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Il credente non può non interrogarsi sul significato del lavoro secondo la Bibbia. La
prima costatazione emerge dal fatto che nel ‘libro dei libri’ non si affronta la questione del lavoro
dal punto di vista in cui è emersa nella moderna società industriale, vale a dire, la produttività, la
gestione d’impresa, l’utilità, i rapporti fra imprenditori e lavoratori, la vita in società che sgorga
dall’attività lavorativa. Non c'è nessun termine nella Bibbia che esprima ciò che oggi
generalmente si intende per ‘lavoro’, cioè non solo l’agire umano generico, ma quel tipo di
attività che sia considerata sia nel suo fine ultimo, sia in sé, per il suo contenuto operativo,
diverso dalla trasformazione e fruizione dei beni prodotti.
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Sarebbe inutile fare una semplice descrizione delle varie opere menzionate nella Bibbia.
Fermeremo la nostra attenzione sui passaggi che mettono in luce il significato del lavoro umano.
Solo così è possibile cogliere la specificità del messaggio biblico.
La creatura umana, infatti, è stata creata a immagine, tselem, di Dio. Il termine indica
anche ‘somiglianza’, ‘essere simile’, e in certo modo si identifica con il termine demut, che
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Cf. Denise DOMBROWSKI HOPKINS, «Humanity», in David Noel FREEDMAN, Allen C. MYERS, Astrid B.
BECK (eds.), Eerdmans Dictionary of the Bible, Eerdmans, Grand Rapids, MI-Cambridge, UK 2000, 615.
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indica la stessa idea (cf. Gn 5,1; 9,6): le due parole, infatti, appaiono abbinate. Questa frase della
Scrittura contiene alcune particolarità rispetto agli altri momenti della creazione: in primo luogo,
è l'unico testo in cui Dio si impegna personalmente, con una formula unica, 'facciamo', a
differenza degli altri giorni della creazione in che Dio dice ‘si faccia’, ‘ci sia’; poi, l'uomo non
trova altre creature con cui confrontarsi (Gen 2,20), poiché si confronta – assieme alla donna –
solo con Dio stesso, a immagine e somiglianza del quale sono creati. All'essere umano è affidata,
inoltre, la responsabilità di riempire la terra e di dominarla, che è spesso chiamato il ‘mandato
della creazione’ e, infine, viene operata una chiara distinzione di genere – che, logicamente, è
implicita negli altri viventi esseri inferiori agli uomini–, dove l'immagine è proiettata su uomo e
donna.
del testo stesso: «E Dio vide che era cosa buona» (tób)» (Gén 1,3.10.12.18.21.25.31); il mondo è
sette volte bello, pienamente armonico.
Si comprende che il salmista, contemplando l’opera creatrice di Dio possa esclamare: «O
Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!» (Sal 8,1), una frase che
ben si può riassumere nel testo sapienziale: Che meraviglia è l’opera dell’Altissimo! (Sir 43,2). 6
Tanto l’attività divina come le realtà create raggiungono la loro perfezione il settimo
giorno quando Dio lo consacra per sé stesso e lo benedice (Gen 2,2-3). La figura simbolica del
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Cf. Jon C. LAANSMA, «Rest», in T. Desmond ALEXANDER, Brian S. ROSNER (eds.), New Dictionary of
Biblical Theology, Intervarsity Press, Leicester, UK-Downer Grove, Il, 2000, 727.
6
Cf. Adriana BOTTINO, «Opera/Lavoro», in Giuseppe DE VIRGILIO (ed.), Dizionario Biblico della
Vocazione, Editrice Rogate, Roma 2007, 630.
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riposo divino indica che l’opera di Dio si è compiuta alla perfezione. Si tratta di un riposo
fruttifero accompagnato dalla divina benedizione. C'è, quindi, una fecondità divina che scaturisce
dalla sua attività lavorativa e una fecondità che è legata alla sua benedizione. L’intera creazione
quindi si riposa nel settimo giorno caratterizzato dalla santità, dalla benedizione e dal
compimento. Non è chiaro però, che l’umanità partecipi direttamente in questo sabato
primordiale divino, ma il fatto che benedica e santifichi l’ultimo giorno della settimana accenna
al sabato come climax del creato, dl quale la persona umana fa parte.7
Gen 1, nel disporre lo schema dei sette giorni, non si occupa direttamente né del lavoro
umano né del sabato dell'uomo. Quello che vuole è presentare Dio come colui che opera e che
riposa, cioè come colui che racchiude in sé sia il lavoro che il riposo. Dio non lavora per
riposare, né si riposa per lavorare di più. Il racconto simbolico del Genesi non dimostra né
argomenta, ma rappresenta l’attività di Dio. Descrivendo l'opera e il riposo di Dio cerca di
evitare di presentare Dio come ozioso o di immaginarlo come uno schiavo del lavoro.
