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Per modelli operativi interni si intende l’insieme delle rappresentazioni relative al funzionamento delle

relazioni di attaccamento e al loro significato. Ciò significa che i pattern reiterati delle esperienze con le
figure di attaccamento (similmente agli «schemi di essere con» definiti da Stern) vengono registrati nella
memoria implicita e qui si stabilizzano sotto forma di modelli mentali, o schemi cognitivo-affettivi, per
essere utilizzati come guida interiore per predire l’ambiente relazionale e mettersi in relazione con esso
[Bretherton e Munholland 2002].

Un simile approccio, che sfida l’autorità immeritata del terapeuta [Wallin 2007], dona una maggiore
credibilità al paziente e fa sì che questi viva il terapeuta come una nuova figura di attaccamento e come una
base sicura, perché il rivelare i propri pensieri e sentimenti, con un sapiente atteggiamento di apertura alla
relazione [Safran e Muran 2003], aiuta i pazienti a prendere possesso delle esperienze disconosciute [Wallin
2007], permettendo che il «conosciuto non pensato» citato da Bollas [1987] trovi spazio nel terapeuta.

Il segreto può avere funzioni diverse dalla difesa dell’integrità narcisistica in quanto può nascondere un
aspetto impresentabile del Sé, può nascondere un evento o azione criticabile o punibile, può difendere
verso l’intrusività pericolosa e temuta dell’altro o ancora può rappresentare lo spazio privato del Sé che
necessita di segretezza, più che di segreto, come aspetto identitario. Pertanto si ritiene importante
differenziare la segretezza dal segreto, attribuendo alla prima quel significato protettivo e costruttivo
della parte pensante intima del Sé, la parte autentica indicibile del Sé, lo spazio privato del Sé.
Transfert e controtransfert possono essere riletti alla luce della nuova e dialogica esperienza terapeutica e,
allo stesso modo, le resistenze, che in termini gruppali chiamiamo «il segreto indicibile del gruppo»,
assumono un nuovo significato interpersonale: la resistenza diviene mezzo di comunicazione e strada verso
la consapevolezza e la possibile integrazione dell’esperienza scissa.

Sin dalla metà del XX secolo la stessa psicoanalisi si impegna a risolvere i problemi della relazionalità umana.
Gli autori relazionali contribuiscono alla comprensione clinica dei diversi aspetti e delle diverse implicazioni
della relazionalità umana e dell’attaccamento. In accordo con Mitchell, tra i teorici relazionali più importanti
individuiamo Sullivan, Fairbairn, Winnicott, Bowlby e Loewald. L’americano Loewald suggerisce che il Sé e
l’altro esistono a vari gradi di non differenziazione reciproca, per cui gli attaccamenti sani consistono nella
capacità di contenere differenti forme di relazionalità che si arricchiscono a vicenda, ma è Sullivan [1953]
che definisce per la prima volta la nozione di campo interpersonale, inteso come la dimensione secondo la
quale la mente è transpersonale e contestuale ed emerge nelle interazioni con altre menti, condizione per
la quale lo psicoterapeuta interviene nella relazione analitica inevitabilmente come un partecipante attivo e
non più come un semplice osservatore.

Ogni mente individuale è così un ossimoro, in quanto ogni mente è frutto di fenomeni interattivi e la
soggettività si sviluppa sempre nel contesto dell’intersoggettività [Mitchell 2000].

la gruppoanalisi foulkesiana e postfoulkesiana tematizza il concetto di inconscio sociale, definito come


inconscio interpersonale e condiviso. Tale concetto spiega come, per la teoria gruppoanalitica, la mente è il
prodotto transgenerazionale di una matrice psichico-relazionale e sociale, per cui, entro questo universo
teorico, utilizzare la nozione di inconscio sociale significa considerare che i contenuti verbali delle produzioni
del paziente e le sue simbolizzazioni affettive sono condizionate dagli accadimenti politici e sociali con cui il
soggetto viene a contatto.

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Secondo Bretherton [1995], inoltre, i modelli operativi interni sono il prodotto di una serie di operazioni di
immagazzinamento, richiamo alla memoria e costruzione delle informazioni, in quanto il concetto di
modello operativo consiste nei modelli organizzati da un lato nella memoria a lungo termine, dall’altro nella
memoria operativa, essendo tali modelli anche deputati alla comprensione delle nuove situazioni che si
presentano all’individuo – similmente a quanto affermato da Byng-Hall [1995], secondo cui i copioni sono
rappresentazioni di interazioni multipersonali e si attivano all’interno della famiglia.

Riprendendo la teoria della plasticità neuronale, egli descrive l’esperienza relazionale come in grado di
influenzare lo sviluppo della struttura cerebrale e delle sue funzioni. Gli scambi emotivi devono essere
caratterizzati, perché si crei un rapporto di attaccamento sicuro, dalla capacità dell’adulto di reagire in
maniera pronta e adeguata ai segnali trasmessi dal bambino, fornendo risposte che favoriscano la
produzione di stati emozionali positivi e che facilitino il controllo di quelli negativi. L’autore definisce così la
mente come relazionale e inserisce lo sviluppo dell’attività cerebrale in un contesto di interazione tra
neurobiologico e interpersonale.

I fenomeni relazionali che entrano a far parte del campo di conoscenza relazionale implicita comprendono i
«modelli operativi interni di attaccamento» di Bowlby [1969], gli «involucri protonarrativi» e «gli schemi di
essere con» di Stern [1995] e gli «scripts relazionali» di Trevarthen [1993].

Se da un lato, dunque, l’interpretazione è un evento terapeutico che riorganizza la conoscenza dichiarativa


conscia del paziente (rendere conscio l’inconscio), dall’altro l’evento che riorganizza la conoscenza
relazionale implicita del paziente e del terapeuta è definita da Stern e dai colleghi del Boston Change
Process Study Group [ibidem] «momento di incontro», ovvero un evento che coglie l’esperienza soggettiva
di un cambiamento improvviso della conoscenza relazionale implicita dell’analista e del paziente. Tra essi
esiste infatti un ambiente intersoggettivo fondato sulla conoscenza reciproca di ciò che è presente nella
mente dell’altro riguardo alla natura e allo stato della relazione clinica, parimenti a quanto avviene tra
bambino e genitore, i quali reciprocamente regolano il proprio stato mentale e quello dell’altro in funzione
di un obiettivo comune [Tronick 1993]. Centrale in ciò è però la capacità della figura di accudimento di
comprendere lo stato mentale del bambino, così da attivare la regolazione reciproca che il bambino potrà
interiorizzare, ponendo le basi per la conoscenza relazionale implicita.

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