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PREMESSA
L’autore del testo, Massimo Livi Bacci, analizza il fenomeno della migrazione che
definisce “normale fisiologia” poiché spostarsi sul territorio è una “prerogativa” dell’essere
umano spinto dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, mostrando una
“capacità adattiva” del migrante (accomodation), che l’autore chiama anche fitness,
termine inglese che indica una combinazione di caratteristiche biologiche, psicologiche e
culturali che nelle varie epoche storiche è cambiata.
Le migrazioni sono sempre state lo strumento per cercare di migliorare le condizioni di vita
e, salvo che non siano spostamenti forzati, alla base della decisione di emigrare vi è sempre
un complesso bilancio costi/benefici e la valutazione del dislivello esistente tra opportunità
offerte dal paese di origine e quelle offerte dal paese di destinazione.
Un luogo comune da abbattere è quello secondo il quale nei paesi poveri è l’assenza di
sviluppo la causa dell’emigrazione per cui, sostenendo lo sviluppo, la pressione migratoria
si attenua. L’esperienza europea dell’800 dimostra che, in realtà, lo sviluppo economico
distrugge la stabilità e la continuità alla base delle relazioni sociali ed economiche delle
società agricole. I contadini, nel passaggio da una economia agricola ad una industriale,
vengono dislocati socialmente ed economicamente e si indebolisce il legame con la terra, la
comunità, le tradizioni. Alla lunga, si generano aspettative e condizioni favorevoli
all’emigrazione.
In epoca moderna le capacità di spostarsi si rafforzano, aumentano le risorse,
migliorano le tecniche e le infrastrutture. Si creano sistemi migratori interni ed
internazionali. Come conseguenza delle migrazioni internazionali, sono nate le “politiche
migratorie”, ossia l’intervento del governo finalizzato a pianificare, indirizzare e sostenere i
flussi migratori. Negli ultimi tempi le politiche migratorie si sono fatte più restrittive e
selettive: le migrazioni vengono percepite come il prezzo da pagare per il calo demografico,
la crisi dei mercati, come un’emergenza da risolvere, un pericolo incombente.
Gli Stati sono sempre più restii a cedere una parte della loro sovranità a organismi
internazionali che dovrebbero regolare e gestire questi fenomeni.
Dopo essere stata per millenni meta di immigrazione e di invasioni, nel 1500 l’Europa
diventa esportatrice di risorse umane e il ritmo di tali immigrazioni diventa travolgente
nello’800. E dopo la I Guerra mondiale, negli anni Venti, comincia una fase diversa in cui
l’Europa comincia gradualmente a diventare una terra di immigrazione, fenomeno
diventato poi del tutto evidente a partire dagli anni 60.
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Capitolo 1: L’ONDA DI AVANZAMENTO E LE MIGRAZIONI LENTE
La specie umana si sarebbe diffusa dall’Africa equatoriale, prima di sviluppare tecniche di
sopravvivenza che hanno permesso ad essa di insediarsi in altri continenti.
L’occupazione graduale del mondo fu il risultato di due forze congiunte:
- la prima, la capacità di riprodursi ed accrescersi demograficamente;
- la seconda, la capacità di spostarsi, cioè di migrare, affinando sempre di più capacità di
adattarsi alle mutevoli circostanze ambientali, naturali e climatiche.
Questa combinazione tra crescita demografica e spostamento avrebbe determinato un’
”onda di avanzamento” della popolazione, lenta ma continua, con una velocità
media di espansione pari a poco più di un chilometro all’anno.
La specie umana moderna si sarebbe diffusa dall’Africa all’Asia occidentale, all’Europa e
poi verso l’Asia orientale, raggiungendo nella fase finale l’America e l’Australia.
A partire dalla rivoluzione neolitica, le popolazioni umane abbandonarono l’economia
della raccolta dei frutti spontanei e della caccia per iniziare ad allevare il bestiame e a
coltivare la terra, determinando una prima espansione iniziata circa 5000 anni fa con una
direzione che andava dal Mediterraneo orientale alle isole britanniche.
Queste forme di migrazioni preistoriche avvenivano in territori vuoti o, comunque, con
scarsa densità di popolazione dove insediavano case e villaggi.
Nella storia degli ultimi duemila anni i migranti, invece, hanno dovuto misurarsi con le
popolazioni locali, imponendo o subendo modalità di convivenza, a seconda dei rapporti di
forza.
I processi migratori generano conflitti, ibridazioni di natura culturale, sociale e bio-
demografica. Naturalmente, tutto ciò è avvenuto con grande gradualità.
