Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Ioannis Barbas
no. matricola 18-983-32
Nel primo capitolo del volume La Storia dell’Arte, Ernst Gombrich propone una ri essione sulle
origini dell’arte, riconducibile a quella che comunemente chiamiamo “arte primi va”. L’autore
descrive come per i popoli africani non esistesse una linea di demarcazione tra l’ogge o reale e la
propria ra gurazione. Le pi ure rupestri ra guran scene di caccia, ad esempio, rispondevano ad
una funzione precisa: l’animale dipinto non è una rappresentazione gura va, è l’animale stesso.
Ritraendolo nel momento in cui viene a accato, l’ar sta, ssandone l’immagine, si aspe a che la
bes a stessa possa soccombere al proprio potere. Ca urandone l’immagine, la ca ura nella realtà:
si tra a di una corrispondenza dire a, e potente. Le immagini, pi ure o sculture, non sono quindi
da considerare come fenomeno este co, ovvero come “qualcosa di bello da guardare”2; sono più
da intendere come “ogge da usare”3, dei cimeli poten usa in funzione magica. Come
so olineano Marker e Resnais, “non serve a un granché de nirli religiosi in un mondo dove tu o è
religione, o arte in un mondo dove tu o è arte”4. In un evoca vo montaggio di immagini e parole, i
regis sovrappongono la trama rugosa della corteccia di un’albero all’immagine di un tessuto di
corda, intrecciandole ulteriormente assieme ad una ripresa zenitale della Terra e alla pelle ruvida di
una mano nera. Ques mo vi presentano delle assonanze, e si intessono in un disegno
inestricabile, in un gioco di piani illusorio, come a suggerire l’esistenza di un principio di unità so o
le di erenze che dis nguono le singole componen . Si intuisce come la trama del legno imi la
delicatezza di un il tessuto, e come il tessuto prenda i propri mo vi dalla terra. La voce di Jean
Negroni interroga lo spe atore: “Provate a dis nguere qui la Terra dalla tela, la pelle nera dalla
Terra vista dall’alto, la scorza dell’albero da quella della statua. Qui l'uomo non è mai separato dal
mondo, la stessa forza nutre ogni bra”5.
3 Ibidem
7 Ibidem
ti
tt
tt
tt
tt
ti
ti
ti
tt
fi
fi
tt
tt
ti
ff
ti
fi
ti
ti
ti
ti
ti
ti
tti
ti
ffi
ti
ti
tt
fi
ti
tt
ti
ti
fi
ff
ti
tti
tt
ti
ti
ffi
ti
tt
ti
ti
tt
ti
Nonostante queste lontane parentele, l’Occidente non ha
mai scelto di posare a entamente il proprio sguardo
sull’arte africana, come so olineano Marker e Resnais nel
documentario. Al contrario, la colonizzazione africana ha
privato l’uomo nero della propria capacità innata di cogliere
l’essenziale nella scultura, riducendola ad un’arte di
ritra s ca, che ricerca la somiglianza e non la verità: “gli
abbiamo insegnato a non scolpire qualcosa che è più lontano
della punta del suo naso”8, recita la voce di Negroni. L’uomo
bianco è l’acquirente e, dato che occorre andare veloce,
“l’arte nera diventa ar gianato indigeno”9, pronta a
soddisfare la fascinazione super ciale della cultura
occidentale per tu o quello che è “eso co”: “L’arte negra.
La osserviamo come se questa trovasse la sua ragion
d’essere nel piacere che ci provoca. Le intenzioni del negro
cui da forma, le emozioni del negro che l’arte tra ene, tu o
questo ci sfugge. Perché tu o è scri o nel legno, noi prendiamo i loro pensieri per statue. Troviamo
del pi oresco là dove un membro della comunità nera scorge il volto preciso di una cultura”10.
Nel cortometraggio, le riprese sono lente: lo sguardo della cinepresa scivola sui vol esaltandone il
rilievo scultoreo, e la plas cità delle maschere, stagliate su un fondale scuro, si rivela con la luce.
Ma presto ci accorgiamo che ques vol neri sono mu , racchiudono un segreto che per
l’Occidente rimarrà sempre impenetrabile: “Possiedono bocche e non parlano. Hanno occhi e non ci
vedono”11. La cinepresa di Marker e Resnais si so erma e insiste su ques visi imperscrutabili, ci
obbliga a guardarli per quello che ci sembra essere un istante di troppo. In questo a mo si rivela
come una so le inquietudine che pervade l’immagine; è come se so ermarci troppo su ques visi
ci disturbasse, e crescesse in noi il desiderio di osservali dietro una teca di vetro, a debita distanza.
