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IN CAMMINO: BREVE STORIA DELLE MIGRAZIONI

PREMESSA
L’autore del testo, Massimo Livi Bacci, analizza il fenomeno della migrazione che
definisce “normale fisiologia” poiché spostarsi sul territorio è una “prerogativa” dell’essere
umano spinto dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, mostrando una
“capacità adattiva” del migrante (accomodation), che l’autore chiama anche fitness,
termine inglese che indica una combinazione di caratteristiche biologiche, psicologiche e
culturali che nelle varie epoche storiche è cambiata.
Le migrazioni sono sempre state lo strumento per cercare di migliorare le condizioni di vita
e, salvo che non siano spostamenti forzati, alla base della decisione di emigrare vi è sempre
un complesso bilancio costi/benefici e la valutazione del dislivello esistente tra opportunità
offerte dal paese di origine e quelle offerte dal paese di destinazione.
Un luogo comune da abbattere è quello secondo il quale nei paesi poveri è l’assenza di
sviluppo la causa dell’emigrazione per cui, sostenendo lo sviluppo, la pressione migratoria
si attenua. L’esperienza europea dell’800 dimostra che, in realtà, lo sviluppo economico
distrugge la stabilità e la continuità alla base delle relazioni sociali ed economiche delle
società agricole. I contadini, nel passaggio da una economia agricola ad una industriale,
vengono dislocati socialmente ed economicamente e si indebolisce il legame con la terra, la
comunità, le tradizioni. Alla lunga, si generano aspettative e condizioni favorevoli
all’emigrazione.
In epoca moderna le capacità di spostarsi si rafforzano, aumentano le risorse,
migliorano le tecniche e le infrastrutture. Si creano sistemi migratori interni ed
internazionali. Come conseguenza delle migrazioni internazionali, sono nate le “politiche
migratorie”, ossia l’intervento del governo finalizzato a pianificare, indirizzare e sostenere i
flussi migratori. Negli ultimi tempi le politiche migratorie si sono fatte più restrittive e
selettive: le migrazioni vengono percepite come il prezzo da pagare per il calo demografico,
la crisi dei mercati, come un’emergenza da risolvere, un pericolo incombente.
Gli Stati sono sempre più restii a cedere una parte della loro sovranità a organismi
internazionali che dovrebbero regolare e gestire questi fenomeni.
Dopo essere stata per millenni meta di immigrazione e di invasioni, nel 1500 l’Europa
diventa esportatrice di risorse umane e il ritmo di tali immigrazioni diventa travolgente
nello’800. E dopo la I Guerra mondiale, negli anni Venti, comincia una fase diversa in cui
l’Europa comincia gradualmente a diventare una terra di immigrazione, fenomeno
diventato poi del tutto evidente a partire dagli anni 60.

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Capitolo 1: L’ONDA DI AVANZAMENTO E LE MIGRAZIONI LENTE
La specie umana si sarebbe diffusa dall’Africa equatoriale, prima di sviluppare tecniche di
sopravvivenza che hanno permesso ad essa di insediarsi in altri continenti.
L’occupazione graduale del mondo fu il risultato di due forze congiunte:
- la prima, la capacità di riprodursi ed accrescersi demograficamente;
- la seconda, la capacità di spostarsi, cioè di migrare, affinando sempre di più capacità di
adattarsi alle mutevoli circostanze ambientali, naturali e climatiche.
Questa combinazione tra crescita demografica e spostamento avrebbe determinato un’
”onda di avanzamento” della popolazione, lenta ma continua, con una velocità
media di espansione pari a poco più di un chilometro all’anno.
La specie umana moderna si sarebbe diffusa dall’Africa all’Asia occidentale, all’Europa e
poi verso l’Asia orientale, raggiungendo nella fase finale l’America e l’Australia.
A partire dalla rivoluzione neolitica, le popolazioni umane abbandonarono l’economia
della raccolta dei frutti spontanei e della caccia per iniziare ad allevare il bestiame e a
coltivare la terra, determinando una prima espansione iniziata circa 5000 anni fa con una
direzione che andava dal Mediterraneo orientale alle isole britanniche.
Queste forme di migrazioni preistoriche avvenivano in territori vuoti o, comunque, con
scarsa densità di popolazione dove insediavano case e villaggi.
Nella storia degli ultimi duemila anni i migranti, invece, hanno dovuto misurarsi con le
popolazioni locali, imponendo o subendo modalità di convivenza, a seconda dei rapporti di
forza.
I processi migratori generano conflitti, ibridazioni di natura culturale, sociale e bio-
demografica. Naturalmente, tutto ciò è avvenuto con grande gradualità.
All’inizio della nostra era l’Europa geografica - quella compresa tra l’Atlantico e gli Urali,
tra Mare del Nord e Mar Mediterraneo – contava forse 30/40 milioni di abitanti con una
densità di popolazione pari a circa 1/20 esimo di quella attuale e con molti spazi vuoti o
spopolati, spazi poi fortemente ridotti alla vigilia della Rivoluzione industriale.
Molti movimenti migratori che hanno interessato l’Europa nel primo millennio della
nostra era hanno avuto modalità di invasione-occupazione, come avvenne con le
popolazioni germaniche che si diffusero in Europa approfittando del declino dell’Impero
romano.
Ci furono poi altri spostamenti di popolazione di minore portata da nord a sud come
conseguenza della Reconquista della penisola iberica, strappata agli arabi più per motivi
politico-militari che per fame di terra, o quella verso nord delle popolazioni scandinave che
toccarono aree climaticamente difficili, come i norvegesi che occuparono l’Islanda e, in
seguito, la Groenlandia o, ancora, quella verso sud in Russia da parte dei migranti che
cercavano una frontiera più stabile.
A partire dall’XI secolo fino al XIV secolo si sviluppò un grande movimento migratorio di
popolazioni tedesche verso est secondo 3 direttrici: quella meridionale lungo il corso del
Danubio, quella intermedia verso le pianure dell’Ungheria e quella a nord lungo il Mar
Baltico. Questo spostamento di popolazioni tedesche differiva come modalità dalle ondate
migratorie dei secoli precedenti, poiché non furono spostamenti spontanei, ma processi
intenzionalmente guidati da una vera e propria politica migratoria diretta da principi,
vescovi, ordini militari e cavallereschi che investirono grandi risorse. Dunque, non si
presenta come un fenomeno messo in atto dalla forte pressione dovuta alla crescita
demografica, ma piuttosto dall’abbondanza di terra e una buona organizzazione e
tecnologia dei coloni rispetto alle popolazioni autoctone.

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L’emigrazione verso oriente fu il maggiore, ma non l’unico grande processo di
colonizzazione medioevale. Sotto la spinta di questi movimenti il continente europeo
assunse una nuova struttura insediativa con lo sviluppo di casali, villaggi, castelli e città.
Si stima che nel 1200 la popolazione germanica si attestava intorno ai 6 milioni di abitanti.
Un’onda migratoria simile la ritroviamo anche in piena Rivoluzione industriale, nel corso
dell’800, quando si assiste al graduale popolamento del continente americano, oltre il
Mississippi fino alla costa del Pacifico, movimento che trovava giustificazione delle sue
ampie dimensioni nella maggiore disponibilità di terra e minor costo nel provvedere ai figli
da parte delle famiglie coltivatrici che proliferavano con una forza autopropulsiva dovuta
ad una alta natalità.
Quasi contemporaneamente si sviluppò l’insediamento di famiglie contadine nella Russia
asiatica, oltre gli Urali, soprattutto servi della gleba liberati.
Altre tracce di questa onda migratoria la troviamo in Cina nel popolamento della
Manciuria. Dapprima, l’immigrazione cinese fu vietata, poi ammessa, per intensificarsi
nell’800 al fine di contrastare la pressione russa. La popolazione tra metà 800, inizi 900 si
era moltiplicata per sei volte nel nord della Cina popolato e impoverito.

