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INTELLIGENZA VISIVA.

L’OCCHIO, LA PAROLA E IL
LINGUAGGIO DELLA MENTE

di Fabrizio Bracco
UNIVERSITÀ DI GENOVA

Apparso su Palomar, rubrica della rivista on line Ticonzero, SDA Bocconi


http://knowkedge.sdabocconi.it/ticonzero/index.asp

Immaginate di essere distesi al sole e di sentire il calore della sabbia sul vostro corpo. Immaginate
la sensazione sulla schiena, sulle braccia, sulle dita che sfiorano i granelli. Ora immaginate di
alzarvi in piedi e di sollevare il braccio teso all’altezza della spalla sostenendo una pesante borsa,
cercate di sentire la contrazione dei muscoli e la fatica crescente. Immaginate, infine, il viso di un
familiare, le sue espressioni, i suoi movimenti, proprio come se lo aveste davanti.
Tornate pure “coi piedi per terra”, l’esperimento è finito. Cosa è rimasto? Nulla, si direbbe, solo
fantasie. Eppure le neuroscienze ci dicono che durante quegli esercizi si sono attivate specifiche
aree cerebrali relative alla corteccia sensoriale e alla corteccia motoria. Quelle stesse aree che si
attiverebbero se fossimo davvero stimolati dal tepore della sabbia, dal viso del familiare o
compiendo lo sforzo di sollevare un peso. Ciò significa che solo immaginando un tipo di
stimolazione sensoriale o di attività motoria, si possono attivare quelle zone del cervello che
rispondono quando la stimolazione è davvero presente.

Questo fenomeno ha una serie notevole di ricadute pratiche e di aperture speculative. Proviamo a
intravederne alcune grazie al lavoro di Ian Robertson, docente di psicologia al Trinity College, di
Dublino, e impegnato anche a Cambridge, alla University College di Londra e in Canada.
Riconosciuto a livello mondiale nel campo delle neuroscienze, particolarmente attivo nella ricerca
sulla riabilitazione in seguito a lesioni cerebrali, ha pubblicato un volume sugli aspetti cognitivi
legati alle immagini e al linguaggio. L’autore ha presentato la traduzione italiana del libro
(Intelligenza visiva. Il sesto senso che abbiamo dimenticato, Rizzoli) nel corso del Festival della
Scienza, organizzato a Genova dal 23 ottobre al 3 novembre. La tesi principale del libro è che
spesso tendiamo a ragionare e a rappresentarci i fatti mediante una codificazione linguistica e ciò
potrebbe mortificare un altro tipo di rappresentazione che si basa essenzialmente sulla
visualizzazione (simile a ciò che abbiamo sperimentato all’inizio) e che ha un ampio potenziale a
fini della creatività, della gestione dello stress, della riabilitazione, della memoria,
dell’apprendimento e della concentrazione.

Il caso di Nadia

Per dimostrare come un forma linguistica del pensiero possa inibire certe facoltà, Robertson cita il
caso estremo dell’autismo, condizione in cui le capacità linguistiche sono virtualmente assenti, ma
in cui si dimostrano talenti eccezionali dal punto di vista della memoria o della rappresentazione
grafica. Qui sotto abbiamo due disegni che raffigurano un cavallo: quello di sinistra è opera di
Nadia, bambina autistica di tre anni e mezzo, quello di destra è un normale disegno di un bimbo di
quattro anni (illustrazioni tratte da Snyder & Thomas, 2002).

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Malgrado le sua abilità, Nadia si dimostrava disinteressata al contenuto del disegno, non si curava
nemmeno di collocarlo in una zona adeguata del foglio, cominciava da un punto e proseguiva,
talvolta oltrepassando i margini del foglio. Era anche in grado di interrompere il tratto in una parte
del disegno e di ricominciare altrove senza alterarne le proporzioni né la resa armonica finale. In
sostanza, Nadia non rappresentava la sua idea di cavallo, ma riproduceva quasi meccanicamente
tutti i particolari di ciò che vedeva o aveva in memoria. Torneremo più avanti su questo punto,
soprattutto sul fatto che Nadia ricordasse e riproducesse tutto, per articolare un’argomentazione sui
processi cognitivi legati alla consapevolezza e alla memoria.
Robertson ipotizza che le straordinarie abilità grafiche di Nadia fossero dovute all’assenza del
linguaggio, il quale agirebbe come un filtro e impedirebbe, nelle persone normali, di manifestare la
ricchezza espressiva di una rappresentazione visiva. A ulteriore conferma di tale ipotesi, Robertson
ricorda che Nadia ha perso progressivamente queste abilità artistiche proprio in coincidenza con
l’apprendimento del linguaggio, verso i sette anni, come se la modalità linguistica avesse
soppiantato quella puramente visiva e ne avesse compromesso le potenzialità espressive.