All’inizio della nostra era l’Europa geografica - quella compresa tra l’Atlantico e gli Urali,
tra Mare del Nord e Mar Mediterraneo – contava forse 30/40 milioni di abitanti con una
densità di popolazione pari a circa 1/20 esimo di quella attuale e con molti spazi vuoti o
spopolati, spazi poi fortemente ridotti alla vigilia della Rivoluzione industriale.
Molti movimenti migratori che hanno interessato l’Europa nel primo millennio della
nostra era hanno avuto modalità di invasione-occupazione, come avvenne con le
popolazioni germaniche che si diffusero in Europa approfittando del declino dell’Impero
romano.
Ci furono poi altri spostamenti di popolazione di minore portata da nord a sud come
conseguenza della Reconquista della penisola iberica, strappata agli arabi più per motivi
politico-militari che per fame di terra, o quella verso nord delle popolazioni scandinave che
toccarono aree climaticamente difficili, come i norvegesi che occuparono l’Islanda e, in
seguito, la Groenlandia o, ancora, quella verso sud in Russia da parte dei migranti che
cercavano una frontiera più stabile.
A partire dall’XI secolo fino al XIV secolo si sviluppò un grande movimento migratorio di
popolazioni tedesche verso est secondo 3 direttrici: quella meridionale lungo il corso del
Danubio, quella intermedia verso le pianure dell’Ungheria e quella a nord lungo il Mar
Baltico. Questo spostamento di popolazioni tedesche differiva come modalità dalle ondate
migratorie dei secoli precedenti, poiché non furono spostamenti spontanei, ma processi
intenzionalmente guidati da una vera e propria politica migratoria diretta da principi,
vescovi, ordini militari e cavallereschi che investirono grandi risorse. Dunque, non si
presenta come un fenomeno messo in atto dalla forte pressione dovuta alla crescita
demografica, ma piuttosto dall’abbondanza di terra e una buona organizzazione e
tecnologia dei coloni rispetto alle popolazioni autoctone.
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L’emigrazione verso oriente fu il maggiore, ma non l’unico grande processo di
colonizzazione medioevale. Sotto la spinta di questi movimenti il continente europeo
assunse una nuova struttura insediativa con lo sviluppo di casali, villaggi, castelli e città.
Si stima che nel 1200 la popolazione germanica si attestava intorno ai 6 milioni di abitanti.
Un’onda migratoria simile la ritroviamo anche in piena Rivoluzione industriale, nel corso
dell’800, quando si assiste al graduale popolamento del continente americano, oltre il
Mississippi fino alla costa del Pacifico, movimento che trovava giustificazione delle sue
ampie dimensioni nella maggiore disponibilità di terra e minor costo nel provvedere ai figli
da parte delle famiglie coltivatrici che proliferavano con una forza autopropulsiva dovuta
ad una alta natalità.
Quasi contemporaneamente si sviluppò l’insediamento di famiglie contadine nella Russia
asiatica, oltre gli Urali, soprattutto servi della gleba liberati.
Altre tracce di questa onda migratoria la troviamo in Cina nel popolamento della
Manciuria. Dapprima, l’immigrazione cinese fu vietata, poi ammessa, per intensificarsi
nell’800 al fine di contrastare la pressione russa. La popolazione tra metà 800, inizi 900 si
era moltiplicata per sei volte nel nord della Cina popolato e impoverito.
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Per gli africani, condotti in America e resi schiavi, la sorte fu anche peggiore con ricadute
negative in termini di sopravvivenza e natalità.
Nel 1500 l’America era al 100% india, tre secoli dopo predominavano europei e africani.
Possiamo affermare con sicurezza che le disparità grado di fitness, sono dovute non tanto
alle caratteristiche originarie dei paesi di emigrazione, quanto alle condizioni nei paesi di
arrivo (per intenderci, europei fitness 7, 2; per gli africani nel 1800 è pari allo 0,4).
Il caso canadese dei francesi immigrati nel Quebec nel 1600 mostra come i primi pionieri
ebbero una sopravvivenza migliore dei gruppi autoctoni, forse per la migliore
alimentazione, alla più solida costituzione fisica, ma anche perché erano più giovani ed
ebbero più figli, una maggiore fitness, dunque, che continuò anche nella generazioni
successive dei primi pionieri. A fronte della crescita demografica dei francesi che oggi in
Canada sono circa 7 milioni, si registrò il declino delle popolazioni indigene.
E’ ragionevole pensare, però, che l’effetto selezione fosse di natura transitoria e non
permanente, cioè che dipende dal migrante.