Capitolo 2: SELEZIONE E RIPRODUZIONE. L’EFFETTO FONDATORE


L’onda migratoria che avanzava lenta e graduale, tipica delle società agricole in territori
spopolati o poco insediati, era caratterizzata da 2 aspetti:
1- La capacità di muoversi e di adattarsi ad ambienti diversi, ma sempre
oggettivamente migliori
2- La possibilità, per le famiglie e le comunità insediate di generare un surplus
demografico sufficiente per garantire ulteriori avanzamenti.
Il migrante però, per andare avanti, per spostarsi e non essere stanziale, deve possedere
certe caratteristiche: età, salute, forza fisica, resistenza, inclinazione a sperimentare il
nuovo. La capacità di crescita dei migranti in contesti già insediati portano ad una
potenziale competizione con le popolazioni locali, soprattutto se il gruppo immigrato non
si “mescola” con quello autoctono, per una serie di svariati motivi, religiosi, culturali,
politici.
In linea generale, la capacità riproduttiva, cioè l’attitudine ad avere figli e la possibilità
di farli sopravvivere, è espressa dal rapporto numerico la generazione dei figli e la
generazione cui appartengono i genitori: più il rapporto risulta inferiore, tanto più la
popolazione varia in diminuzione, più risulta maggiore, più sarà.
Il successo o il fallimento numerico di gruppi immigrati dipende dal fitness che essi sono
riusciti ad esprimere e mantenere nel tempo.
Un esempio è la storia dell’America nell’ultimo mezzo millennio e le conseguenze del
contatto con Europa ed Africa. Indios, europei ed africani hanno un destino “numerico”
assai diverso.
La crescita degli europei è vigorosa, soprattutto in certe aree ricche di risorse con clima
favorevole e terre disponibili con ricadute positive in termini di sopravvivenza e natalità.
Gli indios invece vengono spogliati della loro terra, strutture di governo e sistema di valori,
con uno sconvolgimento delle loro vite e una riduzione della natalità determinato
dall’arrivo degli europei, con una grave compromissione della loro fitness riproduttiva.

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Per gli africani, condotti in America e resi schiavi, la sorte fu anche peggiore con ricadute
negative in termini di sopravvivenza e natalità.
Nel 1500 l’America era al 100% india, tre secoli dopo predominavano europei e africani.
Possiamo affermare con sicurezza che le disparità grado di fitness, sono dovute non tanto
alle caratteristiche originarie dei paesi di emigrazione, quanto alle condizioni nei paesi di
arrivo (per intenderci, europei fitness 7, 2; per gli africani nel 1800 è pari allo 0,4).
Il caso canadese dei francesi immigrati nel Quebec nel 1600 mostra come i primi pionieri
ebbero una sopravvivenza migliore dei gruppi autoctoni, forse per la migliore
alimentazione, alla più solida costituzione fisica, ma anche perché erano più giovani ed
ebbero più figli, una maggiore fitness, dunque, che continuò anche nella generazioni
successive dei primi pionieri. A fronte della crescita demografica dei francesi che oggi in
Canada sono circa 7 milioni, si registrò il declino delle popolazioni indigene.
E’ ragionevole pensare, però, che l’effetto selezione fosse di natura transitoria e non
permanente, cioè che dipende dal migrante.
Nell’epoca contemporanea l’alta riproduttività non rappresenta un fattore di vantaggio solo
per la prima generazione di immigrati che conserva i modelli riproduttivi del proprio paese
d’origine. Nella società urbana ed industriale in cui gli immigrati si trovano a vivere i
modelli di riproduzione risultano più moderati e quindi già i migranti di seconda
generazione si adattano a questa fitness riproduttiva controllando le nascite.
Così, a lungo andare, la componente immigrata tende a crescere alla stessa velocità della
popolazione locale. Per fare un esempio, a inizi 900 le donne italiane che vivevano negli
Stati Uniti mettevano al mondo 1 figlio ogni 5 donne; oggi, 1 figlio ogni 25.
Questo significa che il vantaggio riproduttivo delle successive generazioni tende ad
azzerarsi.

Capitolo 3: SPOSTAMENTI PREORDINATI


L’onda di avanzamento è un fenomeno che avvenne con lentezza e gradualità su iniziativa
individuale, spinti dalla convenienza di un nuovo insediamento.
Questa spontaneità si affievolisce con la costituzione di organizzazioni politiche che
pianifica, guidano e regolano questi movimenti migratori. Si afferma il concetto di
sovranità, di cittadinanza che delineano confini.
Sarebbe sbagliato pensare che l’organizzazione dei movimenti migratori sia una peculiarità
dell’età moderna: basti pensare alla fondazione di città greche e colonie attorno al
Mediterraneo tra l’ottavo e il sesto secolo a.C.; si trattava di una migrazione che avveniva
secondo modelli preordinati con criteri di selezione dei migranti e secondo modalità che
avevano lo scopo di massimizzare il successo delle colonie.
La domanda che si pone l’autore è dunque: in che misura e in quale modo le politiche
influenzarono l’esito delle migrazioni?
Un esempio paradigmatico è quello relativo all’espansione del governo degli Inca sulle
popolazioni andine che avvenne in un breve lasso di tempo, ma con grande attenzione alla
compatibilità ambientale ed ecologica, per non compromettere la sopravvivenza dei gruppi
di migranti, cosa che , invece, non si può dire degli spagnoli ai tempi della Conquista che
ebbe conseguenze nefaste a causa di trapianti affrettati, di modalità di spostamento (tipo
da altipiani a terre calde o viceversa) che determinarono un indebolimento della fitness del
gruppo di migranti.

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Diventa allora di estrema importanza scegliere i terreni da coltivare nelle zone più
favorevoli, distribuirli tra i coloni, sostenerli fino ai primi raccolti, dotandoli di sementi,
bestiame, attrezzi e materie prime. Alcune migrazioni organizzate, particolarmente
positive, determinarono un importante “effetto fondatore”, altre un disastro.
In epoca moderna, le monarchie assolute ricorsero con frequenza a migrazioni organizzate.
2 i fattori importanti che motivarono le scelte migratorie:
- Una di natura economica e interna consisteva nell’accrescere il valore di terre
incolte e spopolate
- Una di natura politico/strategica che mirava a rafforzare le aree di confine adiacenti
a stati ostili
Un esempio paradigmatico di successo fu il movimento migratorio tedesco promosso dalla
zarina Caterina II nel 1762.
Gli obiettivi erano 2: modernizzare l’arretrata agricoltura russa innestando contadini
capaci di utilizzare tecniche più moderne e creare una zona di cuscinetto tra le zone
popolate della Russia e le popolazioni semi-nomadi ad est del fiume Volga.
Per incentivare il movimento migratorio in Russia, la corona concedeva una serie di
benefici e privilegi, tra cui 32 ettari di terreno assegnati con decreto (80 acri), nonché
libertà religiosa, esenzione perpetua dal servizio militare e il rientro nella patria di origine.
Per le popolazioni tedesche, impoverite dalla guerra dei Sette anni, appena conclusa, le
condizioni erano allettanti, ma l’impatto fu deludente.
Tuttavia, l’insediamento prosperò sotto il profilo sociale e demografico e nel giro di 130
anni il nucleo iniziale si era moltiplicato per 16 volte con un raddoppio a ogni generazione,
dunque, con “effetto fondatore” dirompente.
Nel 1871 lo zar Alessandro II revocò il privilegio dell’esenzione del servizio militare e
qualche anno dopo iniziò un’emigrazione verso gli Stati Uniti che continuò fino al 1917.
Nel corso del 700 i tentativi di colonizzazione organizzati furono numerosi e d alcuni si
rivelarono un disastro.
La Maremma toscana, poco popolata, era stata devastata dalle truppe imperiali di Cosimo I
che voleva impadronirsi di Siena nel 1552. Qualche anno dopo egli aveva tentato un’opera
di popolamento di queste aree abbandonate che andavano bonificate, in cui si diffusero
febbri malariche, attraverso il trapianto di 200 famiglie lombarde.
Un altro progetto ambizioso destinato al fallimento fu quello di Francesco II, primo
granduca della Lorena, una regione della Francia orientale, che nel 1739 cercò di far
trasferire dei contadini lorenesi in Toscana, nella Maremma in cui c’era la malaria perché
necessitava di opere di bonifica. Nonostante i vantaggi offerti, questo insediamento non
ebbe successo per l’alta mortalità dovuta all’insalubrità delle zone scelte, l’abbandono da
parte dei coloni, pessime condizioni igieniche e abitazioni inadeguate.
Questi esempi ci mostrano come i criteri di scelta operati da una colonizzazione
organizzata possono portare a esiti contrastanti: al successo come nelle colonie del Volga o
al fallimento come in Maremma, pur a parità di privilegi concessi.
A fare la differenza la scelta delle terre in cui insediarsi, le libertà civili concesse ai migranti
e la competizione con le popolazioni locali.
La prima migrazione organizzata nel Nuovo Mondo avvenne a inizi 500, dopo la rimozione
di Colombo, quando 32 navi approdarono a Santo Domingo.

