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Pietro Spagnulo
GUIDA AL COUNSELING
I fondamenti tecnici della relazione d’aiuto
Pietro Spagnulo
Guida al counseling
ISBN 978-88-87795-40-0
Grafica e impaginazione
Federica Marano
Introduzione 7
6. L’analisi ABC 29
Gli antecedenti 30
L’evento problematico 30
Le conseguenze 31
Individuare i pensieri e le convinzioni 31
Individuare i pensieri automatici 32
Individuare le convinzioni 32
7. Lavorare in gruppo 34
Le famiglie ed i gruppi come sistemi 34
Stabilire degli obiettivi condivisi ed educare al Problem Solving 35
Favorire una comunicazione più costruttiva 35
Esprimere sentimenti positivi 36
Esprimere critiche costruttive 36
Esprimere richieste positive 37
Ascolto attivo 37
PASSO 2
ORIENTARSI ALLE RISORSE
8. Cosa sono le risorse 40
9. Problem Solving 42
13.Valutare i progressi 60
Appendice I 63
Bibliografia 66
3. Verificare
Il counseling è un percorso circolare. Se gli obiettivi vengono raggiunti, è raggiunto an-
che l’obiettivo del counseling. Ma se gli obiettivi non sono raggiunti bisogna essere capa-
ci di rimettere in discussione qualsiasi aspetto del proprio lavoro e di modificare ciò che
non funziona. Quando l’obiettivo non è raggiunto o è raggiunto solo in parte non è un
fallimento, ma un apprendimento. Inoltre, non è infrequente l’osservazione che il lavoro
di counseling possa modificare gli obiettivi iniziali. Anche in questo caso, non c’è alcun
fallimento, ma solo l’opportunità di chiarire che un certo obiettivo non era esattamente
ciò di cui il cliente aveva bisogno e che questo può essere modificato, e modificato anco-
ra, in una sorta di circolo virtuoso di costante perfezionamento del lavoro.
Le domande chiave sono:
Ci si sta avvicinando agli obiettivi?
Cosa sta funzionando e cosa deve essere invece modificato?
L’obiettivo iniziale è ancora valido? Come si è modificato?
INTERVENTO
VERIFICA
Fig. 1
I tre passi del counseling
Provate a pensare ad un momento della vostra vita in cui avete avuto un problema
che avete risolto con determinazione. Non fatelo distrattamente, ma con attenzione.
Mettetevi comodi. Chiudete gli occhi e tornate ai momenti in cui sentivate il problema
con tutto il suo peso, ai momenti in cui ne esploravate tutti gli aspetti e cercavate come
uscirne. Tornate ai momenti in cui avete escogitato delle soluzioni e le avete seguite con
determinazione. E tornate ai momenti in cui avete capito di avercela fatta.
Cosa guidava il vostro comportamento?
Molto probabilmente avevate davanti agli occhi un obiettivo da raggiungere. Molto
probabilmente questo obiettivo, pur se ambizioso, era realistico e concreto. Molto pro-
babilmente avete pianificato delle azioni e le avete messe in pratica, verificandone costan-
temente gli effetti, e confrontandoli costantemente con ciò che volevate raggiungere.
Questa è una condizione mentale preziosa ed ideale per affrontare e risolvere i pro-
blemi.
Al contrario, quando ci si sente sopraffatti da un problema (sebbene questo sia obiet-
tivamente risolvibile o mitigabile) la situazione è diversa. Ci si sente in trappola, impo-
tenti, senza via di uscita, e tutta l’attenzione è concentrata sul disagio che questo proble-
ma suscita. E a sua volta il disagio determina una visione del problema ancora più tetra
e negativa. Ostacoli e limiti vengono enfatizzati ed esagerati.
Il primo e principale compito del counselor è di aiutare le persone ad uscire da que-
sto stato negativo, favorendo invece l’accesso ad uno stato positivo di identificazione
di obiettivi realistici e di determinazione a raggiungerli. In questo modo i termini del
problema diventano più chiari e le azioni vengono guidate da progetti che mirino a rag-
giungere l’obiettivo o le sue tappe intermedie.
Contrariamente a quanto si può credere, uno stato mentale positivo non dipende da
uno sforzo di volontà, ma da una corretta impostazione dei termini di un problema. Se il
problema viene visto e sentito nei termini giusti, la determinazione segue a ruota.
Ma cosa vuol dire impostare un problema nei termini giusti?
Un problema si crea quando vogliamo raggiungere una condizione diversa da quella
che viviamo, ma ci sono degli ostacoli che non ci consentono di farlo. E dunque siamo
costretti ad escogitare delle soluzioni per rimuovere o aggirare gli ostacoli. Pertanto,
l’atteggiamento più costruttivo consiste nell’identificare gli obiettivi e gli ostacoli e nella
ricerca delle soluzioni possibili.
Invece, rimanere a contemplare il disagio o il malessere che il problema determina,
oppure cercare di risolvere il malessere senza toccare il problema, non ha alcuna utilità
rispetto alla possibilità di trovare delle soluzioni.
Dunque, il problema non è il disagio.
Un problema è definito dagli obiettivi e dagli ostacoli che si frappongono al loro rag-
giungimento.
I problemi emotivi
Ma cosa accade quando non sembrano esserci evidenti problemi pratici, organizzativi,
interpersonali e istituzionali che giustifichino uno stato di intenso disagio? Cosa accade
e cosa bisogna fare quando depressione, ansia, preoccupazioni, pensieri intrusivi, com-
portamenti inadeguati sembrano caricati da una tale intensità e pervasività da non essere
giustificati in tale misura dai fatti, dalle situazioni o da difficoltà reali?
Stiamo parlando di problemi emotivi.
In questi casi il problema non è determinato esclusivamente da eventuali fatti, eventi
o difficoltà della vita, ma soprattutto da uno stato mentale in cui prevalgono dei pensieri
“tossici” (di inadeguatezza, di colpa, di paura, di fragilità, o di impotenza) accompagnati
dai relativi affetti negativi (paura, rabbia, depressione, etc.).
Il compito del counselor, ancora una volta, è di aiutare i clienti ad identificare i termi-
ni del problema, con una sola importante differenza. Se nel primo tipo di problema, vi
sono delle condizioni oggettive che devono essere modificate, in questo caso il problema
non è nei fatti, ma nella interpretazione inadeguata dei fatti.
Ciò vuol dire che gli ostacoli non sono reali, ma emotivi. In altri termini, ciò che osta-
cola il raggiungimento di obiettivi personali non sono eventi o circostanze, ma convin-
zioni inadeguate ed emozioni negative che disturbano fortemente una lucida valutazione
dei fatti interferendo pesantemente con la ricerca di soluzioni.
