce i costrutti personali come dimensioni bipolari in base alle quali le
persone organizzano le proprie esperienze e anticipano e predicono il comportamento umano.
L’individuo viene visto come uno scienziato che continuamente mette alla prova le proprie
costruzioni e, se necessario, le modifica. La PCT si focalizza sull’influenza che il mondo esterno
esercita sui costrutti personali. Gli elementi utilizzati dalla persona per definirsi vengono
chiamati costrutti centrali ed essendo aspetti dell’identità personale sono difficili da modificare
anche con la psicoterapia. Sebbene in questo approccio vengano presi in considerazione fattori
sociali e relazionali, l’individuo è sempre visto come fonte principale delle proprie costruzioni.
La PCT considera il significato come un processo personale e l’individuo come un sistema
chiuso di significati. Questa concezione è legata alla visione della persona come sistema
autonomo, cioè tutto ciò che crediamo di sapere sul mondo deriva dalle nostre esperienze in
relazione all’ambiente. Il mondo in questo senso non viene visto solo come fonte di stimoli che
possono entrare e uscire dalla nostra coscienza, ma è una fonte di possibilità e limitazioni
offerte dalla nostra struttura. Considerando la persona come forma di movimento, Kelly cerca
di spiegare la direzione del cambiamento individuale con il concetto di anticipazione: i processi
personali sono psicologicamente canalizzati dai modi in cui la persona anticipa gli eventi. Le
persone, sulla base di qualsiasi costruzione, tendono ad anticipare gli eventi per poi valutare se
la loro anticipazione sia stata validata o meno; successivamente, se necessario, modificano la
loro costruzione. La fine di questo processo è seguita da una nuova anticipazione che porta ad
un nuovo ciclo esperienziale. In questa visione, il comportamento non viene visto come
risposta o conseguenza, ma come esperimento.
La svolta in direzione costruttivista in Italia è rappresentata da Guidano e Liotti nella seconda
metà degli anni ’80 che, influenzati dalla teoria evolutiva di Piaget e dalla teoria
dell’attaccamento di Bowlby affermano:
• L’essere umano è un attivo costruttore della propria esperienza e della storia personale
di sé e del mondo;
• Si assume il primato delle emozioni rispetto alle cognizioni.
Abbiamo varie concezioni di Costruttivismo:
➢ Costruttivismo Epistemologico: crede nell’esistenza di una realtà esterna,
indipendente dall’osservatore, conoscenza della quale è possibile solo tramite la sua
costruzione; la conoscenza è quindi un insieme di costruzioni umane che rappresentano
delle euristiche utili per capire il mondo. Le persone non sanno se le loro costruzioni
corrispondano ad una realtà indipendente, ma sanno che sono adatte alla loro
situazione, perciò l’individuo è visto come un sistema cognitivamente chiuso.
➢ Costruttivismo Ermeneutico: non si crede nell’esistenza di una realtà indipendente
dall’osservatore, ma la conoscenza è vista come il prodotto del linguaggio tra una
comunità di osservatori; nell’approccio ermeneutico sono centrali il ruolo del linguaggio
e la comunicazione per capire come i sistemi di conoscenza si sviluppino e si
mantengano.
➢ Costruttivismo Radicale: i costruttivisti radicali come il filosofo Ernst von Glaserfeld
(1984) e il pioniere della psicoterapia, Paul Watzlawick (1984) del Mental Research
Institute sostengono che tutto ciò che possiamo sapere del mondo sono i prodoti dei
processi sensoriali/percettivi che prendono posto nei nostri corpi. L’osservatore
costruisce in solitudine la realtà intorno a sé, per cui si parla di relazione diadica:
osservatore-realtà esterna. Il costruttivismo radicale si interroga su come gli individui
costruiscono la realtà attraverso i processi cognitivi, i quali sono studiati in relazione al
contesto in cui hanno luogo. All’interno del costruttivismo radicale si possono
individuare due teorie: 1) la teoria di Von Glasersfeld enfatizza l’abilità degli uomini
nell’utilizzare le costruzioni che essi creano per vivere, indipendentemente dal fatto che
queste corrispondano o meno ad una realtà esterna. Infatti l’autore considera la
cognizione umana come un sistema chiuso ma al tempo stesso adattivo, in quanto le
persone sono capaci di conoscere quando le loro costruzioni falliscono e non solo
tramite una verità oggettiva; 2) al centro della teoria di Marutana è presente il concetto
di autopoiesi: rete di processi di creazione, trasformazione e distruzione di componenti
che, interagendo tra loro, sostengono e rigenerano lo stesso sistema, che così si
autodefinisce, riproducendosi dal proprio interno. Inoltre, viene introdotto il concetto di
determinismo strutturale: i cambiamenti negli organismi sono determinati dalla loro
struttura. L’individuo, essendo un sistema chiuso, non viene in diretto contatto con la
realtà, ma l’esistenza dell’organismo è caratterizzata da continui aggiustamenti
strutturali definiti “naturaldrifts”.
➢ Costruttivismo Sociale: la visione del costruzionismo sociale deve la sua prima
eredità intellettuale al lavoro di Vygotsky e altri. Gergen è forse il più noto psicologo
americano che scrive di costruzionismo sociale. La caratteristica essenziale del
costruzionismo sociale è la nozione secondo cui la nostra costruzione della realtà è il
risultato del significato di attività che avvengono nelle nostre relazioni con altre persone
e con i nostri contesti culturali/ambientali/linguistici. I costruzionisti sociali, quindi, si
spingono oltre il costruttivismo visto precedentemente, invocando la natura sociale della
creazione di significati umani. Sebbene il linguaggio sia spesso visto come il costituente
primaio del costruzionismo sociale, esso è solo un aspetto del contesto
culturale/biologico che influenza il significato della costruzione. I costruzionisti sociali,
come i costruttivisti radicali, preferiscono evitare di impantanarsi nel dibattito
ontologico nell’esistenza della realtà. Sono più interessati alla comprensione
epistemologica di come ci si adatta alla varietà di realtà che costruiamo. I costruzionisti
sociali enfatizzano le pratiche relazionali, conversazionali e sociali come origine della
vita psichica dell’individuo. Nel costruzionismo sociale l’osservatore costruisce la realtà
a partire da una rete di relazioni in cui gli aspetti cognitivi, emotivi ed affettivi sono
elementi costitutivi, intrecciati tra loro e con gli aspetti sociali. Nel costruzionismo
sociale tutta la conoscenza è labile, in quanto negoziata tra gli individui all’interno di un
determinato contesto, quindi cambia in base alle circostanze. Per questo motivo non si
parla di personalità stabile, ma di personalità socialmente costruita: esistono diversi Sé
che originano da come le persone vengono viste, dalle attività sociali che praticano e
dalle loro relazioni. Non si parla quindi di qualità, ma di identità. E’ proprio questa
prospettiva sociale che supera i riduzionismi derivati dalla considerazione di un
osservatore che costruisce in solitudine il mondo circostante.
➢ Approccio Narrativo: gli approcci narrativi (o storytelling) sono nati per comprendere
l’azione umana e sono recentemente diventati popolari in diverse aree della psicologia.
Trattare il pensiero umano come esempio di elaborazione di una storia offre numerose
implicazioni per molti campi della teoria psicologica, della ricerca e della pratica. Diversi
autori vedono lo sviluppo dell’identità come una questione di costruzione di una storia,
la psicopatologia come esempi di storie di vita fallita, e la psicoterapia come esercizi
nella riparazione della storia. L’approccio narrativo considera la psicoterapia come
elaborazione della storia di vita. In quest’ottica, il racconto è quel mezzo attraverso il
quale l’uomo riesce ad organizzare la sua esperienza ed interpretare gli avvenimenti,
strutturandoli in storie. In questo senso, il racconto è una forma convenzionale che
viene trasmessa culturalmente, il mezzo attraverso il quale costruiamo la nostra realtà
e stabiliamo il nostro rapporto con gli altri. Questa visione riprede il modello del
costruzionismo sociale che vede la psicoterapia come un processo interpersonale e
sociale volto ad elaborare e revisionare gli stili di vita.
➢ Costruttivismo Intersoggettivo: dall’influenza di Von Glasersfeld e con il graduale
allontanamento dal cognitivismo razionalista, deriva il modello cognitivo-costruttivista,
in seguito definito costruttivismo intersoggettivo. Uno dei presupposti di base del
modello è il concetto di “co-creazione dell’esperienza intersoggettiva” che tramite
momenti di incontro e momenti affettivi intensi tra paziente e terapeuta, permette un
reciproco riconoscimento di sensazioni, motivazioni, intenzioni e scopi. La relazione
terapeutica viene considerata un fenomeno intersoggettivo che si crea nel setting in
quella dimensione del “Tra” o del “Noi”, ovvero in quello spazio tra l’io e il tu che non
appartiene a nessuno dei due membri della relazione, ma solo ed esclusivamente alla
relazione stessa in termini di complementarietà.