Due tipi di pensiero

Stando a queste ipotesi, potremmo concludere che esistono due grandi modalità di pensiero: una di
tipo analitico-verbale e l’altra di tipo visivo. Sempre stando alle ipotesi di Robertson, le due
modalità cognitive sarebbero inconciliabili, o quantomeno il predominio di una inibirebbe l’attività
dell’altra. Anzi, Robertson, nella sua conferenza genovese, si sbilancia a favore della modalità
visiva, indicandone le potenzialità purtroppo inespresse a causa della modalità linguistica che ci
viene rinforzata dall’istruzione e dalle consuetudini sociali.
A dire il vero, l’ipotesi di una doppia modalità non è originale e possiamo risalire a ricerche
condotte in ambito psicologico gia intorno agli anni ’60. Sperling (1960), nei suoi studi sulla
memoria sensoriale, mostrava ai soggetti una matrice 3x3 di nove lettere dell’alfabeto per soli 50
millisecondi, dopodiché chiedeva loro di nominare il maggior numero di lettere. Sperling notò che
gli errori più tipici consistevano nel nominare lettere che assomigliavano graficamente alla lettera
esatta (es. Y anziché X), o che avevano un suono simile (es. T anziché D). Ciò lascerebbe supporre
che alcuni soggetti adottavano una codifica dell’informazione secondo la modalità visiva (e
mostravano errori del primo tipo), mentre altri adottavano una codifica acustica, basata sul
linguaggio (mostrando errori del secondo tipo).

Uno dei contributi maggiori nello studio della codifica dell’informazione è stato quello di Paivio
(1971, 1986), il quale ha ipotizzato che si utilizzino principalmente due forme di codifica: una di
tipo verbale e una di tipo visivo. Una codifica verbale dell’informazione si affida a nomi o
descrizioni (es. “Marco”, oppure “mio cugino”, oppure “il figlio dei miei zii”, ecc.), mentre una
codifica visiva si basa su una rappresentazione iconica, sull’immagine relativa a quell’oggetto o
quell’evento. L’utilizzo di una codifica visiva o verbale varia da persona a persona, ma muta anche
in relazione al tipo di informazione da acquisire. Paivio (1971) ha calcolato il “valore d’immagine”
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(imagery value) di uno stimolo, verificando che si ricordano meglio le parole concrete rispetto a
quelle astratte, proprio perché sono più facilmente visualizzabili e ottengono una doppia codifica
(verbale e visiva). In effetti, sembra facile per chiunque associare alla parola “cane” l’immagine di
un cane, mentre sarebbe meno probabile codificare questa parola con l’etichetta verbale
“mammifero a quattro zampe” o “il migliore amico dell’uomo”. Ma che dire quando abbiamo a che
fare con parole come “efficacia”? in questo caso sembra più naturale una codifica verbale, poiché
non è facile trovare un’immagine che la rappresenti… con efficacia.
Esiste comunque la variabilità individuale e pare che vi siano persone che usano con una certa
assiduità l’uno o l’altro codice. Anche concetti astratti come “la proprietà commutativa” potrebbero
essere codificati in modo visivo. In base alla mia personale e ridotta esperienza, penso di potermi
iscrivere al “club dei visivi”, poiché ho sempre rappresentato la proprietà commutativa più o meno
così:

A + B = x

Se qualcuno avesse delle perplessità sull’efficacia di una tale codifica, non potrei dargli torto, visti i
miei scarsi successi nella matematica. Tuttavia, la tendenza a utilizzare una codifica visiva dipende
anche dalla circostanza, pur con lo stesso tipo di informazione. Ad esempio, un numero di telefono
è una sequenza di numeri, ma lo posso codificare in modalità verbale o visiva a seconda dell’uso
che ne faccio: il mio numero di telefono cellulare è codificato in modalità verbale (un po’ come una
filastrocca), perché sono abituato a ripeterlo verbalmente quando lo comunico a qualcuno, ma tutti
gli altri numeri che ricordo a memoria sono codificati visivamente, con il percorso che farebbe il
mio dito sulla tastiera del telefono. Non potrei ricordare visivamente il mio numero, perché non mi
chiamo mai, e non potrei ricordare verbalmente il numero di altri, perché sono abituato solo a
comporli attivamente sulla tastiera e non a comunicarli ad altri.

Robertson fornisce alcuni indizi per capire se siamo più “visivi” o “verbali”. Occorre riflettere se
tendiamo a usare immagini o descrizioni linguistiche per rappresentarci l’informazione. Ad
esempio, ricordate l’ultima volta che avete mangiato una pizza? La capitale della Germania?
Quanto è lunga la coda di un gatto rispetto al suo corpo? Il gatto è un mammifero? I gatti mangiano
i pesci? Alcune domande sono concrete, altre più astratte, in media potremmo usare immagini per
pensare alla coda del gatto, conoscenze verbali per rispondere sui loro gusti alimentari o sulla
geografia europea. Ma qualcuno potrebbe immaginare un gatto che guarda con cupidigia una
ampolla con un pesce rosso, o una cartina della Germania su cui collocare la capitale. Costui
sarebbe un “visivo”, utilizzerebbe abitualmente immagini mentali per risolvere problemi, non
avrebbe difficoltà a visualizzare immagini in movimento, saprebbe fare un’addizione immaginando
i numeri scritti su una lavagna.

Le due modalità di pensiero hanno diverse caratteristiche e diversi punti di forza. Il pensiero verbale
è utile per:
- analisi di tipo logico: ad esempio, comprendere la seguente affermazione “cane sta a
quadrupede come uccello sta a bipede”;
- processi di pensiero convergente: processo di pensiero in cui si restringono le alternative per
la soluzione di un problema;
- processi di pensiero astratto;
- ridurre gli effetti del pensiero magico e superstizioso: non si istituiscono relazioni causali
indebite tra eventi percettivamente prossimi ma logicamente indipendenti, ad esempio, se
starnutendo si spegne il televisore abbiamo l’impressione che ciò sia avvenuto per causa del

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nostro starnuto, ma sappiamo che è solo una coincidenza e che non ci sono relazioni tra i
due eventi;
- codificare ricordi affidabili, anche se meno vividi.

