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PREFAZIONE

Ci esprimiamo necessariamente con le parole, e pensiamo per lo più nello spazio. In altri termini, il
linguaggio esige che tra le nostre idee stabiliamo quelle stesse distinzioni nette e precise, quella stessa
discontinuità che stabiliamo tra gli oggetti materiali. Questa assimilazione è utile nella vita pratica, e
necessaria nella maggior parte delle scienze. Ma ci si potrebbe chiedere se le insormontabili difficoltà
che certi problemi filosofici sollevano non derivino dal fatto che ci si ostina a giustapporre nello spazio i
fenomeni che occupano affatto spazio, e se, talvolta, non si possa porre termine facendo astrazione dalle
immagini grossolane intorno a cui si svolge la disputa. Una volta che una traduzione della qualità in
quantità, abbia installato la contraddizione nel cuore stesso del problema posto, è forse sorprendente che
la contraddizione si ritrovi nelle soluzioni che se ne danno?
Tra i problemi abbiamo scelto quello comune alla metafisica e alla psicologia, il problema della libertà.
Noi cerchiamo di dimostrare come ogni discussione tra deterministi e i loro avversari implichi una
confusione preliminare tra durata e l'estensione, tra la successione e la simultaneità, la qualità e la
quantità: dissipata questa confusione, forse si vedrebbero dissolversi obiezioni sollevate contro la libertà.
Questa dimostrazione costituisce l'oggetto della terza parte del nostro lavoro: i primi due capitoli, in cui
vengono studiate le nozioni d'intensità e di durata, sono stati scritti come introduzioni al terzo.

CAPITOLO PRIMO
Sull'intensità degli stati psicologici
Comunemente si ammette che gli stati di coscienza, le sensazioni, i sentimenti, le passioni, gli sforzi,
possono crescere e diminuire; alcuni assicurano anche che una sensazione può essere definita due, tre,
quattro volte più intensa di un'altra della stessa natura. Quest'ultima tesi è quella degli psicofisici: il
senso comune si pronuncia su ciò senza la minima esitazione; diciamo che abbiamo più o meno caldo,
che siamo più o meno tristi. E tuttavia qui c'è un punto molto oscuro e un problema molto più grave di
quanto non si pensi solitamente. Quando si afferma che un numero è più grande di un altro numero o un
corpo di un altro corpo, si sa molto bene di cosa si sta parlando. Infatti, in entrambi i casi, si tratta di
spazi diseguali, e si definisce più grande lo spazio che contiene l'altro. Ma in quale modo una sensazione
più intensa potrà contenere una sensazione di minore intensità? Distinguere, come si fa d'abitudine, due
specie di quantità, la prima estensiva e misurabile, la seconda inestensiva, che non comporta la misura
ma di cui si può tuttavia dire che è più grande o più piccola di un'altra intensità, significa schivare la
difficoltà. Bisogna quindi ammettere che traduciamo l'inestensivo in estensivo, e che il raffronto fra due
intensità si fa, o almeno si esprime, attraverso l'intuizione confusa di un rapporto tra due estensioni. E'
incontestabile che la sensazione più intensa di luce sia quella che si è ottenuta o che si otterrebbe grazie a
un maggior numero di fonti luminose. Ma nell'immensa maggioranza dei casi, ci pronunciamo
sull'intensità dell'effetto senza neppure conoscere la natura della causa, e, a maggior ragione, la sua
grandezza: ed è proprio l'intensità di un effetto senza neppure conoscere la natura della causa, e, a
maggior ragione, la sua grandezza: ed è proprio l'intensità dell'effetto che spesso ci induce ad azzardare

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un'ipotesi sul numero e la natura delle cause, e a correggere quindi il giudizio dei nostri sensi, che, di
primo acchito, ce la faceva vedere come insignificanti. Invano si dirà che in questo modo paragoniamo
lo stato attuale dell'io a qualche stato anteriore in cui la causa sia stata integralmente percepita nello
stesso tempo in cui se ne provava l'effetto. Il paragone fra due intensità viene quindi fatto il più delle
volte senza valutare minimamente il numero delle cause, il loro modo d'azione e la loro estensione. È
possibile che l'intensità di una sensazione sia la testimonianza di un lavoro più o meno considerevole
compiutosi nel nostro organismo; ma ciò che ci viene dato dalla coscienza è la sensazione, e non questo
lavoro meccanico. L'intensità resta una proprietà della sensazione. E si pone di nuovo il problema:
perchè riferendoci a un'intensità superiore diciamo che è più grande?
Forse la difficoltà del problema deriva soprattutto dal fatto che chiamiamo con lo stesso nome e ci
rappresentiamo allo stesso modo intensità di natura molto diversa, l'intensità di un sentimento, per
esempio, e quella di una sensazione o di uno sforzo. Un oscuro desiderio è diventato a poco a poco una
passione profonda. Vedrete che la debole intensità di questo desiderio consisteva innanzitutto nel fatto
che esso vi sembrava essere isolato e come estraneo a tutto il resto della vostra vita interna. Ma, piano
piano, esso ha penetrato un maggior numero di elementi psichici, tingendoli, per così dire, del proprio
colore; ed ecco che ora il vostro punto di vista sull'insieme delle cose sembra mutato. Il fatto è che più si
scende nelle profondità della coscienza meno si ha diritto di considerare i fatti psicologici come cose che
si giustappongono. Così quando diciamo che un oggetto occupa grande posto nell'anima, o anche che la
occupa tutta, dobbiamo semplicemente intendere con ciò che la sua immagine ha modificato la
sfumatura di mille percezioni o ricordi, e che in questo senso li penetra senza tuttavia farvisi vedere. Ma
questa rappresentazione affatto dinamica ripugna alla coscienza riflessa, alla quale piacciono le
distinzioni nette, che si esprimono facilmente a parole, e le cose dai contorni ben definiti, come quelle
che si percepiscono nello spazio. Essa immaginerà allora che, in quanto tutto il resto è rimasto identico,
un certo desiderio sia passato attraverso grandezze successive: come se si potesse parlare ancora di
grandezze là dove non vi è né molteplicità né spazio. Se la speranza è un piace così intenso, ciò è dovuto
al fatto che l'avvenire, di cui possiamo disporre, ci appare al tempo stesso con varietà di forme,
ugualmente sorridenti e possibili. Ma se anche si realizzerà la più desiderata, sarà comunque necessario
sacrificare tutte le altre, e avremo perso molto. L'idea dell'avvenire pregno di infinite possibilità è quindi
più feconda dell'avvenire stesso, ed è proprio in ragione di ciò che la speranza ci appare più attraente del
possesso, il sogno della realtà. I sentimenti estetici ci offrono esempi sorprendenti di questo progressivo
intervento di elementi nuovi, visibili nell'emozione fondamentale, e che benchè si limitino a modificarne
la natura sembrano accrescerne la grandezza. Consideriamo ora il più semplice di essi, il sentimento
della grazia. Inizialmente esso non è altro che la percezione di una certa disinvoltura, di una spontaneità
nei movimenti esteriori. E poiché i movimenti spontanei sono quelli che si predispongono l'un l'altro,
finiamo col trovare una maggior disinvoltura nei movimenti che si lasciavano prevedere, negli
atteggiamenti presenti in cui è come se fossero indicati e performati gli atteggiamenti futuri. Se i
movimenti bruschi sono privi di grazia, ciò è dovuto al fatto che ognuno di essi basta a se stesso e non

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annuncia quelli che stanno per seguirlo. Qui, la percezione di un muoversi spontaneo si fonde allora con
il piacere di arrestare in qualche modo la marcia del tempo, e di tenere il futuro nel presente. Un terzo
elemento interviene allorchè i movimenti aggraziati obbediscono a un ritmo, e sono accompagnati dalla
musica. In tal caso il ritmo e la misura, permettendoci di prevedere ancor meglio i movimenti dell'artista,
ci fanno credere di esserne padroni. Siccome indoviniamo l'atteggiamento che sta per assumere, quando
l'assume effettivamente sembra quasi che ci stia obbedendo; la regolarità del ritmo fa sì che tra lui e noi
si si stabilisca una sorta di comunicazione, ed è come se i ritorni periodici della misura fossero altrettanti
fili invisibili con i quali facciamo recitare questa marionetta immaginaria. Nel sentimento dell'aggraziato
entrerà allora una specie di simpatia fisica, analizzando il fascino della quale potrete accorgervi che a sua
volta essa vi piace per una sua affinità con la simpatia morale, di cui impercettibilmente vi suggerisce
l'idea. La verità è che in tutte le cose molto aggraziate, oltre alla leggerezza che è segno di mobilità
crediamo di scorgere l'indicazione di un possibile movimento verso di noi, di una simpatia virtuale o
nascente. Questa simpatia mobile, sempre sul punto di darsi, è l'essenza stessa della grazia superiore.
Qui le intensità crescenti di un sentimento estetico si risolvono quindi in altrettanti sentimenti diversi,
ognuno dei quali, già annunciato dal precedente, vi diviene dapprima visibile per poi farlo eclissare
definitivamente. È proprio questo progresso qualitativo che interpretiamo nel senso di un cambiamento
di grandezza, poiché il nostro linguaggio non è adeguato a rendere le sottigliezze dell'analisi psicologica.
Il fine dell'arte è di sopire le potenze attive, o meglio, le potenze resistenti della nostra personalità, e di
condurci così a una stato di completa docilità in cui realizziamo l'idea che ci viene suggerita,
simpatizziamo con il sentimento espresso. L'arte tende a imprimere in noi i sentimenti piuttosto che a
esprimerli; ce li suggerisce. Da questa analisi non risulta che il sentimento del bello è un sentimento
speciale, ma che ogni sentimento che proviamo, purchè sia stato suggerito e non causato, presenta un
carattere estetico. Si può allora capire per quale motivo ci sembra che l'emozione estetica ammetta gradi
di intensità e anche di elevazione. Nello sviluppo del sentimento estetico, ci sono dunque fasi distinte;
fasi che corrispondono più a delle differenze di stato o di natura che a delle variazioni di grado. La
maggior parte delle emozioni sono gravide di mille sensazioni, sentimenti o idee da cui sono penetrate:
ciascuna di esse è quindi uno stato unico nel suo genere, indefinibile, e per poterla abbracciare nella sua
complessa originalità sembra necessario rivivere la vita di colui che la prova. L'artista cerca di farci
entrare in questa emozione così ricca, così personale e nuova, di farci provare ciò che non potrebbe farci
comprendere. Potremmo sottoporre i sentimenti morali a un'analisi dello stesso genere. Consideriamo
per esempio la pietà. Essa consiste in primo luogo nel porsi attraverso il pensiero, al posto degli altri, nel
soffrire la loro sofferenza. Ma se non fosse nient'altro che questo, allora essa ci spingerebbe a rifuggire i
miserabili piuttosto che ad aiutarli, poiché la sofferenza ci fa naturalmente orrore. È possibile che questo
sentimento d'orrore si trovi all'origine della pietà; ma subito si aggiunge un nuovo elemento, un bisogno
di aiutare i nostri simili e di alleviare le loro sofferenze. La vera pietà consiste nel desiderare, più che nel
temere la sofferenza. L'essenza della pietà consiste dunque in un bisogno di umiliarsi, in una aspirazione
a scende più in basso. D'altronde questa aspirazione dolorosa ha un suo fascino, in quanto accresce la