Terapia del Con-tatto emotivo => può essere applicata ad ogni contesto: terapia di coppia,
terapia individuale, terapia familiare…. Pone l’accento sulla presa di coscienza dell’esperienza
attuale, il qui ed ora, che ingloba l’eventuale insorgere di un vissuto arcaico, restituisce dignità
al sentito emozionale e corporeo, favorisce un contatto autentico con gli altri e con se stessi,
evidenzia i blocchi, smaschera gli evitamenti, le paure, le inibizioni e le illusioni. Non mira
solamente a spiegare le origini delle difficoltà, bensì a far sperimentare un percorso per nuove
soluzioni. Ricerca non tanto il “sapere perché”, ma più che altro il “sentire come”. Si colloca
nella cosiddetta corrente “umanista”, la “terza via” rispetto alla psicoanalisi e al
comportamentismo.
Assunti => ogni persona è OK; ogni persona può pensare e autodeterminarsi; le decisioni
prese possono essere modificate.
Rispetto alla pratica => uso chiaro e semplice del linguaggio; approccio contrattuale.
Metodo contrattuale => “Contratto è un esplicito impegno bilaterale per un ben definito corso
d’azione” Berne, 1966.
• Contratto Amministrativo: regole del setting
• Contratto Professionale: stabilisce le mete del cambiamento
• Contratto Psicologico: aspettative, messaggi ulteriori
Definizioni
Teoria:
• Processi intrapsichici (Stati dell’Io, copione)
• Processi interpersonali (AT propriamente detta, analisi dei giochi)
• Psicopatologia (ripetitività dei comportamenti)
Metodologia => basata sulla contrattualità, propone strategie per il conseguimento
dell’Autonomia dal copione.
Le Carezze => una “carezza” è un’unità di riconoscimento, una risposta al nostro bisogno di
riconoscimento da parte degli altri. Le carezze possono essere positive (percepite come stimoli
piacevoli) o negative (stimoli spiacevoli per chi le riceve).
Le carezze possono essere:
o Verbali: “Ti voglio bene”
o Non verbali: avvicinarsi a una persona e darle una pacca sulle spalle
o Positive: “Mi piaci”
o Negative: “Non ti posso vedere”
o Condizionate: “Ti compro un gelato se prendi un bel voto a scuola”
o Incondizionate: “Ti compro un gelato”
Steiner nell’articolo sull’economia delle carezze individua 5 regole restrittive riguardo alle
carezze (trasmesse dai genitori) che costituiscono la base della personale economia di carezze
di ciascuno: non dare carezze; non chiedere carezze quando ne hai bisogno; non accettare
carezze anche se ne vuoi; non rifiutare carezze quando non ne vuoi; non dare carezze a te
stesso.
La strutturazione del tempo => possiamo considerare il bisogno di struttura come
l’estensione dei precedenti bisogni di stimoli e di carezze. Corrisponde al bisogno di definire
una struttura temporale all’interno della quale quegli stimoli e quelle carezze possano essere
scambiati. Il modo in cui la persona struttura il suo tempo dipende dal modo in cui si sente con
sé stessa e con gli altri.
1. Isolamento: è il ritiro della persona dalle situazioni sociali, ha valenza positiva quando
soddisfa il bisogno di ricaricarsi, concentrarsi per riflettere ecc… ed è scelto; ha valenza
negativa quando la persona fa questa scelta come ripiego bloccandosi nel fare ciò che
desidera.
2. Rituali: sono scambi stereotipati, prevedibili, come le formule di saluto: “Ciao, come
stai?”, “Bene e tu?”. L’unità degli scambi rituali è la carezza.
3. Passatempi: sono come i rituali anche se prevedono transazioni meno stereotipate.
Sono programmabili da tutti e tre gli Stati dell’Io e di solito sono focalizzati su
argomenti o interessi di mutua accettazione.
4. Attività: è una strutturazione del tempo a programmazione Adulta che si basa su una
serie di transazioni complementari ed è finalizzata all’intervento pratico sulla realtà
esterna. Di solito si riferisce al lavoro e ali hobbies.
5. Giochi: sono modalità relazionali apprese per ricevere attenzioni che pur non
completamente soddisfacenti sono le più sicure poiché conosciute; sono riproposizioni di
strategie infantili, non più adatte nel qui ed ora, che hanno lo scopo di ottenere carezze.
6. Intimità: è uno scambio di espressioni affettive, libero da giochi, è una modalità di
relazione che prevede l’assenza degli altri modi di passare il tempo.
GENOGRAMMA
Conosciuto anche come studio di McGoldrick-Gerson, è un disegno che rappresenta un insieme
di persone in relazione tra loro e che condividono la storia familiare. Nel genogramma sono
rappresentate le persone (con i dati identificativi essenziali: genere, nome ed età), i legami
relazionali che le uniscono e la generazione di appartenenza. Nel genogramma sono indicati
anche momenti significativi della storia familiare (nascite, morti, matrimoni, separazioni, ecc.).
Un genogramma rappresenta almeno tre generazioni: nonni, genitori e figli; spesso le
generazioni rappresentate diventano quattro o anche più, man mano che il lavoro con la
famiglia procede e i diversi personaggi cominciano ad apparire nella loro significatività. Il
genogramma, focalizzando l’attenzione delle relazioni e sulla funzionalità del sistema familiare
ne presenta un’immagine che è allo stesso tempo attuale, storica ed evolutiva. L’attualità di
questo strumento deriva dal fatto che esso permette di guardare, secondo una prospettiva che
fa riferimento al presente, al significato che possono avere nel qui ed ora le vicende che hanno
riguardato più generazioni. La sua storicità, dal momento in cui la memoria diviene attuale, ci
permette di individuare le linee importanti che hanno guidato i comportamenti di un singolo
individuo e/o del suo sistema familiare.Mentre l’aspetto evolutivo del genogramma consiste nel
fatto che la rilettura della propria storia familiare, che questo strumento consente dal soggetto,
porta ad una riappropriazione di elementi significativi e al recupero di una più attenta memoria
storica, che può permettergli, una volta divenuto cosciente, di elaborare per sé, sulla base di
tutti gli elementi acquisiti, un migliore progetto di vita.
Il genogramma è uno strumento che finora è stato utilizzato principalmente dalla terapia
familiare o di coppia. Questa tecnica tende a visualizzare le rappresentazioni interne che dalla
famiglia hanno i singoli individui; inoltre è usata come momento di chiarificazione delle
tematiche relazioni; come mezzo per sbloccare la comunicazione all’interno del gruppo
familiare o per coinvolgere l’intero sistema nel processo terapeutico.
Murray Bowen, nella sua pratica clinica, si serve del genogramma per individuare le strutture
triangolari presenti in una famiglia, il loro modo di evolversi o di ripresentarsi da una
generazione all’altra. La possibilità di rilevare le alleanze o distanze relazionali gli permette di
valutare il grado di “fusione emozionale” o di “disintegrazione” esistente tra i membri di una
famiglia e di programmare un appropriato intervento terapeutico. Attraversi lo studio di alberi
genealogici di diverse famiglie, risalenti a periodi dai cento ai trecento anni, Bowen ha
evidenziato l’analogia di certi processi, individuando una trasmissione di caratteristiche
familiari, definite “modelli di base generalizzabili”, da una generazione all’altra, che lo hanno
portato a considerare la malattia psichica come il risultato di un processo plurigenerazionale
che trova la sua origine in una scarsa o manchevole differenziazione del Sé nell’ambito
familiare.
McGoldrick e Gerson, invece, pur operando nella corrente di ricerca iniziata da Bowen, non si
riferiscono al concetto di differenziazione del Sé, ma, nella loro analisi dei genogrammi, si
preoccupano soprattutto di identificare le “ridondanza” che si osservano nelle storie familiari,
per evidenziare le modalità di risposta agli eventi vissuti da almeno tre generazioni. Mediante
l’utilizzo di un questionario, si sono posti l’obiettivo di schematizzare il genogramma e di
mettere in evidenza gli elementi passibili di quantificazione.
Al contrario, Ellen Wachtel si serve del genogramma come uno strumento per fare emergere i
sentimenti delle persone e la loro interpretazione soggettiva della realtà; non lo considera solo
come un metodo per raccogliere informazioni oggettive, ma anche come una tecnica proiettiva
che ci consente di tracciare una specie di mappa dell’inconscio. Secondo questa accezione
terapeutica il genogramma offrirebbe la possibilità di far rivivere il proprio passato, di suscitare
emozioni, di far emergere elementi rimossi o rimasti in ombra nel contesto delle relazioni con
la famiglia di origine, permettendo la scoperta e la ridefinizione di eventi nodali e dei nessi che
li collegano.
Infine, Hof e Barman affermano che la tecnica del disegno del genogramma permetterebbe di
organizzare il materiale, conservandone una visione più distaccata e facilitandone uno sguardo
più obiettivo e razionale, ed offrirebbe la possibilità di calibrare le emozioni con il procedere del
racconto.