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La selezione dei passeggeri fu fatta male con poche donne e la maggior parte dei passeggeri
era interessata alla corsa all’oro che si rivelò un miraggio.
Un altro caso interessante è quello della diaspora ebraica avvenuta a partire dal VI secolo
quando il popolo ebreo fu disperso dopo la cacciata dalla ad opera dei babilonesi. Non
siamo nel campo delle migrazioni forzate. In questo caso, la forza propulsiva non era
dovuta alla ricerca di nuove aree di insediamento, bensì dalla fuga.
A inizi 900 le popolazioni ebraiche in Italia erano stimate intorno ai 43ooo, mentre quelle
nell’Europa orientale arrivano fino a 7,5 milioni di abitanti.
Questo differenziale di sviluppo trova la sua ragion d’essere nel fatto che in Italia le
comunità ebraiche vivevano in ghetti, in spazi ristretti con scarsa possibilità di muoversi e
scarsa crescita, mentre nelle vaste regioni orientali dell’Europa le norme sociali favorivano
un’alta natalità e coesione familiare.

Capitolo 4: TRE SECOLI 1500-1800


L'epoca moderna del continente europeo, fino agli albori della rivoluzione industriale, fu
contrassegnata da un aumento della mobilità, sia nelle breve distanze, sia in quelle lunghe
e lunghissime.
Dopo il 1500 ha inizio un flusso consistente di migrazione transoceanica: l'Europa da
importatrice diventa esportatrice di risorse umane e i flussi cambieranno di segno
nuovamente nella seconda parte del secolo scorso.
Tra il 1500 è il 1800 la perdita netta dovuta alle migrazione fu relativamente modesta:
verso l’America non superò, in media, un milione per secolo, relativamente poco per un
continente che all'inizio del periodo aveva quasi 100 milioni di abitanti e alla fine il doppio.
Ma fu sufficiente per imporre lingua, cultura, religione, istituzioni.
All'interno dell'Europa migliorò la mobilità a medio e corto raggio, crebbero le città, si
rafforzarono le migrazioni tra campagne e città, si allargarono i mercati del lavoro,
abbracciando anche regioni transnazionali.
Tra i fattori oggettivi che migliorarono le condizioni della mobilità umana vi fu una
combinazione tra l'aumento delle disponibilità energetiche, le innovazioni tecnologiche e il
miglioramento delle infrastrutture.
Verso la metà del 700 il consumo energetico pro-capite in Europa era di circa 15 calorie
giornaliere, la metà di cui trasformate in energia termica e l'altra in energia meccanica
adatta alla trazione allo spostamento, sia di origine umana che animale; scarso l'apporto
dell'energia originata da acqua e vento: solo l'1% del consumo totale. L'apporto dell'energia
umana a questo bilancio energetico era modesto ed è presumibile che dal tardo Medioevo
alla vigilia della Rivoluzione Industriale i consumi calorici fossero aumentati, se non
raddoppiati e soprattutto, a causa di un maggiore e più efficiente impiego di bestie da
traino e da lavoro, ci fu un aumento della mobilità della popolazione.
Questa cresciuta mobilità fu anche la conseguenza di una serie di innovazioni e della loro
graduale applicazione, come ad esempio l'impiego del cavallo, favorito dall'introduzione
della serratura e delle staffe, la diffusione del carro a quattro ruote, il miglioramento delle
infrastrutture.
Il crescente utilizzo delle vie d'acqua interne, di cui l'Europa è ricca, e la costruzione di
canali diede un consistente impulso al trasporto, sia di merci che di passeggeri.
L'evoluzione avvenne per l'impulso dei paesi Atlantici: i grandi velieri del Portogallo nel
300 e 400 consentirono viaggi più lunghi e la conquista di nuovi spazi, questo grazie allo
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sviluppo di una complessa velatura, al passaggio dalla nave a un albero alla nave a tre
alberi, all'aumento del tonnellaggio, con enormi vantaggi per la capacità di carico, per la
sicurezza, la velocità e il costo del trasporto.
Insomma, in epoca moderna crebbe in misura notevole la capacità di
spostamento degli europei: nella società medievale la normale mobilità era a breve
raggio, per andare in chiesa, al mercato o alle fiere; invece, nel 600 e 700 la mobilità era
notevolmente aumentata (da Londra si poteva arrivare ad Oxford in giornata e si
impiegavano quattro giorni per arrivare a York).
Dalla fine del Seicento furono elevatissimi gli investimenti privati in canali e strade;
in Olanda la fitta rete di strade, canali e vie d'acqua sostenne la diffusa urbanizzazione,
l'alta mobilità del lavoro e le intense migrazioni interne; in Francia gli investimenti in
strade si duplicarono nel secolo precedente la rivoluzione con una forte crescita di
investimenti infrastrutturali in gran parte d’Europa, inclusa l'Italia, seppure con ritmi
inferiori. Questa accresciuta capacità di movimento e trasporto presentava molti limiti:
si percorrevano al massimo 100 km al giorno.
Tra il 1500 è il 1800 la popolazione urbana crebbe quasi ovunque in assoluto e
in percentuale della popolazione totale: in Galles e in Inghilterra dal 3 al 20%, in Francia
dal 4 al 9%, in Spagna dal 6 al 11%, in Italia dal 12 al 14%.
Tra il 1650 e il 1750 Londra crebbe di 250.000, nonostante il numero dei decessi fosse
uguale a quello delle nascite. Amsterdam che crebbe da 30.000 a 250.ooo, meta di
immigrati dalle Fiandre, dalla Germania e dalla Norvegia; a Roma durante il Settecento il
saldo migratorio superò le 130.000.
A testimonianza della crescente mobilità si crearono in Europa veri e propri
mercati del lavoro con una notevole estensione geografica, caratterizzati da una
mobilità stagionale o periodica dei lavoratori per lo più contadini, braccianti o piccoli
proprietari in cerca di redditi complementari. A fine Settecento l'Olanda, Londra, l'area
parigina videro mercati del lavoro con forte mobilità migratoria, ma anche più a sud verso
Madrid, Castiglia, Catalogna e Provenza. Importanti aree di attrazioni furono anche la
Valle del Po, dalle Alpi agli Appennini, la Toscana meridionale, il Lazio e la Corsica.
Percorsi più lunghi spesso transnazionale o trans regionali e movimenti di insediamento
continuarono a caratterizzare l'Europa anche in epoca moderna.
Dopo la grande crisi del 1300 e del 1400 l'arretramento demografico prodotto dalla peste,
l'abbandono di molte terre e villaggi, il movimento verso est non si arrestò.
Dopo la fine della guerra dei Trent'anni si stimolarono nuovi insediamenti tedeschi in
Pomerania.
Si stima che da fine 600 alla fine del regno di Federico II si fossero insediate in Prussia
430.00 persone che contribuirono alla forte crescita dello Stato e germanizzazione dei
territori. Inoltre, proseguirono le migrazioni verso l'Ungheria.
Per il periodo che va dalla fine del 600 alla fine del 700, un altro flusso si diresse verso le
regioni del Volga per iniziativa dell'imperatrice Caterina, promotrice di una vera e propria
politica immigratoria. Rilevante anche il movimento verso la Polonia.
L'altra direttrice di conquista e insediamento, soprattutto nel 1700, fu interna all'Impero
Russo e si mosse verso sud e il mar Nero. Oltre alla colonia tedesca nella regione del Volga,
a partire dalla seconda metà del S700 si dette impulso alla colonizzazione della provincia
della Nuova Russia che segnava la frontiera a sud dell’impero con la successiva
acquisizione della Crimea dopo la sconfitta turca.
Il problema della sicurezza della frontiera con l'impero turco portò l'Austria a favorire
l'insediamento agricolo di coloni di varia provenienza, ma soprattutto germanica, nelle
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zone di confine, particolarmente lungo il Danubio. Anche in questo caso un'accurata
pianificazione portò ad un immigrazione di successo: alla fine del regno di Maria Teresa
l'immigrazione era praticamente terminata.
Altri movimenti internazionali furono in realtà processi di osmosi tra aree contigue, come
l'immigrazione tra la fine del 400 e il primo terzo del 600 dal sud della Francia, verso
Aragona e Valencia e soprattutto verso la Catalogna: si calcola che nella seconda metà del
500 un catalano su cinque fosse nato oltre frontiera.
Altre migrazione quelle degli Albanesi verso l'Italia Adriatica, ancora più a nord
l'immigrazione della Germania, dalle Fiandre, dalla Norvegia verso l'Olanda, o dalla Scozia
verso L'Irlanda e l'Inghilterra.
A questi movimenti guidati da forze di mercato, si sovrapposero quelli provocati da
processi politici e, in particolare, dall'intolleranza religiosa: ricordiamo l'espulsione degli
ebrei soprattutto dei Moriscos nella penisola iberica; degli anabattisti e calvinisti espulsi in
gran numero dalle province meridionali dei Paesi Bassi, verso le province del Nord, gli stati
tedeschi e l'Inghilterra; meno rilevante l'immigrazione degli ugonotti tra il 1685 e il 1690;
città come Francoforte e Amburgo si avvalsero dell'arrivo dei protestanti espulsi dei Paesi
Bassi.
Un ruolo importante ebbe l’immigrazione di persone con particolari specializzazioni, come
ingegneri, medici, scienziati, artisti, musicisti, militari, ceramisti, mercanti, per i quali in
Europa cominciava a formarsi un mercato globale con specializzazioni etniche e
geografiche. Dalla metà del millennio, l'Europa diventa esportatrice di risorse umane e di
questo processo fu protagonista l’Europa atlantica.
Il progresso delle tecniche di navigazione fu condizione necessaria per il popolamento
dell'America; l'istituzione di una colonia di popolamento presupponeva anche l'esistenza di
un regolare traffico tra la madre patria e la colonia; già nel decennio 1506-1515 il numero
delle navi in partenza dalla Spagna verso il Mare del Nord era di una trentina all'anno, con
una capacità di un paio di migliaia di persone, capacità limitata, ma sufficiente a iniziare
una colonizzazione di popolamento. Per il Portogallo l’emigrazione fu più intensa date le
piccole dimensioni del paese: circa 4000 emigranti in media nel 500 e 600 che crebbero a
9000 all'anno nel 700 in conseguenza della scoperta di minerali in Brasile. Dei grandi
imperi coloniali solo la Francia fu avara di emigranti con un modesto flusso transoceanico
verso il Canada e verso le Antille.
Quei 7 milioni di abitanti di origine europea che abitavano il continente americano verso il
1800 avevano modellato un intero continente ad immagine somiglianza dell'Europa:
lingua, religione, istituzioni, città tecnologia, persino l'ambiente.
Quindi, esistono “bacini di lavoro” che muovono periodicamente centinaia di migliaia di
lavoratori e si forma un mercato del lavoro continentale per le professioni più specializzate.
Ci sono migrazioni forzate per motivi etnici e motivi religiosi, ed infine, esiste una
migrazione fuori dal continente che proveniva dalle grandi potenze coloniali.
In conclusione, possiamo fare tre osservazioni:
1) La prima è che la mobilità a corto, medio, lungo o lunghissimo raggio rappresenta
una forza di rilievo della società moderna europea partendo dal presupposto che le
migrazioni non sono “accidenti”, ma componenti strutturali della vita sociale.
2) la seconda è che questa forte mobilità può interpretarsi come conseguenza del
rafforzamento del capitale umano che si caratterizza proprio per la sua capacità di
spostarsi e mutare residenza, un rafforzamento nutrito dalle innovazioni
tecnologiche.