Tanto per fare un esempio, la fobia sociale (paura di esporsi in pubblico o del giudizio
di persone estranee) per un giovane in cerca di lavoro può costituire un ostacolo invali-
dante, in quanto potrebbe impedire di affrontare serenamente dei colloqui di valutazio-
ne. In questo caso è evidente che non c’è alcun significativo problema oggettivo, ma solo
una interpretazione distorta delle situazioni che vengono interpretate come pericolose e
suscitano paura.
Dunque, ancora una volta, rivolgere l’attenzione solo al disagio (che anche in questo
caso si identifica con il malessere provocato dalla presenza del problema) non aiuta a
superarlo. Nell’esempio precedente, il giovane che soffre di fobia sociale può sentirsi una
persona inadeguata o un incapace a causa di questo problema e queste idee tossiche non
aiutano certo a superare il problema.
Ancora una volta bisogna andare alle radici del problema: quali sono i bisogni e gli
obiettivi della persona? Cosa vuole raggiungere? E dunque cosa gli impedisce di farlo,
specificamente?
Dunque, ancora una volta, è essenziale identificare obiettivi ed ostacoli, tenendo con-
to che questi ultimi possono essere rappresentati da uno specifico insieme di idee e rea-
zioni emotive inadeguate che si manifestano quando la persona prova ad affrontare la
situazione desiderata (e temuta).
Per stabilire obiettivi validi è importante rispettare alcune condizioni. Si tratta di quel che
si dice nel gergo degli psicologi “obiettivi ben formati”. Si tratta cioè di obiettivi formu-
lati in modo da mettere a nudo gli ostacoli e favorire la ricerca di soluzioni.
Nei prossimi paragrafi ci dedicheremo agli strumenti tecnici essenziali per stabilire
degli obiettivi ben formati ed identificare gli ostacoli.
1. Obiettivi positivi
Per stabilire degli obiettivi ed abbandonare il terreno delle semplice espressione del disa-
gio, non bisogna lasciarsi confondere da alcuni falsi obiettivi che qui chiameremo obiet-
tivi avversivi. Si tratta dell’espressione degli obiettivi in termini di ciò che NON si vuole.
È il caso, ad esempio, di espressioni come “non voglio essere trattato così”, “non voglio
comportarmi più in questo modo”, “non voglio sentirmi così”, “non voglio essere così”.
Si tratta ancora una volta di espressione del disagio mascherata da obiettivo. Infatti,
questi obiettivi dicono qual è il tipo di situazione che non si vuole o da cui ci si vuole
allontanare (in quanto suscita disagio), e non dicono assolutamente nulla di ciò che si
vuole, cioè della direzione verso la quale si vuole andare.
In realtà, un obiettivo avversivo, non è un obiettivo, ma l’espressione del disagio cre-
ato dallo stato attuale. Il primo e principale compito del counselor è dunque di aiutare il
cliente a passare da un obiettivo avversivo ad una rappresentazione in cui sia consapevo-
le sia dello stato attuale, sia dello stato desiderato.
Il counselor dunque ascolta attentamente il cliente e coglie l’obiettivo avversivo. A
questo punto, ridefinisce l’obiettivo avversivo (vedi § “Ridefinizione” p. 54) come stato
attuale e chiede una descrizione dello stato desiderato. Facendo una serie di domande di
chiarimento e di approfondimento affina la descrizione dell’obiettivo positivo ottenen-
do una rappresentazione dei seguenti livelli della esperienza: contesto, comportamento,
pensieri ed emozioni, capacità, identità personale. È essenziale evitare ogni forma di
commento, giudizio, interpretazione dei pensieri del cliente.
Esempio:
CLIENTE: Vorrei non sentirmi più così.
COUNSELOR: Così come?
CLIENTE: Una sprovveduta, una persona assolutamente inadeguata.
COUNSELOR: E cosa la fa sentire una sprovveduta, una persona assolutamente inadegua-
ta?
Per aiutare i clienti a stabilire un obiettivo positivo, è utile chiedere loro di descrivere due
situazioni:
Nella prima è rappresentato il loro stato attuale (che è identificato dal loro obiettivo avver-
sivo).
Nella seconda è rappresentato il loro stato desiderato (che è l’obiettivo positivo).
Si noti che in questo modo l’obiettivo avversivo viene ridefinito come stato attuale. Ciò con-
sente di non ignorare l’espressione del disagio, ma di dare ad essa il giusto posto all’interno
del lavoro per la soluzione del problema, aiutando il cliente ad allargare gli orizzonti.
A questo punto è importante ottenere una descrizione dell’obiettivo per ciascuno dei se-
guenti livelli:
1. La condizione oggettiva esterna che vorrebbe realizzare (contesto).
2. Il comportamento che vorrebbe tenere (comportamento).
3. Quali capacità vorrebbe possedere (capacità).
4. Cosa vorrebbe provare (emozioni e corpo).
5. Come vorrebbe sentirsi come persona (identità personale).
Come si fa a sapere di aver raggiunto un obiettivo? Non si tratta di una domanda pe-
dante. Obiettivi come “voglio migliorare la mia autostima”, oppure “voglio guadagnare
molto”, pur essendo obiettivi positivi, e quindi pur soddisfacendo la prima condizione
degli obiettivi ben formati, non ci aiutano molto a capire quando siano stati raggiunti. E
se non si sa quando gli obiettivi sono stati raggiunti non si sa neanche se ci si sta avvici-
nando, e quindi se ci si muove nella direzione giusta. Per cui, invece di: “Voglio migliora-
re la mia autostima”, meglio sarebbe dire: “Voglio sentirmi a mio agio quando parlo in
assemblea e voglio esprimere tranquillamente la mia opinione, anche se non coincide con
quella della maggioranza”. E invece di dire: “Voglio essere rispettato”, meglio sarebbe:
“Vorrei che quando esprimo le mie necessità economiche alla mia ex-moglie lei almeno
mi ascoltasse e tenesse conto di quello che dico e si rendesse disponibile a trovare un
equo compromesso tra le sue richieste e le mie necessità di base.”
In termini generali, un obiettivo è ben specificato quando è verificabile. Cioè quando
è riconoscibile in modo inequivocabile. Ciò significa che per ogni livello della esperienza
(contesto, comportamento, emozioni, capacità, identità personale) deve essere identifica-
bile un chi, un cosa, un dove, un come ed un quando.
Esempio
…
CLIENTE: Vorrei trovare un lavoro soddisfacente.
COUNSELOR: Può farmi degli esempi di lavori per lei soddisfacenti?
CLIENTE: Non saprei, uno in cui mi senta a mio agio.