Nell’epoca contemporanea l’alta riproduttività non rappresenta un fattore di vantaggio solo
per la prima generazione di immigrati che conserva i modelli riproduttivi del proprio paese
d’origine. Nella società urbana ed industriale in cui gli immigrati si trovano a vivere i
modelli di riproduzione risultano più moderati e quindi già i migranti di seconda
generazione si adattano a questa fitness riproduttiva controllando le nascite.
Così, a lungo andare, la componente immigrata tende a crescere alla stessa velocità della
popolazione locale. Per fare un esempio, a inizi 900 le donne italiane che vivevano negli
Stati Uniti mettevano al mondo 1 figlio ogni 5 donne; oggi, 1 figlio ogni 25.
Questo significa che il vantaggio riproduttivo delle successive generazioni tende ad
azzerarsi.
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Diventa allora di estrema importanza scegliere i terreni da coltivare nelle zone più
favorevoli, distribuirli tra i coloni, sostenerli fino ai primi raccolti, dotandoli di sementi,
bestiame, attrezzi e materie prime. Alcune migrazioni organizzate, particolarmente
positive, determinarono un importante “effetto fondatore”, altre un disastro.
In epoca moderna, le monarchie assolute ricorsero con frequenza a migrazioni organizzate.
2 i fattori importanti che motivarono le scelte migratorie:
- Una di natura economica e interna consisteva nell’accrescere il valore di terre
incolte e spopolate
- Una di natura politico/strategica che mirava a rafforzare le aree di confine adiacenti
a stati ostili
Un esempio paradigmatico di successo fu il movimento migratorio tedesco promosso dalla
zarina Caterina II nel 1762.
Gli obiettivi erano 2: modernizzare l’arretrata agricoltura russa innestando contadini
capaci di utilizzare tecniche più moderne e creare una zona di cuscinetto tra le zone
popolate della Russia e le popolazioni semi-nomadi ad est del fiume Volga.
Per incentivare il movimento migratorio in Russia, la corona concedeva una serie di
benefici e privilegi, tra cui 32 ettari di terreno assegnati con decreto (80 acri), nonché
libertà religiosa, esenzione perpetua dal servizio militare e il rientro nella patria di origine.
Per le popolazioni tedesche, impoverite dalla guerra dei Sette anni, appena conclusa, le
condizioni erano allettanti, ma l’impatto fu deludente.
Tuttavia, l’insediamento prosperò sotto il profilo sociale e demografico e nel giro di 130
anni il nucleo iniziale si era moltiplicato per 16 volte con un raddoppio a ogni generazione,
dunque, con “effetto fondatore” dirompente.
Nel 1871 lo zar Alessandro II revocò il privilegio dell’esenzione del servizio militare e
qualche anno dopo iniziò un’emigrazione verso gli Stati Uniti che continuò fino al 1917.
Nel corso del 700 i tentativi di colonizzazione organizzati furono numerosi e d alcuni si
rivelarono un disastro.
La Maremma toscana, poco popolata, era stata devastata dalle truppe imperiali di Cosimo I
che voleva impadronirsi di Siena nel 1552. Qualche anno dopo egli aveva tentato un’opera
di popolamento di queste aree abbandonate che andavano bonificate, in cui si diffusero
febbri malariche, attraverso il trapianto di 200 famiglie lombarde.
Un altro progetto ambizioso destinato al fallimento fu quello di Francesco II, primo
granduca della Lorena, una regione della Francia orientale, che nel 1739 cercò di far
trasferire dei contadini lorenesi in Toscana, nella Maremma in cui c’era la malaria perché
necessitava di opere di bonifica. Nonostante i vantaggi offerti, questo insediamento non
ebbe successo per l’alta mortalità dovuta all’insalubrità delle zone scelte, l’abbandono da
parte dei coloni, pessime condizioni igieniche e abitazioni inadeguate.
Questi esempi ci mostrano come i criteri di scelta operati da una colonizzazione
organizzata possono portare a esiti contrastanti: al successo come nelle colonie del Volga o
al fallimento come in Maremma, pur a parità di privilegi concessi.
A fare la differenza la scelta delle terre in cui insediarsi, le libertà civili concesse ai migranti
e la competizione con le popolazioni locali.
La prima migrazione organizzata nel Nuovo Mondo avvenne a inizi 500, dopo la rimozione
di Colombo, quando 32 navi approdarono a Santo Domingo.
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La selezione dei passeggeri fu fatta male con poche donne e la maggior parte dei passeggeri
era interessata alla corsa all’oro che si rivelò un miraggio.