Il genogramma si legge dall’alto al basso e da sinistra a destra (queste sono le direzioni del
leggere e dello scrivere nella nostra cultura di popoli occidentali). Questo ci permette di
cogliere che la linea di lettura (sopra-sotto e sinistra-destra) rappresenta la dimensione tempo
rispetto alla storia della famiglia. Non ci si deve preoccupare di costruire subito un
genogramma completo: esso va pensato come una mappa che sarà dettagliata man mano che
il territorio viene esplorato; il foglio su cui disegneremo il genogramma va già diviso
mentalmente (e concretamente) con spazi differenziati per ciascuna generazione; è utile
disegnare subito i confini con la linea tratteggiata (e colorata): questo permette di collocare
correttamente le diverse persone all’interno della generazione di appartenenza. Per indicare le
persone si disegnano con un quadrato i maschi e con un cerchio le femmine; all’interno di ogni
quadrato o cerchio si scrive con un numero l’età e sotto, all’esterno, il nome. Il numero
all’interno indica l’età in anni; se dovessimo indicare l’età di un bambino di pochi mesi, il
numero dei mesi deve essere seguito da una “m” (4 = 4 mesi). I quadrati e i cerchi (= le
persone) sono collegati tra loro da segni che indicano i legami di parentela e sono: la relazione
di coppia, la relazione tra i fratelli e la relazione genitore-figli. Si inizia a costruire il
genogramma partendo dal paziente (dalla persona, cioè, per la quale viene richiesto
l’intervento: ricordarsi di indicarla sempre con un *): da qui si parte con i vari collegamenti.
Nel rappresentare una coppia (coniugi, conviventi, fidanzati) il maschio (quadrato) va sempre
collocato a sinistra e la femmina (cerchio) a destra. In questo caso la direzione sinistra-destra
rappresenta l’identità di genere; la dimensione tempo è definita dalla direzione sopra-sotto.
Questa collocazione (sinistra-destra) va sempre rispettata, anche nella rappresentazione delle
famiglie ricostituite.
Nel rappresentare i figli, l’ordine è
quello cronologico con il più grande
a sinistra e il più piccolo a destra,
indipendentemente dal genere:
questo perché nella relazione con i
figli e tra i fratelli è molto
significativo l’ordine di nascita. La
famiglia nucleare, soggetto/oggetto
dell’intervento, va evidenziata in
qualche modo rispetto al resto della
famiglia estesa.
LEGAMI
BIBLIOTERAPIA
Sebbene il termine Biblioterapia sia stato coniato per la prima volta da Samuel Crothers nel
1916, l’uso di libri per modificare il comportamento e ridurre il disagio ha una lunga storia, che
risale agli antichi Egizi. Nella sua forma più basilare, la Biblioterapia usa i libri per aiutare le
persone (bambini, adulti e anziani) a risolvere i problemi che potrebbero trovarsi ad affrontare
in un determinato momento. Se applicata in un contesto terapeutico, la Biblioterapia può
comprendere sia la narrazione (fiction) che la saggistica (non fiction). La Biblioterapia richiede
una qualche forma di lettura, ma non tutti sono d’accordo se la lettura dovrebbe essere
narrazione o saggistica (Pardeck, 1998), e c’è una chiara divisione tra i terapeuti riguardo alla
quantità di terapia richiesta e al coinvolgimento del terapeuta.
Si va dai libri di auto-aiuto a un estremo, in cui il libro è il principale agente terapeutico e il
coinvolgimento del terapeuta è minimo, alla Biblioterapia come aggiunta alla terapia, in cui il
processo terapeutico è il principale responsabile del cambiamento, con il libro che serve come
strumento di aiuto, e il coinvolgimento di un terapeuta è fondamentale. Queste differenze nella
quantità di terapia in trattamento di Biblioterapia sono state influenzate principalmente
dall’orientamento teorico dei terapeuti. In effetti, questa differenza negli orientamenti teorici è
responsabile della divisione tra due importanti scuole di Biblioterapia:
Terapia Cognitiva => poiché i terapeuti cognitivi percepiscono i processi di
apprendimento come i principali meccanismi di cambiamento, la saggistica volta a educare
gli individui è stata eletta come la forma per trattare le persone. Può essere un
programma scritto, anche un programma computerizzato, purché individui le persone a
migliorare il loro funzionamento e a risolvere i loro problemi (Tallman e Bohart, 1999), ed
è solitamente somministrato come terapia di auto-aiuto, con nessun terapeuta coinvolto o
con il minimo contatto con il terapeuta. Studi randomizzati controllati (RCT) hanno
documentato gli effetti positivi della Biblioterapia per condizioni cliniche come
autolesionismo intenzionale, disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) e bulimia nervosa e
insonnia. La ricerca supporta anche la Biblioterapia come intervento per una vasta gamma
di problemi psicologici tra cui i disturbi emotivi, dipendenza da alcol e disfunzioni sessuali.
In una recente revisione dei trattamenti psicoterapeutici per le persone depresse più
anziane, la Biblioterapia è emersa come intervento efficace.
Psicodinamica => al contrario, la Biblioterapia affettiva proviene da teorie
psicodinamiche che possono essere ricondotte a Freud e i successivi autori. Si riferisce
all’uso di materiali scritti per scoprire pensieri, sentimenti ed esperienze repressi. Si
presume che mentre il personaggio lavora attraverso un problema, i lettori siano
emotivamente coinvolti nella lotta e alla fine ottengano intuizioni sulla propria situazione
(Shrodes, 1957). Una forte enfasi è posta sulla promozione delle risposte emotive
attraverso l’identificazione con le esperienze che subiscono le figure letterarie. Per
permettere che tali processi di identificazione avvengano, è necessaria la narrazione in
modo che possa rispecchiare i dilemmi di una persona, e aiutarla a connettersi alle
emozioni e al dolore con la minima paura (Gersie, 1997; Gladding, 2005). La letteratura di
alta qualità è essenziale, in quanto un romanzo scritto male con caratteri stereotipati e
risposte semplicistiche a domande complesse è probabilmente peggio di nessuna lettura.
Poiché la Biblioterapia affettiva si occupa di emozioni ed esperienze profonde, non può
essere un trattamento di auto-aiuto e richiede il coinvolgimento di un terapeuta. La
Biblioterapia narrativa è un processo dinamico, in cui il materiale viene interpretato
attivamente dal lettore. Da una prospettiva psicodinamica, i materiali di fantasia sono
ritenuti efficaci attraverso i processi di identificazione, catarsi e insight. Attraverso
l’identificazione con un personaggio nella storia, il lettore ottiene una posizione alternativa
dalla quale visualizzare i propri problemi. Empatizzando con il personaggio, il cliente
subisce una forma di catarsi acquisendo speranza e liberando la tensione emotiva, che di
conseguenza porta a intuizioni e cambiamenti comportamentali. Un paziente potrebbe
anche trovare più facile parlare dei suoi problemi se lui e il terapeuta possono in qualche
modo fingere di parlare dei problemi del personaggio.
Diffusione => l’uso della Biblioterapia nei programmi di salute mentale, compresi quelli per
l’abuso di sostanze è scarsa o assente in Italia mentre ha dimostrato di essere utile per i
pazienti in Gran Bretagna, dove è una risorsa popolare.
Sandtray => è un’applicazione della Play Therapy; si utilizza un contenitore di sabbia e degli
oggetti (toys); i clienti intraprendono un processo supportivo per esplorare il proprio mondo
psichico attraverso questa modalità di lavoro espressivo e creativa non verbale. L’utilizzo
combinato di sabbia e oggetti è stato sviluppato da Margaret Frances Jane Lowenfeld (1890-
1973). La Loewenfeld, medico ricercatore in medicina pediatrica, può essere considerata un
pioniere britannico della psicologia infantile e della terapia del gioco. Il suo metodo inizialmente
sviluppato a Londra nel 1929 fu ulteriormente elaborato da una sua allieva, la terapeuta
svizzera Dora M. Kalff che sviluppò un approccio junghiano al sandtray, denominandolo
Sandplay Therapy. Jung stesso approvò l’utilizzazione della Sandplay Therapy.
La terapia Sandplay è “…una modalità espressiva e proiettiva che implica lo schiudersi e
l’elaborazione di questioni intra e interpersonali attraverso l’utilizzo di specifico materiale
“sandtray” come mezzo di comunicazione non verbale condotto dal cliente (o clienti) e
facilitato da un terapeuta formato” (Homeyer & Sweeney, 2009).