Dio «ha benedetto il giorno del sabato» (Es 20,11). Ciò significa che Dio ha posto nella
creazione una forza vitale capace di produrre sempre di nuovo i ‘settimi giorni’, giorni di riposo
e di comunicazione con lui. Il sabato non è pura astensione dal lavoro per recuperare il vigore per
continuare a lavorare, ma è santificazione, accettazione del senso della vita e del lavoro. Il senso
ultimo del lavoro si trova nella celebrazione del sabato.
7
Cf. Jon C. LAANSMA, I will give you Rest, Mohr-Siebeck, Tübingen 1997, 65-67.
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La letteratura mesopotamica già presentava l'uomo come immagine di Dio, ma indicava
anche quale fosse il destino dell'uomo: essere creato per operare al servizio ea beneficio degli
dei. D’accordo con il pensiero babilonese (cf. ad es., il mito di Atrahasis), il lavoro determina
essenzialmente l'esistenza umana; la libertà è un privilegio esclusivamente divino, ottenuto
attraverso la schiavitù o servizio dell'uomo. Essere immagine di Dio non libera l'uomo dalla
sottomissione al lavoro.
La Bibbia, invece, concede all'uomo una posizione privilegiata nell'universo. La
creazione dell'uomo è diversa ed è separata dalla creazione di altri esseri, come frutto di una
deliberazione di Dio: «Dio disse: ‘facciamo l'uomo a nostra immagine secondo la nostra
somiglianza’» (Gen 1,26). L'essere immagine dipende da un fare intenzionale di Dio, che
rapporta l'uomo essenzialmente a Lui. Questa relazione è specificata dall'‘immagine di Dio’:
l'uomo è, dunque, come il suo Dio, un essere che lavora e si riposa. Sia il lavoro che il riposo
corrispondono all'immagine di Dio.
È corretto dire allora che l'essere umano dovrebbe governare e dominare la terra? «Dio
benedisse l'uomo e la donna e disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, popolate la terra e
soggiogatela; dominate i pesci del mare, gli uccelli del cielo e tutti gli animali che si muovono
sulla terra’» (Gen 1,28). Negli ultimi anni, col destarsi della coscienza e della sensibilità
ecologica, sono sorte non poche e diverse obiezioni al verbo ‘dominare’; il cristianesimo è
persino accusato di promuovere la distruzione del pianeta – e dell'universo – seguendo
quell'indicazione che appare all'inizio della Bibbia.
L'uomo invece riceve non soltanto un ordine o un mandato, ma innanzitutto una
benedizione che è garanzia di successo. Il suo futuro è protetto dalla benedizione di Dio.
L’essere umano si moltiplicherà, cioè darà origine a più popoli, così da riempire la terra.
Ciascuno di questi popoli prenderà possesso (in ebraico, kabash) del proprio territorio. L'umanità
inoltre, con la benedizione divina, riuscirà a governare (in ebraico, radah) il mondo. Questo
dominio umano sul mondo non è uno sfruttamento brutale o una sottomissione arbitraria, un
gesto di dispotismo anarchico e distruttivo, ma si inserisce nel quadro di una volontà divina per
l'ordine nel mondo e la vittoria sulle forze del caos. La benedizione di Dio scende sull'uomo che
opera e genera. L'essere immagine non apre un abisso tra l'uomo e le altre creature; lo distingue
come apertura e capacità di incontrare Dio, ma lo unisce al cosmo che governa con la sua opera.
Il lavoro umano non è una maledizione, ma non è nemmeno fine a sé stesso. Esso diventa, sotto
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la benedizione divina condizione della sua nuova nascita. La qualità del lavoro umano è definita
in anticipo dal rapporto dell'uomo con Dio, in quanto imago Dei.
