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La “Madonna dei pellegrini” del Caravaggio:

la soglia che cambia lo sguardo

(Jean-Paul Hernandez SJ)


L’esperienza di fede è per eccellenza “esperienza della soglia”. Essa arriva a raggiungere senza potere
impossessarsi. E’ quello che insegna Michelangelo Merisi da Caravagio in una tela a olio di 260 cm x 150 cm,
intitolata “La Madonna dei pellegrini”. Il maestro lombardo la realizza fra il 1604 e il 1606 per la prima
cappella laterale sinistra della chiesa di Sant’Agostino a Roma, dove si trova tutt’ora. La committente è la
vedova del marchese Ermete Cavalletti che aveva acquistato questa cappella, appartenuta nei primi
decenni del ‘500 a Fiammetta, una nota cortigiana dei Borgia, dopo la sua conversione. Nel suo testamento
del 1602 il nobile bolognese aveva chiesto che la cappella fosse decorata con una rappresentazione della
Madonna di Loreto. Lui stesso si era infatti recato alla “santa casa” durante il giubileo del 1600. Attraverso
l’amicizia della vedova Cavalletti con il mercante Costantino Spada, l’opera viene commissionata al
Caravaggio.

Nell’iconografia tradizionale, la Casa di Loreto veniva rappresentata nella sua traslazione miracolosa per
opera degli angeli. Sopra di essa si scorgeva in genere la Madonna con il Bambino. E’ così che veniva
simboleggiato il ruolo che la famiglia bizantina “Angeli” aveva svolto nel trasporto di questa “reliquia
architettonica” dalla Palestina in Italia, alla fine del sec. XIII. Così ancora la rappresentava per esempio
Annibale Caracci negli stessi anni in cui Caravaggio creava la nostra opera. Questa segna invece una radicale
discontinuità iconografica che nasconde la squisita penetrazione teologica del “pittore maledetto”.

In primo piano della sua composizione, Caravaggio pone una coppia di pellegrini che richiamano i
committenti: il defunto marchese (rappresentato ancora non troppo anziano, come per immortalare il suo
ricordo nella forza dell’età), e la vedova, anziana, tale come Caravaggio l’ha conosciuta. Essi sono
inginocchiati secondo l’usanza dei pellegrini a Loreto. Dopo tre giri in ginocchio intorno alla Santa Casa essi
potevano essere ricompensati con una visione della Madonna col Bambino, esattamente come accade in
questo quadro. Siamo dunque di fronte a una vera “visione”. E’ attraverso la fede dei pellegrini che adesso
lo spettatore “vede” la Madonna.

Ma ciò che sorprende in queste due figure, soprattutto se le osserviamo come la rappresentazione dei
nobili committenti, è il loro aspetto povero e “popolano”. I loro vestiti sono sdruciti e le loro tonalità
“terrose” richiamano la polvere e la materialità decrepita dell’intera scena. Una polvere che si ritrova in
primissimo piano nei famosissimi “piedi sporchi” del pellegrino. L’iperrealismo caravaggesco diventa qui
una narrazione diacronica che evoca la lunga strada percorsa dai pellegrini, la fatica, il dolore. Infatti sono
piedi sporchi ma anche gonfi, di una preghiera fatta soprattutto con il corpo, che è la preghiera di ogni
pellegrino.

A livello più simbolico, i piedi sporchi sono fin dalla lavanda dei piedi nel Vangelo di Giovanni, il simbolo del
peccato. La sporcizia accumulata “nel cammino della vita” sarà lavata solo dall’incontro con Colui che può
perdonare ogni traccia di peccato. E’ il senso profondo dell’indulgenza plenaria ricevuta in ogni grande
Giubileo. Caravaggio infatti aveva ben osservato le masse di poveri pellegrini che avevano raggiunto a piedi
Roma per il grande Giubileo del 1600. E in questo quadro, identifica i suoi ricchi committenti con questi
poveri pellegrini, facendo così un’opera di “smascheramento”. Ogni pellegrino è un “povero pellegrino”. O
come dirà ben più tardi Don Milani, “dire un uomo è già dire un povero uomo”. Nel peccato, ogni uomo è
profondamente povero e profondamente simile.