Per contro, il pensiero visivo si caratterizza per:


- favorire l’insight: processo di soluzione creativa dei problemi;
- processi di pensiero divergente: ossia processi in cui si attivano numerose alternative per la
soluzione di un problema;
- problemi di tipo spaziale: ad esempio, problemi di rotazione spaziale di un oggetto;
- attività creative;
- maggiore esposizione a forme di pensiero magico e superstizioso;
- codificare i ricordi in forma vivida ma meno affidabile.

Non è chiaro se le due modalità di pensiero possano convivere ed essere utilizzate


contemporaneamente (come nella teoria del doppio codice di Paivio) o se siano antitetiche e
mutuamente esclusive (come lascia supporre Robertson). Ciò che è chiaro, invece, è l’invito di
Robertson a utilizzare con maggior frequenza la modalità visiva, a sviluppare la cosiddetta
“intelligenza visiva”.

I punti di forza dell’intelligenza visiva

Pensare per immagini anziché con parole, questa è l’intelligenza visiva. Le immagini sarebbero più
potenti delle astratte parole e il solo pensiero eidetico (ossia basato sulla visualizzazione) sarebbe in
grado di attivare specifiche aree cerebrali. Sarebbe talmente efficace che la visualizzazione potrebbe
rivelarsi utile in compiti di concentrazione, di gestione dello stress, di riabilitazione fisica.
Robertson riferisce di ricerche in cui si è dimostrato un fatto sorprendente: i soggetti dovevano solo
pensare di eseguire un certo atto motorio semplice, come la flessione di un dito, per un periodo di
tempo abbastanza lungo, al termine del quale si è riscontrato un incremento delle fasce muscolari
relative a quella specifica azione. Questo non vuol dire che se penso di sollevare pesi divento un
culturista, ma che, entro certi limiti, la sola visualizzazione retroagisce sulle aree cerebrali e sul
corpo stesso. Come esempi ulteriori, Robertson cita la tecnica di Tiger Woods, il campione
mondiale di golf, il quale prima di colpire la pallina la vede mentalmente rotolare in buca. Oppure
racconta di atleti costretti a ricovero forzato per via di un incidente che hanno saputo “allenarsi”
mentalmente visualizzando gli esercizi che avrebbero fatto normalmente, tanto da arrivare pronti
alla gara, allo stesso livello dei compagni che si erano allenati sul campo.

Lo stesso potere di visualizzazione potrebbe essere impiegato per mettere in atto tecniche di
rilassamento o per combattere il dolore. Ma sarebbe utile anche in condizioni più quotidiane, come
la soluzione creativa di un problema o la memorizzazione. Ecco l’esempio proposto da Robertson:
siete prigionieri in una torre e avete a vostra disposizione una corda lunga esattamente la metà
dell’altezza della torre. C’è un modo per calarsi fino a terra, quale? Dividendo la corda in due
pezzi… Se applichiamo la divisione come d’abitudine, ossia tagliando la corda alla metà della sua
lunghezza, non risolviamo il problema. La soluzione sta nel dividere la corda nella sua sezione
ricavando due corde più sottili ma di uguale lunghezza. Questo è un classico esempio di insight¸
ossia di soluzione creativa.

Per quanto concerne la memorizzazione, il potere della visualizzazione è noto da secoli. Già i retori
dell’antica Roma sapevano che il modo migliore per ricordare l’arringa era visualizzare i punti
salienti del discorso collegandoli a immagini in sequenza. Questo è il cosiddetto metodo dei loci,
poiché colloca gli elementi da ricordare lungo un percorso mentale fatto di immagini. Ad esempio,

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per ricordare un elenco di parole come penna, bicchiere, speranza, uscita, opzione, ecc. basta
ripensare alla strada che facciamo ogni giorno per andare la lavoro e collegare, con una breve storia,
un oggetto abituale all’elemento da ricordare: esco di casa e trovo una penna accanto allo zerbino,
quindi prendo l’autobus, che è affollato e fa caldo, ho sete, vorrei un bicchiere d’acqua, ma non ho
speranza di dissetarmi, per fortuna, arrivato alla mia fermata mi avvicino all’uscita del bus, scendo
e mi dirigo verso l’ufficio dove ho l’opzione di prendere l’ascensore o di salire le scale...
Un altro metodo che si basa sulla visualizzazione è quello delle immagini interattive, in cui si crea
una storia con immagini che interagiscono tra loro e che comprendono gli elementi da ricordare
(esempio: la penna svolazzava spinta dal vento, finché cadde nel bicchiere vuoto, neanche il fisico
più geniale avrebbe avuto speranza di ripetere quella coincidenza di eventi, avrebbe accettato con
dispetto la sua impotenza e avrebbe imboccato l’uscita del laboratorio riflettendo sull’opzione di
abbandonare gli studi per l’eccessiva complessità della natura).
Un terzo metodo di memorizzazione che sfrutta il potere delle immagini è quello delle parole-
gancio, in cui si creano legami interattivi tra elementi noti già memorizzati (es. le parole di una
filastrocca) ed elementi da ricordare.
Il numero delle mnemotecniche è maggiore di quelle presentate, qui sono state elencate quelle che
si basano sulla visualizzazione e che si sono dimostrate più efficaci nel ricordo rispetto alle tecniche
basate sulla verbalizzazione (ad esempio: raggruppamento per categorie o creazione di acronimi)
(Roediger, 1980) e che ritroveremo più avanti in una sorprendente applicazione pratica.