COUNSELOR: Come si accorgerebbe di sentirsi a suo agio?
CLIENTE: Beh, un lavoro che mi fa stare in giro, all’aria aperta. Non sopporto di rimanere
chiuso in una stanza davanti ad un computer.
COUNSELOR: Che cosa intende precisamente per stare in giro, all’aria aperta?
Per ogni livello specificare: chi, cosa, dove, come, quando, NELLA CONDIZIONE DESIDERA-
TA.
Contesto: Chi e cosa c’è nella situazione desiderata? Quando? Dove? Cosa fanno le perso-
ne? In che modo?
Comportamento: Cosa faccio? Dove? Quando? In che modo? A chi o a che cosa?
Emozioni: Cosa provo? Che qualità ha ciò che provo? Dove lo provo nel corpo? Quando?
Capacità: Quale capacità possiedo? Quando? Dove? In che modo la esprimo?
Identità personale: Come mi considero? Che idea ho di me stesso/a? Come mi sento come
persona?
Chi si ponga l’obiettivo di perdere cinque chili deve fare una dieta. Ma se vuole che sia il
proprio partner a perdere i cinque chili, sarà il partner a dover fare la dieta. La situazione
è molto diversa.
Quando ci si pone un obiettivo è importante tenere presente che non si può disporre
delle altre persone allo stesso modo in cui disponiamo di noi. Tornando all’esempio pre-
cedente, l’obiettivo di perdere cinque chili dipende direttamente dal PROPRIO COM-
PORTAMENTO. Invece, l’obiettivo di godere di un maggior appeal del partner, grazie a
qualche suo chilo in meno, dipende dal COMPORTAMENTO DELL’ALTRO.
E il comportamento di una persona dipende, a sua volta, dalle sue convinzioni, dai
suoi bisogni e valori e dai suoi criteri per soddisfarli. Quello che noi possiamo fare è, al
massimo, favorire la sua decisione di perder peso ed aiutarla a perseguire questo obiet-
tivo; e questa decisione, per definizione, non può essere in contrasto con le priorità, i
valori, i bisogni e i desideri di quella persona.
È per questa ragione che un obiettivo ben formato deve poter essere perseguibile di-
rettamente da chi lo formula.
Naturalmente è assolutamente comprensibile che si possa desiderare un comporta-
mento diverso da parte di altre persone.
Ma in questo caso la persona dovrebbe porsi la seguente domanda: “Cosa posso fare
IO perché L’ALTRO si comporti in un certo modo?”. Ciò significa far ricadere l’obiettivo
nuovamente nell’ambito del proprio comportamento facendolo diventare un obiettivo
ben formato. Ma attenzione, ora l’obiettivo non è la trasformazione del comportamento
dell’altra persona, ma del proprio comportamento, in modo tale da favorire il compor-
tamento desiderato da parte dell’altro.
Facciamo un esempio:
Claudia vorrebbe che Giorgio, il suo ex marito, si comportasse in modo meno intrusivo,
smettendola di infastidirla con commenti, pressioni e interferenze riguardanti il rapporto dei
figli con lei. Ora, per quanto impegno ci metta, Claudia non potrà mai modificare diretta-
mente il comportamento dell’ex marito. E ciò per la semplice ragione che Giorgio è un’altra
persona.
Giorgio ha i suoi propri valori, le sue convinzioni, i suoi riferimenti culturali. La domanda
dunque è cosa può fare Claudia per ridurre la tensione tra lei ed il suo ex-marito senza
rinunciare alla sua vita e ai suoi diritti? Forse proporgli di decidere insieme le regole da
adottare con i figli. Oppure potrebbe chiedergli di partecipare ad alcune sedute di mediazione
familiare per affrontare le loro tensioni.
Qualsiasi sia la soluzione scelta, Claudia deve essere consapevole che il suo obiettivo non può
essere quello di cambiare direttamente il comportamento di Giorgio, ma di dedicare tempo
ed attenzione per costruire una comunicazione più efficace con lui.
Quindi un obiettivo valido per Claudia è di cambiare il suo proprio comportamento, com-
patibilmente con i suoi valori ed i suoi bisogni, che favorisca un cambiamento nel comporta-
mento di Giorgio.
Si noti come in questo ultimo esempio il counselor aiuti il cliente a passare dalla prima
alla seconda posizione (“…io so che lei lo fa perché…”) e poi alla terza (“La smetterem-
mo di fare…”).
Come abbiamo visto, gli ostacoli possono essere una combinazione di condizioni “og-
gettive”, cioè situate nella realtà esterna (come la mancanza di soldi, abitare lontani dal
luogo di lavoro, un familiare a carico, etc.) e “soggettive”, cioè legate ad emozioni nega-
tive che interferiscono con la realizzazione degli obiettivi.
In entrambi i casi, è indispensabile definirli con precisione. Spesso, l’analisi degli osta-
coli consente da sola di superare una loro rappresentazione generica e vaga, e quindi una
loro ipervalutazione. Ad esempio, termini come “depressione”, “ansia”, “scarsa autosti-
ma”, “insicurezza”, “mancanza di coraggio”, “…di determinazione”, “…di volontà”,
l’“incapacità”, l’“impossibilità” non sono ostacoli, ma etichette generiche che nascondo-
no una realtà fatta di processi in cui si verificano specifici eventi, comportamenti, pensie-
ri, emozioni. Persino situazioni ben definibili oggettivamente possono essere fortemente
ipervalutate o distorte per ragioni emotive. Ad esempio, espressioni come “situazione
disastrosa”, “impossibile”, “intollerabile”, se riferite a condizioni oggettive racchiudono
senz’altro elementi di verità (mai sottovalutare i problemi!), ma anche distorsioni emoti-
ve nel modo di valutarle.
Completare
Completare significa aggiungere le informazioni mancanti. Ad esempio, nella espressio-
ne: “Mi hanno detto…”, manca “chi” abbia detto.
Altri esempi:
CLIENTE: Mi sono confidato.
COUNSELOR: Con chi si è confidato?
CLIENTE: Vorrei andare via.
COUNSELOR: Da dove vorrebbe andare via e dove vorrebbe andare?
Specificare
Specificare significa dare concretezza ad affermazioni generali o assolute. Ad esempio,
nell’affermazione “Sono sempre in ansia” si compie una generalizzazione in cui non si
distingue quando la persona è in ansia, in quale contesto, e cosa effettivamente prova e
accade quando dice di essere in ansia.
Si tratta di evidenti deformazioni della realtà, in cui eventi specifici e specifiche espe-
rienze con specifiche persone in cui ci si comporta in uno specifico modo, si provano
specifiche emozioni e si pensano specifiche cose, sono descritte invece in modo generale
ed assoluto.