Un altro caso interessante è quello della diaspora ebraica avvenuta a partire dal VI secolo
quando il popolo ebreo fu disperso dopo la cacciata dalla ad opera dei babilonesi. Non
siamo nel campo delle migrazioni forzate. In questo caso, la forza propulsiva non era
dovuta alla ricerca di nuove aree di insediamento, bensì dalla fuga.
A inizi 900 le popolazioni ebraiche in Italia erano stimate intorno ai 43ooo, mentre quelle
nell’Europa orientale arrivano fino a 7,5 milioni di abitanti.
Questo differenziale di sviluppo trova la sua ragion d’essere nel fatto che in Italia le
comunità ebraiche vivevano in ghetti, in spazi ristretti con scarsa possibilità di muoversi e
scarsa crescita, mentre nelle vaste regioni orientali dell’Europa le norme sociali favorivano
un’alta natalità e coesione familiare.
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3) la terza è che a fine Settecento le innovazioni portate dalla rivoluzione industriale si
ripercuotono su una società in cui gli spostamenti fisici erano la normalità: l'Europa
si prepara alle migrazioni di massa del secolo successivo, cioè dell'Ottocento.
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Il secondo fenomeno riguardò le trasformazioni dell'economia all'inizio dell'Ottocento
quando avvenne la rivoluzione agricola che precedette quella industriale.
A inizio secolo, circa 3/4 della popolazione europea dipendeva dall'agricoltura e la gente
risiedeva nelle campagne vivendo secondo regole fortemente sedimentate nei secoli.
In queste popolazioni la produttività del lavoro cominciò a crescere per una molteplicità di
cause: dalla diminuzione dei tempi di riposo dei terreni a recupera, alla bonifica di nuove
terre, dall'adozione di nuove coltivazioni al miglioramento degli attrezzi, dalla selezione
delle sementi a quella del bestiame, fino all'introduzione delle macchine e alla diffusione di
nuove coltivazioni (trattore frangizolle, uso di concimi, macchine per mietitura e
trebbiatura).
L'epoca approssimata in cui Si delinea la rivoluzione agricola sarebbe l'inizio del Settecento
in Inghilterra e nella seconda metà del Settecento in Francia, Svizzera, Germania e
Danimarca, nel corso dell'Ottocento negli altri paesi, tra cui Russia, Spagna, Austria, Svezia
e Italia.
La doppia pressione esercitata dall'accelerazione della crescita demografica e dell'aumento
della produttività provocarono complesse conseguenze: una pressione negativa sui
salari reali, il frazionamento della proprietà e l’impoverimento dei piccoli proprietari, la
crescita delle famiglie senza terra.
Tutto ciò naturalmente fece crescere le spinte migratorie, ma emigrare dove? Altra terra da
coltivare non ce n'era.
Tuttavia, nello stesso periodo in Canada, Stati Uniti e Argentina le terre si erano espanse
per 100 milioni di ettari; i bassi costi di produzione e l'abbassamento dei costi di trasporto
marittimo portarono la caduta dei prezzi e delle derrate agricole e posero in crisi le
campagne europee. A partire dal 1870 non tutta la pressione si tramutò in emigrazione
fuori dall'Europa, poiché quote importanti di popolazione rurale vennero assorbite dal
processo di industrializzazione. Se circa i ¾ della forza lavoro europea erano impegnati
nell'agricoltura all'inizio dell’800, la quota si dimezzava a metà verso il 1850 e a 1/3 verso
l'inizio del 900. In sostanza, l'ammontare assoluto della forza lavoro agricola aveva
continuato ad aumentare fino al 1850 per poi stabilizzarsi e cominciare a declinare a inizio
nuovo secolo, quando il continente perse sempre più la sua fisionomia rurale le attività
manifatturiere, estrattive, di costruzione si svilupparono.
Il processo di urbanizzazione fu intenso: la popolazione delle 39 città europee che nel 1850
avevano più di 100.000 abitanti passò a 6 milioni nel 1800 e a ben 34 milioni nel 1910,
moltiplicandosi per quasi sei volte.
Man mano che si sviluppò l'industria e crebbe la domanda di lavoro nel settore
manifatturiero la pressione migratoria diminuì.
Tra fine Ottocento inizi Novecento si riscontra un rapporto inversamente proporzionale tra
sviluppo dell'industria ed emigrazione: quando il numero degli occupati dell'industria si
avvicina a quella degli occupati nell'agricoltura, gli emigranti transoceanici calano.
Durante gli ultimi decenni dell'800 in Gran Bretagna gli occupati nell’industria avevano
superato quelli occupati nell’agricoltura e la migrazione da tempo non si delineava più
come un fenomeno di massa.
