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Il lavoro nella Sacra Scrittura

Il credente non può non interrogarsi sul significato del lavoro secondo la Bibbia. La
prima costatazione emerge dal fatto che nel ‘libro dei libri’ non si affronta la questione del lavoro
dal punto di vista in cui è emersa nella moderna società industriale, vale a dire, la produttività, la
gestione d’impresa, l’utilità, i rapporti fra imprenditori e lavoratori, la vita in società che sgorga
dall’attività lavorativa. Non c'è nessun termine nella Bibbia che esprima ciò che oggi
generalmente si intende per ‘lavoro’, cioè non solo l’agire umano generico, ma quel tipo di
attività che sia considerata sia nel suo fine ultimo, sia in sé, per il suo contenuto operativo,
diverso dalla trasformazione e fruizione dei beni prodotti.

1. Il lavoro nell’Antica Alleanza


1.1. Analisi lessicale
Nella Bibbia ebraica esiste una parola per riferirsi al lavoro, ‘abodah. Il termine fa
riferimento innanzitutto al lavoro servile, quel lavoro che si fa per un altro in condizione di
servo, ‘ebed. Così si parla di lavoro agricolo, come quello che fece Giacobbe a suo suocero
Labano, curando il suo gregge durante quattordici anni per ottenere Rachele come sposa (Gen
29,18-28). Per quanto riguarda il culto, ‘abodah indica i lavori di erezione e conservazione del
tabernacolo, i lavori di manutenzione del tempio nonché quelli di tessitura e della cura dei vasi, e
in modo più generico il lavoro dei leviti: preparazione delle feste e, in concreto, del pane senza
lievito per la Pasqua, il canto e la cura delle porte durante le cerimonie. Il concetto segnala anche
il lavoro che fece il popolo d’Israele in Egitto, e il servizio militare. 1
Altri termini che indicano il lavoro sarebbero: mela'lcah, opera, compito, occupazione;
mas, lavoro forzato; sebel, lavoro sociale, attività pubblica; ma`seh, occupazione; naba', lavoro
da schiavo, servizio, compito arduo; debar yóm, lavoro giornaliero, simile a mele'ket `abodah,
lavoro ordinario, giornaliero; `amal, lavoro, prestazione, fatica, con i suoi sinonimi yegia’, fatica,
lavoro, stipendio; `issabón, fatica, stanchezza.
La versatilità semantica del lessico biblico rivela, fra l’altro, la mancanza di elaborazione
teorica e rivela un approccio piuttosto indifferenziato e generico alla realtà del lavoro. Forse ciò è
1
Edward ROBINSON, Samuel R, DRIVER, Wilhelm GESENIUS, Charles A. BRIGGS, A Hebrew and English
Lexicon of the Old Testament: with an appendix containing the Biblical Aramaic, University Press, Oxford 1906, in
loc.
dovuto al fatto che la Bibbia non considera il lavoro come un segmento isolato dell'esistenza
umana, ma nel tessuto vivo e complesso della vita dell'uomo. L'attività umana è continuamente
presente nei testi biblici; ma in essi il lavoro, nel senso moderno del termine, è proprio assente.
L’attività artigianale, infatti, o l’opera del piccolo agricoltore non rimandano al lavoro intensivo
e organizzato dell’era moderna. Ciò farebbe pensare che la Bibbia non manifesti un interesse
particolare per la realtà lavorativa, fra l’altro perché non vi si trovano dei giudizi sul valore o sul
significato del lavoro in sé stesso.2
Il tema del lavoro però, pur essendo quasi onnipresente, non ha particolare rilevanza per
l'annuncio biblico, che nella prospettiva della nuova alleanza è incentrato sull'annuncio del regno
di Dio, e in definitiva sul mistero di Gesù Cristo. Considerato in sé stesso, il lavoro fa sì, parte
della vita umana, ma non esaurisce in essa il suo significato; tuttavia, il lavoro descrive in un
certo senso quell'esistenza umana, la sua finitezza creaturale e il suo bisogno di salvezza.
Pertanto, è logico che il lavoro sia considerato all'interno della visione antropologica biblica in
relazione a Dio, dove acquisisce una dimensione completamente nuova.
Come si dovrebbe allora cercare il concetto specifico di lavoro nella Bibbia? Come punto
di partenza si può assumere che il lavoro è un'attività manuale o intellettuale con la quale la
persona umana conosce il mondo e allo stesso tempo si realizza nel contesto delle relazioni con
gli altri. Non si tratta logicamente di una definizione biblica del lavoro, ma di un approccio che
permette un'indagine biblica a partire dalle domande odierne. Il concetto di lavoro include non
soltanto l’attività umana svolta, ma anche l’esito di essa o l’opera che ne risulta, nonché la fatica
che l’accompagna. Così si mette a fuoco non solo la persona che lo realizza ma le sue
caratteristiche individuali (servizio, diligenza, creatività) e le relazioni sociali che si creano,
come la servitù, la dipendenza e la collaborazione.3
Non si può dunque pensare di dedurre dalla Bibbia una visione organica del lavoro
umano o una dottrina biblica sul lavoro. Si cercherà di evitare un uso selettivo dei testi biblici per
non trarre idee generiche o integrative da concetti puntuali. Una teologia del lavoro non può
essere elaborata attingendo semplicemente a citazioni bibliche, né dalla semplice deduzione dei
grandi temi della rivelazione (creazione, redenzione, escatologia), ma deve passare attraverso di
un'adeguata antropologia teologica.
2
Cf. Jacques GULLET, Paul DE SURGY, «Trabajo», en X. LÉON DUFOUR (ed.), Vocabulario de Teología
Bíblica, Herder, Barcelona 1966, 796.
3
Cf. Antonio BONORA, «Lavoro», in Pietro ROSSANO, Gianfranco RAVASI, Antonio GIRLANDA, Nuovo
Dizionario di Teologia Biblica, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, 1670.