Le domande chiave sono gli specificatori:
Chi? Quando? Dove? Cosa precisamente?
Oppure le domande:
Cosa le fa pensare di…? Cosa le fa capire di…? Come si accorge di…?
Un altro metodo molto efficace per ottenere delle specificazioni è la richiesta di esempi in
cui si è verificata la situazione descritta. Nel prossimo capitolo ci occuperemo dell’analisi
degli esempi con il modello ABC.
Esempi:
CLIENTE: Sono sempre in ansia
COUNSELOR: Quando è in ansia precisamente?
CLIENTE: Ho girato dappertutto
COUNSELOR: Dove ha girato precisamente?
CLIENTE: Non riesco a farmi amare da nessuno
COUNSELOR: Da chi non riesce a farsi amare?
CLIENTE: Sono un incapace!
COUNSELOR: In quali circostanze lei pensa di essere stato incapace?
Oppure
Anche in questo caso, come si può vedere, il counselor ha condotto il cliente a specificare
la sua esperienza concreta, invece di dare per scontata la definizione generale di “essere
senza via di uscita”. Questa affermazione, infatti, presa da sola è effettivamente “senza
via di uscita”.
Nel caso specifico il cliente ha rivelato uno schema di azione e feedback tra lei ed il
marito che probabilmente si auto-alimenta e sul quale, comunque, è importante lavorare
ancora.
Non è difficile intuire che da questo esempio si raccolgano molte più informazioni di
quelle apprese con la dichiarazione iniziale.
Esplicitare
Esplicitare vuol dire rendere espliciti, cioè mettere in chiaro, alcuni elementi della co-
municazione che sono espressi in modo nascosto o implicito. I più frequenti elementi
Qui il counselor non dà per scontata l’affermazione del cliente e prova a chiarire l’affer-
mazione implicita che il figlio non lo rispetta.
In quest’ultimo caso, il cliente ha dato per scontato che per risolvere il suo problema
debba parlare a muso duro con il suo capufficio. Il counselor lo aiuta a rendere esplicita
questa relazione di causa effetto in modo da metterla alla prova di argomentazioni ed
eventualmente valutare altre modalità di soluzione del problema.
A casa, mia moglie mi dice Penso: “Mi controlla come un Lei si spaventa e si chiude in
che “ancora una volta” non ho bambino”. camera piangendo.
svuotato il posacenere. E lo Mi arrabbio, urlo e perdo il con-
indica con un atteggiamento di trollo insultando mia moglie con
rimprovero. violenza.
Gli antecedenti
L’evento problematico
L’evento problematico è l’insieme dei comportamenti, dei pensieri e delle emozioni che
contengono in senso stretto ciò che viene individuato come “problema” da parte del
cliente.
In altri termini, il cliente riconosce nell’evento problematico la manifestazione del suo
problema.
Il compito del counselor è di dispiegare l’evento problematico nelle sue componenti:
i comportamenti, i pensieri e le emozioni.
GUIDA AL COUNSELING – L’ANALISI ABC 30 www.ecomind.it
Le conseguenze
È ciò che accade dopo il manifestarsi del problema: cosa fa il cliente, cosa fanno gli altri,
quali sono i pensieri e le emozioni che si provano dopo.
Le conseguenze sono importanti perché possono costituire un
eventuale rinforzo dell’evento problematico. Ad esempio, se dopo l’assunzione di
alcol si riduce l’ansia, questa condizione di sollievo (sebbene transitoria) può rinforzare
la tendenza ad assumere alcol.
Allo stesso modo, il comportamento premuroso di un coniuge
in risposta ad una crisi di ansia, tenderà a rendere l’esperienza ansiosa più “deside-
rabile”.
Le conseguenze sono altresì importanti perché è dopo l’evento
problematico che possono manifestarsi autorecriminazioni e sentimenti di fallimento.
Queste autovalutazioni negative, pur non rinforzando il comportamento problematico
in modo diretto, costituiscono, un ostacolo alla esplorazione delle emozioni e dei pensieri
collegati al comportamento problematico, in quanto attivano un atteggiamento pregiu-
diziale di loro rifi uto.
Una componente importante di ciò che deve essere descritto nelle tre colonne, sono i
pensieri e le convinzioni.
Se al lavoro un uomo incontra lo sguardo del suo capo e pensa che questi vuole
rimproverargli qualcosa, potrebbe sentirsi in colpa ed in ansia, e potrebbe cominciare a
chiedere in giro notizie su cosa potrebbe aver fatto di sbagliato.
Se, invece, pensa che il capo ha semplicemente incontrato il suo sguardo per caso,
rimane tranquillamente a svolgere il suo lavoro.
Come si vede, le emozioni ed i comportamenti sono collegati ai pensieri, cioè al modo
in cui si interpreta la realtà, indipendentemente da quanto sia “vera” tale interpretazio-
ne.
Inoltre, i pensieri sono fortemente infl uenzati dalle convinzioni di fondo che abbiamo
sulla realtà e su noi stessi.
Chi è “convinto” di essere una persona amabile ed effi ciente, ben diffi cilmente in-
terpreterebbe uno sguardo casuale come un rimprovero. A meno che non vi siano altri
elementi che glielo facciano ragionevolmente pensare.
Al contrario, chi si sente sempre in difetto e pensa di dover dimostrare costantemente
di essere stato accurato, molto più probabilmente tende ad interpretare lo sguardo come
un rimprovero.
Per questa ragione è molto importante individuare sia i pensieri più superfi ciali, con-
sapevoli ed immediati (detti pensieri automatici), sia le convinzioni più profonde e gene-
rali, relative al mondo ed a se stessi. Le convinzioni più importanti alla base di emozioni
e comportamenti negativi sono le convinzioni relative alla identità.
Cioè quelle convinzioni relative a se stessi come persone. Si tratta di convinzioni ne-
gative riguardanti il livello della adeguatezza e colpa (sono inadeguato, sono colpevole)
il livello della sicurezza personale (sono in pericolo), il livello del controllo (sono impo-
tente, non posso fare nulla).
Individuare le convinzioni
Domande chiave
Se pensa a se stesso/a in quella situazione come si sente come persona?
Se torna con il pensiero a quel momento che idea si fa di se stesso/a?
Qual è il giudizio negativo che ha di se stesso/a in quella situazione?
La freccia discendente
Un punto di partenza per esplorare le convinzioni è rappresentato dai pensieri automa-
tici.
Da questi è possibile giungere alle convinzioni più generali con una tecnica denomi-
nata “freccia discendente” che consiste nel dare per buona (tanto per ipotesi) una certa
affermazione esplorandone le conseguenze con la domanda: “e cosa accade se…”.
