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N.

17

Collana diretta da
Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio
GEORG SIMMEL

FRAMMENTO POSTUMO
SULL’AMORE
Titolo originale:
G. Simmel, Fragment über die Liebe, (1921-22 pubblicato postumo).

© 2011 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


Collana: Minima/Volti n. 17
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FRAMMENTO POSTUMO SULL'AMORE

II primo conflitto e la prima unificazione sorgono per la coscienza umana


fra l’io e il tu. La priorità temporale di questa relazione ebbe come
conseguenza che in seguito essa fosse considerata per così dire la materia
assoluta alla quale in ultima istanza si riferiscono le nostre decisioni e
valutazioni, il diritto e il torto della nostra prassi e le richieste a noi rivolte:
nell’alternativa tra egoismo e altruismo, per quanto essi si diano in
innumerevoli modificazioni e travestimenti, con innumerevoli mezzi e
conseguenze, finì con l’esaurirsi ogni possibile intenzione del nostro
comportamento. Anche quando quest’ultimo fu subordinato a un ideale
oggettivo, da Platone e Tommaso d’Aquino, da Kant e dal socialismo, come
principio antitetico interno venne assunto più o meno esplicitamente
l’egoismo, mentre, se non quella astratta, almeno l’esigenza immediata e
concreta aveva sempre come contenuto un tu, fosse esso personale o
sovraindividuale. Ora, prescindendo dal fatto che il terreno eudemonistico
nel quale, come terreno che fornisce i contenuti, si compie secondo
l’opinione generale la decisione fra egoismo e altruismo, non comprende
affatto tutte le dimensioni alle quali possono estendersi questi concetti,
neppure l’accezione più ampia ad essi attribuibile è in grado di esprimere in
modo adeguato le nostre effettive motivazioni ultime. Accenniamo soltanto
a un argomento che esula dal nostro attuale percorso: innumerevoli volte la
nostra volontà tende a formazioni oggettive dell’essere, a far sì che una
condizione, un evento, una qualità delle cose semplicemente esista, senza
minimamente interrogarsi sugli effetti che l’attuazione di tale volere avrà
per un io o per un tu. Questo volere puramente oggettivo, di là da ogni io e
da ogni tu e dal loro dualismo inconciliato o conciliato, mi pare un dato di
fatto innegabile e addirittura specificamente umano. E come esso si pone in
un certo senso sopra, così un altro dato di fatto si trova sotto quel dualismo:
il comportamento meramente istintivo. Definendo egoistico che qualcuno
segua senza remore i propri istinti, eleviamo già il suo comportamento a
una sfera diversa da quella che gli è propria, a una sfera nella quale
l’altruismo può avanzare le sue pretese; poiché naturalmente esso non è in
grado di soddisfarle, appare egoistico, mentre in sé lo è tanto poco quanto la
crescita di una pianta o la caduta di una pietra, le quali seguono entrambe le
loro leggi assolutamente peculiari. In senso proprio, egoismo significa
sempre un orientamento ideologico (verso una determinata reazione
dell’io), e per definire egoistica un’azione dobbiamo tacitamente
presupporre un simile orientamento, al quale tuttavia l’istinto si sottrae per
la sua stessa essenza; ciò che esso ha di mira può infatti essere senz’altro il
bene di un tu, la distruzione dell’io o qualcosa di completamente privo di
senso dal punto di vista teleologico. Che gli istinti siano sempre e soltanto
forme di adattamento utili al soggetto non è vero neppure dal punto di vista
fisiologico, non parliamo poi di quello psicologico.
Se in questi semplici casi si è riconosciuta la possibile indipendenza del
nostro agire da quell’alternativa, si riuscirà anche a immedesimarsi nella
situazione più complicata, ma che perde non meno delle precedenti la sua
rigidezza, nella quale l’agire avviene «per amore». Se si definisce
altruistico nel senso puro del termine l’agire per il massimo bene di una
persona che ci è indifferente, antipatica o addirittura nemica, allora non può
dirsi tale, propriamente, l’agire per amore: l’istinto e la soddisfazione
personale sono troppo strettamente intrecciati con esso perché si possa
porre il suo telos semplicemente nel tu. Ma appunto per questo non gli si
adatta neppure il concetto di egoismo; anche prescindendo da tutto il
disinteresse che si manifesta nel contenuto materiale di tale agire, il
concetto di egoismo non renderebbe giustizia alla sua nobiltà e al suo
valore. E infine, nella sua scaturigine più profonda esso è qualcosa di
troppo unitario e indiviso per poter essere considerato una sorta di
mescolanza meccanica delle due motivazioni. Non rimane dunque altro che
assumere la motivazione «per amore» come peculiare e primaria, non
sfiorata da quella consueta riduzione. Che la richiesta di quest’ultima sia
qui posta indebitamente, risulta già dal fatto che una psicologia
razionalistica può, apparentemente con lo stesso diritto, tanto esaltare
l’agire per amore come altruistico quanto degradarlo come
fondamentalmente egoistico. Da ciò si deduce che il rapporto fra scopo e
istinto è qui del tutto particolare. Se io esaudisco i desideri di una persona
perché li considero giusti e ragionevoli, il mio scopo ultimo è mettere in
pratica tale giustizia, il mio solo movente decisivo è l’attuazione di tale
scopo. Ma se faccio la stessa cosa perché amo quella persona, la condizione
da creare per essa rimane sì, dal punto di vista fenomenico, il mio scopo
ultimo, però il mio motivo autentico non è questo, bensì il mio amore, ed è
solo la forza istintiva di esso che, per così dire del tutto da sé, si trasforma
in quel telos. In tutti gli altri casi il nostro agire, per quanto la sua
motivazione possa avere un valore di segno positivo, è separato dal suo
motivo ultimo da una certa distanza che l’amore non conosce. Questa infatti
è la differenza decisiva: che l’amore per una persona come motivo per così
dire generale di una determinata azione si lega con il proprio oggetto in
modo più solidale, lo impregna con maggiore immediatezza di quanto non
avvenga per ogni altra motivazione (eccettuato forse l’odio). In un certo
senso si parte più da lontano quando si fa del bene a qualcuno in nome della
morale o per mancanza di una resistenza interiore, per motivi religiosi o per
solidarietà sociale, che quando lo si fa per amore. Qui il carattere della
buona azione, con la sua tensione fra l’io e il tu, non compare affatto con la
stessa nettezza, perché l’io si è proiettato verso il tu superando quello iato
con i propri sentimenti, perché la propria volontà di vivere scorre verso
un’adesione all’altro che abolisce ogni distanza, un’adesione che non ha
bisogno di un ponte, il quale separa nel momento stesso in cui unisce. In
questo caso tuttavia il movente non è l’unità metafisica di tutti gli esseri in
generale, dalla quale per esempio Schopenhauer fa derivare la buona azione
e il sacrificio. Proprio questo è invece il miracolo dell’amore, che esso non
elimina l’esser per sé dell’io né quello del tu, anzi, ne fa il presupposto in
base al quale si compie l’eliminazione della distanza, del ripiegarsi
egoistico della volontà di vivere su se stessa. È qualcosa di totalmente
irrazionale, che si sottrae alle categorie della logica valide altrove. Il fatto
che Schopenhauer voglia spiegare questa eliminazione con l’unità
trascendente degli esseri è un atteggiamento razionalistico nel quale si
rivela innanzitutto l’incomprensione dell’essenza dell’amore da parte di
Schopenhauer, incomprensione che in seguito illustreremo ulteriormente.
La considerazione a posteriori in base a quelle categorie può certamente
scomporre in elementi l’agire per amore riducendolo alla correlazione di
egoismo e altruismo o di istinto e teleologia. Ma in questo modo la sua
intima, autentica natura viene misconosciuta allo stesso modo che se si
degrada a semplice «istinto sessuale» il desiderio dell’amante di unirsi
fisicamente all’amato.
Movendo dall’altra dimensione, collegando in maniera più stretta
l’aspetto autenticamente istintivo con quello teleologico, si è ricondotto
l’amore nel suo senso specificamente erotico e il comportamento ad esso
corrispondente al confluire delle due fonti della sensualità e del sentimento.
Ma anche un simile dualismo degli elementi non riesce a cogliere l’unità
decisiva: quest’ultima rimane evidentemente una mera parola, se si sa dire
soltanto che sensibilità e sentimento hanno costituito appunto nell’amore
un’unità. Occorrerebbe infatti indicare la forza che riunisce in sé o l’uno
all’altro questi due elementi psicologici così eterogenei; ma allora l’essenza
dell’amore risiederebbe in tale forza che si distingue da entrambi gli
elementi, e non sarebbe composta della giustapposizione meccanica di una
parte dell’uno e di una dell’altro: l’errore fondamentale di tutti i tentativi di
questo genere è appunto il loro carattere meccanicistico, che vuole mettere
insieme con elementi preesistenti ciò che sorge dalla vita come qualcosa di
intimamente unitario. Perciò sarebbe molto più giusto supporre che
l’attività dei sensi e quella del sentimento nascano come due effetti di
questa unità sulla superficie della coscienza, o dalla collisione di questa
unità con la sfera della natura e del dato: quasi scomposizioni prismatiche
che la nostra organizzazione interiore compie sulla realtà in sé unitaria
dell’eros. Come infatti al nostro intelletto è negata innumerevoli volte la
comprensione immediata di un’unità, così che esso deve scomporla in una
pluralità di elementi a partire da un presentimento, da un’esigenza o da
un’intuizione, e può riottenerla soltanto come «unità sintetica» mediante la
loro riunione, così anche la realtà del nostro sentimento appare spesso
qualcosa di unitario, di intimamente indiviso, che tuttavia, appena emerge
alla superficie della nostra vita in ogni senso pratica, estesa in molteplici
dimensioni, si scompone in una pluralità di singoli sentimenti. Se però ci
atteniamo alla sua unità, possiamo ravvisarla in un cooperare, in un
completarsi a vicenda, in un concrescere di questi elementi differenziati.
Qui non si tratta di quella scomposizione conforme all’intelletto (benché
possa trattarsi anche di ciò), ma dello sviluppo del sentimento come
esperienza vissuta. La molteplicità dei sentimenti che si schiudono dinanzi
al dio in cui si crede, le sensazioni spesso divergenti con le quali reagiamo a
un’opera d’arte, il particolare «miscuglio» di sentimenti che spesso suscita
in noi l’incontro con un individuo, l’intrecciarsi e il confondersi dei moti
dell’animo generati da una valutazione complessiva del proprio io, tutti
questi vorrei considerarli già fenomeni secondari, scissioni di un
atteggiamento, di un orientamento soggettivo in sé assolutamente unitario.