2
Sarebbe inutile fare una semplice descrizione delle varie opere menzionate nella Bibbia.
Fermeremo la nostra attenzione sui passaggi che mettono in luce il significato del lavoro umano.
Solo così è possibile cogliere la specificità del messaggio biblico.

1.2 Creazione a immagine e somiglianza


Parlando appunto dell’attività umana, alla base ci sarebbe la nephesh – il termine
compare più di 750 volte nella Bibbia –, la vita che connota allo stesso tempo materia e spirito,
poiché la lingua ebraica è concreta e materialistica: difatti, i concetti astratti dell'ellenismo
difficilmente trovano un posto nelle lingue semitiche. Nephesh originariamente significava 'gola'
e da lì venne ad indicare sostanzialmente un essere vivente, animato di fiato e respiro. Essendo i
due ambiti, materiale e spirituale, inclusi nel termine, si capisce che siano attribuite alla nephesh
anche le attività spirituali o mentali come il desiderio, l'odio, l'amore, il dolore e la gioia. Al
momento della morte, tutti questi sentimenti vanno con la carne ad abitare nello sheol, poiché in
Israele non c'è anima separata dal corpo dopo la morte.
La realtà ella vita si collega strettamente alla creazione dell’essere umano a immagine e
somiglianza di Dio. Al centro della discussione compaiono i primi tre capitoli della Genesi.
Questi testi sulla creazione proclamano la persona come creatura vitalmente ed esistenzialmente
dipendente da Dio, rapportandosi nel contempo al resto della creazione come parte del mondo
naturale. Alla base di questa relazione si trova il termine adam, uomo, tipo e paradigma della
natura umana, in stretto rapporto con adamah, terra; infatti, è detto in Gn 2,7: «Allora il Signore
Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo, e soffiò nelle sue narici un soffio di vita, e l'uomo
divenne essere vivente», sottintendendo il rapporto uomo-mondo creato, un rapporto insieme
armonioso e conflittuale (peccato).4
Il testo si completa con quello del primo capitolo del Genesi:
«Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e
sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano
sulla terra». E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li
creò (Gen 1,26-27).

La creatura umana, infatti, è stata creata a immagine, tselem, di Dio. Il termine indica
anche ‘somiglianza’, ‘essere simile’, e in certo modo si identifica con il termine demut, che

4
Cf. Denise DOMBROWSKI HOPKINS, «Humanity», in David Noel FREEDMAN, Allen C. MYERS, Astrid B.
BECK (eds.), Eerdmans Dictionary of the Bible, Eerdmans, Grand Rapids, MI-Cambridge, UK 2000, 615.

3
indica la stessa idea (cf. Gn 5,1; 9,6): le due parole, infatti, appaiono abbinate. Questa frase della
Scrittura contiene alcune particolarità rispetto agli altri momenti della creazione: in primo luogo,
è l'unico testo in cui Dio si impegna personalmente, con una formula unica, 'facciamo', a
differenza degli altri giorni della creazione in che Dio dice ‘si faccia’, ‘ci sia’; poi, l'uomo non
trova altre creature con cui confrontarsi (Gen 2,20), poiché si confronta – assieme alla donna –
solo con Dio stesso, a immagine e somiglianza del quale sono creati. All'essere umano è affidata,
inoltre, la responsabilità di riempire la terra e di dominarla, che è spesso chiamato il ‘mandato
della creazione’ e, infine, viene operata una chiara distinzione di genere – che, logicamente, è
implicita negli altri viventi esseri inferiori agli uomini–, dove l'immagine è proiettata su uomo e
donna.