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3) la terza è che a fine Settecento le innovazioni portate dalla rivoluzione industriale si
ripercuotono su una società in cui gli spostamenti fisici erano la normalità: l'Europa
si prepara alle migrazioni di massa del secolo successivo, cioè dell'Ottocento.

Capitolo 5: UN CAMBIO DI PASSO 1800-1913


Nel lungo 800 mobilità e migrazioni cambiano il passo e i ritmi del cambiamento si
accelerano, crescono i divari, si accorciano le distanze e si intensificano i legami tra i mondi
diversi. Si rafforza la capacità di spostarsi e il numero di coloro che effettuano
trasferimenti vicini e lontani, transitori e permanenti, talvolta forzati.
Cambiano anche le qualità individuali che frenano o favoriscono il successo di chi si
sposta, qualità che costituiscono la cosiddetta fitness del migrante.
In Europa si chiudono gli spazi vuoti o scarsamente insediati che avevano attratto i
migranti nel passato e fuori dall'Europa; i “mondi nuovi” ormai, sono entrati stabilmente
nell'orbita europea perché vi è affinità oramai a livello culturale, religioso, linguistico e
istituzionale. Altri mondi si aprono in Oceania e in Africa australe, ricchi di capitali
naturali e di terra, ma poveri di risorse umane, pertanto, complementari all'Europa.
Per comprendere meglio le specificità delle migrazioni ottocentesche bisogna valutare
alcuni aspetti del cambiamento demografico, sociale ed economico che vi sono alla base.
Innanzitutto:
- l'accelerazione della crescita demografica, soprattutto nelle campagne;
- il graduale aumento della produttività agricola
- la formazione di quote crescenti di disoccupati e forza lavoro sottopagata
- il grande miglioramento della rete di trasporti e l’abbassamento dei costi
- la riduzione dei vincoli all’emigrazione
In parallelo, il settore industriale in crescita era capace di attrarre e impiegare queste
eccedenze.
L'accelerazione demografica portò tra il 1800 e il 1913, cioè alla vigilia della Prima Guerra
Mondiale, al moltiplicarsi per due volte e mezza della popolazione del continente che passò
all’incirca da 190 a 460 milioni di abitanti, mentre nei secoli precedenti la popolazione era
appena raddoppiata.
L’”esportazione netta” di risorse umane tra l'inizi 800 e la fine della Prima Guerra
Mondiale fu dell'ordine di circa 50 milioni di persone, diverse decine di volte superiore alle
migrazione avvenuta in ciascuno dei tre secoli precedenti: fu, dunque, un grande fenomeno
sistemico che investì l'intero continente.
Nel corso dell'Ottocento diminuisce il tasso di mortalità, grazie ad una maggiore
disponibilità di risorse alimentari, di conoscenze mediche che rendono possibile la difesa
da patologie trasmissibili. Più tardiva la diminuzione del tasso di natalità, così che il
divario tra le due curve aumenta nella seconda metà dell'800, poi, con il delinearsi di un
processo di controllo delle nascite, anche la curva della natalità inizia a diminuire fino a
quando in pieno 900 il divario tra le due curve diventa minimo.
Questo processo battezzato “transizione demografica” comportò l'innalzamento del
tasso di incremento della popolazione, fino a toccare l’1%, quindi quattro o cinque volte
rispetto al passato, nonostante le migrazione. L'incremento fu ancora più forte nelle
campagne in cui il controllo delle nascite apparve assai più tardi che tra le popolazioni
urbane.

