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Carabellese

Carabellese parte riflettendo su Cartesio, apprezzandone il “penso dunque sono”, ma soprattutto apprezza
l’innegabilità del pensare. Io non posso negare il pensare, perché se io nego il pensare, lo nego pensando.
Ecco perché non può essere negato. Di quel “penso dunque sono” lui sottolinea l’innegabilità del pensare.
Fa però una critica a Cartesio: sembra che quel “sum” sia una conseguenza al pensare. Non è d’accordo che
sia una conseguenza. Quel “sum” è l’essenza del pensare, non ne è una conseguenza. È l’esplicitazione
dell’essenza del pensare. Lui unifica quei due termini che spesso vengono contrapposti oppure l’uno risolto
nell’altro. Contrapposti per esempio nel realismo: coscienza pensante da una parte e oggetto dall’altra. Res
cogita e res extensa. Cosa fa invece l’idealismo? Presume di annullare l’essere nel pensare, risolve l’essere
nel pensare. Resta sempre uno spettro dell’essere. Carabellese non sopporta quell’essere come uno
spettro, quell’essere identico al nulla. In Gentile lo spettro dell’essere è quella dialettica tra luogo concreto
e astratto. Quando si esce dal pensare in atto ciò che viene pensato mi si mostra come oggetto, come non
pensato. Resta questo tentativo di risolvere l’essere nel pensare, come nell’idealismo.

Carabellese dice invece che il pensare, se vuol essere tale, deve essere essente, deve essere. La sua essenza
è l’essere. Non vuol dire riassorbire l’essere, ma identificarsi con l’essere. Quell’essere che si contrappone
al pensare, privo di coscienza, va ad identificarsi col nulla. Per lui l’essenza del pensare è l’essere, e
l’essenza dell’essere è il pensare. Non annulla l’uno o l’altro, li “salva” entrambi. L’approdo, nella Coscienza
Morale, è all’essere di coscienza, al pensare che è coscienza. È il superamento della distinzione dell’essere
da una parte e del pensare o della coscienza da un’altra. Ciò che veramente è, è l’essere coscienziale. Non si
identifica con il soggetto che lascia fuori l’oggetto. La coscienza viene solitamente identificata solo con la
soggettività, e l’essere è ciò che si contrappone in qualche modo.

Con il suo ragionamento la coscienza non è soltanto soggetto. È anche questo. La coscienza è l’essere
coscienziale, che ha una sua vita intima. È più, va oltre il soggetto assoluto. Questo essere coscienziale è
manifestativo. Descrive la manifestazione. Un essere che restasse oscuro sarebbe un essere che tende al
nulla. L’essere deve manifestarsi, non resta oscuro. Questa manifestatività implica che ci sia qualcosa, che
lui chiama “oggetto unico”, che si manifesta a molti soggetti. Questo sé stesso sono continui atti di sentire,
volere, conoscere l’oggetto. La vita intima della coscienza non è data soltanto dai soggetti, multi-soggetti o
soggetto unico, ma dalla continua attività di tutti i soggetti. Cerca di superare la scissione soggetto-oggetto.
Per Kant noi non conosciamo l’oggetto, che è inconoscibile, ma il fenomeno, ciò che mi sta di fronte. Lo
possiamo pensare, non è contraddittorio pensarlo per via morale, ma non possiamo conoscerlo. C’è un
residuo di Idealismo, perché l’oggetto io non lo conosco. Carabellese vuole superare questa scissione.
L’essere coscienziale non è solo soggetto. È dato dalla sintesi, dalla continua attività di sentire, volere,
conoscere da parte dei multi-soggetti, l’unico oggetto.

L’oggetto per Carabellese non è mai esterno. L’essere coscienziale è la sintesi attiva dei molti soggetti
senzienti, volenti. Da questa sintesi deriva l’universo. Anche l’oggetto è coscienza. Lui pone in discussione la
riduzione della coscienza a soltanto soggettività. Se l’oggetto fosse esterno alla coscienza, essenzialmente
diverso, sarebbe impossibile conoscerlo, come dice Kant. Conoscibile solo da una mente superiore.