1.3 Lavoro e riposo in Dio


Quando si parla di riposo nella tradizione veterotestamentaria, il primo riferimento
riguarda il riposo sabatico, mentre in un secondo momento si parla della promessa di riposo dopo
il lungo pellegrinaggio che condusse il popolo dall’Egitto verso la terra di Canaan. 5 Qui si farà
riferimento essenzialmente alla prima accezione del termine. Nel racconto della creazione in Gen
1 – nello stile poetico e simbolico che lo caratterizza – il Dio creatore è un Dio che lavora e si
riposa. Il lavoro divino si distribuisce nell’arco di sette giorni, essendo il settimo dedicato al
riposo. La polarità ritmica del tempo (giorno e notte) e la successione ordinata delle giornate
stanno a indicare la perfezione dell’attività divina creatrice-ordinatrice e l’armonioso risultato. Il
ritmo e la bellezza del creato – la cui totalità soltanto Dio può apprezzare – spiccano nelle parole

del testo stesso: «E Dio vide che era cosa buona» (tób)» (Gén 1,3.10.12.18.21.25.31); il mondo è
sette volte bello, pienamente armonico.
Si comprende che il salmista, contemplando l’opera creatrice di Dio possa esclamare: «O
Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!» (Sal 8,1), una frase che
ben si può riassumere nel testo sapienziale: Che meraviglia è l’opera dell’Altissimo! (Sir 43,2). 6
Tanto l’attività divina come le realtà create raggiungono la loro perfezione il settimo
giorno quando Dio lo consacra per sé stesso e lo benedice (Gen 2,2-3). La figura simbolica del

5
Cf. Jon C. LAANSMA, «Rest», in T. Desmond ALEXANDER, Brian S. ROSNER (eds.), New Dictionary of
Biblical Theology, Intervarsity Press, Leicester, UK-Downer Grove, Il, 2000, 727.
6
Cf. Adriana BOTTINO, «Opera/Lavoro», in Giuseppe DE VIRGILIO (ed.), Dizionario Biblico della
Vocazione, Editrice Rogate, Roma 2007, 630.

4
riposo divino indica che l’opera di Dio si è compiuta alla perfezione. Si tratta di un riposo
fruttifero accompagnato dalla divina benedizione. C'è, quindi, una fecondità divina che scaturisce
dalla sua attività lavorativa e una fecondità che è legata alla sua benedizione. L’intera creazione
quindi si riposa nel settimo giorno caratterizzato dalla santità, dalla benedizione e dal
compimento. Non è chiaro però, che l’umanità partecipi direttamente in questo sabato
primordiale divino, ma il fatto che benedica e santifichi l’ultimo giorno della settimana accenna
al sabato come climax del creato, dl quale la persona umana fa parte.7
Gen 1, nel disporre lo schema dei sette giorni, non si occupa direttamente né del lavoro
umano né del sabato dell'uomo. Quello che vuole è presentare Dio come colui che opera e che
riposa, cioè come colui che racchiude in sé sia il lavoro che il riposo. Dio non lavora per
riposare, né si riposa per lavorare di più. Il racconto simbolico del Genesi non dimostra né
argomenta, ma rappresenta l’attività di Dio. Descrivendo l'opera e il riposo di Dio cerca di
evitare di presentare Dio come ozioso o di immaginarlo come uno schiavo del lavoro.
Dio «ha benedetto il giorno del sabato» (Es 20,11). Ciò significa che Dio ha posto nella
creazione una forza vitale capace di produrre sempre di nuovo i ‘settimi giorni’, giorni di riposo
e di comunicazione con lui. Il sabato non è pura astensione dal lavoro per recuperare il vigore per
continuare a lavorare, ma è santificazione, accettazione del senso della vita e del lavoro. Il senso
ultimo del lavoro si trova nella celebrazione del sabato.

1.4 L’essere umano, immagine di Dio


Sembra plausibile supporre che l'autore ebreo –probabilmente del VI secolo AC – che
scrisse Gen 1 avesse davanti agli occhi il ritmo settenario della settimana ebraica. Dicendo che
l'uomo è stato creato ad immagine del Dio che opera e che riposa, il testo biblico vuole dirci che
anche la settimana ebraica è modellata sulla settimana divina. Su tutta la creazione incombe la
benedizione divina, che dà origine ai giorni belli, laboriosi e fruttuosi, e ai giorni di riposo
ugualmente fruttuosi e fecondi. Inoltre, tutto giunge al suo compimento il settimo giorno, il
sabato. Il settimo giorno dell'uomo si unisce al settimo giorno di Dio, diventa festa e incontro
con Lui. I sei giorni dell'operaio si uniscono ai sei giorni dell'opera creatrice di Dio per
combattere la minaccia del caos.