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Il secondo fenomeno riguardò le trasformazioni dell'economia all'inizio dell'Ottocento
quando avvenne la rivoluzione agricola che precedette quella industriale.
A inizio secolo, circa 3/4 della popolazione europea dipendeva dall'agricoltura e la gente
risiedeva nelle campagne vivendo secondo regole fortemente sedimentate nei secoli.
In queste popolazioni la produttività del lavoro cominciò a crescere per una molteplicità di
cause: dalla diminuzione dei tempi di riposo dei terreni a recupera, alla bonifica di nuove
terre, dall'adozione di nuove coltivazioni al miglioramento degli attrezzi, dalla selezione
delle sementi a quella del bestiame, fino all'introduzione delle macchine e alla diffusione di
nuove coltivazioni (trattore frangizolle, uso di concimi, macchine per mietitura e
trebbiatura).
L'epoca approssimata in cui Si delinea la rivoluzione agricola sarebbe l'inizio del Settecento
in Inghilterra e nella seconda metà del Settecento in Francia, Svizzera, Germania e
Danimarca, nel corso dell'Ottocento negli altri paesi, tra cui Russia, Spagna, Austria, Svezia
e Italia.
La doppia pressione esercitata dall'accelerazione della crescita demografica e dell'aumento
della produttività provocarono complesse conseguenze: una pressione negativa sui
salari reali, il frazionamento della proprietà e l’impoverimento dei piccoli proprietari, la
crescita delle famiglie senza terra.
Tutto ciò naturalmente fece crescere le spinte migratorie, ma emigrare dove? Altra terra da
coltivare non ce n'era.
Tuttavia, nello stesso periodo in Canada, Stati Uniti e Argentina le terre si erano espanse
per 100 milioni di ettari; i bassi costi di produzione e l'abbassamento dei costi di trasporto
marittimo portarono la caduta dei prezzi e delle derrate agricole e posero in crisi le
campagne europee. A partire dal 1870 non tutta la pressione si tramutò in emigrazione
fuori dall'Europa, poiché quote importanti di popolazione rurale vennero assorbite dal
processo di industrializzazione. Se circa i ¾ della forza lavoro europea erano impegnati
nell'agricoltura all'inizio dell’800, la quota si dimezzava a metà verso il 1850 e a 1/3 verso
l'inizio del 900. In sostanza, l'ammontare assoluto della forza lavoro agricola aveva
continuato ad aumentare fino al 1850 per poi stabilizzarsi e cominciare a declinare a inizio
nuovo secolo, quando il continente perse sempre più la sua fisionomia rurale le attività
manifatturiere, estrattive, di costruzione si svilupparono.
Il processo di urbanizzazione fu intenso: la popolazione delle 39 città europee che nel 1850
avevano più di 100.000 abitanti passò a 6 milioni nel 1800 e a ben 34 milioni nel 1910,
moltiplicandosi per quasi sei volte.
Man mano che si sviluppò l'industria e crebbe la domanda di lavoro nel settore
manifatturiero la pressione migratoria diminuì.
Tra fine Ottocento inizi Novecento si riscontra un rapporto inversamente proporzionale tra
sviluppo dell'industria ed emigrazione: quando il numero degli occupati dell'industria si
avvicina a quella degli occupati nell'agricoltura, gli emigranti transoceanici calano.
Durante gli ultimi decenni dell'800 in Gran Bretagna gli occupati nell’industria avevano
superato quelli occupati nell’agricoltura e la migrazione da tempo non si delineava più
come un fenomeno di massa.
Prima della Grande guerra gli occupati nell'industria avevano superato quelli in agricoltura
in Belgio, in Germania e Svizzera, paesi in cui l'emigrazione era cessata.
In altri paesi, come Olanda, Svezia e Norvegia, l'emigrazione si era già spenta per le
restrizioni poste dalla grande crisi. Nel frattempo, l'economia dell'Europa si connetteva
sempre più con quella degli altri continenti: l'Europa con risorse umane in eccedenza
10
cominciò a trasferirle in massa oltreoceano lungo rotte antiche, favorita dalla navigazione a
vapore che agli inizi dell'Ottocento permetteva di percorrere in 5/6 settimane il percorso
da Liverpool a New York, e dall’abbassamento dei costi.
L’estendersi della rete ferroviaria, inoltre, rendeva possibile raggiungere rapidamente i
porti di imbarco. Anche le politiche abbatterono gradualmente le barriere alle migrazioni
in Europa e costruivano incentivi all'immigrazione in America.
In epoca coloniale, l'espatrio verso l'America era soggetta numerosi vincoli e interdizioni.
In Inghilterra e nei Paesi scandinavi si abolirono già negli anni 30. Altrove vennero
allentati più tardi. In Spagna per esempio divieti furono aboliti solo verso la fine del secolo.
Nei paesi di destinazione, invece, le politiche favorivano l'immigrazione negli Stati Uniti,
dove, nel 1862 fu emanato l'Homestead Act che concedeva terra senza oneri a
capifamiglia di almeno 21 anni intenzionate a coltivarla e che fossero cittadini degli Stati
Uniti o che avessero fatto richiesta di diventarlo.
In Argentina, nella seconda metà dell'800, furono costituiti speciali uffici per l'assistenza e
l'avvio al lavoro degli immigrati di cui si finanziavano i trasferimenti interni e si ospitavano
gratuitamente i migranti per i giorni successivi all'arrivo.
Sempre nella seconda metà dell'800 il Brasile finanziava il viaggio degli immigrati
transatlantici e in seguito favorì l'acquisizione di terre in zone già designate.
Sono 3 le forze che spiegano come le migrazioni europee nel corso dell'800 accelerino il
passo:
1 la crescita demografica
2 la rivoluzione dell'agricoltura
3 l'internazionalizzazione del mondo
A partire dagli anni trenta dell'800 l’emigrazione europee assunse le caratteristiche di un
fenomeno di massa.
La valanga di emigrati con destinazioni transoceaniche partivano dalla Gran Bretagna,
Irlanda, Italia, Spagna, Portogallo, Germania, Polonia, Austria, Russia diretta verso Stati
Uniti, Canada, Argentina, Brasile, Cuba, Australia, Nuova Zelanda, per citare solo alcune
destinazioni rilevanti.
La Grande guerra e successivamente le restrizioni all'immigrazione posta in essere dagli
Stati Uniti, che era la principale meta dei flussi, ne ridussero fortemente le dimensioni.
La migrazione nordamericana, tripla di quella diretta verso il resto del continente, negli
ultimi due decenni dell'800 registrò un cambiamento di composizione: prima,
prevalevano origini britanniche, germaniche, scandinave, poi si passò a una prevalenza di
immigrati provenienti dai Paesi mediterranei, Italia in testa, e dal gruppo orientale
balcanico, una nuova migrazione questa sia dal punto di vista geografico che culturale.
I movimenti migratori dell’800 ebbero un notevole effetto demografico sulle popolazioni,
sia di partenza che gli arrivo; non solo per il trasferimento “netto” di persone, ma per gli
effetti di lungo termine che questo trasferimento comportava, poiché i migranti erano
mediamente giovani ed avevano alta fecondità.
Le migrazioni internazionali dalle campagne e verso le campagne, come fu in buona parte
quella della prima parte dell'800, richiedeva strutture familiari molto coese ed anche un
altro numero di figli, requisiti che se considerati nei paesi di origine causa di difficile
sopravvivenza per via anche delle scarse risorse, mentre nei paesi di arrivo erano fattori
funzionali perché qui la terra era abbondante e la forza lavoro numerosa rappresentava un
vantaggio.

11
Invece, l'immigrazione dalle campagne verso le aree urbane e le regioni in via di
industrializzazione richiedeva un altro profilo. Vi si adattava meglio il lavoratore senza
legami o con legami allentati, perché era molto mobile, oppure quei nuclei familiari capaci
di pianificare le nascite o coloro che avevano conoscenze per sostenere la loro ascesa
sociale. Il rapido allineamento della natalità degli immigrati a quella dei nativi, quindi, può
interpretarsi come una capacità di adattamento.