L’essere umano dunque, nella misura in cui vive il suo rapporto di dipendenza e di
amicizia con il Creatore, non soltanto evita di sfruttare il creato – al quale appartiene come il
resto delle creature, specie quelle viventi – senza permettere che l’avarizia sia il motivo e lo
scopo della sua attività, ma si sforza di curarlo con lo stesso amore e dedizione con cui Dio lo
crea e conserva. Ecco il senso più profondo dell’espressione ‘a immagine e somiglianza di Dio’.
7
menzionava all’inizio, allorché si analizzavano i diversi tipi di lavoro nella Bibbia – sarebbe
simile al lavoro di Adamo nel giardino, che non sarebbe qualcosa staccata dal culto. La sua
funzione di custodire avrebbe compreso il controllo di accesso e la preservazione della purità del
paradiso.8
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santificarlo. Sei giorni lavorerai e in essi farai tutti i tuoi compiti; ma il settimo giorno è il giorno
in cui riposi in onore del Signore tuo Dio. Non farai alcun lavoro su di esso, né tu, né tuo figlio,
né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che abita con te,
perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il
settimo si è riposato. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e l'ha santificato» (Es
20,8-11; cf. Dt 5,12-15). L'uomo vive e lavora nel tempo. Ebbene, questo tempo può diventare
liberatorio solo se culmina nella santificazione del sabato, nell'incontro con il Dio che riposa il
settimo giorno. Il riposo del sabato ha lo scopo di portare a un riposo che si riferisce a Dio. I sei
giorni di lavoro non devono essere un cerchio che si chiude su sé stesso e si ripete all'infinito;
trovano il loro scopo e il loro significato nel riposo/incontro del settimo giorno con Dio, che in
realtà si proietta santificando gli altri sei giorni della settimana.
Il comandamento del sabato è anche legato al ricordo dell'esodo (Dt 5,15). Nella
prospettiva utilitaristica del faraone, la festa è un tempo vuoto, sterile: «Sono pigri; per questo
dicono: ‘Andiamo a offrire sacrifici al nostro Dio’» (Es 5,8). La festa è invece un memoriale
dell’epopea dell'esodo, della liberazione dalla schiavitù del lavoro alienante e insignificante. Il
faraone si rende simile agli dei babilonesi, che avrebbero creato l'uomo allo scopo di lavorare per
loro, facendolo diventare homo oeconomicus, che solo cerca la produzione e il profitto.
Liberando il suo popolo dall'Egitto, Dio lo libera dalla schiavitù del lavoro assorbente e dalla
logica della pura produttività. La festa dà al lavoro il suo significato ultimo e, quindi, lo redime.
Si potrebbe dunque parlare, anche se in maniera imperfetta, come anticipo della
dimensione del lavoro nel Nuovo Testamento, del valore redentore e liberatore del lavoro. La
terra di Canaan fa pensare al giardino dell’Eden; anche se dovranno lavorare nella terra
promessa, il lavoro sarà fruttifero in mezzo ai banchetti e ai luoghi paradisiaci, qualcosa che
anticipa l’era messianica e la salvezza definitiva.10
10
Cf. LAANSMA, Rest, 728.
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Non esiste una terminologia propria sul lavoro nel Nuovo Testamento. I vocaboli
impiegati provengono dalla letteratura ellenistica. In primo luogo appare il termine ergon,
‘lavoro’, ‘opera’, ‘attività’, frequente nel testo (157x), e al suo corrispondente verbale
ergázomai, ‘lavorare’, più circoscritto (39x).
I vangeli presentano la realtà del lavoro, in primo luogo, nella persona di Gesù. Il mistero
dell’Incarnazione del Figlio di Dio comporta non soltanto la sua vita terrena che troverà il suo
culmine e compimento nel mistero pasquale della Passione, Morte e Risurrezione, ma anche una
vita di lavoro che sarà l’anticipo e la preparazione di quell’ora in cui donerà la sua vita per la
salvezza del genere umano. Per riferirsi a Gesù, tornato nel suo villaggio dopo la predicazione e
annuncio del Regno per alcuni luoghi della Galilea, Marco dice che i suoi vicini erano sorpresi e,
in un certo senso, scandalizzati: «Non è costui il falegname (téktôn), il figlio di Maria, il fratello
di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone?». L’altro passo in cui si menziona il termine téktôn,
che fra l’altro ha una connotazione più generica, indicando anche le diverse attività
dell’artigiano, si trova in Matteo: «Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si
chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?». In questo caso fa un
cenno molto significativo a Giuseppe, da cui imparò il mestiere di cui si è servito per un periodo
di circa trent’anni (Lc 3,23).
