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MODELLI DI PSICOTERAPIA

Prof. Giannini

LEZIONE 1

Che cos’è la Psicoterapia?


La psicoterapia è un processo formale di interazione tra due parti, ciascuna delle quali
generalmente costituito da una persona, ma con la possibilità che possano essercene di più in
ciascuna parte, con l’obiettivo di migliorare il distress in una delle due parti relative ad una o a
tutte le seguenti aree di disabilità o malfunzionamento: funzioni cognitive (disturbi del
pensiero), funzioni affettive (sofferenze o disagio emotivo) o funzioni comportamentali
(inadeguatezza del comportamento).
In tale processo il terapeuta ha qualche teoria sull’origine, sullo sviluppo, sul mantenimento e
sul cambiamento della personalità insieme a qualche metodo di trattamento logicamente
correlato alla teoria e la capacità professionale e legale per agire da terapeuta.
Ci sono alcune caratteristiche formali che sono generalmente considerate comuni a qualunque
tipo di psicoterapia:

• una relazione interpersonale tra paziente e terapeuta ed un’alleanza ad esclusivo beneficio


del paziente;
• un luogo specifico e sicuro (setting) all’interno del quale si svolge questa relazione, nel quale
tutto ciò che avviene è confidenziale e distinto dalle normali attività e relazioni
interpersonali;
• la proposta, ad opera del terapeuta, di nuove prospettive e nuovi punti di vista, in grado di
dare un insieme di tecniche e di procedure che specificano il modo di operare del terapeuta.

Nel loro insieme, queste caratteristiche offrono una possibile descrizione di carattere molto
generale di cosa venga comunemente inteso per psicoterapia.

Finalità => un intervento psicoterapeutico può avere quattro principali finalità, che sono tra
loro molto diverse e si connetto con modalità di trattamento diverse:
1. Vi si può far ricorso per far fronte ad una situazione di emergenza, ad un momento di crisi,
a situazioni di difficoltà psicologica transitoria; ad es. sofferenza che accompagna un
divorzio, la scoperta di una malattia incurabile, un lutto, un evento traumatico, un periodo
di difficoltà coniugali o familiari.
2. Alcune volte non è neppure corretto parlare di psicoterapia e sarebbe più adeguata
l’espressione “counseling psicologico”: una consulenza, alcuni incontri, informazioni,
suggerimenti, sostegno psicologico.
3. Altrettanto spesso la psicoterapia è richiesta per una condizione psicopatologica in atto,
tanto per fronteggiare la sintomatologia che le è connessa quanto per identificare le cause
psicologiche che l’avessero scatenata; ad es. il trattamento degli attacchi di panico, dei
disturbi d’ansia, dell’anoressia nervosa, dei disturbi sessuali e così via. Fin dalle origini
della psicoterapia, una sua definizione popolare è stata “curare con le parole”.
4. Altre volte il ricorso alla psicoterapia ha senso dopo che il paziente abbia risolto la
situazione acuta con trattamenti psicofarmacologici, con un ricovero ospedaliero o altre
modalità di cura. L’intervento psicoterapeutico è in questi casi volto a prevenire possibili e
probabili ricadute. Ad es. nei casi di depressione maggiore, abuso di alcol, dipendenza da
cocaina, di episodio psicotico, mancato suicidio.

Tuttavia, le definizioni viste finora potrebbero apparire piuttosto ampie. Alcuni modelli di
terapia non vi sono però inseriti.

AUTO-TERAPIA = potrebbe essere incluso in questa definizione il sistema di psicoterapia a


cui si sottopose Sigmund Freud, sul quale Karen Horney (1942) scrisse un libro (Self-Analysis)
e che Theodore Reik (1948) definì la migliore di tutte le terapie? Questo sistema è l’auto-
terapia. Nell’auto-terapia c’è soltanto una parte: non c’è formalità e nessun supporto
professionale o legale, e certamente si tratta di terapia.
“ALTRE” PSICOTERAPIE:
• Ci sono, o ci sono stati, sistemi di terapia che non prevedono un terapeuta, come la
Meccanica Group Therapy (Schmidhoffer, 1952). Altro esempio sono gli Alcolisti Anonimi
(AA) (1935).
• Vi sono poi sistemi in cui il terapeuta non dice e non fa nulla come nei Therapeutic Social
Clubs (Bierer, 1948), o non ha un compito preciso da svolgere, uno scopo definito, come nei
Gruppi Bioniani senza Leader.
• Sistemi in cui i pazienti sono invitati ad urlare, a combattere, come nella Creative Aggression
(Bach & Goldberg, 1975) o nella Gestalt Therapy.
• Ci sono terapie in cui è vietato toccarsi come nella Psicoanalisi Tradizionale, e quelle in cui si
utilizza la manipolazione del tessuto muscolare e connettivo (massaggio, pressione
controllata e lievi contatti per rilassare i muscoli irrigiditi) come nella Bioenergetica. O, come
già visto, quelle in cui il contatto (anche aggressivo) è incoraggiato (Psicoterapia Gestalt).
• Metodi in cui il terapeuta si prende gioco del paziente, trattandolo con un’apparente
irriverenza e giocando il ruolo di avvocato del diavolo sulle ambivalenze del cliente, come
nella Provocative Therapy (Farrel & Brasma, 1974).
• Metodi che trattano il paziente o il cliente con il massimo rispetto (cfr. Adler, Rogers),
puntando sulla responsabilizzazione del cliente, sulla fiducia, sul coraggio e sulle motivazioni
al cambiamento, come nella Encuragement Therapy (Losoncy, 1982).
• Metodi che mettono in rilievo la religione, come la Dynamics of spiritual self direction (Van
Kaam, 1976).
• Metodi che sono formati da un’ampia varietà di procedure, come l’Eclettismo.

In definitiva, ciò che un’autorità potrebbe considerare psicoterapia, potrebbe essere


completamente differente dalla visione che altre autorità hanno dello stesso processo.
Ulteriori precisazioni sulla psicoterapia

• La psicoterapia è una forma di intervento professionale focalizzata principalmente ad


alleviare il distress psicologico, le disfunzioni psicologiche e comportamenti e i problemi
sociali (Ford & Urban, 1998).
• Usa principalmente mezzi psicologici e comportamentali, mediati da metodi verbali e
interazioni interpersonali condotti con individui o gruppi all’interno di condizioni intime e
private che facilitano l’autodeterminazione e l’autoregolazione (Ford & Urban, 1998).
• Questo approccio è diverso dalla pratica medica che si focalizza sull’alleviare o prevenire le
disfunzioni biologiche mediante l’abilità, l’autorità e l’esperienza del medico utilizzando mezzi
chirurgici e farmacologici (Ford & Urban, 1998).
• Gli psichiatri possono utilizzare i farmaci come parte del loro intervento (Ford & Urban,
1998).
• La psicoterapia è diversa inoltre dall’insegnamento e dagli interventi psico-sociali (Ford &
Urban, 1998). Questo è vero in parte: ad esempio, alcuni interventi cognitivo-
comportamentali hanno caratteristiche anche didattiche.
• Con la medicina la psicoterapia condivide una visione complessiva di tipo biologico,
un’attenzione al benessere della persona, un setting.
• La relazione medico-paziente rimane invece molto carente rispetto a quella terapeuta-
paziente.
• Il setting rappresenta un elemento molto importante della professione dello psicoterapeuta
=> parla di lui.

LE PROFESSIONI PSICOLOGICHE IN ITALIA:


- Psicologo, Psichiatria, Psicoterapeuta… Ma anche
- Counselor, Mediatore Familiare, Assistente sociale…

[Psicoterapia transpersonale => quarta forza della psicologia]

PSICOTERAPIA E COUNSELING => Secondo Corsini (2007) il counseling e la psicoterapia sono


qualitativamente la stessa cosa; differiscono solo a livello quantitativo. Non c’è nulla che uno
psicoterapeuta faccia e che un counselor non faccia => Ciò è vero solo dal punto di vista
relazionale, non teorico.
Non si può dare nessuna definizione che includa tutte le psicoterapie ed escluda tutti i metodi
del counseling. I vari tentativi di distinguere le psicoterapie ed escludere tutti i metodi del
counseling secondo Corsini sono falliti. Il concetto che la psicoterapia va nel profondo, mentre
il counseling no, ha poco senso visto che non è chiaro cosa sia il profondo.
Generalmente, il counseling è inteso dalle professioni di aiuto come un processo relativamente
breve, che si sviluppa tipicamente in una sola seduta, e che raramente comprende più di
cinque sedute; la psicoterapia abitualmente si sviluppa in diverse sedute e potrebbe continuare
anche per anni.
Il counseling solitamente viene considerato come orientato al problema, mentre la psicoterapia
è orientata alla persona (cfr. CBT). I reali processi che si sviluppano nel counseling e nella
psicoterapia sono identici, ma differiscono rispetto al tempo impiegato.
[Essenzialmente il counseling pone l’accento sul dare informazioni, consigli, e ordini da parte di
qualcuno che si considera un esperto di una particolare area del comportamento umano,
mentre la psicoterapia è un processo che aiuta le persone a scoprire ciò che li porta a pensare,
sentire e agire in maniera insoddisfacente (questo per ciò che riguarda però la psicoterapia
umanistica, non la CBT ad esempio)].

TUTTE LE PSICOTERAPIE SONO METODI DI APPRENDIMENTO? =>


• Tutte le psicoterapie, in genere, hanno lo scopo di cambiare le persone (concetto però molto
discutibile): farle pensare diversamente (cognizione), farle sentire diversamente (emozioni)
e farle agire diversamente (comportamento).
• Il percorso però è molto diverso da intervento a intervento => viene omologato sulla base
del paziente.
• La psicoterapia è apprendimento (dipende da cosa intendo): può essere apprendimento di
qualcosa di nuovo o la ricerca di qualcosa che è stato dimenticato; può essere
apprendimento (imparare a fare qualcosa) o può essere disimparare; paradossalmente,
spesso può essere apprendimento di ciò che già si conosce.

MECCANISMI BASILARI PER IL CAMBIAMENTO TERAPEUTICO


• 300 articoli per identificare i fattori critici necessari per cambiare le persone hanno
determinato l’individuazioni di 3 fattori (cognitivo, affettivo e comportamentale) e di 9
meccanismi basilari (Corsini & Rosenberg, 1955).
• L’alleanza terapeutica è un fattore trasversale che spiega circa 10% della varianza riguardo
all’efficacia del trattamento.

1. Fattore cognitivo

• Universalità => il cliente migliora quando realizza che non è solo, che altri hanno problemi
simili e che la sofferenza umana è universale.
• Insight => la crescita avviene quando il cliente arriva a capire se stesso (?) e gli altri e
raggiunge prospettive diverse circa i propri comportamenti e le proprie ragioni.
• Modeling => le persone traggono benefici osservando gli altri. Un cliente può modellare se
stesso o se stessa sul terapeuta (transfert per la psicanalisi).

2. Fattore affettivo

• Accettazione => questo fattore riflette il senso di ottenere una considerazione positiva
incondizionata specialmente dal terapeuta.
• Altruismo => il cambiamento può risultare riconoscendo che si è destinatario dell’amore e
della cura del terapeuta o degli altri membri del gruppo, o diventando colui che procura
amore e cura agli altri tanto quanto sta sentendo di aiutare gli altri.
• Transfert => questo fattore identifica il legame emotivo che avviene tra il terapeuta e il
cliente o tra i clienti in un setting di gruppo.

3. Fattore comportamentale

• Testare la realtà => i cambiamenti diventano possibile quando i clienti sperimentano nuovi
comportamenti in sicurezza nell’ora di terapia, ricevendo supporto e feedback dal terapeuta e
dagli altri membri del gruppo.
• Ventilare => questo fattore comprende quelle affermazioni che attestano il valore di “soffiare
via il vapore” per mezzo di grida, pianto, o mostrando collera in un contesto nel quale è
possibile sentirsi ancora accettati.
• Interazione => i clienti migliorano quando riescono ad ammettere apertamente al gruppo
che c’è qualcosa che non va nel loro comportamento o in loro stessi.

PSICOTERAPIA E PSICOTERAPEUTI
Sembra esservi concordanza tra la personalità di un innovatore di psicoterapia e il sistema che
ha sviluppato.
Se qualcuno si è orientato verso la psicoterapia, allora la teoria e la metodologia migliore da
usare dovrebbe essere quella che uno sente più vicina. Lo psicoterapeuta non sarà né
affermato né felice utilizzando un metodo non consono alla propria personalità. Il terapeuta
realmente affermato sviluppa una teoria e una metodologia coerente con la propria personalità
(Cfr. Corsini, 1991, e Dumont & Corsini, 2000).
Nel cercare di determinare quale scuola di psicoterapia sembri più sensata, l’aspirante
psicoterapeuta dovrebbe sforzarsi di trovarne una che si adatti alla sua filosofia di vita, una
che sembri più giusta in base a quello che propone teoricamente, e una con un metodo di
lavorare che appaia più attraente.

ARTE O SCIENZA?
Quali specifici interventi terapeutici producono specifici cambiamenti in specifici pazienti in
specifiche condizioni?
“Prima che questo modello (relativo alla ricerca) possa essere completato avremmo bisogno di
una tassonomia dei problemi dei clienti o dei disturbi psicologici…; una tassonomia delle
personalità dei clienti; una tassonomia delle tecniche terapeutiche…; una tassonomia dei
terapeuti; e una tassonomia delle circostanze. Se noi avessimo avuto tali sistemi di
classificazione, i problemi pratici sarebbero stati insormontabili. Assumendo cinque classi di
variabili, ognuna con dieci classificazioni,… un disegno di ricerca richiederebbe
10x10x10x10x10 o 100.000 celle” (Patterson, 1987).
La psicoterapia è un’arte basata sulla scienza, e come è vero per qualsiasi arte, con ci possono
essere munire semplici di attività così complesse (Corsini & Wedding, 2007).

LEZIONE 2

Teorie e Modelli
Possiamo considerare il termine Modello per includere tutte le forme di rappresentazioni
generalizzate e semplificate. Ogni set di fenomeni può essere rappresentato con diversi tipi di
modello. Ogni modello ha caratteristiche diverse e proprietà logiche specifiche. Ci sono,
fondamentalmente, 3 tipi di Modelli: Iconici, Analogici e Simbolici.

Modelli Iconici:
• Si tratta di un modello bi- o tridimensionale che assomiglia a quello che rappresenta;
• Fotografia, Pittura e Scultura sono modelli iconici come anche una macchinina o un
mappamondo;
• Pur potendo rappresentare eventi dinamici (ad es. foto di oggetti in movimento), sono meno
utili di altri tipi di modello.

Modelli Analogici:
• Diversamente dai modelli iconici, la rappresentazione è analoga non isomorfa (ad es. una
mappa o un grafico in cui una relazione matematica è espressa da un’immagine). Si usano
regole di trasformazione.

Modelli Simbolici:
• Rappresentano idee, cose o eventi e non c’è somiglianza con quello che rappresentano;
• Descrizioni verbali e formule matematiche sono esempi di questi modelli;
• Un set di regole di trasformazione è richiesto per comprendere il significato dei simboli;
• Ad es. le rappresentazioni matematiche seguono le regole di un particolare sistema (ad es. la
geometria);
• Il Modello Medico è un modello simbolico che fornisce i professionisti di uno schema generale
all’interno del quale vengono definite le caratteristiche, le cause, l’eziologia, la prognosi e il
metodo di trattamento di ogni specifica malattia che possa essere identificata;
• Il DSM-5, l’ICD-10 e il PDM-2 che noi utilizziamo descrivono modelli simbolici
(rappresentazioni prototipiche di differenti tipi di sindromi psichiatriche).
• Anche metodi utilizzati dai professionisti della salute sono modelli simbolici e vengono
chiamati Modelli Procedurali e Protocolli di Trattamento.
• La Terapia Freudiana così come quella Comportamentale sono Modelli Procedurali; tali
modelli sono collegati, o derivano, da un Modello Proposizionale o Teoria.
• Ad es. la Teoria Freudiana dei Meccanismi di Difesa conduce a Modelli Procedurali che
includono metodi per superare le resistenze del paziente (Associazioni libere).

Una Teoria è quindi un particolare tipo di modello, ovvero un Modello Simbolico.

I Modelli Proposizionali (teorie) e Procedurali (metodi) hanno due tipi di origine:


• Modelli Empirici o Leggi (ad es. trattamenti basati sull’evidenza di efficacia o sull’esperienza
clinica);
• Modelli Teorici (vanno oltre l’evidenza empirica e combinano il pensiero creativo con
l’evidenza empirica, con l’obiettivo di predire il comportamento.

LIVELLO DEI MODELLI = si va dai Micromodelli a quelli più inclusivi definiti Metamodelli
(Cellule => Galassia). Ad es. la famiglia è il livello primario di osservazione del terapeuta
familiare (unità di analisi) mentre per il genetista a questo livello si osservano i componenti
della cellula. La psicoterapia spesso richiede la conoscenza di interazioni multilivello: ad es. la
sintomatologia depressiva potrebbe dipendere da una formazione tumorale o da un problema
cognitivo o sociale; da qui diversi modelli procedurali. Inoltre sappiamo quanto sia importante
una disfunzione dei neurotrasmettitori negli stati depressivi.

VARIETA’ DEI MODELLI:


- Modelli Personali (schemi, teorie personali)
- Modelli Sociali (stessa cultura, stesso linguaggio, stessi programmi educativi, stesso periodo
storico)
- Modelli Culturali (un grande numero di persone condivide un modello per un periodo storico.
I modelli scientifici sono modelli culturali).

TEORIA E PSICOTERAPIA = [ le teorie su cui si fondano le varie psicoterapie sono modelli che
rappresentano la natura degli esseri umani ] => ogni teoria è costruita all’interno di una
cornice che include assunti o credenze che vengono accettate. Queste vengono chiamate
Metamodelli, Paradigmi o Visioni del mondo.
Le differenti Visioni del mondo rappresentano:
1. Le diverse risposte alle domande sulla realtà, una spiegazione delle cause prime della
realtà, prescindendo da qualsiasi dato dell’esperienza. => Metafisica
2. Come gli esseri umani conoscono la realtà (Conoscenza ordinaria, Conoscenza Scientifica e
Analisi Filosofica sulla scienza e sulla conoscenza ordinaria).
=> Epistemologia

Ogni psicoterapia implica, quindi, almeno implicitamente, alcuni assunti metafisici ed


epistemologici. Metafisica ed Epistemologia sono interrelate.

METAFISICA (Che cos’è la realtà?)


• Di cosa è fatta la realtà? (Ontologia) => Modello Concettuale
- Es. Tutto, incluso gli esseri umani, è fatto della stessa sostanza o ce ne sono diversi tipi
(materiale, immateriale, mente e corpo)?
• Com’è organizzata? (Cosmologia) => Modello Proposizionale
- Com’è organizzato il mondo e come funziona e cambia? Ad es. Diverse interpretazioni della
variabilità e della regolarità.
ONTOLOGIA (Di cosa è fatta la realtà?)
1. Il senso comune
- In genere le persone si considerano una combinazione di materia e spirito, ognuna delle
quali relativamente indipendenti l’una dall’altra.
- I pazienti iniziano la terapia generalmente con questo modello.
2. La visione Dualista (cfr. Cartesio), per certi versi simile al senso comune
- A. Parallelismo psicofisico (mente e corpo hanno le loro regole ma non si influenzano. Gli
eventi psichici e gli eventi fisici costituiscono due serie causali indipendenti, che non
interferiscono l’una sull’altra, ma che si corrispondono termine a termine (Wundt)).
- B. Interazionismo psicofisico (mente e corpo si influenzano reciprocamente) cfr. The Self
and its Brain (Popper & Eccles).
- C. Epifenomenismo o Epifenomenico (fenomeno secondario) (gli eventi mentali sono
epifenomeni. Il mondo è governato da leggi fisiche. Epifenomenismo è la teoria secondo la
quale i fenomeni mentali sono prodotti da processi fisici) cfr Il fischio di una locomotiva.
3. La visione Monista => la realtà è fatta di un solo tipo di sostanza
- A. Materialismo (Tutto può essere ricondotto ad elementi con il quale l’universo è stato
creato. L’unica realtà che può veramente essere è la materia e tutto deriva dalla sua
continua trasformazione).
- B. Idealismo (L’esistenza della realtà materiale è un’idea creata dagli esseri umani. Si tratta
di una visione del mondo che riconduce totalmente l’essere al pensiero, negando l’esistenza
autonoma alla realtà fenomenica, ritenuta il riflesso di un’attività interna al soggetto.
- C. Monismo Doppio Aspetto (Mente e corpo sono diverse manifestazioni di un unico
fenomeno. I fenomeni materiali e quelli mentali sono solo due aspetti, o attributi, di una
stessa realtà).

COSMOLOGIA (Com’è organizzata la realtà?)


A. Modelli Meccanicistici (La complessità può essere compresa come parti legate tra loro dal
principio causa-effetto).
B. Modelli Contestuali (Ogni evento risulta da una combinazione di occorrenze nel suo
immediato contesto. L’attività umana è inserita in un contesto storico e sociale, costituito
da una rete di significati e relazioni che ne determinano lo sfondo di senso, costruito
appunto a partire dai contesti d’uso).
C. Modelli Organismici (Le parti sono costruite a partire dal tutto, che esiste come entità
coerentemente organizzata) cfr Goldstein.
D. Modelli aperti auto-organizzati (Gli esseri umani sono sistemi aperti) cfr Cibernetica e
Autopoiesi.

EPISTEMIOLOGIA (Come gli esseri umani conoscono la realtà e come costruiscono la


conoscenza?)
• Empirismo => realtà separata dall’esperienza umana
- A. Realismo (ogni aspetto o evento ha proprietà che possono influenzare altri oggetti o
eventi)
- B. Rappresentazionismo o Costruttivismo (la conoscenza è costruita attraverso processi
mentali che utilizzano ma vanno oltre l’esperienza diretta).
• Intuizionismo => la conoscenza è una costruzione mentale, ma rimane sconosciuto come
l’esperienza sia legata a questo processo di costruzione.
• Razionalismo => limita l’importanza dell’esperienza nella conoscenza. Solo attraverso la
ragione è possibile capire l’ordine e la regolarità delle cose.
- A. Fenomenalismo (versione estrema del razionalismo. La realtà è ciò che una persona
esperisce e costruisce).

Psicoanalisi Tradizionale
1. Metafisica
• A. Ontologia = Idealista
• B. Cosmologia = Organismica
2. Epistemiologia = Empirista (combinazione di posizioni Realiste e Rappresentazionaliste).

Comportamentismo
1. Metafisica
• A. Ontologia = Materialismo
• B. Cosmologia = Meccanicismo
2. Epistemiologia = Empirista con enfasi sul Realismo

Cognitivismo
1. Metafisica
• A. Ontologia = Idealista
• B. Cosmologia = Meccanicista
2. Epistemologia = Realista e Costruttivista

Psicoterapia Umanistica
1. Metafisica
• A. Ontologia = Idealista
• B. Cosmologia = Organismica
2. Epistemologia = Razionalismo e Intuizionismo

Terapie Integrate
1. Metafisica
• A. Ontologia = Interazionismo o Monismo doppio aspetto
• B. Cosmologia = Auto-organizzata
2. Epistemologia = Pluralista

LEZIONE 3

La Psicoterapia Psicodinamica: Modelli Teorici (Fonagy & Target, Psicopatologia


Evolutiva).

Psicanalisi:

1. Metafisica
A. Ontologia: Idealista
B. Cosmologia: Organismica
2. Epistemologia: Empiristica (combinazione di posizioni Realiste e Rappresentazionale.

La Psicoterapia Psicodinamica (PP) si differenzia dalla psicoanalisi per quanto riguarda: durata,
valutazione generale ecc. Si differenza anche dal fatto che richiede la formulazione (perlomeno
implicita) di una diagnosi.

Psicoterapia Psicodinamica => termine generico applicabile a una serie di strategie


terapeutiche basate su una varietà di modelli teorici orientati al trattamento dei disturbi
psicologici. Interazione fra i processi mentali nella genesi dei problemi riguardanti l’esperienza
soggettiva e il comportamento.
Modello globale della soggettività umana mirato alla comprensione di ogni aspetto riguardante
il rapporto fra l’individuo e il suo ambiente interno ed esterno.

• Psicodinamico si riferisce alla capacità della mente cosciente di modificare radicalmente la


propria posizione rispetto ad alcune funzioni (Fonagy & Target).

Tutte le terapie psicodinamiche mirano a rafforzare la capacità del paziente di comprendere le


motivazioni e i significati relativi alle esperienze soggettive, ai rapporti interpersonali e al
comportamento proprio e altrui.
La teoria Freudiana ha subito una serie di modificazioni e adattamenti: a partire dalla teoria
pulsione classica, si è passato ad un cambio di paradigma con le relazioni oggettuali, fino ad
arrivare alla psicoanalisi relazionale e quindi alla terapia psicodinamica.

• Il terapeuta psicodinamico cerca di espandere nel paziente la consapevolezza di questi


meccanismi e di queste influenze per promuovere la capacità di affrontare continue
pressioni.

Otto assunti fondamentali per far sì di parlare di psicoterapia psicodinamica (Fonagy e Target):

1. Causalità psichica (vita psichica ha il predominio su tutto il resto);


2. Limiti della coscienza e influenza degli stati mentali inconsci (inconscio inteso come
inconscio dinamico, tipico della psicodinamica);
3. Rappresentazioni interne delle relazioni interpersonali;
4. Onnipotenza del conflitto psichico;
5. Difese psichiche (meccanismi di difesa);
6. Complessità dei significati (ancora importanza di elementi inconsci);
7. Importanza della relazione terapeutica;
8. Validità della prospettiva evolutiva.

Oggetto = interagendo con la madre, si ha la costruzione di un oggetto “madre”,


rappresentazione interna che modula le nostre relazioni interpersonali.

I meccanismi di difesa possono essere misurati (ad es. come il DSQ) e sono stati descritti in
vari modi. Meccanismi di difesa primitivi: “acting out”, rimozione..
Meccanismi di difesa intermedi: formazione reattiva..
Meccanismi di difesa più evoluti: sublimazione

Sullivan (psicologia umanistica) => è colui che ha dato maggiore importanza alla relazione
terapeutica
Maslow & Rogers => hanno riletto questo contributo in chiave psicoanalitica, privilegiando la
relazione face to face a discapito del “classico” lettino.

Orientarsi con i concetti della psicoanalisi può risultare molto difficile, si ha a che fare con
termini molto fumosi e descritti in maniera differente da diversi autori. Per questo è utile nella
professione il “Dizionario della Psicoanalisi” (Laplanche, Pontalis, 1967). Ad esempio:
- Affetto (Affekt)= espressione qualitativa della quantità dell’energia pulsionale e delle sue
variazioni; ogni pulsione si esprime come affetto o come rappresentazione).
- Libido = energia come substrato delle trasformazioni della pulsione sessuale riguardo
l’oggetto, la meta e la fonte dell’eccitazione sessuale; l’energia delle pulsioni attinenti a tutto
ciò che può essere compendiato nella parola amore (Freud).
- Pulsione = spinta che fa tendere l’organismo versa la meta; Freud distingue soltanto due
grandi tipi di pulsioni: le pulsioni sessuali e le pulsioni di autoconservazione e un una seco
da fase le pulsioni di vita e le pulsioni di morte.

La Psicoanalisi e la teoria evolutiva freudiana


• Per Freud il disturbo mentale è riconducibile alle esperienze infantili e alle vicissitudini del
processo evolutivo (fondamento teorico: lo sviluppo psichico avviene nei primi 5 anni di
vita).
• Freud ha attribuito un peso altrettanto determinante all’aggressività e all’influenza
dell’ambiente sociale (non esprimere la sessualità e/o l’aggressività è uno dei punti focali
della teoria freudiana; l’espressione dell’aggressività è anche una dei punti centrali su cui
fondare la terapia).
• Il modello evolutivo freudiano si basa sullo schema strutturale tripartito Es-Io-Super Io.

I conflitti che caratterizzano la mente umana si caratterizzano attorno a tre temi principali:
1. Scontro tra desideri e ingiunzioni morali
2. Scontro tra desideri e realtà
3. Scontro tra realtà interna ed esterna.

La capacità dell’Io di generare difese si è imposta come il fondamento della teoria e del lavoro
clinico.

Trance Eriksoniana: una sorta di ipnosi che si può utilizzare durante la seduta, sempre secondo
la suscettibilità dell’individuo.
Differenza terapia gestaltica e psicanalitica:
- gestaltica => consapevolizzare e agire
- psicoanalitica => consapevolizzare, ma non agire
Jacques Lacan: ha riproposto nel movimento psicoanalitico francese il modello strutturale
tripartito freudiano.
Punto di riferimento della psicoanalisi in Italia: Società Psicoanalitica Italiana (SPI).

Teorie Psicoanalitiche

• Anna Freud = modello generalizzato della psicopatologia basato sulle caratteristiche di uno
sviluppo di personalità normale e anormale in cui la psicopatologia è descritta e spiegata
come una deviazione dalle linee evolutive e dall’organizzazione strutturare normali.
• Melanie Klein = sviluppo precoce del bambino e attenzione ai disturbi mentali più gravi.
• Heinz Hartmann = evoluzione delle strutture mentali necessarie all’adattamento. Sono stati
approfonditi i normali conflitti evolutivi fra le strutture mentali che si verificano nell’infanzia o
in età prescolare.
• Margareth Mahler = mappa dei primi tre anni di vita del bambino elaborando un modello
delle originino evolutive dei disturbi di personalità.
• Otto Kernberg =modello evolutivo dei disturbi borderline e narcisistici.
• Heinz Kohut = modello dei disturbi narcisistici basato sull’ipotesi di un deficit delle cure
genitoriali precoci.
• Stephen Mitchell = la teoria relazionale intersoggettivista sostiene che le prime esperienze
creano un prototipo di comunicazione sociale.
• Daniel Stern = teorie psicoanalitiche degli schemi.
• Peter Fonagy = modelli basati sulla mentalizzazione.

Approccio Strutturale o Psicologia dell’Io

All’origine del disturbo viene ravvisato uno sviluppo deficitario dell’Io. Le nevrosi e le psicosi in
un adulto si sviluppano quando un impulso teso alla gratificazione di una pulsione regredisce
verso una precedente modalità di soddisfacimento infantile. I sintomi rappresentano soluzioni
di compromesso che riflettono ripetuti tentativi dell’Io di ripristinare l’equilibrio fra istanze
contrapposte, costituite da realtà esterna, Super-Io e rappresentazioni pulsioni inaccettabili. La
presenza di problemi psicologici o organici può indurre una regressione dell’Io che all’origine
della psicopatologia. La psicosi comporta una minaccia di completo annientamento dell’Io. Un
Io che riprende a funzionare a un livello caratteristico della prima infanzia risulterà dominato
da pensieri irrazionali, magici e da impulsi che sfuggono al suo controllo. La malattia mentale
può quindi essere vista come un fallimento dell’Io nel garantire un’interazione pacifica fra le
istanze psichiche a livelli adeguati all’età.

Heinz Hartmann (Vienna, 1984 - New York, 1970)


Austriaco, psichiatra, uno dei maggiori esponenti della Psicologia dell’Io. In terapia con Freud.
- Il ruolo dell’Io nel rapporto con la realtà
- Gli psicologi dell’Io si dedicano a ciò che caratterizza la superficie psichica, trattano delle
funzioni dell’Io, cioè qualcosa di direttamente osservabile.
Secondo Hartmann, l’Io non evolve dall’Es ma da una matrice indifferenziata dalla quale
emergono anche Es e Super-Io. L’Io non è visto come una struttura psichica dotata di una
limitata autonomia, la cui funzione primaria è quella difensiva, ma diviene una struttura
complessa, formata da più sub-strutture e avente differenti funzioni. Per Hartmann esiste una
parte dell’Io relativamente libera da conflitti pulsionali, la quale permette l’adattamento e lo
sviluppo. Questa parte libera da conflitti è quella che contiene le funzioni principali dell’Io
(Primarie e Secondarie). Hartmann fa riferimento alle pulsioni dell’Io e di autoconservazione,
piuttosto che a quelle sessuali. Introduce inoltre il concetto di Cambiamento di Funzione: un
comportamento che origina in un certo punto dello sviluppo può in seguito assolvere una
funzione completamente diversa. Un comportamento può aver acquisito autonomia rispetto
alla pulsione che lo motivava in origine conseguendo un’Autonomia Secondaria. L’Io diviene
l’organo specifico dell’adattamento inteso come l’insieme dei processi che permettono di
dominare la realtà, un concetto fondamentale per lo sviluppo dell’individuo.
Il genitore assume un’importanza fondamentale per lo sviluppo. Quando il bambino nasce, non
si ritrova ad affrontare la situazione di adattamento ex novo, ma può sfruttare le sue abilità e
le conoscenze dall’umanità. Secondo Hartmann l’individuo non cerca più la soddisfazione dei
propri bisogni (di natura sessuale) ma una certa gratificazione nel rapporto con la realtà
esterna. Per Hartmann lo sviluppo cambia da persona a persona visto che ogni individuo ha
una sua costituzione e segue un suo processo di adattamento.
La pratica della psicoterapia non si discosta molto da quella psicoanalitica. In Hartmann
assume particolare rilievo il concetto di interpretazione. Le interpretazioni Intersistemiche sono
relative ai conflitti tra l’Io e le altre istanze psichiche mentre le Interpretazioni Intrasistemiche
riguardano i conflitti tra funzioni interne all’Io stesso.

Erik Erikson (Francoforte, 1902 - Harwich, 1994)


Tedesco, psicologo, naturalizzato statunitense, allievo di Anna Freud.
Il suo desiderio di vagabondare e di diventare un artista lo allontanò dall’insegnamento formale
della scuola. Dopo parecchi anni trascorsi senza una definizione precisa e dedicati allo studio
dell’arte, Erikson venne assunto col compito di insegnare arte e altre materie a figli di
americani trasferitisi a Vienna per fare un training freudiano. Questo ingresso quasi casuale nel
nutrito e vivace circolo freudiano sfociò infine nell’ammissione all’Istituto Psicoanalitico
Viennese. La minaccia del nazismo porta Erickson negli Stati Uniti nel 1933. Diventò il primo
analista infantile di Boston e ottenne un posto alla Harvard Medical School. In seguito, occupò
posti in diverse eminenti istituzioni.
Studiò le crisi da battaglia in soldati americani disturbati, durante la seconda guerra mondiale,
le pratiche di allevamento infantile in uso presso i Sioux del Sud Dakota e gli York della costa
del Pacifico, il gioco in bambini normali e disturbati, le conversazioni di adolescenti che
soffrivano di crisi di identità e il comportamento sociale in India.
Mostrò un costante interesse per i rapidi mutamenti sociali che avvenivano in America e scrisse
su questioni quali la distanza generazionale, le tensioni razziali, la delinquenza giovanile, le
trasformazione dei ruoli sessuali e i pericoli di una guerra nucleare.
Elabora un modello di sviluppo esteso all’intero ciclo di vita organizzato in otto stadi evolutivi
(ogni stadio ricapitola i precedenti):
1. Infanzia 0-1 anno (fase orale-respiratorio), fiducia/sfiducia;
2. Prima Infanzia 1-3 anni (fase anale-uretrale), autonomia/vergogna e dubbio
3. Età genitale 3-6 anni (fase infantile-genitale), iniziativa/senso di colpa;
4. Età scolare 6-12 anni (fase di “latenza”), industriosità/inferiorità;
5. Adolescenza 12-20 anni (pubertà), identità e contestazione/diffusione di identità;
6. Prima età adulta 20-40 anni (genitalità), intimità e solidarietà/isolamento;
7. Seconda età adulta 40-65 anni, generatività/stagnazione e auto-assorbimento;
8. Vecchiaia 65 anni in poi, integrità dell’Io/disperazione.

Questa sequenza evolutiva porta alla formazione dell’identità. Erikson ha inoltre descritto la
sindrome della Diffusione dell’Identità ovvero l’assenza di continuità temporale dell’esperienza
del Sé nei contesti sociali. In particolare, per Erikson, la presenza, o l’assenza, di crisi o di
impegno, nei vari stadi, definisce quattro condizioni di identità:
1. Identità diffusa = la persona non ha fatto esperienza né di una crisi di identità né di un
impegno, è facilmente influenzabile dagli altri, cambia spesso le proprie opinioni.
2. Sotto ipoteca = si è assunta degli impegni, ma non ha esperito una crisi di identità. Accetta
senza obiettare, opinioni, atteggiamenti e un’occupazione basati sul punto di vista altrui.
3. In moratoria = una persona che si trova in un serio stato di crisi d’identità e non è ancora
capace di assumere degli impegni.
4. Persona che ha raggiunto un’identità = è passata con successo attraverso una crisi
d’identità e ha sostenuto un certo numero di impegni personali.
Il principio organizzante del Sé si basa su relazioni e scambio interpersonali e sullo sviluppo di
una fiducia di base.

René Spitz (Vienna, 1887 - Denver, 1974)


Psicoanalista austriaco naturalizzato statunitense.
Ha teorizzato una serie di trasformazioni nell’organizzazione psicologica contraddistinte dalla
comparsa di nuovi comportamenti e nuove forme di espressione affettiva (organizzatori)
parallelamente alla riorganizzazione dei rapporti tra funzioni che si legano in un’unità coesa.
Organizzatori: particolari comportamenti del bambino (risp. del sorriso, angoscia dell’ottavo
mese,…) che indicano un progresso nella formazione della struttura mentale.
E’ stato uno dei precursori nello studio dell’interazione madre-bambino. Secondo Spitz lo
sviluppo infantile avviene per stadi:
• lo “stadio pre-oggettuale” (alla nascita), nel bambino si osservano fenomeni/sorrisi connessi
non a stimoli esterni.
• lo “stadio dell’oggetto precursore” (tra i tre e i cinque mesi), il neonato sorride
indifferentemente alla comparsa di un viso noto. Questa fase detta del “sorriso
indiscriminato” è un periodo critico in cui si formano i legami sociali. A partire dai 6 mesi, i
bambini sorridono solo in presenza di visi conosciuti.
Spitz, studiando i bambini ospedalizzati in situazioni di deprivazione di stimoli, elaborò una
teoria sulla depressione anaclitica. Con questo termine, si indica il bisogno che il bambino ha di
“appoggiarsi su”, praticamente di posarsi sulla presenza affettiva della madre.
Comportamenti dei bambini separati dal caregiver:
- Primo mese: lamentele e richiami;
- Secondo mese: pianto e perdita di peso;
- Terzo mese: rifiuto del contatto fisico, insonnia, ritardo nello sviluppo motorio, assenza di
mimica, perdita continua di peso;
- Dopo il terzo mese: cessazione del pianto, stato letargico.
Questi sintomi scompaiono solo quando il bambino ritrova la madre o trova qualcuno che
voglia prendersi cura di lui. Il trauma può non risolversi, e secondo Spitz sono possibili ritardi
nello sviluppo nella quasi totalità dei soggetti osservati e un aumento del tasso di mortalità.

Edith Jacobson (Haynau, 1897 - Rochester 1982)


Psicoanalista tedesca naturalizzata statunitense, allieva di Abraham. Oltre a lei, fu allieva di
Abraham anche Melanie Klein.
Ha introdotto il concetto di Stato di Fusione Primario fra e rappresentazioni del Sé e
dell’oggetto, a cui si devono continue oscillazioni degli stati pulsionali primitivi fra il Sé e
l’oggetto. La Jacobson definisce l’identità come consapevolezza di sé. Suddivide inoltre i primi
anni di vita del bambino in sei fasi:
1. Fase dell’indifferenziazione, caratterizzata dal narcisismo primario cui il sé è
“psicofisiologico indifferenziato”. I processi fisiologici sono indipendenti da stimolazioni
sensoriali esterne.
2. Fase delle risposte a pulsioni esterne, in cui s’inizia una differenziazione tra libido e
aggressività. Sono presenti fantasie di fusione e di frustrazione.
3. Fase della separazione-individuazione, in cui si ha un’iniziale immagine di sé
4. Fase della costanza dell’oggetto, durante il quarto e quinto anno di vita.
5. Fase di latenza.
6. Adolescenza.

“Rappresentazioni del Sé e dell’oggetto” che inizialmente vengono distinte dal bambino in


buone o cattive, in base alle esperienze vissute con il caregiver.
La Jacobson si è occupata in modo particolare della formazione del Super-Io.
Ha considerato la depressione come derivante dalla differenza percepita dal soggetto tra
rappresentazione di sé e ideale dell’Io.

Hans Loewald (1906 - 1993)


Nato in Germania, si laurea in medicina a Roma nel 1934. Pratica da Psichiatra a Padova fino al
1939 e poi si trasferisce negli Stati Uniti.
Loewald riconosce i limiti della psicologia dell’Io, ritornando alla psicologia dell’Es, cercando di
integrare pulsioni e realtà, e pulsioni e oggetti.
Pone al centro dello sviluppo il concetto di Esperienza Integrativa che indica la tendenza innata
verso la disorganizzazione e riorganizzazione ad un livello più alto, attraverso il meccanismo
dell’interiorizzazione. L’interiorizzazione (o apprendimento) rappresenta il processo psicologico
fondamentale su cui si basa lo sviluppo. L’attività mentale è relazionale. Il contributo di
Loewald è, per certi versi, rivoluzionario in quanto, da un lato ancorato al linguaggio freudiano,
dall’altro proiettato verso i moderni contributi relazionali.
“Nucleo emergente”: capacità del bambino di essere separato e di vivere le conseguenze di ciò.
I suoi lavori principali riguardano la funzione del linguaggio, il transfert, l’identificazione e il
Complesso di Edipo.

Sviluppi del Modello Strutturale

L’eredità dell’Approccio Strutturale è ravvisabile nell’opera di tre psicoanalisti che si sono


ispirati ad esso per elaborare le loro teorie dello sviluppo, avvicinando la psicanalisi alla teoria
delle Relazioni Oggettuali:
• Anna Freud
• Margareth Mahler
• Joseph Sandler

Anna Freud (Vienna, 1895 - Londra, 1982)


Figlia di un padre ingombrante, padre della psicoanalisi, fu a sua volta una psicoanalista e
divenne molto famosa in Europa e oltreoceano per le sue teorie sulla psicologia infantile. Anna
Freud non si è mai laureata, nonostante un numero ragguardevole di lauree honoris causa che
le università le tributarono, non solo per il fatto di essere figlia di Sigmund Freud.

Anna Freud e Dorothy Tiffany Burlingham


Si conobbero a Vienna, dove Dorothy portò i suoi figli che soffrivano di problemi psicologici.
Anna e Dorothy erano inseparabili e trascorsero insieme più di mezzo secolo, tanto che oggi le
loro ceneri sono conservate nella cappella della famiglia Freud al Golders Green Crematorium,
in due urne identiche.