Capitolo 6: IL CICLO S’INVERTE 1914-2010


Se dovessimo rappresentare graficamente le correnti migratorie internazionali del 900
otterremmo delle linee frammentate, con bruschi cambi di direzione.
Il 900 fu un secolo in cui la capacità di spostarsi delle persone fu continuamente
intralciata, nonostante fattori favorevoli che l’avevano accresciuta (miglioramento delle
infrastrutture, innovazioni tecnologiche, maggiori disponibilità economiche, allargamento
dei mercati) da assetti politici interni ed esterni.
I fattori di impedimento furono molteplici: le due guerre, il conseguente riassetto
geopolitico europeo, la crisi del ’29 e il ripiegarsi degli stati all’interno dei loro confini, la
divisione dell’Europa con il consolidarsi del blocco sovietico e l’interruzione dei flussi tra
est e ovest, poi il suo successivo dissolversi; la nascita e l’allargamento dell’Unione Europea
e la creazione di una grande area di “libera circolazione” tra stati, l’esaurirsi del
colonialismo e il cambio di ruolo delle grandi potenze che da propulsori diventano
attrattori di flussi internazionali.
Oltre a questi eventi c’è una forza di fondo che agisce durante gli ultimi cento anni.
Dagli inizi del 900 si abbassa la natalità che raggiunge i minimi storici alla fine del secolo e
si modera la crescita della popolazione e l’Europa cessa di essere di risorse umane
abbondanti come accadeva nell’800.
Eppure la popolazione europea raggiunge tra il 1914 e il 1950 ben 60 milioni di abitanti con
un incremento percentuale del 12%, nonostante guerre, catastrofi ed epidemie e l’ondata
migratoria che negli anni 20 portò a spostarsi 6 milioni di persone.
Nonostante tutto, tra il 1950 e ilo 1970 si registra un incremento demografico del +20%,
nel ventennio 1970-90 del +10%, nel 1990-2010 di appena 2%. Se non c’è stato un saldo
negativo di crescita è stato solo per il contributo dato dall’immigrazione da fuori Europa. Si
può quindi affermare che nella seconda metà del 900 si conclude il lungo ciclo di crescita
iniziato un quarto di millennio prima grazie agli effetti congiunti della Rivoluzione
industriale e della transizione demografica, ciclo in cui l’Europa è cresciuta
economicamente.
L’inizio del terzo millennio coincide con l’inizio di un nuovo ciclo caratterizzato da scarse e
decrescenti risorse demografiche. L’inversione del ciclo avviene nell’ultimo terzo di secolo
(1970/2010). Vengono a cessare, infatti, le condizioni che avevano reso possibile la grande
migrazione transoceanica: si allenta la domanda di manodopera nei paesi di destinazione e
si attenua l’offerta da parte dell’Europa per via del calo demografico. Oltre a questi due
fenomeni che agirono lentamente, altri fattori contingenti troncano bruscamente l’ondata
migratoria: la guerra e le politiche migratorie degli stati.
Il freno più efficiente fu posto dagli Stati Uniti con una serie di restrizioni culminate nel
National Origin Act del 1924, che non solo stabiliva un tetto al numero annuo di
immigrati, ma penalizzava le aree di provenienza della “nuova immigrazione”, cioè
dell’Europa meridionale e orientale (la quota italiana ammissibile fu ridotta del 4%).
12
Si ebbe una breve ripresa dopo la Seconda guerra mondiale, ma in un contesto differente
perché non prevalsero motivi di lavoro sullo spostamento migratorio, giacchè il divario di
benessere tra America e Europa si era attenuato, ma piuttosto per ricongiungimenti
familiari e la sistemazione di rifugiati.
Nella seconda metà del 900 si assiste ad un allentamento dei legami umani, familiari ed
economici che gli europei avevano creato con la società di oltreoceano.
Le due guerre mondiali, oltre alle perdite in termini di vittime, avevano determinato
movimenti migratori forzati interni al continente, movimenti che spesso erano la
conseguenza di cessioni territoriali.
Tra le due guerre si attenua fortemente la migrazione interna all’Europa per due ragioni
che agiscono in successione: il dissanguamento delle nuove generazioni più giovani nelle
operazioni militari e una depressione economica generalizzata con crescente
disoccupazione e rigide politiche economiche protezionistiche, soprattutto nei paesi a
regime dittatoriale. Tuttavia, i flussi migratori intraeuropei non si arrestano del tutto.
Negli anni 20 riprese l’immigrazione verso la Francia, principalmente polacchi e italiani da
impiegare come forza-lavoro per ricostruire infrastrutture di uno stato fortemente
penalizzato dalla guerra con perdite altissime.
Negli anni 30, con l’incalzare della crisi economica e la pressione dei sindacati in difesa dei
lavoratori nazionali, si fanno più strette le regole e i flussi migratori si arrestano.
Nel periodo tra le due guerre il dualismo esistente in Europa tra l’area nordoccidentale più
ricca e industrializzata e l’area sudorientale più povera e arretrata, ancora fortemente
rurale, si incrocia con un dualismo demografico che si presenta rallentato nella prima area
e ancora robusto nella seconda.
Questi movimenti ristrutturali riprendono con forza alla fine della Seconda guerra
mondiale con l’uscita dell’Europa orientale dall’economia di mercato e la forte crescita nel
resto del continente.
Secondo quanto stimato dalle Nazioni Unite, tra il 1950 e il 1970 l’Europa occidentale
(Francia, Germania, Svizzera) aveva assorbito un’immigrazione netta di 6,6 milioni e
quella meridionale (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia) aveva generato un’emigrazione
netta equivalente pari a 6,3 milioni, ma di segno contrario.
Con la crisi petrolifera del biennio 1973-74, finì questo processo migratorio e iniziò una
fase di ristrutturazione economica con l’espulsione del lavoro dalle attività manifatturiere
che si tendeva a sostituire con attività più fondate sul capitale.
Insomma, negli anni 70 i paesi mediterranei cessarono di essere paesi di emigrazione e si
avviarono a diventare attrattori di migrazione, tranne una piccola parentesi negli anni 90
quando collassa il blocco sovietico e si avvia una grande migrazione verso ovest dai
territori dell’ex URSS che entrano nell’orbita occidentale, un movimento di natura più
interna che internazionale.
Esiste poi un fatto nuovo: l’immigrazione proveniente da altri continenti esterni all’Unione
Europea, che ha una funzione di “rimpiazzo”: di fondo, infatti, vi è una domanda di lavoro
per qualifiche più modeste e poco remunerate, inevasa dalla manodopera nazionale che
evita lavori di basso profilo. Si tratta di immigrati nordafricani, sudamericani e asiatici.
Nel 2010 nell’Europa comunitaria gli immigrati non europei sono il 5% della popolazione.

13
Capitolo 7
TRE GLOBALIZZAZIONI, LE MIGRAZIONI E L’AFFERMARSI
DELL’AMERICA
All’inizio del XXI secolo la struttura etnica e culturale dell’Europa rispecchia una profonda
trasformazione frutto anche di mezzo secolo di migrazioni. La componente nativa si era
fortemente ridotta fino a diventare una minoranza.
La turbolenta storia americana è strettamente connessa ad un processo di globalizzazione
che possiamo semplificare in 3 fasi:
1) la prima epoca coloniale in cui l’America si connette con gli altri continenti in modo
stabile
2) dalla metà dell’800 fino alla Prima guerra mondiale con l’affermarsi contestuale
della Rivoluzione industriale
3) dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi
Potremmo definire la” globalizzazione”, in senso stretto, come il processo di
integrazione tra i mercati, per l’abbassamento delle barriere ai liberi movimenti di merci,
di capitali, di manodopera. L’integrazione ottocentesca tra le economie si tradusse in una
convergenza dei tenori di vita tra America e Europa.
Il termine “sglobalizzazione”, nel suo significato più ampio, indica un processo di
interconnessione non solo delle economie, ma anche di ambiti scientifici, culturali, sociali,
politici o religiosi, la quale conosce fasi di accelerazione, recessione o ristagno.
I prodotti europei (tessuti, armi, rum) erano scambiati in Africa, soprattutto con schiavi.
Le navi cariche di schiavi neri traversavano l’Atlantico e i sopravvissuti venivano scambiati
con denaro, zucchero o altri prodotti americani originando il “commercio triangolare”.
Oltre 1/3 della produzione americana di argento veniva assorbita dalla Cina in cambio di
prodotti pregiati destinato al consumo americano ed europeo.
Nel caso dell’America, questo processo di globalizzazione avvenne in modo forzoso,
attraverso una brutale conquista e sottomissione, cancellando usi, costumi, cultura e
religione locali per modellarle a quelle europee.
La domanda europea di prodotti del “Nuovo Mondo”(metalli preziosi, legname, zucchero,
tabacco pellame, pellicce) si accompagna a scambi, liberi o forzato, di persone.
Nel primo processo di globalizzazione possiamo distinguere diverse tipologie di flussi
migratori:
1) un flusso migratorio fu generato dalla domanda nei territori conquistati di
funzionari, militari, giuristi, religiosi che garantissero il funzionamento degli
immensi domini coloniali, dunque alla base vi erano motivi più politici più che
economici, e possiamo definirla migrazione di natura “terziaria” giacchè si
richiedevano
2) un altro flusso di natura prettamente economica, formata da un ceto mercantile
vivace: tecnici specializzati nell’estrazione mineraria, nella metallurgia, nella
marineria e costruzione di infrastrutture
3) un terzo flusso, di dimensione importante, fu quello degli schiavi africani molto
richiesti nelle piantagioni di canna da zucchero, per le quali la popolazione indigena
era inadatta e indisponibile. L’afflusso di schiavi raggiungerà il suo apice nel 18
secolo.