Esempio:
CLIENTE: il mio problema è che divento rosso ogni qual volta mi trovo tra più persone, come
a ristorante, oppure durante una riunione di lavoro.
COUNSELOR: Mi può raccontare un esempio specifi co in cui le è successo di diventare
rosso?
CLIENTE: Sì, sabato scorso ero a ristorante con la mia ragazza ed alcuni amici. Ad un certo
punto qualcuno ha declamato un brindisi per il mio nuovo lavoro ed io sono diventato
come un peperoncino.
COUNSELOR: Ricorda quanto abbiamo detto circa i fatti, i pensieri e le reazioni corporee?
CLIENTE: Sì.
COUNSELOR: Cosa ha pensato in questa circostanza?
CLIENTE: Ho pensato, ecco adesso ci siamo, diventerò rosso.
COUNSELOR: E ammettiamo che lei avesse ragione, cosa accade se diventa rosso?
CLIENTE: Accade che gli altri se ne accorgono.
COUNSELOR: E cosa succede se gli altri se ne accorgono?
CLIENTE: Che pensano di me che sono una persona strana, problematica, debole.
COUNSELOR: E cosa accade se gli altri pensano di lei che è strano,
problematico, debole?
CLIENTE: Mi sembra una conferma di quello che io non voglio assolutamente essere.
COUNSELOR: E se questa è una conferma, cosa conferma?
CLIENTE: Che lo sono veramente. Che sono una persona problematica e debole.
In questo esempio di fobia sociale, il counselor ha elicitato dal cliente una convinzione
nucleare importante.
Si noti come l’etichetta generica “sono bloccato, incapace di decidere”, sia diventato
un vero e proprio dialogo interno in cui cominciano ad essere più chiari i termini della
questione.
4. Ascolto attivo
L’ascolto attivo è uno strumento potentissimo di ristrutturazione familiare. Consente di
sostituire atteggiamenti distruttivi e/o manipolativi con una sana attenzione a quello che
dicono gli altri e quindi di ridurre al minimo rischi di fraintendimento e di instaurare
atteggiamenti più rispettosi del pensiero degli altri.
Ascolto attivo
L’ascolto attivo è una modalità di ascolto in cui ci si attiva per essere certi di aver capito ciò
che l’interlocutore vuole dire.
Le componenti dell’ascolto attivo sono le seguenti:
• Ascoltare attentamente.
• Fare domande di chiarimento.
• Sintetizzare ciò che si ritiene l’altro abbia detto e chiedere conferma.
Non commentare. Non esprimere giudizi. Non interpretare.
Ricordare
Nel fare le domande di chiarimento e nella sintesi fi nale utilizzare le stesse parole dell’in-
terlocutore.
Ad esempio:
A: Vorrei avere più tempo per le mie cose.
Una volta stabiliti gli obiettivi ed identifi cati gli ostacoli, è venuto il momento di lavorare
per raggiungere gli obiettivi e superare gli ostacoli. Ciò signifi ca, in metafora, aggiornare
ed arricchire la mappa del territorio. Bisogna evidentemente rivolgere l’attenzione alle
strade alternative per raggiungere l’obiettivo, oppure a come si possano rimuovere o ad-
dirittura utilizzare gli ostacoli.
Può darsi che per fare questo non sia necessario ricorrere a mezzi speciali. Può darsi
che quelli che il cliente ha a sua disposizione e che utilizza quotidianamente in altri con-
testi siano del tutto suffi cienti per percorrere le strade alternative, oppure per rimuovere
gli ostacoli o persino per utilizzarli.
Ma può anche essere necessario ri-utilizzare dei mezzi che si possiedono, ma che non
sono quasi mai stati utilizzati, o dotarsi di mezzi assolutamente nuovi.
La domanda chiave è: cosa serve?
Molta parte del lavoro di counseling è un lavoro sulle risorse.
Non bisogna mai abbandonare l’idea che il counseling professionale sia orientato alle
risorse. Purtroppo, bisogna dire, sebbene quasi tutti i convegni, gli articoli, i seminari,
i corsi sul counseling sottolineino l’importanza delle risorse, ben meno frequentemente
ciò accade nella pratica. Il discorso sulle risorse rischia spesso di essere una vuota ideo-
logia.
Cosa signifi ca esattamente lavorare con le risorse? E come si fa? Questo è il tema di
questo capitolo.
Dunque, le prime fasi del counseling (stabilire gli obiettivi ed esaminare gli ostacoli)
consentono di individuare immediatamente delle possibili strade alternative. In tal caso
il problema dipendeva soprattutto da una insuffi ciente valutazione dei fatti, oppure da
difficoltà interpersonali e da una confusione nella comunicazione.
Altre volte, il lavoro iniziale svolge solo la funzione di mettere più ordine nel modo di
presentare il problema ed è quindi solo un indispensabile preliminare per poi strutturare
degli interventi mirati alla soluzione dei problemi.
Come abbiamo visto, i problemi dei clienti costituiscono un mix di problemi oggetti-
vi, interpersonali ed emotivi.
Per affrontarli sono necessari due livelli di intervento. Il primo livello ha a che fare
con le risorse di contesto (contesto familiare, gruppale, lavorativo, istituzionale), il se-
condo con le risorse cognitive ed emotive in senso stretto.
Se vuoi aiutare chi ha fame, non dargli del pesce, ma insegnagli a pescare. Questo detto
orientale esprime in sintesi la filosofia del Problem Solving come strumento essenziale
della relazione d’aiuto.
La validità dell’intervento di counseling dipende strettamente dall’abilità dell’opera-
tore di favorire un atteggiamento generalmente ben orientato alla soluzione di problemi,
più che da specifici suggerimenti riguardanti specifici problemi.
In senso lato, il problem solving è un processo efficace ed efficiente di soluzione di
problemi. Un aspetto essenziale del counseling e della psicoeducazione è l’educazione al
problem solving, cioè all’atteggiamento mentale più adeguato alla soluzione dei proble-
mi, con particolare riguardo ai problemi emotivi ed interpersonali. In effetti, larga parte
del lavoro con i clienti consiste nel correggere alcuni atteggiamenti di approccio ai pro-
blemi inefficaci, piuttosto che nel fornire soluzioni.
Come abbiamo già visto, gli aspetti essenziali di un approccio costruttivo ai problemi
sono i seguenti:
1. Definire con precisione il problema in termini di obiettivi personali e di fattori che
sembrano ostacolare il raggiungimento di tali obiettivi.
Questo primo punto coincide con il primo passo del Counseling che consiste nello
stabilire degli obiettivi ed esaminare gli ostacoli.