Anna Freud è conosciuta anche per gli scontri avuti nel corso della sua vita con Melanie Klein,
psicoanalista austriaca-britannica famosa per i suoi lavori nel campo della psicoanalisi infantile.
• Secondo Anna Freud il gioco è un’attività naturale dell’infanzia e quindi non sempre può
essere interpretato come materiale simbolico, mentre per la Klein si può interpretare
simbolicamente il gioco se si verificano precise condizioni: ripetitività dei contenuti, presenza
di intensi stati affettivi di angoscia e colpa, manifestazioni di tendenze reattive.
• Per Anna Freud i bambini non potevano essere trattati analiticamente come gli adulti perché
non erano ritenuti in grado di mettere in atto il transfert. Al contrario, la Klein sosteneva che
il bambino era in grafo sin da subito di mettere in atto il transfert.

Anna Freud Center: istituto situato a Londra e adibito alla ricerca e al trattamento dei disturbi
psicologici e psichiatrici infantili. Fondato del 1941 come Hampstead War Nurseries, un rifugio
per bambini rimasti senza casa per i bombardamenti. Nel 1947 divenne Hampstead Child-
Therapy Training Course and Clinic. L’isituto ha avuto un sostanzioso aiuto economico grazie al
testamento di Marylin Monroe (25% del patrimonio) in favore di Marianne Kris che scelse il
centro di Anna Freud.

Per Anna Freud il disturbo psicologico può essere meglio studiato nel suo processo di
evoluzione. Il profilo delle linee evolutive permette di osservare il rischio di patologia per ogni
bambino.
Teoria del conflitto: sviluppo visto come un compromesso tra desideri, bisogni, percezioni,
realtà fisiche e sociali e relazioni oggettuali tra loro incompatibili.
Importanza dell’analisi dell’Io. Importanza dell’analisi delle richieste provenienti dal mondo
esterno, dall’Es e dal Super-Io. I meccanismi di difesa possono essere raggruppati a seconda
della maturità evolutiva.
Anna Freud si è principalmente occupata di sviluppo infantile, dando poi origine ad un gruppo
di collaboratori che hanno ampiamente diffuso le sue idee.
Seguendo ciò che avendo detto il padre, ha dato particolare importanza al ruolo dei genitori
reali e al processo di interiorizzazione di questi da parte del bambino, ma considerando sempre
le relazioni oggettuali in secondo piano rispetto alle pulsioni. Ha utilizzato il modello delle linee
evolutive: risultato dell’interazione tra pulsioni e istanze psichiche, e tra queste e le influenze
ambientali (A. Freud, 1965). Linee evolutive che vanno dalla dipendenza emotiva all’autonomia
e alle relazioni adulte.
Vi sono otto fasi:
1. Prima fase Unità biologica madre-bambino.
2. Seconda fase Relazione analitica (indica la situazione di appoggio di un soggetto, per
esempio il bambino, a un oggetto, per esempio la madre, di soddisfacimento di bisogni
corporei tra bambino e oggetto). Madre buona vs madre cattiva. Sviluppo di
rappresentazioni della mente della madre come separata da quella del bambino.
3. Terza fase Rappresentazione coerente della madre, indipendente soddisfacimento pulsione,
che permette separazioni più lunghe.
4. Quarta fase Ambivalenza normale: sentimenti positivi e negativi verso la stessa persona
(terrible twos). Desiderio di indipendenza, ma anche di dedizione della madre.
5. Quinta fase Desiderio di possesso del genitore del sesso opposto e gelosia verso il genitore
dello stesso sesso. Fase cruciale per lo sviluppo dei problemi nevrotici.
6. Sesta fase Spostamento della libido verso i pari o altre persone dell’ambiente circostante.
7. Settima fase Ribellione preadolescenziale: comportamenti oppositori, impulsivi e
pretenziosi. Ritorno delle fantasie infantili, che aumentano il conflitto intrapsichico.
8. Ottava fase Adolescenza: l’Io deve lottare contro l’aumento improvviso di aggressività e
sessualità. Utilizzo di due meccanismi di difesa principali: intellettualizzazione e ascetismo.
Deve avvenire il lavoro di lutto per i genitori persi dell’infanzia. Ritiro della libido verso il
Sé, che determina la grandiosità narcisistica e l’onnipotenza tipiche dell’adolescenza.

Anna Freud pone l’accento sulla resilienza e sula capacità di recupero del bambini, che gli
permette, a volte, di superare anche gravi traumi.
Anna Freud ha distinto la paura del mondo interno dall’”angoscia oggettuale”. Ha notato come
il pericolo di un trauma era probabile che si sviluppasse quando la potenza della minaccia
esterna veniva a contatto con l’aggressività reale interna al bambino. Riteneva che le paure
arcaiche della prima infanzia potessero essere diminuite da una sufficiente rassicurazione del
bambino. Pensava che la natura dell’angoscia del bambino indicasse la qualità del suo sviluppo.
Credeva che l’esito dell’angoscia del bambino dipendesse dai meccanismi di difesa da lui
utilizzati.
Anna Freud sottolinea la necessità che il bambino riesca ad integrare il suo potenziale
costituzionale con l’impatto con il mondo esterno e con la graduale costituzione della propria
personalità. Se ciò non avviene, si avranno degli squilibri, che possono portare problemi di
varia natura. La psicopatologia è quindi determinata da squilibri tra le forze deve istanze
psichiche, che derivano, a loro volta, da fattori ambientali e costituzionali. Gravi disturbi di
personalità derivano da mancanze strutturali nell’evoluzione delle difese, nel test di realtà,
nella tolleranza all’angoscia, nel Super-Io e sono dovuti a disarmonie evolutive.
Disturbo borderline di personalità = incapacità di arrivare ad un giusto compromesso;
Disturbo narcisistico = precoce deprivazione emotiva.
Ha identificato l’importanza della prima relazione madre-bambino e le conseguenze di
un’eventuale separazione; ha introdotto il concetto di linee evolutive, che hanno permesso di
suddividere in unità più piccole le tre grandi istanze psichiche, facilitando così lo studio dello
sviluppo. Ciò che ha reso unico questo modello è stata l’importanza data al metodo
osservazionale.

Margareth Mahler (Sopron, 1897 - New York, 1985)


Ungherese, emigra negli Stati Uniti.
Il suo modello considera le relazioni oggettuali e il Sé come derivanti dalle vicissitudini
istintuali.
Nascita biologica vs nascita psicologica.
Pensa che il bambino passi da una fase di “autismo normale”, ad un “periodo simbiotico”, per
arrivare al processo di separazione individuazione.
Vi sono 4 Fase:
• sottofase di differenziazione (dal 4°-5° mese)
• sottofase di sperimentazione (dal 9° al 15°-19° mese)
• sottofase di riavvicinamento (dal 15°-18 al 24° mese)
• sottofase della costanza oggettuale (dal 3° anno)
Le personalità narcisistiche, secondo la Mahler, mancano di “libido narcisistica”, cioè di sana
autostima, a causa di una mancanza di accudimento da parte della madre nella fase
simbiotica, in quella di sperimentazione e in quella di riavvicinamento; tutto questo porta ad
un crollo dell’onnipotenza del bambino, con una conseguente fissazione ad essa.
Le personalità borderline hanno avuto problemi nella sottopose di riavvicinamento, periodo
critico per la formazione del carattere: la madre ha, infatti, risposto con aggressività al ritorno
del figlio. Questo fa sì che, poi, il bambino sviluppi un continuo timore e desiderio di fusione
con la madre, scissioni di rappresentazioni di Sé e dell’oggetto, e una continua ricerca della
madre “totalmente buona”.
Alcuni studi fatti nell’ambito dell’Infant Research mettono fortemente in dubbio alcuni elementi
del modello evolutivo mahleriano: Milton Klein (1981), ad esempio, ha provato come i bambini,
in realtà, siano sensibili fin da piccolissimi a stimoli esterni come la voce e il viso umano.
Fonagy, Target e Moran (1993), però, sostengono la teoria della Mahler da un punto di vista
psicologico, sottolineando come il bambino molto piccolo non sia consapevole ancora dei propri
e altrui stati mentali. Un’unità simbiotica intersoggetiva, quindi, può essere reale, ma
riguardare solo il livello delle rappresentazioni mentali di stati mentali.

Joseph Sandler (Sudafrica, 1927 - 1998)


Psicoanalista britannico, allievo di Anna Freud, ha tentato di integrare la Psicologia dell’Io con
quello delle Relazioni Oggettuali. Il suo lavoro è fondato su quello di Piaget (1936), sul
concetto di rappresentazione del Sé della Jacobson (1954) e sulla nozione di schema corporeo
di Head (1920). Anticipa la Teoria degli Schemi.
<< Le rappresentazioni che il bambino costruisce gli consentono di percepire le sensazioni
provenienti da diverse fonti, di organizzarle e di strutturarle in modo che acquistino significato
per lui. Sappiamo che la percezione è un processo attivo attraverso il quale l’Io trasforma i dati
sensoriali grezzi in percetti significativi. Il bimbo, pertanto, crea e organizza, nel suo mondo
percettivo o rappresentazione, quella che noi, in quanto osservatori descriveremmo come
realtà rispettivamente “interna” ed “esterna”. Con questo vogliamo indicare che il bambino,
per sapere che cosa sia “fuori”, deve crearsi una rappresentazione di questo “fuori” come parte
del suo mondo rappresentazionale (…). La nozione di rappresentazione del corpo può essere
estesa a quella di rappresentazione del Sé (…). La rappresentazione del Sé è, tuttavia, molto
più che una rappresentazione del corpo; include tutti quegli aspetti dell’esperienza e
dell’attività del bambino che egli progressivamente avverte (cosciamente o inconsciamente)
essere propri >> (192, p.106-108).
Sandler ha rivisto la teoria psicoanalitica mettendo al centro della teoria della motivazione gli
stati affettivi piuttosto che l’energia psichica. Lo scopo dell’Io è quello di massimizzare la
sicurezza più che evitare l’ansia. Sandler sostiene che i pazienti creano relazioni di ruolo e
agiscono sul mondo esterno per realizzare una fantasia inconscia, con specifici bisogni e
desideri. L’analista dovrebbe accettare questo ruolo assegnatoli e avere una “risonanza
liberamente fluttuante”. I tratti del carattere, quindi, sarebbero strutture consolidate di
risonanza di ruolo, con lo scopo di attualizzare la rappresentazione di una relazione desiderata,
che a sua volta deriva da una rappresentazione nella fantasia inconscia.
Sandler, insieme alla moglie Anne-Marie, ha definito due aspetti del funzionamento inconscio:
1) “inconscio passato”: il bambino dentro l’adulto, cioè reazioni infantili, fantasie inconsce,
desideri realizzati e non. Sono rappresentazioni poco elaborate, immutabili e non accessibili
alla coscienza; 2) “inconscio presente”: fantasie e pensieri inconsci attuali; rappresentazioni
meno soggette a censura, assegnate anche al Super-Io. Orientato al presente.
- Fenomeni ossessivi: nei bambini sono visti come regressione e fissazione al secondo e terzio
anno di vita, in risposta alla richiesta di abbandonare l’onnipotenza.
- Depressione: si ha quando non si riesce ad affrontare il dolore della perdita dell’oggetto con
una giusta scarica di aggressività.
- Trauma: può avere conseguenze gravi sull’individuo quando la condizione postraumatica in
cui si trova è negativa.
- Identificazione Proiettiva: il paziente cerca di modificare il comportamento dell’analista
perché si conformi alla rappresentazione distorta che ha di lui.
Sandler ha portato la psicoanalisi verso una psicologia dei sentimenti, delle rappresentazioni
interne e dell’adattamento, influenzando anche la tecnica; ha portato ad un giusto riesame
alcuni concetti come transfert e controtransfert; ha fatto un’importante distinzione tra gli
ambiti esperienziale e non esperienziale: il primo è legato al modello rappresentazionale, il
secondo a meccanismi, strutture e apparati; le teorie di Sandler sono congruenti con la
moderna teoria cognitiva; non è stato in grado di stimolare gli psicoanalisti con l’originalità
delle sue idee, forse anche perché non è riuscito a dare una visione unitaria di alcuni gruppi
psicopatologici in modo chiaro.

Teoria delle Relazioni Oggettuali


La Teoria delle Relazioni Oggettuali è complessa e non c’è un’unica definizione condivisa.
Greenberg e Mitchell usano il termine per riferirsi a tutte le teorie “che riguardano lo studio
delle relazioni tra persone esterne reali, e immagini e residui interni di relazioni con esse, e del
significato di questi residui per il funzionamento psichico”. L’Io è definito in rapporto agli altri
oggetti (interni ed esterni). La mente si forma nelle esperienze precoci con il caregiver in una
relazione che diventa sempre più complessa.
Variabilità delle Teorie delle Relazioni Oggettuali:
I. Quelle che rappresentano un movimento inteso a sostituire completamente gli approcci
basati sulle teorie pulsioni => Scuole Interpersonali-Relazionali
II. Quelle costituite a partire dalle Teorie delle Pulsioni (importanza secondaria delle pulsioni)
=> Winnicott
III. Quelle che derivano la Teoria Pulsionale dall’approccio delle Relazioni Oggettuali =>
Kernberg (le pulsioni, pur avendo delle predisposizioni costituzionali, si definiscono a parte
dalle prime relazioni oggettuali)
IV. La Teoria dell’Attaccamento ravvisa nell’individuo una pulsione relazionale autonoma.

Le Teorie delle Relazioni Oggettuali condividono diversi assunti, che includono:


- Che le patologie gravi abbiano origine preedipiche;
- Che il pattern di relazione con oggetti divenga sempre più complesso con il procedere dello
sviluppo;
- Che gli stadi di quest’ultimo rappresentano una sequenza maturata che si mantiene
attraversi le culture, ma che può, tuttavia, essere distorta da esperienze personali
patologiche;
- Che i primi pattern di relazione con l’oggetto siano ripetuti, ed in un certo senso fissati
durante tutta la vita;
- Che inferenze di queste relazioni a livello evolutivo conferiscano la propria impronta alla
patologia;
- Che le relazioni dei pazienti verso il loto terapeuta forniscano uno spiraglio attraverso il
quale è possibile esaminare gli aspetti sani e patologici dei primi pattern relazionali.

Pulsione, Oggetto, Narcisismo e Relazioni Oggettuali.

Narcisismo => Freud riteneva che il bambino fosse, per natura, orientato in senso narcisistico,
ovvero sul proprio corpo, con una grande capacità di godimento fisico che solo
successivamente veniva concentrata su di un organo particolare (i genitali) e subordinandola
ad una meta (la funzione genitale, ovvero la procreazione) che è imposta non dal principio di
piacere ma da quello di realtà. Quello che Freud definisce Narcisismo Primario è uno stadio
evolutivo precoce durante il quale il bambino investe tutta la sua libido su se stesso: l’Io, in
questo caso, è posto alla stregua di un oggetto esterno. Il Narcisismo Secondario designerebbe
invece un ripiegamento sull’Io della libido, sottratta ai suoi investimenti oggettuali.
Narcisimo Primario => Freud designa come narcisismo primario quella fase nella quale il
bambino assume se stesso come oggetto d’amore, prima di scegliere oggetti esterni. Il periodo
durante il quale questa fase si sviluppa sarebbe il primo stadio della vita, antecedente alla
costituzione dell’Io, ed il cui archetipo è quello della vita intrauterina.
Teoria Pulsionale => Il concetto di narcisismo mette in difficoltà Freud (questo perché se la
libido narcisistica è rivolta verso il soggetto non è possibile distinguerla dall’istinto di auto
conservazione) e determina una radicale trasformazione dell’originaria teoria pulsionale, che
contemplava la contrapposizione tra principio di piacere e di realtà, verso la formulazione
definitiva di questa, che vede la contrapposizione tra istinti di vita (Eros) e di morte
(Thanatos), espressa in “Al di là del principio di piacere” (1920). Narcisismo, pulsioni ed
oggetti sono dunque concetti strettamente correlati.

Oggetto in Freud:
1. Oggetto come correlato della pulsione: l’oggetto è ciò in cui e con cui la pulsione tende a
raggiungere la soddisfazione (com’è noto Freud nella pulsione distinse oggetto e meta:
l’oggetto, in questo senso, è il mezzo per il soddisfacimento);
2. Oggetto come qualcosa che prescinde dalla pulsione (ammesso che questa possa essere
considerata in maniera indipendente rispetto agli oggetti). Indica ciò che per il soggetto è
oggetto di attrazione e di amore. Ma questo secondo significato è particolarmente sfumato.
Solo alla pubertà, innatati, interviene per Freud la scelta oggettuale. Nel bambino le
pulsioni vengono considerate parziali, ed i concetti di “auto-erotismo” e “narcisismo”
indicano ambedue l’assenza di un orientamento oggettuale vero, rivolto verso l’altro.

Melanie Klein => La teoria delle pulsioni è sostituita, almeno in termini, dalla teoria
dell’oggetto e quindi lo sviluppo emozionale sembra caratterizzato dalle relazioni oggettuali più
che dallo sviluppo pulsionale. Parla di fantasie più che di rimozioni e definisce compito della
psicoanalisi l’interpretazione di queste fantasie più dell’interpretazione delle difese contro le
pulsioni inconsce.
I termini Relazione Oggettuale e di Fantasia sembrerebbero indicare una strutturazione teorica
sensibilmente diversa rispetto a quella freudiana. Tuttavia, anche per Klein esiste la dualità
delle pulsioni di vita e di morte, è operante sin dalle primissime fasi della vita e si esprime
sull’oggetto “seno”, il primo oggetto del bambino, che viene ad essere scisso in seno buono
(quello che nutre) e seno cattivo (quello che si ritira o si rifiuta).
Analoga sorte subiscono tutti gli oggetti, sia quelli parziali che quelli totali, in un vero e proprio
circolo vizioso in virtù del quale il bambino proietta il suo amore sull’oggetto buono e la sua
aggressività su quello cattivo ed introietta l’amore dell’oggetto buono e la persecutorietà di
quello cattivo. Lo sviluppo dell’Io è un processo di continue introiezioni e proiezioni. Nel
bambino è dunque la pulsione di morte freudiana, la cui intollerabile malvagità può essere
sostenuta solo attraverso la scissione dell’oggetto in seno buono e seno cattivo. Il successivo
adulto vivrà un’esistenza tragica, nel continuo ed altrettanto inutile tentativo di riparazione dei
danni immaginari prodotti dall’odio e dall’invidia, tentativo comunque destinato al più totale
insuccesso.
Tutto si origina dall’innato istinto di morte; tutto si svolge attraverso il meccanismo della
proiezione su ipotetici oggetti i quali sembrano non avere, di per sé, alcuna capacità o
coloritura affettiva. L’Io di fronte all’istinto di morte, lo deflette proiettandolo sul seno. La Klein
sembra ignorare il concetto di desiderio e, tanto meno, la possibilità di soddisfazione di esso.
Parlare in termini coerenti di rapporto oggettuale però significa considerare l’esistenza di due
soggetti diversi, in rapporto tra loro; ciascuno dei due con proprie caratteristiche umane che
non possono essere intese esclusivamente nei termini di presenza-assenza (fisica): il seno non
è necessariamente buono solo in virtù del fatto di essere presente, così come non può essere
considerato cattivo perché assente. Sebbene la Klein rifiuti il concetto di narcisismo primario,
in realtà le relazioni oggettuali del neonato sono dominate da quello che Freud aveva definito
sadismo originario (che al narcisismo primario è intimamente collegato), come espressione
mentale dell’istinto di morte. Una contrapposizione quindi tra pulsioni e relazioni oggettuali più
apparente che reale.

Verso le relazioni oggettuali => Come detto, in Freud, l’oggetto non è caratterizzato da altra
condizione se non quella di procurare il soddisfacimento. Inoltre, solo un preciso oggetto, per
ogni individuo, od un suo sostituto, può procurare tale soddisfacimento. Freud sostiene che la
scoperte di un oggetto è sempre una riscoperta. La concezione freudiana delle pulsioni e degli
oggetti ha sollevato obiezioni che possono essere così riassunte da Fairbain: “La libido è alla
ricerca del piacere oppure, primariamente, dell’oggetto in quanto tale?”. Il termine Relazione
Oggettuale compare raramente in Freud, e certamente il concetto non appartiene alla sua
metapsicologia. Per Balint, tutti i termini della psicoanalisi, ad eccezione dei termini Oggetto e
Relazione Oggettuale, si riferiscono all’individuo da solo (One-Body psychology, Rickman).
Spitz ha notato come Freud abbia confrontato il problema dell’oggetto libidico dal solo punto di
vista del soggetto. La maggior attenzione posta al concetto di Relazione oggettuale nel senso
di Fairbain comporta un cambiamento radicale di prospettiva sia in campo teorico che clinico.
Nelle concezioni successive a Freud viene ridimensionata l’importanza delle pulsioni e
l’attenzione viene posta maggiorente sulle qualità dell’oggetto. I concetti di fonte pulsione e
meta (ovvero soddisfacimento) perdono importanza, mentre ne acquista il concetto di
relazione. La libido dunque ricerca prima di tutto la relazione, e non semplicemente la
soddisfazione come de-tensione pulsionale. Risulta modificato lo status dell’oggetto. La
relazione oggettuale si presenta come un concetto olistico e differenziatore nello sviluppo della
personalità.
Il contributo della psicologia dell’Io, formulata da Hartmann, è che determinate funzioni dell’Io
si sviluppano in maniera autonoma rispetto al soddisfacimento personale. Queste formulazioni
si sono sviluppate in conseguenza di inadeguatezze implicite nella teoria pulsionale freudiana di
cui possono essere considerate tentativi di correzione. La psicologia dell’Io propone
un’alternativa all’ipotesi freudiana che il pensiero si sviluppi poiché il tentativi di Allucinazione
del seno (1899) fallisce, implicitamente affermando che qualora allucinare il seno riuscisse, il
pensiero e l’Io non potrebbero svilupparsi.
[Allucinare in Freud =>Quando l’oggetto è assente e quindi non in grado di offrire le
soddisfazioni richieste, il bambino allucina cioè presentifica l’oggetto alla mente, in forma
particolarmente intensa ed eccitante, per compensare la delusione dell’assenza. Solo
gradualmente, attraverso il ritmo assenza-presenza, la madre permette al bambino di
riconoscere una presenza reale fuori di sé e di rinunciare alla gratificazione allucinatoria in
nome dell’oggetto reale].
Le formulazioni di Hartmann si pongono come tentativo di correzione delle incompatibilità
esistenti tra la specifica teoria freudiana e la realtà dei processi maturativi e come tentativo di
conciliazione tra teoria psicoanalitica e la realtà biologica e fisiologica che la teoria pulsionale
freudiana contraddiceva. La teoria delle Relazioni Oggettuali, nata allo scopo di affermare
l’autonomia delle relazioni d’oggetto rispetto alle pulsioni, si è spinto sino al rifiuto pressoché
totale della teoria pulsionale stessa. Se la psicologia dell’Io tendeva a mantenere intatta la
validità della teoria delle pulsioni, la teoria delle relazioni oggettuali sostituisce il primato
pulsionale con la tendenza alla ricerca dell’oggetto.

Fairbain => E’, almeno inizialmente, nella tradizione del pensiero kleiniano che si pone il
pensiero di Fairbain (1952), il quale sostituisce in maniera pressoché totale il concetto
freudiano di pulsioni con quello di Relazione Oggettuale, sostenendo che l’indagine
psicopatologica deve essere indirizzata allo studio, anziché delle pulsioni, degli oggetti verso i
quali esse sono dirette. Fairbain sostiene che “la libido ricerca l’oggetto e non il piacere”,
affermando contemporaneamente che le relazioni oggettuali sono primarie ed autonome e non
semplicemente conseguenza secondaria del soddisfacimento, con ciò contraddicendo l’idea
freudiana secondo la quale l’oggetto altro non sarebbe se non il mezzo, lo strumento,
attraverso cui la pulsione realizza il proprio scopo. Gli assunti della teoria di Fairbain possono
essere considerati i seguenti:
1. Vi sarebbe una progressiva evoluzione da uno stato di relativa mancanza di
differenziazione tra sé ed oggetti verso una condizione di crescente differenziazione;
2. Caratteristica di tale evoluzione sarebbe il senso crescente della propria separatezza;
3. Vi sarebbe una progressiva acquisizione di capacità relazionali sempre più valide basate sul
senso di separatezza;
4. Il tempo di tale evoluzione sarebbe quello della vita precoce, il luogo quello della relazione
madre-bambino;
5. La psicopatologia si configurerebbe come conseguenza di alterazioni del rapporto tra
madre e bambino e quindi di difficoltà nello svolgersi dello sviluppo preedipico piuttosto
che edipico.
Balint => D’altra parte Balint (1937) aveva già sostenuto che esistono precocemente relazioni
oggettuali, ad esempio nel lattante, quindi un Amore Oggettuale Primario sarebbe in pratica
inconciliabile con la nozione di Narcisismo Primario: separatezza e rapporto intersoggettivo
sono i risultati comuni dell’attuale ricerca psicoanalitica incentrata sull’osservazione del
neonato.

Winnicott => Winnicot (1951) sostiene che le cure materne rappresentano una componente
essenziale senza la quale non potrebbe esistere alcun bambino, prendendo a sua volta
radicalmente le distanze dal concetto di narcisismo primario di Freud. In genere tutti gli autori
che hanno privilegiato le teorie delle relazioni oggettuali si sono, esplicitamente o meno,
opposti al concetto freudiano di narcisismo primario ed a quello del primato pulsionale. Per
Winnicott l’aspetto relazionale è fondamentale. Ritiene che nel neonato già possa esistere una
vita psichica, affermando contemporaneamente però che il neonato non esiste se non in
relazione ad una madre che se ne prenda cura. Il funzionamento psichico si struttura su quello
che Winnicott chiama Sé, istanza psichica preliminare alla costituzione dell’Io: con questo
termine Winnicott indica il senso di continuità garantito dalle capacità di adattamento della
madre verso il bambino. Questa consente al neonato l’illusione che il seno sia parte di lui: “… la
madre pone il seno laddove il bambino è pronto a crearlo, e nel momento giusto” (1964).

Bion => Bion (1963) ha accantonato totalmente il concetto di pulsione di morte attribuendo la
priorità dello sviluppo emozionale del bambino al concetto che ha definito di Reverie materna,
concetto analogo a quello già espresso da Winnicott di Madre sufficientemente buona. Bion
ritorna in qualche modo all’antica contrapposizione tra principio di piacere (che definisce
desiderio) e principio di realtà, laddove il principio di realtà è rappresentato, questo volta, dalla
madre che può essere, o meno, capace di adeguata Reverie. In Bion è presente un prioritario
interesse per le qualità dell’oggetto, interesse però che pare stemperarsi intensamente quando
afferma che ciò che vi è di centrale, nel destino umano, è la capacità del bambino di far fronte
alla realtà e alle frustrazioni, e che tale capacità è innata, ereditata geneticamente.

Emde => Emde (1981), sottolineando come il bambino, sin dal suo esordio di vita, sia pronto
all’interazione sociale e partecipe degli scambi con coloro i quali lo accudiscono, ha criticato
anche il concetto di Relazione Oggettuale come inadeguato a descrivere le capacità della
gamma di significati cui la dizione Relazione Oggettuale può condurre (il riferimento agli
oggetti kleiniani appare evidente).

Paradigma => indica quel complesso di regole metodologiche, modelli esplicativi, criteri di
soluzione di problemi, che caratterizza una comunità di scienziati in una fase determinata
dell’evoluzione storica della loro disciplina: a mutamenti di paradigma sarebbero in tal senso
riconducibili le cosiddette rivoluzioni scientifiche.
Nuovo Paradigma => Se le formulazioni espresse dalla psicologia dell’Io potevano essere
con facilità integrate nella teoria pulsionale freudiana, considerate ius completamento di
questa, la Teoria delle Relazioni Oggettuali può invece essere ragionevolmente ritenuta un
cambiamento di paradigma della teoria psicoanalitica. Il primato eziologico dello sviluppo
umano spetta non alle vicissitudini del soddisfacimento pulsionale, ma alla qualità affettiva
delle originarie relazioni oggettuali. E’ la qualità dell’oggetto ad essere primaria. In base alla
teoria delle relazioni oggettuali, uno stabile e definitivo senso di sé può essere ottenuto solo ed
esclusivamente nel contesto di una relazione oggettuale valida e sostenente. Un mondo
psichico privo di relazioni oggettuali sarebbe, in questo senso, di per sé schizoide, ed un
adeguato senso di sé sarebbe possibile solo nell’ambito di una relazione d’oggetto
soddisfacente. Sottolineare cioè l’importanza di relazioni oggettuali vere è senz’altro
fondamentale ai fini della comprensione dello sviluppo umano.
Dubbi legittimi => Green (1991) ha sottolineato il rischio di ipervalorizzare l’oggetto e di
svilire, conseguentemente, il ruolo svolto dalle pulsioni: l’oggetto infatti può essere
considerato, in base alle sue qualità, il rivelatore dell’esistenza delle pulsioni. Analogamente
Mancia (1992) ha sostenuto che la teoria delle relazioni oggettuali “… non può reggersi da sola,
in quanto l’oggetto, senza la pulsione, sembra privo di vita”.
La Psicoanalisi in Italia. Dalle origini agli anni ’80.

Gli inizi: i primi scritti di tipo informativo sulla teoria freudiana si devono a due psichiatri. Nel
1908 Luigi Baroncini (1878-1939), assistente al laboratorio di psicologia sperimentale
dell’Ospedale psichiatrico di Imola, pubblica sulla “Rivista di Psicologia” un saggio, peraltro
apprezzato da Freud: “Il fondamento e il meccanismo della psico-analisi”, e la traduzione di un
articolo di Jung sulla psicologia criminale.
Nello stesso anno Gustavo Modena, (1876-1958), figura che si rivelerà contraddittoria rispetto
alle sorti della psicoanalisi in Italia, allora vicedirettore del manicomio di Ancona, scrive per la
“Rivista sperimentale di freniatria”: “Psicopatologia ed etimologia dei fenomeni psiconevrotici:
contributo ala dottrina di Freud”.
Quando dopo il 1910 lo psichiatra e neuropatologo Marco Levi Bianchini (Rovigo 1875-1961) si
accosta alla psicoanalisi, la sua adesione entusiastica alla teoria freudiana lo induce a
promuovere varie iniziative per favorirne la conoscenza e la diffusione in Italia. Nel 1925 fonda
a Teramo la Società psicoanalitica italiana di psicoanalisi, che raccoglie i medici interessati alla
psicoanalisi. Tale società è un sodalizio nominale, senza punti di contatto con quanto oggi si
può intendere con questa denominazione, pertanto non fece mai parte dell’Associazione e
Psicoanalitica Internazionale che esisteva dal 1910.
Levi Bianchini non può essere considerato propriamente un analista, dal momento che non era
stato analizzato.
Edoardo Weiss (Trieste 1889 - Chicago 1971) è l’unico psicoanalista italiano formatosi a Vienna
presso la scuola freudiana. Inizia un’analisi presso Paul Federn, che durerà 18 mesi, al termine
della quale s’instaura un sodalizio scientifico, che porta Weiss ad adottare lo specifico
orientamento fenomenologico di Federn. Prima di laurearsi, nel 1913, Weiss viene accettato
come Membro della Società Psicoanalitica di Vienna, iniziando così la frequentazione delle
serate famose del “mercoledì”.
Negli anni di permanenza a Trieste, Weiss si mette in contatto con i pochi italiani che
dimostrano un autentico interesse per la psicoanalisi e li incontra ufficialmente a Firenze al IV
Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicologia. Quello sparuto gruppo era formato da
Marco Levi Bianchini, Sante De Sanctis, uno dei fondatori della neuropsichiatria infantile
italiana, docente a Roma di psicologia sperimentale, scienziato diviso fra gli studi psichiatrici,
psicopatologici e la psicologia scientifica, e Vittorio Benussi.
Vittorio Benussi (Trieste 1878 - Padova 1927) dal 1902 lavora a Graz presso il laboratorio di
Psicologia sperimentale, affrontando lo studio dei fenomeni ipnosuggestivi, che lo
familiarizzano con l’opera di Freud. Rientrato in Italia, grazie all’intercessione del De Sanctis
ottiene a Padova la cattedra di psicologia con una procedura straordinaria: “per chiara fama”.
Cesare Musatti, suo assistente a Padova, racconta che Benussi si era sottoposto ad analisi a
Graz e che intorno al 1923 per un paio d’anni aveva analizzato i suoi due assistenti: Musatti
appunto e la futura sua prima moglie, Silvia De Marchi, con la motivazione espressa che una
maggiore conoscenza e consapevolezza personale facilitano il lavoro di ricerca. Nel 1927
Benussi si suicida assumendo un tè al cianuro; Musatti scopre il suicidio, ma tiene segreta la
causa della morte fino agli anni ’80, per timore di possibili ripercussioni negative sulla
psicologia italiana, all’epoca sottoposta a forti pressioni sia dal regime fascista che dalla chiesa
cattolica. Sarà Musatti a tenere il primo corso universitario di psicoanalisi presso l’Università di
Padova nell’anno accademico 1933-1934.
SPI => intanto, per sottrarsi al fascino ufficiale dell’ospedale psichiatrico dove lavora, spronato
anche da Freud a costituire un movimento analitico in Italia, impresa più semplice da Roma
che da Trieste, Weiss si trasferisce. L’anno successivo, nel 1932, rifonda la Società
Psicoanalitica Italiana ufficiale, per la quale nel 1935 ottiene il riconoscimento formale dell’IPA
(International Psychoanalitical Association) e pubblica il suo organo ufficiale, la Rivista Italiana
di Psicoanalisi. Questa avrà vita breve, perché dopo due anni non sarà più autorizzata dalle
autorità con questa motivazione: per tutelare la moralità. Lo sparuto gruppo, ma coeso e
motivato, che si raccoglie intorno allo psicoanalista triestino è costituito da: Nicola Perrotti ed
Emilio Servadio i quali dopo aver letto il saggio di Weiss con l’introduzione di Freud, gli
chiedono di iniziare un’analisi, Cesare Musatti e Alessandra Wolff Stomersee Tomasi di Palma,
principessa di Lampedusa (1896-1982). A Loro si aggiungono la moglie di Weiss, la pediatra
Vanda Shrenger e pochi altri soci aderenti. La principessa è l’unica donna a rivesteire la carica
di presidente della SPI (dal 1954 al 1959).
Il dopoguerra. Se gli anni ’20 la psicoanalisi è considerata in modo dispregiativo una teoria
tedesca, negli anni ’30 un sistema di pensiero ebraico, nel 1968 sarà una moda americana. Nel
1945 la psicoanalisi risulta sconosciuta alla maggioranza degli psichiatri italiani e assente
dall’ambito accademico; inoltre la guerra aveva tagliato i fili con le culture d’oltralpe. La
ricostruzione della Società Psicoanalitica avviene gradualmente a partire dagli anni
immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, attorno ai fondatori che si riuniscono
il mercoledì a Roma; i primi verbali sono stilati dal giovane Gaddini. I quattro, cui si aggiunge
Claudio Modigliani (1916-2007), sono uniti da un forte intento comune, ancorati alla lettura dei
testi di Freud e alla metapsicologia, disponibili a svariare tipologie di esperienza, aperti alla
ricerca e al confronto con le nuove impostazioni kleiane. Servadio (1904-2011) era rientrato
nel 1946 da Bombay, dove era emigrato nel ’38 per sfuggire alle persecuzioni razziali. Perrotti
(1897-1970), l’unico medico del gruppo, e anche l’unico a non essere ebreo, assegna alla
psicoanalisi un compito clinico e politico. Musatti è il grande divulgatore e comunicatore nei
dibattivi accademici e culturali del suo tempo. Dal momento che le personalità, le provenienze
culturali, gli ambiti di ricerca dei caposcuola sono estremamente diversificati, dopo un periodo
di lavoro comune a Roma nella sede di via Annone, le divergenze sui criteri e sulle modalità del
training formativo nel 1961 costringono l’IPA ad intervenire.
Gli anni’60. Viene sancita la costruzione di tre gruppi d’insegnamento: all’Istituto di Psicoanalisi
di Via Salaria guidato da Perrotti, che è all’origine della Prima Sezione Romana dell’Istituto
Nazionale di Training, nel 1962 si aggiunge l’Istituto del Centro psicoanalitico presieduto da
Servadio. Nel ’63 si costituisce il Centro milanese di psicoanalisi che fa capo a Musatti. Di fatto
la SPI è tenuta sotto tutela fino al 1967. Nel frattempo a Palermo alla Principessa succede
Francesco Corrao (1922-2007), al quale si deve la creazione nel 1978 del Centro Psicoanalitico
di Palermo, lo studio della Klein e di Lacan e soprattutto l’introduzione in Italia del pensiero di
Bion, di cui traduce le opere negli anni ’60-70. In questa prima fase la formazione degli analisti
avviene sia a Roma che a Milano in modo poco burocratico, con uno spazio di ricerca
riconosciuto ai diversi istituti e ai singoli docenti; lo Statuto e il regolamento SPI garantiscono
una linea unitaria.
Gli anni ’60-70. Tra gli anni ’60-70, con entusiasmi più marcati nel ’68-69, connessi alla
psicoanalisi internazionale, si delineano dei filoni di ricerca che sono approfonditi sia in modo
individuale che in gruppo, nei Centri della SPI.
A Milano tre allievi di spicco di Musatti, nella loro elaborazione si confrontano con altri sistemi
teorici; Franco Fornari (1921-1985) è legato al pensiero kleiniano, Giancarlo Zapparoli è
interessato alla cura degli psicotici e orientato dal pensiero psicoanalitico americano di Sullivan
e Davide Lopez (1925-2010) si avvicina alle teorie del gruppo degli indipendenti inglesi.
All’allargamento di campo della prassi analitica alla terapia di gruppo, la psicoanalisi ufficiale
risponde irrigidendosi in un atteggiamento di difesa, modalità totalmente assente fra i
fondatori della SPI. Si diffonde la cultura dei piccoli gruppi. Psicoanalisti come Pier Francesco
Galli, Mara Selvini Palazzoli, Enzo Spaltro fondano il “Gruppo milanese per lo sviluppo della
psicoterapia”, che nel ’78 diviene “Psicoterapie e scienze umane”. Nel ’67 a Roma Fabrizio
Napoletani apre la prima Comunità terapeutica di gruppo, mentre il fratello Diego, in aperto
dissenso con la SPI, fonda l’AMAG, associazione milanese d’analisi di gruppo.
Lacan. Nel 1952 Daniel Lagache e Jacques Lacan si dimettono dalla Società Psicoanalitica
Francese. Con gli anni ’70 si entra in un secondo tempo di Lacan in Italia - come scrive
Giacomo Contri, che lo aveva incontrato a Parigi nel ’68, era divenuto suo analizzando, e ne
aveva tradotto in italiano gli Ecrits, pubblicati nel 1974 presso Einaudi. Lacan nel ’74 propone a
tre dei suoi diretti allievi, Contri, Drazien e Verdiglione di costituire insieme un’associazione,
con la denominazione La cosa freudiana.

La Psicoanalisi Oggi

Scienza negli anni 2000? La psicoanalisi non può aspirare a entrare nel novero delle scienze
hard. Non sembra soddisfacente, come alternativa, la scelta ermeneutica, che vede la
psicoanalisi come una sorte di pratica narrante, dove l’interpretazione è libera, ma
abbandonata all’arbitrio. Sembra più appropriata, in una dimensione euristica, l’idea di uno
sviluppo verso un modello scientifico; una strategia di ricerca, più che un’affermazione
preliminare di principi.
L’ortodossia psicoanalitica:
• International Psychoanalityc Association (IPA)
• International Journal of Psychoanalysis
• Società Psicoanalitica Italiana (SPI)
• Rivista di Psicoanalisi

I membri componenti dell’IPA sono più di 12.000. Più gli allievi. Organizzati in circa 70 istituti.
Il Congresso Internazionale si tiene ogni 2 anni. In Italia gli Psicoanalisti SPI sono oltre 600.
Oltre alla SPI, l’IPA riconosce la Italian Psychoanalytical Association (AIPsi).
In Italia. Freud definì “selvaggi” coloro che prevedevano di curare analiticamente e fornivano
interpretazioni ai pazienti senza essersi sottoposti preliminarmente all’analisi e al training [Cfr.
Freud S. (1926)]. In Italia alcuni nostri pionieri erano laureati in materie diverse dalla
Medicina. Musatti in Matematica, Servadio e Pietro Veltri in Giurisprudenza.

PDM-2: UNA SINTESI


La classificazione proposta dal PDM si basa su tre assi:
I. L’asse P valuta la personalità secondo due aspetti: l’organizzazione della personalità (che
può andare da un livello sano a un livello psicotico attraversando il livello nevrotico e quello
borderline) e lo stile di personalità. I vari stili ricordano in parte i disturbi di personalità
presentati sul DSM, ma chiamarli “stili” significa sottolinearne anche le risorse oltre agli
aspetti potenzialmente patologici (uno stile ossessivo, per esempio, è connotato spesso da
precisione e buon rendimento lavorativo). E’ quindi l’organizzazione della personalità più
che lo stile ad indicarne il livello psicopatologico (è il famoso aspetto dimensionale
mancante nel DSM). Per esempio: l’organizzazione nevrotica è un pò rigida e la sofferenza
in genere limitata ad un’area specifica, mentre l’organizzazione borderline è più disturbata
(in particolare in situazioni di intimità emotiva e nella regolazione degli impulsi). La novità
della seconda edizione è che viene incluso anche un livello “psicotico” dell’organizzazione
della personalità, cioè particolarmente disorganizzato, che porta ad un crollo dell’esame di
realtà (possono avere aspetti psicotici, per esempio, l’anoressia nervosa e il disturbo di
accumulo).
II. L’asse M (ampliato rispetto alla prima edizione) valuta il profilo del funzionamento mentale.
In altre parole i disturbi che una persona può presentare non dipendono solo dalla sua
personalità, ma anche da come funziona la sua mente. L’asse M comprende capacità quali
l’elaborazione delle informazioni, la regolazione degli impulsi, la capacità di stabilire e
mantenere relazioni, la regolazione dell’autostima, l’adattamento e la resilienza. Per
valutarle vengono proposte una serie di scale e di test di varia provenienza, in gran parte
di area cognitivista.
III. L’asse S valuta i sintomi ed è quello che richiama più direttamente il DSM e l’ICD. Da
segnalare in questa sezione l’ampio spazio dedicato al trauma e alla dissociazione e
l’inclusione del disturbo post-traumatico complesso, temi emergenti - diremmo anzi ben
consolidati - in campo psicoterapeutico. Anche in questo il PDM-2 si è dimostrato più in
linea con le più recenti ricerche cliniche rispetto al DSM-5.