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stima che abbiamo in noi stessi, e ci fa sentire superiori a qui beni sensibili che il nostro pensiero
abbandona momentaneamente. La crescente intensità della pietà consiste dunque in un progresso
qualitativo, in un passaggio dal disgusto alla paura, dalla paura alla simpatia e dalla stessa simpatia alla
pietà. Gli stati psichici di cui abbiamo appena stabilito l'intensità sono stati profondi che non sembrano
essere solidali con la loro causa esterna, e che non sembrano nemmeno comprendere la percezione di
una contrazione muscolare. Si tratta però di stati rari. Non sono molte le passioni o i desideri, le gioie o
le tristezze che non siano accompagnate da sintomi fisici; sintomi che, quando si presentano, servono
verosimilmente a qualcosa nella valutazione dell'intensità. Quanto alle sensazioni propriamente dette,
sono palesemente legate alle loro cause esterne e, sebbene non si possa definire l'intensità della
sensazione attraverso la grandezza della sua causa, vi è certamente un rapporto tra i due termini. Se c'è
un fenomeno che sembra presentarsi immediatamente alla coscienza sotto forma di quantità, si tratta
certamente di uno sforzo muscolare. Ci sembra che la forza fisica aspetti solo un'occasione per slanciarsi
fuori; la volontà sorveglierebbe questa forza e, di tanto in tanto, le aprirebbero un varco, proporzionando
il flusso all'effetto desiderato. Eppure si vedrà che questa concezione abbastanza grossolana dello sforzo
contribuisce in larga misura alla nostra credenza nelle grandezze intensive. Poichè la forza muscolare
che si dispiega nello spazio e che si manifesta attraverso fenomeni misurabili ci sembra essere
preesistente alle sue manifestazioni. La scienza tende d'altronde a rafforzare l'illusione del senso comune
su questo punto. Bain ci dice, per esempio, che la sensibilità simultanea del movimento muscolare
coincide con la corrente centrifuga della forza nervosa: ciò che la coscienza percepirebbe sarebbe quindi
proprio l'emissione della forza nervosa. Anche Wundt parla di una sensazione di origine centrale e cita
l'esempio del paralitico il quale, benchè la sua gamba rimanga inerte, ha ugualmente la sensazione molto
netta della forza che impegna nel volerla sollevare. La maggior parte degli autori condivide questa
opinione, che costituirebbe la norma della scienza positiva, se William James non avesse attirato
l'attenzione su alcuni fenomeni molto considerevoli che tuttavia sono sempre stati poco notati. Quando
un paralitico fa uno sforzo per sollevare il membro inerte, senza dubbio non esegue questo movimento,
ma, volente o nolente, ne esegue un altro. Ora, è sufficiente osservare attentamente se stessi per
giungere, su quest'ultimo punto, a una conclusione che, sebbene non sia stata formulata da James, ci
sembra essere del tutto conforme allo spirito della sua dottrina. Sosteniamo che quanto più uno sforzo
dato ci dà l'impressione di crescere, tanto più aumenta il numero dei muscoli che si contraggono
simpaticamente e che, in realtà, la coscienza apparente di una maggiore intensità dello sforzo su un
punto dato dell'organismo non è altro che la percezione del fatto che una più vasta superficie del corpo si
trova ad essere interessata all'operazione. Provate, per esempio, a stringere ''sempre di più'' il pugno.
Facendolo, vi sembrerà che completamente circoscritta nella mano, la sensazione dello sforzo passi
successivamente attraverso grandezze crescenti. In realtà, la vostra mano sente sempre la stessa cosa.
Solo che, la sensazione che dapprima vi era circoscritta, ha poi invaso il braccio, risalendo fino alla
spalla; ed ecco che, infine, l'altro braccio si irrigidisce, le gambe lo imitano, la respirazione si
interrompe; tutto il corpo vi prende parte. Ma vi rendete conto distintamente di questi movimenti

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concomitanti solo alla condizione di averli avvertiti; prima di ciò pensavate di avere a che fare con un
unico stato di coscienza che cambiava grandezza. Pensiamo che da questo fatto, così come da molti altri
dello stesso genere, si possa trarre la seguente conclusione; la nostra coscienza di un accrescimento dello
sforzo muscolare di riduce alla duplice percezione di un maggior numero di sensazioni periferiche e di
un cambiamento qualitativo che sopraggiunge tra alcune di esse. Eccoci dunque portati a definire
l'intensità di uno sforzo superficiale come quella di un sentimento profondo dell'anima. In entrambi i casi
vi è progresso qualitativo e complessità crescente, percepita in modo confuso. Ma la coscienza, abituata
a pensare nello spazio e a dire a se stessa ciò che pensa, designerà il sentimento con un unico termine e
localizzerà lo sforzo nel punto preciso in cui esso produce un risultato utile: percepirà così uno sforzo
che, sempre simile a se stesso, cresce nel punto da essa assegnatogli, e un sentimento che, non
cambiando di nome, cresce senza cambiare natura. Darwin ha descritto molto bene i sintomi fisiologici
del furore: ''I battiti del cuore subiscono un'accelerazione: il volto arrossisce o assume un pallore
cadaverico; la respirazione è faticosa; il petto si solleva; le narici fremendo si dilatano. Spesso l'intero
corpo trema. La voce si altera; i denti si stringono oppure si sfregano gli uni contro gli altri, e il sistema
muscolare è generalmente eccitato a qualche atto violento, quasi frenetico''. Non ci spingeremo sino al
punto di sostenere, con William James, che l'emozione del furore si riduce alla somma di queste
sensazioni organiche: nella collera ci sarà sempre un elemento psichico irriducibile, non fosse altro che
quest'idea di picchiare o di lottare di cui parla Darwin, idea che imprime una direzione comune a tutti i
movimenti. Affermando che l'amore, l'odio, il desiderio guadagnano in violenza, diciamo che essi si
proiettano al di fuori, che risplendono alla superficie, che agli elementi interni si sostituiscono sensazioni
periferiche: ma che siano superficiali o profondi, violenti o riflessi, l'intensità di questi sentimenti
consiste sempre nella molteplicità degli stati semplici che la coscienza riesce a districare confusamente.
Fin qui ci siamo interessati solo dei sentimenti e degli sforzi, stati complessi la cui intensità non dipende
assolutamente da una causa esterna. Ci sembra invece che le sensazioni siano degli stati semplici: in che
cosa consisterà la loro grandezza? Per poter rispondere a questa domanda, bisogna innanzitutto
distinguere le sensazioni cosiddette affettive da quelle rappresentative. È vero che si passa gradualmente
dalle une alle altre; ed è anche vero che nella maggior parte delle nostre rappresentazioni semplici
interviene un elemento attivo. Nulla però ci vieta di isolarlo, e di ricercare separatamente in che cosa
consista l'intensità di una sensazione affettiva, come il piacere o il dolore.
Forse la difficoltà di quest'ultimo problema deriva soprattutto dal fatto che nello stato affettivo non si
vuol intravedere nient'altro che l'espressione cosciente di una vibrazione organica o il ripercuotersi
all'interno di una causa esterna. Ci si potrebbe chiedere però se, invece di esprimere, come solitamente si
crede, solo ciò che è appena accaduto, o che sta accadendo nell'organismo, il piacere e il dolore non
indichino anche ciò che sta per prodursi, ciò che tende ad accadervi. Bisogna notare che dai movimenti
automatici ci si innalza ai movimenti liberi per gradi impercettibili, e che i secondi si differenziano dai
primi soprattutto per il fatto che ci presentano una sensazione affettiva intercalata tra l'azione esterna che
ne costituisce l'occasione e la reazione voluta che ne segue. Se il piacere e il dolore si generano in alcuni