Simile anche a chi guarda questa pala d’altare durante la partecipazione alla messa. I due pellegrini
inginocchiati fungono da figure di identificazione con i fedeli che a conclusione della liturgia si
inginocchieranno nello stesso modo per ricevere la comunione. Cioè per vivere questa esperienza di
“soglia” che consiste nel ricevere il corpo di Cristo senza che i sensi se ne possano impossessare.
“Mysterium fidei” proclamava il sacerdote nell’antico rito davanti all’ostia appena consacrata. Caravaggio lo
traduce nel quadro con la soglia di una pesante pietra che segna il limite invalicabile fra l’umano e il divino
ma che segna anche lo spazio prezioso del misterioso incontro. Più di uno studioso ha avvicinato questa
lastra di pietra alla lastra sepolcrale che Caravaggio mette in evidenza nel suo quadro “La deposizione”
(Roma, 1602-04). Quasi a dire che questa soglia ha a che vedere con la morte, dove la nostra morte diventa
tutt’uno con la morte di Cristo, e dunque con la sua Risurrezione, ancora invisibile ai nostri occhi carnali, ma
visibile per la fede dei pellegrini. Altri studiosi hanno associato questa lastra alla lastra di altare, che
rispecchierebbe l’altare reale davanti al quale si inginocchiano i fedeli e sopra il quale si manifesta il corpo
di Cristo portato dalla Chiesa-Madre. Molti altari tardomedievali e rinascimentali sono in effetti sovrastati
da rappresentazioni della Madonna col Bambino.

Un segno ancora più evidente della dimensione “liminare” è il gesto delle mani giunte dei pellegrini che
oltre a esprimere la loro attività orante esprime nel caso dell’uomo la sua vicinanza estrema al contatto
fisico con il corpo di Cristo. Il “quasi-contatto” fra le dita del pellegrino e il piede del bambino Gesù è
un’ulteriore “citazione creativa” del “quasi-contatto” michelangiolesco fra Dio e Adamo nella Sistina. Il
Caravaggio l’aveva già “citato” nella “Vocazione di Matteo” per dirci che ogni vocazione è una creazione.
Adesso lo ritroviamo in questo quadro dove la preghiera diventa l’umile richiesta di essere “ri-creato”, cioè
“perdonato”. Umile non solo per la posizione inginocchiata, non solo per il “colore humus” degli abiti
“terrosi”, ma anche perché è un “quasi-contatto” con i piedi del Signore. E’ letteralmente un “gettarsi ai
suoi piedi”, come leggiamo spesso nella Sacra Scrittura. Solo più in alto, a un livello “non accessibile al
pellegrino”, noi riconosciamo nella mano del bambino il gesto di benedizione ma anche di Creazione che
completa la citazione michelangiolesca.

Si può dire che il minuscolo spazio vuoto fra le dita del pellegrino e il “piedino” di Gesù è il centro intorno a
cui ruota tutta la composizione. Vale a dire: la fede è quel “vuoto” che “riorganizza” tutto il “quadro della
nostra vita”. Questo minuscolo spazio oscuro è in effetti nel centro geometrico del quadro ed è anche al
centro di una “diagonale di grazia” che inizia in basso a destra con i piedi sporchi, risale lungo il corpo del
pellegrino, passa appunto attraverso le sue mani e il piede del Bambino, e risale verso la testa di Cristo,
passando anche attraverso la mano con cui Maria afferra il Bambino. Si tratta di una mano in voluto
contrasto con le mani dei pellegrini perché ha una presa sul corpo di Cristo di una pregnante fisicità. Come
a dire che il corpo di Maria è l’unico corpo umano che già nella Gloria ha un’esperienza pienamente fisica
del Corpo di Cristo. Esperienza che ci è promessa per la fine del nostro “pellegrinaggio terrestre” ma che
adesso per noi è solo mediata da quel “vuoto” che è la fede.