La Sandplay Therapy è adatta sia per bambini che per gli adulti e permette loro di
raggiungere una più profonda comprensione di se stessi. La sabbia ha infatti una grande
attrattiva, forse innata, sia sui bambini che sugli adulti. Si tratta di un metodo di Psicoterapia
Analitica che utilizza le risorse creative dell’individuo, integrando il lavoro verbale con la
produzione di immagini nei quadri di sabbia che permettono di contattare ed elaborare
tematiche conflittuali arcaiche. Nello spazio della sabbiera il paziente ha la possibilità di
rappresentare non solo contenuti inconsci della sua vita infantile personale, ma anche
contenuti riconducibili alle predisposizioni archetipiche primordiali teorizzate da Jung. Il vassoio
di sabbia si pone come spazio libero e protetto all’interno del quale, dal confronto con gli
elementi inconsci personali e transpersonali che possono trovarvi rappresentazione, scaturisce
un processo di trasformazione psichica e uno sviluppo più armonico della personalità, in linea
con le potenzialità dell’individuo. Seguendo i contenuti che emergono dal paziente, lo psicologo
analista facilita il confronto tra coscienze ed inconscio, favorisce l’integrazione psichica e il
recupero del rapporto con il Sé individuale originario. La Sandplay Therapy fornisce un
linguaggio simbolico anche a chi non ha parole per esprimere il proprio malessere,
consentendo di rappresentare il mondo interno così come si è costellato. In questo modo,
l’attività creatrice dell’immaginazione strappa l’uomo ai vincoli che lo imprigionano nel
“nient’altro che”, elevandolo al ruolo di colui che gioca: l’uomo, come dice Schiller, “è
totalmente uomo solo là dove gioca”.
PHOTOLANGAGE
Il Photolangage nasce in Francia (Lyon) nel 1965 in modo del tutto intuitivo e casuale.
Baptiste e C. Belisle, rispettivamente psicosociologo e psicologo lionesi, stavano lavorando con
un gruppo di adolescenti la cui più grande difficoltà era esprimersi o “raccontarsi” davanti al
gruppo. Per agevolare la discussione pensarono di proporre ai ragazzi delle foto in bianco e
nero con l’idea che queste potessero diventare un supporto alla parola. Ben presto gli effetti
del metodo superarono i risultati attesi: gli animatori si accorsero che in questi gruppi le
interazioni e l’interesse verso gli altri aumentavano. Inoltre, le storie individuali venivano
raccontate spontaneamente. Quello che si manifestava era il piacere di ascoltarsi.
Rapidamente il Photolangage si estese al campo della formazione in Francia e all’estero. In un
secondo momento, Claudine Vacheret dell’Università Lumière 2 di Lione, ha continuato la
ricerca studiando gli effetti del metodo Photolangage nel campo della psichiatria.
Il Photolangage è sia una collezione di dossier fotografici sia un metodo di lavoro in gruppo con
le foto. La collezione Photolangage comprende nove dossier di tavole elio (16 x 23.5 cm)
apparse e pubblicate nel 1968 dalle edizioni Cahlet. Una seconda serie di dossier tematici è
stata pubblicata nel 1991 dall’edizione d’Organisation. Ognuno di questi dossier, che
contengono una cinquantina di foto (18 x 24 cm), vengono costruiti:
o Selezionando le foto tra quelle proposte dai fotogrammi famosi;
o Mettendo insieme quelle foto che evocano tutte e in modo diverso un unico tema;
o Acquistandole dall’autore;
o Pubblicandole.
I dossier disponibili sono oggi dieci, in bianco e nero e uno a colori (Adolescenza e sessualità) e
vengono pubblicati con le seguenti tematiche: gruppi, lavoro, economia, tempo libero, relazioni
umane, formazione e sviluppo personale, donne in divenire, corpo e comunicazione, dalle
scelte personali alle scelte professionali, salute e prevenzione, situazioni limite, valori in
discussione, celebrare la vita.
Ciò che caratterizza il Photolangage in quanto metodo di lavoro in gruppo è la proposta che
viene fatta ad ogni partecipante di raccontarsi con l’aiuto delle fotografie. Non viene chiesta
un’opinione estetica su un documento visivo, ma di dirsi diversamente che con le sole parole. Il
Photolangage è uno sguardo nuovo portato all’immagine. Ogni partecipate non deve analizzare
la foto quanto piuttosto reagire spontaneamente, soggettivamente, affettivamente. Cercare di
capire perché una foto interessa e spiegalo agli altri permette l’apprendimento della
comunicazione: ognuno cerca di comprendere l’altro non per giudicarlo o per mettergli
un’etichetta, ma per rispondere ad una domanda di ascolto. Quando si lavora con il
Photolangage, l’organizzazione del tempo e dello spazio sono di estrema importanza. Un lavoro
ottimale richiede le seguenti condizioni materiali:
o Una sala sufficientemente grande che disponga di due spazi, uno dove l’animatore
espone le fotografie disponendole su dei tavoli intorno ai quali i partecipanti possono
circolare liberamente, l’altro dove i partecipanti si riuniscono seduti con l’animatore per
il lavoro in gruppo;
o Una cinquantina di foto selezionate in funzione di un tema;
o Una lavagna sulla quale sarà scritto il tema di cui parleremo (condizione opzionale);
o Un tempo di riunione di due ore.
L’incontro si apre con la formulazione del tema a cui segue la disposizione delle foto sui tavoli.
Il tempo in cui viene elaborata la consegna è molto prezioso. È il tempo in cui viene pensato il
gruppo nella sua gruppalità ed ogni partecipante nella propria individualità. Questo tempo
corrisponde alla capacità di reverie materna di cui ci parla Bion.
“La reverie designa il modo in cui la madre accoglie le proiezioni e le identificazioni del bebè.
Sono reazioni immaginarie che la madre attiva per metabolizzarle” (W.Bion, 1963, pag.32).
Il tema scelto viene scritto alla lavagna e la scelta delle foto viene fatta in risposta a ciò che la
frase suscita in ciascuno la consegna varia ad ogni incontro e viene scelta dagli psicologi sulla
base delle dinamiche emerse in quello precedente, rispettando sia la fase in cui si trova il
gruppo sia i tempi interni di apertura di ciascun partecipante.
“La madre digerisce psichicamente le proiezioni della mente del bambino e lo nutre a sua volta
restituendogli questo prodotto da lei pre-assimilato- il bambino (gruppo) riceve un nutrimento
secondario e metaforico del primo. Non si nutre del seno corporeo ma del seno psichico della
madre (trasformazione del tema in consegna)” (Bion).
Una seduta si svolge in due tempi:
Il tempo della scelta personale di una o più foto = il primo tempo si passa in silenzio,
non ha nessun limite ed è necessario alla scelta personale delle foto. Ogni partecipante
ha la possibilità d fare in tranquillità la propria scelta, che per il momento deve essere
fatta solo con lo sguardo (in modo da lasciare tutte le foto a disposizione degli altri
membri del gruppo). Questo tempo permette alle idee e alle immagini di presentarsi
alla mente; la scelta delle foto consente al soggetto di trovare quella che esprime al
meglio ciò che desidera comunicare al gruppo. Via via che i partecipanti hanno scelto, si
rimettono a sedere e quando tutto il gruppo è tornato al proprio posto nel cerchio di
sedie, l’animatore invita a prendere la/le sua/loro foto, precisando bene che qualora
qualcuno avesse scelto la stessa foto di un altro, non si deve cambiare la scelta, perché
ritroverà la “sua” foto nel gruppo.
Il tempo degli scambi in gruppo = il secondo tempo inizia quando tutti sono seduti in
cerchio con le foto in mano e l’animatore specifica che il tempo rimasto a disposizione è
da dividere in gruppo. L’animatore annuncia, inoltre, le modalità d’intervento,
precisando che ognuno presenta la propria foto al gruppo quando lo desidera e se vuole
può intervenire su quello che viene detto dagli altri. Si raccomanda di mantenere un
buon livello di ascolto al fine di capire ciò che l’altro vuole dire. I partecipanti sono
invitati a comunicare ciò che la foto suscita in loro condividendo o no ciò che viene
detto da un altro partecipante su quella stessa foto.
Un aspetto molto importante del metodo, soprattutto nel campo terapeutico, è che l’animatore
partecipa al gioco. Questo può assumere una posizione attiva e non passiva all’interno della
dinamica, aiuta il gruppo a metabolizzare le cariche di angoscia che, specialmente nei primi
tempi, investono i suoi membri. Non c’è da stupirsi che il contatto con gli altri, inizialmente
percepiti come estranei e possibili nemici o rivali, abbia bisogno di tempo per essere creato:
esprimere le proprie emozioni, raccontare le proprie esperienze davanti a più persone suscita,
infatti, spesso la paura di essere giudicati. Gli animatori si mettono in gioco proprio per queste
ragioni e per accelerare il dischiudersi dei partecipanti. Da un lato la loro disponibilità a
coinvolgersi offrendo ai membri l’opportunità di identificarsi con loro, dall’altro le foto che
ciascuno sceglie e presenta, permettono di lanciarsi. La posizione di animatore partecipante
nella dinamica del gruppo, quindi, consente un più rapido passaggio da uno stato di angoscia
ad uno di fiducia reciproca e accresce il desiderio di relazionarsi con gli altri, stemperando la
paura del contatto. Questo lo si deve anche al fatto che questa modalità di conduzione degli
incontri consente di ridurre la distanza fra “esperto” e “membro del gruppo”, passando da una
posizione relazionale verticale ad una basata sulla pariteticità ed orizzontalità. La presa di
coscienza di se stessi può, così, essere percepita non più come angosciante, ma come risorsa,
arricchimento, scambio e perde i connotati iniziali di critica e attacco personale. Rapidamente
si costruisce un’immagine di gruppo e una storia originale a partite dalle foto e da ciò che
viene detto.