In alcuni casi, soprattutto quando sono coinvolti anche i familiari, può essere molto utile
insegnare il Problem Solving come metodo strutturato di soluzione di problemi anche
pratici. Cioè in modo esplicito e strutturato, dalla a alla z, come se si trattasse di un vero
e proprio training con delle lezioni e compiti a casa. Ciò è particolarmente indicato in
quelle famiglie in cui le relazioni pregiudicano il corretto svolgimento del programma di
counseling oppure nei casi in cui alcuni problemi sono fonte di grande tensione all’in-
terno della famiglia. Il Problem Solving come metodo strutturato per risolvere problemi
pratici, emotivi ed interpersonali può essere una parte importante di un programma di
counseling psicoeducazionale quando vi siano familiari affetti da gravi disturbi mentali
come la Schizofrenia, Il Disturbo Bipolare, varie forme di addiction ed il Disturbo Bor-
derline di Personalità.
Altre volte è utile correggere soltanto quelle fasi del Problem Solving che siano svolte
in modo inefficace o inefficiente. Cioè può essere utilizzato all’interno del programma di
counseling con un approccio flessibile e non strutturato, aiutando i membri della fami-
glia a superare specifiche difficoltà nel loro modo di affrontare i problemi, utilizzando
l’esempio e la discussione pratica su specifici problemi.
Nella mia esperienza, quanto maggiore è il grado di confusione di ruoli all’interno
della famiglia e quanto meno la comunicazione è diretta ed assertiva (e spesso quanto
più gravi sono i disturbi), più risulta opportuno insegnare il Problem Solving in modo
strutturato.
Invece, in presenza di famiglie in cui le relazioni non siano molto disturbate, cioè
quando si riscontrino solo delle specifiche interferenze emotive e difficoltà nel fluire di un
problem solving spontaneo, può essere molto più utile ed opportuno integrare, per così
dire, a “spot”, l’insegnamento del Problem Solving nel lavoro di counseling evitando un
approccio eccessivamente rigido e pedagogico.
Pertanto descriveremo ora dettagliatamente il primo metodo, cioè un training com-
pleto e strutturato di Problem Solving, con l’avvertenza di prediligere l’approccio flessi-
bile e a spot, limitandosi ad estrarne dunque gli aspetti utili, e riservandone la completa
e metodica attuazione solo nelle circostanze che lo richiedano.
Preliminari
Educare alla esplicitazione degli obiettivi
È importante notare che è spesso utile far precedere il lavoro sul PS da una fondamentale
educazione alla cura degli obiettivi personali. In altri termini, tutti i membri della fami-
glia devono essere educati a rendere espliciti degli obiettivi personali per i quali è utile
la collaborazione degli altri componenti. Ad esempio, se in una famiglia composta da
tre persone (padre, madre, figlio), la madre, che soffre di attacchi di panico, giunge ad
esprimere in modo esplicito il suo bisogno di ricevere attenzione e affettuosità, mentre
il padre esprime il bisogno di avere più tempo per sé ed il figlio la possibilità di far tardi
il sabato sera, siamo di fronte ad un vero e proprio risultato psicoterapeutico in quanto
diventa possibile discutere dei bisogni dei rispettivi membri della famiglia indipendente-
mente dai sintomi. Ciò, a sua volta, consente di esplorare delle aree di relazione impor-
tanti all’interno della famiglia in modo diretto e dunque di ridurne il valore di sostegno
del sintomo.
A questo punto è utile che il trainer lasci lavorare la famiglia liberamente ed osservi
quanto il moderatore sia capace di svolgere il suo compito. Gli interventi successivi sulle
regole saranno quindi delle indicazioni date al moderatore affinché le trasmetta agli altri
È molto meglio evitare che la valutazione sia messa per iscritto, per non complicarla con
eccessi di pedanteria. I vantaggi e gli svantaggi vanno espressi in modo sintetico da tutto
il gruppo, ed è importante ricercare l’accordo sulla espressione di questa valutazione.
GUIDA AL COUNSELING – PROBLEM SOLVING 46 www.ecomind.it
Nel caso in cui vi siano opinioni diverse sui vantaggi e sugli svantaggi, il modo migliore
di evitare litigi o inutili discussioni consiste semplicemente nell’aggiungere ai vantaggi
espressi da qualcuno, i vantaggi espressi da qualche altro membro, oppure, agli svantaggi
altri svantaggi, senza considerare queste opinioni alternative l’una all’altra, ma in grado
di combinarsi e integrarsi. È utile, inoltre, invitare i familiari a ideare soluzioni che pos-
sano comprendere più idee insieme, oppure a pensare a soluzioni che derivino dalle idee
espresse, anche se non erano presenti tra quelle.
I Obiettivo:___________________________________
Identificare il Problema
Definire sinteticamente e precisamente l’obiettivo e Ostacoli:___________________________________
gli ostacoli principali. ___________________________________________
IV Soluzione prescelta:
Scegliere la soluzione ____________________________________________
Cosa?
Chi?
V
Quando?
Fare un piano
Dove?
Con che mezzi?
Dopo aver individuato alcune specifiche carenze nella organizzazione, nella comunica-
zione o nelle fasi del PS, è opportuno escogitare degli interventi che mirino a sviluppare
comportamenti più adeguati. Ad esempio, nel caso che vi sia un membro che esercita
una funzione dominante, può essere utile affidare al membro dominante una funzione
di moderatore, chiedendogli di verificare che tutti possano esprimere le loro idee. Se la
sequenza non è rispettata o alcune fasi del problem solving sono fortemente carenti o
assenti, si può organizzare una seduta dedicata all’apprendimento solo di quella specifica
fase carente o assente, etc.
Agire su A
Ogni comportamento viene attivato da specifiche circostanze e dunque si può agire sulle
circostanze riducendo la probabilità che il comportamento si verifichi. Ad esempio, i
fumatori tendono ad accendere la sigaretta dopo aver bevuto il caffè. Evitando il caffè
si riduce lo stimolo ad accendere sigarette. Un altro esempio è dato da chi ha comporta-
menti bulimici. Spesso le abbuffate si verificano quando il frigorifero è pieno di alimenti
e si è soli in casa. Dunque, evitare di tenere molti alimenti in casa ed evitare di rimanere
soli in cucina aiuta a prevenire le abbuffate.
Tuttavia, non sempre si possono evitare le situazioni che scatenano il problema. Anzi,
a volte il problema consiste proprio nell’adozione di comportamenti spontanei di evita-
mento. In questi casi è importante stabilire un programma di esposizione che consiste
nell’affrontare volontariamente delle situazioni che si evitano sistematicamente in modo
da desensibilizzarsi alla reazione emotiva indesiderata. È il caso ad esempio dei compor-
tamenti fobici. Chi ha paura di parlare in pubblico o di guidare in galleria dovrà ad un
certo punto riapprendere ad affrontare queste situazioni.