In ultima analisi,– è una mera questione terminologica che la realtà
interiore, la quale in questo fenomeno del sentimento è sempre una, un
destino, un essere colpito, un atto, sia detta già essa stessa sentimento o sia
assunta come un essere e un agire indefinibile e subconscio. A me sembra
che la prima soluzione sia legittima, non vedo perché per la scissione i cui
prodotti ci sono dati come sentimenti si dovrebbe presupporre un processo
fondamentale genericamente diverso da essi. Un fenomeno di questo tipo
sembra verificarsi quando si intende la relazione erotica come sintesi di una
relazione in sé sensuale e di una in sé sentimentale. La coesistenza di
entrambe nella zona conscia dell’esperienza vissuta rappresenta dunque
l’unità dalla quale esse sono derivate, la determinazione interiore
dell’essere, in sé niente affatto eterogenea, che chiamiamo appunto amore.
Qui non esaminerò oltre queste relazioni, poiché si trattava soltanto di
confutare la possibilità di mettere insieme, per così dire, l’amore partendo
da una pluralità di fattori nessuno dei quali è propriamente amore. Ma una
volta che quest’ultimo sussiste, da esso possono svilupparsi elementi dei
generi più disparati, e perciò sotto il suo nome può presentarsi un fenomeno
complessivo articolato in molte componenti. Esso stesso, tuttavia, è un atto
psichico che non può essere smembrato in questo modo, che non può essere
compreso in base ad alcuna cooperazione di altri elementi. E la diversità dei
fenomeni che la lingua designa con il suo nome non contraddice la sua unità
fondamentale, ma al contrario, mostra che una tale unità deve essere
presente. Sarebbe infatti inverosimile all’estremo che un fatto per la cui
semplice attuazione già un elemento deve attendere la comparsa di un altro
potesse costituire il nucleo invariabile di una così immensa copia di
processi continuamente mutevoli. L’amore di Dio e l’amor di patria,
l’amore cristiano per il prossimo e quello fra uomo e donna, l’amore per
l’amico e quello pratico-razionale dell’ideale umanitario, sono già
abbastanza diversi; ma oltre a ciò si parla a buon diritto di amore per cose
inanimate, non soltanto per ideali o stili di vita, ma anche per paesaggi,
oggetti d’uso e opere d’arte. Se io «amo» il paesaggio di Firenze, con ciò
non è ancora detto che vorrei viverci stabilmente, ma neppure che l’ammiro
dal punto di vista estetico. Magari sono vere entrambe le cose, tuttavia né il
godimento pratico soggettivo di quel paesaggio né il giudizio oggettivo di
valore su di esso possono essere sostituiti, insieme o separatamente, al
particolare atteggiamento interiore che designo con l’espressione di
«amore» per esso. Persino il segreto dell’erotismo sessuale appare questo,
che si ama il corpo stesso dell’altro in tale senso, non ci si limita a
«desiderarlo» o a considerarlo esteticamente. Un desiderio e una
valutazione possono unirsi all’amore, tuttavia paragonati con
l’atteggiamento di quest’ultimo rispetto all’oggetto non soltanto il primo
ma, se si considera attentamente la questione, anche la seconda giunge
«troppo vicino» all’oggetto. Entrambi tendono a esercitare su di esso la
propria potenza, l’uno con l’azione, l’altra con un verdetto, mentre l’amore
si tiene lontano da un simile esercizio. Proprio l’amore per ciò che non è a
sua volta animato può chiarire con particolare purezza quel rapporto del
soggetto con un oggetto, non paragonabile ad altri e perciò neppure
componibile partendo da altri, che chiamiamo amore. Qui lo riconosciamo
completamente libero da tutto ciò che è pratico o teoretico, da qualsiasi
giudizio di valore oggettivo (poiché nulla ci vieta di «amare» anche quanto
dal punto di vista oggettivo è affatto indifferente, o addirittura inferiore).
Qui riconosciamo che esso scaturisce dalle profondità del tutto irrazionali
della vita, senza mirare necessariamente ad alcuna utilità o danno per
quest’ultima. Qui lo riconosciamo come una pura funzione o emozione del
soggetto, la quale però è una categoria in cui viene colto il contenuto reale
dell’oggetto: grazie a questa incomparabilità trascendentale l’oggetto amato
sta in un rapporto formale di coordinazione con l’oggetto conosciuto,
l’oggetto creduto, l’oggetto valutato. Amandolo, compiamo
un’elaborazione del rapporto fondamentale fra anima e mondo: l’anima
rimane sì legata al proprio centro, nel quale possiede i suoi limiti e la sua
grandezza, tuttavia questa immanenza è soltanto la forma in cui essa
diviene trascendente, in cui può cogliere e includere in sé i contenuti del
mondo. Se non fosse in sé, non potrebbe recarsi fuori di sé; ma questa
espressione inevitabilmente temporale non designa una successione di fasi
separate, bensì la determinazione fondamentalmente unitaria della vita.
L’amore manifesta però nel modo più incisivo l’immanenza psichica della
comprensione del mondo se viene considerato muovendo dal concetto di
relazione soggetto-oggetto. Quando infatti conosciamo o valutiamo, ci
sentiamo vincolati da qualcosa che definiamo in modo molto imperfetto e
inadeguato con termini come norma, criterio, valore, e che si trova
assolutamente di là dal soggetto e dall’oggetto. Quando invece amiamo, e
specialmente quando amiamo un oggetto che non ha in sé, come tutto ciò
che è umano e animato, un’intenzione latente di essere amato, avvertiamo
un’evidente libertà nella scelta, nel modo e nella misura dell’attività
soggettiva. Anche qui tuttavia è l’oggetto che plasmiamo con questa
attività, il moto del sentimento ha la forma di un’ellissi in uno dei cui fuochi
sta l’oggetto, sebbene essa nel suo insieme resti racchiusa nell’immanenza
del sentimento. Dunque anche in questo punto estremo nel quale
l’autonomia dell’oggetto si avvicina al valore limite zero, anzi, in realtà lo
ha raggiunto, si può tuttavia avvertire quel qualcosa che ci vincola, che
trascende l’opposizione tra soggetto e oggetto, ma che persino nel caso
limite dell’amore fa di quest’ultimo un rapporto dell’anima con il mondo.
L’appartenenza dell’amore alle grandi categorie formatrici dell’esistenza
è occultata in uguale misura da certi dati di fatto psicologici e da certe
concezioni teoretiche. Non c’è dubbio che innumerevoli volte la passione
amorosa alteri e falsifichi quella che va considerata l’immagine obiettiva
del suo oggetto, e appunto in questo senso viene di solito riconosciuta come
«formatrice», ma palesemente in modo tale da escluderne la coordinazione
con le altre facoltà formatrici dello spirito. Infatti, che cosa accade qui in
realtà? Si presuppone che fattori teoretici abbiano prodotto un’immagine
«vera» della persona amata. Solo una volta che essa è data vi si aggiunge,
quasi come un supplemento, il fattore erotico, accentuando alcuni aspetti e
spingendone da parte altri, mutando colore all’insieme. Qui dunque
un’immagine preesistente viene semplicemente modificata nella sua
determinazione qualitativa, senza che venga abbandonato il suo terreno
teoretico per creare un’immagine categorialmente nuova. Queste
modificazioni che l’amore già nato apporta alla rappresentazione
oggettivamente esatta non hanno nulla da spartire con l’atto creativo
primario che ci pone dinanzi la persona amata in quanto tale. La persona
che contemplo e conosco, la persona che temo o che ammiro, la persona
riprodotta dall’opera d’arte, è ogni volta un’immagine particolare, e se
ravvisiamo soltanto nella persona conosciuta intellettualmente quella
persona «come è in realtà», mentre consideriamo tutti quei modi solo come
le molteplici situazioni interiori nelle quali collochiamo tale immutata
realtà, ciò è dovuto esclusivamente all’importanza preponderante che
proprio l’immagine intellettuale riveste per il nostro agire pratico. Ma in
realtà, secondo il loro senso, tutte queste categorie sono coordinate, non
importa quando o a quali condizioni divengano efficaci. E di queste
categorie fa parte l’amore, in quanto crea il proprio oggetto come
un’immagine assolutamente originale. Esteriormente e secondo l’ordine
temporale, è evidente che l’uomo deve esistere ed essere conosciuto prima
di venire amato. Ma quando ciò accade, non si tratta di un’operazione
compiuta su quell’immagine preesistente, che in sé rimarrebbe immutata,
bensì del divenire attiva, nel soggetto, di una categoria fondamentale del
tutto nuova. Allo stesso titolo a cui l’altro è «la mia rappresentazione»,
esattamente allo stesso titolo egli è «il mio amore»; non è un elemento
invariabile il quale, come in ogni altra configurazione possibile, entri anche
in quella dell’essere amato, o al quale l’amore possa essere per così dire
sovrapposto in un secondo momento, ma un’immagine originaria e unitaria
che prima non esisteva. Si pensi soltanto al caso della religione: il Dio che
viene amato, proprio in virtù di ciò è diverso da come sarebbe se tutte le
altre proprietà a lui attribuite e costituenti il suo essere in sé rimanessero
identiche, e tuttavia egli non fosse amato. Persino se egli è amato a causa di
determinate proprietà o azioni, queste «cause» dell’amore si trovano però a
un livello del tutto differente da quello dell’amore stesso e, insieme con la
totalità del suo essere, non appena sopravviene davvero l’amore vengono
percepite all’interno di una categoria completamente nuova rispetto a quella
che occupano nel caso in cui il nostro amore sia assente, anche se in
entrambi i casi vengono ugualmente «credute». Ma proprio di questa
spiegazione causale non vi è alcun bisogno. Eckhart dichiara esplicitamente
che non dovremmo amare Dio in virtù di questa o quella qualità o ragione
particolare, ma esclusivamente perché è appunto Lui. In tal modo l’amore
viene indicato senza ambiguità come una categoria primaria e irriducibile.
Ed esso è effettivamente una siffatta categoria, poiché determina il proprio
oggetto nella sua intera e ultima essenza, poiché lo crea come quell’oggetto
particolare che prima non esisteva. Come io stesso, in quanto amo, sono
diverso da quello che ero prima (perché ad amare non è l’una o l’altra delle
mie «parti» o delle mie energie, ma la totalità della persona, sebbene ciò
non implichi necessariamente un mutamento visibile di tutte le rimanenti
manifestazioni di essa), così anche l’amato in quanto tale è un essere
diverso, derivante da un diverso a priori rispetto alla persona conosciuta o
temuta, indifferente o ammirata. Solo così l’amore è assolutamente unito, e
non meramente associato al suo oggetto: l’oggetto dell’amore in tutto il suo
significato categoriale non esiste prima di esso, ma soltanto mediante esso.
Solo da ciò risulta completamente chiaro che l’amore, e per estensione tutto
il comportamento di colui che ama, in quanto tale, è qualcosa di affatto