Gli obiettivi sono:
o Prendere coscienza del proprio punto di vista ed esprimerlo agli altri;
o Relativizzare la propria posizione davanti agli altri, che non hanno forse la stessa
opinione, ma che nonostante questo incontrano difficoltà più o meno simili alle nostre;
o Creare uno spazio mentale capace di contenere le preoccupazioni, le esitazioni, le
angosce di ogni membro del gruppo: è più facile parlare di una fotografia che si
manipola che parlare direttamente agli altri;
o Esprimere le rappresentazioni che ognuno ha del soggetto/problema/tema proposto;
o Identificare gli stereotipi dando la parola all’esperienza personale.
È abbastanza chiaro che l’obiettivo degli scambi non è ricercare una “buona risposta” al tema
posto, ma permettere ad ognuno di esprimere, attraverso la scelta di una foto, il proprio punto
di vista tentando di comunicarlo agli altri.
IPNOSITERAPIA
Ipnosi = Hypnos, dio greco del sonno.
L’ipnosi è uno stato di trance in cui lo stato psicofisico è diverso dal normale, vi è una
prevalenza di funzioni immaginativo emotive rispetto a quelle critico intellettive. È una
particolare forma di interazione umana e il rapporto tra soggetto ed ipnotista è definito
rapport. Si può descrivere in una formula:
𝑆 I = IPNOSI
𝐼= S = STATO (di coscienza)
𝑅𝑥𝑐
R = RELAZIONE
c = CORPO (soggettivo o della relazione)
Ipnosi: “uno stato di coscienza che coinvolge attenzione profonda e consapevolezza periferica
ridotta caratterizzata da una maggiore suscettibilità alla suggestione.” (APA, 2014)
Induzione ipnotica: “procedura designata a indurre l’ipnosi.”
Ipnotizzabilità: “capacità di un individuo di esperire alterazioni fisiologiche, sensazioni,
emozioni, pensieri o comportamenti durante un’ipnosi.”
Ipnositerapia: “uso dell’ipnosi nel trattamento di un disturbo medico o psicologico”.
IPNOSITERAPIA ERICKSONIANA.
Milton Erickson (1901-1980): allievo di Leguirec, a sua volta allievo di Charcot. Diversa
concezione dell’Inconscio come gravido di risorse fondamentali per la guarigione (e non sede
del rimosso come in Freud). Abile ipnotista, formatosi sulla sua esperienza di comunicatore.
Dimostra come sia possibile accompagnare in uno stato di trance persone con la quale ci si
accinge a una normale conversazione: il passaggio verso l’ipnosi avviene tramite l’attenzione e
le modalità che il terapeuta utilizza per gestire la conversazione (Mosconi, 2009).
La comunicazione è il fulcro della teoria Eriksoniana. Ipnositerapia per Erikson: “stato
modificato di coscienza altamente motivato e diretto a sviluppare risorse potenziali
dell’individuo attraverso un attivo apprendimento inconscio, in ciò facilitato da un
restringimento selettivo del campo di coscienza. La trance è descritta come uno stato che può
verificarsi naturalmente durante la giornata, non necessariamente come il frutto di tecniche
induttive. Il ruolo dell’ipnotista cambia, il risultato della terapia dipende essenzialmente dalle
capacità comunicative del terapeuta.
Metodo, tecnica, strumenti (Del Castello e Casilli, 2007):
o Guidare l’attenzione => si cerca di indirizzarla agli stimoli esterni ed interni
o Costruire la responsività ai segnali minimi => al paziente vengono date indicazioni
meno direttive e si fa in modo che risponda a segnali meno evidenti, questo consente
all’ipnotista di avere una collaborazione inconscia da parte del paziente ed avere
risposte ipnotiche genuine.
o Usare la confusione => permette di destabilizzare l’orientamento conscio e
l’orientamento abituale alla realtà.
o Guidare le associazioni => si aiuta il paziente a dirigersi verso schemi mentali che
sono appropriati per la propria patologia.
o Promuovere la dissociazione
o Instaurare la regressione
o Favorire cambiamenti nello schema percettivo => fa parte dei metodi per far sì
che il soggetto NON rimanga nel proprio equilibrio.
o Avere accesso alle motivazioni => importante creare un contesto di accettazione
delle suggestioni.
o Definire la situazione come ipnosi => soprattutto a livello di contesto.
o Ratificare le risposte e lavorare subito con l’ipnosi
Erickson: l’ipnosi profonda è il livello di ipnosi che permette al soggetto di funzionare in modo
adeguato a livello inconscio senza interferenze della mente cosciente (Antonelli, 2009).
Si associano modificazioni a livello di SNC e SNP. Nell’induzione formale della trance, le
istruzioni fornite al soggetto per ottenere la focalizzazione dell’attenzione sulle parole
dell’ipnotista comportano un restringimento dell’attenzione. Questi processi sono mediati
fisiologicamente da circuiti neurali talamo-corticali e parieto-frontali, laterizzati principalmente
nell’emisfero sinistro. Al livello successivo, in cui avviene la chiusura degli occhi ed il
rilassamento, si associa una riduzione dell’attivazione dei circuiti neurali fronto-limbici, con
conseguente riduzione dell’esame di realtà.
Studi comportamentali, elettrofisiologici e di neuroimaging sull’ipnosi hanno evidenziato come
essa possa essere uno stato e uno strumento per modulare risposte cerebrali a stimolazioni
dolorose: è stato dimostrato che processi ipnotici modificano reti cerebrali interne
(consapevolezza di sé) ed esterne (consapevolezza dell’ambiente). Meccanismi sottostanti la
modulazione della percezione del dolore in condizione d’ipnosi includono aree corticali e
sottocorticali tra cui le cortecce anteriore, cingolata e prefrontale, gangli basali e talamo.
Infine, l’ipnosi può essere considerata un utile analogo per simulare sintomi di conversione e
dissociazione in soggetti sani, permettendo una migliore rappresentazione di questi gravosi
disturbi riproducendo esperienze clinicamente simili.
Numerosi studi hanno evidenziato l’interesse verso procedure ipnotiche in varie situazioni
cliniche, come la gestione del dolore, il trattamento di fobie, depressione, disturbi psicotici e
dissociativi e così via. Alcuni ricercatori ritengono che l’ipnosi sia collegata a uno stato alterato
di coscienza, mentre altri assumono che questi fenomeni possano essere spiegati da
concettualizzazioni psicologiche come le aspettative clinico-paziente. L’ipnosi è vista come uno
stato di attenzione mirata riguardante l’assorbimento interiore con una relativa sospensione
della consapevolezza marginale e ha tre componenti:
Assorbimento: tendenza a divenire totalmente coinvolto in un’esperienza percettiva,
immaginativa o ideazionale;
Dissociazione: separazione mentale di componenti d’esperienza che sarebbero
ordinariamente processati insieme;
Suggestionabilità: responsività agli stimoli sociali da cui deriva la tendenza
incrementata ad attenersi a istruzioni ipnotiche, rappresentando una sospensione del
giudizio critico.
Studi di neuroimaging sottolineano che i risultati dell’ipnosi nell’attività ridotta della rete
cerebrale estrinseca sono coinvolti nella percezione sensoriale e dell’ambiente. Altri risultati sul
dolore e l’ipnosi rafforzano l’idea che strategie non solo farmacologiche, ma anche
psicologiche, possano modulare la rete interconnessa di regioni corticali e sottocorticali,
implicate nel processare stimoli nocivi e diminuiscono la sensazione di dolore nel soggetto in
maniera significativa. In sintesi: nell’ipnosi si assiste alla modificazione temporanea e
funzionale delle sensazioni, percezioni, pensieri, della consapevolezza, dei comportamenti. La
trance ipnotica è strettamente interrelata alla fisiologia e alla struttura del sistema nervoso
centrale ed autonomo ed è connessa con tratti personologici quali le aspettative del soggetto, il
contesto, il rapporto con l’ipnotista.
Campi di applicazione dell’ipnositerapia:
o Psicologia: depressione, ansia (GAD, parlare in pubblico), Fobie, PTSD
o Medicina: odontoiatria, dolore (acuto/cronico), ostetricia, ipertensione, insonnia,
obesità, oncologia.
Un articolo dell’Università del Minnesota sintetizza diciotto meta-analisi rappresentative
dell’utilità clinica dell’ipnosi revisionate secondo i criteri di Chambless & Hollon (1998) e
individua una classificazione dell’impatto, dovuto all’ipnosi, del trattamento sul disturbo:
1. Possibile: presenta determinate caratteristiche, secondo le quali è necessario un
campione sia tra i 25 e i 30 o più soggetti, la sua randomizzazione, i risultati in forma di
manuale per la replicazione, e maggiore efficacia statistica del trattamento ipnotico
rispetto a quello di controllo.
2. Efficace: si ottiene quando i risultati originali sono replicabili in due laboratori
indipendenti o con campioni totalmente diversi.
3. Specifico: è definibile tale quando l’ipnosi è significativamente migliore del placebo o di
altre modalità di trattamento.