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Un importante movimento migratorio, sia pure di portata minore, fu quello che nel 600
partì dalle isole britanniche verso le colonie nordamericane. Il flusso più importante verso
la Virginia e il Maryland legato alle piantagioni di tabacco, prodotto molto richiesto in
Europa. Per lavorare in queste piantagioni gli indiani erano pochi e inadatti, per cui
sopperirono i migranti indentured, servi che sotto un contratto della durata di 4/5
anni, “vendevano” il loro lavoro a intermediari (spesso i capitani delle navi che li
conducevano in America), i quali poi lo “rivendevano” ai proprietari terrieri all’arrivo.
Insomma, una forma di schiavitù “a termine” (sistema abolito nel 1920).
A fine contratto, spesso veniva assegnata al servo liberato un pezzo di terra. Presto, i
migranti indentured furono sostituiti dagli schiavi africani che lavoravano per la corona
inglese nelle isole dei Caraibi. Lo stabile collegamento tra i continenti
portò alla “migrazione circolare”, cioè che prevedeva il rientro nella terra di partenza,
per un numero esiguo di persone che, tuttavia, resero saldi i legami intercontinentali.
Dalla seconda metà dell’800 fino al 1920, si accelerarono i processi di integrazione
economica tra paesi e le esportazioni crebbero ovunque a un ritmo superiore alla
produzione. Buona parte degli investimenti fu diretta alla costruzione di reti ferroviarie che
si quintuplicarono tra fine 800 e inizi 900 attirando masse di lavoratori immigrati.
Risulta alla fine evidente che la migrazione fu parte integrante del processo di
globalizzazione.
La composizione etnico-sociale dell’America era composta per 4/5 da europei, 1/5 da
africani e una minima componente autoctona. Con la migrazione ottocentesca la quota di
africani fu ridimensionata fortemente e nel censimento del 1930 1/3 della popolazione era
bianca tra nati fuori e nati dentro gli Stati Uniti da coppie miste o stranieri, soprattutto di
origine britannica, germanica, seguita da quella italiana, polacca, russa. Presenti anche
numerose comunità cinesi e giapponesi.
Due aspetti importanti del fenomeno migratorio tra i due continenti Europa-America sono:
1) di carattere macro il primo: i cicli della crescita demografica europea che si
traducono in analoghi cicli del flusso migratorio oltreoceano: la migrazione
“alleggerisce” la pressione demografica sul mercato del lavoro, e viceversa
2) di carattere congiunturale la seconda: le oscillazioni dell’economia americana, dopo
la Guerra di secessione, si traducono in oscillazioni inverse dell’emigrazione
europea
Questa seconda globalizzazione caratterizzata da una migrazione di massa creò una
convergenza economica tra i paesi coinvolti, del tenore di vita tra paesi di provenienza e
paesi di destinazione dei migranti.
Le due guerre mondiali segnarono fratture profonde e traumatiche, difficilmente sanabili
dal punto di vista politico. Sotto il profilo economico, le economie dei paesi alzarono
barriere agli scambi e anche alle migrazioni e la grande depressione ridusse la richiesta di
manodopera straniera. I processi di internazionalizzazioni hanno ripreso il loro corso nel
dopoguerra, tra il 1960 e il 2010 con l’incremento delle esportazioni di beni e servizi.
In questa fase si assiste ad una divaricazione delle forze politiche: ci fu, da una parte, una
riduzione dei controlli e delle barriere doganali per i flussi finanziari, di beni e servizi e la
creazione di un’organizzazione sovranazionale regolatrice: la OMC (Organizzazione
Mondiale del Commercio); dall’altra parte, ci furono forti controlli sugli scambi
migratori, con la tendenza a ulteriori restrizioni.
15
Ci fu il tentativo da parte di Canada, Stati Uniti e Messico di favorire l’integrazione e il
libero scambio con il trattato NAFTA del 1994, con cui si mettevano in comune le
risorse di materie prime, capitali e conoscenze dei due paesi del nord con l’abbondante
forza-lavoro di quello del sud, ma questo incisero poco sui movimenti migratori,
soprattutto dopo le restrizioni che seguirono gli attentati dell’11 settembre 2001.
Un aspetto interessante dell’internazionalizzazione è il cambio registrato nella componente
del mercato del lavoro. Dopo il declino dell’agricoltura, poi dell’attività manifatturiera e
l’espansione del settore terziario, nonché la segmentazione del mercato del lavoro, vi è
stata una specializzazione dei flussi internazionali. Ad esempio, negli Stati Uniti, nel 2009,
gli occupati non nativi erano più concentrati nelle attività manifatturiere, agricoltura,
costruzione, meno presente nelle attività di management, educative.
In generale, i paesi più ricchi tendono ad accaparrarsi immigrati con alte competenze e
capacità innovative.
In conclusione, l’America che nel 1600 era numericamente insignificante, oggi sfiora i 350
milioni di abitanti, e potrebbe arrivare a mezzo miliardo prima della fine del secolo.

Cap 8: TORMENTATO PRESENTE, INCERTO FUTURO 2010-2050


Gli stati considerano oggi l’immigrazione come un fenomeno da controllare, se proprio
necessario, da accettare, ma di certo non da lasciare alle forze del mercato, della
demografia e delle scelte individuali.
L’autore prende in considerazione 3 aspetti fondamentali della mobilità di questo secolo:
1) - il confronto del ruolo delle migrazioni nel processo di globalizzazione in due fasi
storiche distinte: la globalizzazione ottocentesca (1870-1913) e la grande globalizzazione
(1950-2000)
2) – la situazione del continente europeo sotto il profilo demografico e sociale per
comprendere se sia tale da giustificare il proseguimento di grandi flussi d’immigrazione
3) – la filosofia alla base delle politiche d’immigrazione
Per quanto concerne il primo punto, la globalizzazione ottocentesca portò ad un
incremento delle esportazioni che passarono da 8,8 a 14% del PIL e avvenne perché
l’Europa, ricca di forza-lavoro e povera di terra, migrava verso l’America, ricca di terra e
povera di manodopera. In questo periodo storico, il processo di internazionalizzazione
dell’economia mondiale avvenne secondo le 3 direttrici classiche: mobilità di capitali, di
merci e di manodopera. Mentre le disuguaglianze tra i due paesi, di provenienza e di
destinazione del migrante, si riducevano, non avvenne, almeno inizialmente, la stessa cosa
all’interno dei paesi d’immigrazione. In America del nord, italiani, irlandesi e migranti
provenienti dall’Europa sud-orientale furono categorie socialmente escluse poste al livello
più basso della gerarchia sociale, condizione poi via via migliorata già a partire dalla
seconda generazione.
Alla luce di ciò, si può affermare che le grandi migrazioni sono uno strumento efficace per
combattere la povertà di massa e ridurre ilo divario del tenore di vita dei paesi coinvolti.
I migranti furono i protagonisti dello sviluppo economico di questi paesi in cui
l’immigrazione era ben accolta dal punto di vista sociale e istituzionale, anche se non
mancarono discriminazioni, in un tempo in cui esisteva la schiavitù.