Un altro elemento che va osservato nella rappresentazione dei due pellegrini sono i due bastoni. Dal punto
di vista delle linee conduttrici del quadro essi contrastano con la “diagonale di grazia” descritta sopra.
Avrebbero potuto essere dei bastoni su cui si poteva appoggiare il peso dei corpi dei pellegrini. Ma
Caravaggio sceglie di rappresentarli quasi come estranei alla meccanica delle masse in presenza. Infatti non
sembra che siano appoggiati al muro, ma piuttosto si può intuire che essi siano presi fra il gomito e il petto
di ciascuno dei due pellegrini. Sono dunque più “portati” che “portanti”. E’ inevitabile qua richiamare la
simbologia del bastone del pellegrino che fin dai primi secoli è associato alla croce. Quando i Padri
commentano il Salmo 23, essi amano immaginare la doppia terminologia del palo del pastore (“bastone” e
“vincastro”) come prefigurazione delle due travi della croce (quella verticale e quella orizzontale). Inoltre in
molte lingue europee, la terminologia del viaggio è associata a quella della Passione. Basta pensare al
legame etimologico fra l’inglese “travel” e l’italiano “travaglio” (o francese “travail”), che risale al nome
alto-medievale di uno strumento di tortura (fatto con tre pali, da cui “tr”-“vail”) associato simbolicamente
alla croce. E in effetti per l’uomo medievale ogni pellegrinaggio è una partecipazione alla Passione di Cristo.
Non è un caso se sulla facciata di “Platerias” a Santiago di Compostela, la rappresentazione della Passione
funge da “specchio spirituale” per rileggere l’esperienza del pellegrino arrivato alla meta. Nel
pellegrinaggio, la stessa sofferenza fisica, visibile nei piedi gonfi e nei corpi segnati dalla fatica, diventa
sacramento dell’unione con Cristo e rivelazione del fatto che questa unione non riguarda solo il tempo del
pellegrinaggio ma copre tutta la vita, di cui il pellegrinaggio è solo “emblema”. Allora chi guarda questo
quadro del Caravaggio, anche se non è tecnicamente un pellegrino del Giubileo, scopre che tutta la sua vita
è stata un pellegrinaggio e che adesso la sua partecipazione alla messa è il punto di arrivo dove da sempre
voleva arrivare.

Al tempo stesso, questa partecipazione alla messa diventa nel pennello del Caravaggio un “ritorno al
quotidiano”. Come farà magistralmente nelle “Le sette opere di Misericordia” (Napoli, 1607), l’artista
trasforma la pala d’altare in “finestra sul quotidiano” affinché il quotidiano sia contemplato con uno
sguardo “liturgico”, “trasfigurato”. Nel nostro quadro i pochi elementi architettonici dovrebbero
appartenere alla Santa Casa di Loreto, ma essi in realtà richiamano le case antiche ma fatiscenti del centro
di Roma e forse in particolare del quartiere dell’Ortaccio, un quartiere di Roma dove negli anni del pittore
erano state concentrate le prostitute della città. E allora non ci stupisce che il modello che Caravaggio
utilizza per dipingere la Madonna sia proprio una donna che vendeva il proprio corpo. Conosciamo il suo
nome: “Lena”. Intorno a lei ci fu un conflitto giudiziario fra il nostro pittore e il notaio Pasqualoni, che ne
parla come di “una donna chiamata Lena, che sta in piedi a piazza Navona passato il palazzo ovvero il
portone del palazzo del signor Sertorio Teofilo, che è donna di Michelangelo”. Per la maggior parte degli
studiosi (anche se con alcune riserve in recenti studi) questa “Lena” è da identificarsi con Maddalena
Antognetti, cortigiana dell’alta società romana. In ogni caso, e al di là della sua identità precisa, questa
donna è rappresentata appoggiata allo stipite della porta e con le gambe incrociate. Si tratta di una
posizione insolita per una figura sacra; è infatti la posizione tipica della prostituta che aspetta il cliente. E
qua incontriamo la punta fine del messaggio spirituale del quadro.

Noi osservatori, immedesimati con i pellegrini oranti, stiamo guardando una prostituta e ci vediamo la
Madre di Dio. E’ la sconcertante trasfigurazione dello sguardo operato dalla preghiera. Chi partecipa alla
liturgia in questa cappella Cavalletti riceve attraverso il rito un’illuminazione che lo riporta al quotidiano,
contemplato adesso con occhi nuovi. Gli occhi della fede sono gli occhi capaci di vedere la “presenza reale
di Dio”, la “storia della Salvezza”, in ogni realtà umana, fosse anche la più squallida, la più degradante, la più
“ufficialmente lontana” dai dettami religiosi. In fondo, ricevere questo “nuovo sguardo” sulla realtà
quotidiana è ricevere lo stesso sguardo di Cristo, che trasforma la realtà del peccatore, perché vede già in
lui quel santo che è chiamato ad essere. Quella conversione che un secolo prima aveva portato Fiammetta
a pregare in questa cappella (ne è testimone ancora l’affresco sella Maddalena visibile a sinistra del nostro
quadro), è adesso in qualche modo operato dal nostro occhio, capace di “chiamare la realtà” alla sua
pienezza. Caravaggio riesce così a descrivere il rito eucaristico come una “transubstanziazione” dove i più
disprezzati sono resi “immacolati”.