Finora, su un totale di 39 disturbi, ne è stata identificata per ciascuno una cura:
a) Possibile: 32
b) Efficace: 5 (distress durante l’operazione, dolore nel cancro, dolore nelle operazioni in
bambini e adulti, perdita di peso)
c) Specifica: 2 (mal di testa ed emicranie, ansia in attacchi d’asma)
I risultati di questo lavoro e delle ricerche considerate emergono come affidabili e
generalizzabili, ma andrebbero stimolati nuovi studi per dimostrare come l’ipnosi possa essere
un trattamento specifico per un maggior numero di condizioni cliniche.
LA GRUPPOANALISI
“La Gruppoanalisi è lo strumento elettivo per lo studio delle dinamiche di gruppo, una nuova
scienza nella quale avviene l’incontro tra psicoanalisi e sociologia” (S. Foulkes).
La terapia gruppoanalitica trova fondamento in discipline come:
o L’antropologia, con gli studi di Levi-Strauss e Gehlen, che pongono l’attenzione al
rapporto tra soggettività e cultura.
o La biologia, con il concetto di neotenia.
o La sociologia, con Morin ed il paradigma della complessità.
Influenze del paradigma della complessità:
✓ La maggiore attenzione all’analisi qualitativa più che quantitativa; gli eventi che
compongono la vita di un individuo vengono messi in relazione e valutati per quello che
è il loro valore psicodinamico e immersi in uno specifico sfondo spazio-temporale.
✓ “logica e-e”, cerca d cogliere la relazione degli eventi.
✓ Ruolo dell’osservatore nel rapporto con l’oggetto osservato; non esiste un’osservazione
che sia totalmente asettica e che non produca effetti sul sistema osservato.
“Il gruppo è la matrice della vita mentale dell’individuo” (Foulkes, 1973).
Il fondatore del termine “Gruppoanalisi” è T. Burrow (1909-1986), secondo il quale il gruppo è
“un tutto unico, legame organico interno comune a diversi elementi che lo compongono. Non si
può considerare l’individuo isolato senza ritenerlo parte della specie, e quindi dotato di un
istinto sociale e naturale. Il gruppo si configura come possibilità terapeutica in quanto consente
la messa in discussione delle false immagini di sé dettate dai ruoli e della morale sociale”.
Tra il 1927 ed il 1928 Burrow rinuncia al termine gruppoanalisi per introdurre quello di
filoanalisi, riferendosi all’analisi dei comportamenti, degli affetti, dei processi cognitivi
dell’uomo in una prospettiva storica implicitamente gruppale; “ognuno di noi, infatti, è figlio
della propria etnia, della propria tribù e della propria tradizione.” (Napolitani).
Negli anni ’30 => gruppo come strumento di lavoro in trattamenti specificamente analitici.
➢ Analisi IN gruppo: il gruppo diventa il palcoscenico di molte terapie individuali.
Rappresenta solo un ambiente nel quale realizzare una terapia rivolta al singolo. Già
Freud, pur non parlando propriamente di gruppo, aveva posto attenzione all’importanza
dello stesso, prima in “Totem e Tabù” e dopo in “Psicologia delle masse ed analisi
dell’Io”. Egli, riprendendo Le Bon, afferma che “le masse, più che gli individui che le
compongono, acquistano un’anima collettiva; tale anima fa sentire i partecipanti,
pensare ed agire in modo molto diverso dai singoli partecipanti”, e definisce la massa
come “orda primordiale”. “La massa è impulsiva, mutevole e irritabile. È governata
quasi per intero dall’inconscio. (…) La massa è straordinariamente influenzabile e
incredula, è acritica, per essa esiste l’inverosimile” (“Psicologia delle masse ed analisi
dell’Io”, 1921). Una delle figure più rappresentative dell’orientamento in gruppo è
Samuel R. Slavson, che definisce le differenze tra gruppo terapeutico (fine personale;
non vi è uno scopo comune; benefici per ogni membro) e non terapeutico (vi è uno
scopo comune che interessa il gruppo come totalità).
➢ Analisi DI gruppo: lo psicoterapeuta considera il gruppo intero come oggetto del suo
intervento. Si fa riferimento agli studi di K. Lewin, secondo il quale l’evento psicologico
va indagato sistematicamente nel contesto fisico-temporale in cui accade e nella rete di
relazioni che lo sostengono e lo determinano. Figure rilevanti in questo approccio sono
Ezriel e W.R. Bion (1897-1979).Bion si occupò di pazienti allontanati dall’esercito con
diagnosi di nevrosi di guerra. Il suo esperimento durò solo sei settimane. Egli constatò
che stimolare un’attività di operazione in un gruppo poteva determinare
un’attenuazione della nevrosi nei singoli. Creò la prima autentica comunità terapeutica.
➢ Analisi MEDIANTE IL gruppo: tutto il gruppo, terapeuta compreso, è parte attiva e
destinatario del processo terapeutico. Il primo a parlare in questi termini fu proprio
Foulkes (1898-1976) che definì l’analista come “primo paziente del gruppo” e la
psicoterapia gruppoanalitica, come “una forma di psicoterapia praticata dal gruppo nei
confronti del gruppo, ivi incluso il suo conduttore” (1976).
GRUPPOANALISI ITALIANA (soggettuale) => intorno agli anni ’50 si sviluppa un interesse per
le dinamiche di gruppo di matrice Lewiniana e qualche anno più tardi, i fratelli Napolitani
fondarono le prime comunità terapeutiche italiane, all’interno delle quali la psicoanalisi
applicata ai gruppi diventava il principale strumento terapeutico. Nel 1974 nasce la Società
gruppo analitico italiana (SGAI). Negli anni ‘70/80 nascono numerose associazioni che si
riconoscono nel pensiero di Foulkes, e nell’idea che la Gruppoanalisi fosse un una forma di
analisi dell’individuo attraverso il gruppo. All’interno del panorama italiano, la Gruppoanalisi ha
trovato ampio spazio in diverse città quali Palermo, Milano, Roma e Torino.
La Gruppoanalisi Italiana, o soggettuale, ha sviluppato il suo impianto teorico partendo da
alcune idee foulksiane, analizzando più nel dettaglio le qualità transpersonali e
transgenerazionali:
✓ Il gruppo è la matrice della vita mentale
✓ La psicopatologia è legata alle comunicazioni inconsce familiari
✓ L’individuo nel gruppo è un punto nodale di una rete di rapporti inconsci
Fra i maggiori esponenti italiani emerge la figura di Diego Napolitani (1927-2013); egli si
muove in una prospettiva individuale e gruppale insieme, cercando di eliminare la separazione
tra psicologia individuale e psicologia sociale. Opera una rilettura di Freud mettendo in
evidenza, come sin dal principio, la dimensione relazionale fosse già presente. “Ogni singolo è
dunque costituito di molte masse, è – tramite l’identificazione – soggetto a legami multilaterali
ed ha edificato il proprio ideale dell’Io in base ai modelli più diversi. Ogni singolo è quindi
partecipe di molte anime collettive (…) e, al di sopra di queste, può sollevarsi sino ad un
minimo di autonomia ed originalità” (Psicologia delle masse ed analisi dell’Io, Freud, 1921).
Neotenia => concetto coniato da Gehlen, poi ripreso anche da Foulkes. Questo rappresenta il
modo che l’uomo ha di adattarsi al mondo, e questo adattamento dipende dalla coincidenza di
aspetti biologici e cultuali, in reciproca interazione tra loro. La gruppoanalisi italiana si è
dedicata a chiarire il rapporto tra individuo e collettivo, sottolineando l’importanza di
quest’ultimo, e ribaltando l’idea fenomenica per cui, non sarà più l’individuo a formare il
gruppo, bensì il gruppo a formare l’individuo. Come per Foulkes, anche per Napolitani “il social
non è esterno, bensì anche molto interno, e penetra l’esistenza più interna della personalità
individuale.
Matrice => i fenomeni mentali “non hanno luogo nell’una o nell’altra persona, ma possono
esistere solo attraverso l’interazione tra una o più persone”. Più persone che entrano in
relazione tra loro generano anche un fenomeno nuovo, che non esiste in sé.
Gruppalità interna => si riferisce a quelle relazioni interiorizzate che albergano dentro
ciascun individuo. La vita umana appartiene a più gruppi; l’incontro tra più individui è quindi
l’incontro tra più gruppalità che hanno un comune denominatore relazionale, tanto più
rilevante quanto più prossime sono le matrici storiche, ideologiche ed etnologiche di cui queste
gruppalità sono espressione individuale.
“In passato l’attenzione era centrata sulla malattia come una funzione della personalità
individuale, ma ogni malattia (mentale e fisica) e ogni disturbo coinvolge le relazioni sociali.
Molto spesso i primi segni di un cambiamento, in meglio o in peggio, si mostrano
nell’interazione con gli altri (…)” (Foulkes, 1957). La rete di identificazione di un soggetto
rappresenta uno degli oggetti precipui del lavoro terapeutico con i piccoli gruppi. La famiglia è
la rete primaria in cui si forma in modo rilevante la nostra personalità. L’individuo è un pezzo
di puzzle.