SWAP 200 I e II. Shedler-Westen Assessment Procedure


(Westen, Shedler & Lingiardi, 2003; Shedler, Westen & Lingiardi, 2014).
Permette di fare diagnosi sia dimensionali che categoriali non solo secondo l’Asse II del DSM-
IV, ma anche secondo una nuova classificazione degli stili di personalità derivata da studi
empirici condotti tramite l’applicazione della stessa SWAP a pazienti reali. La SWAP si basa sul
Q-sort e si propone anche di facilitare il passaggio dalla diagnosi psichiatrica o psicologica alla
formulazione clinica e psicodinamica del caso. I 200 items della SWAP vengono distribuiti dal
clinico in otto “pile” (col computer la cosa non avviene manualmente) secondo una scala da 0 a
7 (da “per niente descrittivo” a “moltissimo”), e la distribuzione degli items non è libera, ma
forzata allo scopo di ovviare al bias di molti clinici di collocare gli items, senza riflettere a
sufficienza, spesso agli estremi del continuum. Il computer calcola i punteggi della SWAP e
standard in punti T (media 50, varianza 10) la correlazione tra il profilo emerso dalla SWAP e i
seguenti due prototipi:
• i prototipi SWAP di pazienti ideali con disturbi di personalità nell’Asse II del DSM-IV (il
cosiddetto PD factor);
• i prototipi di stili di personalità derivati empiricamente attraverso la stessa SWAP applicata a
496 pazienti reali (il cosiddetto Q factor).
Per il PD factor, si parla di disturbo di personalità quanto i punti T superano il valore di 60, cioè
una deviazione standard più della media; se i punti T sono tra 55 e 60 si parla di “forti tratti” di
disturbo di personalità. Con la SWAP si può fare diagnosi sia categoria che dimensionale.
I punti T non vengono paragonati solo ai prototipi di tutti i disturbi dell’Asse II, ma anche a un
fattore di “alto funzionamento”, cioè al profilo SWAP del prototipo di un paziente ideale sano.
Questo fattore è diverso dalla Global Assessment of Functioning (GAF), cioè dall’Asse V del
DSM-IV, perché misura anche aspetti psicologici sofisticati, non solo il funzionamento sociale.
I due PD factor che si correlavano maggiormente col fattore di “alto funzionamento”, cioè i due
disturbi di personalità che nel nostro mondo occidentale risultano negli adattati e più
“funzionali” alla società, sono quello ossessivo e quello narcisistico.

Test proiettivi
Test di Percezione Tematica (TAT) di Murray e Morgan :
- Modello teorico di riferimento = fece la sua prima apparizione nel 1935, ma la sua versione
attuale venne pubblicata solo nel 1943. La genesi del test è determinata dalla teoria dei
bisogni e delle pressioni di cui Murray è fautore. Teoria che determina fortemente il metodo
di interpretazione proposto dall’autore: il comportamento umano è determinato e si disegna
seguendo i contorni proprio di questi due concetti. I bisogni sono forze che definiscono non
solo la percezione, ma anche quelle interpretazioni personali che portano poi all’azione. I
bisogni possono essere “primari” (viscerogeni) e quindi connessi a soddisfazioni prettamente
biologiche (fame, sete, sesso) o “secondari” (psicogeni) che hanno a che vedere con la parte
più evoluta di noi (essenzialmente bisogni di autonomia, affiliazione e realizzazione).
Le pressioni sono invece le forze ambientali che agiscono sull’individuo, e Murrray le divide
in pressioni alfa (oggettive, ad esempio il dolore fisico) e beta (legate alla soggettività di chi
subisce questa pressione, ad esempio la soglia del dolore diversa per ciascuno). Bisogni e
pressioni interagiscono tra loro, creando una tela complessa e articolata che definisce le
peculiarità e le scelte dell’individuo. Bisogni e pressioni sono dunque le aree oggetto di
indagine del Test. Il TAT è ancora oggi ampiamente utilizzato, pur con tutte le controverse
statistiche che lo accompagnano. E’ il quarto test più utilizzato dagli Psicologi clinici e, nella
lista dei proiettili, è secondo solo al Rorschach.
- Cosa misura = aiuta a creare un profilo della personalità, indagando l’individuo, i suoi
bisogni, le sue motivazioni, le sue aspettative e il suo modo di percepirsi e percepire l’altro.
Il test è quindi utili per comprendere come il soggetto si muove nel suo mondo interiore e
nella realtà esterna.
- Ambiti di utilizzo = non è adatto a formulare una diagnosi descrittiva, ma risulta utile
proprio per delineare aspetti importanti della personalità.
- Somministrazione = 20 tavole somministrate in due sessioni, anche se poi usualmente se ne
somministrano meno in una sola seduta - c’è un’ampia variabilità nella scelta.
- Si compone di = serie di tavole; manuale d’istruzioni; manuale clinico del TAT.
- Presentazione del Test = si compone di 31 tavole (tutte in bianco e nero tranne una tavola
interamente bianca) in cui compaiono figure che risultano fortemente ambigue, e la loro
somministrazione varia per quel che concerne il numero e la scelta delle tavole. Da manuale
si “dovrebbero” somministrare 20 tavole in due sessioni, ma di solito se ne utilizzano meno -
circa dieci - in un unico incontro. La scelta delle tavole varia in funzione del sesso e dell’età:
questa fluidità definisce la problematica principale del TAT. Senza dubbio il TAT è uno
strumento prezioso, anche se non è possibile definirlo un test diagnostico in senso stretto.
Di fatti con esso non è possibile delineare diagnosi descrittive, anche se può dare indicazioni
estremamente importanti proprio in funzione di un’ipotesi diagnostica, se utilizzato in un
contesto più ampio di strumenti e tecniche. Le indicazioni del TAT da dare al paziente
rimangono piuttosto semplici, dato che siamo al cospetto di un’immagine che nella sua
ambiguità chiede di essere svelata: cosa sta accadendo in questa figura? Cosa è accaduto
prima? Quale sarà l’epilogo? Un quadro completo e in movimento, nel quale le dinamiche
interne della persona vengono proiettate sul materiale-stimolo, e potremmo quasi
permetterci di definirla un’esperienza artistica. Ma il TAT ha un importante ditelo: ha qualità
psicometrie deboli, con una scarsa attendibilità legata all’enorme quantità di metodi di
scorni in uso, il che non consente quindi il rigore scientifico, per come esso viene
usualmente inteso.

Il Test di Rorschach
Fu stimato da Hermann Rorschach nel 1921 e pubblicato nel volume Psychodiagnostik. E’
comunemente classificato come test proiettivo, ma sarebbe più opportuno classificarlo come
test cognitivo-percettivo (o problem soling o space performance). Il paziente non conosce né
gli obiettivi del test, né il modo in cui le sue risposte saranno valutata; è inoltre
completamente libero di rispondere, organizzando soggettivamente contenuto e forma degli
stimoli che gli vengono presentati. Questo genere di test conduce, generalmente, ad
interpretazioni della personalità del paziente, supportate dalla teoria cognitiva o da quella
psicoanalitica.
- Il materiale = il testo consiste nella presentazione standardizzata e sequenziale al paziente
di 10 tavole (formato 23x17 cm), su ciascuna delle quali compare una macchia di inchiostro
non particolarmente strutturata e simmetrica rispetto all’asse centrale. Le tavole possono
essere in bianco e nero (I-IV-V-VI-VII), rosse e nere (II-III) o a colori (VIII-IX-X).
- Somministrazione = ci sono diverse forme di somministrazione che dipendono dal sistema di
scorni scelto. Le tavole, ordinate dalla prima alla decima, vengono presentate al paziente
una alla volta. Per quanto riguarda la consegna, nel Sistema Comprensivo di Exner, lo
psicologo dice semplicemente: “Cosa potrebbe essere questo?”. Posto di fronte a ciascuna
tavola, il soggetto è libero di osservarla, capovolgerla e quindi organizzarla percettivamente,
oppure di non fare o dire nulla: questo fornisce, di per sé, dati utili al fine della diagnosi.
Compito dello psicologo è trascrivere tutto ciò che il paziente riferisce in corrispondenza di
ciascuna tavola, su un foglio bianco, ripartito in due colonne: nella prima scriverà le
risposte, nella seconda riporterà i dati derivati dall’inchiesta. Questa fase segue la
somministrazione di tutte le tavole, per non influenzare il rendimento del paziente, e
consiste fondamentalmente in una seconda presentazione delle stesse con rilettura delle
interpretazioni al paziente, al fine di ottenere informazioni utili per la siglatura precisa. La
siglatura è un sistema di codifica che permette l’elaborazione del profilo.
- Siglatura e interpretazione = nell’interpretazione del Rorschach, l’accento è posto sul modo
in cui il paziente organizza la percezione, dà forma alla sua risposta, sulle motivazioni che
fornisce e sui contenuti che presenta, spesso ricorrenti da una tavola all’altra. In generale,
percezioni che sono compatibili con la macchia di inchiostro stanno ad indicare un buon
livello di funzionamento psicologico e una buona capacità di tenere conto della realtà; al
contrario, risposte indegnità, disarmoniche, bizzarre, sono indici di una vita fantasmatica
irrealistica, conflittuale e fortemente connotata emotivamente. I principali parametri da
considerare sono la forma, il movimento, il colore, il chiaroscuro e il contenuto, ma ce ne
sono molti altri. Siglatura e interpretazione del Rorschach sono complesse e controverse: il
Sistema Comprensivo di Exner, tendente ad integrare le proposte dei principali autori,
rappresenta il metodo attualmente più in uso.

I MECCANISMI DI DIFESA
Un meccanismo di difesa, nella teoria psicoanalitica, è una funzione propria dell’Io attraverso la
quale questa istanza intrapsichica si protegge da eccessive richieste libidiche o da esperienze
di pulsioni troppo intense che non è in grado di fronteggiare direttamente. lo studio dei
meccanismi di difesa è originato da Sigmund Freud ed è stato ripreso da diversi psicoanalisti.
Sono di ampio rilievo i contributi della figlia di Freud, Anna Freud nel suo libro “L’Io e i
meccanismi di difesa” 1968.
La psiconevrosi di difesa, 1894 => “…nella loro vita ideativa si era presentato un caso di
incompatibilità […] che aveva suscitato un affetto talmente penoso, che il soggetto aveva
deciso di dimenticarlo, convinto di non avere la forza necessaria a risolvere, per lavoro
mentale, il contrasto esistente tra questa rappresentazione incompatibile e il proprio Io”
(p.123).
Rimozione: “il pilastro su cui poggia l’edificio della psicoanalisi” (Freud, 1915).
“La sua essenza consiste semplicemente nell’espellere e tener lontano qualcosa dalla
coscienza” (Freud, 1915). L’individuo affronta conflitti emotivi e fonti di stress interne od
esterne tramite il non essere in grado di ricordare o il non essere cognitivamente consapevole
di desideri, sentimenti, pensieri o esperienze disturbanti.
Una schematica lettura dell’opera di Freud permette di riassumere alcune delle caratteristiche
che Freud considera le proprietà generali delle difese dell’Io:
A. Caratterizzano sia i quadri psicopatologici sia la vita del soggetto normale;
B. Sono lo strumento principale con cui il soggetto gestisce gli istinti e gli affetti negativi;
C. Sono inconsce;
D. Sono discrete l’una rispetto all’altra;
E. Possono essere reversibili;
F. Possono essere sia adattive sia patologiche;
G. Quando ripetitive e inattuali finiscono per preparare e favorire lo scoppio della nevrosi.
(Freud, 1937, p.521).
Un meccanismo di difesa entra in azione con modalità al di fuori della sfera della coscienza: di
fronte a una situazione che genera eccessiva angoscia, per esempio, l’Io ricorre a varie
strategie per fronteggiare l’estrema portata ansiosa dell’evento, con lo scopo preminente di
escludere dalla coscienza ciò che è ritenuto inaccettabile e pericoloso.

Anna Freud = “I mezzi difensivi rilevati ora dalla psicoanalisi mirano tutti ad uno scopo: aiutare
l’Io nella sua lotta contro la vita istintuale. Sono usati da tre tipi di angoscia a cui l’Io si trova
principalmente esposto”. (1936):
• Angoscia morale (Es - Super-Io)
• Angoscia del reale (Es - realtà esterna)
• Angoscia istintuale (Es - Io)
Anna Freud propone un elenco di meccanismi di difesa che comprende quelli già esposti dal
padre (rimozione, formazione reattiva, isolamento, annullamento retroattivo, spostamento,
isteria, ossessioni e compulsioni e fobie) ed alcuni nuovi meccanismi (sublimazione,
identificazione con l’aggressore, altruismo). Secondo la Freud tale lista raggruppa sia
meccanismi di difesa semplici che complessi; questi ultimi in particolare, sono il risultato di una
combinazione di diversi meccanismi semplici che agiscono in concerto e in sinergia. Secondo
Anna Freud tutte le difese possono essere ordinate lungo una linea evolutivo-maturativa.
L’adeguatezza e l’adattività di un determinato meccanismo in un determinato individuo
possono essere valutate sulla base di quattro importanti criteri:
• INTENSITA’, ossia proporzione quantitativa di impiego di una difesa;
• ADEGUADEZZA RISPETTO ALL’ETA’, ossia prematurità, fissazione o regressione del
meccanismo;
• REVERSIBILITA’, ossia abilità dell’individuo nel disattivare la difesa quando cessa di essere
funzionale;
• EQUILIBRIO TRA LE DIFESE, ossia utilizzazione da parte dell’individuo di un alto numero di
difese o loro impiego in numero ristretto e in modo rigido.
In questo modo, Anna Freud introduce e indaga l’esistenza di una possibile correlazione tra le
difese utilizzate dal soggetto e lo stato di salute dell’Io di quest’ultimo.
Anna Freud è infatti la prima a tentare una standardizzazione e una valutazione oggettiva del
materiale relativo ai meccanismi di difesa sulla base delle informazioni che emergono in un
contesto squisitamente clinico. Tale tentativo pionieristico trova la sua massima espressione
nella pubblicazione, successiva ad un lungo lavoro protrattosi per oltre un trentennio, del suo
famoso Indice Hampstead. Questo indice si suddivide principalmente in due parti, una
manualistica ed una pratica. Nella prima vengono presentati definizioni ed indicazioni
preliminari circa l’uso di termini specifici e circa l’organizzazione e la struttura della seconda
sezione; quest’ultima consiste in una raccolta del materiale clinico assemblato dagli analisti
dell’allora Hampstead Clinic (oggi Anna Freud Center) durante il trattamento analitico di
bambini. L’obiettivo principale che la Freud vuole raggiungere con la compilation dell’Indice
Hampstead è quello di rendere il materiale prettamente clinico più accessibile alla ricerca,
all’insegnamento ed alla consultazione; ciò permette anche, secondo la Freud, di facilitare il
confronto tra casi differenti e di fornire nuovi spunti e ulteriori impulsi alla ricerca.

Melanie Klein = studia i meccanismi di difesa primitivi, legati agli stati psicotici. Divide le difese
in psicotiche (contro le angosce derivanti dall’istinto di morte) e nevrotiche (contro la libido).
Le difese non si limitano a proteggere l’Io da sentimenti dolorosi, ma rappresentano principi
organizzativi della vita psichica. Per quanto la Klein (1930) abbia distinto le difese psicologiche
in nevrotiche e psicotiche, di fatto si è occupata quasi unicamente delle seconde. Uno dei punti
di rottura tra Melanie Klein e Anna Freud fu proprio che mentre quest’ultima era interessata al
funzionamento delle difese, e dunque al ruolo dell’Io nello sviluppo del carattere, la Klein
mirava soprattutto a individuare il contenuto profondo delle fantasie angosciose (Lingiardi &
Madeddu, 2002). La novità introdotta dalla Klein deriva dall’osservazione che il bambino
introietta parti del corpo del genitore, su cui ha proiettato le sue pulsioni nelle fasi precoci dello
sviluppo del Super-Io, prima di interiorizzare i genitori come oggetti interi e distinti. Questa
ipotesi le permette di suggerire che certe difese siano suscitate da impulsi associati a
rappresentazioni di sé interiorizzate (per esempio, fantasie di parti del Sè, prodotti corporei,
ecc.) e poi proiettate negli oggetti. In questo modo, le difese come la scissione,
l’identificazione proiettiva, l’idealizzazione e l’onnipotenza implicano percezioni distorte del Sè o
del mondo esterno, legate a stati pulsioni interni.

Kernberg = secondo Kernberg i meccanismi di difesa possono essere definiti come fenomeni
intrapsichici, volti a governare tutti quei conflitti interiori che coinvolgono al loro interno
diverse componenti del soggetto, tra cui, in particolare, il concetto di SE’ e le relazioni
oggettuali interiorizzate. le teorizzazioni di Kernberg derivano principalmente dalle sue
esperienze in ambito clinico e , per questo , i suoi studi sulle difese rimangono fortemente
collegati alla psicopatologia. Kernberg basa tutti i suoi approfondimenti sui meccanismi di
difesa su una concezione delle difese come disposto lungo un ipotetico continuum gerarchico
ed evolutivo, di gravità: i pazienti più gravi sono pertanto quelli che persistono nell’uso di
meccanismi patologici che risultavano tipici e fisiologici nel corso di fasi molto precoci dello
sviluppo psichico.
• Meccanismi di difesa primitivi => Organizzazione borderline e psicotica
• Meccanismi di difesa di alto livello (nevrotiche) => Organizzazione nevrotica
• Meccanismi di difesa maturi => Organizzazione sana
Esempi:
- Difese primitive = Scissione, Identificazione Proiettiva, Proiezione, Diniego, Dissociazione,
Acting Out
- Difese di alto livello (nevrotiche): Rimozione, Intellettualizzazione, Isolamento, Formazione
Reattiva
- Difese Mature: Repressione, Umorismo, Sublimazione.

George Vaillant = secondo Vaillant i meccanismi di difesa sono dei processi che entrano in
azione nel soggetto in relazione ad un conflitto psichico che può manifestarsi in seguito a
turbamenti provenienti da diverse realtà: i bisogni istintualità (Es), il mondo esterno, la
coscienza morale e l’eredità culturale (Super-Io) e, in ultimo, le relazioni con altri significativi.
Uno sconvolgimento in questi campi può destabilizzate l’equilibrio psichico ed emotivo
dell’individuo; i meccanismi di difesa sono appunto uno strumento attraverso cui cercare il
contenimento del dolore psichico derivante da queste perturbazioni, la riduzione dell’ansia
affinché sia tollerabile e un recupero dell’equilibrio perduto attraverso differenti modalità
(quali, ad esempio, il differimento nel tempo e la riduzione delle pulsioni istintuali).
- LIVELLO 1. DIFESE NARCISISTICHE-PSICOTICHE: proiezione delirante, diniego psicotico,
distorsione della realtà esterna.
- LIVELLO 2. DIFESE IMMATURE: proiezione, fantasia schizoide, ipocondriasi, comportamento
passivo-aggressivo, acting out, dissociazione.
- LIVELLO 3. DIFESE NEVROTICHE: isolamento/intellettualizzazione, rimozione, spostamento,
formazione reattiva.
- LIVELLO 4. DIFESE MATURE: altruismo, umorismo, repressione, anticipazione, sublimazione.

Cristopher J. Perry = Perry esamina le difese dal punto di vista della teoria del conflitto
psichico, definendole come un meccanismo che media tra i desideri, le necessità, gli affetti e
gli impulsi del soggetto da un lato, e le proibizioni interiorizzate e la realtà esterna dall’altro
(Perry & Cooper, 1986). Elabora la Defense Mechanism Rating Scale (DMRS). Sulla base della
classificazione della DMRS e della ricca letteratura che essa stessa ha stimolato, Perry giunge
alla costruzione di una scala di valutazione del funzionamento difensivo (la Defensive
Functioning Scale, DFR, Perry, 1993), da inserire come ulteriore asse psicodinamico all’interno
del DSM IV (APA, 1994), sottolineando l’importanza della valutazione dei meccanismi di difesa
dell’individuo per una comprensione più ampia del disagio mentale.

Phoebe Cramer = “Con il termine meccanismo di difesa ci riferiamo a un’operazione mentale


che avviene per lo più in modo inconsapevole, la cui funzione è di proteggere l’individuo dal
provare eccessiva ansia. Secondo la teoria psicoanalitica classica, tale ansia si manifesterebbe
nel caso in cui l’individuo diventasse conscio di pensieri, impulsi o desideri inaccettabili. In una
moderna concezione delle difese, una funzione ulteriore è la protezione del Sè - dell’autostima
- e, in casi estremi, dell’integrazione del Sè.” (1998).
Anche la Cramer (1987;1991) propone una sua classificazione gerarchica dei meccanismi di
difesa, affermando l’esistenza di difese maggiormente primitive o immature che si manifestano
più precocemente nel corso dello sviluppo del soggetto (come diniego, proiezione, repressione,
negazione) e di difese più complesse o mature che emergono successivamente (come
intellettualizzazione ed identificazione).

Mentre nella psicoanalisi classica le difese sono configurazioni psicologiche inconsce che
riducono il conflitto (e, di conseguenza, l’angoscia), mantengono un equilibrio intrapsichico,
regolano l’autostima e modulano l’angoscia nel modello psicodinamico relazionale e le difese
sono considerate meccanismi di protezione per preservare il Sé autentico.
Nell’ambito della psicologia sociale e sperimentale le difese vengono invece identificate con le
strategie di coping, con la capacità di affrontare i problemi. Sono i meccanismi consci e e volti
soprattutto alla risoluzione di minacce esterne. Il cognitivismo tende a definirli Processi di
Regolazione Involontaria.

Gli strumenti più utilizzati per la valutazione dei Meccanismi di Difesa:


1. Defense Mechanism Rating Scale (DMRS) (Perry, 1990) => Scala di misura che si basa sul
modello gerarchico di Vaillant. 28 meccanismi di difesa (da quelli più primitivi a quelli più
maturi), ordinati gerarchicamente in 7 cluster difensivi: Acting out, Borderline, Diniego,
Narcisisticje, Nevrotiche, Ossessive, Mature.
2. Il Defense Mechanism Inventory (DMI) => test ideato da Gleser e Ihilevich nel 1969 che
indaga e quantifica cinque stili difensivi del soggetto. Comprende 10 brevi storie, due per
ogni area d’indagine, rispettivamente: l’autorità, l’indipendenza, la mascolinità o la
femminilità, la competizione e, infine, l’area dei conflitti che sorgono in situazioni di vita
quotidiana. Ogni storia prevede 20 possibili risposte divise in quattro gruppi. Il primo
gruppo comprende item che indagano il comportamento nella realtà, il secondo il
comportamento impulsivo, il terzo i pensieri e il quarto gli affetti. I cinque gruppi di difesa
indagati sono: aggressività (compresi l’identificazione con l’aggressore e lo spostamento);
la proiezione; la principalizzazione (isolamento, razionalizzazione, intellettualizzazione); il
rivolgimento contro se stessi; il rovesciamento (compresi la repressione, il diniego, la
negazione e la formazione reattiva).
3. Il Defence Style Questionnaire (DSQ) (Bond et al., 1983, 1993) => è una misura self-
report, composta da 88 item ai quali si risponde attraverso una scala Likert a 9 punti. Il
DSQ valuta i meccanismi di difesa attraverso l’auto-consapevolezza dei derivati consci delle
difese (comportamenti, attitudini e credenze) relative a 25 meccanismi di difesa.
4. La Response Evaluation Measure (REM-71) (Steiner, Araujo & Koopman, 2001) =>
composto da 71 item valuta 21 difese descritte come reazioni inconsce (e non pianificate)
che formano un’interfaccia tra tratti temperamenti innati e strategie di coping apprese.

Meccanismi di difesa e DMRS


La DMRS è stata sviluppata da J.C. Perry, il quale ha individuato 28 meccanismi di difesa
suddivisi secondo il loro carattere adattivo in una classificazione gerarchica comprendente 7
livelli. Ogni livello è numerato in base al peso attribuito ai meccanismi di difesa che contiene:
7. Difese Mature: affiliazione, altruismo, anticipazione, umorismo, autoaffermazione,
autosservazione, sublimazione, repressione.
6. Difese Ossessive: isolamento degli affetti, intellettualizzazione, annullamento retroattivo.
5. Difese nevrotiche: rimozione, dissociazione, formazione reattiva, spostamento.
4. Difese Narcisistiche: onnipotenza, idealizzazione, svalutazione.
3. Difese di Diniego: diniego nevrotico (Diniego/Negazione), proiezione, razionalizzazione.
Altre: fantasia autistica (o schizoide).
2. Difese Borderline: scissione della rappresentazione di Sé e dell’oggetto, identificazione
proiettiva.
1. Difese di Acting: acting out, aggressione passiva, ipocondriasi.

DIFESE DI ACTING.
• Acting out = il soggetto reagisce senza riflettere o senza tener conto delle conseguenze
negative personali o sociali (spesso comportamenti antisociali o autodistruttivi); questo
acting out presenta relazioni con affetti o impulsi che il soggetto non può tollerare. Questo
permette al soggetto di scaricare o esprimere gli impulsi che non sono controllabili e che
riflettono gli eventi dolorosi.
• Aggressività passiva = il soggetto esprime in maniera indiretta e dissimulata aggressività
verso gli altri, presentando, sotto una facciata di cooperazione e benevolenza, una resistenza
nascosta verso gli altri; sentimenti di ostilità e risentimento indiretti e dissimulati; incluso il
rivolgere l’aggressività contro di sé.
• Ipocondriasi = comporta l’uso ripetuto di lamentele attraverso le quali il soggetto
ostentatamente chiede aiuto, esprimendo contemporaneamente sentimenti nascosti di
aggressività o di risentimento nei confronti degli altri, sotto forma di rifiuto di qualsiasi
proposta di assistenza.

DIFESE BORDERLINE
• Scissione = il soggetto descrive se stesso o gli altri come solo buoni o solo cattivi, senza
riuscire a integrare in un’immagine coesa gli aspetti positivi e negativi di sé e degli altri
(descrizioni contraddittorie), come se il mondo fosse diviso in due campi distinti, il bene e il
male, il che gli consente di ridurre l’angoscia legata al processo utilizzato per discernere e
comprendere gli atteggiamenti e le reazioni degli altri.
• Identificazione proiettiva = la rappresentazione dell’affetto o della pulsione è proiettata su
qualcun altro, come se fosse realmente l’altro l’origine dell’affetto o della pulsione. A
differenza della proiezione, il soggetto non nega il contenuto della proiezione e rimane
cosciente dell’affetto che attribuisce all’altro; tuttavia non è cosciente di essere all’origine del
materiale proiettato.

DIFESE DI DINIEGO
• Negazione = il soggetto rifiuta di riconoscere alcuni aspetti della realtà esterna o della sua
realtà psichica (affetti e rappresentazioni) che sono evidenti agli altri.
• Proiezione = il soggetto attribuisce agli altri, senza esserne consapevole, i propri sentimenti,
impulsi o i suoi pensieri, il che gli permette di evitare di confrontarsi direttamente con
emozioni e variabili che lo renderebbero troppo vulnerabile se ammettesse la loro presenza
in se stesso.
• Razionalizzazione = il soggetto elabora le spiegazioni rassicuranti e utili per giustificare i
propri comportamenti o quelli degli altri, i veri motivi non sono percepiti dal soggetto per
evitare di prendere coscienza delle motivazioni autentiche di questi comportamenti.

ALTRE
• Fantasia autistica (o schizoide) = il soggetto si rifugia eccessivamente in sogni a occhi aperti
come sostituti di rapporti umani e sociali, al fine di proteggersi dai conflitti o permettere la
soddisfazione di impulsi e desideri, ottenendo così soddisfazioni temporanee e sostitutive
senza confrontarsi con il principio di realtà.

DIFESE NARCISISTICHE
• Onnipotenza = il soggetto sviluppo, attraverso l’auto-attribuzione di capacità o di poteri
straordinari, un’immagine di sé onnipotente e superiore a quella degli altri, che lo protegge
da una diminuzione di autostima; l’autostima è artificiosamente ingigantita, deformando la
valutazione dei conflitti che si accompagnano a sentimenti opposti.
• Idealizzazione = il soggetto attribuisce qualità esagerate a se stesso o ad altri, cosa che gli
procura una fonte di soddisfazione e una protezione contro i sentimenti di impotenza, nel
senso che ciò che gli permette di mantenere un’immagine perfetta e irreprensibile
dell’oggetto idealizzato.
• Svalutazione = il soggetto attribuisce “qualità” eccessivamente negative a se stesso o ad
altri, vale a dire affermazioni denigratorie, sarcastiche su se stessi o sugli altri in modo da
aumentare l’autostima.

DIFESE NEVROTICHE
• Rimozione = il soggetto è incapace di ricordare o essere cognitivamente consapevole dei
conflitti (desideri, sentimenti, pensieri o esperienze), il che lo protegge da ciò che prova o ha
provato; le componenti emozionali sono presenti, mentre le componenti cognitive rimangono
fuori dalla coscienza.
• Dissociazione = il soggetto altera la funzione integrativa della coscienza o dell’identità e un
affetto o una pulsione determinata agisce nella sua vita psichica senza che ne sia cosciente,
cosa che gli può provocare la perdita di una funzione o un comportamento insolito. Es.
confusione, sensazione di vertigine, presenza di sintomi fisici senza riconoscimento di ciò che
potrebbe essere un legame con i sintomi.
• Formazione reattiva = ad affetti o pensieri inaccettabili, il soggetto attribuisce un senso
diametralmente opposto, che gli permette di evitare i sensi di colpa.
• Spostamento = il soggetto sposta una rappresentazione o un affetto legato ad un oggetto su
un altro oggetto, meno angosciante e meno conflittuale; il conflitto è così spostato su cose
secondarie.

DIFESE OSSESSIVE
• Isolamento = il soggetto è incapace di essere simultaneamente cosciente delle componenti
affettive e cognitive esperite perché l’affetto rimane distanziato dalla coscienza. Il soggetto
non è cosciente del contenuto emozionale associato a un’idea, pur rimanendo comunque
cosciente dei contenuti cognitivi.
• Intellettualizzazione = il soggetto esprime le sue emozioni e i suoi sentimenti in forma di
astrazioni o di generalizzazioni al fine di prendere le distanze a fronte dell’affetto o pulsione.
• Annullamento retroattivo = il soggetto ha pensieri o comportamenti che hanno un significato
opposto a pensieri, affetti o comportamenti passati o presenti, attraverso i quali il soggetto
tenta di annullare i conflitti collegati ai componenti originali; questo meccanismo corrisponde
a un processo di riparazione di aspetto “magico”. Comportamenti o commenti sono così
immediatamente seguiti da propositi o attitudini che hanno un senso opposto (atti di
riparazione).

DIFESE MATURE
• Affiliazione = il soggetto si rivolge agli altri per avere aiuto o sostegno, per confidarsi al fine
di sentirsi meno solo. Aumenta così la sua capacità di far fronte ai suoi problemi ricevendo il
sostegno e la comprensione degli altri, siano un consiglio o un aiuto pratico.
• Altruismo = il soggetto si dedica agli altri, realizzando in parte i propri bisogni, ricevendo in
questo modo delle gratificazioni parziali o indirette da parte degli altri.
• Anticipazione = il soggetto anticipa dal punto di vista psichico le emozioni associate a
problemi probabili o futuri, considerando soluzioni alternative e anticipando le reazioni
emotive, in modo da permettere la preparazione di una migliore risposta adattiva, così da
attenuare gli effetti dei futuri conflitti e dello stress.
• Umorismo = il soggetto insiste sugli aspetti comici o ironici del conflitto e dello stress.
L’umorismo tende così ad alleviare le tensioni permettendo agli altri di condividerle e
permette di esprimere simbolicamente gli affetti o i desideri di intralcio.
• Autoaffermazione = il soggetto esprime le proprie emozioni e pensieri per raggiungere i suoi
obiettivi di ridurre l’ansia o il dolore psichico associato a elementi conflittuali.
• Introspezione/Autosservazione = il soggetto riflette sui propri pensieri, affetti, motivazioni e
comportamenti, ciò che gli permette di comprendersi meglio e di meglio adattarsi alle
esigenze della realtà esterna.
• Sublimazione = il soggetto dirige le sue emozioni e pulsioni, giudicate inaccettabili o
discutibili verso nuovi oggetti socialmente apprezzati (ad esempio lo sport o i giochi che
canalizzano le pulsioni aggressive, le creazioni artistiche che canalizzano i conflitti pulsionali),
il che porta al soggetto un riconoscimento o gratificazione a livello sociale.
• Repressione = il soggetto mette momentaneamente da parte i problemi, desideri o affetti
che lo disturbano per affrontarli o risolverli al momento opportuno, facendoli poi ritornare
alla coscienza.
Breve Storia del Comportamentismo
Gli autori:
J.B. Watson è il padre del comportamentismo. Altri autorevoli esponenti di questo modello
sono:
- Ivan Pavlov
- Edward Thorndike
- Max Meyer
- Walter Samuel Hunter
- Zing-Yang Kuo
- Karl Lashley
- Edward Chace Tolman
- George HerbertMead
- Henry Piéron
- Clark. L. Hull
- Edwin Ray Guthrie
- Burrhus Frederic Skinner
- Kenneth Wartinbee Spence
- Jacob Robert Kantor
- Albert Paul Weiss
- Albert Bandura
………

1920 Esperimento del piccolo Albert


1. Dimostrare che un’emozione come la paura è il risultato di un processo di condizionamento
ambientale.
2. Studiare l’evoluzione del condizionamento attraverso l’osservazione sistematica.
Il protagonista dell’esperimento fu un bambino idrocefalo di 9 mesi, che venne ribattezzato da
Watson Albert B.
Il bambino venne posto davanti ad un topolino bianco, verso il quale mostrò un certo interesse
e curiosità. In un secondo momento, Watson produsse un forte rumore con un tubo metallico
nel momento stesso in cui il topolino veniva avvicinato ad Albert, provocandogli un forte
spavento e un pianto a dirotto. L’associazione topo-spavento venne ripetuta più volte, tanto
che Albert cominciò a piangere alla semplice vista del roditore. Dopo il condizionamento, il
piccolo Albert si mostrava spaventato non solo dal topo, ma anche da altri animali dal pelo
bianco, e da oggetti simili, bianchi e lanosi, come una pelliccia della signora Rayner e la barba
di un costume di Babbo Natale (generalizzazione dello stimolo). Watson riuscì per la prima
volta a dimostrare che un’emozione poteva essere indotta tramite condizionamento in un
essere umano.
Watson => compito della psicologia è di individuare le leggi per cui dato uno stimolo si verifica
una risposta e viceversa.

Burrhus Frederic Skinner (1904-1990) => ha inventato la Camera di Condizionamento


Operante (Skinner Box); la risposta seguita da rinforzo tenderà a presentarsi con sempre
maggiore frequenza => Comportamentismo Radicale.
Nel 1957 Skinner pubblicò Verbal Behavior, che descriveva un’analisi funzionale del
comportamento verbale. Quello che fece il testo di Skinner era di estendere il condizionamento
operante al comportamento verbale per rendere conto pienamente alla sfera del
comportamento umano. Egli inventò il Comulative Recorder come strumento per misurare la
frequenza dei comportamenti durante la sua ricerca, ritenuta fondamentale in psicologia
sperimentale e applicata.
Il neocomportamentismo => Edward Chace Tolman (1886-1959) => apprendimento senza la
necessità di alcun rinforzo. Tolman ritiene che si crei una mappa cognitiva, ossia una
rappresentazione mentale della meta e dello spazio che conduce ad essa: grazie a tale mappa,
secondo il principio del minimo sforzo, la meta viene raggiunta per mezzo del percorso più
semplice e meno dispendioso. Secondo tale prospettiva, muta il ruolo del rinforzo ai fini
dell’apprendimento.

Breve Storia del Cognitivismo


Albert Ellis (Pittsburgh, 1913 - New York, 2007):
- Rational Therapy (RT)
- Rational-Emotive Therapy (RET)
- Rational-Emotive Behavior Therapy (REBT)
Ellis era uno psicoanalista, le origini della sua teoria sono da ricercare più nella psicoanalisi che
nel comportamentismo. Ha sviluppato una sua pratica clinica più direttiva di quella
psicoanalitica; ha dato importanza agli stati coscienti direttamente osservabili, alle credenze
irrazionali; considera la mente come un elaboratore d’informazioni; considera il ruolo del
linguaggio e del dialogo con sé e con gli altri e la genesi e mantenimento dei disturbi psichici.
Nel 1953 Ellis si definì terapeuta razionale. Nel 1967 venne coniato il termine Cognitivismo da
Ulrich Neisser => la metafora dell’uomo come elaboratore d’informazioni => descrizione di
diverse attività mentali come la percezione, la memoria, l’immaginazione, il problem solving,
tutti processi di costruzione legati alle informazioni sensoriali.

Aaron Temkin Beck (Rhode Island 1921) => professore emerito di Psichiatria nell’Università
della Pennsylvania, di formazione psicoanalitica, già dal 1964 preferiva definirsi come
terapeuta cognitivo piuttosto che razionale o razionalista. Beck applicò le sue teorizzazioni e
tecniche terapeutiche prima con i disturbi depressivi e poi con quelli d’ansia. La tecnica fu
descritta, replicata e dimostrata secondo i canoni usati negli ambiti della medicina, e fu una
delle prime volte che ciò avveniva per una psicoterapia. Beck aveva creato un nuovo modello
teorico e clinico. L’utilizzo di alcune tecniche di tipo comportamentismo fece sì che la terapia
assumesse il nome di Cognitive Behavioral Therapy (CBT, Terapia Cognitivo Comportamentale
o TCC). Questo successo portò la psicoterapia cognitiva a espandersi negli anni ’70 e negli anni
’80. La teoria cognitiva si coniuga bene con le neuroscienze; sono state poste le basi fin da
quegli anni di una reciproca e proficua collaborazione per la spiegazione e comprensione di
molti processi mentali.
Alcuni terapeuti continuarono ad applicare le tecniche di Beck e a seguire la sua scuola. Questa
terapia è definita Terapia Cognitiva Standard, per distinguerla dalle altre terapie cognitive. E’ la
terapia cognitiva più conosciuta, diffusa e applicata.

La seconda onda => Terapia Cognitiva Post-Razionalista, o Secondo Cognitivismo, o Neo-


Cognitivismo o Costruttivismo. I nuovi cognitivisti iniziarono a definire quelli di Ellis e Beck
approcci razionalisti, definizione che entrambi gli autori respinsero. La crisi del cognitivismo è
stata prodotta da critiche esterne ed interne:
• Necessità di ampliare alcune impostazioni teoriche e di correggere certi trattamenti
terapeutici;
• Creare nuove procedure e tecniche nei casi in cui quelle standard non fossero adatte;
• Verificabilità attraverso studi controllati;
• Riscoperta delle pratiche comportamentali alla luce delle teorizzazioni della terapia cognitiva
e delle neuroscienze;
• Sviluppo di tecniche di stimolazione dei processi emotivi ed affettivi;
• Critiche alla Terapia Cognitiva Standard di occuparsi solo del presente del paziente, non
considerando abbastanza gli aspetti legati al suo passato.
Il filone della terapia cognitiva sviluppatosi dal pensiero di John Bowlby e dalla Teoria
dell’Attaccamento ha fornito un’ampia base teorica e concettuale allo sviluppo della persona e
dei disturbi psichici.
Liotti ha sviluppato una terapia basata sui concetti di disposizione innata, evoluzionismo e
sistemi motivazionali.
Uomo come elaboratore d’informazioni => Neisser, nel 1976, critica la precedente metafora da
lui stesso proposta come rigida e non corrispondente alla realtà. Jerome Bruner sottolinea
come si sia data troppa importanza al concetto di informazione a discapito di quello di
significato. Dalle considerazioni di Bruner si sviluppa un approccio che ha un punto di partenza
del tutto diverso: il Costruttivismo.
George Kelly (1905-1967) => fu il primo a usare il termine, con il suo testo “La psicologia dei
Costrutti Personali”, quasi contemporaneamente alle formulazioni di Ellis. Alcuni concetti di
base del cognitivismo vengono modificati dalla teoria costruttivista: non più esistere una
conoscenza oggettiva, un ordine indipendente dall’osservatore, è l’attività mentale di ognuno a
costruire la realtà.

Vittorio Guidano (1944-1999) => preferiva definirsi post-razionalista. Conoscenza tacita,


teoria motoria della mente, carenza del sistema-persona, organizzazione di significati
personali, nozione di complessità del Sé, sono alcuni dei suoi concetti fondamentali.

LA TERZA ONDA => la terza onda non sembra scaturita da una crisi vera e propria, ma si
affianca con quello che già esiste portando i suoi elementi di novità.

Kabat-Zinn (1944 New York) => il concetto di Mindfulness deriva dagli insegnamenti del
Buddhismo dello Zen e delle pratiche di meditazione yoga. Riscoperta dell’importanza del
corpo, superamento del dualismo mente-corpo. Posizione osservativa anziché logica
razionalista, nessun tentativo di modificare, ma accettazione, la compassione per sé (self-
compassion) al posto del dialogo socratico.

La DBT utilizza concetti comportamentalisti e alcuni elementi di Mindfulness.


Metacognizione => significa letteralmente oltre la cognizione; inidica la capacità di pensare sul
pensiero, di poter riflettere sulle proprie capacità cognitive.
Adrian Wells (1962) => la teoria metacognitiva dei disturbi psicologici si fonda sul principio che
la maggior parte dei disturbi psicologici è causata da uno schema di pensiero ampliato
(extended thinking). Questo schema è chiamato Sindrome Cognitivo-Attentiva (Cognitive
Attentive Sindrome — CAS). Si compone di catene di pensieri verbalizzati nella forma di
preoccupazione (worry) e ruminazione, uno schema che concentra l’attenzione su minacce e
strategie di coping determinando effetti paradossali.
La Sindrome Conitivo-Attentiva è spinta da credenze di fondo riguardo al pensiero che ricadono
dentro due categorie di credenze: positive (es. Mi devo preoccupare allo scopo di farcela) e
credenze negative (es. certi pensieri sono pericolosi). La terapia metacognitiva si concentra sul
rimuovere la CAS in risposta ai pensieri ed esperienze negative, stimolando la consapevolezza
di questo processo e promuovendo un controllo selettivo dello stesso. In questo modo si
mettono in discussione le credenze metacognitive. Alla fine del trattamento i pazienti sono più
flessibili nelle loro risposte ai pensieri negativi e meno dipendenti dagli schemi mentali
consolidati; controllo cognitivo come strategia di coping delle esperienze emozionali.