E’ da notare la maestria sconcertante del pittore lombardo quando combina il portamento della donna
descritto sopra e i tratti della sua altissima dignità. E’ una donna “vera”, cioè che esprime tutta la sua
fisicità. Ma non è una donna “volgare”. E’ una donna “bella”, anzi “bellissima”, cioè che esprime tutta la sua
femminilità. Ma non è una donna “ambigua”. Caravaggio spinge al massimo il fascino di questa figura ma si
ferma appena un passo prima che diventi “sensuale”.

Tra l’altro i suoi piedi esprimono una sorprendente leggerezza. E’ così che Caravaggio richiamo il tema che
gli era stato commissionato. La Madonna di Loreto si è appena “posata” sulla sua casa, come se fosse lei a
aver effettuato un trasferimento dalla Palestina all’Italia. Come se fosse lei la casa, la Santa Casa. Per
Caravaggio, la “casa di Dio” è una donna. Che può stare a Nazareth, ma anche a Roma, a piazza Navona o
addirittura nel quartiere dell’Ortaccio. E ovunque dove il pellegrino guarderà, Dio adesso “prenderà casa”.
Apparirà come dopo i tre giri rituali in ginocchio.

Nel nostro quadro la Madonna è l’unica figura con dei colori più saturi, meno appannati dal marrone
onnipresente. Sono i colori tradizionali dell’iconografia mariana: il rosso rappresenta l’umanità e la regalità,
il blu rappresenta il Cielo che l’ha “coperta con la Sua ombra”. E’ da notare il panno bianco con cui Maria
copre in parte il corpo del Bambino. E’ abbastanza evidente il richiamo al lenzuolo del sepolcro, secondo la
celebre associazione presente già nei Padri e poi in tutta l’iconografia antica e orientale. Allora la
dimensione sproporzionatamente grande del “bambino” può rivelarci un’ulteriore messaggio del quadro.
Sembra in effetti poco realistico che Maria riesca a sostenere il peso di un corpo così grande mantenendo
questa compostezza. Si tratta di un bambino “quasi adulto”. Un bambino la cui “manina”, sì, rassomiglia al
gesto goffo del bambino che stende la mano per toccare ciò che ha davanti, ma risente anche della
solennità di una mano benedicente del Kyrios, anzi, come abbiamo visto, di una mano “Creatrice”. Il suo
corpo nudo “lascia indietro” il lenzuolo e sembra allora protrarsi in avanti, quasi “in uscita” da questo
spazio buio e non meglio definito che l’osservatore può immaginare a sinistra dello stipite. Se quella casa è
una “casa di prostituzione” essa è allora una tomba da dove fuoriesce vincitore il Risorto, presentato dalle
mani della Chiesa, “santa meretrice”, in ogni Eucaristia. Su ogni altare, soglia della Sua Presenza. Questa
interpretazione corrisponde esattamente alla teologia già accennata sopra dei troni mariani della grande
tradizione iconografica (di Oriente ed Occidente), dove Maria, Madre di Dio e simbolo della Chiesa,
“presenta” il Salvatore ai fedeli. La troviamo in molte pale d’altare e in molte absidi dove in questo modo è
spiegato visibilmente ciò che accade nel mistero dell’Eucaristia.

Ancora una volta, il Caravaggio è stato capace di trasfigurare il nostro sguardo senza stravolgere la
tradizione, ma anzi, interpretandola secondo le sue venature più originarie. Non sapremo mai se gli
“schiamazzi” della folla durante l’inaugurazione del quadro di cui parla il Baglione nella sua biografia del
1642 furono un’espressione di ammirazione o di scandalo. Ma non è vietato pensare che tutte e due le
emozioni fossero presenti quel giorno e si esprimessero all’unisono. Forse Gesù di Nazareth ha sentito simili
“schiamazzi” ogni volta che trasfigurava lo sguardo dei suoi ascoltatori.

Jean-Paul Hernandez SJ

(Napoli 23/09/2022)

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