Transpersonale => lega lo psichico, il biologico, il sociale e l’antropologico alla fondazione
della mente e al suo funzionamento. G. Lo Verso sostiene che il transpersonale è il dato
costitutivo, la nascita psichica della personalità umana. Questo dato si trasmette da una
generazione all’altra in un ambiente relazionale familiare ed è sottoposto a continue
interpretazioni e reinterpretazioni da parte dell’individuo, della famiglia e dell’etnia. Presenta 6
livelli, nessuno dei quali è isolabile dagli altri:
1. Biologico-genetico
2. Etnico-antropologico
3. Transgenerazionale
4. Istituzionale
5. Sociocomunicativo
6. Politico-ambientale
“L’insorgere di una nevrosi o di una psicosi, nell’ambito di un gruppo familiare significa che un
membro di questo gruppo assume un ruolo nuovo, si trasforma nel portavoce o depositario di
ansia del gruppo (…). Il malato viene alienato dal suo gruppo” (Pichon-Rivière, 1907-1977).
Secondo Bleger, “i disturbi mentali sono momenti esagerati, isolati e stereotipati della
dinamica familiare”. Nella famiglia interviene la parte psicotica della personalità di tutti i suoi
membri. Il tipo più primitivo di interazione simbiotica è rappresentata dal gruppo agglutinato
che funziona come un tutto in cui l’identità è di gruppo. L’aggressività rappresenta lo
strumento attraverso il quale ciascun membro tende ad affermarsi re attivamente.
LA PRATICA GRUPPOANALITICA => “…Fino a che punto possono spingersi le regole della
tecnica?... la conduzione di un gruppo è un’arte, una dote o può essere insegnata ed appresa?”
(Foulkes, Introduzione alla Psicoterapia Gruppoanalitica, 1991).
Condizioni stabilite => i pazienti si incontrano con persone con cui non hanno avuto
alcun rapporto o conoscenza precedenti nella vita.
Forma particolare del gruppo => il paziente entra a far parte di un gruppo in atto,
oppure può cominciare insieme con altri in un nuovo gruppo che può essere sia chiuso,
sia semi-aperto. La forma del gruppo (semi-aperto/chiuso) non influenza il modo di
trattare la situazione psicoanalitica, né cambia il modo in cui vengono condotte le
sedute.
L’utenza “ideale” dovrebbe appartenere ad un livello socioculturale medio o medio-alto e avere
una sufficiente capacità di mentalizzazione; si dovrebbero, invece, escludere i pazienti con
disturbi narcisistici, paranoidi e schizofrenici; tuttavia, oggi, anche queste problematiche
possono essere affrontare in un gruppo di questo tipo. “Bisogna smettere di chiedersi se il
paziente è adatto al nostro trattamento; incominciamo a studiare se il nostro trattamento è
adatto al paziente” (Paul Dell). Claudio Neri: la psicoterapia di gruppo è rivolta soprattutto a
quelle persone che hanno avuto un ambiente familiare e culturale molto limitato e limitante:
un ambiente privo di affetti e anche di autenticità.
Il gruppo come tutto, una globalità dove emergono nuove esperienze e nuovi sentimenti, dove
la persona, oltre a confrontarsi con l’analista, si confronta con i suoi pari.
Composizione del gruppo = fondamentale affinché sia possibile immergersi nel qui
ed ora della terapia. La difficoltà dei pazienti sta nel riuscire a separarsi dal sintomo e/o
dal loro stile relazionale disfunzionale => Sebbene limitanti, i sintomi sono necessari ai
pazienti perché consentono di mantenersi in equilibrio all’interno di un più largo sistema
relazionale anch’esso disfunzionale. Il gruppo coinvolge, trascina, mescola; diventa
luogo fi scambio affettivo, di condivisione dell’esperienza emotiva.
Stanza e sistemazione dei posti = La stanza dovrebbe essere di dimensioni
adeguate, né troppo angusta, né troppo grande e idealmente circolare o quadrata.
Dovrebbe essere calda silenziosa, e adeguatamente illuminata, preferibilmente con la
luce che giunge da entrambi i lati o dal soffitto. Se la stanza è buia, le persone
tenderanno a nascondersi nelle ombre. Non ci dovrebbero essere mobili superflui, ma
va evitato un aspetto troppo vuoto. Il CERCHIO di sedie viene collocato intorno ad un
tavolo piccolo, che simbolizza il centro del gruppo e costituisce un punto neutrale in cui
guardare; inoltre aiuta a creare un ambiente più piacevole. Le sedie devono essere
comode, uniformi e semplici; non sono indicate le poltrone perché invitano le persone a
rilassarsi. Il numero delle sedie riflette il numero dei membri che ci si aspetta.
Il cerchio = La disposizione a cerchio permette ad ogni membro di vedere ogni altro
membro ed anche il terapeuta. Offre la migliore situazione faccia a faccia in cui tutti
sono alla pari. Le dimensioni del cerchio sono significative: se le sedie sono vicine ed il
numero ristretto, i pazienti potrebbero sentirsi spinti controvoglia verso un rapporto
troppo intimo.
Numero di membri = Il numero ideale è di 7 membri; Un gruppo sotto i 5 membri è
troppo piccolo per poter compiere un buon lavoro. Potrebbe accadere che un gruppo
venga ridotto a 5 o anche a meno membri durante una seduta particolare, per una
coincidenza di assenze. Qualunque numero sopra i 15 fino a diciamo 70 o 80 membri
costituisce un GRANDE GRUPPO. Qualunque numero sopra questi, da 100 in su fino a
diverse migliaia, viene considerata “MASSA”.
Posizione = il luogo dove le persone si siedono ed ogni cambiamento nella scelta del
loro posto costituiscono comunicazioni significative. Contiene elementi relativi al
conduttore, agli altri membri e allo “spazio” totale del gruppo. Il conduttore prende
solitamente sempre la medesima sedia. Questo rende meno probabili cambiamenti
frequenti delle posizioni dei pazienti e conferisce ad essi maggiore significato quando
avvengono. La sedia accanto al conduttore esprime un rapporto di dipendenza
particolare da lui, oppure il bisogno di essere protetto; potrebbe anche esprimere il
bisogno di nascondersi a lui. I nuovi arrivati tendono frequentemente a scegliere questa
posizione, e con l’aumento dell’indipendenza si allontanano. Un paziente che si siede di
fronte al conduttore esprime opposizione e un rapporto ambivalente, ostile. Il
cambiamento di posizione solitamente esprime sentimenti riguardo al gruppo o ad un
membro particolare del gruppo, di solito la persona seduta accanto. La vicinanza o
lontananza rispetto al conduttore riflette esattamente il grado di partecipazione ed è
relativo alla forza del transfert.
Ingresso nuovi membri => il terapeuta dovrà porsi una serie di interrogativi per verificare la
compatibilità tra il paziente che si pensa di voler inserire ed il gruppo, e viceversa. I
primogeniti saranno ostili nei confronti dei secondogeniti, in quanto avvertiranno la perdita del
loro ruolo unico e privilegiato di cui hanno goduto sino al momento della nascita. Così come
avviene nel nucleo familiare, anche in un gruppo gruppoanalitico esistono relazioni verticali
(paziente- analista) e relazioni orizzontali (paziente-pazienti); anche l’ingresso di un nuovo
membro cambia la fisionomia e rimescola determinati equilibri del gruppo. Per inserire un
nuovo componente all’interno di un gruppo che già è formato non basta verificare l’eventuale
compatibilità del potenziale paziente con i membri già preesistenti, ma diviene necessario e
fondamentale valutare la matrice di gruppo nel momento in cui pensa di attuare l’inserimento.
(Napolitani). I fenomeni di drop-out si verificano in concomitanza con un nuovo ingresso
(Brunori, 1993).
Durata => la scelta di un’ora e mezza come durata standard del gruppopsicoanalitico è
puramente empirica, ma per consenso comune viene diffusamente accettata. I gruppi a
orientamento gruppoanalitico hanno una durata medio-lunga, di almeno tre anni.
Frequenza => riguardo alla frequenza, il minimo è una volta alla settimana. Le sedute
dovrebbero essere piuttosto regolari: stesso orario ogni settimana. “Tuttavia, ho trovato le
sedute bisettimanali molto più soddisfacenti. La continuità viene accresciuta e solo con i gruppi
bisettimanali ho imparato ad apprezzare in pieno in quale misura le sedute individuali
rimangono coerenti. Le due sedute devono essere distribuite in modo che rimangano
equidistanti.” (Foulkes, 1975).
Principi di condotta richiesti:
❖ Regolarità => l’assenza del paziente rompe l’intercomunicazione e la continuità
dell’intero processo di gruppo. Le assenze producono lacune nell’interazione e nella
comprensione del gruppo, che sono solo parzialmente recuperabili. Individui la cui
presenza è irregolare ostacolano anche il proprio progresso. Ai pazienti viene richiesto
di avvertire in anticipo dell’assenza, quando essa è inevitabilmente prevista.