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privilegiati, ciò avviene probabilmente per permettere che da parte loro ci sia una resistenza alla reazione
automatica che ne conseguirebbe; o la sensazione non ha alcuna ragione d'essere, oppure è un inizio di
libertà. Lo stato affettivo non deve quindi corrispondere solo alle vibrazioni, ai movimenti o ai fenomeni
fisici che sono stati, ma anche e soprattutto a quelli che si preparano, a quelli che vorrebbero essere. I
movimenti automatici tendono seguire l'eccitazione subita, e che ne costituirebbero il prolungamento
naturale, sono verosimilmente coscienti in quanto movimenti: se non fosse così, la stessa sensazione, il
cui ruolo consiste nell'invitarci a fare una scelta tra queste reazioni automatiche, e altri movimenti
possibili, non avrebbero nessuna ragione d'essere. L'intensità delle sensazioni affettive non sarebbe
allora che la nostra presa di coscienza dei movimenti involontari che cominciano e che avrebbero seguito
il loro libero corso se la natura avesse fatto di noi degli automi, e non degli esseri coscienti. Se questo
ragionamento è fondato, non si dovrà paragonare un dolore di intensità crescente alla nota di una gamma
che diventi sempre più sonora, ma piuttosto a una sinfonia in cui si possa ascoltare un numero crescente
di strumenti. Noi valutiamo l'intensità di dolore dal ruolo che una parte più o meno grande
dell'organismo vi vuole prendere. Darwin ha tracciato un quadro sorprendente delle reazioni che
conseguono a un dolore che diventa sempre più acuto: “Esso spinge l'animale a eseguire gli sforzi più
violenti e vari per sfuggire alla causa che lo produce... Nella sofferenza intensa, la bocca si contrae
molto, le labbra si stringono, i denti si serrano, Talvolta gli occhi si spalancano, talvolta le sopracciglia si
contraggono con forza; il corpo è bagnato di sudore; la circolazione e la respirazione si alterano”. E non
è proprio attraverso questa contrazione dei muscoli interessati che misuriamo l'intensità di un dolore?
Provate ad analizzare l'idea che vi fate di una sofferenza da voi stessi definita estrema: non intenderete
forse con ciò che essa è insopportabile, e cioè che essa incita l'organismo a mille azioni diverse per
sfuggirvi? Non abbiamo molti altri mezzi per paragonare tra loro più piaceri. Che cos'è un piacere più
grande, se non un piacere che preferiamo. E che cosa può essere la nostra preferenza se non una certa
disposizione nei nostri organi per cui, quando due piaceri si presentano simultaneamente al nostro
spirito, il corpo inclina verso uno di essi? Analizzate questa stessa inclinazione, e vi troverete mille
piccoli movimenti che cominciano, si profilano negli organi interessati e anche nel resto del corpo, come
se l'organismo andasse incontro al piacere rappresentato. In presenza di più piaceri concepiti
dall'intelligenza, il nostro corpo si orienta spontaneamente, verso uno di essi. Il fatto di fermarlo dipende
da noi, ma l'attrattiva del piacere è proprio questo movimento cominciato e la stessa acutezza del piace,
mentre lo si assapora, non è che l'inerzia dell'organismo che vi si annega. Senza questa forza d'inerzia, di
cui prendiamo coscienza attraverso la resistenza che opponiamo a ciò che potrebbe distrarci, il piacere
sarebbe ancora uno stato, ma non una grandezza.
Abbiamo analizzato separatamente le sensazioni affettive. Ma ora dobbiamo osservare che molte
sensazioni rappresentative hanno un carattere affettivo, e provocano così una nostra reazione di cui
teniamo conto nella valutazione della loro intensità, Un considerevole aumento di luce si traduce per noi
in una sensazione caratteristica, non ancora di dolore, ma che presenta analogie con l'annebbiamento.
Alcune sensazioni rappresentative, quelle di sapore, odore e temperatura hanno sempre anche un

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carattere gradevole o sgradevole. Ma, a causa del loro carattere affettivo e dei movimenti di reazione – il
piacere o il disgusto – più o meno marcati che esse ci suggeriscono, queste differenze di qualità vendono
interpretate come differenze di quantità. Inoltre, anche quando la sensazione resta puramente
rappresentativa, la sua causa esterna non può oltrepassare un certo grado di forza o di debolezza senza
determinare in noi alcuni movimenti, che ci servono a misurarla.
Via via che una sensazione perde il suo carattere affettivo per passare allo stato di rappresentazione, i
movimenti di reazione che ha determinato in noi tendono a cancellarsi; ma noi percepiamo anche
l'oggetto esterno che ne è la causa, o, se non lo percepiamo, l'abbiamo percepito e pensiamo ad esso.
Ora, questa causa è estensiva e, di conseguenza, misurabile. Noi associamo allora a una certa qualità
dell'effetto l'idea di una certa quantità di causa; ed infine, come succede per ogni percezione acquisita,
poniamo l'idea nella sensazione, la quantità della causa, nella qualità dell'effetto. Da questo preciso
istante, l'intensità, che prima era solo una certa sfumatura o qualità della sensazione, diviene grandezza.
Ci si renderà conto facilmente di questo passo tenendo, per esempio, uno spillo nella mano destra e
pungendosi sempre più profondamente la mano sinistra. Dapprima sentirete come un solletico, poi un
contatto al quale segue una puntura, in seguito un dolore localizzato in un punto, e infine l'irradiazione di
questo dolore nella zona circostante. Riflettendoci sempre di più, vedrete sempre meglio che queste sono
altrettante sensazioni qualitativamente distinte, altrettante varietà di una stessa specie. Tuttavia, all'inizio
voi parlavate di una sola ed unica sensazione sempre più invadente, di una puntura sempre più intensa. E
questo perchè, senza farvi attenzione, localizzavate nella sensazione della mano sinistra lo sforzo
progressivo della mano destra che punge. Introducevate così la causa nell'effetto. Le sensazioni sonore ci
presentano gradi molto marcati di intensità. Abbiamo mostrato che un suono molto intenso è quello che
assorbe la nostra attenzione, quello che soppianta tutti gli altri. Ma ora provate a fare astrazione dallo
choc: provate a fare astrazione dalla concorrenza dei suoni simultanei: cosa resterà se non un indefinibile
qualità del suono sentito? Solo che interpretate immediatamente questa qualità come quantità, poiché
l'avete ottenuta tante volte colpendo, per esempio, un oggetto e producendo così una determinata
quantità di sforzo. Così, quando parliamo dell'intensità di un suono di forza media come se si trattasse di
una grandezza, alludiamo soprattutto allo sforzo più o meno grande che dovremmo fare per procurarci
nuovamente la stessa sensazione uditiva. Ma accanto all'intensità distinguiamo un'altra proprietà
caratteristica del suono, l'altezza. Le differenze di altezza sono forse differenze quantitative? Cercate di
dimenticare ciò che la fisica ci ha insegnato, e provate ad analizzare con attenzione quale sia la vostra
idea di una nota più o meno alta, e ora diteci se non è vero che pensate molto semplicemente allo sforzo
più o meno grande che il muscolo tensore delle vostre corde vocali dovrebbe fare per riprodurre a sua
volta la nota. Diremo che la nota è più alta, perchè il corpo fa uno sforzo come per raggiungere un
oggetto più elevato nello spazio. Si è così contratta l'abitudine di assegnare un'altezza ad ogni nota della
gamma, e il giorno in cui i fisici sono riusciti a definirla attraverso il numero di vibrazioni a cui essa
corrisponde in un tempo dato, non abbiamo più avuto alcuna esitazione ad affermare che i nostri orecchi

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percepivano direttamente delle differenze di quantità. Ma se non introducessimo in esso lo sforzo
muscolare che lo produce o la vibrazione che lo spiega, il suono resterebbe pura qualità.
Da molto tempo sappiamo che, quando facciamo fatica a distinguere i contorni e i dettagli degli oggetti,
la luce è molto lontana, o sul punto di spegnersi. A seconda che il numero delle fonti di luce aumenti o
diminuisca, i profili dei corpi, così come le ombre che essi proiettano, non si delineano nello stesso
modo. Ma un ruolo ancor più importante deve essere attribuito ai cambiamenti di tinta che le superfici
colorate subiscono sotto l'influenza di una luce più debole o più splendente. Via via che la fonte
luminosa si avvicina, il violetto assume una tinta bluastra, il verde tende al giallo biancastro e il rosso al
giallo brillante. Decisi a interpretare i cambiamenti di qualità come cambiamenti di quantità, fin
dall'inizio presupponiamo che, in linea di principio, ogni oggetto abbia un proprio colore, determinato e
invariabile. E quando la tinta degli oggetti si avvicina al giallo o al blu, invece di dire che, sotto
l'influenza di un accrescimento o di una diminuzione della luce, vediamo mutare il colore, affermiamo,
al contrario, che questo colore resta lo stesso, ma che aumenta o diminuisce la nostra sensazione di
intensità luminosa. Ancora una volta sostituiamo così,, all'impressione qualitativa ricevuta dalla nostra
coscienza, l'interpretazione quantitativa fornita dal nostro intelletto. Considerate attentamente un foglio
illuminato da quattro candele, per esempio, e spegnete successivamente prima una, poi due, e infine tre
di esse. Affermerete che la superficie resta bianca e che diminuisce la sua luminosità. Sapete infatti che
la candela è stata appena spenta; oppure avete notato tante volte un simile cambiamento nell'aspetto di
una superficie bianca allorchè veniva diminuita l'illuminazione. Ma provate ora a fare astrazione dai
vostri ricordi e dalle vostre abitudini linguistiche: ciò che realmente avete percepito non è che la
superficie bianca sia diventata meno luminosa, ma che uno strato d'ombra è passato su questa superficie
nel momento in cui si spegneva la candela. Per la vostra coscienza questa ombra è una realtà, come la
luce stessa. Per la nostra coscienza il nero ha altrettanta realtà che il bianco, e, per una coscienza non
pervenuta, le intensità decrescenti della luce bianca che illuminano una superficie data, sarebbero
altrettante sfumature diverse, molto simili ai diversi colori dello spettro. Le variazioni di luminosità di un
dato colore – fatta astrazione dalle sensazioni affettive di cui abbiamo parlato sopra – si ridurrebbero
quindi a dei cambiamenti qualitativi, se noi non avessimo contratto l'abitudine di portare la causa
nell'effetto, e di sostituire alla nostra impressione spontanea ciò che l'esperienza e la scienza ci
insegnano. Una candela, posta a una certa distanza da un foglio di carta, lo illumina in un determinato
modo: raddoppiate ora la distanza, e constatate che, per risvegliare in voi la stessa sensazione, sono
necessarie quattro candele. Da ciò concluderete che se aveste raddoppiato la distanza senza aumentare
l'intensità della fonte luminosa, l'effetto di illuminazione sarebbe stato quattro volte meno considerevole.
Ma è fin troppo evidente che in questo caso si tratta dell'effetto fisico e non psicologico. Poichè non si
può dire che abbiamo paragonato tra loro due sensazioni: ci siamo invece serviti di un'unica sensazione,
per paragonare fra loro due diverse fonti luminose. In breve, il fisico non fa mai intervenire sensazioni
doppie o triple, le une rispetto alle altre, ma solo sensazioni identiche, destinate a servire da
intermediarie tra due quantità fisiche che così potranno essere eguagliate fra loro. La sensazione