unitario, non costruibile a partire da altri elementi dotati di esistenza
autonoma.
Si rivelano dunque del tutto vani i tentativi di considerare l’amore un
prodotto secondario che troverebbe per così dire la sua motivazione in
quanto risultante di altri fattori psichici primari. Ma esso appartiene a uno
stadio troppo elevato dello sviluppo dell’essenza umana perché sia possibile
inserirlo nello stesso strato temporale e genetico del respirare, del nutrirsi o
anche dell’impulso sessuale. E nè possiamo ricorrere alla via d’uscita che si
presenta naturale, affermando che l’amore, pur appartenendo per il suo
senso metafisico, per il suo significato atemporale, all’ordine primo o
ultimo dei valori e delle idee, per quanto riguarda la sua realizzazione
umana o psicologica rimandi a una fase tarda di una lunga serie, continua e
articolata, dello sviluppo vitale. Non possiamo accontentarci di questa
reciproca estraneità dei suoi significati o delle sue reazioni. In questo modo
infatti il problema del suo dualismo viene riconosciuto e portato a una
nitida espressione, ma non risolto; abbandonarlo a questo punto vorrebbe
dire disperare della sua risolubilità.
Torniamo ancora una volta al concetto più universale dell’amore, che ne
trascende la manifestazione sessuale per abbracciare non solo quello che si
crea in generale fra due persone, ma anche l’amore rivolto a ogni possibile
oggetto offerto dal mondo. Mi sembra di estrema importanza riconoscere
nell’amore una funzione immanente, sarei per dire formale, della vita
psichica, che pur essendo anch’essa certamente resa attuale da uno stimolo
proveniente dal mondo, non determina nulla in anticipo circa la fonte di
questo stimolo. Questo sentimento è collegato con l’unità complessiva della
vita più radicalmente di molti, forse della maggior parte degli altri. I nostri
molteplici sentimenti di gioia e di dolore, di ammirazione e di disprezzo, di
paura e di interesse, sorgono e vivono a una maggiore distanza dal punto in
cui le correnti della vita soggettiva confluiscono, o meglio, da cui
scaturiscono come dal loro centro. Anche quando diciamo di «amare» un
oggetto inanimato, invece di definirlo utile, piacevole o bello, ci riferiamo a
una forte impressione centrale, sebbene di natura diversa, che esso produce
su di noi, mentre quelle valutazioni corrispondono a reazioni più
periferiche. Il sussistere, accanto al sentimento amoroso, di interessi,
sensazioni, implicazioni interiori, viene espresso, a mio parere non del tutto
correttamente, come differenziazione di regioni dell’anima; io credo
piuttosto che l’amore sia in ogni circostanza una funzione della totalità
relativamente indifferenziata della vita, e che quei casi indichino soltanto
una sua minore intensità. L’amore è sempre, per così dire, un dinamismo
che si genera dall’autosufficienza dell’interiorità, un dinamismo che
certamente è condotto dal suo oggetto esterno dallo stato latente a quello
attuale, ma che in senso proprio non può essere provocato; l’anima lo
possiede come un dato ultimo oppure non lo possiede, non possiamo risalire
di là da esso a un qualche movente esteriore o interiore che sia qualcosa di
più della sua causa occasionale. Questa è la ragione più profonda per la
quale non ha alcun senso pretenderlo in base a un qualsiasi diritto. Io dubito
persino che la sua attualizzazione dipenda sempre da un oggetto, mi
domando se quanto si definisce desiderio o bisogno d’amore, quel tendere
confuso e privo di oggetto, tipico dei giovani, verso qualsiasi cosa si possa
amare, non sia già amore, un amore che semplicemente si muove ancora in
se stesso, una sorta di girare a vuoto dell’amore. Certo, si potrà considerare
l’impulso verso un comportamento come l’aspetto emotivo di quello stesso
comportamento che già sta incominciando; il fatto che ci sentiamo «spinti»
a un’azione significa che interiormente quell’azione ha già avuto inizio, e il
suo compimento è soltanto lo sviluppo successivo di queste prime
innervazioni: quando, nonostante l’impulso, non procediamo all’azione, è
perché fin dal principio l’energia non è sufficiente per altro che per queste
prime fasi del processo dell’azione, oppure perché quest’ultima è
contrastata da forze opposte prima che i suoi elementi iniziali, già
annunciatisi alla coscienza, possano proseguire fino all’atto visibile. In certe
condizioni anche la possibilità reale, la disposizione a priori a quella forma
di comportamento che chiamiamo amore, viene fatta sorgere in uno stadio
iniziale della sua effettualità e portata alla coscienza come un sentimento
oscuro e generico, prima ancora che lo stimolo di un determinato oggetto,
sopraggiungendo, la conduca a uno sviluppo più completo. Ma la comparsa
di questo tendere senza oggetto, che per così dire si ripiega sempre di nuovo
su se stesso, di questo preludio dell’amore, generato nella pura interiorità,
che però fa già parte della musica dell’amore, è la testimonianza più
decisiva dell’essenza puramente interiore e centrale dell’evento amoroso,
spesso nascosta da una concezione confusa; come se l’amore fosse qualcosa
che ci afferra o ci aggredisce dall’esterno (e in quanto tale può poi penetrare
anche in uno strato soggettivo o metafisico), qualcosa che trova il suo
simbolo più incisivo nel «filtro d’amore», anziché una qualità specifica, una
determinata modificazione e un orientarsi verso l’esterno partendo da se
stessa della vita in quanto tale; come se venisse dal suo oggetto, mentre in
realtà procede verso di esso.
Ma questo tipo e ritmo del dinamismo vitale determinato dall’interno che
si rivela essere l’amore (cosicché l’uomo è innamorato nello stesso modo in
cui è di per sé buono o cattivo, irrequieto o incline alla meditazione) ha la
propria polarità. Se si prescinde dai sentimenti religiosi, l’amore infatti è
quel sentimento che si lega più strettamente e più incondizionatamente di
qualunque altro al proprio oggetto. All’intensità con cui sorge dal soggetto
corrisponde quella con cui si rivolge all’oggetto. Il punto decisivo è che
nessuna istanza di ordine generale si insinua fra i due poli. Se io ammiro
qualcuno, questo sentimento è mediato dalla proprietà in un certo senso
generale dell’essere ammirevole, che insieme con le sue elaborazioni
particolari informa durevolmente l’immagine di quell’uomo, finché appunto
io lo ammiro. Cosi con l’uomo che temo sono intrecciate la sua temibilità e
la ragione di essa, e nella stragrande maggioranza dei casi persino l’uomo
che odio non troverà la causa di questo odio unicamente nella mia
rappresentazione: una delle differenze fra amore e odio che ne smentiscono
la corrente equiparazione formale1. E nonostante l’esortazione di Eckhart, il
rapporto complessivo dell’anima con Dio si riferisce quasi interamente alle
sue proprietà: bontà e giustizia, amore paterno e potenza. Se così non fosse,
quell’esortazione sarebbe stata superflua. È invece tipico dell’amore
rimuovere, una volta sorto, le qualità mediatrici, sempre relativamente
universali, del suo oggetto che magari hanno fatto nascere l’amore per esso.
L’amore si pone allora come un’intenzione immediata e centrale rivolta a
quell’oggetto, e mostra la propria autentica e incomparabile essenza proprio
nei casi in cui sopravvive persino all’incontestabile venir meno delle cause
del suo sorgere. Solo quando si tratta davvero di puro amore di Dio è valida
la formula di Eckhart; ma essa è valida per ogni tipo di amore, poiché
quest’ultimo si è lasciato alle spalle tutte le qualità dell’amato dalle quali ha
tratto origine. Le espressioni estatiche degli innamorati, che l’amato è per
loro «il mondo intero», che «oltre a lui non esiste nulla», e altre simili,
denotano soltanto, in forma positiva, questo carattere esclusivo dell’amore,
grazie al quale esso, evento in tutto e per tutto soggettivo, ingloba però il
proprio oggetto direttamente e senza mediazioni. A quanto mi risulta non
esiste altro sentimento nel quale l’assoluta interiorità del soggetto conviva
in modo così puro con l’assolutezza del suo oggetto, nel quale il terminus a
quo e il terminus ad quem, pur nella loro insormontabile opposizione, si
congiungano così incondizionatamente in una corrente che in nessun punto
viene alimentata da un’istanza intermedia; e non importa che una tale
istanza abbia magari guidato in origine la corrente, e che magari sia ancora
accidentalmente collegata con essa da un canale secondario.
Questa costellazione, che comprende innumerevoli gradi fra la fugacità e
l’intensità suprema, è suscitata in modo formalmente identico da una donna
e da una cosa, da un’idea e da un amico, dalla patria e da un dio. Bisogna
innanzitutto tenere ben fermo questo punto se si vuole chiarire
strutturalmente il suo significato più ristretto, che nasce dal terreno della
sessualità. La leggerezza con cui l’opinione comune istituisce un legame fra
l’impulso sessuale e l’amore erige forse uno dei ponti più ingannevoli
all’interno del paesaggio della psicologia, fin troppo ricco di simili
costruzioni. Poiché tale opinione penetra fin nella sedicente psicologia
scientifica, si ha assai spesso l’impressione che quest’ultima sia caduta nelle
mani di garzoni di macelleria. D’altro canto, è evidente che la relazione non
può essere semplicemente negata.
Il significato della nostra eccitazione sessuale si compone di due strati.
Dietro l’impulso e il desiderio, l’appagamento e il piacere immediatamente
soggettivi sta, come conseguenza di tutto ciò, la propagazione della specie.
Attraverso la continuità del plasma germinale che si trasmette, la vita scorre
lungo il suo cammino imperscrutabile passando per tutti quegli stadi o
portata da essi da un punto all’altro. Per quanto di fronte al misterioso
compimento della vita i concetti di scopo e mezzo appaiano insufficienti e
schiavi di un angusto simbolismo antropocentrico, dobbiamo tuttavia
definire la sessualità come il mezzo di cui la vita si serve allo scopo della
conservazione della specie, affidando il conseguimento di questo scopo non
più a un meccanismo (nel senso più ampio del termine), ma a mediazioni
psichiche. Non c’è dubbio che da esse, in uno sviluppo senza soluzioni di
continuità, sorga anche l’amore. Infatti la tipica coincidenza dell’età
dell’impulso sessuale con quella del risvegliarsi dell’amore non può essere
un puro caso, né sarebbe comprensibile altrimenti il rifiuto appassionato
(sebbene suscettibile di eccezioni) di qualsiasi rapporto sessuale che non sia
quello con la persona amata, e il desiderio ugualmente appassionato di
quest’ultimo. Qui deve sussistere un nesso genetico, non soltanto
associativo. L’impulso, che nel suo significato generale ed edonistico è
rivolto dapprima all’altro sesso in quanto tale, nella misura in cui i suoi