Anche l’oggetto deve essere spirituale, coscienziale. Questa è per lui la vera forma dell’Idealismo. Lui non si
contrappone all’Idealismo, dice solo che non ha superato fino in fondo la contrapposizione soggetto-
oggetto. Se qualcosa mi sta di fronte come qualitativamente diversa, io quella cosa non la conoscerò mai.
Lui cerca di superare questo, riconoscendo l’essere come essenza del pensare e viceversa. Parte dalla
messa in discussione della scissione essere-coscienza. L’Idealismo cerca di superare questa scissione, ma
ritrova sempre lo spettro: come negatività, come non Io…

Cosa è necessario per darsi dell’essere coscienziale? Qui comincia ad avere un atteggiamento Kantiano. In
Kant trascendentale significa: “riflessione sul conoscere”. Lui dice che sta riflettendo sul come noi
conosciamo, sulle condizioni di possibilità. Un po’ lo faceva anche Locke, ma era più una fisiologia del
conoscere. Kant si interroga sulle condizioni del conoscere. Carabellese prende l’impostazione kantiana e si
interroga sulle condizioni di possibilità non solo del conoscere, ma riflette sulle condizioni per cui si dà
l’essere di coscienza, riflessione ontologica. Si chiede quali sono le condizioni della concretezza. Perché lui si
chiede cos’è l’essere? È la concretezza. E cos’è la concretezza? La concretezza è il darsi dell’esperienza (nel
primo periodo, prima edizione della “Critica del concreto”). La concretezza è l’esperienza. In questo
continuo voler sentire, conoscere dell’oggetto, cosa ci dà il volere? Io voglio qualcosa, un fine, che è bene in
sé stesso. Voglio qualcosa che voglio come fine, come futuro, altrimenti sarebbe atto, presente. Non fine.
Struttura temporale della manifestatività. Il fine poi si realizza e diventa atto. Ciò che è in atto noi lo
sentiamo, perché la caratteristica dell’atto è la presenza. Non è passato ancora. Quando è passato, allora è
un fatto. Il valore che lo illustra è la verità. Il valore predominante è la bellezza. Ciò che voglio è il fine, ciò
che ritengo sia bene. Questa continua attività di volere, sentire e conoscere, che viene dal futuro, si realizza
e passa, quest’attività è quella per cui continuamente è in atto l’universo. Ma cos’è l’essere di coscienza?
Come si realizza questo rapporto tra i molti soggetti e ciò che vale universalmente? Si realizza nel volere,
nel sentire e nel conoscere continuamente l’oggetto. Il continuo atto di farsi, l’universo, l’esperienza
coincide con questo. La struttura del manifestarsi è un continuo passare, che non è incolore come nel
tempo cronologico, come nella scienza, ma è qualcosa di voluto, visto come bene (almeno per noi). Il
presente ha il valore della bellezza, o almeno, è il valore a cui si tende al massimo. E ciò che è passato, il
fatto, è ciò attraverso cui si può parlare della verità. Il futuro è il fine, ha dignità ontologica, non è che
perché ancora non è atto allora non è nulla. Ha una consistenza ontologica. Così come presente e passato.
Atto nel presente e fatto nel passato. La concretezza invece è l’esperienza, che è il darsi dell’universo. In
questa prima formulazione, questo è il percorso di Carabellese. Poi si amplierà e preciserà nella “Critica del
Concreto”, e poi ci sarà una modifica. L’essere da cui si parte è la concretezza, si parla dell’essere
coscienziale che non è solo soggetto, ma la sintesi continua dei molti soggetti insieme all’oggetto unico, che
non è esterno alla coscienza.