Prima della Grande guerra gli occupati nell'industria avevano superato quelli in agricoltura
in Belgio, in Germania e Svizzera, paesi in cui l'emigrazione era cessata.
In altri paesi, come Olanda, Svezia e Norvegia, l'emigrazione si era già spenta per le
restrizioni poste dalla grande crisi. Nel frattempo, l'economia dell'Europa si connetteva
sempre più con quella degli altri continenti: l'Europa con risorse umane in eccedenza
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cominciò a trasferirle in massa oltreoceano lungo rotte antiche, favorita dalla navigazione a
vapore che agli inizi dell'Ottocento permetteva di percorrere in 5/6 settimane il percorso
da Liverpool a New York, e dall’abbassamento dei costi.
L’estendersi della rete ferroviaria, inoltre, rendeva possibile raggiungere rapidamente i
porti di imbarco. Anche le politiche abbatterono gradualmente le barriere alle migrazioni
in Europa e costruivano incentivi all'immigrazione in America.
In epoca coloniale, l'espatrio verso l'America era soggetta numerosi vincoli e interdizioni.
In Inghilterra e nei Paesi scandinavi si abolirono già negli anni 30. Altrove vennero
allentati più tardi. In Spagna per esempio divieti furono aboliti solo verso la fine del secolo.
Nei paesi di destinazione, invece, le politiche favorivano l'immigrazione negli Stati Uniti,
dove, nel 1862 fu emanato l'Homestead Act che concedeva terra senza oneri a
capifamiglia di almeno 21 anni intenzionate a coltivarla e che fossero cittadini degli Stati
Uniti o che avessero fatto richiesta di diventarlo.
In Argentina, nella seconda metà dell'800, furono costituiti speciali uffici per l'assistenza e
l'avvio al lavoro degli immigrati di cui si finanziavano i trasferimenti interni e si ospitavano
gratuitamente i migranti per i giorni successivi all'arrivo.
Sempre nella seconda metà dell'800 il Brasile finanziava il viaggio degli immigrati
transatlantici e in seguito favorì l'acquisizione di terre in zone già designate.
Sono 3 le forze che spiegano come le migrazioni europee nel corso dell'800 accelerino il
passo:
1 la crescita demografica
2 la rivoluzione dell'agricoltura
3 l'internazionalizzazione del mondo
A partire dagli anni trenta dell'800 l’emigrazione europee assunse le caratteristiche di un
fenomeno di massa.
La valanga di emigrati con destinazioni transoceaniche partivano dalla Gran Bretagna,
Irlanda, Italia, Spagna, Portogallo, Germania, Polonia, Austria, Russia diretta verso Stati
Uniti, Canada, Argentina, Brasile, Cuba, Australia, Nuova Zelanda, per citare solo alcune
destinazioni rilevanti.
La Grande guerra e successivamente le restrizioni all'immigrazione posta in essere dagli
Stati Uniti, che era la principale meta dei flussi, ne ridussero fortemente le dimensioni.
La migrazione nordamericana, tripla di quella diretta verso il resto del continente, negli
ultimi due decenni dell'800 registrò un cambiamento di composizione: prima,
prevalevano origini britanniche, germaniche, scandinave, poi si passò a una prevalenza di
immigrati provenienti dai Paesi mediterranei, Italia in testa, e dal gruppo orientale
balcanico, una nuova migrazione questa sia dal punto di vista geografico che culturale.
I movimenti migratori dell’800 ebbero un notevole effetto demografico sulle popolazioni,
sia di partenza che gli arrivo; non solo per il trasferimento “netto” di persone, ma per gli
effetti di lungo termine che questo trasferimento comportava, poiché i migranti erano
mediamente giovani ed avevano alta fecondità.
Le migrazioni internazionali dalle campagne e verso le campagne, come fu in buona parte
quella della prima parte dell'800, richiedeva strutture familiari molto coese ed anche un
altro numero di figli, requisiti che se considerati nei paesi di origine causa di difficile
sopravvivenza per via anche delle scarse risorse, mentre nei paesi di arrivo erano fattori
funzionali perché qui la terra era abbondante e la forza lavoro numerosa rappresentava un
vantaggio.
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Invece, l'immigrazione dalle campagne verso le aree urbane e le regioni in via di
industrializzazione richiedeva un altro profilo. Vi si adattava meglio il lavoratore senza
legami o con legami allentati, perché era molto mobile, oppure quei nuclei familiari capaci
di pianificare le nascite o coloro che avevano conoscenze per sostenere la loro ascesa
sociale. Il rapido allineamento della natalità degli immigrati a quella dei nativi, quindi, può
interpretarsi come una capacità di adattamento.