soggetti si sono differenziati sembra aver individualizzato sempre più anche
il suo oggetto, fino a concentrarsi sulla singola persona. Ora, è vero che
l’individualizzazione non basta a trasformare l’impulso sessuale in amore;
essa può rappresentare da un lato un affinamento dell’edonismo, dall’altro
un istinto vitale-teleologico rivolto al partner adatto per generare i figli
migliori. Ma senza dubbio essa crea una disposizione formale e, per così
dire, la cornice per quell’esclusività che costituisce l’essenza dell’amore
persino quando il suo soggetto la applica a una pluralità di oggetti. Sono
assolutamente certo che all’interno di quella che in modo del tutto generico
viene definita «attrazione sessuale» si costituisca il primo fattore o, se si
vuole, la forma embrionale dell’amore. La vita, nella sua metamorfosi,
assume anche queste sembianze, spinge in alto la propria corrente fino a
quest’onda, per quanto la cresta di essa si innalzi libera. Se si considera il
processo della vita in generale come un ordinamento di mezzi che servono
al fine «vita», e se si bada semplicemente all’importanza effettiva
dell’amore per la propagazione della specie, allora anch’esso risulta essere
uno dei mezzi che la vita appronta per se stessa e a partire da se stessa.
E tuttavia: nel momento in cui ciò viene ottenuto, in cui lo sviluppo
naturale è divenuto amore perché l’amore possa divenire a sua volta
sviluppo naturale, proprio in questo momento l’immagine si trasforma;
appena è presente l’amore in questo senso ideologico, commisurato ai fini
della specie, esso è già anche qualcosa di diverso, che trascende tale
condizione. Certo, è pur sempre vita, ma di un tipo così particolare, che
l’autentico dinamismo, lo svolgimento naturale del processo della vita
esiste ormai solo in funzione dell’amore, che esso rappresenta un significato
e un elemento ultimo e in quanto tale si sottrae completamente a quella
teleologia, anzi, se permane il legame con essa, la capovolge addirittura:
l’innamorato sente che ora la vita deve servire l’amore, che per così dire
esiste allo scopo di mettere a disposizione di esso le proprie forze. La vita
istintiva genera in sé vertici con i quali tocca un ordine diverso, e che nel
momento di questo contatto le vengono in un certo senso strappati perché
possano esistere in base al proprio diritto e al proprio significato. Anche qui
vale la massima di Goethe, che tutto ciò che è perfetto nel suo genere
supera il suo genere. È proprio della vita, sempre generatrice in un senso o
in un altro, produrre più vita, essere una più-vita; ma le è proprio anche, sul
piano psichico, produrre qualcosa che è più che vita, essere più-che-vita.
Ora essa fa scaturire da sé forme, conoscitive e religiose, artistiche e sociali,
tecniche e normative, che rappresentano un’eccedenza rispetto al mero
processo vitale e a quanto serve a quest’ultimo. Costruendo ogni volta una
propria logica e un proprio sistema di valori, corrispondenti al loro
contenuto oggettivo, e mutandosi in ambiti autonomi all’interno dei loro
confini, esse si offrono di nuovo alla vita come contenuti, arricchendola e
intensificandola, ma spesso anche come irrigidimenti dinanzi ai quali il suo
corso e il suo ritmo si arrestano e deviano, come vicoli ciechi nei quali essa
si annulla. Questa circostanza, culminante nella contraddizione che tali
serie, definibili come serie «ideali», mostrano rispetto alla vita la quale
tuttavia torna a realizzarle in sé, ha il suo nucleo problematico più profondo
nel fatto che in ultima analisi esse, nel loro insieme, sono derivate dalla vita
e comprese in essa. Poiché quelle serie sorgono dalla vita medesima, la sua
essenza più propria è appunto di superare se stessa, di creare partendo da sé
ciò che non è più essa stessa, di mettere a confronto creativamente con
l’altro da sé il suo svolgimento e la sua legalità. Questa trascendenza,
questa relazione (come produzione, contatto, correlazione, armonia e lotta)
dello spirito con quanto lo trascende, relazione che è però la forma della sua
stessa vita interiore; questa, rivelata nel modo più semplice dal dato di fatto
dell’autocoscienza, della capacità del soggetto di fare di se stesso un
oggetto, mi appare la realtà originaria della vita in quanto è spirito, dello
spirito in quanto è vita. E non è data soltanto là dove i contenuti spirituali
sono cristallizzati in una fissità ideale: ancora prima del raggiungimento di
questo stato di aggregazione la vita, restando più rigorosamente entro i
propri limiti, può far crescere da sé, sopra di sé, stratificazioni nelle quali
non scorre più la sua corrente specificamente naturale e funzionale alla vita.
In una stratificazione del genere mi sembra risiedere l’amore, dal punto di
vista psicologico compreso, in un ondeggiante sollevarsi continuamente
mediato, nella vita istintiva e nel senso metafisico di essa, ma secondo la
sua intenzione, la sua legalità propria e il suo proprio sviluppo tanto
trascendente rispetto a tale vita quanto la conoscenza logica obiettiva
rispetto alle rappresentazioni psichiche o il valore estetico dell’opera d’arte
rispetto agli stati d’animo in cui viene creata o goduta. Determinare più
positivamente il contenuto dell’amore in questo puro essere se stesso, come
nel precedente tentativo di confutare la tesi secondo la quale esso è
composto di elementi eterogenei, è forse un compito insolubile. La
delimitazione rispetto al livello in cui scorre la vita, guidata dall’impulso
sessuale, è così difficile anche perché l’amore, al proprio livello, non
bandisce affatto la «sensualità». Non riesco a trovare alcun fondamento per
l’affermazione, spesso udita, che erotismo e sensualità si escludono a
vicenda. A escludersi a vicenda sono in realtà l’amore e la sensualità
isolata, il porsi del piacere dei sensi come fine autonomo. In questo modo
infatti da un lato viene infranta l’unità che informa l’essere del soggetto in
quanto ama, dall’altro l’individualità dell’orientamento con il quale l’amore
afferra ogni volta il suo oggetto ed esclusivamente il suo oggetto, regredisce
a vantaggio di un desiderio niente affatto individuale, il cui oggetto in linea
di principio è sostituibile a piacere; e poiché la sostituibilità è sempre
l’essenza di un mezzo, tale oggetto si rivela in questo modo un semplice
mezzo per il conseguimento di un fine solipsistico, il che può essere
considerato incontestabilmente come l’opposto più netto dell’amore per
l’oggetto stesso. E questa contraddizione implica non solo l’uso della
persona che si pretende di amare come di un mezzo, ma anche l’irrompere
della categoria teleologica in quanto tale nella sfera dell’amore. Tutti questi
regni transvitali hanno per così dire quale sigillo e motto regale la libertà
dall’intera concatenazione dei fini e dei mezzi. Questo soltanto è il
significato della frase di Schopenhauer che l’arte «è dappertutto alla meta»,
e ciò vale anche per l’amore. Per quanto esso possa desiderare o bramare
qualcosa, non lo cattura mai, finché rimane puramente in sé, con la tecnica
del fine e del mezzo, alla quale rimane legata ogni sensualità che badi
soltanto a se stessa. Invece sembra proprio (e a favore di ciò depongono i
dati fisiologici) che la sensualità, come tutti gli altri elementi
originariamente radicati nella mera vita, venga trasportata oltre la soglia
dell’amore autentico; o, considerando la questione dal lato esaminato in
precedenza, che nella vastità della corrente erotica unitaria confluisca anche
questa vena, separata dalle altre solo a posteriori dall’astrazione concettuale
che disgrega, ma non nella realtà vitale medesima. Se si definisce «natura
erotica» una natura nella quale da un lato si è compiuta interamente la
metamorfosi dell’energia vitale nella sfera autosufficiente dell’amore,
trascendente rispetto alla mera vita, e in cui tuttavia questa sfera è a sua
volta animata e permeata da tutto il flusso incessante del dinamismo vitale,
allora esistono nature erotiche sia completamente prive di sensualità, sia
molto sensuali. Le diversità di questa dote fisico-psichica individualizzano
l’erotismo, senza intaccare la fondamentale unità della sua scelta di vita.
Ciò che invece esso respinge totalmente è l’interesse per la propagazione
della specie. Come l’innamorato, in quanto innamorato, si è liberato da ogni
autentica relazione teleologica, da quella edonistica ed egoistica, e come
persino quella morale e altruistica può soltanto aggiungersi alla sua
condizione, che è semplicemente un essere e non un agire2, così anche la
relazione teleologica funzionale alla specie gli è estranea. Egli non è un
punto di passaggio, ma un punto d’arrivo, o meglio, il suo essere e il suo
sentimento di sé si trovano del tutto di là delle idee di cammino e punto
d’arrivo, di essere mezzo e trasformare in mezzo, allo stesso modo del
contenuto della fede religiosa o dell’opera d’arte; l’unica differenza è che in
questi il crearsi di forme durature rende la separazione dalla teleologia della
vita più evidente che nel caso dell’amore. Forse è questo a far risonare il
tono dominante del tragico che emana da tutti i grandi amori e da tutti i
grandi amanti, tanto più percepibile da parte di questi ultimi quanto
maggiore è la purezza con cui essi si sono liberati dal corso razionale della
vita, tanto più inevitabile quando l’amore è tornato a incanalarsi in tale
corso e si mescola con esso, come nel matrimonio. La tragedia di Romeo e
di Giulietta è data dalla misura del loro amore: per questa sua dimensione
non c’è posto nel mondo empirico. Ma poiché esso tuttavia ne deriva e deve
intrecciare il proprio sviluppo reale con i suoi condizionamenti, è affetto in
partenza da una contraddizione fatale. Se il tragico non significa
semplicemente la collisione di forze o di idee, di volontà o di esigenze
contrapposte, ma significa piuttosto che quanto distrugge una vita è sorto da
una necessità essenziale di quella vita stessa, che la «contraddizione»
tragica «con il mondo» è in ultima analisi un’autocontraddizione, allora ne
è affetto tutto ciò che risiede nella sfera dell’«idea». Ciò che supera il
mondo o vi si oppone non riceve il proprio aspetto tragico dal fatto che il
mondo non può sopportarlo, che lo combatte e magari lo annienta, ma dal
fatto che esso stesso, in quanto idea o in quanto rappresentante dell’idea, ha
attinto la forza per la sua nascita e la sua conservazione proprio da quel
mondo nel quale non trova posto.
Ed è questo il motivo di quell’aspetto tragico nell’erotismo puro, sottratto
alla corrente della vita: che esso è tuttavia nato appunto da tale corrente, la
cui legge più propria si compie nel generare l’altro da sé, ciò che le è