1. Confutazione
Quando uno scienziato propone una teoria, la comunità scientifica si mette al lavoro per
individuarne eventuali punti deboli ed elabora degli esperimenti che servono per metterla
alla prova. Allo stesso modo, alcune convinzioni possono essere sottoposte ad un lavoro
di confutazione e sperimentazione proprio come se si trattasse di vere e proprie teorie
scientifiche.
Ad esempio, un cliente sostiene di non essere mai riuscito a combinare nulla di buono
nella vita.
Il counselor può fargli scrivere una lista delle cose per cui almeno qualcuno abbia
espresso apprezzamenti, una lista di cose che sono state utili per qualcuno, etc.
2. Spiegazioni alternative
Di fronte a convinzioni molto rigide ed assolute può essere molto utile identificare delle
spiegazioni alternative. A questo punto si chiede alla persona cosa gli faccia pensare che
tra tutte queste spiegazioni lui/lei ritenga valida solo quella.
Nell’esempio dell’impiegato che ritiene che lo sguardo del suo superiore fosse di rim-
provero, si potrebbe chiedere di enumerare anche altre possibilità (ha alzato lo sguardo
proprio nello stesso momento, gli era venuto in mente di parlare con lei di qualcosa,
stava semplicemente pensando e non guardava da nessuna parte, etc.). A questo punto il
counselor può chiedere cosa gli faccia pensare che tra tutte queste possibilità l’unica che
ritiene valida sia proprio quella di essere rimproverato.
Sono gli altri che devono cambiare. È molto spesso un modo di non assumersi le respon-
sabilità del cambiamento e per rendere le cose inamovibili. È importante far notare
all’interlocutore che se gli altri sono in grado di cambiare il loro comportamento noi gli
facilitiamo il compito se siamo noi per primi a farlo.
La paura, il pianto, il dolore, sono espressione di debolezza. È spesso un ostacolo sulla via
della soluzione al problema in quanto impedisce alla persona di aprirsi e quindi di af-
frontare la realtà in modo sereno ed armonico. Inoltre, questa convinzione è, paradossal-
mente, l’ostacolo più grande al superamento delle proprie fragilità.
È essenziale ridefinire queste espressioni emotive in termini positivi come punti sen-
sibili, la cui espressione rappresenta un’opportunità per essere esplorati, riconosciuti, e
rinforzati.
Il rifiuto di esprimere questi punti sensibili non aiuta a riconoscerli e quindi a rinfor-
zarli.
Affetto ponte
A volte le emozioni disturbanti hanno una specifica origine in esperienze passate e rap-
presentano solo delle loro attivazioni in presenza di contesti simili.
In queste circostanza risulta molto utile una tecnica chiamata affetto ponte in cui si
chiede al cliente di andare indietro nel tempo e di rintracciare le stesse sensazioni fisiche
nel passato e di descrivere i ricordi che affiorano.
Accade infatti frequentemente che alcune reazioni disturbanti siano attribuite er-
roneamente a specifiche situazioni esterne dimenticandone l’origine interna legata ad
esperienze precedenti. Quando si invita il cliente a ricercare nella sua memoria altre
circostanze in cui ha avvertito percezioni simili, si consente di identificare uno schema
di risposta ripetitivo in circostanze diverse, ma accomunate da qualche caratteristica.
Ciò aiuta a superare la situazione contingente che viene erroneamente percepita come la
causa del problema, ed aiuta a comprendere meglio il significato delle emozioni e delle
percezioni fisiche.
Esempio:
CLIENTE: Non ho nessuna intenzione di incontrare la direttrice. Non lo merita. Se solo la
incontro mi sento salire una rabbia… È lei il mio problema.
COUNSELOR: Come si accorge di provare rabbia?
CLIENTE: Sento il sangue che mi sale al cervello e non capisco più niente.
Agire su C
Avvertenza
Le tecniche descritte in questo capitolo sono utilizzate dagli psicoterapeuti per la ristrut-
turazione di problemi emotivi.
Esse richiedono una grande esperienza e sensibilità.
Per cui possono essere utilizzate solo con la supervisione di terapeuti esperti.
Abbiamo già accennato al principio fondamentale della teoria dei sistemi, e cioè che la
comunicazione è circolare.
Ed abbiamo anche detto che il ritorno di informazione si chiama feedback.
In altri termini, dal punto di vista della teoria dei sistemi il “significato” di una comu-
nicazione è semplicemente il suo effetto nell’altro, e quindi il suo feedback.
Dunque anche gli scambi comunicativi del counselor nei confronti dei clienti non
sfuggono alla regola dei sistemi. Le parole ed il comportamento del counselor costitui-
scono una informazione per il cliente e questi restituisce le sue parole ed il suo compor-
tamento: il suo feedback.
Ciò significa, in altri termini, che al di là delle intenzioni del counselor quando co-
struisce il suo intervento, è la risposta del cliente, il suo feedback, che è di importanza
cruciale.
Apprendere ad osservare costantemente il feedback del cliente consente al counselor
di modulare e regolare costantemente i suoi interventi.
Le competenze tecniche del counselor diventano inutili senza l’attenzione al feedback.
Sarebbe come tentare di guidare un’automobile ad occhi bendati e con i tappi nelle orec-
chie. Anche il miglior pilota del mondo andrebbe fuori strada in quanto non potrebbe
controllare costantemente gli effetti delle sue azioni.
Osservare il feedback significa non solo ascoltare le parole, ma anche utilizzare gli
occhi, le orecchie e le percezioni emotive e corporee.
Gli interventi del counselor devono essere costantemente accompagnati da un’attenta
verifica della risposta emotiva, con particolare riguardo alle risposte inattese e ripetiti-
ve.
Ciò consentirà o di apprendere qualcosa del cliente che può essere importante, oppu-
re di modificare la strategia e/o la comunicazione in modo da adeguarsi meglio alle sue
esigenze.
In particolare, l’attenzione al feedback consente di adeguarsi meglio allo stile cogni-
tivo dell’interlocutore.
Alcune persone tendono ad essere molto attente alle somiglianze, altre alle differenze.
Alcuni hanno bisogno di prendere l’iniziativa, altri di valutare attentamente prima di
esporsi. C’è chi è maggiormente attento ai dettagli, chi invece al quadro generale.
Nessuno stile è migliore degli altri. È semplicemente diverso.