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luminosa ha qui lo stesso ruolo di quelle incognite ausiliarie che il matematico introduce nei suoi calcoli,
e che scompaiono dal risultato finale. La psicofisica non ha fatto altro che formulare con precisione,
spingendola alle estreme conseguenza, una concezione familiare al senso comune. Poichè noi parliamo
più di quanto pensiamo, e poiché per noi sono più importanti gli oggetti esterni, i quali appartengono al
dominio comune, che gli stati soggettivi attraverso cui passiamo, abbiamo tutto l'interesse ad oggettivare
questi stati, introducendovi, il più possibile, la rappresentazione della loro causa esterna. E quanto più si
accrescono le nostre conoscenze, tanto più scorgiamo l'estensivo dietro all'intensivo, la quantità dietro la
qualità, e a considerare le nostre sensazioni come grandezze. La fisica, il cui ruolo consiste nel
sottoporre al calcolo la causa esterna dei nostri stati interni, si preoccupa il meno possibile di questi
stessi stati: costantemente, e per partito preso, li confonde con la loro causa. Così essa incoraggia e
persino esagera l'illusione del senso comune su questo punto. Era quindi inevitabile che ad un certo
punto la scienza, familiarizzandosi con questa confusione tra la qualità e la quantità e tra la sensazione e
l'eccitazione, cercasse di misurare la prima così come misura la seconda: ecco qual è stato l'oggetto della
psicofisica.
Per riassumere ciò che precede, diremo che la nozione di intensità si presenta sotto un duplice aspetto, a
seconda che si analizzino gli stati di coscienza rappresentativi di una causa esterna, o quelli che bastano
a se stessi. Nel primo caso, la percezione dell'intensità consiste in una certa valutazione della grandezza
della causa in base a una certa qualità dell'effetto: è una percezione acquisita. Nel secondo, chiamiamo
intensità la molteplicità più o meno considerevole di fatti psichici semplici che prevediamo in seno allo
stato fondamentale: si tratta di una percezione cofusa. Questi due sensi della parola si compenetrano di
solito fra loro, perchè i fatti più semplici racchiusi in un'emozione o in uno sforzo sono generalmente
rappresentativi, e perchè la maggior parte degli stessi stati rappresentavi, essendo contemporaneamente
affettivi, abbracciano una molteplicità di fatti psichici elementari. L'idea di intensità è dunque situata nel
punto di congiunzione di due correnti.
Nel prossimo capitolo non considereremo più gli stati di coscienza separatamente gli uni dagli altri, ma
nella loro molteplicità concreta, in quanto stati che si svolgono nella durata pura. E così come ci siamo
chiesti che cosa sarebbe l'intensità di una sensazione rappresentativa se non vi introducessimo l'idea
della causa, nello stesso modo dovremo ora cercare di chiarire che cosa divenga la molteplicità dei nostri
stati interni, quale forma assuma la durata, allorchè si fa astrazione dallo spazio in cui essa si sviluppa.

CAPITOLO SECONDO
Sulla molteplicità degli stati di coscienza. L'idea di durata
L'idea di numero implica l'intuizione semplice di una molteplicità di parti o di unità, del tutto simili le
une alle altre.
Le pecore del gregge devono distinguersi in qualche punto poiché non si confondono in una sola.
Supponiamo tutte le pecore del gregge identiche fra loro; esse differiscono almeno per la parte di spazio
che occupano, perchè altrimenti non formerebbero affatto un gregge. Ma lasciamo da parte le cinquanta
pecore reali e manteniamone solo l'idea. O le comprendiamo tutte nella stessa immagine, e, di

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conseguenza, sarà necessario che le giustapponiamo in uno spazio ideale; oppure ripetiamo per
cinquanta volte l'immagine di una sola di esse, e sembra allora che la serie si situi nella durata piuttosto
che nello spazio. Non è così però. Perchè se mi raffiguro a turno, e isolatamente, ciascuna delle pecore
del gregge, avrò sempre a che fare con una sola di esse. Affinchè il numero possa crescere via via che
procedo, è necessario che io trattenga le immagini successive e che le giustapponga ad ogni nuova unità
di cui evoco l'idea: ma una tale giustapposizione si effettua nello spazio, non nella durata pura.
Noi abbiamo contratto l'abitudine di contare nel tempo piuttosto che nello spazio. Senza dubbio è
possibile percepire nel tempo, e solo nel tempo, una pura e semplice successione, ma non una addizione,
cioè una successione che dia luogo a una somma. Perchè se una somma viene ottenuta attraverso la
considerazione successiva dei diversi termini, è inoltre necessario che ognuno di questi termini sussista
allorchè si passa al seguente e che attenda, per così dire, di venire aggiunto agli altri. E dove
attenderebbe se non lo localizzassimo nello spazio? Involontariamente, fissiamo in un punto dello spazio
ciascuno dei momenti che contiamo, ed è solo a questa condizione che le unità astratte formano una
somma.
Se ora si ammette questa concezione del numero, si potrà vedere che non tutte le cose vengono contate
nello stesso modo, e che esistono due specie molto diverse di molteplicità. Quando parliamo di oggetti
materiali, alludiamo alla possibilità di vederli e di toccarli; li localizziamo nello spazio. Ma, allora, non
dobbiamo fare alcuno sforzo d'invenzione o di rappresentazione simbolica per contarli. Non è più così se
consideriamo gli stati puramente affettivi dell'anima, o anche delle rappresentazioni diverse da quelle
della vista o del tatto. In questo caso, poiché i termini non sono più dati nello spazio, non sembra che li
si possa contare, a priori, se non in base a qualche processo di raffigurazione simbolica. I colpi
successivi di una campana lontana, la maggior parte di noi li allinea in uno spazio ideale, e crede così di
contare i suoni nella pura durata. Ma o trattengo ciascuna di queste sensazioni successive per
organizzarla insieme alle altre in un gruppo che mi ricorda un'aria o un ritmo noto, e in questo caso non
conto i suoni, ma mi limito a raccogliere l'impressione per così dire qualitativa che il loro numero
produce in me; oppure mi propongo esplicitamente di contarli, e allora sarà necessario che io li dissoci, e
che questa dissociazione venga effettuata in un ambito omogeneo in cui i suoni, svuotati delle loro
qualità, vuoti in un certo sento, lascino tracce sempre uguali al loro passaggio. Resta ancora da sapere, se
questo ambito appartenga al tempo o allo spazio. Ma, un momento del tempo non potrebbe conservarsi
per aggiungersi ad altri. Allora è proprio nello spazio che viene effettuata l'operazione. Da ciò risulta
infine che ci sono due specie di molteplicità: quella degli oggetti materiali, che forma immediatamente il
numero, e quella dei fatti di coscienza, che non potrebbe assumere l'aspetto di un numero senza
l'intermediario di una rappresentazione simbolica, in cui interviene necessariamente lo spazio.
La vera durata ha qualche rapporto con lo spazio? Certa la nostra analisi dell'idea di numero dovrebbe
farci dubitare di questa analogia. Poichè se il tempo, così come lo rappresenta la nostra coscienza
riflessa, è un mezzo in cui i nostri stati di coscienza si susseguono distintamente in modo tale che si
possono contare, e se, d'altra parte, la nostra concezione di numero ci porta a sparpagliare nello spazio