estraneo e addirittura opposto. La bellezza atemporale di Afrodite sorge
dalla schiuma fuggevole, effimera, del mare agitato. La vita che genera
incessantemente, che partorisce incessantemente, la quale ha posto
l’attrazione sessuale come mediazione di volta in volta fra due delle sue
creste d’onda, sperimenta adesso quella violenta rotazione dell’asse per
mezzo della quale questa attrazione diviene amore, cioè assurge al regno di
quanto è indifferente alla vita ed estraneo a ogni generazione e mediazione.
Non importa che ciò sia giustificato dall’idea oppure giustifichi l’idea; non
importa che l’amore reinstauri il collegamento a ritroso e come realtà
assuma un’importanza rilevante per la riproduzione: secondo il suo senso
proprio, esso non sa nulla di tale interesse, è e rimane quella sfera di
pertinenza del soggetto che, in un modo che non può essere spiegato ma
soltanto vissuto, si sviluppa intorno a un altro soggetto, una sfera che trova
il proprio centro in se stessa, non nella conservazione e nella propagazione
della specie e neppure in un terzo essere da generare. Tuttavia essa proviene
da questa vita funzionale alla specie, e un’aura di autocontraddizione, di
autodistruzione avvolge l’amore appena si è staccato da essa come entità
dal significato autonomo. L’ombra tragica che cade sull’amore non
proviene dall’amore stesso: è la vita della specie a gettarvela. Con le proprie
forze e in vista del dispiegarsi funzionale di esse, quest’ultima preme per far
sbocciare l’amore; ma nel momento in cui l’amore si schiude, manda il suo
profumo in alto, in una regione della libertà di là da ogni radicamento.
Certo, non si tratta di una tragedia culminante nella distruzione o in un esito
mortale. Ma la contraddizione che accanto alla vita o sopra la vita, la quale
vuol essere onnicomprensiva, stia qualcosa di estraneo ad essa, libero dalla
sua corrente creatrice, qualcosa che trae felicità e infelicità dal proprio
principio, e che tuttavia appunto questo elemento derivi da una profonda
volontà o necessità (Müssen), o forse, più esattamente, da un imperativo
(Sollen) di quella stessa vita, che questo straniamento da essa sia il suo
segreto più proprio e più essenziale, tale negazione della vita, che è
autonegazione, fa risonare la flebile musica tragica davanti alla porta
dell’amore. Forse l’amore ha già nel suo puro essere in sé qualcosa di
tragico, perché sussiste una contraddizione fra l’inseparabilità del
sentimento dall’interiorità di chi lo prova e il suo abbracciare l’altro,
assorbirlo in sé e voler fondersi con lui, nel processo fra l’io e il tu che
neppure quest’ultima istanza può preservare da una continua ripresa. Ma
qui stiamo parlando dell’altra specie di tragicità, che getta la sua ombra
sull’amore a partire dalla vita funzionale alla specie: con l’amore questa
vita ha trasceso se stessa, ha prodotto con le proprie forze ciò che le è
infedele, ha innalzato uno strato che può ancora essere compreso nel suo
senso cosmico-metafisico, poiché secondo quest’ultimo la vita è appunto
più «che» vita, ma nel quale essa ha tuttavia rinnegato la legge che le
impone di essere più-vita.
Estremamente complicati e sottili sono i molteplici rapporti nei quali
individualismo e vita della specie si intrecciano nell’amore. Solo che in
genere la complicazione non sta affatto nell’esperienza vissuta;
quest’ultima, al contrario, è assai spesso del tutto uniforme e in sé lineare, e
soltanto la sua riproduzione a livello riflessivo, per la quale i nostri concetti
non sono preparati a sufficienza, la compone riunendo diversi elementi
frammentari, in conflitto fra loro e solo parzialmente connessi. Il fatto che
la struttura propria dei concetti si opponga alla loro scomposizione in
frammenti sufficientemente piccoli per essere saldati l’uno all’altro in modo
continuo e produrre così almeno una immagine speculare simbolicamente
soddisfacente della sfera dell’esperienza vissuta, è dovuto almeno in parte
alla disattenzione della filosofia per il problema erotico. Se si prescinde da
particolari occasionali, le considerazioni del Fedro e del Simposio e le
riflessioni molto unilaterali di Schopenhauer sono tutto ciò che i grandi
pensatori hanno fornito come contributo all’esame di questo problema. Di
conseguenza gli stessi concetti utilizzabili sono rimasti rigidi, indifferenziati
e privi della possibilità di una giusta applicazione. Pur con queste riserve,
mi sembra che il concetto di individualismo dell’amore ne delinei ancora
una volta una determinazione decisiva. Esporrò ciò che intendo servendomi
dell’esempio di due coppie goethiane.
Che Faust e Margherita siano spesso considerati un tipo ideale
dell’erotismo dimostra quanto raramente l’idea di amore si elevi sopra il
suo carattere puramente generale. Senza dubbio la totalità dell’esperienza
vissuta è determinata per Faust dall’incomparabile individualità del suo
destino interiore e l’accadere esteriore di essa è un mero simbolo all’interno
di questo sviluppo psichico e metafisico. Ma appunto perché deve soltanto
adempiere una determinata funzione all’interno di un immenso processo,
questa esperienza è in sé, come evento erotico, del tutto priva di essenza
individuale. Margherita non ama affatto Faust come individuo, ma in
quanto è l’uomo colto, superiore e dominatore per eccellenza. È una delle
innumerevoli relazioni in cui una fanciulla di un livello culturale inferiore
ma di più nobili inclinazioni naturali, piena dell’oscuro, forse inconsapevole
desiderio di un mondo più elevato, nessun raggio del quale penetra nel suo
ambiente, è vittima di un uomo che, scendendo fino a lei da quel mondo, le
reca soddisfazioni insospettate e la abbaglia con gli astri di quel firmamento
ai quali gli occhi di lei non sono avvezzi. Qui una resistenza è tanto poco
possibile quanto per le donne mortali di fronte a Zeus, e come per questa
ragione un uomo del genere può sedurre tutte le ragazze del genere che
vuole, così anche la dedizione della ragazza non è affatto legata alla
particolarità dell’uomo, ma soltanto al suo tipo. Margherita non conosce il
carattere specifico della personalità di Faust, non lo intuisce neppure, e in
ogni caso non lo ama. Quando parla di lui nei suoi monologhi, lo fa
significativamente in termini non individuali: egli è per lei «un uomo
simile». Che ai suoi occhi questa immagine generale sia nondimeno degna
di tutta l’intensità del sentimento e del sacrificio dell’intera esistenza, si
spiega con il fatto che per le donne il generale (la vita sessuale nel suo
insieme, il rapporto con i figli, il campo di attività e di sentimenti della casa
e della famiglia) si trasforma facilmente in un’esperienza vissuta del tutto
individuale. La loro maggiore profondità di sentimento, apparente o reale,
significa spesso che esse elevano quanto l’uomo accoglie solo come
qualcosa di universale e di tipico a destino puramente individuale e a
fondamento ultimo della personalità.
Quanto a Faust, per lui l’esperienza è semplicemente un’avventura.
Certo, corrispondentemente alla sua natura, la cui unità si sviluppa dagli
elementi opposti della riflessione e dell’ipersensibilità, tale esperienza si
approfondisce e lo assorbe, ma il carattere dell’avventura rimane. E alla
risoluzione di colmare, per così dire, una tappa schematicamente prefissata
del suo programma di vita, corrisponde il modo piuttosto superficiale in cui
egli coglie l’essenza di lei. L’atteggiamento tipicamente maschile di
pensare, nel rapporto con la donna, in ultima analisi soltanto a se stessi e
non alla donna (anche quando egli uccide per lei, anzi, soprattutto allora),
ha certo qui quella giustificazione più profonda data dal fatto che
l’esperienza è soltanto simbolo, solo stazione inevitabile nel suo grande
viaggio; ma ciò non modifica affatto, rende solo più evidente la circostanza
che Faust, nel suo carattere erotico immanente, percepisce Margherita solo
come essenza generale. È «la brama del suo dolce corpo» a spingerlo verso
di lei, una brama non meno estranea all’individualità per il fatto che la
parola «corpo» può avere in questo contesto un significato trascendente la
mera anatomia. Egli non dà alcun segno di accorgersi dell’elemento più
profondamente personale della passione di Margherita, il suo grande
eroismo, praticato senza troppe parole e in modo quasi inconsapevole. Tutto
ciò che vi è di commovente e di affascinante in questo erotismo in ultima
analisi riesce a stento a nascondere il fatto che ciascuno ama l’altro proprio
prescindendo da quanto vi è in lui di più individuale. Pur non potendo
dimostrarlo, voglio credere che Goethe stesso più tardi se ne rendesse
conto, e che con la reintroduzione trasfigurata di Margherita abbia fondato
solo a posteriori il rapporto su una profondità trascendente, l’abbia per così
dire legittimato metafisicamente per subsequens matrimonium coeleste. Ma
ciò non modifica per niente la sua essenza originaria, che al contrario ne
risulta ancor più accentuata, poiché ciò che ora è operante di lei è l’eterno
femminino, cioè il femminino puro e semplice, atemporale e
sovraindividuale. Anche questa estrema elevazione del rapporto, che pure
ne rappresenta l’estremo approfondimento, è soltanto la traduzione
metafisica della sua essenza come qualcosa di assolutamente generale, che
però, proprio per questo motivo, non resta affatto all’interno della vita
ciserotica della specie, ma dimostra il suo diritto di cittadinanza nella sfera
dell’amore autentico.
Ciononostante esso non è ancora quello che si può definire l’amore
assoluto; l’amore soddisfa questa definizione solo quando è depurato da
tutto ciò che è funzionale alla specie (e che non è affatto l’elemento
puramente sensuale, ma come nel caso dell’amore di Margherita può
elevarsi a un significato spirituale e universalmente umano), e quando il
sentimento è rivolto esclusivamente alla personalità insostituibile in quanto
tale. Proprio questo è decisivo nella relazione fra Edoardo e Ottilia, che è
l’esatto contrario di quella fra Faust e Margherita. Per questi ultimi la
sostituibilità dell’oggetto del loro amore non è affatto inconcepibile,
sebbene Margherita, in obbedienza a quell’individualizzazione sentimentale
di ciò che è specifico, tipica delle donne, leghi indissolubilmente la propria
passione a questo singolo rappresentante di valori fondamentalmente non
individuali. Invece con Edoardo e Ottilia, Goethe riesce a dare
l’impressione, come in nessun’altra delle sue descrizioni dell’amore, che
ogni sostituibilità sia esclusa a priori, nel senso più puro di questa
determinazione. (Ciò vale senza dubbio anche per Carlotta e per il capitano,
circostanza che Goethe rende esplicita sussumendoli sotto lo stesso concetto