7
Cf. Jon C. LAANSMA, I will give you Rest, Mohr-Siebeck, Tübingen 1997, 65-67.

5
La letteratura mesopotamica già presentava l'uomo come immagine di Dio, ma indicava
anche quale fosse il destino dell'uomo: essere creato per operare al servizio ea beneficio degli
dei. D’accordo con il pensiero babilonese (cf. ad es., il mito di Atrahasis), il lavoro determina
essenzialmente l'esistenza umana; la libertà è un privilegio esclusivamente divino, ottenuto
attraverso la schiavitù o servizio dell'uomo. Essere immagine di Dio non libera l'uomo dalla
sottomissione al lavoro.
La Bibbia, invece, concede all'uomo una posizione privilegiata nell'universo. La
creazione dell'uomo è diversa ed è separata dalla creazione di altri esseri, come frutto di una
deliberazione di Dio: «Dio disse: ‘facciamo l'uomo a nostra immagine secondo la nostra
somiglianza’» (Gen 1,26). L'essere immagine dipende da un fare intenzionale di Dio, che
rapporta l'uomo essenzialmente a Lui. Questa relazione è specificata dall'‘immagine di Dio’:
l'uomo è, dunque, come il suo Dio, un essere che lavora e si riposa. Sia il lavoro che il riposo
corrispondono all'immagine di Dio.
È corretto dire allora che l'essere umano dovrebbe governare e dominare la terra? «Dio
benedisse l'uomo e la donna e disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, popolate la terra e
soggiogatela; dominate i pesci del mare, gli uccelli del cielo e tutti gli animali che si muovono
sulla terra’» (Gen 1,28). Negli ultimi anni, col destarsi della coscienza e della sensibilità
ecologica, sono sorte non poche e diverse obiezioni al verbo ‘dominare’; il cristianesimo è
persino accusato di promuovere la distruzione del pianeta – e dell'universo – seguendo
quell'indicazione che appare all'inizio della Bibbia.
L'uomo invece riceve non soltanto un ordine o un mandato, ma innanzitutto una
benedizione che è garanzia di successo. Il suo futuro è protetto dalla benedizione di Dio.
L’essere umano si moltiplicherà, cioè darà origine a più popoli, così da riempire la terra.
Ciascuno di questi popoli prenderà possesso (in ebraico, kabash) del proprio territorio. L'umanità
inoltre, con la benedizione divina, riuscirà a governare (in ebraico, radah) il mondo. Questo
dominio umano sul mondo non è uno sfruttamento brutale o una sottomissione arbitraria, un
gesto di dispotismo anarchico e distruttivo, ma si inserisce nel quadro di una volontà divina per
l'ordine nel mondo e la vittoria sulle forze del caos. La benedizione di Dio scende sull'uomo che
opera e genera. L'essere immagine non apre un abisso tra l'uomo e le altre creature; lo distingue
come apertura e capacità di incontrare Dio, ma lo unisce al cosmo che governa con la sua opera.
Il lavoro umano non è una maledizione, ma non è nemmeno fine a sé stesso. Esso diventa, sotto

6
la benedizione divina condizione della sua nuova nascita. La qualità del lavoro umano è definita
in anticipo dal rapporto dell'uomo con Dio, in quanto imago Dei.
L’essere umano dunque, nella misura in cui vive il suo rapporto di dipendenza e di
amicizia con il Creatore, non soltanto evita di sfruttare il creato – al quale appartiene come il
resto delle creature, specie quelle viventi – senza permettere che l’avarizia sia il motivo e lo
scopo della sua attività, ma si sforza di curarlo con lo stesso amore e dedizione con cui Dio lo
crea e conserva. Ecco il senso più profondo dell’espressione ‘a immagine e somiglianza di Dio’.