Una riflessione teologica attorno a questi due misteri dell’Incarnazione e della
Redenzione mette a fuoco la vita di lavoro di Gesù Cristo. Nelle mitologie orientali ed
ellenistiche sembra che ci fosse un po’ di fretta nel far vedere la figura dell’eroe in età matura e
al pieno delle sue capacità, essendo in pochi i testi dove si menziona la vita d’infanzia o di
adolescenza del protagonista. Nei vangeli invece, si parla di una vita normale fin dal
concepimento nel seno materno, nell’infanzia, adolescenza e maturità a Nazaret, sottolineando la
sua attività lavorativa da quando cominciò a esercitarla, seguendo l’esempio di Giuseppe.
Nell’episodio del ritorno a Nazaret dopo l’inizio della sua vita pubblica, raccontato da
Luca, si dice pure che Gesù «venne a Nazaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di
sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere» (Lc 4,16). In queste poche parole si indica che
Gesù frequentava la sinagoga ogni sabato, come accadeva per tutti i maschi che avevano
compiuto i dodici anni ed erano già considerati soggetti di diritti e doveri davanti alla legge. Nel
contempo indica che Gesù era un abitante in più del suo villaggio e che si guadagnava la vita
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esercitando il suo mestiere come artigiano, «figlio di Giuseppe» (Lc 4,22). Lì abitò fino al
momento della sua manifestazione a Israele.
Si può allora parlare della redenzione operata da Gesù Cristo in due dimensioni: una
dimensione preparatoria fatta dal lavoro quotidiano a Nazaret e dintorni – si pensa che era più
facile trovare lavoro a Seforis, distante poco più di sette chilometri dalla sua città, molto più
popolata ed economicamente più fiorente di Nazaret – e una dimensione completiva,
rappresentata dalla sua donazione nella Passione e Morte, e sigillata mediante la Risurrezione.
Così il lavoro di Gesù Cristo costituisce una parte importante dell’opera della Redenzione. Lo
sforzo e la fatica quotidiana del figlio di Dio esercitando un lavoro manuale costituiscono il
grande prologo alla grande opera della salvezza, consumata nel sacrificio della croce.
L’insegnamento di Gesù scaturisce dal suo lavoro esemplare. Anche il modo di realizzare
il lavoro davanti a Dio, senza pretese di arricchimento smisurato, accontentandosi di ciò che
basta per vivere una vita degna e senza eccessive preoccupazioni per le cose materiali, viene
espresso nel Discorso della Montagna: «Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di
quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale
forse più del cibo e il corpo più del vestito?» (Mt 6,25). Tutti i cristiani facciamo parte della
famiglia di Dio, cioè della ekklêsia che confida veramente nel Padre celeste; se questo si avvera,
i figli di Dio vivono una vita di fede nella divina provvidenza, senza faticare o preoccuparsi del
vestiario o del cibo.
Il lavoro diventa invece desiderio e alienazione quando l'individuo vive la sua attività in
solitudine, senza poter contare sulla solidarietà fraterna di una comunità-famiglia che lo accoglie.
Gesù chiede ai suoi discepoli di fare ‘la volontà di Dio’ (Mc 3,33-35; Mt 6,9-10) e di cercare
prima il regno di Dio e la sua giustizia, perché poi tutto il resto sarà loro dato in aggiunta (Mt
6,33). Ebbene, il regno di Dio e la volontà di Dio sono la sollecitudine paterna con la quale Dio,
attraverso suo Figlio, vuole far delle persone sua famiglia, riunire il vero Israele. In quanto
membro della nuova famiglia di Dio, l’essere umano che opera è libero da dispersioni alienanti e
disumanizzanti, e anche dal desiderio angoscioso di possedere e produrre. Il Discorso della
Montagna proposto da Gesù sarebbe utopico e irrealizzabile se dalla sua parola non nascesse una
comunità viva, alternativa alle altre società del mondo.