TERZA ONDA => credenze cognitive standard, schemi complessi, terapeuta emotivamente
coinvolto. E’ il modello elaborato da Jeffrey Young: Schema Therapy. Accettazione, impegno e
mindfulness vengono utilizzate nella Acceptance and Commitment Therapy di Steven Hayes.

CBT (Terapia cognitivo - comportamentale)

Modello Cognitivo => sviluppato prima da Ellis e poi da Aaron Beck nei prima anni ’60, si è
molto evoluto e differenziato; il pensiero è “il problema psicologico fondamentale”, ma anche
“il suo rimedio psicologico”. Efficace e rido per aiutare le persone a risolvere difficoltà di
adattamento o crisi evolutive (difficoltà nelle relazioni sociali o nel lavoro, ansia da esame,
reazioni disadattate al lutto, difficoltà nella coppia o nella gestione dei figli, ecc..). Tale modello
postula una complessa relazione tra emozioni, pensieri e comportamenti, sottolineando come
molti dei nostri problemi (tra i quali quelli emotivi) siano influenzati da ciò che facciamo e ciò
che pensiamo nel presente, qui ed ora. L’essenza del pensiero cognitivista può essere riassunto
da questa frase di Epiteto: “Le persone sono disturbate non dalle cose, ma dell’interpretazione
che essi ne danno”.
Non è la situazione di per sé a determinare ciò che le persone sentono, ma il modo in cui
interpretano tale situazione. Sono i pensieri della persona, la sua percezione degli eventi, che
influenzano le emozioni e il comportamento.
L’ipotesi è che, comune a tutti i disturbi psicologici, via sia il pensiero distorto o disfunzionale
(che influenza l’umore e il comportamento del paziente). Il modello alla base dell’approccio
cognitivo-comportamentale si oppone ad una visione deterministica delle emozioni e dei
comportamenti umani: le situazioni che ognuno di noi vive non determinano direttamente le
nostre reazioni (emotive e/o comportamentali). Esiste, invece, un terzo elemento che agisce
fortemente sulle nostre reazioni e cioè il pensiero. Spesso le interpretazioni che diamo agli
eventi non sono solo quelle che diamo a livello razionale. Prima ancora di dare un “giudizio”
positivo o negativo di un evento, nella nostra mente scattano dei pensieri cosiddetti
“automatici” che sfuggono alla nostra coscienza poiché non sappiamo riconoscerli. Sono loro la
vera causa delle emozioni negative e dei comportamenti disfunzionali che proviamo e/o
agiamo in risposta ad alcuni eventi. Una valutazione realistica (che non significa “pensiero
positivo” in senso letterale) e la modificazione del modo di pensare producono ad esempio un
miglioramento dell’umore e del comportamento. Miglioramenti duraturi si ottengono con
modificazione a livello più profondo delle credenze disfunzionali sottostanti del paziente.
Agendo attivamente ed energicamente sui nostri pensieri e sui nostri comportamenti attuali,
possiamo liberarci da molti dei problemi che ci affliggono da tempo.
Perché interpretiamo gli eventi? Per cercare di dare un senso a ciò che ci circonda e
organizzare l’esperienza per non essere sopraffatti dalla grande quantità di stimoli a cui siamo
sottoposti ogni giorno. Con il passare del tempo le varie interpretazioni portano ad alcuni
convincimenti e apprendimenti, che possono essere più o meno aderenti alla realtà e più o
meno funzionali al benessere della persona.
Abbiamo tre livelli di cognizioni:
1. Convinzioni profonde, centrali o core beliefs o schemi cognitivi;
2. Convinzioni intermedie;
3. Pensieri automatici.

• Convinzioni profonde, centrali, di base (o core beliefs o schemi cognitivi) => sin dall’infanzia
le persone sviluppano alcune convinzioni su se stessi, sugli altri e sul mondo. Sono
comprensioni così profonde che spesso le persone non le esplicitano neppure a se stesse.
Sono considerate verità assolute. Quando la credenza di base è attivata, la persona
interpreta le situazioni attraversi le lenti di questa credenza, nonostante l’interpretazione sia,
su basi razionali, palesemente falsa. Così la credenza si mantiene. Sono delle strutture
interpretative di base con cui la persona rappresenta se stessa e gli altri e organizza il suo
pensiero. In altre parole, uno schema è una tendenza stabile ad attribuire un certo
significato agli eventi. Sono globali, rigidi e ipergeneralizzati. Possono riguardare noi stessi
(schema di sé), gli altri (schema dell’altro) e la relazione di sé con l’altro (schema
interpersonale)
- convinzioni di inadeguatezza/impotenza (sono inadeguato, incompetente, fuori controllo, un
fallimento, debole, difettoso, ho bisogno degli altri).
- convinzioni di non amabilità (non sono amabile, senza valore, diverso, indesiderabile, non
voluto, non attraente, cattivo, rifiutato).
Ad esempio, una persona che ha uno schema di sé del tipo “Non sono amabile” penserà che
nessuno mai potrà amarlo e può interpretare la fine di una relazione non come un evento che
può capitare a tutti e che di solito è influenzato da più fattori, ma come la prova che nessuno
lo può amare. I contenuti degli schemi cognitivi vengono considerati come delle verità
assolute.

• Convinzioni intermedie => le core beliefs influenzano lo sviluppo di convinzioni intermedie,


spesso inattivate, che consistono di opinioni, regole, assunzioni.
- Opinioni: “E’ terribile essere incompetente”
- Regole/aspettative: “Devo sempre lavorare il più sodo possibile”
- Assunzione: “Se lavoro il più sodo possibile, posso essere in grado di fare quelle cose che gli
altri riescono a fare facilmente.
Sono delle idee o interpretazioni su se stessi, sugli altri e sul mondo che ci permettono di
organizzare l’esperienza, prendere decisioni in tempi brevi e orientarci nelle relazioni con le
altre persone. Sono più malleabili rispetto alle convinzioni di base.

• Pensieri automatici => Sono le cognizioni più vicine alla consapevolezza conscia e sono delle
parole, piccole frasi o immagini che attraversano la mente della persona ad un livello più
superficiale (es. “Sarò sempre un fallito!”). Ne siamo appena consapevoli. Lo siamo di più
delle emozioni che ne conseguono. In genere i pensieri automatici si accettano acriticamente
come veri. E’ possibile imparare a identificarli prestando attenzione ai propri cambiamenti
dell’umore: “Che cosa mi stava passando per la mente in quel momento?”. Sono facilmente
modificabili e sono direttamente responsabili delle emozioni provate dalla persona. Sono
pensieri brevi, velocissimi, quasi telegrafici (“sarà un disastro”). Sono angoscianti perché
producono emozioni negative; sono distorti perché forniscono interpretazioni erronee e poco
realistiche degli eventi. Non sono peculiari delle persone con una sofferenza psicologica:
sono comuni a tutti.

[Vedere slide per esempi]

Distorsioni cognitive => sono identificabili nei pensieri automatici.


- Pensiero dicotomico (o tutto o nulla): una situazione o è un successo oppure è un
fallimento, non esistono gradi intermedi, se una situazione non è perfetta è un completo
fallimento. Le cose sono viste in termini di categorie mutualmente escludentesi senza gradi
intermedi.
- Ipergenerazizzazione: il fare, come si dice, “di tutta l’erba un fascio”, un evento negativo
non è semplicemente qualcosa che in quella circostanza è andato male, ma è l prova che la
vita è fatta solo di eventi negativi. Anche definita come globalizzazione: uno specifico evento
è visto come caratteristica di vita in generale o globale piuttosto che un evento tra tanti.
- Astrazione selettiva (o filtro mentale): il puntare l’attenzione su di un solo aspetto
(negativo) di una situazione ignorando tutto il resto (positivo).
- Squalificare il lato positivo: le esperienze positive che sono in contrasto con la visione
negativa sono trascurate sostenendo che non contano; vengono minimizzate, attribuite al
caso o all’educazione, alla gentilezza degli altri. Ad esempio, non credere ai commenti
positivi degli amici e colleghi dubitando che dicano ciò solo per gentilezza.
- Lettura del pensiero: un soggetto può sostenere che altri individui stiano formulando giudizi
negativi, ma senza alcuna prova evidente di ciò che afferma. Ad esempio, affermare di
sapere che l’altro ci giudica male anche contro la rassicurazione di quest’ultimo.
- Il riferimento al destino: l’individuo reagisce come se le proprie aspettative negative sugli
eventi futuri siano fatti già stabiliti. Ad esempio, il pensare che qualcuno lo abbandonerà, e
che lo sa già, e agisce come se ciò fosse vero. insieme al precedente formano il “salto alle
conclusioni”, cioè il caso esemplare di inferenza arbitraria.
- La catastrofizzazione: il giudicare gli eventi negativi come intollerabili catastrofi, una brutta
figura viene vissuta come una cosa terribile, un’umiliazione intollerabile. Ad esempio, il
disperarsi dopo una brutta figura come se fosse una catastrofe terribile e non una situazione
semplicemente imbarazzante e spiacevole (“è terribile se…).
- Il ragionamento emotivo: il considerare le reazioni emotive come prova di qualcosa (“Mi
sento spaventato, questo vuol dire che la situazione è veramente pericolosa”). Ad esempio,
concludere che siccome ci si sente sfiduciati, la situazione è senza speranza (“se mi sento
così allora è vero).
- La doverizzazione: il giudicare se stessi e gli altri sulla base di ciò che uno “dovrebbe”
comportarsi o sentire (“Se è un amico, deve stimarmi, perché bisogna stimare gli amici).
L’uso di “dovrei”, “devo”, “bisogna”, si “deve”, segnala la presenza di un atteggiamento
rigido e tendente alla confusione tra “pretendere” e “desiderare”, e ciò è in diretta
connessione con regole personali.
- L’etichettamento: il definire le cose, qualcuno con un’etichetta globale invece che facendo
riferimento a cose specifiche, come ritenersi un “fallimento” piuttosto che ammettere di
essere incapaci di fare una cosa specifica.
- La personalizzazione: il ritenere se stessi responsabili di qualcosa di cui, in realtà, sono
soprattutto responsabili altre persone o altri fattori. Ad esempio, considerare che una
momentanea assenza di amicizie è il riflesso della propria inadeguatezza piuttosto che un
caso (“è colpa mia se…).

Le distorsioni cognitive: sintesi


1. TUTTO O NIENTE (spesso correlato ai giudizi 5. RAGIONAMENTO EMOTIVO (spesso associato
assoluti) a insopportabilità e bisogni assoluti)

2. GENERALIZZAZIONE (spesso correlata a doveri 6. DOVREI (spesso correlato ai doveri assoluti)


e giudizi assoluti)

3. FILTRO MENTALE o squalifica del positivo 7. ETICHETTARE (spesso correlato ai giudizi


(spesso correlato alle catastrofi) assoluti

4. CONCLUSIONE AFFRETTATA (spesso correlata 8. PERSONALIZZAZIONE (spesso correlata a


a giudizi o bisogni assoluti) insopportabilità o bisogni assoluti)

Come abbiamo visto, il modello cognitivo ipotizza che, attraverso le esperienze che facciamo a
partire dall’infanzia e via via nel corso della vita, ci formiamo delle convinzioni soggettive
(cognizioni) che condizionano il nostro modo di “percepire”, “capire” gli avvenimenti, di
“interpretarli”, e che condizionano di conseguenza le nostri azioni ed il nostro comportamento.
in alcuni casi, il pensiero distorto disfunzionale può portare allo sviluppo di circoli viziosi che
mantengono la sofferenza nel tempo. Ad esempio, una persona con depressione può pensare
du sé: “Sono un fallito!” (pensiero) e provare uno stato di tristezza (emozione); a sua volta, la
tristezza porta all’apatia e alla passività nel comportamento, che possono essere interpretate
dal soggetto come un ulteriore prova del proprio fallimento personale. In altre parole, la
persona potrebbe pensare di sé “Sto qui senza fare niente, sono proprio un fallito!” (pensiero);
tale interpretazione può generare altra tristezza (emozione) e così via. Possiamo dunque
considerare i disturbi emotivi come il prodotto di circoli viziosi che mantengono i sintomi nel
tempo. E’ possibile supporre che, senza tali meccanismi di mantenimento, la persona
troverebbe da sola la soluzione dei suoi problemi psicologici utilizzando la capacità di
risoluzione dei problemi (problem-solving) insita nell’essere umano. E’ necessario, pertanto,
intervenire sui pensieri automatici negativi, sulle convinzioni intermedie e sugli schemi
cognitivi disfunzionali al fine di regolare le emozioni dolorose, interrompere i circoli viziosi che
mantengono la sofferenza nel tempo e creare le condizioni per la soluzione del problema. Gli
studi sul trattamento dei disturbi emotivi indicano che se si ottiene una modificazione profonda
delle convinzioni si hanno meno probabilità di ricaduta in futuro. Identificare le emozioni
negative e i pensieri angoscianti e valutare quanto essi siano realistici mettendo in luce le
interpretazioni errate e proponendone delle alternative - ossia, delle spiegazioni più plausibili
degli eventi - si produce una diminuzione quasi immediata del malessere, dei sintomi.

Identificare le emozioni => Emozioni negative:


• Tristezza, essere giù, solitudine, infelicità;
• Ansia, preoccupazione, paura, spavento, tensione;
• Rabbia, irritazione, essere seccati, noia;
• Vergogna, imbarazzo, sentirsi umiliati;
• Delusione;
• Senso di colpa;
• Diffidenza.

Identificare i pensieri automatici:


1. Qual’è la prova?
- qual’è la prova che sostiene questa idea?
- qual’è la prova contro questa idea
2. C’è una spiegazione alternativa?
3. Qual’è la cosa peggiore che potrebbe succedere?
- potrei sopravvivere a questo?
- qual’è la cosa migliore che potrebbe succedere?
- qual’è l’esito più realistico?
4. Quale effetto produce il credere al pensiero automatico?
- quale potrebbe essere l’effetto del cambiare il mio pensiero?
5. Che dovrei fare riguardo a questo?
6. Che cosa direi a _____ (un amico/a) se lui/lei si trovasse nella stessa situazione?

Il decorso abituale dell’intervento cognitivo prevede un lavoro iniziale sui pensieri automatici,
sulle emozioni negative e sugli errori di ragionamento.
Si insegna al soggetto ad identificare i pensieri automatici, a valutarli per poi modificarli.
Successivamente l’intervento si sposta sulle convinzioni intermedie e centrali che sono valutate
e modificate attraverso strategie specifiche. La loro modificazione porta il soggetto a percepire
gli eventi in modo tale da sviluppare reazioni emozionali fisiologiche e comportamentali meno
disfunzionali.
Secondo il modello cognitivo, la modificazione delle convinzioni centrali porterebbe il soggetto
a cambiamenti profondi e dovrebbe ridurre il rischio di ricadute.

Ristrutturazione cognitiva:
1. Succede qualcosa di spiacevole
2. Emozione: provi un’emozione spiacevole (termometro delle emozioni)
3. Ci pensi in modo irrazionale: pensieri automatici, distorsioni cognitive
4. Metti in discussione i pensieri irrazionali
5. Cominci a pensare in modo razionale
6. Valuti l’utilità e le conseguenze dei nuovi pensieri
7. Come ti senti a pensare in modo nuovo?

Triade cognitiva: la triade cognitiva di Beck, nota anche come triade negativa, è una visione
cognitivo-terapeutica dei tre elementi chiave del sistema di credenze di una persona presente
nella depressione. Fu proposta da Beck nel 1976. La triade fa parte della sua teoria cognitiva
della depressione e il concetto è usato come parte della CBT, in particolare nell’approccio
“Trattamento dei pensieri automatici negativi” (Tratment of Negative Automatic Thoughts
TNAT). La triade implica “pensieri negativi automatici, spontanei e apparentemente
incontrollabili” su: il Self, il Mondo o l’Ambiente, e il Futuro.

Visione negativa del Mondo


(“tutti sono contro di me perché
sono indegno”)

Visione negativa del Futuro Visione negativa di Se stessi


(“non sarò mai buono a nulla”) (“sono indegno e inadeguato”)
Teoria Cognitiva della Depressione di Beck:

Schemi => Pensieri Automatici => Triade Cognitiva => Depressione

Eventi di vita stressanti

Beck: assunti
• Ogni disturbo è associato a uno specifico contenuto negativo
• Depressione => triade cognitiva
• Ipomania => visione positiva esagerata
• Ansia => pericolo personale
• Fobia => pericolo connesso con specifico oggetto o situazione; situazioni evitabili
• Paranoia => abuso, persecuzione, ingiustizia
• Ossessioni => dubbi o allerta
• Compulsioni => auto comandamenti per scongiurare il pericolo e dubbio ossessivo
• Non c’è una singola causa per la depressione o altri disturbi psicologici.

Schemi => strutture di conoscenza organizzate che influenzano il modo in cui percepiamo,
interpretiamo e richiamiamo le informazioni. Uno schema è un “pacchetto” di conoscenza, che
memorizza informazioni e idee sul nostro sé e sul mondo che ci circonda. Questi schemi sono
sviluppati durante l’infanzia e, secondo Beck, le persone depresse possiedono degli schemi
negativi, che possono derivare da esperienze negative, ad esempio da critiche, da genitori,
colleghi o persino insegnanti. Schemi cognitivi negativi (pensieri come “Io non sono amabile”)
portano ad una maggiore vulnerabilità per l’insorgenza e il ripetersi della depressione. Una
persona con un auto-schema negativo è in grado di interpretare le informazioni su se stessa in
modo negativo, il che potrebbe portare a bias cognitivi.

SCHEMA THERAPY (Jeffrey E. Young)


Questo approccio terapeutico integra elementi della terapia cognitivo-comportamentale, della
teoria dell’attaccamento, della Gestalt e di una serie di altri approcci, espandendo la CBT
attraverso l’esplorazione delle emozioni, i metodi di coping maladattivi e l’origine dei problemi
della salute mentale.
I professionisti della salute mentale lavorano con coloro che cercano un trattamento per
scoprire le origini di eventuali bisogni emotivi non soddisfatti. Attraverso la Schema Therapy, le
persone diventano spesso più capaci di sviluppare un maggiore senso di autostima e
adeguatezza, esplorare metodi per costruire relazioni nutritive e sviluppare e raggiungere
obiettivi per lavorare verso un’esperienza di vita sana e felice.
Young e collaboratori hanno iniziato lo sviluppo della ST a metà degli anni ’80, dopo aver
realizzato che la terapia cognitivo-comportamentale era meno utile per alcuni individui rispetto
ad altri, in particolare quelli con problemi di carattere cronico. Combinava concetti di
Psicoterapia della Gestalt, delle Relazioni Oggettuali, Costruttivisti e Approcci Psicoanalitici in
una modalità unificata incentrata sui punti di forza specifici di ciascun metodo. Il primo istituto
di Schema Therapy ha aperto a Manhattan negli anni ’90. Una serie di studi condotti con
questo approccio ha trovato che si tratta di un trattamento altamente efficace per la
personalità borderline, e la ricerca sull’ulteriore sviluppo di questa terapia e sulla dimostrazione
della sua efficacia continua ancora oggi. Più recentemente, la Schema Therapy è stata anche
combinata con la Mindfulness per formare un approccio più spirituale.

Quando i bisogni emotivi:


1. di sicurezza, stabilità, cura e attenzione;
2. di autonomia, abilità e senso d’identità;
3. di essere liberi, di esprimere le proprie esigenze ed emozioni;
4. di spontaneità e gioco;
5. di limiti realistici che favoriscano l’emergere dell’auto controllo.
rimangono insoddisfatti nell’infanzia, le persone possono entrare nell’età adulta con deficit
nelle loro capacità di trovare modi per soddisfare questi bisogni, indipendentemente e
attraverso relazioni sane con gli altri.
La Schema Therapy si basa sulla convinzione che i primi schemi disadattivi (Schemi Maladattivi
Precoci SMP) si basino su esperienze infantili avverse. Questi schemi maladattati, che possono
essere descritti come gli individui interpretano gli eventi della vita e il comportamento degli
altri, possono successivamente essere distruttivi: gli individui possono fare scelte non salutari,
formare relazioni “tossiche”, mancare di abilità sociali pienamente sviluppate, impegnarsi in
schemi comportamentali distruttivi, avere uno scarso senso del giudizio e provare sentimenti di
inutilità o di insicurezza.
L’obiettivo della Schema Therapy è quello di trasformare uno schema maladattivo in uno più
funzionale e siccome lo schema è un insieme di ricordi, pensieri, emozioni, sensazioni
somatiche, la correzione consisterà nel diminuire proprio la pervasività e l’intensità di questi.

Origine degli SMP


Traggono origine da 4 fattori specifici:
1. TEMPERAMENTO: ognuno di noi dalla nascita è dotato di uno specifico temperamento che
trae origine da fattori biologici. Fin da bambini quindi ci caratterizziamo per la nostra
timidezza oppure per la nostra propensione all’aggressività o all’estroversione. Il
temperamento con cui nasciamo determinerà in buona parte il tipo di sensibilità che
avremo nell’affrontare gli avvenimenti della vita.
2. ATTACCAMENTO: grazie alla teoria di Bowlby, noi oggi sappiamo quanto sia importante
fin dai primi attimi di vita instaurare una relazione stabile con la propria madre o con la
persona che si prenderà cura di noi: quella sarà la nostra “base sicura” da cui partire per
esplorare il mondo e cui tornare non appena avvertiamo un pericolo. Il tipo di
attaccamento avuto durante l’infanzia andrà a delineare il modello di sicurezza interiore e
le dinamiche delle future relazioni interpersonali.
3. BISOGNI PRIMARI: questi bisogni sono universali e comuni a tutti gli umani.
Comprendono il bisogno di creare legami stabili (amore, protezione, cura, stabilità,
accettazione, approvazione, empatia), la libertà di esprimere i propri sentimenti e i propri
bisogni, la spontaneità, il gioco, l’autonomia e l’autocontrollo. Gli schemi maladattati
precoci possono quindi trarre origine dalla mancata soddisfazione di questi bisogni.
4. ESPERIENZE DURANTE L’INFANZIA: esperienze negative come la frustrazione dei
bisogni primari, traumi, abusi, maltrattamenti, aver ricevuto eccessive attenzioni,
identificazione con un familiare. Le esperienze poi possono anche trovare origine all’interno
dell’ambiente scolastico, tra il gruppo dei pari o tra gli amici.

Young e colleghi hanno individuato 18 SMP specifici suddivisi in 5 macro aree. La maggior
parte dei pazienti ne presenta almeno due o tre e spesso anche di più.

1. DISTACCO E RIFIUTO

Questo schema si riferisce alla credenza che i propri


bisogni emotivi primari (bisogni di affetto, vicinanza,
di amore, di accudimento, di essere ascoltati e
DEPRIVAZIONE EMOTIVA capiti, di essere consigliati, indirizzati e guidati) non
saranno mai soddisfatti dagli altri. Generalmente
questo schema si sviluppa in bambini i cui genitori
sono freddi o lontani o noncuranti dei bisogni sopra
descritti.
1. DISTACCO E RIFIUTO

Questo schema si riferisce all’aspettativa che presto


si perderà qualcun a cui si era legati emotivamente.
La persona ritiene che, in un modo o in un altro, i
ABBANDONO/INSTABILITA’ rapporti stretti finiranno. Questo schema si sviluppa
generalmente in bambini che hanno vissuto il
divorzio o la morte dei genitori oppure sono stati
lasciati da soli per lunghi periodi, ad esempio a
causa di una malattia della madre.

Questo schema si riferisce all’aspettativa che gli altri


intenzionalmente facciano del male, imbroglino o
cerchino di approfittarsi di noi per trarre vantaggi. I
SFIDUCIA/ABUSO pazienti con questo schema verosimilmente durante
l’infanzia sono state vittime di abusi o erano trattati
ingiustamente dai genitori, fratelli o coetanei.

Questo schema si riferisce alla credenza che si è


isolati dal mondo, diversi dalle altre persone e non
ESCLUSIONE SOCIALE/ALIENAZIONE facenti parte di una comunità. Tale convinzione
solitamente si sviluppa in bambini che percepiscono
se stessi o le loro famiglie come diversi.

Questo schema si riferisce alla credenza di essere


sbagliati internamente, tanto che se gli altri si
avvicinassero se ne renderebbero conto e si
INADEGUATEZZA/VERGOGNA allontanerebbero immediatamente. Questa
sensazione di essere imperfetti e inadeguati spesso
porta a un forte senso di vergogna. In genere
questo schema si sviluppa in bambini i cui genitori
sono stati molto critici e che li hanno fatti sentire
indegni di amore.

2. MANCANZA DI AUTONOMIA E ABILITA’

Questo schema si riferisce alla credenza di essere


incapaci di riuscire in ambiti come la carriera, la
scuola o lo sport. I pazienti con questo schema
FALLIMENTO possono sentirsi stupidi, inetti o senza talento e
spesso non si sforzano di far nulla perché credono
di non farcela. Questo schema si sviluppa in
bambini che sono stati molto criticati, ad esempio
per le proprie performance scolastiche o sportive.

Questo schema si riferisce alla credenza di non


essere in grafo di gestire con competenza e
indipendenza le responsabilità quotidiane. Persone
DIPENDENZA/INCOMPETENZA con questo schema si appoggiano spesso in modo
eccessivo agli altri per prendere decisioni o
intraprendere nuove attività. In genere i genitori di
questi pazienti non hanno incoraggiato i loro
bambini a essere indipendenti e a sviluppare fiducia
nella capacità di prendersi cura di se stessi.
2. MANCANZA DI AUTONOMIA E ABILITA’

Questo schema si riferisce alla credenza di essere


sempre sul punto di vivere una catastrofe
VULNERABILITA’ AL PERICOLO E ALLE (finanziaria, naturale, medica, penale, ecc..). Di
MALATTIE solito almeno un genitore di questi pazienti era
estremamente timoroso e veicolava al bambino il
messaggio che il mondo fosse un posto pieno di
pericoli.

Questo schema riguarda l’eccessivo coinvolgimento


emotivo nei confronti dei genitori o del partner,
INVISCHIAMENTO/SE POCO SVILUPPATO accompagnato da una scarsa identità individuale.
Questo schema è spesso causato da genitori
ipercontrollanti e iperprotettivi che scoraggiano il
bambino a sviluppare un distinto senso di sé.

3. MANCANZA DI REGOLE

Questo schema si riferisce alla convinzione di poter


fare, dire o avere tutto quello che si vuole
PRETESE/GRANDIOSITA’ indipendentemente dalle conseguenze per sé e per
gli altri. Lo sviluppo di questo schema è favorito da
genitori che trattano troppo bene i propri figli e che
non fissano limiti su ciò che è socialmente
appropriato e ciò che è inadeguato.

Questo schema si riferisce all’incapacità di tollerare


qualsiasi frustrazione nel raggiungere i propri
AUTOCONTROLLO O AUTODISCIPLINA obiettivi, oppure all’incapacità di trattenere impulsi o
INSUFFICIENTI sensazioni. La predisposizione a questo schema è
favorita da genitori che non hanno modellato
l’autocontrollo o che non hanno insegnato la
disciplina ai loro figli.

4. ECCESSIVA ATTENZIONE AI BISOGNI DEGLI


ALTRI

Questo schema si riferisce alla credenza di doversi


piegare al controllo altrui per evitare conseguenze
SOTTOMISSIONE negative. Spesso questi pazienti temono che, se
non si sottomettono, gli altri si arrabbieranno o li
rifiuteranno. Durante l’infanzia era generalmente
presente un genitore ipercontrollante.

Questo schema si riferisce al sacrificio eccessivo


dei propri bisogni per aiutare gli altri. Quando questi
AUTOSACRIFICIO pazienti prestano attenzione alle loro esigenze,
spesso si sentono in colpa. Durante l’infanzia le
persone con questo schema si sono sentite
responsabili del benessere di uno o entrambi i
genitori.
4. ECCESSIVA ATTENZIONE AI BISOGNI DEGLI
ALTRI

Questo schema si riferisce all’eccessiva enfasi


posta sul guadagnare l’approvazione e il
RICERCA DI APPROVAZIONE O riconoscimento degli altri a scapito delle proprie reali
RICONOSCIMENTO esigenze. I pazienti con questo schema sono in
genere estremamente sensibili al rifiuto da parte
degli altri. Di solito non hanno ricevuto amore
incondizionato e accettazione da parte dei genitori
nei loro primi anni di vita.

5. IPERCONTROLLO E INIBIZIONE

Questo schema si riferisce alla credenza che si


debbano sopprimere le emozioni e gli impulsi
spontanei, soprattutto la rabbia, perché qualsiasi
INIBIZIONE EMOTIVA espressione di sentimenti può danneggiare gli altri o
portare alla perdita di autostima, all’imbarazzo o
all’abbandono. Questi pazienti appaiono tesi e privi
di spontaneità. Tale schema è spesso favorito da
genitori che, direttamente o indirettamente,
scoraggiano l'espressione dei sentimenti.

Questo schema si riferisce alla convinzione che


qualunque cosa venga fatta non è mai abbastanza,
STANDARD SEVERI/IPERCRITICISMO che ci si debba sempre impegnare di più. Di solito i
genitori di questi pazienti non erano mai soddisfatti
e offrivano ai figli un amore condizionato e
subordinato al successo, a scuola o nello sport.

Questo schema riguarda il concentrarsi sugli aspetti


negativi della vita, minimizzando quelli positivi. I
pazienti con questo schema non
NEGATIVITA’/PESSIMISMO sono in grado di godere delle cose belle che
accadono loro, perché sono preoccupati dei dettagli
negativi dei potenziali problemi che potrebbero
insorgere. Normalmente hanno avuto un genitore
che si preoccupava eccessivamente.

Questo schema si riferisce alla convinzione che le


persone meritano di essere punite duramente per gli
PUNIZIONE errori commessi. Le persone con questo schema
sono ipercritiche e spietate nei confronti di se stesse
e degli altri. Durante l’infanzia almeno un genitore
aveva uno stile punitivo nel controllare il
comportamento

Rinforzare gli schemi


Sono tre i principali meccanismi che mantengono e rinforzano gli SMP:
1. distorsioni cognitive: un modo alterato di percepire le situazioni in quanto si presta
l’attenzione solamente a quelle informazioni che convalidano lo schema;
2. stili di vita autodistruttivi: la persona sceglie e promuove circostanze e relazioni che
innescano e mantengono lo schema. Nelle relazioni con gli altri in particolare, la persona
utilizzerà modalità tali da provocare nell’altro reazioni negative che non faranno altro che
rinforzare lo schema;
3. stili di coping disfunzionali: resa, evitamento, ipercompensazione.
A partire dagli SMP si sviluppano dei MODE. Il Mode può essere definito come l’aspetto più
complesso della teoria della Schema Therapy. E’ l’insieme degli stati emotivi e delle risposte di
coping (adattive e maladattate) che tutti noi esperiamo in determinati momenti: a seconda
della situazione in cui ci troviamo, alcuni schemi con le relative modalità di coping rimangono
inattivi mentre altri si attivano e dominano il nostro umore e il nostro comportamento. Quando
un Mode si attiva questo determina il funzionamento emotivo e comportamentale
dell’individuo. Tutte le persone sviluppano diversi Mode e questi prendono il sopravvento in
determinate situazioni (es. una persona, se rimproverata, può entrare in una modalità di
contrattacco o, al contrario, di sottomissione incondizionata). I pazienti con disturbi di
personalità (in particolare con Disturbo Borderline di Personalità) presentano una tendenza a
passare da un Mode all’altro in modo repentino, improvviso e senza rendersene conto. Sono
completamente immersi nel Mode attivo: un momento sono vittime, un momento più tardi
sono persecutori, più tardi ancora possono trasformarsi in salvatori. In questi pazienti manca
quindi l’integrazione di questi aspetti, la capacità di distaccarsi dal Mode che li domina.
Young identifica dieci Mode che si possono raggruppare in 4 categorie. Alcuni di essi sono
funzionali, altri no. Uno degli obiettivi della Schema Therapy è quello di insegnare al paziente a
rinforzare il Mode Adulto Funzionale, imparando a esplorare quelli disfunzionali e modificandoli.

1. Mode BAMBINO (innati e universali)


- BAMBINO VULNERABILE: si sente solo, isolato, triste, incompreso, non supportato, difettoso,
sopraffatto, incompetente, dubbioso, bisognoso, impotente, senza speranza, spaventato,
ansioso, preoccupato, vittima, abusato, senza valore, non amato o poco amabile, perdente,
senza direzione, fragile, debole, sconfitto, oppresso, escluso, pessimista;
- BAMBINO ARRABBIATO: si sente intensamente arrabbiato, infuriato, frustrato in quanto i
suoi bisogni primari fisici ed emotivi non sono stati soddisfatti;
- BAMBINO IMPULSIVO/INDISCIPLINATO: agisce in modo impulsivo e non riesce a ritardare la
gratificazione. Spesso si sente arrabbiato, infuriato, frustrato, teso e impaziente soprattutto
quando non riesce a ottenere ciò che vuole. Può apparire come “viziato”. Agisce senza
considerare le possibile conseguenze per se stesso e per gli altri;
- BAMBINO FELICE: si sente amato, felice, soddisfatto, protetto, accettato, lodato, nutrito,
seguito, compreso, sicuro di sé, competente, autonomo, autosufficiente, sicuro, flessibile,
forte, versatile, incluso, ottimista, spontaneo.

2. Mode COPING DISFUNZIONALE. E’ attraverso questi tre stili che gli schemi esercitano la
propria influenza sul nostro comportamento e lavorano per assicurare la propria
sopravvivenza:
A. ARRENDERSI ALLO SCHEMA: segnica cedere passivamente a esso, accettare come vero e
agire in modo tale che venga confermato. Per esempio, un giovane con uno schema di
Esclusione sociale potrebbe rintanarsi in casa e allontanarsi da qualunque contesto,
confermando così il suo senso di isolamento. Questa modalità di coping darà luogo ad un
Mode che prende il nome di ARRESO COMPIACENTE: la persona si sottomette cioè agli
schemi ridiventando il bambino passivo e impotente che si arrende agli altri;
B. EVITARE LO SCHEMA: significa evitare, cognitivamente, emotivamente e nei
comportamenti, di attivare schemi che potrebbero causare emozioni negative. Le persone
possono scegliere volontariamente di non concentrarsi su un aspetto della loro personalità
o su un evento che ritengono inquietante; possono rendersi insensibili ai sentimenti al fine
di ridurre al minimo il dolore, bere o abusare di droghe. Per esempio una donna con uno
schema di Fallimento potrebbe evitare di confrontarsi con un nuovo lavoro che potrebbe
essere, in realtà, un’esperienza gratificante per lei. Questa modalità di coping darà luogo
ad un Mode che prende il nome di PROTETTORE DISTACCATO: la persona fugge dal
dolore attraverso il distacco dalle emozioni, l’assunzione di stupefacenti, la continua ricerca
di stimoli o forme di fuga come l’isolamento.
C. SOVRACOMPENSARE LO SCHEMA: significa comportarsi in modo diametralmente opposto a
quello che suggerisce lo schema per evitare di innescarlo. Apparentemente questo
meccanismo può sembrare sano, ma in molti casi genera ulteriori problemi. Per esempio,
un giovane con uno schema di Inadeguatezza/Vergogna potrebbe ipercompensare facendo
ogni cosa alla perfezione e criticando gli altri. Questo porterebbe probabilmente a critiche
che, a loro volta, confermerebbero la sua convinzione di essere imperfetto. Questa
modalità di coping darà luogo ad un Mode che prende il nome di AUTOESALTATORE: la
persona combatterà gli schemi maltrattando gli altri, assumendo comportamenti estremi e
quasi sempre disfunzionali.

3. Mode GENITORE DISFUNZIONALE. Il paziente acquisisce l’atteggiamento del genitore


che ha interiorizzato:
- GENITORE PUNITIVO: pensa spesso che se stesso o gli altri meritino punizioni o colpe e per
questo mette in atto comportamenti punitivi a volte anche rivolti a sé (autolesionismo);
- GENITORE ESIGENTE/CRITICO: crede fermamente nella necessità di essere perfetti e di
riuscire sempre al massimo, è molto ordinato, preciso, ambisce ad avere uno status sociale
alto, non vuole perdere tempo, critica chi esprime i propri sentimenti o si mostra
eccessivamente spontaneo (questo è il risultato dell’interiorizzazione di regole rigide e alti
standard).

4. Mode ADULTO FUNZIONALE. Adulto sano, che si occupa di proteggere e accudire il


bambino vulnerabile e di porre dei limiti al bambino arrabbiato e indisciplinato. E’ in accordo
con i principi della reciprocità e dell’autodisciplina. In questo modo, la persona risulta
funzionale in più ambiti come ad esempio il lavoro o la famiglia e verrà percepito come più
responsabile. Coltiva attività piacevoli come fare sport, partecipare ad attività culturali,
prendersi cura di sé, avere una sana attività sessuale.

Tecniche => identificare e modificare Mode e Schemi maladattati è fondamentale per la


Schema Therapy. Scoprire le origini dei propri bisogni emotivi non soddisfatti e imparare a
costruire relazioni educative attraverso la terapia può aiutare le persone a iniziare a costruire
sentimenti di autostima e adeguatezza. Le tecniche
terapeutiche utilizzate in questo processo possono includere:
• Imagery = In questa tecnica, le persone in terapia esplorano sconvolgenti memorie infantili
nel tentativo di comprendere lo sviluppo di schemi disadattivi. Agli individui viene dapprima
chiesto di immaginare i luoghi, i suoni e le altre sensazioni coinvolte in questi ricordi e poi
continuare dialoghi immaginari con i caregiver coinvolti in questi ricordi e chiedere che i loro
bisogni siano soddisfatti. Seguendo questo processo, gli individui diventano spesso più capaci
di identificare le situazioni attuali suscitando emozioni simili e possono avere più successo nel
soddisfare i bisogni in modi sani nelle situazioni future.
• Flash cards = Nella ST, i terapeuti lavorano per aiutare coloro che sono in terapia a creare
messaggi progettati per i caregivers che non hanno soddisfatto i loro bisogni emotivi infantili.
Questi messaggi possono assumere la forma di semplici dichiarazioni, note o anche poemi
complessi. La persona in trattamento osserverà in genere le flash cards tra una sessione e
l’altra. Questa revisione periodica ha lo scopo di aiutare le persone ad imparare come
rendere dichiarazioni salutare ed efficaci sui loro bisogni emotivi a persone importanti per la
loro vita adulta.
• Lavoro con la sedia = Questa tecnica cerca di aiutare le persone in terapia a identificare le
variazioni sia nelle emozioni che nella personalità. Nel lavoro con la sedia, la persona in
terapia si muove tra due sedie, esprimendo emozioni e aspetti diversi della personalità in
ogni sedia. Il lavoro con la sedia può anche essere usato per aiutare la persona in terapia ad
immaginare dialoghi con familiari, amici o altri significativi. In questo tipo di lavoro con la
sedia, una persona potrebbe fare affermazioni riguardo ai bisogni emotivi mentre è seduta su
una sedia e poi spostarsi su un’altra sedia per svolgere un ruolo di una persona che potrebbe
soddisfare questi bisogni. Il lavoro di immaginazione è spesso condotto in concomitanza con
il lavoro con la sedia.
• Diari = Alle persone che utilizzano la ST viene spesso chiesto di tenere un diario o un
registro di eventuali esperienze che attivano schemi precoci disadattivi (Early Maladaptive
Schemas). Durante il trattamento, gli individui possono imparare a identificare i modelli di
pensiero associati a questi schemi. Quando questi schemi di pensiero si verificano tra una
sessione e l’altra, il diario consente alle persone di scrivere su situazioni, sentimenti e
comportamenti associati. Questi diari sono spessi rivisti in terapia e possono essere utili nel
determinare i metodi per praticare nuovi modi di soddisfare i bisogni emotivi e le situazioni in
cui questi metodi possono essere meglio applicati.

Valutazione => gli studi condotti sulla ST mostrano che questo tipo di terapia è spesso efficace
nell’affrontare:
- Stress post traumatico
- Problemi alimentari
- Comportamento criminale
- Ansia
- Abuso di sostanze
- Problemi nelle relazioni interpersonali
- Depressione cronica
- Alcuni disturbi di personalità
La ST si è dimostrata particolarmente efficace nel trattamento della personalità borderline e la
ricerca mostra che gli individui in ST hanno abbandonato a tassi più bassi rispetto a quelli degli
altri tipi di trattamento. Inoltre, la ST ha dimostrato un discreto potenziale come trattamento
per la personalità narcisistica. Ulteriori ricerche potrebbero essere necessarie per stabilire
completamente la ST come trattamento efficace per il narcisismo, in quanto individui con
personalità narcisistica non cercano comunemente il trattamento volontariamente.
La ST è una forma abbastanza nuova di intervento psicologico e la ricerca su questo approccio
al trattamento sta ancora emergendo. Una recente revisione della ricerca sulla ST ha trovato
prove iniziali di efficacia, ma ha anche rilevato la necessità di una base di ricerca più completa
per quanto riguarda risultati positivi e costo-efficacia.
Dato che la ST funziona per trattare problemi cronici, il trattamento richiede spesso più tempo
e costa di più di altri interventi basati sull’evidenza limitati nel tempo. Ma, poiché le condizione
di salute mentale cronica spesso diventano costose per le organizzazioni sanitarie se non
trattate, la ST può, alla fine, essere meno costosa rispetto ai costi associati a condizioni
croniche quando queste non vengono curate con successo.