Oltre l’intelligenza visiva

Dalla relazione di Robertson si possono trarre interessanti conclusioni, ma intendo proporre alcuni
motivi di cautela. L’autore contribuisce a rinforzare con evidenze empiriche di tipo neurologico la
distinzione tra una forma di pensiero di tipo linguistico e una di tipo visivo e convince sulla
possibilità che tali funzioni siano localizzate in aree diverse del cervello. Convince anche sulle
potenzialità della visualizzazione nell’affrontare problemi grandi e piccoli. In ultimo, ma di grande
importanza, ogni sua affermazione è fondata scientificamente e non promette miracoli, non si
atteggia a rivelatore di tecniche prodigiose. Tuttavia, nei prossimi paragrafi, come a stemperare
l’entusiasmo che potrebbe suscitare lo slogan della “intelligenza visiva”, intendo presentare un
esempio decisamente drammatico di “ipertrofia visiva” tratto dal film Il mnemonista di Paolo Rosa,
per concludere con una proposta di ideale cooperazione tra pensiero verbale e visivo, come
strumento più efficace di trasmissione e di rappresentazione della conoscenza.

Elogio dell’oblio: il mnemonista

Per una fortunata coincidenza, il programma dello splendido Festival della Scienza genovese
prevedeva anche la proiezione del film di Paolo Rosa Il mnemonista (2000), basato su una storia
vera raccontata dal neuropsicologo russo Aleksandr Lurija nell’opera Un piccolo libro di grande
memoria. È il racconto del signor “S”, primo violino di una grande orchestra, che smette di suonare
perché il re diesis assume un colore troppo fastidioso. “Avete idea di quanti re diesis si trovino in
una sinfonia?” Il signor “S” ha sempre avuto una memoria prodigiosa, ricorda tutto, ogni dettaglio
della sua vita, persino il momento della sua nascita, anzi, anche i battiti rassicuranti del cuore nel
grembo materno. Più che un dono, una condanna. Ricordare tutto significa vivere nel caos,
annullare le gerarchie, essere impotenti nei confronti delle infinite casualità del mondo, incapaci di
ordinare e creare senso, subire gli eventi e perpetuarli nel loro insensato accadere. Per questo
motivo il signor “S” si reca dal professor “L”, il quale osserva impotente e affascinato la
straordinaria capacità di memoria e registra su cartelle ogni particolare, lui sì, per non dimenticare.
La terapia non avrà successo, il signor “S” farà perdere le sue tracce e tenterà un improbabile

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carriera come fenomeno da baraccone, finché non cercherà l’annullamento, l’oblio, come a ottenere
una tranquillità, uno svuotamento della memoria e della mente.

Sono state fornite diverse spiegazioni a questo film, davvero bello. Alcune di tipo psicoanalitico (il
protagonista è chiuso in un circolo vizioso nel rapporto con la madre), altre di tipo sociologico (il
caos di ricordi del signor “S” evoca una società ipertecnologica dove tutto è registrato, senza
gerarchie, senza oblio selettivo). Proverò a condurre alcune riflessioni alla luce della relazione di
Robertson sull’intelligenza visiva, senza per questo volermi sostituire ai vari critici.
Il signor “S” ricordava tutto perché vedeva tutto. "Nella mia testa le parole si trasformano in
immagini. Sono talmente precise che mi confondono...".
Il caso del signor “S” è una forma di ipertrofia dell’intelligenza visiva: la codifica visiva di ogni
evento è talmente marcata che le immagini sono il filtro con il mondo, anche le parole, forma
verbale per eccellenza, sono codificate visivamente: "Quando leggo debbo fare in fretta per non
dare il tempo alle parole di trasformarsi tutte in immagini, perché le parole io le vedo…"
Egli descrive anche il suo processo di memorizzazione: "Io costruisco una storia e dentro questa
storia che vedo, colloco le cose che desidero tenere a mente. E' l'unico modo per ricordare. Guardi
che ricordare significa ricordare per sempre…". Questo processo ci ricorda una delle
mnemotecniche citate in precedenza. “S” fa anche un esempio, se deve ricordare una formula con
una radice quadrata e una lunga serie di variabili al suo interno, costruisce una storia di questo tipo:
“c’era un grande albero con radici robuste e profonde, vicino ad esso c’era una casa (la cui iniziale
sta per la variabile C nella formula)” e così via.
Il potere di visualizzazione del signor “S” è così forte che se immagina di tenere un oggetto caldo
nella mano destra e un oggetto freddo nella mano sinistra, le due mani sono davvero scottante l’una
e gelida l’altra. Quale miglior esempio di retroazione sul corpo per mezzo di una pura
visualizzazione!
Il signor “S” ricorda tutto, purché sia visibile nella sua mente. Se deve memorizzare un elenco di
sillabe senza senso si infastidisce, perché ogni sillaba è un movimento in un prato erboso e troppi
cambi di direzione sono monotoni e insensati; per ricordare deve avere il tempo di creare una storia,
di vedere una storia. Addirittura ricorda la Divina Commedia a memoria, ma la cosa sorprendente è
che non lega i versi mediante il significato delle parole, bensì ogni lettera di ogni parola è l’iniziale
di un oggetto su cui costruisce una storia. È un’esplosione combinatoria di informazioni che
fatichiamo solo a concepire.
Dimentica solo quando non vede: in un esperimento aveva collegato un elemento a una matita e
altri elementi a una staccionata; nella fase di ricordo, “S” dimenticò, ossia non vide, la matita
perché nella sua mente era posta di fronte alla staccionata e non risultava visibile in controluce. Voi
vedreste una matita nel disegno qui sotto?