di affinità elettive; tuttavia vale in grado minore, mostrando di nuovo in
modo molto interessante che i generi dell’amore incondizionatamente
separati nella loro essenza ammettono di volta in volta al proprio interno le
misure più svariate). Solo qui la passione è totalmente determinata dal
destino dell’individualità. Certo, essa presuppone la legge della separazione
fra i sessi propria della specie, Edoardo e Ottilia devono essere maschio e
femmina. Per un amore così assoluto la sessualità è operante come tono
complessivo dell’individuo, ma non come entità indipendente astratta da
esso; il cuore dell’uno o dell’altra non batte certo per essa in quanto mero
elemento generale. Nel caso dell’erotismo come in altri casi, di fronte
all’individualità assoluta si spezza la continuità inseparabile della vita della
specie. Per Faust Margherita è innanzitutto solo una ragazza in generale, un
singolo esemplare di qualsiasi donna, poiché in ognuna egli è destinato a
scorgere Elena, e oltre a ciò una donna dalle qualità così accentuate da
consentire di oltrepassare la soglia dell’eccitazione erotica: genus plus
differentia specifica. Invece la passione di Edoardo è rivolta all’assoluta
individualità di Ottilia, che è sì in tutto e per tutto femminile, ma nella quale
è completamente cancellata quella linea ideale di separazione, cosicché
diviene impossibile ricondurre tale passione a una base generale cui si
aggiunga un carattere specifico. Essi soltanto si amano perché così è scritto
nelle stelle, mentre Faust e Margherita si amano unicamente perché si sono
incontrati. Niente simboleggia la differenza meglio dei presagi dell’aldilà
che concludono ciascuno di questi destini. Margherita è una poenitentium,
un raggio di quell’eterno femminino qui operante, il simbolo di un mistero
del tutto sovraindividuale, mentre ad attendere Edoardo e Ottilia è «il
momento gioioso nel quale un giorno si ridesteranno insieme». Tutta
l’eternità futura è limitata a loro due e al loro «insieme», senza che accanto
ad esso o sopra di esso compaia qualcosa i cui raggi celesti facciano
sfumare i contorni delle loro individualità assolute.
Credo quindi di poter chiamare amore assoluto quello in cui
l’eliminazione di tutto ciò che è funzionale alla specie e l’esclusione a priori
di qualsiasi sostituibilità dell’individuo sono soltanto due espressioni di un
medesimo atteggiamento; il puro concetto dell’amore, il protendersi di un
soggetto verso un altro che si sottrae alla vita della specie e permane
interamente all’interno del soggetto come sentimento del tutto individuale,
raggiunge qui una delle sue rare attuazioni incondizionate. Per questo
potevo definire soltanto aprioristica la sicurezza con la quale esso mette
fuori discussione qualsiasi scambio. Dovevo evitare che si potesse
confonderlo con i casi in cui, dopo che la scelta è stata compiuta e ogni
possibile relazione con l’altro sesso è stata ristretta a un singolo individuo,
chiunque altro è ormai fuori questione. Qui il carattere esclusivo è a
posteriori, vale per il futuro, mentre là vale idealmente anche per il passato.
Vi sono amori meravigliosi che forniscono pienamente il fenomeno di
quello assoluto, ma che tuttavia sono soltanto empirici in quel senso, e
stanno all’amore assoluto come l’infinità del tempo all’atemporalità,
un’altra coppia di concetti che dal punto di vista pratico non si distinguono.
Come l’amore di Edoardo e Ottilia presuppone la differenza di sesso, che
però è solo il tono onnipervasivo dell’individualità nel suo insieme,
dell’unico soggetto e oggetto di questo amore, e solo per un’astrazione
successiva e irreale costituisce in esso un elemento isolato, così l’amore più
autentico, anche nel suo assurgere ad amore assoluto, non oppone affatto
resistenza alla sensualità che chiede di essere ammessa e alle sue
conseguenze per la conservazione della specie, né in generale a una
disposizione che è insita nel centro stesso della personalità; solo che in base
al suo senso si comporta rispetto alla vita della specie e ai suoi scopi intesi
quali dati di fatto oggettivi come rispetto a qualcosa di estraneo e di
indifferente. Ho parlato dell’aspetto tragico dell’amore che si fa invece
avvertibile come rivolta contro la sua genesi innegabilmente legata alla
specie; e forse qui non si tratta soltanto della genesi, ma del fondamento
permanente dell’erotismo. Poiché il contrasto con il quale ho tentato di
determinare la sua essenza è radicale soltanto come principio o idea; però
né nella realtà filogenetica né in quella ontogenetica vi è una frattura
storicamente unica, e resta persino da stabilire se nel mondo dei fenomeni
l’amore compaia mai nella sua assolutezza. Piuttosto in questa sfera della
vita l’autentico amore transvitale sorge continuamente dalla vita della
specie, in modo più frammentario o più compiuto, ora come mero anelito,
ora come innalzamento destinato a ricadere rapidamente, ora con un
compromesso o una mescolanza relativamente durevole dell’elemento
biologico con quello puramente erotico, ora con un inquieto, alterno
prevalere delle due parti.
Comunque la contraddizione fra esse, una volta emersa, implica non solo
quell’aspetto tragico, ma anche un pericolo del tutto reale per la vita della
specie. Infatti, nella misura in cui con il crescente sviluppo dell’erotismo
viene introdotto e privilegiato il puro individuo, cioè il soggetto centrale o
totale, le disposizioni biologicamente funzionali alla specie, pur non
essendo, come si è detto, eliminate, per l’osservazione analitica sono ormai
soltanto un fattore accanto ai molti altri la cui sintesi sembra costituire
l’individualità, e fra i quali i più lontani della vita immediata della specie
(comprensibilmente, sebbene forse soltanto transitoriamente) ottengono il
risalto più consapevole. Ma questo può avere effetti preoccupanti sulla
conservazione della specie. Fino a quando l’interesse di quest’ultima
domina l’essere, sebbene non la coscienza della persona, si può considerare
almeno l’amore della donna come istinto o portabandiera dell’istinto che
guida alla scelta del padre per generare il miglior figlio possibile. In ciò sta
la giustificazione biologica del matrimonio d’amore. Non ve n’è alcun
bisogno finché si presuppone un materiale umano poco differenziato.
All’interno di un tale materiale, per la qualità della discendenza è pressoché
indifferente quale coppia si formi. L’interesse per questa qualità diviene un
evidente interesse pratico solo dove le personalità sono fortemente
individualizzate, e dove di conseguenza la scelta dello sposo può rivelarsi
giusta o sbagliata da quel punto di vista. Anche supponendo che
un’istituzione coercitiva consentisse di unire di volta in volta gli esemplari
più appropriati, ci mancherebbe come è noto ogni possibilità di riconoscere
mai in modo certo questa appropriatezza in esseri altamente differenziati e
complessi, mentre nell’allevamento degli animali lo sguardo
dell’intenditore è pienamente in grado di farlo. Invece di un sapere
motivato, la teleologia della specie ha qui a propria disposizione soltanto
l’istinto, al quale, nella sua forma cosciente di inclinazione erotica
individuale, può essere rimessa e affidata la scelta del partner
biologicamente appropriato. La fede popolare nella particolare eccellenza
dei «figli dell’amore» può avere come fondamento soltanto questo: che
l’amore nasce proprio là dove le individualità dei genitori sono determinate
in modo da generare insieme il figlio migliore. In sé e per sé la nostra
esposizione, secondo la quale l’amore in quanto tale si sottrae alla corrente
vitale della teleologia della specie per costituire una determinazione del
soggetto che ha in sé il proprio centro, non è in contraddizione con questo
fatto. L’origine dell’amore era infatti in quella corrente che esso ha
semplicemente trasceso per divenire se stesso, e senza dubbio l’amore porta
con sé oltre questi confini contenuti e sfumature, impulsi e valori che si
sono sviluppati nella sua forma vitale e che adesso vengono soltanto
riprodotti in una nuova tonalità e in base a una nuova centralità, come la
visione naturale delle cose nell’opera d’arte. Ma appunto da tale centralità
soggettiva viene una minaccia di deviazione dalla teleologia della specie
salvata nel passaggio alla nuova dimensione, in quanto l’amore trae il suo
senso dall’intero cosmo della personalità, e questa diventa da un lato più
ricca di elementi molteplici, dall’altro più individualizzata e per così dire
più capricciosa.
Ora infatti il nuovo, autentico amore si nutre anche di tutti gli elementi
estranei a quelli essenziali per la conservazione della specie, e questi altri
elementi possono benissimo acquistare il predominio nel determinarne la
direzione e il carattere. L’empiria sembra mostrarlo come dato di fatto.
Almeno nelle nostre classi superiori si può osservare che l’amore delle
donne, e in misura minore anche quello degli uomini, si rivolge sempre più,
sebbene ancora non in generale, alle qualità intellettuali del partner, ed è
sempre meno solidale con l’istinto per la sua validità biologica.
Incominciando in modo poco appariscente, intralciata e neutralizzata in
mille modi, con questo sviluppo viene introdotta una delle trasformazioni
più gigantesche: il suo progredire ci priva dell’unico indizio dell’esattezza
biologica della generazione, il matrimonio d’amore perde il suo valore
biologico! Con questa contraddizione vitale la tragedia dell’erotismo si
costruirebbe per così dire un corpo. Il rendersi autonomo dell’amore
rispetto alla vita che lo ha prodotto per i propri «scopi», il suo essere
compreso nella sfera di pertinenza del soggetto, il suo estendersi alle
energie sovrabiologiche di quest’ultimo, il suo assolutizzarsi ponendo come
insostituibile l’individualità di esso, tutto questo era collegato dapprima
solo con l’indifferenza dell’amore per la teleologia della vita basata sulla
specie; ciò conferma la formula della vita: far scaturire da sé ciò che la
trascende con la sua realtà e legalità assolutamente autonoma, in base alla
legge che spinge questa vita non solo a procedere sul proprio terreno, ma
anche a inoltrarsi nella dimensione posta sopra di esso. Ma ora la semplice
indifferenza minaccia di trasformarsi in positiva opposizione; quelle
determinazioni dell’amore sembrano privarlo gradualmente del senso e
della grazia in virtù della quale esso, dalla sua autonomia transvitale,
tornava a riferirsi alla vita. Se questo sviluppo continuasse, apparirebbe
sempre più chiaramente come destino della vita rompere dietro di sé i ponti
che ha costruito per il proprio cammino, e riconoscere in questa stessa
rottura la sua più intima necessità, l’applicazione estrema della sua legge
dell’autotrascendenza.