DIALECTICAL BEHAVIOR THERAPY (Marsha Linehan)


La Dialectical Behavior Therapy (DBT) che potremmo tradurre con Terapia Comportamentale
Dialettica, è un trattamento cognitivo-comportamentale. La DBT è stata originariamente
progettata per il trattamento di persone che avevano pensieri suicidare cronici, sintomi di un
disturbo di personalità borderline. Ha lo scopo di trattare le persone che non vedono un
miglioramento (minimo o nullo) con altri modelli di terapia. Molte pazienti presentano infatti
condizioni descritte come “difficili da trattare”. I terapeuti DBT offrono accettazione e sostegno
alle persone in terapia. Questo trattamento si concentra infatti sulla risoluzione dei problemi e
sulle strategie basate sull’accettazione. Obiettivo della terapia è sviluppare tecniche per
raggiungere gli obiettivi, migliorare il benessere e realizzare cambiamenti positivi duraturi.
Problemi trattati dalla DBT includono autolesionismo, disturbi alimentare, dipendenza e stress
post-traumatico come anche personalità borderline.
La DBT può essere utilizzata in molti settimi di salute mentale. Incorpora le seguenti cinque
componenti:
1. Miglioramento delle capacità = La DBT offre opportunità per lo sviluppo di competenze
esistenti. Durante il trattamento, vengono insegnate quattro serie di abilità di base. Si
tratta di regolazione delle emozioni, mindfulness (consapevolezza), efficacia interpersonale
e tolleranza allo stress.
2. Generalizzazione = I terapeuti DBT usano varie tecniche per incoraggiare il trasferimento
delle abilità apprese. Le persone in terapia possono imparare ad applicare ciò che hanno
imparato in terapia a casa, a scuola, al lavoro e nella comunità. Ad esempio, un terapeuta
potrebbe chiedere alla persona in trattamento di parlare con il partner di un conflitto. La
persona può usare le abilità di regolazione delle emozioni prima e dopo la discussione.
3. Miglioramento motivazionale = La DBT utilizza piani di trattamento comportamentale
personalizzati per ridurre i comportamenti problematici che potrebbero influire
negativamente sulla qualità della vita. Ad esempio, i terapeuti potrebbero utilizzare fogli di
automonitoraggio in modo che le sessioni possano essere adattate per affrontare prima i
problemi più gravi.
4. Capacità e miglioramento motivazionale dei terapeuti = Poiché la DBT viene spesso
offerta a persone che soffrono di problemi di salute mentale cronici, gravi e intensi, i
terapeuti ricevono molte ore di supervisione e supporto per prevenire eventi come la
traumatizzazione vicaria o il bornout. Ad esempio, gli incontri del team di trattamento
vengono tenuti frequentemente per dare ai terapeuti uno spazio per fornire e ricevere
supporto, formazione e orientamento clinico.
5. Strutturazione dell’ambiente = Un obiettivo della terapia è spesso quello di garantire
che i comportamenti positivi e adattivi siano rinforzati in tutti i contesti ambientali. d
esempio, se qualcuno partecipa a più programmi di trattamento all’interno di una struttura,
il terapeuta potrebbe assicurarsi che ogni programma sia stato creato per rafforzare tutte
le abilità e i comportamenti appresi.

La forma standard di DBT è costituita da terapia individuale, gruppo di stil training, coaching
telefonico e team di consulenza di un terapeuta. I pazienti in DBT standard frequentano la
terapia e un gruppo di formazione professionale settimanale. I gruppi sono progettati per
aiutare coloro che sono in trattamento a sviluppare abilità comportamentali attraverso il lavoro
di gruppo e compiti a casa. Questi incarichi permettono alle persone di praticare abilità apprese
nella vita di tutti i giorni. Anche l’assistenza telefonica è una parte importante della DBT: aiuta
le persone in terapia a rivolgersi al terapeuta per ricevere supporto quando si verifica una
situazione difficile tra una sessione e l’altra. Le questioni affrontate da molti pazienti che
utilizzano la DBT possono essere complesse e gravi. A causa di ciò, un gruppo di consulenza è
considerato essenziale per i terapeuti DBT. Il team è composto dal leader del gruppo e
terapeuti individuali. Può offrire supporto, motivazione e terapia ai terapeuti che lavorano con
problemi difficili.
La DBT è stat sviluppata da Marsha Linehan negli anni ’70. La Linehan ha sviluppato la DBT
attraverso il suo lavoro con due popolazioni di persone con problemi mentali: persone con
pensieri cronici di suicidio e persone con diagnosi di disturbo borderline di personalità. La
Linehan era affascinata dalla reputazione della terapia cognitivo-comportamentale (CBT). Ha
deciso così di utilizzare la CBT standard nella sua pratica. La Linehan e i suoi colleghi tuttavia
hanno avuto diverse difficoltà dopo aver condotto ricerche relative all’efficacia della CBT nella
popolazione scelta. Hanno scoperto tre problemi principali con l’applicazione della CBT
standard:
1. I partecipanti hanno sperimentato gli interventi focalizzati sul cambiamento come
invalidanti. Questi sentimenti hanno spesso portato all’abbandono della terapia,
all’aggressione verso i terapeuti o ad una fluttuazione di entrambi;
2. I partecipanti e i terapeuti hanno ricreato uno schema di rinforzo, ma il lavoro si è bloccato
ed è comparso l’evitamento. Quando i terapeuti hanno spinto per il cambiamento, i
partecipanti hanno reagito con rabbia. Quando i terapeuti hanno invece permesso un
cambiamento scelto dal soggetto, i partecipanti hanno reagito con calore e feedback
positivi;
3. A causa dell’intensità delle situazioni legate alla crisi, i terapeuti passavano molto tempo ad
affrontare problemi relativi alla sicurezza, come pensieri o gesti suicidi, ostilità e minacce
nei loro confronti, o comportamenti autolesionistici. Spesso, era rimasto poco tempo per
insegnare le capacità di coping o per affrontare il funzionamento comportamentale.
Dopo aver analizzato questi problemi, la Linahan ha modificato il trattamento CBT. Questi
cambiamenti andavano direttamente sui bisogni del paziente. Sono state incluse tecniche
basate sull’accettazione per garantire che i partecipanti si sentissero supportati e (con)validati
prima di chiedere loro di concentrarsi sul cambiamento. Inoltre, la dialettica è stata incorporata
per consentire ai terapeuti e ai partecipanti al trattamento di concentrarsi sulla sintesi degli
opposti polari, come l’accettazione e il cambiamento. Cioè li ha aiutati ad evitare di rimanere
intrappolati in schemi di presa di posizione estrema. Questi e altri adattamenti sono stati
aggiunti alla pratica della CBT. Nel 1993 la Linehan ha pubblicato il primo manuale di
trattamento ufficiale, Cognitive Behavioral Treatment of Borderline Personalità Disorder. Da
allora, la pratica DBT è cresciuta molto in popolarità. Negli ultimi decenni, una grande quantità
di ricerche ha supportato l’efficacia della DBT; questa forma di terapia è ora praticata in diversi
paesi in tutto il mondo.
Te principali quadri teorici si combinano per formare la base per la DBT:
1. Un modello biosociale della scienza comportamentale dello sviluppo dei problemi della
salute mentale cronica: la teoria biosociale tenta di spiegare come si sviluppa le questioni
legate alla personalità borderline. La teoria postula che alcune persone nascano con una
predisposizione verso la vulnerabilità emotiva. Ambienti privi di una solida struttura e
stabilità possono intensificare le risposte emotive negative di una persona. Possono anche
influenzare i modelli di interazione che diventano distruttivi. Questi schemi possono
danneggiare le relazioni e il funzionamento in tutte le impostazioni. Possono spesso
comportare un comportamento suicidario e/o una diagnosi di personalità borderline.
2. La pratica Mindfulness del Buddhismo Zen: la DBT attinge alle tecniche di mindfulness dal
Buddhismo Zen per usare la presenza qui ed ora della mente. Ciò può aiutare le persone in
terapia a valutare in modo obiettivo e calmo le situazioni. Il training mindfulness
(allenamento consapevole) consente alle persone di fare il punto della loro esperienza
attuale, valutare i fatti e concentrarsi su una cosa alla volta.
3. La Filosofia della dialettica: la dialettica è usata per supportare sia il terapeuta che la
persona in trattamento. I terapeuti usano la dialettica per aiutare le persone ad accettare le
parti di se stessi che non gli piacciono. Usano anche la dialettica per fornire motivazione e
incoraggiamento ad affrontare il cambiamento. Sintetizzare gli opposti polari può ridurre la
tensione e aiutare a far avanzare la terapia. La prospettiva dialettica sostiene diversi
aspetti sulla natura della realtà e del comportamento umano. La dialettica sostiene come
primo aspetto la fondamentale interrelazione e unitarietà della realtà, implicando che è
limitata l’analisi delle singole parti di un sistema se non vengono inserite negli specifici
contesti contingenti in cui si esplica il comportamento dei singoli e dei singoli nel gruppo.
Un secondo aspetto è che la realtà non viene concepita come statica, ma composta da
forze interne opposte (tesi e antitesi) in mutamento, e la cui sintesi genera una nuova
tensione tra forze opposte. In tal senso, i pattern di pensiero e di comportamento
disfunzionali dicotomici ed estremizzati dei pazienti borderline sono considerati come dei
fallimenti dialettici: la persona è bloccata su polarità estreme e fatica a muoversi
dinamicamente verso una sintesi. Il terzo aspetto che caratterizza la visione dialettica
riguarda l’assunto secondo il quale la natura della realtà è fondata sul cambiamento e sul
processo, l’individuo e l’ambiente sono in costante mutamento. Dunque la terapia non mira
al mantenimento di uno stato stabile in un ambiente stabile e coerente, ma vuole
promuovere le capacità di gestire il cambiamento.

Questa forma di terapia è progettata per trattare sistematicamente e in modo completo i


problemi in ordine di gravità. Poiché la DBT era inizialmente destinata a persone con tendenze
suicidarie e problemi emotivi estremi, il trattamento avviene a tappe. Questo assicura che
tutte le preoccupazioni vengano alla fine risolte. La DBT prevede le seguenti
quattro fasi:
• Fase 1: l’obiettivo di questa fase è la stabilizzazione. Le persone in terapia possono avere a
che fare con pensieri suicidari, autolesionismo o dipendenza. Spesso riferiscono di sentirsi
come se fossero a un punto critico di tutti i tempi della loro vita. La terapia è incentrata sulla
sicurezza e sull’intervento per risolvere la crisi. L’obiettivo di questa fase è aiutare le persone
a raggiungere un certo controllo sui comportamenti problematici;
• Fase 2: in questa fase, i comportamenti sono più stabili, ma possono ancora essere presenti
problemi di salute mentale. Il dolore emotivo viene in genere riportato in superficie. Le
esperienze traumatiche sono esplorate in sicurezza. L’obiettivo di questo stadio è che le
persone in terapia provino il loro dolore emotivo invece di metterlo a tacere o seppellirlo.
• Fase 3: questa fase si concentra sul miglioramento della qualità della vita attraverso il
mantenimento dei progressi e una ragionevole definizione degli obiettivi. L’obiettivo di questa
fase è promuovere la felicità e la stabilità.
• Fase 4: durante questa fase, i terapeuti supportano le persone a far avanzare le loro vite al
livello successivo. Nella terapia, le persone possono migliorare con le abilità apprese o
lavorare per la realizzazione spirituale. L’obiettivo di questa fase è aiutare le persone a
raggiungere e mantenere una capacità continua di felicità e successo.

Valutazione => i risultati di più studi riflettono l’efficacia della DBT. Può essere particolarmente
efficace nel trattare problemi di personalità borderline, stress post-traumatico, autolesionismo
e suicidio. Uno studio controllato condotto in regime ospedaliero da Bonus et al. (2004) ha
rivelato che le persone in terapia che hanno ricevuto tre mesi di DBT sono migliorate ad un
tasso maggiore rispetto a quelli che hanno ricevuto il trattamento standard. Secondo il
SAMHSA National Registry of Evidence-based Programs and Practices, più studi controllati e
studi indipendenti hanno rilevato che un anno di DBT ha diminuito le istanze di comportamenti
autolesionisti ad un tasso maggiore rispetto ai trattamenti alternativi. Uno di questi studi ha
riportato che i partecipanti che hanno ricevuto DBT hanno avuto solo 0.5 casi di
comportamento autolesionisti nell’arco di un mese, rispetto a 9.33 incidenti tra coloro che
hanno ricevuto il trattamento standard. Uno studio condotto da Linehan et al. (2006)
suggerisce che la DBT possa essere efficace nel ridurre i tentativi di suicidio. Questo studio ha
riportato che coloro che hanno utilizzato la DBT avevano la metà delle probabilità di tentare il
suicidio; hanno avuto meno ospedalizzazioni psichiatriche e hanno meno probabilità di
abbandonare il trattamento rispetto a quelli che hanno ricevuto la psicoterapia da professionisti
considerati esperti nel trattamento del suicidio e dell’autolesionismo. Un corpus significativo di
ricerche suggerisce che la DBT sia un trattamento efficace per diversi problemi di salute
mentale. Ma ci sono alcune critiche e limiti. Gran parte della ricerca disponibile sull’efficacia del
DBT comprendeva piccole dimensioni del campione e si concentrava su un settore specifico
della popolazione della salute mentale. I critici sostengono che dovrebbero essere fatte ulteriori
ricerche per determinare se la DBT funziona bene per chi ha problemi di salute mentale. La
DBT utilizza un manuale dettagliato e richiede una solida formazione da implementare. In molti
degli studi di ricerca in cui la DBT è risultata efficace, i fornitori che implementavano il
trattamento DBT erano studenti di dottorato. La maggior parte è stata addestrata dallo
sviluppatore, Marsha Linehan; ciò non indica necessariamente una debolezza nel modello
stesso, ma sottolinea la quantità intensiva di formazione richiesta per fornire i servizi come
progettato. Pertanto, espandere la disponibilità di una formazione completa potrebbero essere
utile per le organizzazioni di salute mentale della comunità. Molti dei trial di ricerca DBT sono
durati fino ad un anno; alcuni includevano un colloquio follow-up post-trattamento. Tuttavia,
non è stato determinato se i guadagni terapeutici siano durati oltre le interviste di follow-up
post-trattamento. A causa della natura cronica delle condizioni trattate, la valutazione
potrebbe trarre beneficio da ulteriori ricerche che misurano miglioramenti molto tempo dopo la
somministrazione della DBT.

ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY (Steven C. Hayes)


La Acceptance and Commitment Therapy (terapia per l’accettazione e l’impegno) (ACT)
insegna la Mindfulness per aiutare le persone a vivere e comportarsi in modo coerente con i
valori personali, sviluppando allo stesso tempo la flessibilità psicologica. I terapeuti ACT
aiutano le persone a riconoscere i modi in cui i loro tentativi di sopprimere, gestire e
controllare le esperienze emotive che creano difficoltà.
Per decenni, i ricercatori nel campo della psicologia e psicoterapia hanno lavorato per
sviluppare interventi basati sulla scienza e limitati nel tempo per le persone che desiderano
superare le condizioni di malessere. Di conseguenza, molte persone hanno avuto un successo
significativo nell’affrontare e gestire una serie di preoccupazioni e sperimentare un maggiore
benessere. Tuttavia, il recupero a lungo termine e la prevenzione delle ricadute rimangono
punti cruciali da affrontare come aree di potenziale difficoltà. Recentemente, nuovi tipi di
terapie, tra cui la ACT, sono state sviluppate nella speranza di aumentare il successo a lungo
termine nel trattamento psicologico. La ACT si basa sulla Relational Frame Theory (RTF), una
teoria incentrata sul linguaggio e sulla cognizione umana. La RTF suggerisce che le abilità
razionali utilizzate dalla mente per risolvere i problemi potrebbero essere inefficaci nell’aiutare
persone a superare il dolore psicologico. Molti degli strumenti che le persone utilizzano per
risolvere i problemi, conducono in una trappola che crea sofferenza.
Sulla base di questo suggerimento, la terapia ACT è stata sviluppata con l’obiettivo di
insegnare alle persone che, anche se il dolore psicologico fa parte della vita, siamo in grafo di
imparare un modo di vivere più sano, una vita più piena, modificando il nostro modo di
pensare il dolore. A partire dalla fine degli anni ’90, sono stati sviluppati numerosi manuali di
trattamento completi per delineare i modi per utilizzare la ACT per trattare al meglio le varie
condizioni di disturbo mentale. Il trattamento con questi manuali è stato studiato
empiricamente e ha prodotto il supporto per l’utilizzo dell’ACT nel trattamento di abuso di
sostanze, psicosi, ansia, depressione, dolore cronico e disturbi alimentari. La teoria ACT non
definisce le esperienze emotive indesiderate come sintomi o problemi. Si propone invece di
aiutare le persone a realizzare la pienezza e la vitalità della vita. Questa pienezza include un
ampio spettro di esperienze umane, incluso il dolore che inevitabilmente accompagna alcune
situazioni. L’accettazione delle cose come vengono, senza valutare o tentare di cambiarle, è
un’abilità sviluppata attraverso esercizi di consapevolezza dentro e fuori la seduta.
La ACT non tenta di modificare o interrompere pensieri o sentimenti indesiderati direttamente
(come la terapia cognitivo-comportamentale), ma incoraggia invece le persone a sviluppare un
nuovo e compassionevole rapporto con quelle esperienze. Questo cambiamento può liberare le
persone dalle difficoltà nel tentativo di controllare le loro esperienze e aiutarle a diventare più
aperte ad azioni coerenti con i loro valori; la chiarificazione dei valori e la definizione di
obiettivi basati sui valori, che sono anche componenti chiave della ACT. La flessibilità
psicologica, l’obiettivo principale della ACT, in genere avviene attraverso diversi processi
fondamentali:
• Sviluppare una hopelessness creativa implica esplorare i tentativi passati di risolvere o
allontanarsi da quelle difficoltà che avevano portato l’individuo alla terapia; attraverso il
riconoscimento dell’efficacia o mancanza di efficacia di questi tentativi, la ACT crea
opportunità per le persone di agire in modo più coerente con ciò che è più importante per
loro.
• L’accettazione della propria esperienza emotiva può essere descritta come il processo di
apprendimento per sperimentare la gamma di emozioni umane con una prospettiva gentile,
aperta e accentante.
• La scelta di indicazioni di vita di valore è il processo di definizione di ciò che è più importante
nella vita e di chiarire come si desidera vivere la vita;
• L’azione può fare riferimento al proprio impegno a fare cambiamenti e ad assumere
comportamenti che si muovono nella direzione di ciò che è più apprezzato.
Questi processi sono sovrapposti e interconnessi, non separati. Sono introdotti e sviluppati
attraverso esperienze dirette che vengono identificate e partecipate dalla persona in terapia nel
corso del trattamento. La flessibilità psicologica può essere definita semplicemente come “la
capacità di essere presenti, confidarsi e fare ciò che conta”.

La Mindfulness => può essere descritta come mantenere il contatto con il momento presente
piuttosto che andare alla deriva col pilota automatico. Consente ad un individuo di connettersi
con il sé osservatore, la parte che è consapevole ma separata dal sé pensante. La Mindfulness
spesso aiuta le persone ad aumentare la consapevolezza di ciascuno dei cinque sensi e dei loro
pensieri ed emozioni.

ACT non tenta di cambiare o interrompere direttamente pensieri o sentimenti indesiderati, ma


incoraggia invece le persone a sviluppare una relazione nuova e compassionevole con quelle
esperienze. Le sfide relative a sentimenti, impulsi o situazioni dolorosi vengono spesso prima
ridotte e poi accettate. L’accettazione è la capacità di consentire l’esperienza interna ed
esterna invece di combattere o evitare l’esperienza. Se qualcuno pensa: “Sono una persona
terribile”, a quella persona potrebbe essere chiesto dire, “Sto avendo il pensiero di essere una
persona terribile”. Questo separa efficacemente la persona dalla cognizione, quindi la spoglia
della sua carica negativa. Quando le persone provano emozioni dolorose, come l’ansia,
potrebbero essere istruite per aprirsi, respirare o creare spazio per la sensazione fisica di ansia
e permetterle di rimanere lì, così com’è, senza esacerbare o minimizzarlo.
Il chiarimento dei valori può aiutare le persone a definire ciò che è più importante - i loro
valori, in altre parole - e ad adottare azioni efficaci guidate da qui valori. Un professionista
della salute mentale generalmente impiegherà una varietà di esercizi per aiutare quelli in
terapia a identificare i valori scelti. Questi valori spesso agiscono come una bussola nella
direzione di un comportamento intenzionale ed efficace.
Esplorare emozioni dolorose o pensare troppo a un problema può interferire con la capacità di
una persona di scegliere un’azione mirata e guidata dai valori. Attraverso la liberazione
consapevole da questa sfida, la ACT può aiutare le persone ad agire in modo più congruo con i
loro valori e vivere in un modo che si sente naturale e appagante.

I sei pilastri => Secondo l’Acceptance and Commitment Therapy, la flessibilità psicologia si può
promuovere attraverso interventi su quelli che vengono considerati i sei pilastri del modello
ACT. I sei processi chiave sottendono due macro-aree:
• i “processi di mindfulness e accettazione”;
• i “processi di modificazione comportamentale e azione impegnata secondo i valori”.
I sei pilastri del modello ACT sono:
1. L’Evitamento esperienziale: è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo
scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni
o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Tentativi per controllare
l’ansia, pensieri per controllare altri pensieri (es. rimuginare), cercare in tutti i modi di non
pensare o di non ricordare un dolore tramite comportamenti dannosi e disfunzionali.
L’evitamento esperienziale si concretizza anche nei tentativi di fuga o di controllo
dell’esperienza esterna, come evitare situazioni ansiogene, evitare i conflitti o l’espressione
della rabbia. Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienziale nell’ACT viene
chiamato “Accettazione” e può definirsi come “lasciare spazio” o “aprirsi all’esperienza”
delle emozioni dolorose e ai pensieri e ricordi dolorosi. In tal senso ACT mira a promuovere
alcune tendenze di accettazione: a) non giudicare le nostre esperienze interne (ed esterne)
con lo sguardo malevolo dell’inquisitore di noi stessi; b) accogliere gli stati emotivi e dar
loro l’importanza “informativa” che meritano; c) indebolire il potere dei pensieri sul nostro
comportamento e sulla nostra esperienza quotidiana.
2. La fusione cognitiva: in ACT si definisce “fusione cognitiva” la tendenza degli esseri
umani ad essere catturati, “imbrigliati” dai contenuti dei propri pensieri. Il principio che
giustifica la disfunzionalità di tale “aggancio ai pensieri” è riassunto nella seguente frase:
non è tanto ciò che pensiamo a crearci problemi e sofferenza, ma il modo con cui noi ci
mettiamo in relazione con ciò che pensiamo. Quando siamo “fusi” con i nostri pensieri,
sopratutto quelli disfunzionali, dimentichiamo che stiamo interagendo con un pensiero e
non con un evento reale, un pò come se in nostri pensieri e le nostre valutazioni sulla
realtà vivessero al posto nostro. La controparte virtuosa della fusione cognitiva, nell’ACT è
la Defusione. Quindi è di primaria importanza intervenire non sui contenuti dei pensieri
disfunzionali, bensì su come l’individuo si relaziona con i propri pensieri. In questo modo, ci
si concentra sull’atteggiamenti nei confronti dei propri pensieri e non sui pensieri in sé. Ad
esempio, fare pensieri disfunzionali di tipo depressivo o di tipo ansioso non fa molta
differenza dal punto di vista dell’ACT: è l’influenza che hanno sulla vita dell’individuo
(dettata dall’atteggiamento che l’individuo stesso ha nei confronti dei propri pensieri) a
definirne l’impatto sulla sofferenza individuale.
3. Dominanza del passato e del futuro sul momento presente: tale processo si può
definire come un insieme di difficoltà a dirigere e mantenere l’attenzione sul momento
presente e a cambiare il focus dell’attenzione tra le varie dimensioni della propria
esistenza. Tutte le energie dell’individuo sono concentrate su un “tema” o una difficoltà e
da quell’argomento non riesce ad uscire, limitando così la sua influenza nella propria vita.
Esempi prototipici di dominanza del passato o del futuro sul momento presente sono il
rimuginio e le ruminazioni depressive. Nel momento n cui si rimugina o si rumina sul
passato, tali processi richiedono molte energie e concentrano tutta la nostra attenzione sul
processo stesso. La proposta di intervento dell’ACT è promuovere il contato con il momento
presente, essere psicologicamente presenti e disponibili verso ciò che accade nel momento
presente. Noi esseri umani, per motivi legati a una sorta di “economia mentale” tendiamo
naturalmente a svolgere moltissime attività quotidiane senza porre attenzione a quello che
facciamo, come se le nostre azioni fossero gestite da un “pilota automatico” che ci
permette di svolgere più attività contemporaneamente. Sebbene, in molte occasioni, tale
automaticità sia utile e funzionale, esistono diverse occasioni in cui agire in automatico e
perdere il contato con ciò che stiamo facendo è dannoso e disfunzionale per la nostra vita.
Entrare in contato con il momento presene significa anche scegliere consapevolmente di
portare la propria attenzione su ciò che sta accadendo dentro di noi e nel mondo fisico
esterno in quel preciso momento.
4. Il sé concettualizzato: potremmo definire il sé concettualizzato come un insieme di
“fusioni” di definizioni di noi stessi che la mente di ognuno d noi ci racconta. Queste
definizioni, solitamente, toccano aspetti nucleari e rilevanti per la definizione di sé e di sé-in
relazione agli altri. Quando questo processo è molto presente, può essere dannoso e ci si
identifica fortemente con i contenuti della propria mente. Ci sono varie forme che il sé
concettualizzato può assumere nella nostra quotidianità. Alcune tra le più frequenti possono
essere le “etichette” che noi stessi ci diamo. Pensiamo, ad esempio, all’essere “il malato”,
“lo sfortunato”, “l’imbranato”. In altre occasioni ancora, il sé concettualizzato può essere
caratterizzato da “fusioni” con alcuni aspetti di sé rigidi e astratti/valutativi. Il sé
concettualizzato è una maschera talmente incollata alla pelle del nostro viso che ci
scordiamo di averla addosso e diventa i nostri occhi, le nostre orecchie e la nostra bocca;
contiene una descrizione complessa di noi stessi, a cui ci siamo affezionati e che presto
diventa così cristallizzato che lo scambiamo per la realtà assoluta. Quindi, ad esempio, un
problema d’ansa si trasforma nel sé concettualizzato “io sono un tipo ansioso” e non
importa quante esperienze io faccia in cui non ho provato quell’ansia forte e spaventosa, io
continuo a descrivermi verbalmente con “io sono un ansioso”. Ciò che l’ACT suggerisce
come controparte virtuosa del sé concettualizzato è il Sé Come Contesto: è un punto d
vista nuovo, talvolta mai sperimentato, in cui impariamo a osservare la nostra esperienza
interna ed esterna da un punto di vista privilegiato, cioè quello di un “osservatore
partecipe, gentile, compassionevole e curioso” della propria esperienza. Ciò che l’ACT
promuove è l’osservazione delle esperienze mentre esse avvengono, tramite uno sguardo
attento e consapevole di autoriflessione della propria esperienza mentre avviene. Questo
potrebbe portare a scoprire che noi stessi possiamo imparare ad osservare la nostra
esperienza mentre avviene, a guardarla in modo curioso e allargare in questo modo
l’orizzonte delle possibilità, delle scelte e riconoscere quale sia la maschera che indossiamo.
5. Mancanza di contatto con i propri valori: con tale espressione si intende l’insieme di
difficoltà legate all’individuazione di ciò che per il singolo individuo è importante e
rende(rebbe) la propria vita significativa e ricca. In taluni casi si può osservare la
confusione e la vacuità degli scopi personali e delle mete individuali. In sostanza, le
persone che presentano difficoltà in questo processo hanno difficoltà a rispondere alla
domanda: “cosa voglio dalla vita?”, oppure “cosa è importante per me?” oppure “quali sono
i miei valori?”. Con il termine valori nell’ACT si intende qualcosa di diverso dagli obiettivi
personali, dalle aspirazioni concrete e dalla morale. Potremmo definire i valori come “long-
term desired qualities of life” (qualità della vita desiderate a lungo termine; Hayes et al.,
2006). I valori sono ciò che motiva le persone al cambiamento, ad affrontare momenti
difficili, scelte che spesso vengono fatte proprio facendoci guidare dai nostri valori. Spesso i
valori sono mete finali, che guidano l’azione impegnata nella vita. Possiamo avvicinarci ai
nostri valori tramite insieme di obiettivi, concreti, fattibili (workable, una delle parole
chiave dell’ACT) e praticabili.
6. Mancanza di attività e impegno per perseguire un valore personale: con questa
espressione si fa riferimento al fenomeno per cui anche quando riusciamo a diventare
consapevoli dei nostri meccanismi dannosi, delle nostre fusioni, delle maschere che
indossiamo e dei momenti di mindlessness, resta ancora un passo importante da fare, e
cioè impegnarsi per agire e per perseguire i propri valori. Gli ostacoli più dannosi a tale
impegno possono essere riassunti in due categorie di comportamenti: impulsività ed
evitamento persistente. Entrambi tali comportamenti portano a vivere una vita
caratterizzata da restrizione delle attività e rigidità del repertorio comportamentale. Fare
sempre le stesse cose, evitare sempre le stesse situazioni, equivale a non fare. La proposta
dell’ACT risiede nel concetto di “azione impegnata”: il termine è usato per definire l’azione
personale guidata dai propri valori, prevede invece che l’individuo “faccia i conti” con le
proprie difficoltà e fragilità. Accogliendo e prendendo contatto con le proprie fragilità, e
guidando le proprie azioni partendo dai valori personali, permette di perseguire una vita
significativa e ricca, non senza sofferenze, ma soddisfacente e scelta. In particolare è
importante per l’ACT il concetto della workability, della “fattibiltà”. Un’azione impegnata e
guidata dai propri scopi deve essere anche fattibile, perseguibile. In atre parole, l’azione
impegnata consiste nello scegliere continuamente di impegnarsi in azioni nella direzione dei
propri valori personali, nonostante le emozioni difficili che si potranno incontrare durante il
percorso.
Valutazione => ad oggi l’ACT si presenta come una terapia capace di affrontare un ampio
spettro di disturbi psicopatologici e molteplici forme di disagio psicologico, pur privilegiando il
trattamento dei disturbi d’ansia, ma nonostante questo i limiti metodologici delle ricerche
presenti richiedono ulteriori approfondimenti prima che l’ACT possa essere consigliata come
trattamento funzionale nei disturbi d’ansia.

LA TERAPIA METACOGNITIVA (Wells)


L’MCT è una terapia a tempo limitato che di solito si svolge tra 8-12 sessioni. La terapia si
svolge con l’introduzione di tecniche ritagliate su misura per le difficoltà del paziente e volte a
cambiare il modo in cui si relaziona con pensieri e che portano sotto controllo il pensiero
stesso. Alcune tecniche sono usate per sfidare le credenze metacognitive (ad es. “Credi che se
ti preoccupi troppo diventerai pazzo” – proviamo a preoccuparci il più possibile per i prossimi 5
minuti e vediamo se c’è qualche effetto”) e strategie come la tecnica di addestramento
dell’attenzione e Detached Mindfulness.
Diversamente da Ellis e da Beck per cui la mente è omogenea e gli stati mentali sono
controllabili in maniera abbastanza efficiente dalla elaborazione consapevole cosciente, il
modello Self-Regulatory Executive Function (S-REF) di Wells descrive la mente secondo tre
livelli (dal basso verso l’alto):
• Processi cognitivi rapidi e irriflessi
• Elaborazione cosciente
• Conoscenza depositata nella memoria a lungo termine (per lo più in forma
metacognitiva)
Il problema non è la minore controllabilità del livello emotivo basso, ma nei livelli superiori e
soprattutto nel livello metacognitivo depositato nella memoria a lungo termine. Le credenze
metacognitive, infatti, per Wells svolgono una funzione utile solo se usate con parsimonia. Lo
scopo generale è scoprire quanto possiamo controllare la nostra mente per abbandonare la
tendenza a rimuginare e a lottare contro pensieri negativi e le sensazioni di disagio che
attraversano la nostra mente. La teoria metacognitiva dei disturbi psicologici si fonda sul
principio che la maggior parte dei disturbi psicologici è causata da uno schema di pensiero
ampliato (extended thinking). Questo schema è chiamato Sindrome Cognitivo Attentiva
(Cognitive Attentive Syndrome – CAS). Si compone di catene di pensieri verbalizzati nella
forma di preoccupazione (worry) e ruminazione, uno schema che concentra l’attenzione su
minacce e strategie di coping che porta ad effetti paradossali. Invece di fermare il pensiero
negativo, lo amplia. La CAS è spinta da credenze di fondo riguardo al pensiero che ricadono
dentro due categorie di credenze: positive (es. Mi devo preoccupare allo scopo di farcela) e
credenze negative (es. certi pensieri sono pericolosi). La terapia metacognitiva si concentra sul
rimuovere la CAS in risposta ai pensieri ed esperienze negative stimolando la consapevolezza
di questo processo e promuovendo un controllo selettivo dello stesso. In questo modo si
mettono in discussione le credenze metacognitive. Alla fine del trattamento, i pazienti sono più
flessibili nelle loro risposte ai pensieri negativi e meno dipendenti dagli schemi mentali
consolidati e utilizzano il controllo cognitivo come strategia di coping delle esperienze
emozionali. La MCT è radicalmente diversa dalle prime CBT (cognitive-Behavioral Therapy): al
cuore della teoria c’è l’idea che i pensieri non sono così importanti. È la relazione delle persone
con quei pensieri ciò che conta. Questo messaggio è l’opposto di quello della CBT, dove i
pensieri negativi automatici sono centrali nei disturbi. La MCT è anche diversa in quanto si
concentra sugli stili di pensiero e regolazione mentali piuttosto che sul contenuto dei pensieri.
Non opera dei controlli di realtà sui pensieri o sulle credenze generali riguardo se stessi e il
mondo. Il focus nella Terapia metacognitiva è ridurre la Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS).
L’azione stessa di indagare e mettere in discussione i pensieri può essere vista come analoga
alla CAS, ma è un’altra forma di pensiero ampliato e non produce direttamente quel tipo di
cambiamento metacognitivo ritenuto necessario nella MCT. Qui, le credenze sono al centro del
trattamento ma solo quelle metacognitive; questi altri schemi sono visti più che altro come
attivatori della CAS o come risultato di quel processo e considerati quindi “epifenomeni”.
La CBT ha iniziato a impiegare alcuni principi della terapia metacognitiva; in questo senso, il
problema è che i confini sono confusi e diventa difficile definire appropriatamente cosa è la
CBT; inoltre, combinare le terapie della CBT con quelle della MCT rischia di risultare
problematico dal momento che sono fondate su posizioni divergenti riguardo come il paziente
dovrebbe confrontare e gestire i propri pensieri.
La metacognizione sta diventando un termine di moda, ma non tutti gli autori stanno usando il
termine correttamente né alla stessa maniera. Alcune terapie cognitive standard che si
concentrano sul pensiero piuttosto che sulle credenze relative al pensiero o sul controllo
cognitivo sono state denominate (erroneamente) metacognitive. Riguardo l’autoriflessività,
questa potrebbe essere non del tutto metacognitiva; pensare a come si potrebbe migliorare la
propria performance sportiva non è metacognizione; pensare a come si potrebbe migliorare la
propria memoria è una auto-riflessione metacognitiva. Il problema con costrutti come empatia
e mentalizzazione è che in certi casi colgono il concetto di metacognizione, altre volte no.
Approccio di Semerari: metacognizione, come osservato da Semerari et al. (2003), si
sovrappone parzialmente a costrutti simili come la Teoria della Mente (ToM)(Baron-Cohen et
al., 1985) e la Mentalizzazione (Bateman e Fonagy, 2004; Allen et al., 2008), ma con alcune
differenze. Rispetto alla ToM, la metacognizione di solito include funzioni mental più
complesse. Inoltre, la metacognizione si riferisce anche alla comprensione emotiva, mentre la
ToM si concentra principalmente sull’attribuzione cognitiva. Rispetto alla definizione generale di
Mentalizzazione data da Bateman e Fonagy, il concetto di Semerari differisce poiché
consideradera la lettura della mente come un’abilità generale creata da diverse subfunzioni che
interagiscono tra loro e che possono essere selettivamente compromesse.
La metacognizione è multi-sfaccettata: ci sono strategie metacognitive come cercare di
controllare i pensieri sopprimendoli, credenze come le credenze positive e negative riguardo ai
pensieri ed esperienze metacognitive come le valutazioni degli stati mentali e delle sensazioni
esperite (felt-sense) come ad esempio l’esperienza metacognitiva di avere una parola “sulla
punta della lingua”. È probabile che ci siano “funzioni” metacognitive che non sono riconducibili
all’esperienza diretta e cosciente, ma agiscono sul pensiero in maniera più automatica. Il
progresso in quest’area dipende dallo sviluppo di modelli che distinguano queste componenti e
che possano stabilire i loro effetti sui disturbi psicologici all’interno di un sistema cognitivo
multi-livello.
La MCT non attinge da pratiche meditative; certe pratiche della meditazione (aumento del self-
focus, reindirizzamento dell’attenzione e tecniche immaginative) non sono strumenti
raccomandati dalla MCT per raggiungere un cambiamento. La Detached Mindfulness si riferisce
a uno stato mentale specifico e ben definito che è stato teorizzato e introdotto nel 1994; con
mindfulness noi intendiamo consapevolezza dei pensieri (awereness of thoughts) che identifica
la specifica consapevolezza metacognitiva e l’abilità di distinguere un pensiero negativo dalla
preoccupazione (worry) conseguente o dalla risposta ruminativa a quel pensiero. Per Detached
Mindfulness si intende il fermare o disconnettere ogni risposta a quele pensiero ed esperire il
sé come separato dal pensiero e semplice osservatore di esso; questo è molto più specifico del
concetto di mindfulness così come è usato nella meditazione. Diversi professionisti della
meditazione propongono differenti descrizioni di cosa intendono per mindfulness: può essere
consapevolezza del respiro, o l’esperienza del momento presente o consistere di uno stato
mentale non giudicante. Per la MCT uno dei limiti degli approcci basati sulla meditazione per lo
sviluppo delle terapie è che mancano di un impianto teorico sufficientemente rigoroso e che
questi costrutti non hanno la precisione necessaria per collegarsi in modo soddisfacente ai
processi patologici. La Detached Mindfulness è una tecnica che ha uno specifico obiettivo e che
non è una componente necessaria della MCT. La MCT è un approccio terapeutico generale che
nel principio può essere applicato a un ampio spettro e forse a tutti i disturbi psicologici.
Ci sono gruppi di ricercatori che stanno testando l’efficacia del trattamento per i disturbi
d’ansia, la depressione, le psicosi, i disturbi alimentari, le dipendenze, i disturbi borderline di
personalità e per le conseguenze psicologiche dovute a problemi di salute. Le nuove aree di
indagine includono l’applicazione a nuovi gruppi di pazienti come bambini e adolescenti e nuovi
sviluppi nei campi dei disturbi di personalità e delle psicosi. Un’ area recente è la terapia MCT
di gruppo che offre l’opportunità di terapie alternative brevi e altamente convenienti (cost-
effective). Aree da esplorare sono i correlati neurocognitivi delle tecniche MCT come l’attention
training. Il gruppo di ricerca del Terzocentro di Psicoterapia Cognitiva ha elaborato la Scala per
la Valutazione della Metacognizione (SVaM) applicabile ai trascritti di seduta; lo strumento
risulta molto utile per valutare le disfunzioni metacognitive negli studi di processo. È stata
inoltre elaborata l’intervista per la Valutazione della Metacognizione (IVaM): si tratta di
un’intervista semistrutturata che analizza le abilità che costituiscono il funzionamento
metacognitivo (monitoraggio, integrazione, differenziazione e decentramento).
Valutazione => gli studi clinici (inclusi gli RCT) hanno riscontrato che l’MCT produce
miglioramenti clinicamente significativi in una vasta gamma di disturbi mentali, sebbene, dal
2014, il numero totale di soggetti studiati sia piccolo e una meta-analisi ha concluso che sono
necessari ulteriori studi prima di poter trarre delle conclusioni per quanto riguarda l’efficacia.
Un numero speciale della rivista Cognitive Therapy and Research è stato dedicato ai risultati
della ricerca MCT.