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Il principio è lo stesso di quello che il vostro occhio adotta per vedere i contorni di un quadrato
all’interno del rettangolo di sinistra. Il quadrato è anche nel rettangolo di destra, ma i margini
coincidono con la tessitura dello sfondo e non emerge la figura.

Il pensiero di “S” è pura visione, e in quanto tale si basa sui principi fondamentali della percezione
visiva. Il rapporto figura-sfondo è probabilmente l’essenza stessa della percezione, vedere è sempre
ricavare un oggetto su uno sfondo, un elemento che si differenzia rispetto a un ambiente per
dimensioni, contrasto cromatico, movimento, discontinuità, ecc. Possiamo dire che il principio di
esistenza di un dato percettivo sia proprio la possibilità di differenziarsi rispetto a uno sfondo.
Le poche condizioni alla portata di tutti, in cui possiamo sperimentare l’assenza di figura su sfondo,
sono quelle in cui osserviamo un cielo senza nubi, o chiudiamo gli occhi, o siamo al buio completo,
o nella nebbia, sensazione in cui ci sentiamo immersi un biancore soffocante e cerchiamo ogni
sfumatura, ogni linea o ombra da cui il nostro occhio possa ricavare la minima informazione.
A livello sperimentale la condizione dell’assenza di figura su sfondo è stata definita come campo di
stimolazione omogenea (in tedesco, Ganzfeld), in cui i soggetti osservano il centro di una cupola
retroilluminata in modo omogeneo, e all’aumentare dell’illuminazione vedono emergere una
strutturazione figura-sfondo solo notando piccole irregolarità nella grana dello sfondo (Metzger,
1930).
E così accadde per “S”, che fin da piccolo osservava il muro irregolare e sullo sfondo bianco vedeva
emergere figure, da un buco vedeva uscire uno scarabeo, che si sollevava in volo. Non è un caso il
riferimento allo scarabeo, simbolo egizio della rinascita, della vita. Per “S” esiste solo ciò che
diventa figura su sfondo. E confessa di provare fastidio nel non riuscire a distinguere nettamente un
uovo su uno sfondo bianco, perché il colore del guscio è troppo simile allo sfondo e la figura non
emerge.
Questo rapporto figura-sfondo come principio di esistenza verrà capovolto al termine del film,
quando il protagonista, sfinito dall’affollamento di ricordi nella mente, cercherà il “nulla”, cercherà
l’oblio o comunque l’assenza di stimolazione. Per fare questo deve liberare il suo occhio da ogni
stimolazione, da ogni figura che emerga dallo sfondo: ecco che copre tutti gli oggetti in casa propria
con lenzuoli bianchi, nel vano tentativo di immergersi in un Ganzfeld indistinto che non dia
informazioni, non dia ricordi.

Nadia e il signor “S”

Abbiamo visto i due casi di Nadia e del signor “S”. Entrambi sono esempi per comprendere la
forma visiva del pensiero. Nadia è stata citata da Robertson in termini positivi, come esempio di
facoltà artistiche straordinarie non mediate dal linguaggio. Anche il signor “S” potrebbe essere
assunto a esempio di eccellenza, la sua memoria è così capace grazie a una forma tutta visiva del
pensiero. Ma se guardiamo il rovescio della medaglia vediamo anche gli aspetti negativi della
questione. Come dicevamo all’inizio descrivendo il caso di Nadia, la bimba sa disegnare in modo
quasi fotografico, riproduce tutto. Questo è il problema: non ha un approccio critico, non fa opera di
selezione, riproduce meccanicamente e fedelmente una serie di linee, di contorni, di superfici che
hanno colpito il suo occhio e si sono impressi nella sua mente. Come sottolineano anche Snyder e

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Thomas (2002), la bambina non interpreta il mondo, ne raccoglie immagini fedeli ma cristallizzate,
non crea ordine, non ha aspettative.
Allo stesso modo il signor “S” vede tutto e ricorda tutto, ma non sa creare categorie, gerarchie, ogni
dettaglio è importante tanto quanto eventi cruciali. Ecco la ragione per un elogio dell’oblio: senza
memoria non saremmo noi, ma una serie indistinta di attimi presenti, ma anche con troppa memoria
perderemmo identità, perché tutto farebbe parte di noi, saremmo un caos indifferenziato. L’oblio
selettivo ci permette di selezionare ciò che riteniamo importante da ciò che non lo è. Facciamo
un’operazione simile alla strutturazione figura-sfondo: estraiamo figure-significati da uno sfondo-
ambiente.