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tutto ciò che si conta distintamente, bisogna presumere che il tempo, inteso nel senso di un mezzo in cui
lo si distingue e lo si conta, non sia nient'altro che lo spazio. Ma potremmo chiarire questa domanda che
siamo giunti a porci attraverso l'analisi della stessa nozione di molteplicità distinta, solo grazie a uno
studio diretto delle idee di spazio e di tempo considerate nei rapporti che intrattengono fra loro.
I nostri sensi percepiscono le qualità dei corpi, e con esse lo spazio: sembra che la grande difficoltà sia
stata quella di chiarire se l'estensione fosse un aspetto di queste qualità fisiche oppure se queste qualità
fossero inestese per essenza, in quanto lo spazio verrebbe ad aggiungersi ad esse. Dobbiamo a Kant la
formulazione precisa di quest'ultima concezione: la teoria che sviluppa nell'''Estetica trascendentale''
consiste nell'attribuire allo spazio un'esistenza indipendente dal suo contenuto. Non sembra che la
soluzione data da Kant sia stata seriamente contestata dopo questo filosofo. Le sensazioni attraverso cui
riusciamo a formare la nozione di spazio sono esse stesse inestese e semplicemente qualitative:
l'estensione risulterebbe dalla loro sintesi, proprio come l'acqua viene dalla combinazione di due gas. Le
spiegazioni empiristiche o genetiche hanno quindi ripreso il problema dello spazio nel punto preciso in
cui Kant l'aveva lasciato: Kant ha separato lo spazio dal suo contenuto; gli empiristi cercano il modo in
cui questo contenuto, che il nostro pensiero separa dallo spazio, riuscirebbe a riprendervi posto. È vero
che in seguito essi sembrano aver misconosciuto l'attività dell'intelligenza, e che sono visibilmente
propensi a fare derivare la forma estensiva della nostra rappresentazione da una specie di alleanza delle
sensazioni fra loro: lo spazio, senza essere estratto dalle sensazioni, risulterebbe dalla loro coesistenza.
Ma come spiegare una genesi simile senza l'intervento dello spirito? Affinchè dalla loro coesistenza
scaturisca lo spazio, è necessario un atto dello spirito che abbracci tutte contemporaneamente e le
giustapponga; questo atto sui generis è molto simile a ciò che Kant chiamava una forma a priori della
sensibilità. Non esiste nessun'altra definizione possibile dello spazio: esso è ciò che ci permette di
distinguere l'una dall'altra più sensazioni identiche e simultanee: è quindi un principio di
differenziazione diverso da quello della differenziazione qualitativa, e, di conseguenza, una realtà senza
qualità. Dobbiamo quindi dire che conosciamo due realtà di ordine differente, l'una eterogenea, quella
delle qualità sensibili, l'altra omogenea, e cioè lo spazio. Quest'ultima, concepita con chiarezza
dall'intelligenza umana ci permette di effettuare definizioni nette, di contare, di astrarre, e forse anche di
parlare. Ora, se lo spazio deve essere definito l'omogeneo, sembra che inversamente ogni mezzo
omogeneo e indefinito debba essere spazio. Infatti, poiché in questo caso l'omogeneità consiste
nell'assenza di ogni qualità, non si vede come potrebbero distinguersi l'una dall'altra due forme
dell'omogeneo. Tuttavia ci si accorda sul fatto di considerare il tempo come un mezzo indefinito,
differente dallo spazio, ma come quest'ultimo omogeneo; l'omogeneo presenterebbe allora questa
duplice forma, a seconda che sia riempito da una coesistenza o da una successione. È vero che quando
facciamo diventare il tempo un mezzo omogeneo in cui sembrano svolgersi gli stati di coscienza, ce lo
raffiguriamo per ciò stesso in un sol colpo, il che significa che lo si sottrae alla durata. Questa semplice
riflessione dovrebbe avvertirci che in questo modo ricadiamo inconsciamente nello spazio. Sarebbe
quindi il caso di chiedersi se il tempo, concepito sotto forma di un mezzo omogeneo, non sia un concetto

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spurio, dovuto all'intrusione dell'idea di spazio nel campo della coscienza pura. Ad ogni modo, non si
potrebbe ammettere definitivamente l'esistenza di due forme dell'omogeneo, il tempo e lo spazio senza
cercare dapprima se una di esse non sia riducibile all'altra. I filosofi che hanno cercato una riduzione di
queste due idee hanno creduto di poter costruire la rappresentazione dello spazio con quella della durata.
Mostrando il vizio di questa teoria, faremo vedere come il tempo, concepito sotto forma di un mezzo
indefinito e omogeneo, non sia che il fantasma dello spazio che ossessiona la coscienza riflessa.
Quando ad occhi chiusi facciamo scorrere la mano lungo una superficie, l'attrito delle nostre dita contro
quest'ultima e soprattutto il gioco variato delle nostre articolazioni, ci suscita una serie di sensazioni che
si distinguono solo per le loro qualità, e presentano un certo ordine nel tempo. D'altra parte, l'esperienza
ci suggerisce che questa serie è reversibile e che con uno sforzo in senso opposto potremmo procurarci
di nuoco, in ordine inverso, le stesse sensazioni. Ma una definizione di questo tipo implica un'idea molto
superficiale di durata. Ci sono infatti, due possibili concezioni della durata, l'una priva di ogni
mescolanza, l'altra nella quale interviene surrettiziamente l'idea di spazio. La durata assolutamente pura
è la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere,
quando si astiene dallo stabilire una separazione tra lo stato presente e quello anteriore. È certamente
questo il modo in cui un essere che non avesse alcuna idea dello spazio, si rappresenterebbe la durata.
Ma, familiarizzati con l'idea dello spazio, addirittura ossessionati da essa, l'introduciamo a nostra
insaputa nella rappresentazione della pura successione. Proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la
durata attraverso l'estensione, e la successione assume per noi la forma di una linea continua o di una
catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi. L'idea di una serie reversibile nella durata, o anche
semplicemente di un certo ordine di successione nel tempo, implica dunque di per sé la rappresentazione
dello spazio, e non può essere utilizzata per definirlo. La durata pura potrebbe essere una successione di
cambiamenti qualitativi che si fondono, si penetrano, senza contorni precisi, senza alcuna tendenza a
esteriorizzarsi gli uni rispetto agli altri, senza alcuna parentela con il numero: sarebbe l'eterogeneità pura.
Ma per noi è incredibilmente difficile rappresentarci la durata nella sua purezza originaria: e ciò deriva
certamente dal fatto che noi non siamo gli unici a durare: le cose esterne – sembra – durano come noi, e,
considerato da quest'ultimo punto di vista, il tempo assomiglia molto a un mezzo omogeneo. Non solo i
momenti di questa durata sembrano essere esterni gli uni agli altri, come lo sarebbero i corpi nello
spazio, ma il movimento percepito dai nostri sensi è il segno tangibile della durata omogenea e
misurabile. Ma c'è di più, il tempo entra nelle formule della meccanica, nei calcoli dell'astronomo e
persino del fisico, sotto forma di quantità. Si misura la velocità di un movimento, il che implica che
anche il tempo sia una grandezza.
La maggior parte delle colte si dice che un movimento ha luogo nello spazio, e allorchè si definisce il
movimento come omogeneo e divisibile, si pensa allo spazio percorso, come se lo si potesse confondere
con il movimento stesso. Ora, riflettendoci meglio, si potrà vedere che è vero che le posizioni successive
del mobile occupano effettivamente un certo spazio, ma che l'operazione con la quale si passa da una
posizione all'altra, operazione che occupa una certa durata e che ha una realtà soltanto per uno spettatore

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cosciente, sfugge allo spirito. Non abbiamo qui a che fare con una cosa, ma con un progresso: il
movimento, in quanto passaggio da un punto a un altro, è una sintesi mentale, un processo psichico
quindi inesteso. Nello spazio non ci sono che parti di spazio, e in qualunque punto dello spazio si
consideri il mobile, non si otterrà che una posizione. Se la coscienza non percepisce solo delle posizioni,
ma qualcos'altro, ciò è dovuto al fatto che essa si ricorda delle posizioni successive e ne fa la sintesi. Per
convincersene, basterà pensare a ciò che si prova quando all'improvviso si scorge una stella cadente: in
questo movimento estremamente rapido, la dissociazione tra spazio percorso, che ci appare sotto forma
di una striscia di fuoco, e la sensazione assolutamente indivisibile del movimento o della mobilità si
effettua da sé. In breve, nel movimento si devono distinguere due elementi, lo spazio percorso e l'atto
grazie a cui lo si percorre, le posizioni successive e le sintesi di queste posizioni. Il primo di questi
elementi è una quantità omogenea; il secondo, ha realtà soltanto nella nostra coscienza, è una qualità o,
se si preferisce, una intensità. Da questa confusione tra il movimento e lo spazio percorso dal mobile
sono nati, a nostro avviso, i sofismi della scuola di Elea: infatti l'intervallo che separa due punti è
divisibile all'infinito, e se il movimento fosse composto da parti come quelle dell'intervallo stesso,
quest'ultimo non potrebbe essere mai varcato. Ma la verità è che ogni passo di Achille è un atto
semplice, indivisibile, e che dopo un certo numero di questi atti, Achille avrà superato la tartaruga.
L'illusione degli eleati deriva dal fatto che essi identificano questa serie di atti indivisibili e sui generis
con lo spazio omogeneo che li sottende. Ma perchè Achille supera la tartaruga? Perchè ogni passo di
Achille e ogni passo della tartaruga sono indivisibili in quanto movimenti, e in quanto spazio, grandezze
differenti: di modo che sommando lo spazio percorso da Achille avremo ben presto una lunghezza
maggiore alla somma dello spazio percorso dalla tartaruga e del vantaggio che aveva su di lui. Ecco di
che cosa non tiene affatto conto Zenone allorchè ricompone il movimento di Achille in base alla stessa
legge del movimento della tartaruga, dimenticando che solo lo spazio si presta ad essere scomposto e
ricomposto in modo arbitrario, e confondendo così lo spazio e il movimento. Non c'è affatto bisogno di
supporre un limite alla divisibilità dello spazio concreto; lo si può lasciare divisibile all'infinito, purchè si
stabilisca una distinzione tra le posizioni simultanee dei due mobili, che sono effettivamente nello
spazio, e i loro movimenti che, in quanto sono durata più che estensione, qualità e non quantità, non
potrebbero occupare spazio. In breve, così come nella durata è omogeneo solo ciò che non dura, e cioè lo
spazio, in cui si dispongono le simultaneità, nello stesso modo l'elemento omogeneo del movimento è
ciò che meno gli appartiene, lo spazio percorso, e cioè l'immobilità.
Ora, proprio per questa ragione, la scienza opera sul tempo e sul movimento solo a condizione di
eliminare la durata, per il tempo, e la mobilità per il movimento. Nei tratti di meccanici ci si preoccupa
di dire che non verrà data una definizione della durata stessa, ma dell'uguaglianza tra due durate: ''Due
intervalli di tempo sono uguali'' vi si dice ''quando due corpi identici, posti all'inizio di ciascuno di questi
intervalli in situazioni identiche, e sottoposti entrambi a medesime azioni e influenze di ogni specie,
avranno percorso lo stesso spazio alla fine di questi intervalli''. In questo caso non si tratta quindi di
durata, ma solo di spazio e di simultaneità. La meccanica opera necessariamente su delle equazioni.