COSTRUTTIVISMO
Secondo il nuovo Dizionario APA (VandenBos, 2007), il Costruttivismo è la prospettiva teorica,
in cui le persone costruiscono attivamente la loro percezione del mondo e interpretano gli
oggetti e gli eventi che li circondano in termini di ciò che già conoscono. In questo modo il loro
attuale stato di conoscenza guida l’elaborazione, influenzando in modo sostanziale il modo in
cui vengono acquisite nuove informazioni (p.221).
Con il termine costruttivismo si indica un orientamento, condiviso da diverse discipline,
secondo il quale la realtà non può essere considerata come qualcosa di oggettivo, indipendente
dal soggetto che la esperisce, perché è il soggetto stesso che crea, costruisce, inventa ciò che
crede che esista.
George Kelly viene considerato il padre del costruttivismo. La Teoria dei Costrutti Personali
(PCT) (1955) definisce i costrutti personali come dimensioni bipolari in base alle quali le
persone organizzano le proprie esperienze e anticipano e predicono il comportamento umano.
L’individuo viene visto come uno scienziato che continuamente mette alla prova le proprie
costruzioni e, se necessario, le modifica. La PCT si focalizza sull’influenza che il mondo esterno
esercita sui costrutti personali. Gli elementi utilizzati dalla persona per definirsi vengono
chiamati costrutti centrali ed essendo aspetti dell’identità personale sono difficili da modificare
anche con la psicoterapia. Sebbene in questo approccio vengano presi in considerazione fattori
sociali e relazionali, l’individuo è sempre visto come fonte principale delle proprie costruzioni.
La PCT considera il significato come un processo personale e l’individuo come un sistema
chiuso di significati. Questa concezione è legata alla visione della persona come sistema
autonomo, cioè tutto ciò che crediamo di sapere sul mondo deriva dalle nostre esperienze in
relazione all’ambiente. Il mondo in questo senso non viene visto solo come fonte di stimoli che
possono entrare e uscire dalla nostra coscienza, ma è una fonte di possibilità e limitazioni
offerte dalla nostra struttura. Considerando la persona come forma di movimento, Kelly cerca
di spiegare la direzione del cambiamento individuale con il concetto di anticipazione: i processi
personali sono psicologicamente canalizzati dai modi in cui la persona anticipa gli eventi. Le
persone, sulla base di qualsiasi costruzione, tendono ad anticipare gli eventi per poi valutare se
la loro anticipazione sia stata validata o meno; successivamente, se necessario, modificano la
loro costruzione. La fine di questo processo è seguita da una nuova anticipazione che porta ad
un nuovo ciclo esperienziale. In questa visione, il comportamento non viene visto come
risposta o conseguenza, ma come esperimento.
La svolta in direzione costruttivista in Italia è rappresentata da Guidano e Liotti nella seconda
metà degli anni ’80 che, influenzati dalla teoria evolutiva di Piaget e dalla teoria
dell’attaccamento di Bowlby affermano:
• L’essere umano è un attivo costruttore della propria esperienza e della storia personale
di sé e del mondo;
• Si assume il primato delle emozioni rispetto alle cognizioni.
Abbiamo varie concezioni di Costruttivismo:
➢ Costruttivismo Epistemologico: crede nell’esistenza di una realtà esterna,
indipendente dall’osservatore, conoscenza della quale è possibile solo tramite la sua
costruzione; la conoscenza è quindi un insieme di costruzioni umane che rappresentano
delle euristiche utili per capire il mondo. Le persone non sanno se le loro costruzioni
corrispondano ad una realtà indipendente, ma sanno che sono adatte alla loro
situazione, perciò l’individuo è visto come un sistema cognitivamente chiuso.
➢ Costruttivismo Ermeneutico: non si crede nell’esistenza di una realtà indipendente
dall’osservatore, ma la conoscenza è vista come il prodotto del linguaggio tra una
comunità di osservatori; nell’approccio ermeneutico sono centrali il ruolo del linguaggio
e la comunicazione per capire come i sistemi di conoscenza si sviluppino e si
mantengano.
➢ Costruttivismo Radicale: i costruttivisti radicali come il filosofo Ernst von Glaserfeld
(1984) e il pioniere della psicoterapia, Paul Watzlawick (1984) del Mental Research
Institute sostengono che tutto ciò che possiamo sapere del mondo sono i prodoti dei
processi sensoriali/percettivi che prendono posto nei nostri corpi. L’osservatore
costruisce in solitudine la realtà intorno a sé, per cui si parla di relazione diadica:
osservatore-realtà esterna. Il costruttivismo radicale si interroga su come gli individui
costruiscono la realtà attraverso i processi cognitivi, i quali sono studiati in relazione al
contesto in cui hanno luogo. All’interno del costruttivismo radicale si possono
individuare due teorie: 1) la teoria di Von Glasersfeld enfatizza l’abilità degli uomini
nell’utilizzare le costruzioni che essi creano per vivere, indipendentemente dal fatto che
queste corrispondano o meno ad una realtà esterna. Infatti l’autore considera la
cognizione umana come un sistema chiuso ma al tempo stesso adattivo, in quanto le
persone sono capaci di conoscere quando le loro costruzioni falliscono e non solo
tramite una verità oggettiva; 2) al centro della teoria di Marutana è presente il concetto
di autopoiesi: rete di processi di creazione, trasformazione e distruzione di componenti
che, interagendo tra loro, sostengono e rigenerano lo stesso sistema, che così si
autodefinisce, riproducendosi dal proprio interno. Inoltre, viene introdotto il concetto di
determinismo strutturale: i cambiamenti negli organismi sono determinati dalla loro
struttura. L’individuo, essendo un sistema chiuso, non viene in diretto contatto con la
realtà, ma l’esistenza dell’organismo è caratterizzata da continui aggiustamenti
strutturali definiti “naturaldrifts”.
➢ Costruttivismo Sociale: la visione del costruzionismo sociale deve la sua prima
eredità intellettuale al lavoro di Vygotsky e altri. Gergen è forse il più noto psicologo
americano che scrive di costruzionismo sociale. La caratteristica essenziale del
costruzionismo sociale è la nozione secondo cui la nostra costruzione della realtà è il
risultato del significato di attività che avvengono nelle nostre relazioni con altre persone
e con i nostri contesti culturali/ambientali/linguistici. I costruzionisti sociali, quindi, si
spingono oltre il costruttivismo visto precedentemente, invocando la natura sociale della
creazione di significati umani. Sebbene il linguaggio sia spesso visto come il costituente
primaio del costruzionismo sociale, esso è solo un aspetto del contesto
culturale/biologico che influenza il significato della costruzione. I costruzionisti sociali,
come i costruttivisti radicali, preferiscono evitare di impantanarsi nel dibattito
ontologico nell’esistenza della realtà. Sono più interessati alla comprensione
epistemologica di come ci si adatta alla varietà di realtà che costruiamo. I costruzionisti
sociali enfatizzano le pratiche relazionali, conversazionali e sociali come origine della
vita psichica dell’individuo. Nel costruzionismo sociale l’osservatore costruisce la realtà
a partire da una rete di relazioni in cui gli aspetti cognitivi, emotivi ed affettivi sono
elementi costitutivi, intrecciati tra loro e con gli aspetti sociali. Nel costruzionismo
sociale tutta la conoscenza è labile, in quanto negoziata tra gli individui all’interno di un
determinato contesto, quindi cambia in base alle circostanze. Per questo motivo non si
parla di personalità stabile, ma di personalità socialmente costruita: esistono diversi Sé
che originano da come le persone vengono viste, dalle attività sociali che praticano e
dalle loro relazioni. Non si parla quindi di qualità, ma di identità. E’ proprio questa
prospettiva sociale che supera i riduzionismi derivati dalla considerazione di un
osservatore che costruisce in solitudine il mondo circostante.
➢ Approccio Narrativo: gli approcci narrativi (o storytelling) sono nati per comprendere
l’azione umana e sono recentemente diventati popolari in diverse aree della psicologia.
Trattare il pensiero umano come esempio di elaborazione di una storia offre numerose
implicazioni per molti campi della teoria psicologica, della ricerca e della pratica. Diversi
autori vedono lo sviluppo dell’identità come una questione di costruzione di una storia,
la psicopatologia come esempi di storie di vita fallita, e la psicoterapia come esercizi
nella riparazione della storia. L’approccio narrativo considera la psicoterapia come
elaborazione della storia di vita. In quest’ottica, il racconto è quel mezzo attraverso il
quale l’uomo riesce ad organizzare la sua esperienza ed interpretare gli avvenimenti,
strutturandoli in storie. In questo senso, il racconto è una forma convenzionale che
viene trasmessa culturalmente, il mezzo attraverso il quale costruiamo la nostra realtà
e stabiliamo il nostro rapporto con gli altri. Questa visione riprede il modello del
costruzionismo sociale che vede la psicoterapia come un processo interpersonale e
sociale volto ad elaborare e revisionare gli stili di vita.
➢ Costruttivismo Intersoggettivo: dall’influenza di Von Glasersfeld e con il graduale
allontanamento dal cognitivismo razionalista, deriva il modello cognitivo-costruttivista,
in seguito definito costruttivismo intersoggettivo. Uno dei presupposti di base del
modello è il concetto di “co-creazione dell’esperienza intersoggettiva” che tramite
momenti di incontro e momenti affettivi intensi tra paziente e terapeuta, permette un
reciproco riconoscimento di sensazioni, motivazioni, intenzioni e scopi. La relazione
terapeutica viene considerata un fenomeno intersoggettivo che si crea nel setting in
quella dimensione del “Tra” o del “Noi”, ovvero in quello spazio tra l’io e il tu che non
appartiene a nessuno dei due membri della relazione, ma solo ed esclusivamente alla
relazione stessa in termini di complementarietà.

TERAPIA DELLA GESTALT (Fritz Perls)


Preghiera della Terapia Gestalt: “Io sono io. Tu sei tu. In non sono al mondo per soddisfare le
tue aspettative. Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative. Io faccio la mia cosa.
Tu fai la tua cosa. Se ci incontreremo sarà bellissimo; altrimenti non ci sarà stato niente da
fare”.
Friederich Salomon Perls nacque a Berlino l’8 Luglio del 1893 in un ghetto ebreo. Ebbe due
sorelle maggiori, Else e Grete. Suo padre, Nathan, era un commerciante di vini ed era spesso
fuori casa per lavoro. Sua madre, Amalia, proveniva da una famiglia della piccola borghesia e
trasmise al figlio un profondo interesse per l’arte, che lo accompagnò per tutta la vita. In
un’intervista, Grete descrisse l’infanzia del fratello usando il termine “selvaggio”. Era un
bambino difficile, seppur un ottimo studente. Dopo la scuola primaria fu iscritto al liceo
Mommsen di Berlino, un severo centro educativo in cui si respirava una costante aria di
antisemitismo. Perls fu espulso all’età di 13 anni e per punizione lavorò come apprendista in
una pasticceria. La relazione di Perls con il padre fu sempre piuttosto conflittuale. Lo definì
come un uomo ipocrita e dalla doppia morale che odiava la madre tradendola con altre donne.
Il rifiuto nei confronti del padre era talmente forte che Perls si rifiutò di andare al suo funerale.
Di sua iniziativa, Fritz Perls riprese gli studi in una scuola ad indirizzo umanistico. In quel
periodo conobbe Max Reinhardt, un regista di teatro che coltivò in lui la passione per
quest’arte, rimasta viva fino alla sua morte. In seguito, iniziò gli sudi in medicina. Con l’inizio
della Prima Guerra Mondiale, Perls venne in contatto con la Croce Rossa: quest’esperienza lo
segnò profondamente anche se ne parlò soltanto molti anni dopo in una delle sue biografie. Nel
1920 ottenne la laurea in Medicina a Berlino e si specializzò in seguito in neuropsichiatria. Poco
dopo conobbe il filosofo Friedlander, la cui influenza fu determinante per le sue opere. Nel
1923 decise di andare a New York, ma fu costretto a tornare perché non gli convalidarono il
titolo a causa della sua scarsa conoscenza dell’inglese. La frustrazione che quest’evento causò
in lui lo spinse ad entrare in psicoanalisi con Karen Horney, decisione che gli cambiò la vita.
Perls rimase affascinato dalla psicoanalisi e si impose come obiettivo quello di diventare
analista. Tuttavia, dovette trasferirsi a Francoforte per occupare il posto di assistente accanto a
goldstein, che lavorava con i postulati della psicologia Gestalt. Lì conobbe Laura Possner,
studentessa che due anni dopo sarebbe diventata sua moglie, nonostante la sua famiglia e la
sua psicoanalista di allora, Clara Happel, fossero contrari alla relazione. Perls aveva 36 anni e
Laura 24. Era il 1930. Un anno dopo iniziò la sua carriera di analista a Vienna e nel 1928
divenne terapeuta a tempo pieno. Tra quella data e il 1930, Perls fu in analisi con Harnick e
Reich. Quest’ultimo era stato discepolo dello stesso Freud, distaccandosi però dalle sue teorie.
Buona parte del pensiero sviluppato successivamente da Perls venne ispirato proprio da
quest’ultimo.
In seguito all’ascesa al potere di Hitler, Perls fuggì in Olanda, dove però non gli fu concesso di
lavorare. Dopo un periodo travagliato con la moglie Laura e la figlia appena nata, Ernst Jones
lo aiutò a trovare lavoro come psicoanalista didattico a Johannesburg, in Sudafrica. Insieme a
Laura, fondarono l’Istituto Sudafricano di Psicoanalisi. Un congresso a Praga nel 1936 in cui
venne criticato gli causò un forte malessere che lo costrinse ad allontanarsi dalla psicoanalisi
tradizionale. Con l’aiuto della moglie, Perls cominciò a dare vita e forma ai suoi progetti. Nel
1942 si trasferì a New York e pubblicò il suo primo libro intitolato “L’io, la fame e
l’aggressività”, una rivisitazione della teoria e del metodo freudiano. Quattro anni dopo fondò il
“Gruppo dei Sette” con altri intellettuali.Nel 1951 apparve il libro Terapia della Gestalt:
eccitamento e accrescimento della personalità umana (detto “La Bibbia”) grazie anche al
contributo del poeta Paul Goodman e di Ralph Efferline (un suo paziente).
Qui e ora, consapevolezza e responsabilità costituiscono il nucleo dei principi su cui si basa la
visione filosofico esistenziale e la prassi della terapia gestalt, sono aspetti e sfaccettature di un
unico modo di essere al mondo. Essere responsabile (capacità di risposta) comporta essere
presenti, essere qui. Essere veramente presente significa essere consapevole. La
consapevolezza, a sua volta è presenza, realtà ed è una condizione incompatibile con l’illusione
di irresponsabilità tramite la quale evitiamo di vivere le nostre vite. Si tratta di un testo
complesso, non chiarissimo, che raccoglie tesi della Psicologia della Gestalt, della psicoanalisi,
della fenomenologia, dell’esistenzialismo e del pragmatismo americano. Dopo un viaggio in
Giappone, Perls aggiunse anche alcuni postulati del Buddismo.
Il destino teorico della Terapia della Gestalt fu complesso. Perls nel 1952 fondò il Gestalt
Institute of New York, istituto nel quale si terrà una serie di laboratori di psicoterapia. Nel 1956
Perls si separò dalla moglie. Mentre Laura e Paul Goodman rimasero federe ai principi iniziali,
Perls vi si distaccò e finì per incorporare alla teoria principi dello Zen e dei kibbutz israeliani,
comportandosi più come un guru che come un terapeuta. Il momento storico in cui Fritz Perls e
le tecniche che renderanno famosa la Terapia della Gestalt hanno avuto grande seguito anche
al di fuori degli Stai Uniti è stato verso la fine degli anni ’60, in particolare grazie ai suoi
seminari, tenuti ad Esalen (Big Sur, in California). In quegli anni, Perls ha avuto una popolarità
mediatica, grazie anche al periodo molto aperto all’innovazione e alla sperimentazione umana
(dagli hippy alle contestazioni giovanili universitarie, fino all’introduzione in Occidente di
pratiche spirituali e di ricerca di derivazione orientale).
Perls è morto a Chicago il 14 Maggio 1970 all’età di 77 anni a causa di un infarto di ritorno da
un viaggio in Europa.

Terapia del Con-tatto emotivo => può essere applicata ad ogni contesto: terapia di coppia,
terapia individuale, terapia familiare…. Pone l’accento sulla presa di coscienza dell’esperienza
attuale, il qui ed ora, che ingloba l’eventuale insorgere di un vissuto arcaico, restituisce dignità
al sentito emozionale e corporeo, favorisce un contatto autentico con gli altri e con se stessi,
evidenzia i blocchi, smaschera gli evitamenti, le paure, le inibizioni e le illusioni. Non mira
solamente a spiegare le origini delle difficoltà, bensì a far sperimentare un percorso per nuove
soluzioni. Ricerca non tanto il “sapere perché”, ma più che altro il “sentire come”. Si colloca
nella cosiddetta corrente “umanista”, la “terza via” rispetto alla psicoanalisi e al
comportamentismo.

ANALISI TRANSAZIONALE (Eric Leonard Bernstein – Eric Berne):


▪ Nato nel 1910 a Montreal
▪ Laurea in Medicina e specializzazione in Psichiatria
▪ 1941 Training psicoanalitico con Federn
▪ Psichiatria militare dal ’43 al ’46 nella II Guerra Mondiale
▪ 1947 Seconda analisi con E. Erikson
▪ 1956 Viene rifiutato dagli Istituti Psicoanalitici
▪ 1958 Inizia i Seminari in Psichiatria Sociale di San Francisco
▪ 1962 Pubblica l Bollettino di Analisi Transazionale (ITAA)
▪ Muore nel 1970 per un attacco di cuore

Il sistema teorico e di terapia dell’Analisi Transazionale (AT) è caratterizzato da 4 aree distinte:


 Analisi strutturale
 Analisi delle transazioni
 Analisi dei giochi
 Analisi del copione

Assunti => ogni persona è OK; ogni persona può pensare e autodeterminarsi; le decisioni
prese possono essere modificate.
Rispetto alla pratica => uso chiaro e semplice del linguaggio; approccio contrattuale.
Metodo contrattuale => “Contratto è un esplicito impegno bilaterale per un ben definito corso
d’azione” Berne, 1966.
• Contratto Amministrativo: regole del setting
• Contratto Professionale: stabilisce le mete del cambiamento
• Contratto Psicologico: aspettative, messaggi ulteriori

Definizioni
Teoria:
• Processi intrapsichici (Stati dell’Io, copione)
• Processi interpersonali (AT propriamente detta, analisi dei giochi)
• Psicopatologia (ripetitività dei comportamenti)
Metodologia => basata sulla contrattualità, propone strategie per il conseguimento
dell’Autonomia dal copione.

L’Analisi Transazionale è una teoria psicologica e sociale caratterizzata da un contratto


bilaterale di crescita e cambiamento.
Come stipulare un contratto efficace:
• Un obiettivo di contratto deve essere enunciato in termini positivi, mai per “non fare
qualcosa”
• Il contratto deve essere un obiettivo raggiungibile data la situazione e le risorse attuali.
• L’obiettivo deve essere specifico e osservabile.

Aree di Applicazione => clinica, educativa, organizzativa, counseling.


La struttura della personalità:
 Stato dell’Io GENITORE => è un insieme di sentimenti, pensieri e comportamenti
incorporati dai genitori reali o figure autorevoli.
 Stato dell’Io ADULTO => è un insieme di sentimenti, pensieri e comportamenti coerenti
con la situazione, qui ed ora.
 Stato dell’Io BAMBINO => è un insieme di sentimenti, pensieri e comportamenti che
risalgono alla nostra infanzia.
Stati dell’Io:
➢ Genitore: definisce, si prende cura, pone limiti, guida, protegge, impone, comanda,
fissa regole, insegna, critica, giudica. Dice: “dovresti…”, “non dovresti…”, “stai
attento…”, “sarebbe meglio…”
➢ Adulto: raccoglie dati e fatti sullo stato presente, programma, pianifica, prende
decisioni, stima le probabilità di riuscita. Si esprime preferenzialmente con domande:
“Perché?”, “Come?”, “Quando?”.
➢ Bambino: reagisce all’ambiente in modo affettivo: arrabbiato, gioioso, spaventato,
ribelle, creativo, spontaneo, curioso, fiducioso, allegro, depresso. Usa espressioni del
viso e preferisce verbi che descrivono emozioni.
Stati dell’Io FUNZIONALI:
• GN = Genitore Normativo o Critico, sia positivo che negativo
• GA = Genitore Affettivo sia positivo che negativo
• BA = Bambino Adattato sia positivo che negativo
• BL = Bambino Libero sia positivo che negativo

Riconoscimento e diagnosi degli Stati dell’Io


• Diagnosi comportamentale: dal comportamento osservato si valuta lo Stato dell’Io
attuale.
• Diagnosi sociale: si formula osservando lo Stato dell’Io che la persona suscita negli altri.
• Diagnosi storica: si formula collegando un comportamento attuale ad uno del passato.
• Diagnosi fenomenologica: si formula osservando la persona rivivere il momento in cui
sperimentò una determinata esperienza.
Le Transazioni => quando conversiamo effettuiamo una serie di comunicazioni. In Analisi
Transazionale questo flusso di comunicazioni è chiamato catena di transazioni. Una transazione
è dunque “l’unità fondamentale del discorso sociale” (Berne). Una transazione è costituita da
uno stimolo transazionale più una risposta transazionale che avviene tra stati dell’Io specifici.
Per analizzare le transazioni abbiamo bisogno di 6 cerchi che diagrammano le strutture delle
due persone e almeno due vettori che indicano lo stimolo e la risposta.
Ci sono tre tipi di transazioni:
➢ Transazioni complementari => una transazione complementare è quella in cui i vettori
transazionali sono paralleli e lo stato dell’Io cui si rivolge lo Stimolo è uguale allo stato
dell’Io che emette la Risposta. 1° regola della comunicazione: finchè le transazioni
rimangano complementari, la comunicazione può continuare all’infinito.
➢ Transazioni incrociate => una transazione incrociata è quella in cui i vettori
transazionali non sono paralleli e lo Stato dell’Io cui si rivolge lo Stimolo non è uguale
allo Stato dell’Io che emette la Risposta. 2° regola della comunicazione: quando una
transazione è incrociata si ha una interruzione nella comunicazione ed è probabile che
segua qualcosa di diverso, in termini di stati dell’Io coinvolti.
➢ Transazioni ulteriori => in una transazione ulteriore sono presenti
contemporaneamente due messaggi: un messaggio manifesto (stimolo sociale) e un
messaggio nascosto (stimolo psicologico). 3° regola della comunicazione: l’esito di una
transazione ulteriore è determinato dal livello psicologico della comunicazione, non da
quello sociale, e ad esso è legata la risposta comportamentale.

Transazioni e regole della comunicazione


• Complementari: la comunicazione può continuare all’infinito.
• Incrociate: interruzione nella comunicazione, probabilmente segue qualcosa di diverso.
• Ulteriori: l’esito è determinato dal livello psicologico della comunicazione.

Le Carezze => una “carezza” è un’unità di riconoscimento, una risposta al nostro bisogno di
riconoscimento da parte degli altri. Le carezze possono essere positive (percepite come stimoli
piacevoli) o negative (stimoli spiacevoli per chi le riceve).
Le carezze possono essere:
o Verbali: “Ti voglio bene”
o Non verbali: avvicinarsi a una persona e darle una pacca sulle spalle
o Positive: “Mi piaci”
o Negative: “Non ti posso vedere”
o Condizionate: “Ti compro un gelato se prendi un bel voto a scuola”
o Incondizionate: “Ti compro un gelato”
Steiner nell’articolo sull’economia delle carezze individua 5 regole restrittive riguardo alle
carezze (trasmesse dai genitori) che costituiscono la base della personale economia di carezze
di ciascuno: non dare carezze; non chiedere carezze quando ne hai bisogno; non accettare
carezze anche se ne vuoi; non rifiutare carezze quando non ne vuoi; non dare carezze a te
stesso.
La strutturazione del tempo => possiamo considerare il bisogno di struttura come
l’estensione dei precedenti bisogni di stimoli e di carezze. Corrisponde al bisogno di definire
una struttura temporale all’interno della quale quegli stimoli e quelle carezze possano essere
scambiati. Il modo in cui la persona struttura il suo tempo dipende dal modo in cui si sente con
sé stessa e con gli altri.
1. Isolamento: è il ritiro della persona dalle situazioni sociali, ha valenza positiva quando
soddisfa il bisogno di ricaricarsi, concentrarsi per riflettere ecc… ed è scelto; ha valenza
negativa quando la persona fa questa scelta come ripiego bloccandosi nel fare ciò che
desidera.
2. Rituali: sono scambi stereotipati, prevedibili, come le formule di saluto: “Ciao, come
stai?”, “Bene e tu?”. L’unità degli scambi rituali è la carezza.
3. Passatempi: sono come i rituali anche se prevedono transazioni meno stereotipate.
Sono programmabili da tutti e tre gli Stati dell’Io e di solito sono focalizzati su
argomenti o interessi di mutua accettazione.
4. Attività: è una strutturazione del tempo a programmazione Adulta che si basa su una
serie di transazioni complementari ed è finalizzata all’intervento pratico sulla realtà
esterna. Di solito si riferisce al lavoro e ali hobbies.
5. Giochi: sono modalità relazionali apprese per ricevere attenzioni che pur non
completamente soddisfacenti sono le più sicure poiché conosciute; sono riproposizioni di
strategie infantili, non più adatte nel qui ed ora, che hanno lo scopo di ottenere carezze.
6. Intimità: è uno scambio di espressioni affettive, libero da giochi, è una modalità di
relazione che prevede l’assenza degli altri modi di passare il tempo.

TEORIA E PRATICA CLINICA NEGLI APPROCCI SISTEMICO-FAMILIARI


La Teoria Sistemica è stata formulata da Ludwig von Bertalanffy, un biologo austriaco che
faceva parte della scuola d Palo Alto e in seguito del Circolo di Vienna. Il Sistema:
1. È un’unità intera e unica;
2. È composto da parti in relazione tra loro e tendenti all’equilibrio;
3. Nel sistema l’intero risulta diverso dalla semplice somma delle parti;
4. Nel sistema qualsiasi cambiamento in una sua parte influenza l’intero sistema nel suo
insieme;
5. Ogni elemento di un sistema è in relazione con gli altri elementi, e ha una ragione
d’essere per la specifica funzione che svolge;
6. Comportamenti, ruoli e funzioni diverse concorrono a generare la proprietà Emergente
del sistema, che è una caratteristica superiore alla somma delle funzioni;
7. Gli attributi fondamentali di un sistema sono: comunicazione ed elaborazione
dell’informazione, adattamento al cambiamento (auto-regolazione), auto-
organizzazione e automantenimento.
La teoria sistemica è stata applicata a diveros ambiti scientifici, come la cibernetica, la
psicologia, la sociologia e la meccanica.
In Italia: a Milano la terapia familiare sistemica nasce da un’équipe di psicoanalisti guidati da
Mara Selvini Palazzoli e si rivolge anche alle famiglie con pazienti anoressiche. Nello stesso
periodo, il primo gruppo romano, fondato da Luigi Cancrini, si lega maggiormente alle idee
strategiche-strutturali di Haley e Minuchin. Maurzio Andolfi inizia a operare con il primo gruppo
romano nel 1969, ma se ne distacca nel 1972. Il Milan Approach della Selvini Palazzoli, si ispira
all’antropologia di Gregory Bateson e ai nuovi modelli epistemologici noti come gruppo di palo
Alto, la cibernetica, il costruttivismo e la teoria della complessità.
Milan Approac, struttura delle sedute => cinque fasi: preseduta, seduta, discussione della
seduta con l’equipe, conclusione della seduta e discussione delle reazioni della famiglia al
commento o alla prescrizione, fino alla descrizione dettagliata delle tecniche e prescrizioni
(come la connotazione positiva, i rituali familiari, le tecniche per recuperare gli assenti e quelle
per aggirare la disconferma, ecc.). il comportamento sintomatico serve, paradossalmente, a
mantenere l’omeostasi della famiglia. È necessario un intervento controparadossale per
sostituirla con una più funzionale.
Evoluzione => l’approccio milanese ha subito l’influenza del pensiero della complessità e del
costruttivismo; avvicinamento alle posizioni della narrativa e del costruzionismo sociale; critica
verso il linguaggio della psichiatria; idea che la realtà non esista in quanto tale, ma si crei
piuttosto nel consenso sociale e nel linguaggio; terapia narrativa di Michael White e David
Epston; Reflecting Team di Tom Andersen.
La metafora della narrazione può essere usata per spiegare il processo in divenire della
costruzione delle nostre mappe. Le narrazioni ce noi facciamo di noi stessi e del mondo
descrivono le nostre mappe nel loro modificarsi nel tempo.

Il Setting classico in Terapia familiare => dovendo prevedere la partecipazione di interi


nuclei familiari e del terapeuta con eventuale co-terapeuta, deve avere delle dimensioni
congrue per ospitare anche 6-7 persone contemporaneamente. Arredamento semplice,
comode sedie messe in cerchio; in mezzo al cerchio può esserci un tavolino basso; le persone
devono poter sperimentare interazioni dirette, senza ostacoli. Le sedie devono essere
facilmente spostabili poiché il terapeuta può, durante gli incontri, chiedere ai pazienti di
spostarsi, di alzarsi, di cambiare sedia (gli spazi e le distanze tra le persone in seduta sono
anche spazi e distanze “psicologiche” che il terapeuta può cercare di modificare anche
fisicamente con il suo intervento). In alcuni interventi può essere opportuno anche escludere le
sedie (ad esempio in un momento di gioco con i bambini presenti). Importanza della presenza
dello specchio unidirezionale, che divide la stanza di terapia da un’altra stanza: i pazienti
vedono uno specchio, mentre chi è nell’altra stanza può vedere ciò che accade durante la
seduta. Questo strumento viene utilizzato soprattutto nelle terapie con supervisione diretta in
cui un altro psicoterapeuta osserva ciò che accade da un punto di vista esterno, potendo così
notare eventuali passaggi poco chiari, fasi di impasse della seduta o semplicemente elementi
che i terapeuti in seduta possono aver trascurato. Il supervisore può chiamare il terapeuta
attraverso un interfono che collega le due stanze e dare le indicazioni che ritiene opportune. Le
due stanze devono essere collegate attraverso un impianto audio che permetta anche di
ascoltare ciò che viene detto. Di grossa utilità è anche la possibilità di videoregistrare le sedute
per poter essere riviste e analizzate dai terapeuti coinvolti (terapeuta, co-terapeuta,
supervisore). In genere i pazienti, dopo essere stati informati della presenza del supervisore e
averlo conosciuto prima della seduta, non sono poi disturbati, ma non è escluso che il co-
terapeuta possa partecipare a fasi della seduta.
• Orientamento sistemico-familiare: caratterizzato dalla famiglia come sistema
transazionale; presuppone che gli eventi stressanti e i problemi di un singolo membro
influenzino l’intera famiglia; la risposta della famiglia determina a sua volta un
adattamento funzionale o disfunzionale.
• Orientamento biopsicosociale: complessa interazione tra individuo e famiglia; la
famiglia, sistema aperto, si evolve ed è inserita in un contesto socio-culturale più
ampio; le disfunzioni vanno comprese includendo il contesto; la famiglia ha il potenziale
per favorire un adattamento ottimale.
• Terapia familiare: gli individui possono essere visti insieme e separatamente; in che
modo i membri della famiglia possono contribuire alla situazioni problematiche e/o
contribuire ai cambiamenti necessari; ogni azione è anche una reazione; sequenza
d’interazione (circoli viziosi e virtuosi); posizione non neutrale e non colpevolizzante;
non etichettamento.

GENOGRAMMA
Conosciuto anche come studio di McGoldrick-Gerson, è un disegno che rappresenta un insieme
di persone in relazione tra loro e che condividono la storia familiare. Nel genogramma sono
rappresentate le persone (con i dati identificativi essenziali: genere, nome ed età), i legami
relazionali che le uniscono e la generazione di appartenenza. Nel genogramma sono indicati
anche momenti significativi della storia familiare (nascite, morti, matrimoni, separazioni, ecc.).
Un genogramma rappresenta almeno tre generazioni: nonni, genitori e figli; spesso le
generazioni rappresentate diventano quattro o anche più, man mano che il lavoro con la
famiglia procede e i diversi personaggi cominciano ad apparire nella loro significatività. Il
genogramma, focalizzando l’attenzione delle relazioni e sulla funzionalità del sistema familiare
ne presenta un’immagine che è allo stesso tempo attuale, storica ed evolutiva. L’attualità di
questo strumento deriva dal fatto che esso permette di guardare, secondo una prospettiva che
fa riferimento al presente, al significato che possono avere nel qui ed ora le vicende che hanno
riguardato più generazioni. La sua storicità, dal momento in cui la memoria diviene attuale, ci
permette di individuare le linee importanti che hanno guidato i comportamenti di un singolo
individuo e/o del suo sistema familiare.Mentre l’aspetto evolutivo del genogramma consiste nel
fatto che la rilettura della propria storia familiare, che questo strumento consente dal soggetto,
porta ad una riappropriazione di elementi significativi e al recupero di una più attenta memoria
storica, che può permettergli, una volta divenuto cosciente, di elaborare per sé, sulla base di
tutti gli elementi acquisiti, un migliore progetto di vita.
Il genogramma è uno strumento che finora è stato utilizzato principalmente dalla terapia
familiare o di coppia. Questa tecnica tende a visualizzare le rappresentazioni interne che dalla
famiglia hanno i singoli individui; inoltre è usata come momento di chiarificazione delle
tematiche relazioni; come mezzo per sbloccare la comunicazione all’interno del gruppo
familiare o per coinvolgere l’intero sistema nel processo terapeutico.
Murray Bowen, nella sua pratica clinica, si serve del genogramma per individuare le strutture
triangolari presenti in una famiglia, il loro modo di evolversi o di ripresentarsi da una
generazione all’altra. La possibilità di rilevare le alleanze o distanze relazionali gli permette di
valutare il grado di “fusione emozionale” o di “disintegrazione” esistente tra i membri di una
famiglia e di programmare un appropriato intervento terapeutico. Attraversi lo studio di alberi
genealogici di diverse famiglie, risalenti a periodi dai cento ai trecento anni, Bowen ha
evidenziato l’analogia di certi processi, individuando una trasmissione di caratteristiche
familiari, definite “modelli di base generalizzabili”, da una generazione all’altra, che lo hanno
portato a considerare la malattia psichica come il risultato di un processo plurigenerazionale
che trova la sua origine in una scarsa o manchevole differenziazione del Sé nell’ambito
familiare.
McGoldrick e Gerson, invece, pur operando nella corrente di ricerca iniziata da Bowen, non si
riferiscono al concetto di differenziazione del Sé, ma, nella loro analisi dei genogrammi, si
preoccupano soprattutto di identificare le “ridondanza” che si osservano nelle storie familiari,
per evidenziare le modalità di risposta agli eventi vissuti da almeno tre generazioni. Mediante
l’utilizzo di un questionario, si sono posti l’obiettivo di schematizzare il genogramma e di
mettere in evidenza gli elementi passibili di quantificazione.
Al contrario, Ellen Wachtel si serve del genogramma come uno strumento per fare emergere i
sentimenti delle persone e la loro interpretazione soggettiva della realtà; non lo considera solo
come un metodo per raccogliere informazioni oggettive, ma anche come una tecnica proiettiva
che ci consente di tracciare una specie di mappa dell’inconscio. Secondo questa accezione
terapeutica il genogramma offrirebbe la possibilità di far rivivere il proprio passato, di suscitare
emozioni, di far emergere elementi rimossi o rimasti in ombra nel contesto delle relazioni con
la famiglia di origine, permettendo la scoperta e la ridefinizione di eventi nodali e dei nessi che
li collegano.
Infine, Hof e Barman affermano che la tecnica del disegno del genogramma permetterebbe di
organizzare il materiale, conservandone una visione più distaccata e facilitandone uno sguardo
più obiettivo e razionale, ed offrirebbe la possibilità di calibrare le emozioni con il procedere del
racconto.
Il genogramma si legge dall’alto al basso e da sinistra a destra (queste sono le direzioni del
leggere e dello scrivere nella nostra cultura di popoli occidentali). Questo ci permette di
cogliere che la linea di lettura (sopra-sotto e sinistra-destra) rappresenta la dimensione tempo
rispetto alla storia della famiglia. Non ci si deve preoccupare di costruire subito un
genogramma completo: esso va pensato come una mappa che sarà dettagliata man mano che
il territorio viene esplorato; il foglio su cui disegneremo il genogramma va già diviso
mentalmente (e concretamente) con spazi differenziati per ciascuna generazione; è utile
disegnare subito i confini con la linea tratteggiata (e colorata): questo permette di collocare
correttamente le diverse persone all’interno della generazione di appartenenza. Per indicare le
persone si disegnano con un quadrato i maschi e con un cerchio le femmine; all’interno di ogni
quadrato o cerchio si scrive con un numero l’età e sotto, all’esterno, il nome. Il numero
all’interno indica l’età in anni; se dovessimo indicare l’età di un bambino di pochi mesi, il
numero dei mesi deve essere seguito da una “m” (4 = 4 mesi). I quadrati e i cerchi (= le
persone) sono collegati tra loro da segni che indicano i legami di parentela e sono: la relazione
di coppia, la relazione tra i fratelli e la relazione genitore-figli. Si inizia a costruire il
genogramma partendo dal paziente (dalla persona, cioè, per la quale viene richiesto
l’intervento: ricordarsi di indicarla sempre con un *): da qui si parte con i vari collegamenti.
Nel rappresentare una coppia (coniugi, conviventi, fidanzati) il maschio (quadrato) va sempre
collocato a sinistra e la femmina (cerchio) a destra. In questo caso la direzione sinistra-destra
rappresenta l’identità di genere; la dimensione tempo è definita dalla direzione sopra-sotto.
Questa collocazione (sinistra-destra) va sempre rispettata, anche nella rappresentazione delle
famiglie ricostituite.
Nel rappresentare i figli, l’ordine è
quello cronologico con il più grande
a sinistra e il più piccolo a destra,
indipendentemente dal genere:
questo perché nella relazione con i
figli e tra i fratelli è molto
significativo l’ordine di nascita. La
famiglia nucleare, soggetto/oggetto
dell’intervento, va evidenziata in
qualche modo rispetto al resto della
famiglia estesa.
LEGAMI

Il genogramma va datato: è fondamentale indicare a quale data la situazione è così come


viene rappresentata nella grafica; fuori campo va indicato mese e anno di compilazione;
il genogramma va personalizzato: man a mano che si usa questo strumento di lavoro, ci si
trova nella necessità di inserire nuove indicazioni.

BIBLIOTERAPIA
Sebbene il termine Biblioterapia sia stato coniato per la prima volta da Samuel Crothers nel
1916, l’uso di libri per modificare il comportamento e ridurre il disagio ha una lunga storia, che
risale agli antichi Egizi. Nella sua forma più basilare, la Biblioterapia usa i libri per aiutare le
persone (bambini, adulti e anziani) a risolvere i problemi che potrebbero trovarsi ad affrontare
in un determinato momento. Se applicata in un contesto terapeutico, la Biblioterapia può
comprendere sia la narrazione (fiction) che la saggistica (non fiction). La Biblioterapia richiede
una qualche forma di lettura, ma non tutti sono d’accordo se la lettura dovrebbe essere
narrazione o saggistica (Pardeck, 1998), e c’è una chiara divisione tra i terapeuti riguardo alla
quantità di terapia richiesta e al coinvolgimento del terapeuta.
Si va dai libri di auto-aiuto a un estremo, in cui il libro è il principale agente terapeutico e il
coinvolgimento del terapeuta è minimo, alla Biblioterapia come aggiunta alla terapia, in cui il
processo terapeutico è il principale responsabile del cambiamento, con il libro che serve come
strumento di aiuto, e il coinvolgimento di un terapeuta è fondamentale. Queste differenze nella
quantità di terapia in trattamento di Biblioterapia sono state influenzate principalmente
dall’orientamento teorico dei terapeuti. In effetti, questa differenza negli orientamenti teorici è
responsabile della divisione tra due importanti scuole di Biblioterapia:
 Terapia Cognitiva => poiché i terapeuti cognitivi percepiscono i processi di
apprendimento come i principali meccanismi di cambiamento, la saggistica volta a educare
gli individui è stata eletta come la forma per trattare le persone. Può essere un
programma scritto, anche un programma computerizzato, purché individui le persone a
migliorare il loro funzionamento e a risolvere i loro problemi (Tallman e Bohart, 1999), ed
è solitamente somministrato come terapia di auto-aiuto, con nessun terapeuta coinvolto o
con il minimo contatto con il terapeuta. Studi randomizzati controllati (RCT) hanno
documentato gli effetti positivi della Biblioterapia per condizioni cliniche come
autolesionismo intenzionale, disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) e bulimia nervosa e
insonnia. La ricerca supporta anche la Biblioterapia come intervento per una vasta gamma
di problemi psicologici tra cui i disturbi emotivi, dipendenza da alcol e disfunzioni sessuali.
In una recente revisione dei trattamenti psicoterapeutici per le persone depresse più
anziane, la Biblioterapia è emersa come intervento efficace.
 Psicodinamica => al contrario, la Biblioterapia affettiva proviene da teorie
psicodinamiche che possono essere ricondotte a Freud e i successivi autori. Si riferisce
all’uso di materiali scritti per scoprire pensieri, sentimenti ed esperienze repressi. Si
presume che mentre il personaggio lavora attraverso un problema, i lettori siano
emotivamente coinvolti nella lotta e alla fine ottengano intuizioni sulla propria situazione
(Shrodes, 1957). Una forte enfasi è posta sulla promozione delle risposte emotive
attraverso l’identificazione con le esperienze che subiscono le figure letterarie. Per
permettere che tali processi di identificazione avvengano, è necessaria la narrazione in
modo che possa rispecchiare i dilemmi di una persona, e aiutarla a connettersi alle
emozioni e al dolore con la minima paura (Gersie, 1997; Gladding, 2005). La letteratura di
alta qualità è essenziale, in quanto un romanzo scritto male con caratteri stereotipati e
risposte semplicistiche a domande complesse è probabilmente peggio di nessuna lettura.
Poiché la Biblioterapia affettiva si occupa di emozioni ed esperienze profonde, non può
essere un trattamento di auto-aiuto e richiede il coinvolgimento di un terapeuta. La
Biblioterapia narrativa è un processo dinamico, in cui il materiale viene interpretato
attivamente dal lettore. Da una prospettiva psicodinamica, i materiali di fantasia sono
ritenuti efficaci attraverso i processi di identificazione, catarsi e insight. Attraverso
l’identificazione con un personaggio nella storia, il lettore ottiene una posizione alternativa
dalla quale visualizzare i propri problemi. Empatizzando con il personaggio, il cliente
subisce una forma di catarsi acquisendo speranza e liberando la tensione emotiva, che di
conseguenza porta a intuizioni e cambiamenti comportamentali. Un paziente potrebbe
anche trovare più facile parlare dei suoi problemi se lui e il terapeuta possono in qualche
modo fingere di parlare dei problemi del personaggio.
Diffusione => l’uso della Biblioterapia nei programmi di salute mentale, compresi quelli per
l’abuso di sostanze è scarsa o assente in Italia mentre ha dimostrato di essere utile per i
pazienti in Gran Bretagna, dove è una risorsa popolare.

SAND PLAY THERAPY (Dora Maria Kalff – 1904/1989)


La play Therapy è un ampio settore di intervento terapeutico ed educativo che si fonda sul
gioco come mezzo per aiutare i clienti a raggiungere i propri obiettivi.
The Association for Play Therapy:
• L’APT definisce la Play Therapy come “l’uso sistematico di un modello teorico per
stabilire un processo interpersonale in cui i terapeuti addestrati usano i poteri
terapeutici del gioco per aiutare i pazienti a prevenire o risolvere difficoltà psicosociali e
raggiungere una crescita e uno sviluppo ottimali”.
• Più semplicemente, la terapia di gioco infantile è un modo di stare con il bambino che
rispetta il suo peculiare livello di sviluppo e cerca modi di aiutare nella “lingua” del gioco
infantile. I professionisti della salute mentale autorizzati utilizzano il gioco per aiutare i
propri pazienti, soprattutto i bambini dai 3 ai 12 anni, a esprimere meglio loro stessi e
risolvere i loro problemi.
• La Play Therapy funziona meglio quando si crea una relazione sicura tra terapeuta e
paziente, in cui quest’ultimo può liberamente e naturalmente esprimere ciò che gli piace
e lo infastidisce.
• Le agenzie di salute mentale, le scuole, gli ospedali e i professionisti privati hanno
utilizzato la Play Therapy come principale intervento o terapia di supporto per:
a) Problemi comportamentali, come la gestione della rabbia, dolore e perdita,
divorzio e abbandono, crisi e trauma.
b) Disturbi del comportamento, come ansia, depressione, deficit di attenzione e
iperattività (ADHD), autismo o disturbo pervasivo dello sviluppo, sviluppo
scolastico e sociale, disabilità fisiche e di apprendimento e disturbi della condotta
• La ricerca suggerisce che la Play Therapy è un approccio efficace per la salute mentale,
indipendentemente dall’età, dal sesso o dalla natura del problema e funziona meglio
quando un genitore, un familiare o un custode è coinvolto attivamente nel processo di
trattamento.