Frammenti e aforismi

Che all’impulso dell’accoppiamento, funzionale soltanto alla


riproduzione della specie, faccia seguito l’amore che non si cura affatto di
essa, questa è un’immensa redenzione dalla vita. Come lo è l’arte appena si
eleva sopra l’elemento naturale, e la religione appena si libera dal timore e
dalla speranza.
L’amore, che è divenuto un’entità del tutto indipendente e transvitale, nel
quale si è compiuto il distacco dalla vita e dal servizio di essa, nella natura
erotica torna ad essere una forma di vita, come nell’artista l’arte divenuta
superiore a ogni teleologia.

Proprio perché si parla di natura erotica, può trattarsi soltanto di una


forma di vita. Proprio la vita di una persona del genere, con la sua
teleologia intrinseca, con il suo equilibrio di forze, con il suo ritmo, è qui
determinata da ciò che dalla vita si è liberato e che in quella persona è
tornato ad essere vita. Perciò San Francesco potè essere una natura erotica.

Nella natura erotica l’amore si è emancipato nel modo più completo dal
fine della generazione, e l’elemento decisivo, che getta in profondità le sue
radici nella metafisica della vita, è che proprio questo non è astrazione,
bensì natura.

Nella natura erotica l’amore è fine a se stesso: per esso non è decisivo né
che serva alla riproduzione, né che serva al piacere.

Una natura erotica? Quella in cui l’amore è l’a priori della relazione
intima con altri. Che sia un a priori non significa che venga applicato a
qualsiasi materia. Innumerevoli volte noi non pensiamo causalmente (in
senso più stretto e implicito), e tuttavia la causalità è un a priori. Infatti solo
quando pensiamo così pensiamo in modo corretto e riusciamo a comporre il
mondo teoretico nell’unità che gli spetta. Così è vero che la natura erotica
non ama sempre e non ama chiunque, ma solo nella misura in cui lo fa
riesce a comporsi in un’unità, ad attuare il senso oggettivo della sua vita.

La natura erotica sta forse al comune innamorato come l’anima bella alla
persona meramente morale?

La natura erotica come caso limite: l’amore deve effettivamente muovere


dall’uomo intero verso l’uomo intero. Poiché tanto l’aspetto puramente
sensibile quanto quello puramente spirituale della persona stanno di là
dall’individualità, sotto entrambi sarebbe possibile la sostituzione con un
numero qualsiasi di altri individui.
La natura erotica è forse quella per la quale prendere e dare sono la stessa
cosa, quella che dona prendendo e prende donando.

Per la natura erotica la relazione con l’altro è una forma o la forma della
sua esistenza immanente, come l’esteriorità spaziale dell’oggetto è la forma
della visione, in sé non spaziale. Ciò che in base al proprio concetto
trascende l’anima, le è immanente dal punto di vista metafisico o
gnoseologico. L’amore dell’uomo non erotico si dirige appunto verso
l’esterno; per l’uomo erotico, tale esterno è una funzione interiore.

Quella erotica è forse una natura in cui l’amore è produttività dell’essere


e non solo reazione a uno stimolo? Nella giovinezza, quando vogliamo e
dobbiamo soltanto amare in generale, o siamo tutti nature erotiche (ma il
carattere transitorio di questa età dimostra che non si tratta di una natura
individuale, bensì soltanto generale), oppure si può considerare l’esplodere
dell’impulso sensuale, anche quando sorge mediante un processo puramente
interiore, come uno «stimolo» che è esterno al vero centro dell’anima e che
solo per la distanza da esso si distingue da quello esercitato dalla vista di
una bella ragazza.