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L'algebra dovrà allora esprimere i risultati ottenuti in un certo momento della durate e lo posizioni che
un certo mobile ha occupato nello spazio, ma non la durata e il movimento stessi. Quanto alla durata e al
movimento, essi rimangono necessariamente fuori dall'equazione. E ciò è dovuto al fatto che la durata e
il movimento sono sintesi mentali, e non cose. Da questa analisi risulta che solo lo spazio è omogeneo,
che le cose situate in esso costituiscono una molteplicità indistinta, e che tutte le molteplicità distinte
sono ottenute grazie a un dispiegamento nello spazio. Ma da questa analisi deriva anche un'altra
conclusione: e cioè che la molteplicità degli stati di coscienza, considerata nella sua purezza originaria,
non presenta alcuna somiglianza con la molteplicità distinta che forma un numero. Si tratterebbe,
dicevamo, di una molteplicità qualitativa. Diviene allora evidente che, al di fuori di ogni
rappresentazione simbolica, il tempo non assumerà mai per la nostra coscienza l'aspetto di un mezzo
omogeneo, in cui i termini di successione si esteriorizzano gli uni rispetto agli altri. Ma a questa
rappresentazione simbolica preveniamo naturalmente, per il solo fatto che, in una serie di termini
identici, ogni termine assume per la nostra coscienza l'aspetto di un mezzo omogeneo, in cui i termini di
una successione si esteriorizzano gli uni rispetto agli altri. Ma a questa rappresentazione simbolica
preveniamo naturalmente, per il solo fatto che, in una serie di termini identici, ogni termine assume per
la nostra coscienza un duplice aspetto: uno sempre identico a se stesso, poiché pensiamo all'identità
dell'oggetto esterno, l'altro specifico, perchè l'addizione di questo termine dà luogo a una nuova
organizzazione dell'insieme. Di qui, la possibilità di spiegare nello spazio, nella forma di molteplicità
numerica, ciò che abbiamo chiamato una molteplicità qualitativa, e di considerare l'una come
l'equivalente dell'altra. Quando sentiamo una serie di colpi di martello, i suoni, in quanto sensazioni
pure, formano una melodia indivisibile, dando ancora luogo a ciò che abbiamo chiamato un progresso
dinamico: ma, sapendo che agisce la stessa causa oggettiva, dividiamo questo progresso in fasi che da
questo momento consideriamo identiche: e poiché questa molteplicità di termini identici non può più
essere concepita se non in case a un dispiegamento nello spazio, perveniamo di nuovo e necessariamente
all'idea di un tempo omogeneo, immagine simbolica della durata reale.
Per ritrovare questo io fondamentale, così come verrebbe percepito da una coscienza inalterata, è
necessario un vigoroso sforzo d'analisi, attraverso il quale i fatti psicologici interni e vivi verranno isolati
dalle loro immagini dapprima rifratte, e poi solidificate nello spazio omogeneo. In altri termini, le nostre
percezioni, sensazioni, emozioni e idee si presentano sotto un duplice aspetto: l'uno netto, preciso, ma
impersonale; l'altro confuso, infinitamente mobile, ed inesprimibile, poiché il linguaggio non potrebbe
coglierlo senza fissarne la mobilità, e nemmeno adattarlo alla sua forma banale senza farlo cadere nel
dominio comune. Quando, per esempio, passeggio per la prima volta in una città in cui soggiornerò, le
cose che mi circondano producono su di me contemporaneamente un'impressione destinata a durare, e
un'impressione che si modifica continuamente. Eppure, se al termine di un tempo sufficientemente
lungo, rievoco l'impressione che provavo durante i primi anni, mi stupisco del cambiamento singolare,
inesplicabile e soprattutto inesprimibile, che è avvenuto in essa. Sembra che questi oggetti, da me
continuamente percepiti e che senza posa si dipingono nel mio spirito, abbiano finito per prendermi

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qualcosa della mia esistenza cosciente; come me sono vissuti, e come me sono invecchiati. Eppure
questa differenza sfugge all'attenzione dei più; ce ne accorgeremo solo se ne saremo avvertiti. La ragione
di ciò consiste nel fatto che per noi la nostra vita esterna e, per così dire, sociale, ha un'importanza
pratica maggiore della nostra esistenza interiore ed individuale. Tendiamo istintivamente a solidificare le
nostre impressioni, al fine di esprimerle attraverso il linguaggio. Questa influenza del linguaggio sulla
sensazione è più profonda di quanto generalmente non si ritenga. Non solo il linguaggio ci fa credere
nell'invariabilità delle nostre sensazioni, ma talora ci ingannerà sul carattere della sensazione che
proviamo. Così quando mangio un cibo considerato squisito, il suo nome, carico della approvazione che
gli si riconosce, si frappone tra la mia sensazione e la mia coscienza.
Presi in se stessi, gli stati di coscienza profondi non hanno alcun rapporto con la quantità; sono pura
qualità; e si mescolano in modo tale che non si può dire se si tratta di uno solo o di molti, e nemmeno
analizzarli da questo punto di vista senza immediatamente snaturarli. La durata che in questo modo
creano è una durata i cui momenti non costituiscono una molteplicità numerica: se li caratterizzassimo
dicendo che sconfinano gli uni negli altri, li distingueremmo di nuovo. Via via che le condizioni della
vita sociale si realizzano con maggior compiutezza, si accentua anche sempre di più la corrente che
trascina i nostri stati di coscienza dall'interno all'esterno: a poco a poco questi stati si trasformano in
oggetti o in cose; non si staccano solo gli uni dagli altri, ma anche da noi. Allora li percepiamo solo
all'interno di quel mezzo omogeneo in cui ne abbiamo fissato l'immagine. Si forma così un secondo io
che ricopre il primo, un io la cui esistenza è fatta di momenti distinti, i cui stati si staccano gli uni dagli
altri e, senza difficoltà, si esprimono in parole.

CAPITOLO TERZO
Sull'organizzazione degli stati di coscienza. La libertà
Non è difficile capire per quale motivo il problema della libertà metta in contrasto fra loro questi due
opposti sistemi della natura: il meccanicismo e il dinamismo. Il dinamismo parte dall'idea di attività
volontaria, fornita dalla coscienza, e, svuotando un po' alla volta questa idea, giunge alla
rappresentazione dell'inerzia: concepisce quindi senza difficoltà, da una parte una forza equilibrata, e
dall'altra una materia governata da leggi. Il meccanicismo segue il cammino invero. Suppone che i
materiali di cui opera la sintesi siano retti da leggi necessarie, e sebbene arrivi a combinazioni sempre
più ricche, sempre più difficili da prevedere, e in apparenza sempre più contingenti, non esce dal cerchio
stretto della necessità, in cui si era chiuso fin dall'inizio. Quanto più allarga il suo sguardo, tanto più il
sostenitore del dinamismo credere di scorgere fatti che si sottraggono alla morda delle leggi: innalza
dunque il fatto a realtà assoluta, e la legge a espressione più o meno simbolica di questa realtà. Il
meccanicismo, al contrario, distingue nel fatto particolare un certo numero di leggi di cui il fatto stesso
costituirebbe il punto di intersezione; in quest'ipotesi, proprio la legge diventerebbe la realtà
fondamentale. E se ora si cercasse di capire per quale motivo gli uni attribuiscano una realtà superiore al
fatto, mentre gli altri alla legge, scopriremmo a nostro avviso, che il meccanicismo e il dinamismo usano
la parola semplicità in due sensi molto diversi. Per il primo è semplice ogni principio i cui effetti