1.5 Il lavoro umano


Il lavoro è intrinseco all’esistenza umana riflettendo, nel contempo, il modello di lavoro e
riposo. L'opera dell'uomo non è soltanto collaborazione o partecipazione all'opera creatrice di
Dio, ma principalmente custodia e coltivazione del cosmo armonioso da Lui creato. Gen 1 è un
programma che deve essere sviluppato e realizzato; anche il lavoro umano è situato nella linea
dell'esecuzione di quel programma.
In Gen 2,15 si dice: «Il Signore Dio prese l'uomo e lo mise nel Giardino dell'Eden perché
lo coltivasse e lo custodisse». L'orientamento al lavoro fa parte della situazione paradisiaca
dell'uomo ed è un aspetto dell'iniziativa creatrice divina. Il giardino è, per l'uomo amato da Dio,
il suo ambiente vitale ideale.
Come si diceva prima, l'uomo è stato tratto dalla terra, che è la base materiale per
plasmare la sua figura, quella degli esseri viventi e del giardino. Dalla adamah appunto Dio fa
uscire un giardino che l'uomo deve custodire e coltivare; c'è quindi una perfetta integrazione
dell'uomo con la terra trasformata in giardino. L'uomo è in perfetta armonia con Dio e con la
terra; lo stesso vale per il suo lavoro. Nel giardino l'uomo «nominò tutto il bestiame, tutti gli
uccelli del cielo e tutte le bestie selvatiche» (Gen 2,20). Dare un nome non indica un potere
arbitrario e indiscriminato, poiché con l'imposizione del nome l'essere umano non fa altro che
scoprire, definire e ordinare il proprio nome. Dare un nome significa riconoscere un ordine,
scoprire la pienezza di significato riposta da Dio nel giardino. Solo dando un nome alle creature
l'uomo può rendere umano il mondo; nel linguaggio nasce il mondo dell'uomo. Il lavoro dà
anche un senso alle cose, le conosce.
Alcuni autori contemplano il giardino dell’Eden come un archetipo del santuario che
prefigura il tabernacolo e il tempio; così, il servizio dei sacerdoti e leviti nel tempio – che si

7
menzionava all’inizio, allorché si analizzavano i diversi tipi di lavoro nella Bibbia – sarebbe
simile al lavoro di Adamo nel giardino, che non sarebbe qualcosa staccata dal culto. La sua
funzione di custodire avrebbe compreso il controllo di accesso e la preservazione della purità del
paradiso.8

1.6 La realtà del peccato


In Gen 3 si racconta la tentata usurpazione umana della prerogativa divina di dominio
assoluto e universale. Pretendendo di conoscere il bene e il male, l’uomo vuole arrogarsi la
competenza di indicare ciò che è importante e ciò che non lo è per la propria esistenza.
L'intenzione di Dio e la sua opera, cioè la consegna amorevole di Dio all'uomo, è pervertita ed è
diventata – seguendo il suggerimento del serpente – una volontà avida ed egoistica di dominare.
Di conseguenza appaiono una serie di restrizioni all'esistenza umana come stanchezza, dolore,
fallimento, violenza, mancanza di armonia tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e l’adamah (Gen 3,14-
24). In Gen 3,17 Dio maledice l’adamah a causa del peccato dell'uomo, che cambia l'ambiente
dell'esistenza umana: espulso dal giardino, è costretto a coltivare una terra che produce cardi e
spine. L’adamah, da cui Dio aveva fatto uscire un paradiso, riappare ora come un limite e un
impedimento, e non come la base ottimale per la costruzione dell'esistenza umana e del suo
ambiente vitale. La terra si oppone, resiste all'uomo, che deve stancarsi e soffrire per strappare il
pane. Non è che al lavoro si è aggiunta un po' di fatica e di dolore, ma che l'intera esistenza
umana è cambiata. L'uomo rimane il coltivatore e il custode dell’adamah, come intendeva il
Creatore; ma la sua opera è diventata ambigua e precaria, insicura del proprio significato e del
proprio scopo.9
Il lavoro, che prima rappresentava la triplice armonia fra il Creatore, l’uomo e la natura,
si è sconvolto a causa del peccato. La cura amorevole della terra che scaturiva naturalmente,
diventa macchiata dall’avarizia e dallo sfruttamento indiscriminato, dall’egoismo e dalla
cupidigia. Tutta la creazione rimane sottoposta alla vanità (Rm 8,20), cioè al potere del nulla, e
attende la liberazione.
Cercando di avere una visione globale della realtà lavorativa nell’antica alleanza, si può
affermare che Il comandamento divino si riferisce non solo al lavoro, ma anche al riposo
sabbatico e porta anche la motivazione del riposo: «Ricordati del giorno del Signore per
8
Cf. Gordon J. WENHAM, Genesis 1-15, Word Books, Waco, TX 1987, 61.
9
Cf. A. BONORA, Lavoro, 1672.