Sandtray => è un’applicazione della Play Therapy; si utilizza un contenitore di sabbia e degli
oggetti (toys); i clienti intraprendono un processo supportivo per esplorare il proprio mondo
psichico attraverso questa modalità di lavoro espressivo e creativa non verbale. L’utilizzo
combinato di sabbia e oggetti è stato sviluppato da Margaret Frances Jane Lowenfeld (1890-
1973). La Loewenfeld, medico ricercatore in medicina pediatrica, può essere considerata un
pioniere britannico della psicologia infantile e della terapia del gioco. Il suo metodo inizialmente
sviluppato a Londra nel 1929 fu ulteriormente elaborato da una sua allieva, la terapeuta
svizzera Dora M. Kalff che sviluppò un approccio junghiano al sandtray, denominandolo
Sandplay Therapy. Jung stesso approvò l’utilizzazione della Sandplay Therapy.
La terapia Sandplay è “…una modalità espressiva e proiettiva che implica lo schiudersi e
l’elaborazione di questioni intra e interpersonali attraverso l’utilizzo di specifico materiale
“sandtray” come mezzo di comunicazione non verbale condotto dal cliente (o clienti) e
facilitato da un terapeuta formato” (Homeyer & Sweeney, 2009).
La Sandplay Therapy è adatta sia per bambini che per gli adulti e permette loro di
raggiungere una più profonda comprensione di se stessi. La sabbia ha infatti una grande
attrattiva, forse innata, sia sui bambini che sugli adulti. Si tratta di un metodo di Psicoterapia
Analitica che utilizza le risorse creative dell’individuo, integrando il lavoro verbale con la
produzione di immagini nei quadri di sabbia che permettono di contattare ed elaborare
tematiche conflittuali arcaiche. Nello spazio della sabbiera il paziente ha la possibilità di
rappresentare non solo contenuti inconsci della sua vita infantile personale, ma anche
contenuti riconducibili alle predisposizioni archetipiche primordiali teorizzate da Jung. Il vassoio
di sabbia si pone come spazio libero e protetto all’interno del quale, dal confronto con gli
elementi inconsci personali e transpersonali che possono trovarvi rappresentazione, scaturisce
un processo di trasformazione psichica e uno sviluppo più armonico della personalità, in linea
con le potenzialità dell’individuo. Seguendo i contenuti che emergono dal paziente, lo psicologo
analista facilita il confronto tra coscienze ed inconscio, favorisce l’integrazione psichica e il
recupero del rapporto con il Sé individuale originario. La Sandplay Therapy fornisce un
linguaggio simbolico anche a chi non ha parole per esprimere il proprio malessere,
consentendo di rappresentare il mondo interno così come si è costellato. In questo modo,
l’attività creatrice dell’immaginazione strappa l’uomo ai vincoli che lo imprigionano nel
“nient’altro che”, elevandolo al ruolo di colui che gioca: l’uomo, come dice Schiller, “è
totalmente uomo solo là dove gioca”.

PHOTOLANGAGE
Il Photolangage nasce in Francia (Lyon) nel 1965 in modo del tutto intuitivo e casuale.
Baptiste e C. Belisle, rispettivamente psicosociologo e psicologo lionesi, stavano lavorando con
un gruppo di adolescenti la cui più grande difficoltà era esprimersi o “raccontarsi” davanti al
gruppo. Per agevolare la discussione pensarono di proporre ai ragazzi delle foto in bianco e
nero con l’idea che queste potessero diventare un supporto alla parola. Ben presto gli effetti
del metodo superarono i risultati attesi: gli animatori si accorsero che in questi gruppi le
interazioni e l’interesse verso gli altri aumentavano. Inoltre, le storie individuali venivano
raccontate spontaneamente. Quello che si manifestava era il piacere di ascoltarsi.
Rapidamente il Photolangage si estese al campo della formazione in Francia e all’estero. In un
secondo momento, Claudine Vacheret dell’Università Lumière 2 di Lione, ha continuato la
ricerca studiando gli effetti del metodo Photolangage nel campo della psichiatria.
Il Photolangage è sia una collezione di dossier fotografici sia un metodo di lavoro in gruppo con
le foto. La collezione Photolangage comprende nove dossier di tavole elio (16 x 23.5 cm)
apparse e pubblicate nel 1968 dalle edizioni Cahlet. Una seconda serie di dossier tematici è
stata pubblicata nel 1991 dall’edizione d’Organisation. Ognuno di questi dossier, che
contengono una cinquantina di foto (18 x 24 cm), vengono costruiti:
o Selezionando le foto tra quelle proposte dai fotogrammi famosi;
o Mettendo insieme quelle foto che evocano tutte e in modo diverso un unico tema;
o Acquistandole dall’autore;
o Pubblicandole.
I dossier disponibili sono oggi dieci, in bianco e nero e uno a colori (Adolescenza e sessualità) e
vengono pubblicati con le seguenti tematiche: gruppi, lavoro, economia, tempo libero, relazioni
umane, formazione e sviluppo personale, donne in divenire, corpo e comunicazione, dalle
scelte personali alle scelte professionali, salute e prevenzione, situazioni limite, valori in
discussione, celebrare la vita.
Ciò che caratterizza il Photolangage in quanto metodo di lavoro in gruppo è la proposta che
viene fatta ad ogni partecipante di raccontarsi con l’aiuto delle fotografie. Non viene chiesta
un’opinione estetica su un documento visivo, ma di dirsi diversamente che con le sole parole. Il
Photolangage è uno sguardo nuovo portato all’immagine. Ogni partecipate non deve analizzare
la foto quanto piuttosto reagire spontaneamente, soggettivamente, affettivamente. Cercare di
capire perché una foto interessa e spiegalo agli altri permette l’apprendimento della
comunicazione: ognuno cerca di comprendere l’altro non per giudicarlo o per mettergli
un’etichetta, ma per rispondere ad una domanda di ascolto. Quando si lavora con il
Photolangage, l’organizzazione del tempo e dello spazio sono di estrema importanza. Un lavoro
ottimale richiede le seguenti condizioni materiali:
o Una sala sufficientemente grande che disponga di due spazi, uno dove l’animatore
espone le fotografie disponendole su dei tavoli intorno ai quali i partecipanti possono
circolare liberamente, l’altro dove i partecipanti si riuniscono seduti con l’animatore per
il lavoro in gruppo;
o Una cinquantina di foto selezionate in funzione di un tema;
o Una lavagna sulla quale sarà scritto il tema di cui parleremo (condizione opzionale);
o Un tempo di riunione di due ore.
L’incontro si apre con la formulazione del tema a cui segue la disposizione delle foto sui tavoli.
Il tempo in cui viene elaborata la consegna è molto prezioso. È il tempo in cui viene pensato il
gruppo nella sua gruppalità ed ogni partecipante nella propria individualità. Questo tempo
corrisponde alla capacità di reverie materna di cui ci parla Bion.
“La reverie designa il modo in cui la madre accoglie le proiezioni e le identificazioni del bebè.
Sono reazioni immaginarie che la madre attiva per metabolizzarle” (W.Bion, 1963, pag.32).
Il tema scelto viene scritto alla lavagna e la scelta delle foto viene fatta in risposta a ciò che la
frase suscita in ciascuno la consegna varia ad ogni incontro e viene scelta dagli psicologi sulla
base delle dinamiche emerse in quello precedente, rispettando sia la fase in cui si trova il
gruppo sia i tempi interni di apertura di ciascun partecipante.
“La madre digerisce psichicamente le proiezioni della mente del bambino e lo nutre a sua volta
restituendogli questo prodotto da lei pre-assimilato- il bambino (gruppo) riceve un nutrimento
secondario e metaforico del primo. Non si nutre del seno corporeo ma del seno psichico della
madre (trasformazione del tema in consegna)” (Bion).
Una seduta si svolge in due tempi:
 Il tempo della scelta personale di una o più foto = il primo tempo si passa in silenzio,
non ha nessun limite ed è necessario alla scelta personale delle foto. Ogni partecipante
ha la possibilità d fare in tranquillità la propria scelta, che per il momento deve essere
fatta solo con lo sguardo (in modo da lasciare tutte le foto a disposizione degli altri
membri del gruppo). Questo tempo permette alle idee e alle immagini di presentarsi
alla mente; la scelta delle foto consente al soggetto di trovare quella che esprime al
meglio ciò che desidera comunicare al gruppo. Via via che i partecipanti hanno scelto, si
rimettono a sedere e quando tutto il gruppo è tornato al proprio posto nel cerchio di
sedie, l’animatore invita a prendere la/le sua/loro foto, precisando bene che qualora
qualcuno avesse scelto la stessa foto di un altro, non si deve cambiare la scelta, perché
ritroverà la “sua” foto nel gruppo.
 Il tempo degli scambi in gruppo = il secondo tempo inizia quando tutti sono seduti in
cerchio con le foto in mano e l’animatore specifica che il tempo rimasto a disposizione è
da dividere in gruppo. L’animatore annuncia, inoltre, le modalità d’intervento,
precisando che ognuno presenta la propria foto al gruppo quando lo desidera e se vuole
può intervenire su quello che viene detto dagli altri. Si raccomanda di mantenere un
buon livello di ascolto al fine di capire ciò che l’altro vuole dire. I partecipanti sono
invitati a comunicare ciò che la foto suscita in loro condividendo o no ciò che viene
detto da un altro partecipante su quella stessa foto.
Un aspetto molto importante del metodo, soprattutto nel campo terapeutico, è che l’animatore
partecipa al gioco. Questo può assumere una posizione attiva e non passiva all’interno della
dinamica, aiuta il gruppo a metabolizzare le cariche di angoscia che, specialmente nei primi
tempi, investono i suoi membri. Non c’è da stupirsi che il contatto con gli altri, inizialmente
percepiti come estranei e possibili nemici o rivali, abbia bisogno di tempo per essere creato:
esprimere le proprie emozioni, raccontare le proprie esperienze davanti a più persone suscita,
infatti, spesso la paura di essere giudicati. Gli animatori si mettono in gioco proprio per queste
ragioni e per accelerare il dischiudersi dei partecipanti. Da un lato la loro disponibilità a
coinvolgersi offrendo ai membri l’opportunità di identificarsi con loro, dall’altro le foto che
ciascuno sceglie e presenta, permettono di lanciarsi. La posizione di animatore partecipante
nella dinamica del gruppo, quindi, consente un più rapido passaggio da uno stato di angoscia
ad uno di fiducia reciproca e accresce il desiderio di relazionarsi con gli altri, stemperando la
paura del contatto. Questo lo si deve anche al fatto che questa modalità di conduzione degli
incontri consente di ridurre la distanza fra “esperto” e “membro del gruppo”, passando da una
posizione relazionale verticale ad una basata sulla pariteticità ed orizzontalità. La presa di
coscienza di se stessi può, così, essere percepita non più come angosciante, ma come risorsa,
arricchimento, scambio e perde i connotati iniziali di critica e attacco personale. Rapidamente
si costruisce un’immagine di gruppo e una storia originale a partite dalle foto e da ciò che
viene detto.
Gli obiettivi sono:
o Prendere coscienza del proprio punto di vista ed esprimerlo agli altri;
o Relativizzare la propria posizione davanti agli altri, che non hanno forse la stessa
opinione, ma che nonostante questo incontrano difficoltà più o meno simili alle nostre;
o Creare uno spazio mentale capace di contenere le preoccupazioni, le esitazioni, le
angosce di ogni membro del gruppo: è più facile parlare di una fotografia che si
manipola che parlare direttamente agli altri;
o Esprimere le rappresentazioni che ognuno ha del soggetto/problema/tema proposto;
o Identificare gli stereotipi dando la parola all’esperienza personale.
È abbastanza chiaro che l’obiettivo degli scambi non è ricercare una “buona risposta” al tema
posto, ma permettere ad ognuno di esprimere, attraverso la scelta di una foto, il proprio punto
di vista tentando di comunicarlo agli altri.

PHOTO THERAPY (Judy Weiser)


Da non confondere con la Fototerapia o Elioterapia o Light Therapy o Terapia della Luce, che
consiste nel somministrare luce, attraverso lampade specifiche, in un orario specifico del
giorno.
Le tecniche di Fototerapia utilizzano gli scatti personali e le foto di famiglia dei pazienti in
terapia (insieme ai sentimenti, ricordi, pensieri e alle informazioni che queste foto evocano)
come catalizzatori nella comunicazione terapeutica. Ogni foto che una persona scatta o
conserva è anche un tipo di autoritratto, un tipo di “specchio con memoria” che riflette quei
momenti e quelle persone che sono state così speciali da essere fissate per sempre nel tempo.
Considerate collettivamente, queste foto rendono visibile il flusso delle storie della vita di
quelle persone e servono come impronte visive che segnano dove loro sono state
(emotivamente, come pure fisicamente) e forse segnalano dove probabilmente si dirigono.
Perfino le reazioni delle persone verso cartoline, foto di riviste e le foto scattate da altri
possono fornire chiavi rivelatrici della loro vita interiore e dei loro segreti.
Il vero significato di una foto qualsiasi si trova meno nei suoi aspetti visivi che nell’evocazione
che i dettagli suscitano nella mente (e nel cuore) di ogni osservatore. Mentre si guarda una
foto, una persona in realtà crea spontaneamente il significato che ritiene provenire dalla foto
stessa, e questo significato può essere diverso da quello che il fotografo intendeva
trasmettere. Perciò, il significato (e il linguaggio emotivo) di una foto dipende piuttosto da chi
l’osserva, perché la percezione individuale e l’esperienza di vita di ognuno incorniciano e
definiscono quello che si “vede” come reale. Quindi, le reazioni verso una fotografia che una
persona considera speciale possono in realtà rilevare molto su se stessa, se vengono fatte le
domande adeguate.
La maggior parte delle persone conserva le fotografie senza mai soffermarsi per chiedersi il
perché. Ma, proprio perché le foto personali registrano per sempre momenti importanti del
quotidiano (e le emozioni inconscie associate a questi momenti), possono servire come ponti
naturali per accedere, esplorare e comunicare sentimenti e ricordi (inclusi quelli
profondamente sotterrati o da molto tempo dimenticati), insieme alle tematiche
psicoterapeutiche che questi ricordi e sentimenti portano alla luce. Gli psicoterapeuti trovano
che le foto dei loro pazienti funzionano spesso come costruzioni simboliche e oggetti di
metafora transazionali che offrono silenziosi “insight” del mondo interiore in una maniera che
le parole da sole non potrebbero mai rappresentare o decodificare. Sotto la guida di uno
psicoterapeuta che conosca le tecniche di fototerapia, i pazienti esplorano i significati delle loro
foto e i loro album di famiglia a livello emotivo oltre al loro significato visivo. Queste
informazioni rimangono latenti in tutte le foto personali dei pazienti, ma quando queste foto
vengono utilizzate per stimolare il dialogo terapeutico, si crea una connessione meno censurata
con l’inconscio. Durante le sessioni di fototerapia le foto non vengono soltanto utilizzate per
essere contemplate in una riflessione silenziosa, ma al contrario vengono create attivamente –
si posa per le foto, si parla alle foto, si ascoltano le foto – vengono utilizzate per illustrare
nuove narrative, nuovi ruoli, per visualizzare di nuovo nella memoria o nell’immaginazione, e
vengono integrate nelle espressioni di Arteterapia, o addirittura per creare dialoghi tra le foto
stesse.
Fare delle foto o portarle con sé nelle sessioni di psicoterapia è soltanto all’inizio. Una volta che
le foto vengono osservate, il passo seguente consiste nell’attivare tutto quello che queste foto
fanno venire in mente (esplorando i suoi messaggi visivi, iniziando a dialogarci, facendo delle
domande, prendendo in considerazione i risultati di cambiamenti immaginari o di altri possibili
punti di vista e così via). Quello che per i fotografi è normalmente il punto di arrivo (ossia la
foto finita, stampata) non è che il punto di partenza per gli obiettivi della Fototerapia.
Il compito principale del terapeuta è quello di incoraggiare e di fornire sostegno al paziente nel
percorso di scoperta del personale mentre esplora e interagisce con le sue foto e le foto di
famiglia che vengono osservate, scattate, raccolte (per esempio cartoline, foto di riviste,
biglietti d’auguri e così via), ricordate, attivamente ricostruite o soltanto immaginate. Perciò,
ognuna delle cinque tecniche di Fototerapia viene abbinata ai seguenti cinque tipi di fotografie
che poi vengono spesso utilizzate in varie combinazioni l’una con l’altra, come pure in
associazione con tecniche di Arteterapia e altre terapie creative:
 Tecnica 1 = foto scattate o create dal paziente (sia quelle in cui il paziente crea
effettivamente l’immagine utilizzando una macchina fotografica, o semplicemente
“appropriandosi” di immagini create da altri, raccogliendole da riviste, cartoline,
internet, manipolazioni digitali e così via);
 Tecnica 2 = foto scattate al paziente da altre persone (sia quelle per cui ha posato
volutamente che quelle catturate spontaneamente a sua insaputa);
 Tecnica 3 = autoritratti, ossia qualsiasi foto che i pazienti fanno a se stessi, sia
letteralmente che metaforicamente (in ogni caso, queste sono foto in cui i pazienti
esercitano un controllo totale su tutti gli aspetti della creazione dell’immagine);
 Tecnica 4 = album di famiglia o altre collezioni di foto biografiche (sia quelle della
famiglia biologica che quelle della famiglia di adozione; sia che le foto siano state
raccolte formalmente in un album o semplicemente tenute sparse, appiccicate sul muro
o sulla porta del frigorifero, dentro il portafoglio, incorniciate sulla scrivania, sullo
schermo del monitor o nei siti web familiari, e così via);
 Tecnica 5 = “foto-proiezioni”, la tecnica utilizza il meccanismo (fenomenologico)
secondo cui il significato di qualsiasi foto è in primo luogo creato dall’osservatore
durante il processo di percezione dell’immagine. L’atto di guardare qualsiasi immagine
fotografica produce delle percezioni e reazioni che vengono proiettate dal mondo
interiore della persona sulla realtà e che determina così il senso che viene dato a ciò
che si vede. Perciò questa tecnica non si basa su un tipo specifico di foto, ma piuttosto
sull’interfaccia meno tangibile tra una foto e il suo osservatore o creatore, lo “spazio” in
cui ogni persona forma le proprie originali risposte a ciò che vede.
Come spiegato nel libro “Phototherapy Technique – Exploring the Secrets of Personal
Snapshots and Family Albums”, la Fototerapia potrebbe essere considerata come un sistema
articolato di tecniche di psicoterapia basato sull’utilizzo della fotografia da parte di figure
professionali che attuano nel campo della salute mentale all’interno delle loro attività
terapeutiche che servono ad aiutare i loro pazienti nelle indagini coscienti su se stessi, per
reintegrare le rivelazioni o gli “insight” causati dalle foto per capirsi meglio e per migliorare la
loro vita. Perciò la Fototerapia non è la stessa cosa della “Fotografia Terapeutica” (che viene
definita Fototerapia, soprattutto nel Regno Unito), dato che questa è costituita da attività
condotte autonomamente e al di fuori di un contesto formale di psicoterapia. La Fotografia
Terapeutica viene utilizzata dalle persone per la scoperta di se stesse o per obiettivi di
espressione artistica, mentre gli psicoterapeuti utilizzano la Fototerapia per assistere altre
persone (i loro pazienti) che hanno bisogno di aiuto per risolvere i loro problemi. Se, da un
lato, l’esplorazione/analisi di se stessi con l’utilizzo della fotografia (fotografia-come-terapia)
molto spesso finisce per essere profondamente terapeutica in se stessa, soprattutto quando la
macchina fotografica funziona come agente di cambiamento personale o sociale, dall’altro lato
non è la stessa cosa di attivare e rielaborare tali esperienze sotto la guida e la cura di uno
psicoterapeuta professionale (fotografia-in-terapia). Se si considera che la Fototerapia è un
insieme di tecniche flessibili, piuttosto che direttive fisse basate su una specifica teoria o un
paradigma terapeutico, essa può essere utilizzata da qualsiasi consulente o psicoterapeuta
adeguatamente preparato, indipendentemente dal suo riferimento concettuale o dal suo
approccio professionale. Questa è una delle varie modalità in cui la Fototerapia assomiglia e
allo stesso tempo si differenzia dall’Arteterapia, poiché anche questa può essere utilizzata con
successo da parte di varie altre figure professionali che operano nel campo della salute
mentale e che non sono specificamente esperte di Arteterapia. Dato che la Fotografia utilizza la
fotografia come strumento di comunicazione piuttosto che come espressione artistica, non si
richiede un’esperienza anteriore con la macchina e l’arte fotografica per poter utilizzarla
effettivamente per fini terapeutici. E, dato che la Fototerapia fa interagire le persone con le
proprie costruzioni visive della realtà (usando la fotografia come un verbo di attivazione
piuttosto che come un sostantivo passivo/riflessivo), queste tecniche possono avere un effetto
particolarmente positivo quando sono utilizzate con soggetti per i quali la comunicazione
verbale è fisicamente o mentalmente limitata, con soggetti emarginati a livello socio-culturale
o che si trovino in situazioni di disagio a causa di malintesi causati da segnali non-verbali.
Perciò la Fototerapia può essere specialmente utile e avere l’effetto di “rendere abile” quando è
applicata in soggetti particolarmente complessi, come disabili, minoranze di genere, persone
carenti o in contesti multiculturali, come pure in interventi su diversità e superamento dei
conflitti, nella mediazione per le pratiche di divorzio e in altri campi correlati.
Ora che il pubblico in generale acquisisce sempre più familiarità nell’utilizzo delle tecnologie
elettroniche e nella manipolazione delle immagini digitali, nascono nuove e istiganti possibilità
nell’uso della fotografia come strumento terapeutico, almeno per quei pazienti che hanno uno
scanner o un sito familiare o per quelle persone che sono in grado di partecipare alle
“cyberterapie on line”.

IPNOSITERAPIA
Ipnosi = Hypnos, dio greco del sonno.
L’ipnosi è uno stato di trance in cui lo stato psicofisico è diverso dal normale, vi è una
prevalenza di funzioni immaginativo emotive rispetto a quelle critico intellettive. È una
particolare forma di interazione umana e il rapporto tra soggetto ed ipnotista è definito
rapport. Si può descrivere in una formula:

𝑆 I = IPNOSI
𝐼= S = STATO (di coscienza)
𝑅𝑥𝑐
R = RELAZIONE
c = CORPO (soggettivo o della relazione)

Ipnosi: “uno stato di coscienza che coinvolge attenzione profonda e consapevolezza periferica
ridotta caratterizzata da una maggiore suscettibilità alla suggestione.” (APA, 2014)
Induzione ipnotica: “procedura designata a indurre l’ipnosi.”
Ipnotizzabilità: “capacità di un individuo di esperire alterazioni fisiologiche, sensazioni,
emozioni, pensieri o comportamenti durante un’ipnosi.”
Ipnositerapia: “uso dell’ipnosi nel trattamento di un disturbo medico o psicologico”.

Franz Mesmer (1734-1815) ha teorizzato nel 1775 il “magnetismo animale”, centrato


sull’ipotesi dell’esistenza di un fluido presente in ogni essere umano che lo collega agli altri
individui e alla terra. La condizione di malattia dipenderebbe quindi da un blocco del suo flusso,
e il medico dovrebbe riportare l’equilibrio nella sua distribuzione facendolo defluire da una
parte all’altra dell’organismo o trasferendolo da individuo a individuo. La tecnica più famosa
era quella di gruppo, in cui era utilizzato il baquet. Sebbene la medicina dell’epoca si sia
scagliata contro queste pratiche, possono essere considerate precursori dell’Ipnosi.
Successivamente Sigmund Freud (1856-1939) nel 1885, anno in cui arrivò alla clinica
psichiatrica della Salpetrière di Parigi, partecipò con interesse alla terapia ipnotica che Jean
Martine Charcot (1825-1893) utilizzava per la cura delle sue pazienti isteriche. Questa
consisteva nell’ipnotizzarle e comunicare loro che, al risveglio, il sintomo sarebbe scomparso.
È necessario specificare che i sintomi dell’isteria si evidenziavano a livello somatico e potevano
consistere in manifestazioni importani quali attacchi convulsivi simili a crisi epilettiche,
movimenti coatti, anestesie o iperestesie, paralisi, contratture, cecità. Charcot faceva risalire
questa patologia a cause organiche ed ereditarie. Tramite la terapia di Charcot emergeva che
con l’ipnosi si potevano eliminare (o elicitare) comportamenti isterici che, tuttavia, si
ripresentavano dopo un certo tempo (Barbieri, 2009).
Anche Joseph Breuer (1842-1925) collaborò con Freud, i suoi presupposti teorici su cui si
basava i trattamenti erano diversi e più articolati. La causa dell’isteria, secondo Breuer, era
identificabile in uno o più eventi traumatici di cui la paziente era rimasta vittima e che non
riusciva a ricordare: per far riemergere i fatti ricorreva all’ipnosi. La tecnica consisteva
nell’invitare la paziente, durante l’ipnosi, a raccontare eventi del passato finchè gradualmente
essa arrivava a rievocare l’avvenimento traumatico che costituiva la causa delle sue
manifestazioni isteriche e che veniva riprodotto dal sintomo, raramente in maniera esplicita e
spesso tramite deformazioni simboliche. La procedura veniva ripetuta tante volte quanto erano
i sintomi.
METODO CATARTICO. La riattivazione del ricordo, unita alle intense emozioni rivissute dal
soggetto durante la terapia, portava alla liquidazione del sintomo e delle cariche emotive ad
esso associate. Inizialmente Freud aderì completamente alle modalità di conduzione della
terapia di Charcot, sottolineando la componente organica ed ereditaria dell’isteria. La svolta
della sua visione avvenne successivamente alla collaborazione con Breuer. Freud, tuttavia, si
staccò rapidamente dalle teorie e delle pratiche breueriane in quanto vedeva nel metodo
catartico un limite: il fatto che eliminava i sintomi, ma non impediva che ne comparissero di
nuovi. A livello della conduzione del trattamento, il distacco da Breuer derivava dal fatto che
Freud era un ipnotista piuttosto mediocre (Barbieri, 2009). Non sempre riusciva nell’intento di
ipnotizzare le sue pazienti, perciò modificò la sua tecnica: per esempio con la paziente Lucy R.
ricorse ad applicarle una pressione con la mano sulla fronte per rilassarla e per ottenere la
rievocazione degli eventi del passato a monte dei sintomi isterici.
Freud partiva dal presupposto che le pazienti conoscessero quello che poteva essere
importante per la comprensione della patologia e che l’obiettivo fosse quello di costringerle a
dirlo. Come è evidente, questa tecnica non può essere più lontana da quelle, in cui era
necessario ed essenziale un atteggiamento passivo, che vennero sviluppate successivamente.
Nel trattamento di Lucy R., Freud generò il distacco fondamentale per il passaggio dall’ipnosi
alle tecniche di reminescenza. In conclusione, l’interazione tra Freud e le tecniche ipnotiche ha
delineato la base e l’approccio di quella che si svilupperà come Psicoanalisi.

IPNOSITERAPIA ERICKSONIANA.
Milton Erickson (1901-1980): allievo di Leguirec, a sua volta allievo di Charcot. Diversa
concezione dell’Inconscio come gravido di risorse fondamentali per la guarigione (e non sede
del rimosso come in Freud). Abile ipnotista, formatosi sulla sua esperienza di comunicatore.
Dimostra come sia possibile accompagnare in uno stato di trance persone con la quale ci si
accinge a una normale conversazione: il passaggio verso l’ipnosi avviene tramite l’attenzione e
le modalità che il terapeuta utilizza per gestire la conversazione (Mosconi, 2009).
La comunicazione è il fulcro della teoria Eriksoniana. Ipnositerapia per Erikson: “stato
modificato di coscienza altamente motivato e diretto a sviluppare risorse potenziali
dell’individuo attraverso un attivo apprendimento inconscio, in ciò facilitato da un
restringimento selettivo del campo di coscienza. La trance è descritta come uno stato che può
verificarsi naturalmente durante la giornata, non necessariamente come il frutto di tecniche
induttive. Il ruolo dell’ipnotista cambia, il risultato della terapia dipende essenzialmente dalle
capacità comunicative del terapeuta.
Metodo, tecnica, strumenti (Del Castello e Casilli, 2007):
o Guidare l’attenzione => si cerca di indirizzarla agli stimoli esterni ed interni
o Costruire la responsività ai segnali minimi => al paziente vengono date indicazioni
meno direttive e si fa in modo che risponda a segnali meno evidenti, questo consente
all’ipnotista di avere una collaborazione inconscia da parte del paziente ed avere
risposte ipnotiche genuine.
o Usare la confusione => permette di destabilizzare l’orientamento conscio e
l’orientamento abituale alla realtà.
o Guidare le associazioni => si aiuta il paziente a dirigersi verso schemi mentali che
sono appropriati per la propria patologia.
o Promuovere la dissociazione
o Instaurare la regressione
o Favorire cambiamenti nello schema percettivo => fa parte dei metodi per far sì
che il soggetto NON rimanga nel proprio equilibrio.
o Avere accesso alle motivazioni => importante creare un contesto di accettazione
delle suggestioni.
o Definire la situazione come ipnosi => soprattutto a livello di contesto.
o Ratificare le risposte e lavorare subito con l’ipnosi
Erickson: l’ipnosi profonda è il livello di ipnosi che permette al soggetto di funzionare in modo
adeguato a livello inconscio senza interferenze della mente cosciente (Antonelli, 2009).
Si associano modificazioni a livello di SNC e SNP. Nell’induzione formale della trance, le
istruzioni fornite al soggetto per ottenere la focalizzazione dell’attenzione sulle parole
dell’ipnotista comportano un restringimento dell’attenzione. Questi processi sono mediati
fisiologicamente da circuiti neurali talamo-corticali e parieto-frontali, laterizzati principalmente
nell’emisfero sinistro. Al livello successivo, in cui avviene la chiusura degli occhi ed il
rilassamento, si associa una riduzione dell’attivazione dei circuiti neurali fronto-limbici, con
conseguente riduzione dell’esame di realtà.
Studi comportamentali, elettrofisiologici e di neuroimaging sull’ipnosi hanno evidenziato come
essa possa essere uno stato e uno strumento per modulare risposte cerebrali a stimolazioni
dolorose: è stato dimostrato che processi ipnotici modificano reti cerebrali interne
(consapevolezza di sé) ed esterne (consapevolezza dell’ambiente). Meccanismi sottostanti la
modulazione della percezione del dolore in condizione d’ipnosi includono aree corticali e
sottocorticali tra cui le cortecce anteriore, cingolata e prefrontale, gangli basali e talamo.
Infine, l’ipnosi può essere considerata un utile analogo per simulare sintomi di conversione e
dissociazione in soggetti sani, permettendo una migliore rappresentazione di questi gravosi
disturbi riproducendo esperienze clinicamente simili.
Numerosi studi hanno evidenziato l’interesse verso procedure ipnotiche in varie situazioni
cliniche, come la gestione del dolore, il trattamento di fobie, depressione, disturbi psicotici e
dissociativi e così via. Alcuni ricercatori ritengono che l’ipnosi sia collegata a uno stato alterato
di coscienza, mentre altri assumono che questi fenomeni possano essere spiegati da
concettualizzazioni psicologiche come le aspettative clinico-paziente. L’ipnosi è vista come uno
stato di attenzione mirata riguardante l’assorbimento interiore con una relativa sospensione
della consapevolezza marginale e ha tre componenti:
 Assorbimento: tendenza a divenire totalmente coinvolto in un’esperienza percettiva,
immaginativa o ideazionale;
 Dissociazione: separazione mentale di componenti d’esperienza che sarebbero
ordinariamente processati insieme;
 Suggestionabilità: responsività agli stimoli sociali da cui deriva la tendenza
incrementata ad attenersi a istruzioni ipnotiche, rappresentando una sospensione del
giudizio critico.
Studi di neuroimaging sottolineano che i risultati dell’ipnosi nell’attività ridotta della rete
cerebrale estrinseca sono coinvolti nella percezione sensoriale e dell’ambiente. Altri risultati sul
dolore e l’ipnosi rafforzano l’idea che strategie non solo farmacologiche, ma anche
psicologiche, possano modulare la rete interconnessa di regioni corticali e sottocorticali,
implicate nel processare stimoli nocivi e diminuiscono la sensazione di dolore nel soggetto in
maniera significativa. In sintesi: nell’ipnosi si assiste alla modificazione temporanea e
funzionale delle sensazioni, percezioni, pensieri, della consapevolezza, dei comportamenti. La
trance ipnotica è strettamente interrelata alla fisiologia e alla struttura del sistema nervoso
centrale ed autonomo ed è connessa con tratti personologici quali le aspettative del soggetto, il
contesto, il rapporto con l’ipnotista.
Campi di applicazione dell’ipnositerapia:
o Psicologia: depressione, ansia (GAD, parlare in pubblico), Fobie, PTSD
o Medicina: odontoiatria, dolore (acuto/cronico), ostetricia, ipertensione, insonnia,
obesità, oncologia.
Un articolo dell’Università del Minnesota sintetizza diciotto meta-analisi rappresentative
dell’utilità clinica dell’ipnosi revisionate secondo i criteri di Chambless & Hollon (1998) e
individua una classificazione dell’impatto, dovuto all’ipnosi, del trattamento sul disturbo:
1. Possibile: presenta determinate caratteristiche, secondo le quali è necessario un
campione sia tra i 25 e i 30 o più soggetti, la sua randomizzazione, i risultati in forma di
manuale per la replicazione, e maggiore efficacia statistica del trattamento ipnotico
rispetto a quello di controllo.
2. Efficace: si ottiene quando i risultati originali sono replicabili in due laboratori
indipendenti o con campioni totalmente diversi.
3. Specifico: è definibile tale quando l’ipnosi è significativamente migliore del placebo o di
altre modalità di trattamento.
Finora, su un totale di 39 disturbi, ne è stata identificata per ciascuno una cura:
a) Possibile: 32
b) Efficace: 5 (distress durante l’operazione, dolore nel cancro, dolore nelle operazioni in
bambini e adulti, perdita di peso)
c) Specifica: 2 (mal di testa ed emicranie, ansia in attacchi d’asma)
I risultati di questo lavoro e delle ricerche considerate emergono come affidabili e
generalizzabili, ma andrebbero stimolati nuovi studi per dimostrare come l’ipnosi possa essere
un trattamento specifico per un maggior numero di condizioni cliniche.

IPNOSITERAPIA COGNITIVA (Alladin, 2009)


Questo trattamento (CH) nasce dall’unione fra la terapia cognitivo-comportamentale e l’ipnosi,
un’aggiunta efficace per la cura della depressione. Le cure con antidepressivi hanno dimostrato
una relativa efficacia (il 40-50% dei pazienti non rispondono ad essi adeguatamente, e non
agiscono sulle problematiche psicosociali), come anche la CBT quando usata da sola, anche
perché non si considera la possibile comorbilità con u disturbo d’ansia su cui non si lavora. Si
utilizza quindi l’ipnosi per amplificare l’azione delle tecniche della CBT massimizzando la
concentrazione, facilitando il pensiero e l’esperienza diversificati, ed incrementando l’accesso a
processi inconsci. Il trattamento consiste in 16 sessioni settimanali o diluite nell’arco di 4-6
mesi, ma il loro numero e la sequenza della terapia possono variare in base alle necessità del
paziente, le aree di interesse e i sintomi evidenti. Le sessioni sono le seguenti:
o 1) Assessment clinico: si raccoglie la storia del paziente per formulare la diagnosi e
identificarne gli aspetti psicologici, fisiologici e sociali essenziali dei suoi comportamenti.
o 2-5) Terapia cognitivo comportamentale: si insegna ai pazienti a riconoscere ed
esaminare le credenze negative (depressogene) e l’inclinazione al processare
informazioni, così da alleviare i sintomi e permettere di affrontare le sfide della vita in
maniera più efficace.
o 6-7) Ipnoterapia: si amplifica il trattamento psicologico della depressione e si tende a
prevenire ricadute, per cui il focus delle sessioni si concentra su relaxion training,
producing somatosensory changes, demonstration of the power of the mind, expansion
of awareness, ego-strengthening, self hypnosis training e posthypnotic suggestions.
o 8-10) Ristrutturazione cognitiva sotto ipnosi: si cerca di integrare strategie
cognitive e ipnotiche così che, quando i pazienti dovessero riscontrare difficoltà ad
identificare e cognizioni precedenti al sentimento depressivo, si mettono in atto tre
strategie, quali regression to a recent activating event, regression to the original
trauma e editing and deleting “unconscious file”.
o 11-12) Attention switching and positive mood induction: si contrasta il classico
rimuginare su pensieri catastrofici e immagini negative del paziente depresso facendogli
praticare l’”attention switching” e prevenendo l’accensione delle vie neurali attraverso la
“postitive mood induction”.
o 13) Active interactive training: si aiuta a distruggere l’abitudine a “dissociarsi” tipica
del soggetto depresso, perché questi stabilisca “associazione” con l’ambiente attorno a
sé, attraverso tre processi che consistono nel differenziare tra interazione attiva e
dissociazione automatica o passiva; tentare di inibire la “disassociazione” spostando
l’attenzione dalla “realtà negativa interna”; partecipare attivamente a stimoli interni o
esterni pertinenti (realtà concettuale) dopo la “disassociazione”.
o 14) Social skills training (SST): si allenano gli individui depressi a superare le loro
difficoltà relazionali essendo queste un grosso fattore di rischio per lo sviluppo del
disturbo, in particolare l’excessive reassurance seeking e il negative feedback seeking.
o 15) Behavioural activation: si punta a modificare comportamenti depressivi o poco
sani, eccessivamente rinforzati rispetto a quelli salutari, attraverso metodi
comportamentali come la weekly activity schedule o il behavioural activation training, e
ipnoterapeutici quali forward projection, immaginal rehearsal, ego-strengthening e
posthypnotic suggestions.
o 16) Mindfullness training: si aiuta il paziente, che solitamente si ritrae o si allontana
dall’esperienza per evitare dolore emotivo, ad essere meno turbato da quelle spiacevoli
e meno reattivo ad eventi negativi mediante la sequenza di education, training e
hypnotherapy.
La terapia presenta, di base, queste 16 sessioni settimanali, ma alcuni pazienti possono
richiederne in più o in meno, senza escludere la possibilità di effettuare quelle di follow-up e
miglioramento.
Partendo da un’ultima meta-analisi dell’Università di Valencia, si giunge alla conclusione che
l’ipnosi è una potenziale aggiunta ad altri trattamenti sia medici che psicologici, mentre se
usata da sola ha dimostrato scarsa se non nulla efficacia per disturbi codificati dall’ICD-10 e
procedure mediche. Le ipnotiche risultano efficaci nella gestione del dolore ed elementi
emozionali nell’asma; probabilmente efficaci in aggiunta al trattamento della depressione,
alcuni disturbi del sonno, perdita di peso, smettere di fumare, asma, enuresi nei bambini e
preparazione ad un’operazione. Quindi, si può asserire che l’ipnosi ha una sua efficacia solo se
sommata ad altre terapie, sebbene manchino studi che soddisfano criteri metodologici per
rafforzare lo status dell’ipnosi come trattamento aggiuntivo efficace, e sono necessarie ulteriori
ricerche sempre più specifiche per ampliare le conoscenze e colmare le lacune dell’ambito.

LA GRUPPOANALISI
“La Gruppoanalisi è lo strumento elettivo per lo studio delle dinamiche di gruppo, una nuova
scienza nella quale avviene l’incontro tra psicoanalisi e sociologia” (S. Foulkes).
La terapia gruppoanalitica trova fondamento in discipline come:
o L’antropologia, con gli studi di Levi-Strauss e Gehlen, che pongono l’attenzione al
rapporto tra soggettività e cultura.
o La biologia, con il concetto di neotenia.
o La sociologia, con Morin ed il paradigma della complessità.
Influenze del paradigma della complessità:
✓ La maggiore attenzione all’analisi qualitativa più che quantitativa; gli eventi che
compongono la vita di un individuo vengono messi in relazione e valutati per quello che
è il loro valore psicodinamico e immersi in uno specifico sfondo spazio-temporale.
✓ “logica e-e”, cerca d cogliere la relazione degli eventi.
✓ Ruolo dell’osservatore nel rapporto con l’oggetto osservato; non esiste un’osservazione
che sia totalmente asettica e che non produca effetti sul sistema osservato.
“Il gruppo è la matrice della vita mentale dell’individuo” (Foulkes, 1973).
Il fondatore del termine “Gruppoanalisi” è T. Burrow (1909-1986), secondo il quale il gruppo è
“un tutto unico, legame organico interno comune a diversi elementi che lo compongono. Non si
può considerare l’individuo isolato senza ritenerlo parte della specie, e quindi dotato di un
istinto sociale e naturale. Il gruppo si configura come possibilità terapeutica in quanto consente
la messa in discussione delle false immagini di sé dettate dai ruoli e della morale sociale”.
Tra il 1927 ed il 1928 Burrow rinuncia al termine gruppoanalisi per introdurre quello di
filoanalisi, riferendosi all’analisi dei comportamenti, degli affetti, dei processi cognitivi
dell’uomo in una prospettiva storica implicitamente gruppale; “ognuno di noi, infatti, è figlio
della propria etnia, della propria tribù e della propria tradizione.” (Napolitani).
Negli anni ’30 => gruppo come strumento di lavoro in trattamenti specificamente analitici.
➢ Analisi IN gruppo: il gruppo diventa il palcoscenico di molte terapie individuali.
Rappresenta solo un ambiente nel quale realizzare una terapia rivolta al singolo. Già
Freud, pur non parlando propriamente di gruppo, aveva posto attenzione all’importanza
dello stesso, prima in “Totem e Tabù” e dopo in “Psicologia delle masse ed analisi
dell’Io”. Egli, riprendendo Le Bon, afferma che “le masse, più che gli individui che le
compongono, acquistano un’anima collettiva; tale anima fa sentire i partecipanti,
pensare ed agire in modo molto diverso dai singoli partecipanti”, e definisce la massa
come “orda primordiale”. “La massa è impulsiva, mutevole e irritabile. È governata
quasi per intero dall’inconscio. (…) La massa è straordinariamente influenzabile e
incredula, è acritica, per essa esiste l’inverosimile” (“Psicologia delle masse ed analisi
dell’Io”, 1921). Una delle figure più rappresentative dell’orientamento in gruppo è
Samuel R. Slavson, che definisce le differenze tra gruppo terapeutico (fine personale;
non vi è uno scopo comune; benefici per ogni membro) e non terapeutico (vi è uno
scopo comune che interessa il gruppo come totalità).
➢ Analisi DI gruppo: lo psicoterapeuta considera il gruppo intero come oggetto del suo
intervento. Si fa riferimento agli studi di K. Lewin, secondo il quale l’evento psicologico
va indagato sistematicamente nel contesto fisico-temporale in cui accade e nella rete di
relazioni che lo sostengono e lo determinano. Figure rilevanti in questo approccio sono
Ezriel e W.R. Bion (1897-1979).Bion si occupò di pazienti allontanati dall’esercito con
diagnosi di nevrosi di guerra. Il suo esperimento durò solo sei settimane. Egli constatò
che stimolare un’attività di operazione in un gruppo poteva determinare
un’attenuazione della nevrosi nei singoli. Creò la prima autentica comunità terapeutica.
➢ Analisi MEDIANTE IL gruppo: tutto il gruppo, terapeuta compreso, è parte attiva e
destinatario del processo terapeutico. Il primo a parlare in questi termini fu proprio
Foulkes (1898-1976) che definì l’analista come “primo paziente del gruppo” e la
psicoterapia gruppoanalitica, come “una forma di psicoterapia praticata dal gruppo nei
confronti del gruppo, ivi incluso il suo conduttore” (1976).