❖ Puntualità => quella del conduttore è importantissima poiché immancabilmente la
seduta stessa inizia con il suo arrivo. Anche l’onere di concludere la seduta spetta al
terapeuta. L’arrivo anticipato è raramente abituale; Può diventare un problema se
diversi pazienti arrivano presto, come per un tacito accordo e questo causerà la
formazione di sottogruppi con tutto il loro significato dinamico. Anche il ritardo è molto
significativo (sporadico = resistenza temporanea; cronico = fattore caratteriale).
❖ Attività post-gruppo => I pazienti, una volta lasciata la stanza della riunione di
gruppo, non tendono a continuare il contatto reciproco lungo i corridoi ed in strada.
Benché gli incontri fuori dal gruppo sono scoraggiati, questo tipo di contatto è
inevitabile e va accettato.
❖ Discrezione => Si presume che le faccende discusse nel gruppo rimangano riservate
non discusse con altre persone. Entro certi limiti, si può prevedere che i pazienti
parleranno del gruppo ad un coniuge o ad un’altra persona. Il gruppo accetta l’apertura
di questo canale di comunicazione con un parente stretto, però è importante che queste
comunicazioni vengano riportate al gruppo. Il paziente non deve temere di informare il
gruppo delle sue conversazioni e quasi sempre il gruppo può trattare questo fattore
molto bene senza colloqui speciali.
❖ Astinenza => Si riferisce anche a stratagemmi volti ad alleviare la tensione quali il
fumare, il bere o il mangiare nel corso della seduta. Si chiede al paziente di astenersi da
ogni contatto fisico, tenero o ostile nei confronti degli altri pazienti.
❖ Nessun contatto esterno => I pazienti devono essere estranei a vicenda e non
devono avere alcun rapporto nella vita, altrimenti non si sentirebbero liberi di parlare
nel gruppo se ciò comportasse conseguenze nella vita reale. Sappiamo che non ci si può
aspettare una adesione assoluta, quindi è importante che qualsiasi cosa accada fuori,
venga riportata al gruppo e possa essere analizzata.
❖ Nessuna decisione vitale durante il trattamento => Nel corso della terapia, è
essenziale e vitale riprendere qualunque decisione che possa comportare conseguenze
serie nella realtà; sono da evitare soprattutto le decisioni irreversibili, come un
cambiamento di professione, un matrimonio o un divorzio.
Questi principi di condotta possono essere talvolta violati temporaneamente e
“innocentemente”; rappresentano per il conduttore l’opportunità di educare il gruppo a questi
principi per favorire la comprensione ed il rispetto per essi. Se un qualunque membro si rifiuta
consciamente e costantemente di conformarsi a questi principi dovrà considerarsi come NON
QUALIFICATO per questa forma di trattamento. Le sedute assumono la forma di una
discussione. I pazienti non devono attenersi in modo logico e sistematico a qualche punto
particolare, ma devono sentirsi liberi di dire in qualunque momento “cosa hanno in mente,
cosa viene loro in mente, cosa pensano e sentono” (Foulkes, 1975).
Ruolo e stile del conduttore => osservazione partecipata => “sta con un piede fuori e uno
dentro”. Facilità l’emersione del gruppo stesso. Il conduttore NON deve tirare il gruppo, ma
sono i MEMBRI che devono spingersi da soli.
Competenze imprescindibili: sa stare (saper stare) nella situazione terapeutica;
Responsabilità della cura; Sguardo alla polis; setting elastici; lettura del contesto;
flessibilità; capacità di creare reti.
Formazione del conduttore = Training con analisi personale individuale e/o di
gruppo, partecipazione a workshop, a momenti esperienziali di dinamica di gruppo,
osservazione dei gruppi terapeutici, supervisione, seminari teorico clinici. Questi sono
percorsi fondamentali ma insufficienti; per essere PSICOTERAPEUTI COMPETENTI non si
può prescindere dalla conoscenza del cinema, del teatro, della musica, della poesia,
perché costituiscono delle metafore del mondo che possono essere adoperate nel lavoro
clinico; è necessario conoscere la mitologia, l’antropologia, l’etica, il diritto e la grande
letteratura. “Lo psicoterapeuta deve essere un intellettuale curioso” (Di Maria).
Principali compiti del conduttore = svezzare il gruppo; astenersi dagli argomenti
preordinati; restare sullo sfondo; selezionare i pazienti; comunicare regole e norme.
Il conduttore deve avere un atteggiamento attivo, favorire un’atmosfera partecipativa e non
giudicante e attivare l’autonomia.
Matrice dinamica di gruppo: tutto ciò che influenza profondamente lo stile e l’operato del
gruppo.
Interpretazione => Il conduttore, come analista di gruppo, deve, ricorrere all’interpretazione
nel suo lavoro terapeutico, sebbene questa rappresenti una tra le tante modalità di intervento
possibili. Infatti, oltre ad interpretare, egli deve: - analizzare, - porre domande – richiedere
informazioni; deve procedere da ciò che è manifesto a ciò che è latente. “una comunicazione
verbale dal conduttore al gruppo, o ai membri del gruppo, avente lo scopo di attirare la loro
attenzione su un certo significato rispetto al quale egli pensa siano inconsapevoli, ma di cui
potranno divenire consapevoli con il suo aiuto verbale” (Foulkes, 1975). Il terapeuta deve
inoltre essere abile nel comprendere qual è il momento giusto (il timing) per fornire la sua
interpretazione, che dovrebbe essere fornita dopo aver atteso che l’insight provenga dal
gruppo stesso.
Principi terapeutici = Tutti i tipi di gruppo hanno in comune l’assetto gruppale (inteso come
campo psicorelazionale) ed esso è il primo fattore terapeutico cui prestare attenzione. Gli
obiettivi sono una delle questioni da cui partire nel lavoro con i gruppi: essi vanno elaborati
inizialmente dal terapeuta e discussi da lui e dai pazienti e via via ri-elaborati, integrati,
modificati ecc.. Gli obiettivi, in linea di massima, sono quelli classici della terapia analitica
ampliati rispetto a temi quali il contesto relazionale familiare e non, i vissuti rispetto al
transgenerazionale e trans personale.
• Fattori terapeutici classici (Yalom) = coesione di gruppo; speranza; universalità;
altruismo; apprendimento (su di sé, interpersonale, vicario); informazione, guida,
orientamento; mobilitazione emotiva, catarsi; autorivelazione di sé.
• Fattori terapeutici trasformativi = risonanza; rispecchiamento; processi di
identificazione, proiezione, identificazione proiettiva, comunicazione inconscia,
comunicazione non verbale; vivere l’esperienza del gruppo e della relazionalità;
condivisione della sofferenza; incontro/scontro fra matrice familiare (gruppo interno,
transpersonale) e matrice dinamica del gruppo terapeutico; distanziamento dal campo
gruppale interno; interpretazione analitico-gruppale; rielaborazione soggettiva;
trasformazione complessiva.
Ricerca in gruppoanalisi => Oggi, tendenzialmente, la psicoterapia di prima scelta è quella di
gruppo. Questa mostra in tutte le ricerche un’efficacia almeno pari a quella individuale ma
consente un’esperienza relazionale e sociale più ampia ed una maturazione psichica più forte.
La terapia analitica di gruppo ha costi decisamente minori per i pazienti e per il servizio
sanitario. Tendenzialmente inferiori persino alle terapie brevi che richiedono degli ulteriori
trattamenti, ed ai trattamenti farmacologici di lunga durata. Un altro punto innovativo è quello
della ricerca empirica in psicoterapia. Essa inizia ad essere sistematica anche in Italia e nel
campo dei gruppi che, tuttavia, è in ritardo. (Lo Coco, Prestano, Lo Verso 2008).
In termini di ricerca è stato effettuato uno studio con gruppi monosintomatici per disturbi
alimentari, svolti in centri privati o pubblici siciliani. I gruppi erano a tempo limitato (due anni
circa) e composti da donne (pazienti e analiste). Il monitoraggio con strumenti clinici dei
gruppi ha evidenziato risultati ottimi e stabili con le pazienti anoressiche e risultati insufficienti
con le bulimiche. La ricerca in questo campo risulta essere complessa, in quanto deve
comprendere la ricerca sull’efficacia e sul processo qualitativo e quantitativo, la ricerca
contemporaneamente effettuata sui pazienti singoli, sul gruppo e le sue dinamiche e sul
terapeuta/i.
IPT: PROSPETTIVE
1) Esplorare i meccanismi d’azione dell’IPT, gli ‘ingredienti attivi’ del trattamento. Precisare il
ruolo dei fattori specifici dell’intervento. 2) Individuare i fattori clinici che predicono i risultati
dell’IPT, i biomarker e gli endofenotipi associati alla risposta. 3) Chiarire il contributo dell’IPT
rispetto alla terapia farmacologica nella terapia combinata e sequenziale della depressione
maggiore. 4) Testare l’efficacia dell’IPT nell’applicazione in popolazioni particolari di pazienti
depressi e per disturbi diversi dal DDM, così da formulare indicazioni più precise su
appropriatezza e durata del trattamento.