8
santificarlo. Sei giorni lavorerai e in essi farai tutti i tuoi compiti; ma il settimo giorno è il giorno
in cui riposi in onore del Signore tuo Dio. Non farai alcun lavoro su di esso, né tu, né tuo figlio,
né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che abita con te,
perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il
settimo si è riposato. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e l'ha santificato» (Es
20,8-11; cf. Dt 5,12-15). L'uomo vive e lavora nel tempo. Ebbene, questo tempo può diventare
liberatorio solo se culmina nella santificazione del sabato, nell'incontro con il Dio che riposa il
settimo giorno. Il riposo del sabato ha lo scopo di portare a un riposo che si riferisce a Dio. I sei
giorni di lavoro non devono essere un cerchio che si chiude su sé stesso e si ripete all'infinito;
trovano il loro scopo e il loro significato nel riposo/incontro del settimo giorno con Dio, che in
realtà si proietta santificando gli altri sei giorni della settimana.
Il comandamento del sabato è anche legato al ricordo dell'esodo (Dt 5,15). Nella
prospettiva utilitaristica del faraone, la festa è un tempo vuoto, sterile: «Sono pigri; per questo
dicono: ‘Andiamo a offrire sacrifici al nostro Dio’» (Es 5,8). La festa è invece un memoriale
dell’epopea dell'esodo, della liberazione dalla schiavitù del lavoro alienante e insignificante. Il
faraone si rende simile agli dei babilonesi, che avrebbero creato l'uomo allo scopo di lavorare per
loro, facendolo diventare homo oeconomicus, che solo cerca la produzione e il profitto.
Liberando il suo popolo dall'Egitto, Dio lo libera dalla schiavitù del lavoro assorbente e dalla
logica della pura produttività. La festa dà al lavoro il suo significato ultimo e, quindi, lo redime.
Si potrebbe dunque parlare, anche se in maniera imperfetta, come anticipo della
dimensione del lavoro nel Nuovo Testamento, del valore redentore e liberatore del lavoro. La
terra di Canaan fa pensare al giardino dell’Eden; anche se dovranno lavorare nella terra
promessa, il lavoro sarà fruttifero in mezzo ai banchetti e ai luoghi paradisiaci, qualcosa che
anticipa l’era messianica e la salvezza definitiva.10

2. Il lavoro nella prospettiva neotestamentaria

2.1 L’esempio di Gesù

10
Cf. LAANSMA, Rest, 728.

9
Non esiste una terminologia propria sul lavoro nel Nuovo Testamento. I vocaboli
impiegati provengono dalla letteratura ellenistica. In primo luogo appare il termine ergon,
‘lavoro’, ‘opera’, ‘attività’, frequente nel testo (157x), e al suo corrispondente verbale
ergázomai, ‘lavorare’, più circoscritto (39x).
I vangeli presentano la realtà del lavoro, in primo luogo, nella persona di Gesù. Il mistero
dell’Incarnazione del Figlio di Dio comporta non soltanto la sua vita terrena che troverà il suo
culmine e compimento nel mistero pasquale della Passione, Morte e Risurrezione, ma anche una
vita di lavoro che sarà l’anticipo e la preparazione di quell’ora in cui donerà la sua vita per la
salvezza del genere umano. Per riferirsi a Gesù, tornato nel suo villaggio dopo la predicazione e
annuncio del Regno per alcuni luoghi della Galilea, Marco dice che i suoi vicini erano sorpresi e,
in un certo senso, scandalizzati: «Non è costui il falegname (téktôn), il figlio di Maria, il fratello
di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone?». L’altro passo in cui si menziona il termine téktôn,
che fra l’altro ha una connotazione più generica, indicando anche le diverse attività
dell’artigiano, si trova in Matteo: «Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si
chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?». In questo caso fa un
cenno molto significativo a Giuseppe, da cui imparò il mestiere di cui si è servito per un periodo
di circa trent’anni (Lc 3,23).
Una riflessione teologica attorno a questi due misteri dell’Incarnazione e della
Redenzione mette a fuoco la vita di lavoro di Gesù Cristo. Nelle mitologie orientali ed
ellenistiche sembra che ci fosse un po’ di fretta nel far vedere la figura dell’eroe in età matura e
al pieno delle sue capacità, essendo in pochi i testi dove si menziona la vita d’infanzia o di
adolescenza del protagonista. Nei vangeli invece, si parla di una vita normale fin dal
concepimento nel seno materno, nell’infanzia, adolescenza e maturità a Nazaret, sottolineando la
sua attività lavorativa da quando cominciò a esercitarla, seguendo l’esempio di Giuseppe.
Nell’episodio del ritorno a Nazaret dopo l’inizio della sua vita pubblica, raccontato da