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Capitolo 7
TRE GLOBALIZZAZIONI, LE MIGRAZIONI E L’AFFERMARSI
DELL’AMERICA
All’inizio del XXI secolo la struttura etnica e culturale dell’Europa rispecchia una profonda
trasformazione frutto anche di mezzo secolo di migrazioni. La componente nativa si era
fortemente ridotta fino a diventare una minoranza.
La turbolenta storia americana è strettamente connessa ad un processo di globalizzazione
che possiamo semplificare in 3 fasi:
1) la prima epoca coloniale in cui l’America si connette con gli altri continenti in modo
stabile
2) dalla metà dell’800 fino alla Prima guerra mondiale con l’affermarsi contestuale
della Rivoluzione industriale
3) dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi
Potremmo definire la” globalizzazione”, in senso stretto, come il processo di
integrazione tra i mercati, per l’abbassamento delle barriere ai liberi movimenti di merci,
di capitali, di manodopera. L’integrazione ottocentesca tra le economie si tradusse in una
convergenza dei tenori di vita tra America e Europa.
Il termine “sglobalizzazione”, nel suo significato più ampio, indica un processo di
interconnessione non solo delle economie, ma anche di ambiti scientifici, culturali, sociali,
politici o religiosi, la quale conosce fasi di accelerazione, recessione o ristagno.
I prodotti europei (tessuti, armi, rum) erano scambiati in Africa, soprattutto con schiavi.
Le navi cariche di schiavi neri traversavano l’Atlantico e i sopravvissuti venivano scambiati
con denaro, zucchero o altri prodotti americani originando il “commercio triangolare”.
Oltre 1/3 della produzione americana di argento veniva assorbita dalla Cina in cambio di
prodotti pregiati destinato al consumo americano ed europeo.
Nel caso dell’America, questo processo di globalizzazione avvenne in modo forzoso,
attraverso una brutale conquista e sottomissione, cancellando usi, costumi, cultura e
religione locali per modellarle a quelle europee.
La domanda europea di prodotti del “Nuovo Mondo”(metalli preziosi, legname, zucchero,
tabacco pellame, pellicce) si accompagna a scambi, liberi o forzato, di persone.
Nel primo processo di globalizzazione possiamo distinguere diverse tipologie di flussi
migratori:
1) un flusso migratorio fu generato dalla domanda nei territori conquistati di
funzionari, militari, giuristi, religiosi che garantissero il funzionamento degli
immensi domini coloniali, dunque alla base vi erano motivi più politici più che
economici, e possiamo definirla migrazione di natura “terziaria” giacchè si
richiedevano
2) un altro flusso di natura prettamente economica, formata da un ceto mercantile
vivace: tecnici specializzati nell’estrazione mineraria, nella metallurgia, nella
marineria e costruzione di infrastrutture
3) un terzo flusso, di dimensione importante, fu quello degli schiavi africani molto
richiesti nelle piantagioni di canna da zucchero, per le quali la popolazione indigena
era inadatta e indisponibile. L’afflusso di schiavi raggiungerà il suo apice nel 18
secolo.
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Un importante movimento migratorio, sia pure di portata minore, fu quello che nel 600
partì dalle isole britanniche verso le colonie nordamericane. Il flusso più importante verso
la Virginia e il Maryland legato alle piantagioni di tabacco, prodotto molto richiesto in
Europa. Per lavorare in queste piantagioni gli indiani erano pochi e inadatti, per cui
sopperirono i migranti indentured, servi che sotto un contratto della durata di 4/5
anni, “vendevano” il loro lavoro a intermediari (spesso i capitani delle navi che li
conducevano in America), i quali poi lo “rivendevano” ai proprietari terrieri all’arrivo.
Insomma, una forma di schiavitù “a termine” (sistema abolito nel 1920).
A fine contratto, spesso veniva assegnata al servo liberato un pezzo di terra. Presto, i
migranti indentured furono sostituiti dagli schiavi africani che lavoravano per la corona
inglese nelle isole dei Caraibi. Lo stabile collegamento tra i continenti
portò alla “migrazione circolare”, cioè che prevedeva il rientro nella terra di partenza,
per un numero esiguo di persone che, tuttavia, resero saldi i legami intercontinentali.
Dalla seconda metà dell’800 fino al 1920, si accelerarono i processi di integrazione
economica tra paesi e le esportazioni crebbero ovunque a un ritmo superiore alla
produzione. Buona parte degli investimenti fu diretta alla costruzione di reti ferroviarie che
si quintuplicarono tra fine 800 e inizi 900 attirando masse di lavoratori immigrati.