L’insostenibile ricchezza dell’ambiente

Il nostro ambiente è ricco di informazioni, di stimoli potenzialmente esperibili, ma non siamo in


grado di elaborare tutto, operiamo una selezione sulla base di alcune priorità che discriminano ciò
che è rilevante da ciò che non lo è. Le caratteristiche di uno stimolo in base alle quali si attribuisce
priorità sono numerose, andiamo da aspetti detti “bottom-up” (ossia dal basso verso l’alto, relativi a
caratteristiche fisiche dell’oggetto, come la sua luminosità, o il colore, o il movimento) fino ad
aspetti “top-down” (dall’alto verso il basso, relativi a processi cognitivi di alto livello, come le
intenzioni del soggetto, le sue aspettative, le sue emozioni, le sue esperienze). In altre parole,
quando guardiamo il mondo, ciò che entra a far parte della nostra esperienza cosciente supera la
soglia per via di fattori “oggettivi” legati alle caratteristiche fisiche dello stimolo, o fattori più
“soggettivi” dovuti alle predisposizioni dell’osservatore.
Facciamo il classico esempio del cocktail party: immaginate di essere a una festa e di essere
coinvolti in una conversazione con alcune persone. La stanza è affollata e il brusio è forte, voi
seguite il discorso dei vostri vicini e non sentite ciò che dicono gli altri, troppo confuse le parole,
troppo lontane. Se però qualcuno fa il vostro nome, immediatamente vi voltate. Il vostro nome
aveva le stesse caratteristiche fisiche (“bottom-up”) di tutte le altre parole, ma la sua importanza
“top-down” per voi è elevata, ecco perché l’avete distinto rispetto al resto indifferenziato di parole.
Lo stesso sarebbe accaduto se qualcuno avesse gridato un altro nome per voi insignificante, quello
stimolo avrebbe avuto alta priorità di tipo “bottom-up” e bassa di tipo “top-down”. Il bilanciamento
tra fattori di priorità fa sì che uno stimolo possa essere elaborato consciamente, possa entrare a far
parte della nostra esperienza e possa essere ricordato.
Non è questo il luogo per addentraci nella psicologia cognitiva, altrove (Bracco e Spinelli, inviato)
ho approfondito questo aspetto, definendo i vari fattori di priorità come aspetti di un macro-fattore:
il potenziale informativo, sulla cui base si costruisce una bozza dell’immagine (sketch) in cui
entrano solo quegli aspetti rilevanti. La bozza di cui parliamo è più simile al disegno di un bimbo di
tre anni, rispetto al disegno di Nadia. In quest’ultimo ci sono troppe informazioni, ogni elemento è
appiattito. Non c’è una caratteristica principale per definire “il cavallo”, mentre nel disegno
abbozzato dei bambini normali si trovano quattro zampe, la coda, il collo, in proporzioni che
assomigliano a quelle di un cavallo. Questi sono gli elementi necessari per rappresentare il cavallo
(anche se forse non sufficienti: il disegno potrebbe essere ambiguo, potrebbe rappresentare anche un
altro animale simile al cavallo).

Snyder e Thomas (2002) “have hypothesized that the brain has mental representations which
embody the salient or ecologically significant aspects of the environment. As an example, normal
preschool children draw rather schematic or symbolic representations, stripped of; shape from
shading, perspective from gradients of texture, size invariance with distance, etc. These sketches
convey highly imposed or internalised meanings. They, along with early linguistic skills, are
consistent with a mind that is conscious of the objects themselves and not the object characteristics
processed by the brain to formulate the label or symbolic identification. All of this fits neatly into a

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strategy for making rapid decisions, particularly when confronted with incomplete information.
Such strategies mitigate against naturalistic drawing. In contrast, autistic preschool children do not
appear to impose expectations on their world and consequently, to them, every detail is of equal
importance. Consequently, they are sometimes capable of curious skills such as drawing
naturalistically, but at the cost of being able to make rapid decisions.”

L’occhio e la parola in una sola mente

La posizione delineata da Robertson è assai convincente; l’unico aspetto su cui, credo, si possano
avere perplessità è la concezione dicotomica della mente: visiva o linguistica. Presenterò qui di
seguito alcuni argomenti a favore di un’integrazione dei due aspetti. L’ipotesi di una integrazione è
indirizzata verso una forma di comunicazione che sia il più possibile affine a come “davvero” il
nostro sistema cognitivo raccoglie, elabora e registra le informazioni. Se si riuscisse a configurare
un messaggio in modo che fosse già “digeribile” dalla mente di chi lo riceve, risparmieremmo al
destinatario un po’ di lavoro nel riorganizzare le informazioni.

La proposta del potenziale informativo formulata in Bracco e Spinelli (inviato) nasce da una serie di
riflessioni su un fenomeno che sta interessando da alcuni anni un settore delle scienze cognitive: la
cosiddetta change blindness (Rensink, 2002). Letteralmente, cecità al cambiamento, la change
blindness (CB) si riferisce all’incapacità che gli osservatori dimostrano nel cogliere cambiamenti in
una scena, anche molto evidenti, quando tra la versione originale e quella modificata si creano
temporanei effetti di disturbo (ad esempio, chiazze scure sull’immagine, breve interruzione
dell’immagine, ecc.). Per una trattazione completa del fenomeno si veda l’intero numero di Visual
Cognition, 2000, 7(1/2/3) e il sito della change detection database
(http://www.wjh.harvard.edu/~viscog/change/ dove è possibile vedere alcuni filmati del fenomeno).
Tutti possiamo farci un’idea della CB se pensiamo ai classici errori nel montaggio dei film, dove
solo un occhio attento vede che tra una inquadratura e l’altra ci sono particolari che cambiano, come
l’abito di un attore, o gli oggetti nella scena. Altro esempio è quello del gioco in cui si hanno due
vignette apparentemente identiche, l’una accanto all’altra, e la persona deve individuare le
differenze: come è noto, spesso non è facile notare gli elementi che sono cambiati (in questo caso,
l’elemento di disturbo tra la visione della prima e della seconda vignetta è il rapido movimento
degli occhi, detto saccade, tra le due scene, durante il quale il nostro sistema visivo non raccoglie
informazioni).
Se il signor “S” avesse fatto una prova sulla CB avrebbe sicuramente visto il cambiamento, poiché
la sua memoria visiva sarebbe stata in grado di fotografare ogni dettaglio e confrontare le due
versioni. Ma la norma è ben diversa, tanto da chiamare “cecità” questa nostra incapacità di notare i
cambiamenti. In numerosi studi teorici e sperimentali (Biederman, 1981; Rensink, 2000; Intraub,
1997; Itti, 2003) si cerca di fornire un modello per spiegare il fenomeno e si sostiene che il nostro
sistema visivo sia in grado di cogliere in pochi millisecondi informazioni sufficienti per creare
un’etichetta linguistico-simbolica dell’immagine (quello che viene chiamato gist, nocciolo di
significato) assieme a dati sulle distribuzione spaziale dei volumi (il cosiddetto layout).
L’integrazione dei due aspetti è proprio una sorta di bozza, quello che in Bracco e Spinelli (inviato)
abbiamo chiamato sketch. È questa bozza che contiene le informazioni più importanti della scena,
quella su cui si costituisce la traccia del ricordo. Come nel disegno dei bambini normali, un rapido
sguardo a una scena basta per costruire questa bozza, la quale comprende aspetti di tipo linguistico
e simbolico, oltre che elementi sulla distribuzione spaziale delle superfici. Se provochiamo un
cambiamento nella scena, la differenza sarà notata solo se si interviene su quelle proprietà che
definiscono lo sketch, altrimenti vi sarà cecità al cambiamento. Infatti, come dimostrano numerosi
esperimenti, se si mutano elementi primari nella scena (primari in senso semantico), si noterà il