I soggetti non sono dei fantasmi, dei semplici mezzi. Hanno la loro consistenza ontologica. Non sono dei
meri mezzi del soggetto assoluto, che qui viene anzi criticato, perché il solo, il soggetto assoluto, come tale
non può neanche pensarsi, perché pensarsi vorrebbe dire quanto meno duplicarsi. Il soggetto assoluto non
può dire nemmeno io, perché dire io significa distinguersi dall’altro. Dire io esige il tu. Ciascuna cosa, ente,
soggetto, per essere qualcosa deve distinguersi da tutto ciò che non è, deve per forza rapportarsi all’altro,
non deve essere altro che sé stesso. Pensare concretamente a qualcosa, per pensare a qualcosa veramente
non basta una tautologia (Hegel). L’autentico modo di dire l’identità del sé è dire “A non è non A”. Il
soggetto assoluto non si pensa, perché pensandosi si moltiplica. Non può, come tale, dirsi “io”. Quel
soggetto assoluto è la perdita della soggettività. L’assolutizzazione della soggettività è la perdita della
soggettività. Da qui il recupero dei molti soggetti non come mezzi. Della coscienza fa quindi parte la
molteplicità soggettiva. È coscienziale anche l’oggetto perché, se fosse esterno alla coscienza, l’oggetto
sarebbe inconoscibile. Da questo punto di vista, quindi, critica sia Gentile sia Benedetto Croce. Nello stesso
tempo l’attività dei molti soggetti è volere, sentire, intendere. Croce invece separata nettamente l’attività
teoretica da quella pratica. Carabellese critica questa impostazione. Ciascuna attività per Carabellese in sé
stessa contiene necessariamente un momento teoretico e un momento pratico. Anche nell’intuizione, nella
conoscenza attuale c’è il momento pratico e quello teoretico. Non è mai la singola attività puntuale per cui
io intuisco e basta, atto puntuale e basta. C’è sempre anche insieme un momento teorico, una conoscenza
che io ho. Così pure nel volere. Quando voglio qualcosa, ciò che voglio è singolare e puntuale, particolare.
Però quel particolare che vorrei fare ha anche un momento teoretico, per cui io so quello che sto facendo,
so che quella azione avrà delle conseguenze. Ogni azione concreta ha anche un momento teoretico. Sia
conoscere, che volere che intuire. Quando vado a fare un’azione che ritengo morale, in qualche modo
inquadro sempre quella singola azione in una serie di valori che poi cerco di realizzare puntualmente. Non
posso realizzare il bene in assoluto, è irrealizzabile. Cerco di realizzare la singola azione buona. La mia
azione è sempre singola, ma quell’agire va ad inserirsi in una mia consapevolezza teorica, non è solo
un’azione singola. Croce divide attività conoscitiva ed attività estetica, quella volta all’utile e quella volta
all’agire morale. Carabellese invece che questi due momenti in ogni attività del soggetto. Il mio volere ha la
dimensione di attività singola ma anche la parte teorica. Uguale nel conoscere Conosco il atto singolo del
passato, ma quel qualcosa vado anche a classificarlo, e quindi faccio riferimento alle conoscenze che ho.
Non si può fare un’azione prescindendo dalle proprie consapevolezze. Per lui l’attività spirituale umana si
dispiega tra queste tre forme: sentire, volere e conoscere. Questa è la differenza fondamentale tra Croce e
Carabellese.

La questione morale come viene vissuta in Carabellese?

Abbiamo visto che tutto ciò che è, è essere di coscienza, che si realizza nel volere, sentire, intendere.
Guardiamo il volere, che è volere un fine, è realizzazione. Il fine è il futuro, che poi si realizzerà, e il valore
che illustra, che mi qualifica il fine è quello del bene. Questa struttura resterà, con delle modifiche. Il fine è
fine sia l’agire volto all’utile, ma anche quello che è un agire morale. La caratteristica è che l’agire concreto
è sempre un’azione individuale, singola. Ma il Carabellese c’è davvero una differenza, distinzione tra l’agire
morale è quello volto all’utile? Quando l’azione va a realizzarsi, di per sé diventa atto, è il bene che si è
realizzato. Non c’è di per sé qualcosa che vada a qualificare l’azione morale in quanto tale e quella volta
all’utile. L’azione è azione, punto. Cosa caratterizza un’azione in quanto tale? Il volere qualcosa. Quel
qualcosa è il fine. Questa è la struttura. La conseguenza è che qualsiasi cosa alla fine che si realizzi è un atto.