LA TERAPIA GRUPPOANALITICA => la Gruppoanalisi è una tecnica psicoterapeutica di gruppo


ed un dispositivo di esperienza psicoanalitica dell’inconscio in situazione di gruppo.
 Il gruppo è tutto
 Il gruppo non è la somma dei suoi elementi
 L’individuo ed il gruppo formano un insieme tipo figura-sfondo
 L’individuo in gruppo è come un punto nodale nella rete dei neuroni
Foulkes considera la psicoanalisi indispensabile come training per i futuri analisti, ma non
necessariamente il miglior metodo di psicoterapia. La gruppoanalisi quindi “non è un surrogato,
né una scorciatoia, è un metodo migliore”. L’essere umano è un animale sociale, e non può
essere visto in isolamento. Per comprendere l’individuo bisogna collocarlo nel gruppo in cui
vive e nel quale sono sorti i conflitti, oppure in un gruppo terapeutico in cui ristabilire i suoi
conflitti nell’ambito della cultura di appartenenza. L’individuo non è soltanto dipendente dalle
condizioni materiali, per esempio economiche, climatiche del suo mondo circostante, e della
comunità, del gruppo in cui vive. È una parte di rete sociale, un piccolo punto nodale in questa
rete.
Rete => concetto ripreso da Goldstein che aveva proposto la metafora del SNC come network
di cellule: una perturbazione in un punto del SNC comporta una risposta che non può
coinvolgere tutti i livelli organizzativi e funzionali della corteccia stessa (Goldstein. 1934).
I Neuroni costituiscono i nodal points di questa rete. Foulkes estende l’approccio di Goldstein
alla relazione fra individuo e mondo socioculturale. La rete rappresenta quindi il sistema di
relazione che connette gli individui, ed ogni individuo, in quanto punto nodale della rete, è un
luogo sociale e mentale di convergenza e divergenza di relazioni transpersonali con altri nodi.
L’estensione di questa rete è pressoché infinità, comprende l’intera umanità e tutto il suo
passato biologico e culturale. I singoli punti nodali (gli individui) saranno maggiormente
influenzati da quelle porzioni di rete che, nel tempo e nello spazio, sono a loro più vicine;
queste non influiscono direttamente sull’individuo, ma attraverso la mediazione attiva
inconsapevole di quelle parti di rete più intimamente connesse con lui, che Foulkes chiama
Plexus => Costituita da un numero relativamente piccolo di persone, la famiglia, che si
raggruppa dinamicamente intorno alla persona centrale. La rete è multiforme. Nella nostra
cultura c’è sempre un certo numero di queste reti alle quali ogni individuo appartiene; e questi
gruppi sono reciprocamente legati.
Matrice => il gruppo terapeutico gruppoanalitico è una matrice interattiva caratterizzata da
comunicazioni inconsce, e gli individui, conduttore compreso, ne costituiscono i punti nodali.
Nel lavoro gruppo-analitico la matrice indica quindi la rete di relazioni, visibili, ed invisibili,
coscienti o no, presenti nel gruppo. Tre tipi di matrice:
• Matrice personale: espressione delle problematiche inconsce dell’individuo
• Matrice dinamica: la rete di comunicazione inconscia che ha luogo nei gruppi e che dà
senso condivisibile a tutti i fenomeni e gli eventi in essi osservabili.
• Matrice di base: costituita sia dalla comunanza dei codici di comunicazione relativi alla
lingua, all’età ecc., sia dalla condivisione di determinati principi e norme sociali.
“Tutti i fenomeni che si verificano in un gruppo sono parte di una Gestalt, di una
configurazione della quale essi costituiscono le figure (primo piano), mentre il campo (sfondo)
è rappresentato dal resto del gruppo” (Foulkes, 1948).
Transpersonale => lega lo psichico, il biologico, il sociale, l’antropologico alla fondazione
della mente ed il suo funzionamento. Viene poi ripreso e specificato meglio dalla scuola
gruppoanalitica siciliana, in particolare da Lo Verso.
Foulkes, con il suo II° esperimento, durato nove mesi, introdusse una terapia di gruppo
orientata a ristabilire il morale dei pazienti; lavorò all’interno dell’ospedale come fosse un
“tutto” e gradualmente fu possibile trasformarlo in una comunità responsabile
autogovernantesi. “Northfield rifletteva, in modo eclatante, tutti i problemi della vita di gruppo
e le interazioni tra i gruppi di persone che si possono ritrovare nel mondo in generale”
(Foulkes, 1991, p.67). l’esperimento si suddivise in 4 fasi:
o Fase A = prime relazioni provvisorie tra pazienti e staff; attività svolte di malavoglia;
scopo di sottrarsi al servizio militare; scissione netta tra ala ospedaliera (blu) ed ala di
training (cachi).
o Fase A1 = schema pedagogico attivo; maggiore interesse per le attività; muta il tipo di
paziente; aumento collaborazione tra i membri dello staff; maggior tempo dedicato ai
pazienti; coinvolgimento dello staff nelle decisioni.
o Fase B = staff militare con conoscenze di orientamento psicologico gruppale; chiusura del
reparto di training; nuova organizzazione con lo scopo di implementare le attività;
pazienti come agenti attivi nell’organizzazione delle attività dell’ospedale.
o Fase B1 = pazienti demotivati; scopo di evitare il servizio militare; nuovo personale;
formazione di nuovi gruppi con lo scopo di collaborare e ricreare il clima della fase A1.
“A Northfield ho potuto praticare e osservare l’approccio gruppale in situazioni di vita non
organizzate e spontanee, vita cioè di pazienti soldati in un ospedale militare; liberi gruppi
semiorganizzati, in ogni sorta di condizioni, messi insieme in seguito alla loro casuale
partecipazione ad una particolare forma di occupazione o attività” (Foulkes, 1991, pp. 49-50).
“L’ospedale fu trattato come un tutto e gradualmente fu possibile trasformarlo in una comunità
responsabile autogovernantesi” (ibidem, 67). “Se si paragona il tipo di accettazione di ospedale
ora con quello della fase A, si può avere una buona idea di ciò che significa “trasformare” un
ospedale in una comunità”. Tutti volevano vestire cachi. (ibidem, 70).
CONSIDERAZIONI:
 Problemi del paziente come elemento di un problema di gruppo più complesso
 Recupero della persona come totalità e non come insieme di sintomi
 Piccolo gruppo come luogo di studio operativo ed elettivo
 Pratica psichiatrica rivolta a trattare l’individuo all’interno del suo gruppo
 Localizzazione del disturbo

GRUPPOANALISI ITALIANA (soggettuale) => intorno agli anni ’50 si sviluppa un interesse per
le dinamiche di gruppo di matrice Lewiniana e qualche anno più tardi, i fratelli Napolitani
fondarono le prime comunità terapeutiche italiane, all’interno delle quali la psicoanalisi
applicata ai gruppi diventava il principale strumento terapeutico. Nel 1974 nasce la Società
gruppo analitico italiana (SGAI). Negli anni ‘70/80 nascono numerose associazioni che si
riconoscono nel pensiero di Foulkes, e nell’idea che la Gruppoanalisi fosse un una forma di
analisi dell’individuo attraverso il gruppo. All’interno del panorama italiano, la Gruppoanalisi ha
trovato ampio spazio in diverse città quali Palermo, Milano, Roma e Torino.
La Gruppoanalisi Italiana, o soggettuale, ha sviluppato il suo impianto teorico partendo da
alcune idee foulksiane, analizzando più nel dettaglio le qualità transpersonali e
transgenerazionali:
✓ Il gruppo è la matrice della vita mentale
✓ La psicopatologia è legata alle comunicazioni inconsce familiari
✓ L’individuo nel gruppo è un punto nodale di una rete di rapporti inconsci
Fra i maggiori esponenti italiani emerge la figura di Diego Napolitani (1927-2013); egli si
muove in una prospettiva individuale e gruppale insieme, cercando di eliminare la separazione
tra psicologia individuale e psicologia sociale. Opera una rilettura di Freud mettendo in
evidenza, come sin dal principio, la dimensione relazionale fosse già presente. “Ogni singolo è
dunque costituito di molte masse, è – tramite l’identificazione – soggetto a legami multilaterali
ed ha edificato il proprio ideale dell’Io in base ai modelli più diversi. Ogni singolo è quindi
partecipe di molte anime collettive (…) e, al di sopra di queste, può sollevarsi sino ad un
minimo di autonomia ed originalità” (Psicologia delle masse ed analisi dell’Io, Freud, 1921).
Neotenia => concetto coniato da Gehlen, poi ripreso anche da Foulkes. Questo rappresenta il
modo che l’uomo ha di adattarsi al mondo, e questo adattamento dipende dalla coincidenza di
aspetti biologici e cultuali, in reciproca interazione tra loro. La gruppoanalisi italiana si è
dedicata a chiarire il rapporto tra individuo e collettivo, sottolineando l’importanza di
quest’ultimo, e ribaltando l’idea fenomenica per cui, non sarà più l’individuo a formare il
gruppo, bensì il gruppo a formare l’individuo. Come per Foulkes, anche per Napolitani “il social
non è esterno, bensì anche molto interno, e penetra l’esistenza più interna della personalità
individuale.
Matrice => i fenomeni mentali “non hanno luogo nell’una o nell’altra persona, ma possono
esistere solo attraverso l’interazione tra una o più persone”. Più persone che entrano in
relazione tra loro generano anche un fenomeno nuovo, che non esiste in sé.
Gruppalità interna => si riferisce a quelle relazioni interiorizzate che albergano dentro
ciascun individuo. La vita umana appartiene a più gruppi; l’incontro tra più individui è quindi
l’incontro tra più gruppalità che hanno un comune denominatore relazionale, tanto più
rilevante quanto più prossime sono le matrici storiche, ideologiche ed etnologiche di cui queste
gruppalità sono espressione individuale.
“In passato l’attenzione era centrata sulla malattia come una funzione della personalità
individuale, ma ogni malattia (mentale e fisica) e ogni disturbo coinvolge le relazioni sociali.
Molto spesso i primi segni di un cambiamento, in meglio o in peggio, si mostrano
nell’interazione con gli altri (…)” (Foulkes, 1957). La rete di identificazione di un soggetto
rappresenta uno degli oggetti precipui del lavoro terapeutico con i piccoli gruppi. La famiglia è
la rete primaria in cui si forma in modo rilevante la nostra personalità. L’individuo è un pezzo
di puzzle.
Transpersonale => lega lo psichico, il biologico, il sociale e l’antropologico alla fondazione
della mente e al suo funzionamento. G. Lo Verso sostiene che il transpersonale è il dato
costitutivo, la nascita psichica della personalità umana. Questo dato si trasmette da una
generazione all’altra in un ambiente relazionale familiare ed è sottoposto a continue
interpretazioni e reinterpretazioni da parte dell’individuo, della famiglia e dell’etnia. Presenta 6
livelli, nessuno dei quali è isolabile dagli altri:
1. Biologico-genetico
2. Etnico-antropologico
3. Transgenerazionale
4. Istituzionale
5. Sociocomunicativo
6. Politico-ambientale

“L’insorgere di una nevrosi o di una psicosi, nell’ambito di un gruppo familiare significa che un
membro di questo gruppo assume un ruolo nuovo, si trasforma nel portavoce o depositario di
ansia del gruppo (…). Il malato viene alienato dal suo gruppo” (Pichon-Rivière, 1907-1977).
Secondo Bleger, “i disturbi mentali sono momenti esagerati, isolati e stereotipati della
dinamica familiare”. Nella famiglia interviene la parte psicotica della personalità di tutti i suoi
membri. Il tipo più primitivo di interazione simbiotica è rappresentata dal gruppo agglutinato
che funziona come un tutto in cui l’identità è di gruppo. L’aggressività rappresenta lo
strumento attraverso il quale ciascun membro tende ad affermarsi re attivamente.

LA PRATICA GRUPPOANALITICA => “…Fino a che punto possono spingersi le regole della
tecnica?... la conduzione di un gruppo è un’arte, una dote o può essere insegnata ed appresa?”
(Foulkes, Introduzione alla Psicoterapia Gruppoanalitica, 1991).
 Condizioni stabilite => i pazienti si incontrano con persone con cui non hanno avuto
alcun rapporto o conoscenza precedenti nella vita.
 Forma particolare del gruppo => il paziente entra a far parte di un gruppo in atto,
oppure può cominciare insieme con altri in un nuovo gruppo che può essere sia chiuso,
sia semi-aperto. La forma del gruppo (semi-aperto/chiuso) non influenza il modo di
trattare la situazione psicoanalitica, né cambia il modo in cui vengono condotte le
sedute.
L’utenza “ideale” dovrebbe appartenere ad un livello socioculturale medio o medio-alto e avere
una sufficiente capacità di mentalizzazione; si dovrebbero, invece, escludere i pazienti con
disturbi narcisistici, paranoidi e schizofrenici; tuttavia, oggi, anche queste problematiche
possono essere affrontare in un gruppo di questo tipo. “Bisogna smettere di chiedersi se il
paziente è adatto al nostro trattamento; incominciamo a studiare se il nostro trattamento è
adatto al paziente” (Paul Dell). Claudio Neri: la psicoterapia di gruppo è rivolta soprattutto a
quelle persone che hanno avuto un ambiente familiare e culturale molto limitato e limitante:
un ambiente privo di affetti e anche di autenticità.
Il gruppo come tutto, una globalità dove emergono nuove esperienze e nuovi sentimenti, dove
la persona, oltre a confrontarsi con l’analista, si confronta con i suoi pari.
 Composizione del gruppo = fondamentale affinché sia possibile immergersi nel qui
ed ora della terapia. La difficoltà dei pazienti sta nel riuscire a separarsi dal sintomo e/o
dal loro stile relazionale disfunzionale => Sebbene limitanti, i sintomi sono necessari ai
pazienti perché consentono di mantenersi in equilibrio all’interno di un più largo sistema
relazionale anch’esso disfunzionale. Il gruppo coinvolge, trascina, mescola; diventa
luogo fi scambio affettivo, di condivisione dell’esperienza emotiva.
 Stanza e sistemazione dei posti = La stanza dovrebbe essere di dimensioni
adeguate, né troppo angusta, né troppo grande e idealmente circolare o quadrata.
Dovrebbe essere calda silenziosa, e adeguatamente illuminata, preferibilmente con la
luce che giunge da entrambi i lati o dal soffitto. Se la stanza è buia, le persone
tenderanno a nascondersi nelle ombre. Non ci dovrebbero essere mobili superflui, ma
va evitato un aspetto troppo vuoto. Il CERCHIO di sedie viene collocato intorno ad un
tavolo piccolo, che simbolizza il centro del gruppo e costituisce un punto neutrale in cui
guardare; inoltre aiuta a creare un ambiente più piacevole. Le sedie devono essere
comode, uniformi e semplici; non sono indicate le poltrone perché invitano le persone a
rilassarsi. Il numero delle sedie riflette il numero dei membri che ci si aspetta.
 Il cerchio = La disposizione a cerchio permette ad ogni membro di vedere ogni altro
membro ed anche il terapeuta. Offre la migliore situazione faccia a faccia in cui tutti
sono alla pari. Le dimensioni del cerchio sono significative: se le sedie sono vicine ed il
numero ristretto, i pazienti potrebbero sentirsi spinti controvoglia verso un rapporto
troppo intimo.
 Numero di membri = Il numero ideale è di 7 membri; Un gruppo sotto i 5 membri è
troppo piccolo per poter compiere un buon lavoro. Potrebbe accadere che un gruppo
venga ridotto a 5 o anche a meno membri durante una seduta particolare, per una
coincidenza di assenze. Qualunque numero sopra i 15 fino a diciamo 70 o 80 membri
costituisce un GRANDE GRUPPO. Qualunque numero sopra questi, da 100 in su fino a
diverse migliaia, viene considerata “MASSA”.
 Posizione = il luogo dove le persone si siedono ed ogni cambiamento nella scelta del
loro posto costituiscono comunicazioni significative. Contiene elementi relativi al
conduttore, agli altri membri e allo “spazio” totale del gruppo. Il conduttore prende
solitamente sempre la medesima sedia. Questo rende meno probabili cambiamenti
frequenti delle posizioni dei pazienti e conferisce ad essi maggiore significato quando
avvengono. La sedia accanto al conduttore esprime un rapporto di dipendenza
particolare da lui, oppure il bisogno di essere protetto; potrebbe anche esprimere il
bisogno di nascondersi a lui. I nuovi arrivati tendono frequentemente a scegliere questa
posizione, e con l’aumento dell’indipendenza si allontanano. Un paziente che si siede di
fronte al conduttore esprime opposizione e un rapporto ambivalente, ostile. Il
cambiamento di posizione solitamente esprime sentimenti riguardo al gruppo o ad un
membro particolare del gruppo, di solito la persona seduta accanto. La vicinanza o
lontananza rispetto al conduttore riflette esattamente il grado di partecipazione ed è
relativo alla forza del transfert.

Ingresso nuovi membri => il terapeuta dovrà porsi una serie di interrogativi per verificare la
compatibilità tra il paziente che si pensa di voler inserire ed il gruppo, e viceversa. I
primogeniti saranno ostili nei confronti dei secondogeniti, in quanto avvertiranno la perdita del
loro ruolo unico e privilegiato di cui hanno goduto sino al momento della nascita. Così come
avviene nel nucleo familiare, anche in un gruppo gruppoanalitico esistono relazioni verticali
(paziente- analista) e relazioni orizzontali (paziente-pazienti); anche l’ingresso di un nuovo
membro cambia la fisionomia e rimescola determinati equilibri del gruppo. Per inserire un
nuovo componente all’interno di un gruppo che già è formato non basta verificare l’eventuale
compatibilità del potenziale paziente con i membri già preesistenti, ma diviene necessario e
fondamentale valutare la matrice di gruppo nel momento in cui pensa di attuare l’inserimento.
(Napolitani). I fenomeni di drop-out si verificano in concomitanza con un nuovo ingresso
(Brunori, 1993).
Durata => la scelta di un’ora e mezza come durata standard del gruppopsicoanalitico è
puramente empirica, ma per consenso comune viene diffusamente accettata. I gruppi a
orientamento gruppoanalitico hanno una durata medio-lunga, di almeno tre anni.
Frequenza => riguardo alla frequenza, il minimo è una volta alla settimana. Le sedute
dovrebbero essere piuttosto regolari: stesso orario ogni settimana. “Tuttavia, ho trovato le
sedute bisettimanali molto più soddisfacenti. La continuità viene accresciuta e solo con i gruppi
bisettimanali ho imparato ad apprezzare in pieno in quale misura le sedute individuali
rimangono coerenti. Le due sedute devono essere distribuite in modo che rimangano
equidistanti.” (Foulkes, 1975).
Principi di condotta richiesti:
❖ Regolarità => l’assenza del paziente rompe l’intercomunicazione e la continuità
dell’intero processo di gruppo. Le assenze producono lacune nell’interazione e nella
comprensione del gruppo, che sono solo parzialmente recuperabili. Individui la cui
presenza è irregolare ostacolano anche il proprio progresso. Ai pazienti viene richiesto
di avvertire in anticipo dell’assenza, quando essa è inevitabilmente prevista.
❖ Puntualità => quella del conduttore è importantissima poiché immancabilmente la
seduta stessa inizia con il suo arrivo. Anche l’onere di concludere la seduta spetta al
terapeuta. L’arrivo anticipato è raramente abituale; Può diventare un problema se
diversi pazienti arrivano presto, come per un tacito accordo e questo causerà la
formazione di sottogruppi con tutto il loro significato dinamico. Anche il ritardo è molto
significativo (sporadico = resistenza temporanea; cronico = fattore caratteriale).
❖ Attività post-gruppo => I pazienti, una volta lasciata la stanza della riunione di
gruppo, non tendono a continuare il contatto reciproco lungo i corridoi ed in strada.
Benché gli incontri fuori dal gruppo sono scoraggiati, questo tipo di contatto è
inevitabile e va accettato.
❖ Discrezione => Si presume che le faccende discusse nel gruppo rimangano riservate
non discusse con altre persone. Entro certi limiti, si può prevedere che i pazienti
parleranno del gruppo ad un coniuge o ad un’altra persona. Il gruppo accetta l’apertura
di questo canale di comunicazione con un parente stretto, però è importante che queste
comunicazioni vengano riportate al gruppo. Il paziente non deve temere di informare il
gruppo delle sue conversazioni e quasi sempre il gruppo può trattare questo fattore
molto bene senza colloqui speciali.
❖ Astinenza => Si riferisce anche a stratagemmi volti ad alleviare la tensione quali il
fumare, il bere o il mangiare nel corso della seduta. Si chiede al paziente di astenersi da
ogni contatto fisico, tenero o ostile nei confronti degli altri pazienti.
❖ Nessun contatto esterno => I pazienti devono essere estranei a vicenda e non
devono avere alcun rapporto nella vita, altrimenti non si sentirebbero liberi di parlare
nel gruppo se ciò comportasse conseguenze nella vita reale. Sappiamo che non ci si può
aspettare una adesione assoluta, quindi è importante che qualsiasi cosa accada fuori,
venga riportata al gruppo e possa essere analizzata.
❖ Nessuna decisione vitale durante il trattamento => Nel corso della terapia, è
essenziale e vitale riprendere qualunque decisione che possa comportare conseguenze
serie nella realtà; sono da evitare soprattutto le decisioni irreversibili, come un
cambiamento di professione, un matrimonio o un divorzio.
Questi principi di condotta possono essere talvolta violati temporaneamente e
“innocentemente”; rappresentano per il conduttore l’opportunità di educare il gruppo a questi
principi per favorire la comprensione ed il rispetto per essi. Se un qualunque membro si rifiuta
consciamente e costantemente di conformarsi a questi principi dovrà considerarsi come NON
QUALIFICATO per questa forma di trattamento. Le sedute assumono la forma di una
discussione. I pazienti non devono attenersi in modo logico e sistematico a qualche punto
particolare, ma devono sentirsi liberi di dire in qualunque momento “cosa hanno in mente,
cosa viene loro in mente, cosa pensano e sentono” (Foulkes, 1975).

Ruolo e stile del conduttore => osservazione partecipata => “sta con un piede fuori e uno
dentro”. Facilità l’emersione del gruppo stesso. Il conduttore NON deve tirare il gruppo, ma
sono i MEMBRI che devono spingersi da soli.
 Competenze imprescindibili: sa stare (saper stare) nella situazione terapeutica;
Responsabilità della cura; Sguardo alla polis; setting elastici; lettura del contesto;
flessibilità; capacità di creare reti.
 Formazione del conduttore = Training con analisi personale individuale e/o di
gruppo, partecipazione a workshop, a momenti esperienziali di dinamica di gruppo,
osservazione dei gruppi terapeutici, supervisione, seminari teorico clinici. Questi sono
percorsi fondamentali ma insufficienti; per essere PSICOTERAPEUTI COMPETENTI non si
può prescindere dalla conoscenza del cinema, del teatro, della musica, della poesia,
perché costituiscono delle metafore del mondo che possono essere adoperate nel lavoro
clinico; è necessario conoscere la mitologia, l’antropologia, l’etica, il diritto e la grande
letteratura. “Lo psicoterapeuta deve essere un intellettuale curioso” (Di Maria).
 Principali compiti del conduttore = svezzare il gruppo; astenersi dagli argomenti
preordinati; restare sullo sfondo; selezionare i pazienti; comunicare regole e norme.
Il conduttore deve avere un atteggiamento attivo, favorire un’atmosfera partecipativa e non
giudicante e attivare l’autonomia.
Matrice dinamica di gruppo: tutto ciò che influenza profondamente lo stile e l’operato del
gruppo.
Interpretazione => Il conduttore, come analista di gruppo, deve, ricorrere all’interpretazione
nel suo lavoro terapeutico, sebbene questa rappresenti una tra le tante modalità di intervento
possibili. Infatti, oltre ad interpretare, egli deve: - analizzare, - porre domande – richiedere
informazioni; deve procedere da ciò che è manifesto a ciò che è latente. “una comunicazione
verbale dal conduttore al gruppo, o ai membri del gruppo, avente lo scopo di attirare la loro
attenzione su un certo significato rispetto al quale egli pensa siano inconsapevoli, ma di cui
potranno divenire consapevoli con il suo aiuto verbale” (Foulkes, 1975). Il terapeuta deve
inoltre essere abile nel comprendere qual è il momento giusto (il timing) per fornire la sua
interpretazione, che dovrebbe essere fornita dopo aver atteso che l’insight provenga dal
gruppo stesso.
Principi terapeutici = Tutti i tipi di gruppo hanno in comune l’assetto gruppale (inteso come
campo psicorelazionale) ed esso è il primo fattore terapeutico cui prestare attenzione. Gli
obiettivi sono una delle questioni da cui partire nel lavoro con i gruppi: essi vanno elaborati
inizialmente dal terapeuta e discussi da lui e dai pazienti e via via ri-elaborati, integrati,
modificati ecc.. Gli obiettivi, in linea di massima, sono quelli classici della terapia analitica
ampliati rispetto a temi quali il contesto relazionale familiare e non, i vissuti rispetto al
transgenerazionale e trans personale.
• Fattori terapeutici classici (Yalom) = coesione di gruppo; speranza; universalità;
altruismo; apprendimento (su di sé, interpersonale, vicario); informazione, guida,
orientamento; mobilitazione emotiva, catarsi; autorivelazione di sé.
• Fattori terapeutici trasformativi = risonanza; rispecchiamento; processi di
identificazione, proiezione, identificazione proiettiva, comunicazione inconscia,
comunicazione non verbale; vivere l’esperienza del gruppo e della relazionalità;
condivisione della sofferenza; incontro/scontro fra matrice familiare (gruppo interno,
transpersonale) e matrice dinamica del gruppo terapeutico; distanziamento dal campo
gruppale interno; interpretazione analitico-gruppale; rielaborazione soggettiva;
trasformazione complessiva.
Ricerca in gruppoanalisi => Oggi, tendenzialmente, la psicoterapia di prima scelta è quella di
gruppo. Questa mostra in tutte le ricerche un’efficacia almeno pari a quella individuale ma
consente un’esperienza relazionale e sociale più ampia ed una maturazione psichica più forte.
La terapia analitica di gruppo ha costi decisamente minori per i pazienti e per il servizio
sanitario. Tendenzialmente inferiori persino alle terapie brevi che richiedono degli ulteriori
trattamenti, ed ai trattamenti farmacologici di lunga durata. Un altro punto innovativo è quello
della ricerca empirica in psicoterapia. Essa inizia ad essere sistematica anche in Italia e nel
campo dei gruppi che, tuttavia, è in ritardo. (Lo Coco, Prestano, Lo Verso 2008).
In termini di ricerca è stato effettuato uno studio con gruppi monosintomatici per disturbi
alimentari, svolti in centri privati o pubblici siciliani. I gruppi erano a tempo limitato (due anni
circa) e composti da donne (pazienti e analiste). Il monitoraggio con strumenti clinici dei
gruppi ha evidenziato risultati ottimi e stabili con le pazienti anoressiche e risultati insufficienti
con le bulimiche. La ricerca in questo campo risulta essere complessa, in quanto deve
comprendere la ricerca sull’efficacia e sul processo qualitativo e quantitativo, la ricerca
contemporaneamente effettuata sui pazienti singoli, sul gruppo e le sue dinamiche e sul
terapeuta/i.

PSICOTERAPIA PSICODINAMICA BREVE


I primi casi studiati da Freud (Studi sull'Isteria) su pazienti isterici furono di breve durata.
Ferenczi (L'ulteriore sviluppo di una Terapia Attiva in Psicoanalisi) già nel 1920 introdusse una
tecnica più attiva, incoraggiando i pazienti alla produzione di associazioni e fantasie.
Focalizzata su specifici problemi emotivi in un numero limitato di sedute.
Rank (Il Trauma della Nascita, 1924) propose di fissare un limite temporale al trattamento
psicoanalitico. Adler rinunciò all'uso del lettino, e utilizzò la posizione vis-à-vis. Con
l’Esperienza Emozionale Correttiva, concetto elaborato da Alexander e French (1946), l’aspetto
emozionale diviene rilevante. Alexander e French identificarono la maggior parte delle
caratteristiche di base della psicoterapia breve. Descrissero un'esperienza terapeutica che
mette il paziente a suo agio, manipola il transfert e usa tentativi di interpretazione in
modo flessibile. L'interesse era posto sullo sviluppo di un’Esperienza Emozionale Correttiva
in grado di riparare eventi traumatici del passato e di convincere il paziente che sono possibili
nuovi modi di pensare, sentire e comportarsi.
Balint (1955) cominciò a sperimentare forme brevi di psicoterapia (Brief Psychotherapy
Workshop alla Tavistock Clinic). Circoscrivere il conflitto del paziente (Terapia Focale Breve).
Malan, un membro del gruppo Tavistock, descrisse i risultati della terapia. Max 30 sedute.
I criteri di selezione di Malan per la terapia sono: la chiara valutazione della psicopatologia del
paziente e la determinazione della capacità del paziente di considerare i problemi in termini
emozionali, di affrontare argomenti disturbanti, di rispondere alle interpretazioni e di tollerare
lo stress del trattamento. Malan scopri che una forte motivazione si correlava invariabilmente
con un esito positivo. Controindicazioni al trattamento sono i tentativi di suicidio, la dipendenza
da sostanze, l'abuso cronico di alcool, i sintomi ossessivi cronici incapacitanti, i sintomi fobici
cronici incapacitanti e le gravi manifestazioni distruttive o autodistruttive.
Un modello psicoterapeutico di 12 sedute focalizzate su un tema centrale specifico è stato
sviluppato all'università di Boston da Mann e dai suoi collaboratori nei primi anni Settanta. In
contrasto con l'enfasi posta da Malan sui criteri di selezione ben definiti, Mann non è stato
altrettanto specifico nel definire chi sia un buon candidato per una psicoterapia a tempo
limitato. I punti principali, che Mann considera importanti, sono la determinazione di un
conflitto centrale e ragionevolmente corretto nel paziente e, nei giovani, le crisi di maturazione
con vari disturbi psichici e somatici. Mann ha stabilito anche alcune eccezioni, simili ai criteri di
esclusione di Malan. Tali eccezioni sono un disturbo depressivo maggiore che interferisce con
l'accordo sullo scopo e le modalità del trattamento, uno stato psicotico acuto e un paziente
disperato che ha bisogno di relazioni oggettuali, ma è incapace di tollerarle.
Sifneos (1972) propone la Psicoterapia Breve Mobilizzante l'Ansia (STAPP), con un approccio
simile a quello di Malan, ma ancor più rigidamente focale. Short Term Anxiety-Provoking
Psychotherapy.
Negli anni Cinquanta la psicoterapia a breve termine generatrice d'ansia venne sviluppata
inizialmente al Massachusetts General Hospital. Vengono usati i seguenti criteri di selezione:
capacità di circoscrivere il disturbo principale (ciò implica la capacità di selezionare da una
serie di problemi un problema a cui il paziente dà priorità assoluta e che vuole risolvere nel
trattamento); presenza di una relazione significativa o di compromesso nella prima infanzia;
capacità di interagire in modo flessibile con l'esaminatore e di esprimere i propri sentimenti in
maniera adeguata; un grado di raffinatezza psicologica superiore alla media (ciò implica non
solo un'intelligenza superiore alla norma, ma anche la capacità di rispondere alle
interpretazioni); una formulazione psicodinamica specifica (di solito una serie di conflitti
psicologici alla base delle difficoltà del paziente e centrate su un focus edipico); un contratto
tra paziente e terapeuta per lavorare sul focus specifico e la formulazione di aspettative
minime di risultato; una motivazione buona o ottima per il cambiamento e non solo per
ottenere un sollievo sintomatico.
Psicoterapia Intensiva Dinamica Breve (1990) => dimostra mediante casi videoregistrati,
la possibilità di promuovere un cambiamento profondo con un atteggiamento molto attivo e
incisivo da parte del terapeuta (meno di 40 sedute) mediante la mobilizzazione delle emozioni
dovute al transfert ed il lavoro diretto con i meccanismi di difesa. Così come è stata condotta
da Davanloo all'università McGill, la psicoterapia dinamica a breve termine comprende tutti i
tipi di psicoterapia breve e di intervento sulla crisi. I pazienti trattati nelle sedute di Davanloo
sono classificati come soggetti con conflitti psicologici prevalentemente edipici, con conflitti non
edipici e con conflitti con più di un elemento focale. Inoltre Davanloo ha creato una specifica
tecnica psicoterapeutica per pazienti con problemi nevrotici gravi e persistenti, soprattutto se
affetti da disturbi ossessivo-compulsivi e fobie incapacitanti. I criteri di selezione di Davanloo
mettono in rilievo la valutazione di quelle funzioni dell'ego che sono di primaria importanza per
il lavoro psicoterapeutico: l'individuazione di un focus psicoterapeutico; la formulazione
psicodinamica del problema psicologico del paziente; la capacità di essere coinvolti
nell'interazione emozionale con chi elabora la valutazione; la storia di una relazione di
compromesso con una persona significativa nella vita del paziente; la capacità del paziente di
avvertire e tollerare ansia, senso di colpa e depressione; la motivazione del paziente al
cambiamento; la sensibilità del paziente ai problemi psicologici e la sua capacità di rispondere
all'interpretazione e di collegare l'esaminatore con persone del presente e del passato.
Durata della terapia => Prevede una prima seduta lunga, di circa 3 ore, per permettere al
terapeuta ed al paziente di fare una vera e propria “prova di relazione”, una replica di quelle
che saranno le sedute della terapia, per instaurare la relazione terapeutica e valutare
approfonditamente le problematiche del paziente. Con pazienti poco resistenti o senza nuclei di
particolare fragilità può essere sufficiente quest’unica seduta. Le 4-5 sedute successive sono
solitamente di un’ora e mezza, mentre poi è possibile procedere con sedute da 50-60 minuti
settimanali o mantenere l’ora e mezza ogni 15 giorni. Nel corso degli ultimi 10 anni la terapia è
stata organizzata anche in blocchi di sedute (Block–Therapy) di 6-8 ore suddivise in 2 giorni
consecutivi (3-4 ore a seduta), ripetibili a distanza di settimane o mesi.

ACQUISIZIONI DELLA TERAPIA INTERPERSONALE NEL TRATTAMENTO DELLA


DEPRESSIONE
La scuola interpersonale si sviluppa fra gli anni ’30 e ’40 nell’area tra Washington e Baltimora,
dove era forte l’influenza dell’impostazione psicobiologica di Meyer, che per primo aveva esteso
la riflessione psichiatrica ai problemi socio-relazionali.
L’approccio interpersonale si propone di emancipare la formazione dell’Io dai condizionamenti
biologici a cui Freud l’aveva sottoposta (pulsioni), per ricondurla invece all’interazione umana
considerata come primaria e tale da condizionare la stessa evoluzione biologica.
Visione dell’uomo e delle sue sofferenze come risultato delle sue relazioni interpersonali,
culturali e ambientali.
Harry Stack Sullivan (1892-1949) => Definisce la psichiatria come lo studio delle relazioni
interpersonali, elaborando una teoria dei collegamenti tra disturbi psichiatrici e relazioni
interpersonali nel periodo evolutivo e nella vita adulta. Sposta quindi l’attenzione dai conflitti
intrapsichici alle dinamiche interpersonali, formulando il concetto di campo relazionale. La
personalità individuale è il prodotto dell’interazione di campi di forza interpersonali, di contesti
relazionali non solo reali ma anche immaginari, che agiscono come personificazioni interiori
anche in situazioni di isolamento.
John Bowlby (1907-1990) => Un contributo fondamentale nello sviluppo dell’approccio
interpersonale è quello della teoria dell’attaccamento, secondo cui gli esseri umani mostrano
una tendenza innata alla ricerca di legami di attaccamento, che assolvono la funzione di
garantire la sopravvivenza non solo dell’individuo, ma dell’intera specie. Il legame di
attaccamento infantile plasma lo stile relazionale in età adulta. I problemi relazionali dell’adulto
sono riconducibili a carenze del processo di attaccamento in età evolutiva.

LE ORIGINI => Klerman e Weissman, 1984 trattamento per la depressione pragmatico,


strategicamente coerente, limitato nel tempo. Influenza delle teorie psicodinamiche. Tuttavia, i
presupposti psicodinamici non sono esplicitati: astensione del terapeuta da interventi di
interpretazione. Influenza della CBT con cui è condiviso l’approccio direttivo: entrambe
prevedono un intervento attivo del terapeuta volto all’acquisizione di nuovi modelli di relazione
o di comportamento. Specificatamente rivolta a pazienti depressi, non psicotici e non bipolari:
• Intervento manualizzato: altamente strutturato, prevede il riconoscimento di aree
problematiche interpersonali collegate all’esordio della depressione.
• Breve durata: predeterminata, 12-16 sedute di un’ora a frequenza settimanale.
• Intervento bifocale: mira al miglioramento dei sintomi depressivi e ad affrontare i
problemi interpersonali associati all’esordio.
Le sedute iniziali: Spiegare al paziente i principi dell’IPT e stipulare il contratto terapeutico;
Affrontare con il paziente la depressione come malattia; Inserire la depressione nel contesto
Interpersonale; Identificare l’area problematica (Interpersonal Inventory).
Le sedute intermedie: Focalizzate su un’area problematica interpersonale: il dolore del lutto;
i contrati interpersonali; le transizioni di ruolo; i deficit interpersonali.
Le tecniche: Esplorazione; Incoraggiamento dell’espressione degli affetti; Chiarificazione degli
stati emotivi; Confrontazione; Tecniche di modificazione del comportamento; Uso della
comunicazione terapeutica.
Il ruolo del terapeuta: non neutrale, ma empatico; attivo; la relazione terapeutica non è una
relazione di transfert.
Obiettivi: Esplicitare i vissuti che riguardano la conclusione del trattamento; Riconoscere che
la conclusione rappresenta un momento doloroso; Orientare il paziente a riconoscere e
sviluppare la propria autonomia.
Fase acuta = L’IPT è risultata superiore al placebo e sovrapponibile alla terapia farmacologica
nel miglioramento della sintomatologia depressiva di grado lieve-moderato in fase acuta.
Fase di mantenimento = Nella fase di mantenimento l’IPT sembra possedere un’efficacia
paragonabile agli antidepressivi.
Prevenzione di ricorrenze = L’IPT si è dimostrata superiore al placebo, ma non agli
antidepressivi, né alla terapia combinata nella prevenzione delle ricorrenze depressive. Altri
studi evidenziano la superiorità della terapia combinata (IPT + farmaco versus farmaco
singolo) nella prevenzione delle recidive.
Confronto tra psicoterapie = Gli studi di confronto fra IPT e altre psicoterapie hanno
evidenziato un’efficacia superiore alla psicoterapia supportiva e pari alla CBT in termini di
miglioramento clinico della depressione. L'IPT ha dimostrato efficacia superiore alla CBT
nell’area del funzionamento interpersonale. Il contributo dell'IPT risulta determinante nel
cambiamento di dinamiche sociali e relazionali della depressione.
Terapia combinata = Dati a favore della superiorità della terapia combinata rispetto alla
farmacoterapia o alla psicoterapia singola, soprattutto nei casi di depressione grave o cronica.
Iniziali evidenze di superiorità di un trattamento sequenziale:
1. TERAPIA FARMACOLOGICA = iniziale miglioramento dei sintomi depressivi
2. Mobilitazione di risorse psichiche
3. INTERVENTO PSICOTERAPICO = consolidamento dei risultati clinici e miglioramento della
relazione terapeutica
4. Miglioramento della compliance farmacologia
E così via…
Particolari applicazioni dell’IPT a particolari popolazioni di pazienti con DDM: donne nel post
partum; donne in gravidanza; adolescenti; anziani; ideazione suicidaria; reduci di guerra;
depressioni sottosoglia; pazienti della medicina generale; pazienti oncologici; pazienti
mastectomizzate per K mammella; psichiatria di liason.
Recenti applicazioni dell’IPT oltre la depressione maggiore: disturbo bipolare; disturbo borderline
di personalità; disturbo distimico; disturbo del comportamento alimentare; disturbo di panico.

Linee guida per il trattamento della depressione:


• Le linee guida della NICE (National Institute for Health and Care Excellence, 2009)
suggeriscono l’utilizzo della psicoterapia in monoterapia nel trattamento di sintomi
depressivi sottosoglia persistenti e di depressioni lievi-moderate. Riservano l'uso di
farmaci nei casi in cui i sintomi non migliorino con l’intervento psicoterapico e nei casi di
depressioni moderate-gravi. Evidenze di efficacia per: CBT, IPT.
• Le linee guida del CANMAT (Canadian Network for Mood and Anxiety Treatments, 2009)
raccomandano il ricorso alla psicoterapia sia nella fase acuta che in quella di
mantenimento. Evidenze di efficacia per CBT, IPT => + FARMACOTERAPIA.
• Le linee guida dell’APA (American Psychiatric Association, 2010) suggeriscono l’utilizzo
della psicoterapia in monoterapia nel trattamento di depressioni lievi-moderate.
Riservano a forme moderate-gravi la combinazione di farmaco e psicoterapia. Evidenze
di efficacia per: CBT, IPT, PSICOTERAPIE PSICODINAMICHE, TERAPIE BASATE SUL
PROBLEM SOLVING.

IPT: PUNTI DI FORZA


 Universalità: ampia diffusione in diversi paesi del mondo
 Accessibilità: fruibile anche da pazienti con rilevanti problematiche medico-chirurgiche
o socio-assistenziali
 Versatilità: format facilmente adattabile a popolazioni cliniche particolari
 Evidence-based: nasce in setting di ricerca e trae sostegno dalle prove di efficacia

IPT: PROSPETTIVE
1) Esplorare i meccanismi d’azione dell’IPT, gli ‘ingredienti attivi’ del trattamento. Precisare il
ruolo dei fattori specifici dell’intervento. 2) Individuare i fattori clinici che predicono i risultati
dell’IPT, i biomarker e gli endofenotipi associati alla risposta. 3) Chiarire il contributo dell’IPT
rispetto alla terapia farmacologica nella terapia combinata e sequenziale della depressione
maggiore. 4) Testare l’efficacia dell’IPT nell’applicazione in popolazioni particolari di pazienti
depressi e per disturbi diversi dal DDM, così da formulare indicazioni più precise su
appropriatezza e durata del trattamento.

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