In tutti i casi, la natura erotica è una natura che in ogni istante sa a quale
scopo vive, anche se questo scopo non si realizza.

Ciò che l’uomo erotico non è mai: un padrone di casa parsimonioso, un


professionista specializzato, un ipocondriaco.

Il Don Giovanni dell’opera è spinto da un impulso meramente


fisiologico, con la particolarità di poter soddisfare l’impulso solo
cambiando continuamente donna, di essere subito sazio di ciascuna.
Individualismo solo apparente, contraddizione solo apparente rispetto alla
pura generalità dell’impulso. Infatti il significato di ciò è proprio che egli
non è attratto dall’individualità della donna, la quale si dispiega solo dopo il
primo appagamento sensuale e dunque generico, ma unicamente dal fatto
formale della varietà. È comprensibile che essa sia necessaria come stimolo
proprio là dove la motivazione è puramente generale.
Ancora diverso è il tipo in cui la motivazione non è né l’impulso come
terminus a quo, né la brama del suprême moment, ma l’attrattiva della
seduzione in quanto tale. In parte volontà di potenza sadica, in parte
retrodatazione dello stimolo a un grado preliminare, che non coincide
ancora con la semplice anticipazione, ma può invece essere tenuta del tutto
distinta dal riferimento all’atto fisico definitivo.
Il tipo supremo del Don Giovanni, che naturalmente non si spinge fino
alle «mille e tre», si presenta quando un impulso generico di forza smisurata
che forse costituisce il nucleo assoluto della personalità si attua solo e
subito in una passione individuale, trova in essa la propria forma esclusiva.
(Analogia con la metafisica individualistica di Schleiermacher).

Ci sono nature in un certo senso erotiche, ma in un senso che si realizza


grazie a un capovolgimento: nature che vogliono assolutamente essere
amate, sempre e da chiunque, e tuttavia non soltanto nel singolo caso non
sono disposte a offrire nulla in cambio, ma sono in generale persone
incapaci di amare. L’erotismo della loro natura, che indubbiamente esiste, si
esprime soltanto in questo desiderio di ricevere amore. Ciononostante non
sono affatto nature passive: il voler essere amati è al contrario un’attività
appassionata nella quale essi mettono in gioco tutto il possibile. Non
vogliono essere amati perché essi stessi amano, ma in generale senza alcun
«perché». È il fenomeno originario della loro natura.

Forse la natura erotica prova di fronte all’universale quel sentimento che


in altre è suscitato soltanto dall’individualità.

Per la natura erotica il rapporto sentimentale normalmente possibile solo


con un individuo (anzi, in realtà con un individuo) diviene onnipervasivo
(sia pure in gradi diversi), senza però cadere nella negazione panteistica
dell’individualità.

La natura erotica non è necessariamente panteista. Al contrario, la


panteistica mancanza d’amore per l’individuo in quanto tale non può
piacerle. La sua espressione è piuttosto la filosofia di Schleiermacher. Essa
presenta effettivamente una disposizione amorosa verso ciascuno, non
perché sia l’uomo universale o perché la via verso il tutto e verso l’assoluto
passi attraverso di lui: questa filosofia, per così dire, si sofferma presso il
singolo come se in quel momento non vi fosse nient’altro al mondo; anche
questa forma di sentimento può avere gradi molto diversi. È il tipo d’anima
che perdona non perché comprenda, ma benché comprenda. Essa non ama
tutti, ma ciascuno, ha il rapporto più sottile con il singolo in quanto tale, che
per essa non è degno d’amore in virtù di qualche motivo posto fuori di lui.

L’erotismo insito in una natura può capovolgersi in amarezza,


pessimismo, odio per il mondo, esattamente come l’amore per una singola
persona può convenirsi in un odio che è poi qualcosa di completamente
diverso, come se fosse scaturito da una fonte diversa.

La sensualità è in sé il generale, e in quanto tale l’autentico opposto


dell’amore. Finora anche le persone più nobili sono andate raramente oltre
una coesistenza di entrambi piuttosto priva di organicità e di unità: l’un
elemento agisce come aggiunta all’altro. Problema: l’individualizzazione
davvero incisiva della sensualità, tale da essere operata mediante l’amore.
Può esservene anche una dovuta a una generica differenziazione o a un
affinamento spirituale. Ma questa non è legata in linea di principio all’unico
oggetto, può volgersi anche a un altro per un mutamento del gusto o più in
generale dei fattori che determinano tale affinamento. Solo se avviene
mediante l’amore l’individualizzazione è davvero definitiva e fondata nella
cosa stessa.

Scorgere l’amore già nell’atto sessuale è certo un nobilissimo ottimismo,


uno sforzo ideale per elevare ciò che è inferiore, ma è completamente
assurdo. La vita non nasce dall’amore, è l’amore che nasce dalla vita.
Perciò, appena è divenuto autonomo, esso è anche infecondo. Di per sé non
può raggiungere la vita, questa deve esservi contenuta già in partenza.

L’amore come ricerca, come tentativo. Cerchiamo l’altro in noi, nel


nostro stesso sentimento. Questa ricerca si chiama amore. Non è che prima
amiamo l’altro e poi lo cerchiamo.

L’erotismo metafisico: attraverso il mondo amare la donna, e attraverso


la donna il mondo.

1 Considerare amore e odio quali esatti opposti, come se bastasse


invertire il segno di ciascuno per ottenere l’altro, è un completo errore,
reso possibile solo dal fatto che alcuni effetti pratici esteriori dell’uno
sembrano il diretto contrario di quelli dell’altro. Ma anche questa
apparenza non è molto esatta. Io auguro all’uno felicità, all’altro
dolore; la presenza dell’uno mi rende felice, quella dell’altro mi fa
soffrire. Ma felicità e sofferenza non sono opposti logici. Anche il fatto
che l’amore si converta relativamente spesso in odio non dimostra
affatto la loro correlazione logica. Il contrario dell’amore è il non-
amore, cioè l’indifferenza. Perché al posto di essa subentri l’odio sono
indispensabili cause positive del tutto nuove che magari possono avere
di fatto legami secondari con l’amore, ad esempio l’essere legati l’uno
all’altro, il soffrire per essersi ingannati o per essersi fatti ingannare,
l’amarezza per perdute speranze di felicità ecc.
2 Il collegamento, spinto fino all’unità, di amore e morale è tanto
secondario e fragile quanto quello di religione e morale. Certamente
anche l’eticità è un’«idea» innalzatasi sopra le connessioni
teleologiche della vita a un puro essere fine a se stessa, che ora al
contrario pone la vita al proprio servizio. Ma proprio per questo non è
possibile legittimare la religione, che appartiene alla stessa categoria,
per mezzo della morale, o questa per mezzo di quella: poiché a ciò
tendono in ultima analisi i tentativi di collegarle. Se per Kant «l’uomo
soggetto a leggi morali» è il fine ultimo non solo dell’esistenza umana
empirica, ma addirittura dell’universo intero, sicché la religione
diviene una mera appendice, o più esattamente, uno strumento della
morale, ciò è soltanto una falsificazione dell’essenza autonoma e di per
sé assoluta della religione. Non è soltanto un misconoscimento del
dato di fatto psicologico, a mio parere innegabile, che esistono persone
decisamente religiose dalla dubbia moralità e persone profondamente
morali senza impulsi religiosi rintracciabili, ma è quasi un
capovolgimento dello stato effettivo delle cose. Infatti l’idea di morale,
pur trascendendo la vita, nella sua genesi e nella sua applicazione è più
vicina alla mutevolezza della vita stessa, ai fini e agli interessi di
individui e gruppi storico-empirici, di quanto non lo sia la religione, ne
è maggiormente impregnata. La loro pari condizione di idee sovrane
ne impedisce la sostituzione vicendevole. Se ciononostante le si vuole
confrontare e collegare, non si trascuri la differenza implicita nella più
stretta connessione con la teleologia del comportamento morale
rispetto a quello religioso. È errato sia dal punto di vista del contenuto
sia da quello della forma il collegamento che fa dipendere religione e
morale l’una dall’altra, vuoi come ratio essendi, vuoi come ratio
cognoscendi. Le cose stanno in modo analogo per quanto riguarda
amore e morale. Esistono nature di alto livello etico alle quali l’amore
è estraneo non in questo o quel senso particolare, ma in tutti i sensi; ed
esistono nature erotiche che non arrivano neppure a comprendere
l’essenza dell’eticità, altre che la comprendono ma non lasciano affatto
che essa influisca sulle loro motivazioni.
MINIMA/VOLTI
collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio

1. Jean Baudrillard, Cyberfilosofia, 2010


2. Michel Foucault, Eterotopia, 2010
3. Gilles Deleuze, Immanenza, 2010
4. Lou Andreas-Salomé, Anal und Sexual, 2010
5. Cusano, Il dio nascosto, 2010
6. Mario Perniola, Più che sacro, più che profano, 2010
7. Slavoij Žižek, The matrix, 2010
8. Gilles Deleuze, Cinema, 2010
9. Antonio Caronia, Virtuale, 2010
10. Calvino, Trattato sulle reliquie, 2010
11. Agostino Gemelli, Contro padre Pio, 2010
12. Slavoij Žižek, Il segreto sessuale della chiesa, 2010
13. Giuseppe Mazzini, Repubblica, 2011
14. Carlo Cattaneo, Federalismo, 2011
15. Carlo Pisacane, Eguaglianza, 2011
16. Mauro Carbone, Amore e musica. Tema e variazioni, 2011
17. Georg Simmel, Frammento postumo sull'amore, 2011
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