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La libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque reciprocamente connesse.

Qui io non
domando se esse siano anche diverse di fatto o se una legge incondizionata non sia piuttosto la
semplice coscienza di sé di una ragion pura pratica, e se questa sia identica al concetto positivo
della libertà; ma domando dove ha inizio la nostra conoscenza dell’incondizionato pratico, se dalla
libertà o dalla legge pratica. Non è possibile che prenda inizio dalla libertà, di cui non possiamo né
avere coscienza immediata […], né conoscenza mediata dall’esperienza, perché l’esperienza non ci
dà che la legge dei fenomeni, e con ciò il meccanismo della natura, che è l’opposto puro e semplice
della libertà. È quindi la legge morale della quale diventiamo consci (appena formuliamo le
massime della volontà), ciò che ci si offre per il primo e che ci conduce direttamente al concetto
della libertà, in quanto la ragione presenta quella legge come un motivo determinante che non può
essere sopraffatto dalle condizioni empiriche perché del tutto indipendente da esse.

Secondo il mio punto di vista, che dovrà giustificarsi mediante l’esposizione del sistema stesso,
tutto dipende dal concepire ed esprimere il vero non tanto come sostanza [“realtà oggettiva”], bensì
propriamente come soggetto. Al tempo stesso va notato che la sostanzialità include in sé tanto
l’universale, cioè l’immediatezza del sapere stesso, quanto anche quell’immediatezza che è essere o
immediatezza per il sapere.

La sostanza vivente costituisce l’essere che è veramente soggetto, che è veramente reale, solo nella
misura in cui essa è il movimento del porre-se-stessa, solo in quanto è la mediazione tra il divenire-
altro-da-sé e se stessa. In quanto soggetto, la sostanza è la negatività pura e semplice, e proprio per
questo è lo sdoppiamento del semplice, è la duplicazione opponente che, a sua volta, costituisce la
negazione di questa diversità indifferente e della sua opposizione: solo questa uguaglianza
restaurantesi, solo questa riflessione entro se stesso nell’essere-altro – non un’unità originaria in
quanto tale, né immediata in quanto tale – è il vero. Il vero è il divenire se stesso, è il circolo che
presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine, e che è reale solo mediante l’attuazione
e la propria fine.

Il vero è il Tutto. Il Tutto, però, è soltanto l’essenza che si compie mediante il suo sviluppo.
Bisogna dire dell’assoluto che esso è essenzialmente un risultato, che esso solo alla fine è ciò che è
in verità. E appunto in ciò consiste la sua natura: nell’essere realtà, soggetto, divenire-se-stesso.

Il vero è reale solo come sistema, la sostanza è essenzialmente soggetto: tutto ciò è espresso nella
rappresentazione che enuncia l’assoluto come spirito – concetto eminentissimo che appartiene
all’epoca moderna e alla sua religione. Solo lo spirituale è il reale: esso è l’essenza, cioè l’essente-
in-sé; esso è ciò che si rapporta ad altro, il determinato, è l’essere-altro e l’essere-per-sé – ed è il
permanere-entro-sé in tale determinatezza, cioè nel suo essere-fuori-di-sé -: solo ciò che è spirituale
è in sé e per sé.

La sostanza, dal canto suo, viene considerata in sé e nel suo movimento nella misura in cui e
oggetto della coscienza. La coscienza sa e comprende unicamente ciò di cui fa esperienza, e
nell’esperienza essa incontra, appunto, soltanto la sostanza spirituale come oggetto del proprio Sé.
Se lo Spirito di- viene oggetto, però, ciò avviene perché esso e il movimento (a) del divenire un
altro da sé, cioè del divenire oggetto del proprio Sé, e (b) del rimuovere questo essere-altro. Ciò che
si chiama esperienza è proprio questo movimento in cui l’immediato, il non esperito, cioè l’astratto
- appartenga poi all’essere sensibile o alla semplicità soltanto pensata -, diviene innanzitutto
estraneo a se stesso e poi da questa estraniazione ritorna a sé: solo nel momento del ritorno a sé
l’immediato, divenuto anche proprietà della coscienza, e presentato ed esposto nella sua realtà e
verità.
La disuguaglianza, che ha luogo nella coscienza, tra l’Io e la sostanza che ne è l’oggetto, è
propriamente la loro differenza, il negativo in generale. Il negativo può essere considerato come
l’insufficienza di tutt’e due, ma e comunque la loro anima, ciò che li muove entrambi. Per questa
ragione alcuni antichi concepirono il vuoto come motore, intendendo con ciò appunto il negativo,
anche se non giunsero a determinare il negativo stesso come il Sé. Ora, se questo negativo appare in
primo luogo come disuguaglianza dell’Io e dell’oggetto, esso e altrettanto disuguaglianza della
sostanza con se stessa. Ciò che sembra accadere fuori di essa, ed essere persino un’attività diretta
contro di essa, è infatti il suo proprio agire, ed e in tal modo che la sostanza mostra di essere
essenzialmente soggetto. Quando poi la sostanza si mostra compiutamente come soggetto, allora lo
Spirito ha reso la propria esistenza uguale alia propria essenza; allora lo Spirito sa di essere oggetto
di se stesso proprio in quanto Spirito, e viene così oltrepassato l’elemento astratto
dell’immediatezza e della separazione tra il sapere e la verità.

La coscienza, infatti, differenzia da sé qualcosa verso cui, nel contempo, si rapporta; in altri termini:
questo qualcosa è qualcosa per la coscienza. Ora, il sapere è appunto il lato determinato di questo
rapporto, il carattere determinato dell’essere di qualcosa per una coscienza. Da questo essere per un
altro, pero, noi distinguiamo l’essere-in-sé: il qualcosa cui il sapere si rapporta, infatti, viene a sua
volta distinto dal sapere stesso, e viene posto così come essente anche al di fuori di questo rapporto.

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