Il senso più profondo del lm è, forse, proprio la ri essione di Marker e Resnais sullo sguardo
dell’Occidente - e quindi del museo, che non ha mai realmente voluto sforzarsi di comprendere
l’arte nera, o considerarla come un’arte alla pari, degna dell’uomo bianco. Ques vol scolpi ci
disturbano perché non riusciamo a comprenderli, non possediamo gli strumen per capirli,
possiamo solo limitarci ad apprezzarne
l’a eggiamento esteriore, dimen candoci che
anche la bellezza è un’ossessione tu a
occidentale, e che ques ogge non hanno un
valore in sé, se non per quello che voglio
rappresentare, come ci ricorda Gombrich. Non
sono sta crea per essere apprezza in
quanto belli, anche se alcuni di ques
presentano indubbiamente un grado di
ra natezza e armonia sorprendente: “vi
penetra meno idolatria rispe o alle nostre
statue di san . Nessuno adora queste bambole
in essibili. La statua nera non è Dio. Essa,
9 Ibidem
10 Ibidem
11 Ibidem
fl
ffi
tt
tti
tt
ti
ti
tti
ti
ti
tt
ti
ti
ti
tt
tt
fi
tt
tti
tt
ti
tt
ti
fi
ti
ti
ti
tt
ti
tti
ff
fl
tt
ti
ff
ti
ti
ti
ti
tti
ti
ti
ti
semmai, è la preghiera”12, con nuano i regis . L’ogge o è quindi la preghiera, il tramite: ques
frammen scultorei sono magici, e la loro u lità si dissolve nel momento in cui sparisce lo sguardo
vivente che si posa su di essi. Ed è proprio lo sguardo che è stato smarrito, o meglio, ucciso
dall’Occidente che, a raverso poli che di colonizzazione dell’Africa e la commercializzazione
dell’arte nera, l’ha svuotata di signi cato.
È così che muoiono le statue, ed è così che una cultura rischia di perdere la propria memoria.
Marker e Resnais condannano il capitalismo, che degrada l’arte volgarizzandola, trasformandola in
un’arte cosmopolita: “nella terra dove ogni forma ha signi cato, dove la dolcezza di una curva era
dichiarazione di amore per il mondo, ci si ada a a un'arte da bazar. Ques gioielli da due soldi che
gli esploratori o rono ai selvaggi per persuaderli, il nero ce li res tuisce. Alla singolare bellezza
dell'arte nera si sos tuisce una bru ura generale, un’arte dove gli ogge diventano
cianfrusaglie”13. I regis descrivono come l’introduzione del denaro e delle logiche di mercato, in
ques paesi del dono e dello scambio, annien no la cultura dall’interno: la qualità dei manufa
cala, le danze religiose vengono trasformate in uno spe acolo, e gli indigeni niscono per vendere
ai colonizzatori la loro stessa iden tà. È cosi che muoiono le statue, perché la glori cazione este ca
dell’arte nera corrisponde alla propria morte: “compriamo al nero il suo lavoro e degradiamo il suo
lavoro, compriamo la sua arte degradiamo la sua arte”14, concludono con amarezza Resnais e
Marker.
Il cortometraggio è sopra u o un lm sullo
sguardo, sull’a o del guardare: noi
guardiamo le statue, ma il nostro sguardo
non è corrisposto. Tu avia, nei primi minu
della pellicola, i regis rianimano lo sguardo
di ques vol scolpi in un gioco di specchi:
la cinepresa si volta verso di noi, spe atori
del museo, che le osserviamo da dietro una
teca. I regis ci res tuiscono lo sguardo
vuoto di queste sculture, che vedono solo i
nostri vol , incuriosi o diver , che le
osserviamo per un a mo e poi passiamo
oltre. Queste riprese sono state e e uate
presso il Musée du Congo Belga, il Bri sh
Museum e lo stesso Musée de l’Homme. Il museo, l’is tuzione Occidentale per eccellenza, è il
luogo in cui ques frammen scultorei sono conserva , espos , cataloga ; ma cosa rappresenta il
museo per le opere d’arte stesse? Dovrebbe farle rivivere, o le congela nel tempo? A questa
domanda, Marker e Resnais rispondono con una frase inequivocabile: “la storia si è divorata ogni
cosa”15, e quando noi spariremo, “i nostri ogge niranno là dove noi mandiamo quelli dei neri:
nei musei” . Il museo diventa, in tal senso, la tomba dell’arte.