Risulta alla fine evidente che la migrazione fu parte integrante del processo di
globalizzazione.
La composizione etnico-sociale dell’America era composta per 4/5 da europei, 1/5 da
africani e una minima componente autoctona. Con la migrazione ottocentesca la quota di
africani fu ridimensionata fortemente e nel censimento del 1930 1/3 della popolazione era
bianca tra nati fuori e nati dentro gli Stati Uniti da coppie miste o stranieri, soprattutto di
origine britannica, germanica, seguita da quella italiana, polacca, russa. Presenti anche
numerose comunità cinesi e giapponesi.
Due aspetti importanti del fenomeno migratorio tra i due continenti Europa-America sono:
1) di carattere macro il primo: i cicli della crescita demografica europea che si
traducono in analoghi cicli del flusso migratorio oltreoceano: la migrazione
“alleggerisce” la pressione demografica sul mercato del lavoro, e viceversa
2) di carattere congiunturale la seconda: le oscillazioni dell’economia americana, dopo
la Guerra di secessione, si traducono in oscillazioni inverse dell’emigrazione
europea
Questa seconda globalizzazione caratterizzata da una migrazione di massa creò una
convergenza economica tra i paesi coinvolti, del tenore di vita tra paesi di provenienza e
paesi di destinazione dei migranti.
Le due guerre mondiali segnarono fratture profonde e traumatiche, difficilmente sanabili
dal punto di vista politico. Sotto il profilo economico, le economie dei paesi alzarono
barriere agli scambi e anche alle migrazioni e la grande depressione ridusse la richiesta di
manodopera straniera. I processi di internazionalizzazioni hanno ripreso il loro corso nel
dopoguerra, tra il 1960 e il 2010 con l’incremento delle esportazioni di beni e servizi.
In questa fase si assiste ad una divaricazione delle forze politiche: ci fu, da una parte, una
riduzione dei controlli e delle barriere doganali per i flussi finanziari, di beni e servizi e la
creazione di un’organizzazione sovranazionale regolatrice: la OMC (Organizzazione
Mondiale del Commercio); dall’altra parte, ci furono forti controlli sugli scambi
migratori, con la tendenza a ulteriori restrizioni.
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Ci fu il tentativo da parte di Canada, Stati Uniti e Messico di favorire l’integrazione e il
libero scambio con il trattato NAFTA del 1994, con cui si mettevano in comune le
risorse di materie prime, capitali e conoscenze dei due paesi del nord con l’abbondante
forza-lavoro di quello del sud, ma questo incisero poco sui movimenti migratori,
soprattutto dopo le restrizioni che seguirono gli attentati dell’11 settembre 2001.
Un aspetto interessante dell’internazionalizzazione è il cambio registrato nella componente
del mercato del lavoro. Dopo il declino dell’agricoltura, poi dell’attività manifatturiera e
l’espansione del settore terziario, nonché la segmentazione del mercato del lavoro, vi è
stata una specializzazione dei flussi internazionali. Ad esempio, negli Stati Uniti, nel 2009,
gli occupati non nativi erano più concentrati nelle attività manifatturiere, agricoltura,
costruzione, meno presente nelle attività di management, educative.
In generale, i paesi più ricchi tendono ad accaparrarsi immigrati con alte competenze e
capacità innovative.
In conclusione, l’America che nel 1600 era numericamente insignificante, oggi sfiora i 350
milioni di abitanti, e potrebbe arrivare a mezzo miliardo prima della fine del secolo.
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La grande globalizzazione ha fatto crescere il rapporto tra esportazioni e PIL dal 9 al
36% investendo 5 continenti con una popolazione europea più che raddoppiata tra il 1960
e il 2000. Essa ha visto anche il contributo di migranti “non occidentali” e maggiori
barriere alla mobilità migratoria. Quella attuale è una globalizzazione più basata su merci e
capitali, che su risorse umane e, a differenza di quella ottocentesca, ha gradualmente
ampliato il divario tra mondo ricco e mondo povero, cioè tra paesi occidentali e il resto del
mondo.
La propensione alla migrazione non è un meccanismo automatico in questi casi, ma è
determinata dall’analisi costi/benefici. Ad esempio, paesi molto poveri, come quelli
subsahariani, hanno scarsa propensione ad emigrare, in quanto essendo paesi esclusi dal
processo di globalizzazione, il “costo” d’entrata sarebbe troppo elevato (affrontare il costo
della spostamento, elevare il grado d’istruzione, ricerca del primo insediamento, ecc).