Sulla stesa linea scorre il consiglio di Gesù che riporta Gv 6,27: «Lavorate non per il cibo
che passa, ma per quello che dura per la vita eterna: quello che il Figlio dell'uomo vi dà». Il
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lavoro – e il suo frutto –in un primo momento si lega alla dimensione materiale e precaria del
mondo; se rimane in sé stesso e non si apre alla dimensione eterna e soprannaturale che
racchiude il mistero della Redenzione, perde senso e diventa disillusione, attività vana. Il senso
dell'esistenza non è il lavoro senza fine, ma la vita eterna, che solo Dio può dare.
La preghiera del Padre Nostro esprime la convinzione del discepolo di Gesù di non vivere
soltanto dal suo lavoro, ma innanzitutto dal dono di Dio: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»
(Mt 6,11). Così si chiede al Padre il pane di cui si ha bisogno ogni giorno. Il cristiano opera e
serve, ma sapendo di avere una dipendenza d’amore e di fiducia con l’unico Padre celeste (Mt
23,9).
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umana diventa un mezzo per cambiare il mondo e raggiungere il fine, per aprirsi al futuro e alle
promesse di Dio. Se la verità della vita dipendesse da ciò che l'uomo fa e compie, quella verità
sarebbe sempre incerta e insicura. Il lavoro invece, vissuto nella prospettiva presentata da Gesù,
si apre all’orizzonte soprannaturale e dona alla persona la sicurezza di Gesù stesso 11.
3. Conclusione
La Bibbia offre una cornice significativa per poter elaborare, anche se non in modo
esauriente, una teologia del lavoro. Il testo sacro non apprezza la concezione della civiltà del
duro lavoro – così come viene presentato in grande misura dalla civiltà moderna – affermando
che l'uomo riceve sé stesso e il mondo come un dono dalle mani di Dio. Anche la natura, con la
quale l'uomo instaura rapporti per soddisfare i suoi bisogni, è dono di Dio all'uomo. Il lavoro,
quindi, nella prospettiva biblica, è un'attività per la scoperta e la fruizione non solo della
materialità del dono, ma anche del suo significato. L’essere umano si realizza nella misura in cui
scopre il significato del dono e può goderne sempre più pienamente. La gioia diventa dunque,
non un’attività astratta ma la realtà che sgorga dallo svolgere del proprio lavoro – anche se
faticoso – in relazione con Dio, e dal frutto che ne deriva.12
In questa prospettiva, la Bibbia non vede opposizione tra azione e contemplazione, tra
lavoro e riposo, tra giornate lavorative e feste. Il lavoro spinge alla ricerca del senso proprio
perché l'uomo è desiderio, intenzionalità aperta all'assoluto e mai riempita di beni particolari e
finiti. Tuttavia, il desiderio si potrebbe identificare con l’aspirazione dell’uomo a colmare le sue
necessità, dimenticando che esse non costituiscono la ragion d’essere della sua vita. In questo
orizzonte appaiono le relazioni umane intessute dalla donazione agli altri per costruire una
società nell’amore, che in definitiva è il miglior rimedio per evitare l’avarizia e la voglia
smisurata di bene materiali.
11
Cf. Giuseppe DE VIRGILIO, «Aspetti antropologici e teologici del valoro nell’epistolari paolino» in
Ricerche Storico-Bibliche 1-2 (2020), 337-401.
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Cf. Ernesto DE LA CORTE, «Qoelet» in Giuseppe DE VIRGILIO (ed.), Dizionario Biblico della Vocazione,
Editrice Rogate, Roma 2007, 776.
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Bibliografia
– Luigino BRUNI, Massimo GRILLI, L'uso dei beni: Bibbia ed economia in dialogo
Gregorian & Biblical Press, Roma 2021.
– Francesco BIANCHI (a cura di), Lavoro, progresso, ricerca nella Bibbia, Borla, Roma
2003.
– Franco RIVA, La Bibbia e il lavoro: prospettive etiche e culturali, Edizioni Lavoro,
Roma-Fossano 1997.
– Giuseppe DE GENNARO (a cura di), Lavoro e riposo nella Bibbia, Edizioni Dehoniane,
Napoli 1987.
– Margherita RIBER, Il lavoro nella Bibbia , Edizioni paoline, Bari 1969.
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