16
Il museo è un’is tuzione che nasce nell’O ocento e che, già nella propria de nizione, presenta
delle contraddizioni. Il termine conservare, ad esempio, è in con i o con il termine esporre:
un’ogge o che si vuole custodire, non andrebbe esposto. Il museo pubblico apre, espone, ma allo
13 Ibidem
14 Ibidem
16 Ibidem
ti
ti
tt
ti
ti
ti
ti
ff
ti
ti
tt
ti
ti
tt
tt
tti
ti
ti
ti
ti
tt
ti
tt
ti
ti
ti
fi
ti
fi
ti
ff
tt
tt
tt
ti
tt
ti
ti
tt
ti
ti
tti
fi
ti
tt
tt
ti
fi
ti
ti
fl
tt
ti
ti
fi
fi
fi
tti
ti
tti
ti
stesso tempo vuole chiudere, proteggere. Negli spazi museali, infa , gli ogge espos non
possono essere tocca o guarda da vicino, sono prote nelle teche: si tra a di una
contraddizione interna a questo stesso spazio. Inoltre, il museo è un organismo che me e in
conta o diverse temporalità; la fotogra a di Thomas Struth in tolata Art Ins tute of Chicago II,
rappresenta con e cacia questo fenomeno. Osserviamo dei visitatori che ci danno le spalle, e
capiamo come s ano osservano il celebre dipinto di Caillebo e, Rue de Paris, temps de pluie. Noi
siamo, a nostra volta, gli spe atori dei
visitatori. I personaggi che percorrono il
Boulevard nel dipinto, sembrano camminarci
incontro, entrando e nello spazio del museo,
e dunque nello spazio della fotogra a. Lo
sca o del fotografo congela la scena nel
tempo, rendendola eterna, permanente: la
fotogra a diventa quindi metafora del museo
stesso, che “ferma” il tempo, me endo in
conta o la temporalità dell’ar sta che ha
dipinto il quadro con quella dei visitatori che
lo osservano, e anche con la nostra che
osserviamo la scena. Il museo assume, in
questo caso, il ruolo stesso dell’arte di ssare
il tempo.
Il museo, dunque, svolge determinate funzioni misteriose e contraddi orie, tant’è che ancora oggi
ci si domanda se si tra del luogo più giusto per ospitare le opere d’arte. Quando un’opera d’arte
entra nel museo, che cosa diventa? Nel volume “I Passages”, Walter Benjamin stabilisce
un’analogia tra i musei e i passages, i luoghi della seduzione delle masse. In fondo, i musei si
a raversano una maniera non troppo dissimile dai passages: anche negli spazi esposi vi le opere
d’arte si o rono al passante, da dietro le vetrine, in maniera tale da “risvegliare in lui l'idea che una
parte debba toccarne anche a lui”17. La messa in relazione delle opere d’arte con le merci introduce
un interroga vo che ancora oggi non presenta una risposta univoca: il museo è tanto lontano
dall’assomigliare ad un grande magazzino, il supermercato dell’arte?
“Non amo eccessivamente i musei”18 scrive Paul Valéry, nell’introduzione al breve saggio “Il
problema dei musei”. L’autore immagina di a raversare uno spazio museale e, nel farlo, descrive la
fa ca che questa visita gli provoca. Il museo è de nito come la “casa dell’incoerenza”19, nella quale
le opere ammassate, “un tumulto di creature congelate”20, sono gelose l’una dell’altra, in quanto
“si contendono lo sguardo del passante che ridà loro la vita”21. Ne deriva che ciascuna opera, per
esistere, necessiterebbe la sparizione di tu e le altre. La cri ca che Valéry muove nei confron del
museo è quella di promuovere un modello os le, cao camente freddo che, nella sua precisa, ma
cieca, smania di collezionare, datare e catalogare, si è dimen cato della prima necessità che ene
in vita le singole opere: “si tra a di ogge rari, i cui autori avrebbero desiderato fossero unici.