In uno stadio successivo, quando si raggiungono moderati livelli di benessere, il costo per
l’abbandono del proprio paese cresce e decresce la propensione ad emigrare.
Questo spiega, in parte, perché si sono esauriti i flussi migratori verso occidente dei paesi
dell’ex URSS.
Come fronteggiare, allora, la mancanza di risorse umane in Europa, considerando le
tendenze demografiche dell’ultima metà di secolo? (punto 2)
Prendiamo in considerazione due modelli di società: chiusa e aperta.
Nel modello di società chiusa sono ben consolidate le tradizioni per cui si tende a
valorizzare al massimo le proprie risorse per accrescere la produttività attraverso politiche
sociali che favoriscano la natalità. In tale modello è chiaro che l’immigrazione ha un ruolo
marginale ininfluente sul tessuto sociale.
Nel modello di società aperta si investe molto nell’integrazione dell’immigrato cercando di
sfruttare al massimo l’opportunità che l’immigrazione può rappresentare.
Nella fase storica attuale il paradigma della società chiusa è condiviso dall’opinione
pubblica e dalla politica, ma i paesi europei, in realtà, avrebbero bisogno di una società
“chiusa, ma non troppo”, cioè una soluzione che oscilli trai due modelli.
Secondo alcuni, non servirebbe sostenere i flussi di immigrazione poiché esiste una forza
lavoro “di riserva” che può essere recuperata dal sistema produttivo; inoltre, la
manodopera a basso costo proveniente dai paesi non europei permetterebbe di portare
avanti attività che andrebbero ristrutturate o ridimensionate; infine, con adeguate riforme
si potrebbe allungare l’età pensionabile e favorire una maggiore partecipazione delle donne
nel mondo del lavoro. Tuttavia, la demografia europea è tale da contraddire tale opinione.
E’ impensabile che una forza lavoro così composta possa sostenere la concorrenza di
sistemi economici più giovani e dinamici; l’aumento della popolazione anziana determina
un forte aumento della domanda di servizi personali che è poco attraente per la
manodopera nazionale (esempio cura degli anziani). Inoltre, la crescita dell’attività
femminile nel mondo del lavoro è in conflitto con la crescita della natalità e deve fare i
conti anche con i limiti del welfare sociale.
Come già detto, le ricche società europee ricercano lavorati con alti livelli di preparazione,
nel capo dell’informatica, della salute, della tecnologia che può essere soddisfatta dalla
popolazione autoctona. I lavori meno qualificati, invece, dipendono molto
dall’immigrazione perché non presi in considerazione dalla manodopera nazionale.
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Per quanto riguarda la filosofia dell’immigrazione (punto 3), possiamo individuare 4
principali vie d’accesso tramite cui ilo migrante giunge in Europa:
1. innanzitutto, per motivi di lavoro
2. per ricongiungimenti familiari o legami familiari con una persona residente
3. per via irregolare
4. come profughi richiedenti asilo politico
Oltre a queste 4 tipologie di accesso, ne esistono altre “incidentali”, come ad esempio gli
ingressi per motivo di studio, di cura o di culto. Se ci riflettiamo bene, tutti però ruotano
attorno al mercato del lavoro che è visto come chiave di lettura dell’intero sistema
migratorio da cui scaturisce l’equazione immigrazione-lavoro.
Ebbene oggi è necessario e auspicabile un cambio di filosofia che parti da politiche a
sostegno della natalità, politiche che migliorino l’azione del welfare sociale (rete di asili
nido, tempo pieno scolastico, servizi per anziani, ecc), sostituzione di attività ad alta
intensità di manodopera con attività ad alta intensità di capitale.
Bisogna entrare nell’ottica che l’immigrazione non è un fatto congiunturale, bensì
strutturale, per cui occorre passare dall’idea di immigrazione “protesi” all’idea di
immigrazione “trapianto”, nel senso che essa non è una protesi temporanea di una società
che stenta a muoversi, ma un trapianto permanente che mira al popolamento,
all’integrazione, alla cittadinanza. La storia degli ultimi decenni ci insegna che anche in
Europa gli immigrati alla lunga diventano parte essenziale del tessuto sociale.
Ma quali le difficoltà che si incontrano in questo cambio di filosofia?
- Innanzitutto, evitare che i processi di valutazione del capitale umano siano compromessi
da elementi discriminatori;
- accertare e valutare le qualità e le caratteristiche individuali del migrante, stabilendo
quali possono essere acquisite dopo, durante il percorso di inclusione;
- determinare il volume dei flussi secondo le necessità di lungo periodo.
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