Ma può essere un grave errore, ad esempio, provare a spiegare qualcosa in modo
molto generale e con pochi tratti a chi è fortemente interessato a tutti i dettagli di un
ragionamento, oppure, viceversa, insistere su tutti i dettagli di un concetto con chi vuole
avere immediatamente un’idea generale di ciò che stiamo dicendo.
Nel primo caso incontreremo diffidenza, nel secondo caso esasperazione.
La verifica di cui abbiamo parlato finora riguarda l’attenzione costante alla efficacia della
comunicazione. Si tratta cioè della verifica degli aspetti minimali del lavoro, del sottile e
continuo feedback comunicativo, cioè di ciò che si fa momento per momento.
L’argomento dei prossimi paragrafi è, invece, l’aspetto macroscopico e più evidente
della verifica, e cioè la valutazione complessiva del lavoro svolto e dunque se e quanto ci
si è avvicinati agli obiettivi stabiliti nella prima fase del processo di counseling.
L’importanza di questa verifica è fondamentale per varie ragioni:
È opportuno tornare sugli obiettivi e fare una verifica ad ogni incontro, ma soprattutto
quando il lavoro sembra impantanarsi. Ciò consente di tenere sempre alto l’impegno e di
essere costantemente orientati. L’attenzione agli obiettivi, e soprattutto la disponibilità a
modificarli, costituiscono il miglior rimedio contro la “scarsa motivazione”.
Gli obiettivi non sono condizioni del tipo tutto o nulla, come un interruttore che è acceso
o spento: si può sempre “misurare” quanto ci si stia avvicinando ad essi.
Per misurare il grado di avvicinamento all’obiettivo si possono utilizzare due meto-
di.
1. Check list di sotto-obiettivi.
2. Grado di realizzazione.
Grado di realizzazione
Abbiamo appreso nel capitolo dedicato agli obiettivi, che questi possono essere imma-
ginati, ascoltati e percepiti come se fossero reali, ancor prima di essere realizzati. Il che
significa che noi possiamo avere un “quadro” preciso dell’obiettivo perfettamente rea-
lizzato.
A questo punto è possibile confrontare lo stato dei fatti con il quadro immaginato e
dare un punteggio.
Il miglior modo di dare un punteggio consiste nel valutare il grado di avvicinamento
all’obiettivo su una scala predefinita, ad esempio da “zero” a “cento”. È incredibile no-
tare che le persone sono perfettamente in grado di esprimere un punteggio di questo tipo
con molta sicurezza.
Tizio assume dentro di sé che per essere apprezzato “deve” essere “sempre” all’altezza di
ogni situazione.
Si pone dunque l’obiettivo di imparare a comportarsi nel modo migliore in ogni circostanza.
Dopo alcuni mesi di lavoro su questo obiettivo, si rende conto che è impossibile essere perfetti
in ogni circostanza, ma soprattutto, si rende conto che questo obiettivo non lo fa sentire
libero, ma piuttosto in costante ansia.
Dunque è pronto a modificare il suo obiettivo che, in termini generali, suona più o meno
così: diventare capace di tollerare proprie difficoltà, limiti e debolezze e dunque imparare a
lasciarsi un po’ andare e godere di più la vita.
“Il Counselor è la figura professionale che, avendo seguito un corso di studi alme-
no triennale, ed in possesso pertanto di un diploma rilasciato da specifiche scuole
di formazione di differenti orientamenti teorici, è in grado di favorire la soluzione
di disagi esistenziali di origine psichica che non comportino tuttavia una ristruttu-
razione profonda della personalità.
L’intervento di Counseling può essere definito come la possibilità di offrire un
orientamento o un sostegno a singoli individui o a gruppi, favorendo lo sviluppo
e l’utilizzazioni delle potenzialità del cliente.
All’interno di comunità: ospedali, scuole, università, aziende, comunità religiose,
l’intervento di Counseling è mirato da un lato a risolvere nel singolo individuo il
conflitto esistenziale o il disagio emotivo che ne compromettono una espressione
piena e creativa, dall’altro può inserirsi come elemento facilitante il dialogo tra la
struttura e il dipendente.”
In conclusione, per svolgere la professione di Counselor è necessario aver svolto una
formazione almeno triennale, ma non è obbligatoria l’appartenenza ad una associazione
professionale accreditata o albo riconosciuto.
Al momento sono in corso iniziative legislative che mirano al riconoscimento delle asso-
ciazioni abilitanti, grazie alla identificazione di standard nazionali e/o internazionali ai
quali tali associazioni devono aderire.
TESTO
Art. 1
L’esercizio delle attività professionali è libero salvi i casi in cui la legge richieda, anche per
lo svolgimento di singole attività, l’iscrizione in appositi albi o elenchi ai sensi dell’art.
2229 c. c.
Art. 2
Le associazioni costituite dagli esercenti attività professionali non rientranti nella previ-
sione di cui all’art. 2229 c.c., se in possesso dei requisiti e nel rispetto delle condizioni di
cui al successivo art. 5 possono essere riconosciute.
Art.3
Le associazioni riconosciute ai sensi del precedente art. 2, sono di natura privata, su base
volontaria e possono rilasciare periodicamente agli iscritti, previe le necessarie verifiche,
un attestato in ordine al possesso di requisiti professionali, all’aggiornamento professio-
nale e al rispetto di regole di correttezza nella svolgimento dell’attività professionale. In
ogni caso l’attestato non è requisito necessario per l’esercizio dell’attività professionale.
Art. 4
Il riconoscimento delle associazioni ai sensi del precedente art. 2 è disposto, su conforme
parere del CNEL, dal Ministro della Giustizia con l’iscrizione in apposito registro istitu-
ito presso il Ministero.
Art. 5
Il Governo è delegato a emanare entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge,
previa intesa con la Conferenza dei Presidenti delle Regioni e previa consultazione delle
parti sociali maggiormente rappresentative, uno o più decreti legislativi per precisare i
requisiti richiesti alle associazioni per l’iscrizione nel registro e ai professionisti per l’ot-
tenimento dell’attestato di cui ai precedenti articoli, nel rispetto dei seguenti principi e
criteri direttivi:
a. l’esistenza di uno statuto dell’associazione che garantisca un ordinamento interno
a base democratica, escluda ogni fine di lucro, determini l’ambito dell’attività pro-
fessionale, preveda l’elaborazione e l’adozione di un codice deontologico, nonché la
stipulazione di adeguate forme di assicurazione per la responsabilità civile per danni
arrecati nell’esercizio dell’attività professionale;
b. la disponibilità da parte dell’associazione di adeguate strutture organizzative e tecni-
co-scientifiche per curare la determinazione dei livelli di qualificazione professionale,
Risorse
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