Carabellese critica Kant perché sembra distinguere una volontà “buona”, che ha la consapevolezza della
legge morale da una volontà volta all’utile. È razionale se è universalizzabile, quindi valida per tutti (per
Kant). Imperativo assoluto e ipotetico. Carabellese contesta questa distinzione, perché la volontà è unica.
Per Kant c’è una volontà che è in grado di decidersi razionalmente, ma anche quella che agisce secondo
l’imperativo ipotetico, volto all’utile. Ma Carabellese lo contesta, perché guarda alla struttura come tale
dell’agire. Agire, fine, quindi doveroso, obbligatorio. Se non si realizza, ancora non era determinato in tutti i
suoi elementi. Qual è la conseguenza?

Lettura (Pag. 137 saggio introduttivo)

Carabellese è vicino a Mazzini politicamente.

“La doverosa costrizione che spinge il martire al sacrificio regge anche l’astuto commerciante negli affari”

Nella realizzazione di un fine è tanto il godimento, ma anche la doverosità che ha il martire per la
realizzazione di una grande causa e quella di chi è volto all’utile.

L’essere di coscienza è l’esperienza dell’universo in divenire. Lui viene da una formazione positivistica.
Quindi mette in discussione il materialismo nel positivismo, però questa eredità su ciò che è l’universo per
ora gli resta. Universo letto poi in chiave panteistica. C’è un pensare che ritorna, che ricerca il divino, ma il
primo passaggio è la divinazione dell’universo. In un altro passo dice che, come l’universo ha le sue leggi,
allo stesso modo le ha il mondo umano. Quindi anche la realizzazione del fine in realtà è vista come obbligo,
l’essere umano vuole qualcosa, non si pone il problema del libero arbitrio, ma una volta che ha deciso
diventa un obbligo. Lui vede l’universo retto da leggi. È l’universo del positivismo. Nessuno pensa più che
non sia retto da leggi. Anche noi, nelle nostre azioni, passiamo da ciò che riteniamo fine, non c’è il
coscienzialismo per cui la mia azione è sospesa fino in fondo, per cui posso “cambiare il corso”. Non c’è
questa libertà radicale. Qui, quando individuiamo qualcosa, quello diventa obbligatorio e io cerco di
perseguirlo.

Differenza con Sartre:


Nel primo Sartre l’essere umano è libertà assoluta, tanto che l’altro è demonico perché mi costituisce un
limite. L’altro non solo è demonio perché il mio limite, ma nullifica tutta la mia tenzione di libertà. La mia
libertà assoluta va a scontrarsi con l’altro. Posso partire dall’illusione della libertà assoluta, ma poi devo fare
i conti con tutto il resto. Gli altri enti, siccome non riesco a controllarli, mi nullificano.

Carabellese non si pone questa serie di questioni. Quando volgiamo qualcosa, e non possiamo non volere,
lo vediamo come fine. Ua volta postosi il fine, il fine diventa obbligatorio, perché uno si dedica, si mette
tutto nel fine. La realizzazione del fine mi dà la gioia. E la gioia del martire è uguale a quella del
commerciante. Non pone una differenza qualitativa tra i fini. Non differenzia un agire bene e un agire male.

Carabellese delinea la struttura dell’agire in generale. Il volere insieme, sentire insieme… dei molti chi,
porta al rispetto dell’altro. È questa molteplicità che mi mette dei paletti. Per Carabellese se uno mette a
rischio l’altro, si mette a rischio quella molteplicità. Da questa molteplicità deriva il rispetto per l’altro. Il
martire se decide solo per la sua vita ok, ma se mette a repentaglio altre persone il giudizio diventa
negativo, perché si perde quella molteplicità.

Nel ’46 scrive un’opera “L’idea politica d’Italia”. Era il momento di ripensare, ricostruire moralmente l’Italia,
e questo testo va a rispondere a ciò. Quale sarà adesso il suo compito nella storia? Sarà quello di portare la
pace. Per Carabellese l’umanità non è identificata con Dio (Mazzini), l’oggetto puro è Dio.

Carabellese ha più di Croce il concetto ontologico di rispetto dei molti soggetti. Però lui riconosce che l’agire
è tale, al di là di quello morale. È l’agire in quanto tale, prima ancora di qualsiasi qualificazione.

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