Luca, si dice pure che Gesù «venne a Nazaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di
sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere» (Lc 4,16). In queste poche parole si indica che
Gesù frequentava la sinagoga ogni sabato, come accadeva per tutti i maschi che avevano
compiuto i dodici anni ed erano già considerati soggetti di diritti e doveri davanti alla legge. Nel
contempo indica che Gesù era un abitante in più del suo villaggio e che si guadagnava la vita

10
esercitando il suo mestiere come artigiano, «figlio di Giuseppe» (Lc 4,22). Lì abitò fino al
momento della sua manifestazione a Israele.
Si può allora parlare della redenzione operata da Gesù Cristo in due dimensioni: una
dimensione preparatoria fatta dal lavoro quotidiano a Nazaret e dintorni – si pensa che era più
facile trovare lavoro a Seforis, distante poco più di sette chilometri dalla sua città, molto più
popolata ed economicamente più fiorente di Nazaret – e una dimensione completiva,
rappresentata dalla sua donazione nella Passione e Morte, e sigillata mediante la Risurrezione.
Così il lavoro di Gesù Cristo costituisce una parte importante dell’opera della Redenzione. Lo
sforzo e la fatica quotidiana del figlio di Dio esercitando un lavoro manuale costituiscono il
grande prologo alla grande opera della salvezza, consumata nel sacrificio della croce.
L’insegnamento di Gesù scaturisce dal suo lavoro esemplare. Anche il modo di realizzare
il lavoro davanti a Dio, senza pretese di arricchimento smisurato, accontentandosi di ciò che
basta per vivere una vita degna e senza eccessive preoccupazioni per le cose materiali, viene
espresso nel Discorso della Montagna: «Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di
quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale
forse più del cibo e il corpo più del vestito?» (Mt 6,25). Tutti i cristiani facciamo parte della
famiglia di Dio, cioè della ekklêsia che confida veramente nel Padre celeste; se questo si avvera,
i figli di Dio vivono una vita di fede nella divina provvidenza, senza faticare o preoccuparsi del
vestiario o del cibo.
Il lavoro diventa invece desiderio e alienazione quando l'individuo vive la sua attività in
solitudine, senza poter contare sulla solidarietà fraterna di una comunità-famiglia che lo accoglie.
Gesù chiede ai suoi discepoli di fare ‘la volontà di Dio’ (Mc 3,33-35; Mt 6,9-10) e di cercare
prima il regno di Dio e la sua giustizia, perché poi tutto il resto sarà loro dato in aggiunta (Mt
6,33). Ebbene, il regno di Dio e la volontà di Dio sono la sollecitudine paterna con la quale Dio,
attraverso suo Figlio, vuole far delle persone sua famiglia, riunire il vero Israele. In quanto
membro della nuova famiglia di Dio, l’essere umano che opera è libero da dispersioni alienanti e
disumanizzanti, e anche dal desiderio angoscioso di possedere e produrre. Il Discorso della
Montagna proposto da Gesù sarebbe utopico e irrealizzabile se dalla sua parola non nascesse una
comunità viva, alternativa alle altre società del mondo.
Sulla stesa linea scorre il consiglio di Gesù che riporta Gv 6,27: «Lavorate non per il cibo
che passa, ma per quello che dura per la vita eterna: quello che il Figlio dell'uomo vi dà». Il

11
lavoro – e il suo frutto –in un primo momento si lega alla dimensione materiale e precaria del
mondo; se rimane in sé stesso e non si apre alla dimensione eterna e soprannaturale che
racchiude il mistero della Redenzione, perde senso e diventa disillusione, attività vana. Il senso
dell'esistenza non è il lavoro senza fine, ma la vita eterna, che solo Dio può dare.
La preghiera del Padre Nostro esprime la convinzione del discepolo di Gesù di non vivere
soltanto dal suo lavoro, ma innanzitutto dal dono di Dio: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»
(Mt 6,11). Così si chiede al Padre il pane di cui si ha bisogno ogni giorno. Il cristiano opera e
serve, ma sapendo di avere una dipendenza d’amore e di fiducia con l’unico Padre celeste (Mt
23,9).