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cambiamento, mentre se si mutano elementi di secondaria importanza le due scene continueranno a
sembrare uguali (Rensink, O’Regan e Clark, 1997; Kelley, Chun e Chua, 2002).
In conclusione, il fenomeno della CB ci porta a considerare l’esperienza conscia del nostro
ambiente come una integrazione tra aspetti linguistici e aspetti visivi, poiché la struttura del nostro
rapporto col mondo si basa su entrambi.

Passiamo dai laboratori di psicologia odierni alle chiese dell’Italia medievale. Qui troviamo alcune
fra le prime e più efficaci testimonianze di simbiosi tra immagine e parole a fini comunicativi.
Grazie allo splendido libro di Lina Bolzoni (2002), La rete delle immagini, possiamo entrare nel
complesso reticolo che immagini e predicazioni avevano creato nella cultura del tempo, dove chi
ascoltava i predicatori riceveva un messaggio non solo verbale, ma strutturato secondo la più fine
retorica e i dettami delle già citate mnemotecniche, in modo da far imprimere nella memoria i
concetti teologici più astratti. Grazie a immagini e parole, affreschi e codici miniati, predicazioni e
metafore, il pubblico che ascoltava inseriva i precetti morali all’interno di una rete di significati
fatta di immagini abituali, di esperienze comuni. Ecco che, ad esempio, la sapienza diventa una
torre e ogni suo aspetto viene collocato nella struttura dell’edificio, ogni colonna, capitello,
scalinata, finestra, è immagine di qualche virtù. L’ascoltatore poteva così memorizzare meglio la
predicazione visualizzando, proprio come invita a fare Robertson, una torre ed etichettando ogni
elemento architettonico con una breve descrizione che rinvia a un concetto. Naturalmente la
distribuzione non è casuale, ad esempio, le colonne reggono la struttura, e quindi saranno associate
a virtù che evocano stabilità e solidità. Infatti, una base della colonna è denominata “requies”,
quiete, il fusto è “fortitudo”, forza, il capitello è “stabilitas”, fermezza. Allo stesso modo i gradini
sono le sette tappe della confessione e della penitenza. Lo stesso dicasi per tutti gli altri elementi
rappresentati.
Un mirabile esempio è quello del cavaliere rappresentato in un codice duecentesco, dove si vede un
uomo a cavallo, affiancato da un angelo, che affronta una serie di esseri mostruosi. Questa
immagine è corredata di numerose scritte, poste in prossimità di alcuni oggetti salienti, come gli
speroni, la sella, la lancia, le redini, l’elmo. Ogni elemento è l’immagine di qualità virtuose che
deve possedere il cristiano-cavaliere. La cosa interessante è che nell’opera di Simone da Cascina,
predicatore del Trecento, vi sono metafore e immagini che si rifanno proprio a questa figura del
cavaliere. Il peccatore è un vagabondo che ha perso la strada, finché non trova il conforto della
Speranza: “Onde la speransa fatta alegra, e perché lo vede anco infermo e impotente, li dona un
cavallo che lo meni a la celestiale patria, e è lo desiderio. Questo cavallo è ornato di veste di
volontà monda, la sella è la compunsione, lo fieno è la divossione: in su quine saglia chi si
converte, e corra e speroni lo cavallo cone esempi di santi” (Citato in Bolzoni, 2002; pag. 60).
La Bolzoni coglie esattamente le potenzialità della simbiosi tra testo e immagini ai fini della
comunicazione efficace quando scrive che l’immagine del cavaliere “ci fa capire con
l’immediatezza della rappresentazione visiva, e cioè lo stretto legame che si può creare – nella
pittura come nel testo letterario – fra allegoria e immagine della memoria. Abbiamo già visto come
le iscrizioni trasformino ogni parte dell’immagine sensibile in immagine morale (l’elmo è la
speranza, il cavallo è la buona volontà, ecc.). nello stesso tempo l’insieme funzione da sistema
mnemonico: vi ritroviamo le tre componenti di base previste dalla tradizione, e cioè i loci, l’ordine,
entro cui sono disposti, e le imagines agentes, e cioè le immagini sensibili alle quali sono associati
dei ricordi. Nel cavaliere, infatti, l’ordine dei loci è quanto mai forte e compatto. I diversi loci,
segnati appunto dalle iscrizioni, sono come le tessere di un puzzle: c’è un unico modo di ricomporle,
c’è un’unica immagine entro cui tutte possono trovare collocazione. Attraverso le iscrizioni, inoltre,
i concetti astratti delle diverse virtù vengono collocati nei loci e associati a immagini sensibili.
Queste ultime (l’elmo, il cavallo, ecc.) diventeranno così non solo allegorie ma anche, secondo i
dettami dell’arte della memoria, imagines agentes, immagini che, al momento del bisogno, sono in
grado di restituire i ricordi che sono stati loro affidati. Conoscenza e ricordo dei vizi e delle virtù
vanno così di pari passo” (Bolzoni, 2002; pagg. 65-66).

