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Per il Seminario ‘Creatività femminile senza frontiere’, Museo Hendrik Christian Andersen, Roma,

17/10/23

L’espressione ‘creatività femminile’ declinata nelle arti e in particolare nella pittura potrebbe avere
un significato addirittura assoluto se si pensa alla scoperta, avvenuta nel 2013, delle impronte
digitali femminili nelle figure di Lascaux. Donne, al lume delle torce, avrebbero dipinto quelle
pareti di roccia mentre i compagni maschi dovevano essere all’opera nelle selve intenti alla caccia.
Se l’arte della pittura porta con sé la sua origine, oscura e luminosa insieme, essa al tempo stesso
manifesta per la prima volta un modo di abitare la terra che non soggiace ai bisogni materiali del
vivente ma invoca ed evoca un’esigenza all’alterità e all’immedesimazione che cerca
un’espressione e la trova in quel riflesso del visibile che, come ombre e parvenze sui corpi lucidi,
sono le immagini. Il carattere saliente di qualcosa come la natura umana emerge allora proprio
come pittura dall’immemoriale della preistoria; da una condizione, evidentemente, non di mancanza
e indigenza, come sostiene il sofista Protagora del dialogo platonico omonimo raccontando il mito
di Prometeo e Epimeteo, ma da una condizione di pienezza, come farebbe presagire il mito narrato
da Aristofane nel Simposio, dove l’appagata compiutezza dei primi esseri umani è guardata con
invidiosa ammirazione anche dagli dei. Per questo Arnold Toynbee, certo sulla scorta di
Giambattista Vico, chiama homo poeticus - cui oggi potremmo benissimo dare una connotazione
prevalentemente femminile - l’essere umano originario.
Con questi precedenti, la pittura non avrebbe quindi alcun bisogno di parole, come peraltro già
sapeva Plinio quando ne descrive la densa panoramica raccontando di Apelle infastidito dalle parole
di Alessandro Magno se questi indugiava nel suo studio. E come sapeva Poussin quando dichiara di
far “professione di cose mute”. Il pittore francese, naturalizzato nelle antichità romane del XVII
secolo, faceva anche dipendere la riuscita della pittura dal consenso, accordato o meno, della dea
degli Inferi Proserpina.
Consenso a cosa? A seguire una propria sconosciuta via creativa nel sogno e nel mondo infero,
come avrebbe chiarito James Hillmann 1, in quel regno sotterraneo dove, come Enea, si possono
incontrare le figure che abitano la memoria, non necessariamente propria. Nulla di ripetitivo, di
scontato o di risaputo tuttavia, poiché ciascuno incontra gli affetti e le paure di cui è fatta la sua
storia ma secondo le strutture mitologiche - siano consapevoli o meno, riconosciute o misconosciute
– in cui essa si rende via via nominabile. Riconoscersi nell’inconoscibile accogliendone il mistero,
questo sembrerebbe allora il punto decisivo; scorgere nella dimensione mentale dell’unknown,
secondo la recente indicazione del filosofo cinese Yuk Hui 2, la chiave epistemologica che sono le
arti a custodire, anche nei confronti della sfera apparentemente dominante della civiltà tecnologica.
E’ precisamente accettando il limite creativo e ricreante di questa dimensione indispensabile di
‘non-conoscenza’, ben nota anche alla filosofia occidentale nella figura del Socrate platonico e del
Wittgenstein del Tractatus, che sarà possibile per la mente non smarrirsi nel cattivo infinito
dell’auto-superamento imposto dalla una volontà di potenza di stampo marziale e patriarcale. Così
come per le arti mantenersi vicine alle fonti della memoria da cui esse traggono i fili del pensiero e
le corde di salvataggio nel regno pervasivo ma labirintico del mondo infero, che non è che
l’immagine interna del mondo in cui viviamo. Di questi fili – ciascuno cerca il suo filo di Arianna -
è tessuta quella tela, incessantemente distrutta ma costantemente ripresa, con cui vestiamo le forme
quotidiane del tempo.
E’ da questo lavorio apparentemente senza costrutto, tipico della donna che, come osserva Carla
Lonzi, “ha avuto l’esperienza di vedere ogni giorno distrutto quello che faceva” 3 che il polline
dell’invisibile – come scriveva Rilke cento e uno anni fa nella lettera a Vitold von Hulevicz – si
lascerà raccogliere. Certo, allora si tratterà di scegliere se continuare a seguire il modello di coloro
che come i ragni modernisti preferiscono tessere oscuramente una allucinata ragnatela da quel che
1
James Hillmann, Il sogno e il mondo infero, Edizioni di Comunità, Milano, 1984.
2
Yuk Hui, Art and Cosmotechnics, University of Minnesota Press, 2021, pp.42 sgg.
3
Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Milano, 1974, p.19.
secernono, oppure ri-diventare api antichissime, capaci di trasformare l’incanto del visibile
nell’invisibile trama d’oro della memoria.

Monica Ferrando

Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per
accumularlo nel grande alveare d’oro dell’Invisibile.

Rainer Maria Rilke – Lettera a Vitold von Hulevicz

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