Questo quadro, si dice a volte, uccide tu quelli intorno…”22. La compresenza opprimente delle
17W. Benjamin, Appun e materiali (1927-40), I “passages” di Parigi, ed. a cura di R. Tiedemann, Torino 2002 pp. 455-56
18 P. Valéry, Scri sull’arte, Il problema dei musei, 1934, traduzione di V. Lamarque, p. 112
19 Ivi, p. 113
20 P. Valéry, Scri sull’arte, Il problema dei musei, 1934, traduzione di V. Lamarque, p. 112
21 Ivi, p. 113
22 P. Valéry, Scri sull’arte, Il problema dei musei, 1934, traduzione di V. Lamarque, p. 113
tt
ti
tt
tt
tt
fi
ff
tti
tti
tti
ti
ti
ti
ffi
tti
ti
tt
ti
tt
tt
ti
fi
fi
fi
tti
tt
tti
tt
ti
fi
ti
ti
ti
tt
tti
ti
tt
tti
ti
tti
ti
tt
ti
tt
ti
ti
opere presenta, quindi, una un problema ca fondamentale, non solamente per la sopravvivenza
dell’arte stessa, ma anche per noi spe atori. L’autore sos ene che lo smarrimento che proviamo a
stare soli dinnanzi a così tanta arte dovrebbe farci fatalmente soccombere, e che la nostra difesa,
per evitare di venire completamente travol , è quella di diventare super ciali, “o meglio, ci
rendiamo erudi . In materia d'arte, l'erudizione è una sorta di scon a: chiarisce ciò che non è
a a o so le, approfondisce ciò che non è a a o essenziale. Sos tuisce le sue ipotesi alla
sensazione, la sua prodigiosa memoria all'esistenza della meraviglia; e aggiunge al museo
immenso una biblioteca illimitata”23. Valéry sembra suggerire come crogiolarsi nella propria
conoscenza non rappresen una vera forma di saggezza, la cui forza è quella di non discriminare le
forme di incertezza o di ingenuità.
È importante so olineare come, per l’autore, il problema dei musei si iden chi anche nella
sensazione che le opere d’arte esposte presen no un cara ere tormentato, inquieto. In e e , si
tra a spesso di creature mu late, strappate senza rispe o al proprio contesto originario, ed
esposte senza sensibilità: “Pi ura e scultura (…),
la loro madre è morta, la loro madre
archite ura. Finché era viva, donava loro spazio,
lavoro, regole. La libertà di errare non era
concessa. Avevano il loro posto, la loro luce ben
de nita, i loro sogge , i loro accordi. Finché
visse, sapevano quello che volevano…”24. È come
se l’autore ci stesse dicendo che hanno perso, in
un cer senso, la propria u lità. Torna allora in
mente la frase di Marker e Resnais, che ci
spiegano come muoiono le statue: “un ogge o
muore quando lo sguardo vivo che vi si è posato
sopra è ormai sparito”25.
Come possiamo ritrovare questo sguardo perduto? Gombrich suggerisce di cominciare cercando in
noi stessi una traccia primi va, qualcosa di profondamente sedimentato, non ancora intaccato dal
tempo. Se prendessimo una fotogra a ra gurante una persona a noi cara, e con un ago le
trapassassimo gli occhi, ci accorgeremmo di essere percossi da un lieve fas dio, oppure da una
vaga inquietudine, anche se ci troviamo nella piena consapevolezza di non star facendo del male
alla persona in ques one. “Sopravvive, chissà dove, l'assurda sensazione che ciò che vien fa o al
ritra o vien fa o alla persona che esso rappresenta”26, scrive l’autore. Se questa irrazionale
impressione è giunta no a noi, se anche noi siamo ancora capaci di avver re un eco di quella
an ca, stre a corrispondenza tra ogge o e ra gurazione, forse non è così impensabile cercare di
comprendere queste forme d’arte. “Non vi è discon nuità tra la civilizzazione africana e la nostra. I
vol dell'arte nera si sono stacca dallo stesso volto umano come la pelle del serpente”27, ci
ricordano Marker e Resnais. Tu avia, rimane sempre il sentore che qualche cosa ci sfugga.
23 Ivi, p. 114
24 Ivi, p. 114-115
W. Benjamin, Appun e materiali (1927-40), I “passages” di Parigi, ed. a cura di R. Tiedemann, Torino 2002
A. Resnais, C. Marker, Les Statues Meurent Aussi, 1953, so o tolato in italiano, reperibile su: h ps://www.youtube.com/watch?v=tJcEbW9j1N8
Iconogra a
A. Resnais, C. Marker, Les Statues Meurent Aussi, 1953
was independently wri en by me, that no other sources and aids than those speci ed have been
used and that the parts of the essay taken from other publica ons, including electronic media, in
wording or meaning, have been iden ed as borrowed, sta ng the source.
Ioannis Barbas
Mendrisio, 28.08.2023
ti
tt
ti
fi
ti
ti
ti
fi