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Questa straordinaria eredità culturale e iconografica dovrebbe fare parte del nostro modo di pensare
e comunicare l’informazione, eppure, a secoli di distanza dalle predicazioni di Simone da Cascina o
di Bernardino da Siena, riceviamo da oltreoceano indicazioni su come strutturare al meglio le
informazioni, con suggerimenti molto simili alle tecniche che qui si adottavano già nel Trecento.
Le pubblicazioni sul tema della cosiddetta information design sono numerosissime, ricordiamo solo
esempi come Tufte (1983, 1990, 1997), Horn (1998), Jacobson (1999), Ware (2000). In particolare
è interessante la proposta di Horn (1998) di basare la comunicazione sul linguaggio visivo, una
forma ibrida di comunicazione che utilizzi massicciamente le immagini, ma che ricorra anche a
brevi linee testuali per aiutare a chiarire il contesto. L’autore parla di Vlicon (Visual Language icon)
come “any relatively small picture or symbol combined with a textual label and used to identify a
thing of idea in visual language; an icon used with words.” (Horn, 1998; pag. 58).
Non mi pare che la proposta di Horn si discosti molto dalle intuizioni di chi, nel Medioevo,
dipingeva i codici come quello con il cavaliere. Anzi, se vogliamo, l’immagine del cavaliere è
persino meglio, perché presenta una serie di elementi con testo integrati in un’immagine coerente e
fortemente evocativa. L’immagine globale viene colta in poche frazioni di secondo, essa è ben nota
e richiama a un universo di significati, se poi l’osservatore dedica attenzione ai particolari vede le
scritte in prossimità delle parti e dà loro maggior valore simbolico, e non solo, le inserisce in una
sequenza che rispecchia la sequenza di analisi dell’immagine. In questo modo, per richiamare
concetti astratti basterà ripensare al cavaliere e alle sue parti, rievocando di volta in volta gli
attributi morali associati.
Con questo non voglio dire che gli studi sull’information design sono inutili, tutt’altro. Mi preme
solo ricordare che abbiamo nel nostro DNA culturale, nei nostri memi, direbbe Dawkins, una serie
di informazioni che anche oggi, nell’era della comunicazione, potrebbero rivelarsi preziose.
Le funzioni delle Vlicons proposte da Horn sono sulla stessa linea: cercano di attrarre l’attenzione
del lettore su aspetti particolari per facilitarne la comprensione e il ricordo, fondono le potenzialità
di immagine e parola che, se prese isolatamante, potrebbero essere ambigue o riduttive (Horn,
1999).

Con questi tre esempi (il concetto di sketch nella CB, le predicazioni medievali e le Vlicons) ho
inteso proporre alcuni argomenti a favore di una comunicazione integrata, che tragga i benefici di
immagini e parole combinate con cura.
L’informazione può essere codificata mediante una proposizione o mediante un’immagine, ritengo
che spesso una sola forma di codifica sia meno efficace che una forma combinata. Spesso si dice
che un’immagine vale più di mille parole, perché non basterebbe un libro per descrivere quanta
informazione arriva ai nostri occhi, e chi non ci crede si legga Proust o Virginia Woolf… Ma anche
una frase, senza immagini, può essere resa visivamente in infiniti modi (si pensi a quante
illustrazioni diverse esistono della Divina Commedia, o a quanti diverse interpretazioni filmiche o
teatrali si possono trarre da una stessa sceneggiatura). Usare immagini e parole insieme significa
quindi ridurre la molteplicità di significati a quelli desiderati. Se dico “I gatti sono ghiotti di pesce”
ognuno di voi penserà a un suo gatto e un suo pesce: abbiamo un’immagine per ogni lettore. Se vi
mostro l’immagine qui sotto, senza testo, ognuno ne darà una sua descrizione, ad esempio: “Il gatto
rosso guarda il pesce rosso”, “il gatto ha fame”, “il gatto vuole giocare”, fino a “sfatiamo i luoghi
comuni: un gatto e un pesce possono essere amici”.

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È solo dalla presentazione di immagini e parole che possiamo ridurre le ambiguità e aiutare chi
riceve le informazioni a fissare nella memoria i significati corretti.
Ben lo sapeva Cassiodoro (Istitutiones, II, 5) quando diceva che “il modo di imparare è in qualche
modo duplice”, perché la vista predispone l’osservatore verso ciò che imparerà per mezzo delle
parole.

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