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vengono previsti e vengono anche calcolati: la nozione di inerzia diventa così più semplice di quella di
libertà. Ma il dinamismo non cerca tanto di stabilire l'ordine più conveniente tra le nozioni, quanto
piuttosto di trovarne la reale filiazione: spesso, infatti, quella che si pretende essere la nozione semplice
– e che il meccanicista considera primitiva – è ottenuta dalla fusione di parecchie nozioni più ricche che
sembrano derivare da essa. Considerata da questo punto di vista, l'idea di spontaneità è
incontestabilmente più semplice di quella di inerzia, poiché la seconda potrebbe essere compresa e
definita solo grazie alla prima, e poiché quest'ultima basta a se stessa. Ognuno di noi ha infatti il
sentimento immediato, reale o illusorio, della sua libera spontaneità, senza che l'idea di inerzia rientri in
qualche modo in questa rappresentazione. Queste diverse considerazioni ci permettono di capire per
quale motivo si giunga a priori a due concezioni opposte dell'attività umana, in base al modo in cui si
pensa il rapporto tra il concreto e l'astratto, tra i fatti e le leggi. Tuttavia a posteriori a volte si ammette
che le nostre azioni sono determinate fai nostri sentimenti, dalle nostre idee, e da tutta la serie anteriore
dei nostri stati di coscienza; a volte si denuncia la libertà come incompatibile con le proprietà
fondamentali della materia, e in particolare con il principio di conservazione della forza. Di qui due
specie di determinismo. Dimostreremo che la seconda di queste due forme si rapporta alla prima, e che
ogni determinismo implica un'ipotesi psicologica: stabiliremo poi che lo stesso determinismo
psicologico, e le confutazioni che se ne fanno, si basano su una concezione erronea della molteplicità
degli altri stati di coscienza e soprattutto della durata. Così alla luce dei principi sviluppati nel capitolo
precedete, vedremo apparire un io la cui attività non può essere paragonata a nessun'altra forza.
Il determinismo fisico è intimamente legato alle teorie meccaniche della materia. Ci si rappresenta
l'universo come un ammasso di materia, che l'immaginazione risolve in molecole e in atomi. E in quanto
la materia che entra a far parte della composizione dei corpi organizzati è sottomessa alle stesse leggi,
nel sistema nervoso, per esempio, non si troverebbero altro che molecole e atomi che si muovono, si
attirano e si respingono fra loro. Ora, se nelle loro parti elementari, tutti i corpi agiscono e reagiscono
così fra loro, è evidente che le sensazioni, i sentimenti e le idee che si succedono in poi potranno essere
definiti risultanti meccaniche. Siccome d'altronde si è supposcto che il principio di conservazione
dell'energia (sebbene l'energia possa essere trasformata e convertita da una forma all'altra, la quantità
di essa non varia nel tempo) sia inflessibile, non c'è atomo, né nel sistema nervoso, né nell'immensità
dell'universo, la cui posizione non sia determinata dalla somma azioni meccaniche che gli altri atomi
esercitano su di esso. E il matematico che conosce la posizione delle molecole o atomi dell'organismo
umano in un momento dato, insieme alla posizione e ai movimenti di tutti gli atomi dell'universo in
grado di influenzarlo, calcolerebbe con infallibile precisione le azioni passate, presenti e future della
persona a cui appartiene questo organismo, così come si prevede con precisione un fenomeno
astronomico. Ammettere l'universalità di questo teorema significa supporre che i punti materiali che
compongono l'universo siano sottoposti soltanto a forze di attrazione e di repulsione, emanate da questi
stessi punti: da cui risulterebbe che la posizione relativa di questi punti materiali a un momento dato –
qualunque sia la loro natura – è rigorosamente determinata in rapporto a quella del momento precedente.

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Ma se si supponesse che la posizione, la direzione e la velocità di ogni atomo di materia celebrale
fossero determinate in ogni momento della durata, da ciò non conseguirebbe affatto che la nostra vita
psicologica sia sottoposta alla stessa fatalità. Poiché bisognerebbe innanzitutto provare che a un dato
stato celebrale corrisponde uno stato psicologico determinato rigorosamente, dimostrazione che deve
ancora essere data. Estendere questo parallelismo alle serie nella loro totalità significa risolvere a priori
il problema della libertà. Cosa sicuramente lecita e che i più grandi pensatori non hanno esitato a fare,
eppure, come avevamo anticipato, essi non hanno affermato una rigorosa corrispondenza tra gli stati di
coscienza e i modi dell'estensione in base a ragioni di ordine fisico. Ma non si riuscirà mai a dimostrare
che il fatto psicologico è necessariamente determinato dal movimento molecolare. Egli non esiterà a
considerare l'opera recitata nel teatro della coscienza come una traduzione, sempre letterale e servile, di
alcune delle scene eseguire dalle molecole e dagli atomi della materia organizzata. Il determinismo fisico
a cui si giunge in questo modo, non è nient'altro che il determinismo psicologico che cerca di verificare
se stesso e di fissare i propri contorni facendo appello alle scienze della natura. Bisogna tuttavia
riconoscere che la parte di libertà che ci resta dopo una rigorosa applicazione del principio di
conservazione della forza a tutti i corpi della natura non implichi, essa stessa, una teoria psicologica.
Non si dovrebbe sopravvalutare il ruolo del principio di conservazione dell'energia nella storia delle
scienze della natura. Per prevedere lo stato di un sistema determinato in un momento determinato, è
assolutamente necessario che attraverso una serie di combinazioni qualcosa vi si conservi in quantità
costante; ma spetta all'esperienza pronunciarsi sulla natura di questa cosa, e soprattutto di farci sapere se
essa è rintracciabile in tutti i sistemi possibile, se, in altri termini, tutti i sistemi possibili si presentano ai
nostri calcoli. Notiamo che ogni applicazione intelligibile della legge di conservazione dell'energia è
relativa a un sistema i cui punti, in grado di muoversi, sono pure suscettibili di ritornare alla loro
posizione originaria. O per lo meno si immagina come possibile questo ritorno, e si ammette che, in
queste condizioni, nulla cambierebbe né nell'intero stato primitivo del sistema, né nelle sue parti
elementari. In breve, il tempo non agisce su di esso. Ma non è così nell'ambito della vita. Qui, sembra
proprio che la durata agisca come una causa, e l'idea di riportare le cose al loro posto al termine di un
certo tempo, implica una sorta di assurdità, poiché in un essere vivente non si è mai verificato un simile
ritorno all'indietro. Mentre per un sistema che si suppone di conservazione il tempo trascorso non
costituisce né un guadagno né una perdita, certamente per l'essere vivente, e incontestabilmente per
l'essere cosciente, esso costituisce un guadagno. Un errore di ordine psicologico ha innalzato questo
principio astratto della meccanica a legge universale. Dal momento che non abbiamo la consuetudine di
osservare direttamente noi stessi, ma ci percepiamo attraverso le forme prese a prestito dal mondo
esterno, finiamo per credere che la durata reale, la durata vissuta dalla coscienza, sia quella stessa che
scivola sugli atomi inerti senza cambiare nulla. Una volta inoltratici su questa strada si giunge fatalmente
a erigere il principio di conservazione dell'energia a legge universale. E questo avviene proprio perchè si
è fatta astrazione da quella differenza fondamentale tra il mondo esterno e il mondo interno che ci viene
rilevata da un esame dettagliato: la vera durata è stata identificata con quella apparente. In breve, il

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preteso determinismo fisico si riduce, in ultima analisi, a un determinismo psicologico, e, come abbiamo
sostenuto fin dall'inizio, è proprio quest'ultima la dottrina che deve essere analizzata. Secondo
determinismo psicologico ci rappresentiamo lo stato di coscienza attuale come necessitato dagli stati
anteriori. Eppure avvertiamo chiaramente che non si tratta affatto di una necessità geometrica. Tra questi
due stati di coscienza successivi c'è infatti una differenza di qualità, che fa sì che il tentativo di dedurre a
priori uno di essi mediante quelli che lo precedono, fallisca sempre. Ci si rivolge allora all'esperienza,
chiedendole di dimostrare che il passaggio da uno stato psicologico a quello seguente si spiega sempre
con una ragione semplice, poiché il secondo obbedisce, in qualche modo, all'appello del primo. Una
psicologia più attenta ci rivela effetti che precedono le loro cause, e fenomeni di astrazione psichica che
sfuggono alle leggi note dell'associazione di idee. Ma è giunto il momento di domandarsi se non sia
proprio il punto di vista in cui si pone l'associazionismo ad implicare una concezione difettosa dell'io e
della molteplicità degli stati di coscienza. Il determinismo associazionistico si rappresenta l'io come una
somma di stati psichici, il più forte dei quali esercita un'influenza preponderante e trascina gli altri con
sé. Si tratta quindi di una dottrina che distingue nettamente fra di loro i fatti psicologici coesistenti.
Respiro l'odore di una rosa, e subito confusi ricordi d'infanzia ritornano alla memoria. A dire il vero,
questi ricordi non sono affatto evocati dal profumo della rosa: li respiro nell'odore stesso, che per me è
tutto ciò. Altri lo sentiranno diversamente. Direte che si tratta sempre dello stesso odore associato però a
idee diverse. Esprimetevi pure così, sono d'accordo; ma non scordate che, per farlo, avete prima
eliminato diverse impressioni che la rosa suscita in ognuno di noi, e ciò che esse hanno di personale; non
ne avete conservato che l'aspetto oggettivo, ciò che nell'odore della rosa, appartiene al dominio comune,
e, per così dire, allo spazio. Del resto, è solo a questa condizione che si è potuto dare un nome alla rosa e
al suo profumo. Allora, per distinguere tra loro le nostre impressioni personali, è stato necessario
aggiungere all'idea generale di odore di rosa alcuni caratteri specifici. Ed ora affermate che le nostre
diverse impressioni, le nostre impressioni personali, risultano dal fatto che, all'odoro della rosa,
associamo ricordi differenti. Ma l'associazione di cui parlate esiste solo per voi, e come procedimento
esplicativo. Un certo sentimento, una certa idea racchiude un'infinita pluralità di fatti di coscienza; ma
questa pluralità apparirà solo attraverso una specie di dispiegamento all'interno di quel mezzo omogeneo
che alcuni chiamano durata e che in realtà è spazio. Non appena si cercherà di rendersi conto di uno stato
di coscienza, di analizzarlo, questo stato assolutamente personale si risolverà in elementi impersonali,
esteriori gli uni agli altri, ciascuno dei quali evoca l'idea di un genere e si esprime con una parola. Ma il
fatto che la nostra ragione, armata dell'idea di spazio e del potere di creare simboli, estragga questi
elementi multipli dal tutto, non significa che essi vi fossero già contenuti. In seno al tutto, infatti, non
occupavano spazio e non cercavano affatto di esprimersi in simboli: si compenetravano e si fondevano
gli uni negli altri. L'associazionismo ha quindi il torto di sostituire di continuo al fenomeno concreto che
ha luogo nello spirito la ricostruzione artificiale che ne dà la filosofica, e di confondere, così, la
spiegazione del fatto con il fatto stesso. L'associazionista riduce l'io ad un aggregato di fatti di coscienza,
sensazioni, sentimenti e idee. Ma se in questi diversi stati non vede nulla di più di ciò che il loro nome