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La grande globalizzazione ha fatto crescere il rapporto tra esportazioni e PIL dal 9 al
36% investendo 5 continenti con una popolazione europea più che raddoppiata tra il 1960
e il 2000. Essa ha visto anche il contributo di migranti “non occidentali” e maggiori
barriere alla mobilità migratoria. Quella attuale è una globalizzazione più basata su merci e
capitali, che su risorse umane e, a differenza di quella ottocentesca, ha gradualmente
ampliato il divario tra mondo ricco e mondo povero, cioè tra paesi occidentali e il resto del
mondo.
La propensione alla migrazione non è un meccanismo automatico in questi casi, ma è
determinata dall’analisi costi/benefici. Ad esempio, paesi molto poveri, come quelli
subsahariani, hanno scarsa propensione ad emigrare, in quanto essendo paesi esclusi dal
processo di globalizzazione, il “costo” d’entrata sarebbe troppo elevato (affrontare il costo
della spostamento, elevare il grado d’istruzione, ricerca del primo insediamento, ecc).
In uno stadio successivo, quando si raggiungono moderati livelli di benessere, il costo per
l’abbandono del proprio paese cresce e decresce la propensione ad emigrare.
Questo spiega, in parte, perché si sono esauriti i flussi migratori verso occidente dei paesi
dell’ex URSS.
Come fronteggiare, allora, la mancanza di risorse umane in Europa, considerando le
tendenze demografiche dell’ultima metà di secolo? (punto 2)
Prendiamo in considerazione due modelli di società: chiusa e aperta.
Nel modello di società chiusa sono ben consolidate le tradizioni per cui si tende a
valorizzare al massimo le proprie risorse per accrescere la produttività attraverso politiche
sociali che favoriscano la natalità. In tale modello è chiaro che l’immigrazione ha un ruolo
marginale ininfluente sul tessuto sociale.
Nel modello di società aperta si investe molto nell’integrazione dell’immigrato cercando di
sfruttare al massimo l’opportunità che l’immigrazione può rappresentare.
Nella fase storica attuale il paradigma della società chiusa è condiviso dall’opinione
pubblica e dalla politica, ma i paesi europei, in realtà, avrebbero bisogno di una società
“chiusa, ma non troppo”, cioè una soluzione che oscilli trai due modelli.
Secondo alcuni, non servirebbe sostenere i flussi di immigrazione poiché esiste una forza
lavoro “di riserva” che può essere recuperata dal sistema produttivo; inoltre, la
manodopera a basso costo proveniente dai paesi non europei permetterebbe di portare
avanti attività che andrebbero ristrutturate o ridimensionate; infine, con adeguate riforme
si potrebbe allungare l’età pensionabile e favorire una maggiore partecipazione delle donne
nel mondo del lavoro. Tuttavia, la demografia europea è tale da contraddire tale opinione.
E’ impensabile che una forza lavoro così composta possa sostenere la concorrenza di
sistemi economici più giovani e dinamici; l’aumento della popolazione anziana determina
un forte aumento della domanda di servizi personali che è poco attraente per la
manodopera nazionale (esempio cura degli anziani). Inoltre, la crescita dell’attività
femminile nel mondo del lavoro è in conflitto con la crescita della natalità e deve fare i
conti anche con i limiti del welfare sociale.
Come già detto, le ricche società europee ricercano lavorati con alti livelli di preparazione,
nel capo dell’informatica, della salute, della tecnologia che può essere soddisfatta dalla
popolazione autoctona. I lavori meno qualificati, invece, dipendono molto
dall’immigrazione perché non presi in considerazione dalla manodopera nazionale.

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Per quanto riguarda la filosofia dell’immigrazione (punto 3), possiamo individuare 4
principali vie d’accesso tramite cui ilo migrante giunge in Europa:
1. innanzitutto, per motivi di lavoro
2. per ricongiungimenti familiari o legami familiari con una persona residente
3. per via irregolare
4. come profughi richiedenti asilo politico
Oltre a queste 4 tipologie di accesso, ne esistono altre “incidentali”, come ad esempio gli
ingressi per motivo di studio, di cura o di culto. Se ci riflettiamo bene, tutti però ruotano
attorno al mercato del lavoro che è visto come chiave di lettura dell’intero sistema
migratorio da cui scaturisce l’equazione immigrazione-lavoro.
Ebbene oggi è necessario e auspicabile un cambio di filosofia che parti da politiche a
sostegno della natalità, politiche che migliorino l’azione del welfare sociale (rete di asili
nido, tempo pieno scolastico, servizi per anziani, ecc), sostituzione di attività ad alta
intensità di manodopera con attività ad alta intensità di capitale.
Bisogna entrare nell’ottica che l’immigrazione non è un fatto congiunturale, bensì
strutturale, per cui occorre passare dall’idea di immigrazione “protesi” all’idea di
immigrazione “trapianto”, nel senso che essa non è una protesi temporanea di una società
che stenta a muoversi, ma un trapianto permanente che mira al popolamento,
all’integrazione, alla cittadinanza. La storia degli ultimi decenni ci insegna che anche in
Europa gli immigrati alla lunga diventano parte essenziale del tessuto sociale.
Ma quali le difficoltà che si incontrano in questo cambio di filosofia?
- Innanzitutto, evitare che i processi di valutazione del capitale umano siano compromessi
da elementi discriminatori;
- accertare e valutare le qualità e le caratteristiche individuali del migrante, stabilendo
quali possono essere acquisite dopo, durante il percorso di inclusione;
- determinare il volume dei flussi secondo le necessità di lungo periodo.

Capitolo 9: IN CAMMINO, IN ORDINE


Nell’ultimo capitolo l’autore fa una riflessione su coloro che cercano di traversare il
Mediterraneo, su imbarcazioni di fortuna, che spesso perdono la vita in mare.
Nel XXI secolo appare ancora lunga la strada per fare ordine e dar dignità a una delle
prerogative fondamentali dell’individuo: quella di spostarsi nello spazio, senza ledere i
diritti altrui e senza ilo timore che vengano violati i propri.
Le dimensioni internazionali del fenomeno migratorio sono notevoli, ma non si ha una
conoscenza reale del numero di persone che varcano i confini di un paese.
Le Nazioni Unite valutano lo stock dei migranti internazionali sulla base dei censimenti
contando gli “stranieri”, ma è un indicatore perché non tiene conto dei migranti irregolari.
Lo stock migratorio è risultato aumentato dal 7 all’11,5% della popolazione totale nei paesi
più sviluppati, daal’1,7 all’1,8% in quelli più arretrati. Ma occorre considerare anche le
seconde generazioni di migranti, le quali spesso sono sprovviste di cittadinanza e vivono in
condizioni di grave segregazione.
Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD), gli
immigrati permanenti (escluso stagionali o arrivi temporanei) sono stati nel 2021 di oltre 5
milioni in 29 ricchi paesi in cui se ne calcolava 2,6 in uscita, dunque, un saldo migratorio
18
positivo. Si tratta di dati macro che danno l’idea delle dimensioni di massa del fenomeno
migratorio e del contributo significativo e strutturale che la componente migratoria ha sul
rinnovo delle società ricche, apporto probabilmente destinato a crescere nei prossimi
decenni. Dunque, la spinta alla mobilità internazionale è ancora viva e vigorosa.
Tuttavia, vengono alzate barriere – fisiche e normative – per regolare e ridurre i flussi
internazionali, soprattutto nei paesi più ricchi che, oltre a contingentare gli ingressi,
tendono anche a limitare i ricongiungimenti familiari. In questa tendenza restrittiva, si
inscrivono anche i criteri di ammissione per asilo politico e protezione umanitaria.
Tutto questo si traduce in un privilegiare le migrazioni temporanee e la cosiddetta
“migrazione circolare” che prevedono il ritorno in patria.
La giustificazione è quella di un doppio beneficio: minimizzare l’impatto sui servizi
assistenzialistici e d evitare che persone poco qualificate si integrino nel tessuto sociale
diventando residenti permanenti. In realtà, alla base vi è la percezione da parte
dell’opinione pubblica del fenomeno migratorio come minaccia dell’ordine della sicurezza
nazionale, paura che il lavoratore locale resti spiazzato, percezione acuita dalla crisi
economica e dalle azioni terroristiche che ci hanno resi meno tolleranti nei confronti degli
stranieri. A queste tendenze occorre aggiungere i conflitti d’interesse tra i paesi di partenza
e quelli di arrivo, e tra questi e i singoli migranti. I paesi di destinazione spesso lamentano
la mancanza di collaborazione dei paesi di partenza nel controllo delle migrazioni
irregolari e la loro indisponibilità a riaccogliere gli stranieri irregolari rimpatriati.
Non dimentichiamo che l’irregolarità è anche frutto di politiche migratorie inadeguate.
A pagarne il prezzo è il migrante che, perso nel labirinto della legislazione, è più esposto
allo sfruttamento (soprattutto se è irregolare) e perde la possibilità di valorizzare a pieno
l’opportunità attesa dalla sua decisione di spostarsi.
Possiamo citare i fallimenti delle convenzioni internazionali sui diritti dei migranti
ratificati da pochi paesi, perché troppo forti gli interessi in conflitto e il tema delle
migrazioni è rimasto quasi sempre ai margini delle agende dei governi.
L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile approvato nel 2015 trascura il tema delle
migrazioni inquadrandolo come una questione minore.
Nel 2018 è stato approvato il Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e
regolare con l’indicazione di 23 obiettivi, ma non è legalmente vincolante. Esso incoraggia
la cooperazione tra gli attori dei processi migratori. I primi a defilarsi sono stati gli Stati
Uniti, alimentando l’idea fuorviante che questo documento implica una sorta di
globalizzazione della migrazione che interferisce con la sovranità nazionale. Dunque,
appare ancora un’utopia la creazione di un’agenzia sovranazionale a cui cedere frazioni di
sovranità relative alle migrazioni.
In breve: forze globali spingono le migrazioni. I conflitti d’interesse si accrescono. Di
conseguenza, cresce la necessità di cooperazione tra gli attori coinvolti nei processi
migratori.

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