2.2 L’insegnamento paolino


L’esempio di Gesù trova diversi echi nella letteratura neotestamentaria. Paolo, all’inizio
della sua attività missionaria in Europa, raccomanda ai Tessalonicesi di «lavorare con le vostre
mani, come vi abbiamo ordinato, e così condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e non
avere bisogno di nessuno» (1Ts 4,10-12). L’Apostolo non propone una nuova etica, in cui
emerga il lavoro come norma morale dell’umanità; nemmeno Paolo lo considera come il motore
propulsore del progresso morale del mondo. Secondo lui, il cristiano deve vivere la sua opera di
discepolo di Cristo nella sua condizione e nelle sue circostanze, vivendo una vita onorevole, non
dando adito a essere accusato di pigrizia.
Ogni cristiano pur sentendo il dovere di solidarietà con la comunità, dovrebbe vivere in
una certa autonomia, frutto del suo lavoro e della sua prudente sobrietà. Paolo ne fece un
esempio: «Ricordate le nostre fatiche e fatiche: come lavoravamo giorno e notte per non essere
gravoso a nessuno di voi mentre vi annunciavamo il vangelo di Dio» (1Ts 2,9). Nel contempo
insegna che nessun cristiano, in quanto parte di una comunità solidale e fraterna, dovrebbe
sentirsi autorizzato a non lavorare, vivendo a spese degli altri. Questo sarebbe il senso
dell'affermazione di Paolo: «Chi non lavora, non mangi» (2Ts 3,10).
L’altro passo paolino che riecheggia l’esempio di Gesù sarebbe quello di Ef 5,15-16:
«Fate dunque molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da
saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi». Ciò significherebbe fare del
lavoro il fondamento dell'esistenza. Il presente diventa non soltanto il tempo dell'esistenza, ma
un periodo di preparazione alla vita eterna attraverso il lavoro. In questa prospettiva l’attività

12
umana diventa un mezzo per cambiare il mondo e raggiungere il fine, per aprirsi al futuro e alle
promesse di Dio. Se la verità della vita dipendesse da ciò che l'uomo fa e compie, quella verità
sarebbe sempre incerta e insicura. Il lavoro invece, vissuto nella prospettiva presentata da Gesù,
si apre all’orizzonte soprannaturale e dona alla persona la sicurezza di Gesù stesso 11.

3. Conclusione

La Bibbia offre una cornice significativa per poter elaborare, anche se non in modo
esauriente, una teologia del lavoro. Il testo sacro non apprezza la concezione della civiltà del
duro lavoro – così come viene presentato in grande misura dalla civiltà moderna – affermando
che l'uomo riceve sé stesso e il mondo come un dono dalle mani di Dio. Anche la natura, con la
quale l'uomo instaura rapporti per soddisfare i suoi bisogni, è dono di Dio all'uomo. Il lavoro,
quindi, nella prospettiva biblica, è un'attività per la scoperta e la fruizione non solo della
materialità del dono, ma anche del suo significato. L’essere umano si realizza nella misura in cui
scopre il significato del dono e può goderne sempre più pienamente. La gioia diventa dunque,
non un’attività astratta ma la realtà che sgorga dallo svolgere del proprio lavoro – anche se
faticoso – in relazione con Dio, e dal frutto che ne deriva.12
In questa prospettiva, la Bibbia non vede opposizione tra azione e contemplazione, tra
lavoro e riposo, tra giornate lavorative e feste. Il lavoro spinge alla ricerca del senso proprio
perché l'uomo è desiderio, intenzionalità aperta all'assoluto e mai riempita di beni particolari e
finiti. Tuttavia, il desiderio si potrebbe identificare con l’aspirazione dell’uomo a colmare le sue
necessità, dimenticando che esse non costituiscono la ragion d’essere della sua vita. In questo
orizzonte appaiono le relazioni umane intessute dalla donazione agli altri per costruire una
società nell’amore, che in definitiva è il miglior rimedio per evitare l’avarizia e la voglia
smisurata di bene materiali.

11
Cf. Giuseppe DE VIRGILIO, «Aspetti antropologici e teologici del valoro nell’epistolari paolino» in
Ricerche Storico-Bibliche 1-2 (2020), 337-401.
12
Cf. Ernesto DE LA CORTE, «Qoelet» in Giuseppe DE VIRGILIO (ed.), Dizionario Biblico della Vocazione,
Editrice Rogate, Roma 2007, 776.

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Bibliografia
– Luigino BRUNI, Massimo GRILLI, L'uso dei beni: Bibbia ed economia in dialogo
Gregorian & Biblical Press, Roma 2021.
– Francesco BIANCHI (a cura di), Lavoro, progresso, ricerca nella Bibbia, Borla, Roma
2003.
– Franco RIVA, La Bibbia e il lavoro: prospettive etiche e culturali, Edizioni Lavoro,
Roma-Fossano 1997.
– Giuseppe DE GENNARO (a cura di), Lavoro e riposo nella Bibbia, Edizioni Dehoniane,
Napoli 1987.
– Margherita RIBER, Il lavoro nella Bibbia , Edizioni paoline, Bari 1969.

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