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esprime, se non ne trattiene che l'aspetto impersonale, potrà giustapporli indefinitamente senza ottenere
null'altro che un io fantasma, l'ombra dell'io che si proietta nello spazio. Perchè se, al contrario,
assumesse questi stati psicologici con la colorazione particolare che essi hanno per una persona
determinata e che deriva loro dal riflesso di tutti gli altri, allora non ci sarebbe più bisogno di associare
più fatti di coscienza per ricostruire la persona: essa è tutta intera in uno solo di essi. E la manifestazione
esterna di questo stato interno sarà proprio ciò che si chiama un atto libero, poiché solo l'io ne sarà stato
l'autore, poiché esso esprimerà l'io tutto intero.
Concederemo d'altronde al determinismo il fatto che spesso abdichiamo alla nostra libertà e che, per
inerzia o per pigrizia, lasciamo che questo processo locale si compia mentre la nostra intera personalità
dovrebbe vibrare. Quando i nostri amici più fidati sono d'accordo nel consigliarci un atto importante, i
sentimenti che essi esprimono con tanta insistenza vengono a posarsi sulla superficie del nostro io, e lì si
solidificano. Un po' alla volta essi formeranno una crosta spessa che ricoprirà i nostri sentimenti
personali; crederemo di agire liberamente e solo più tardi, riflettendoci, riconosceremo il nostro errore.
Ma non è neppure raro che, nel momento in cui l'atto sta per compiersi avvenga una rivolta. L'io dal
basso risale la superficie. La crosta esterna scoppia, sotto una spinta irresistibile. Nelle profondità di
questo io, e al di sotto di quegli argomenti molto ragionevolmente giustapposti, stava dunque avvenendo
un ribollimento e, con ciò stesso, una tensione crescente di sentimenti e di idee, niente affatto inconsci,
ma ai quali non volevamo dar retta. La nostra scelta si discosta da quello che di solito chiamiamo un
motivo, proprio nelle circostanza solenni, quando è in gioco l'immagine che daremo di noi agli altri, e
soprattutto a noi stessi; quanto più profondamente siamo liberi, tanto più si manifesta l'assenza di ogni
ragione tangibile. In breve, siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra intera personalità,
quando la esprimono. Sarà inutile dire che allora noi cediamo all'influenza onnipotente del nostro
carattere, Perchè il nostro carattere siamo ancora noi.
I difensori della libertà intendono il libero arbitrio affermando che mentre compiamo liberamente
un'azione, qualche altra azione sarebbe stata possibile. Il determinismo pretende invece che dati alcuni
antecedenti sia possibile come risultante un'unica azione. Questo problema è di ordine metafisico in
quanto sia i deterministi che i loro avversari risolvono a priori in modi opposti. L'argomentazione dei
primi implica, infatti, che a determinati antecedenti corrisponda un unico atto possibili; i sostenitori del
libero arbitrio suppongono, al contrario, che la stessa serie avrebbe poruro dar luogo a più atti diversi,
tutti ugualmente possibili. Ci soffermeremo in primo luogo su quest'ultima questione, quella cioè
dell'uguale possibilità di due azioni o di due volizioni contrarie. Esito tra due azioni possibili, x e y, e, di
volta in volta, passo dall'una all'altra. Ciò significa che passo attraverso una serie di stati, e che questi
stati possono essere suddivisi in due gruppi, a seconda che io tenda di più verso x o verso il partito
contrario. Ci avvicineremo alla realtà convenendo di designare con i segni invariabili x e y, non tanto
queste stesse tendenze o stati, poiché cambiano continuamente, ma le sue diverse direzioni che, per
maggior comodità di linguaggio, la nostra immaginazione assegna loro. Resterà comunque sottinteso che
si tratta solo di rappresentazioni simboliche, poiché in realtà non ci sono né due tendenze né due

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direzioni, ma un io che vive e che si sviluppa per effetto delle sue stesse esitazioni, finchè l'azione libera
si stacca da esso come un frutto troppo maturo. Ma il senso comune preferisce le distinzioni nette, quelle
che si esprimono con parole ben definite o con posizioni diverse nello spazio. Esso si rappresenta allora
un io che, dopo aver percorso una serie MO di fatti di coscienza, arriva al punto O, si trova in presenza
di due direzioni OX e OY ugualmente aperte. Ma allora sarà pur necessario collocare da qualche parte
l'attività dell'io. La collocheremo nel punto O; e si dirà che l'io, arrivato in O, trovandosi di fronte due
partiti da prendere, esita, delibera, e alla fine opta per uno di essi. Ora, se egli opta per OX, la linea OY
non cesserà d'esistere; così come, nel caso scelga OY, rimarrà aperta la via OX, in attesa che,
all'occorrenza, l'io ritorni sui suoi passi e se ne serva. In questo senso, parlando di un atto libero, si dirà
che l'azione contraria era ugualmente possibile. Ora, è facile vedere che questa concezione veramente
meccanicistica della libertà porta, per una logica naturale, al più inflessibile determinismo. Poichè si
conviene di localizzare nel punto O la doppia attività dell'io, non c'è alcun motivo per staccarla dall'atto
a cui darà luogo e che fa corpo con essa. E se l'esperienza mostra che ci si è decisi per X, nel punto O
non si dovrà porre un'attività indifferente, ma al contrario, un'attività che malgrado le visibili esitazioni,
già da prima era diretta nel senso OX. Se invece l'osservazione prova che si è optato per Y, ciò è dovuto
al fatto che l'attività da noi localizzata nel punto O, malgrado le oscillazioni verso la prima, assumeva di
preferenza questa seconda direzione. Dichiarare che, arrivati nel punto O, l'io sceglie indifferentemente
tra X e Y significa fermarsi a metà strada: fare cristallizzare nel punto O solo una parte di questa attività
continua in cui, certo, distinguevamo diverse direzioni, ma che, oltre a ciò, ha portato a X o a Y. In
breve, tanto i difensori che gli avversari della libertà sono d'accordo sul fatto di fare precedere l'azione
da una specie di oscillazione meccanica tra due punti, X e Y. Non bisogna dimenticare che questa figura,
vero sdoppiamento della nostra attività psichica nello spazio, è puramente simbolica, e che, come tale,
potrà essere costruita solo se si assumerà l'ipotesi di una deliberazione compiuta e di una decisione
presa. Potrete sì tracciarla in anticipo, ma solo perchè supponete di essere già arrivati al termine, e di
assistere con l'immaginazione all'atto finale. La questione della libertà esce intatta da queste discussioni;
cosa non difficile da capire, poiché la libertà deve essere cercata in una certa sfumatura o qualità
dell'azione stessa, e non nel rapporto di quest'atto con ciò che esso non è o con ciò che avrebbe potuto
essere. Tutta l'oscurità deriva dal fatto che entrambi si rappresentano la deliberazione come una
oscillazione nello spazio, mentre in realtà essa consiste in un progresso dinamico in cui l'io e gli stessi
motivi sono in un continuo divenire.
Ma il determinista non si darà per vinto, e riformulando il problema affermerà: ''Lasciamo da parte le
azioni compiute, e consideriamo solo gli atti a venire. Si tratta di sapere se, conoscendo sin d'ora tutti gli
antecedenti futuri, una intelligenza superiore potrebbe prevedere con assoluta certezza la decisione che
ne conseguirà''. Per fissare le idee, immaginiamo un personaggio che, in circostanze gravi, debba
prendere una decisione apparentemente libera; lo chiameremo Pietro. Si tratta di sapere se, vivendo nello
stesso periodo di Pietro, o, se preferite, molti secoli prima, un filosofo, Paolo, avrebbe potuto,
conoscendo tutte le condizioni in cui Pietro agisce, prevedere con certezza la scelta fatta da Pietro. Ci

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sono vari modi di rappresentarsi lo stato di una persona in un momento dato. Cerchiamo di farlo, per
esempio, quando leggiamo un romanzo. L'intensità di uno stato psichico non p data dalla coscienza
come un segno speciale che accompagnerebbe lo stato e ne determinerebbe la potenza. Se si tratta di un
sentimento, la sua intensità consiste nel fatto di essere sentito. Sarà quindi necessario distinguere due
modi di assimilare gli stati di coscienza degli altri: uno dinamico, che consisterebbe nel provarli noi
stessi; l'altro statico, attraverso il quale, alla coscienza stessa di questi stati, verrebbe sostituita la loro
immagine, o, meglio, il loro simbolo intellettuale, la loro idea. Così, invece di riprodurli, li si
immaginerà. È privo di senso domandarsi se, dato l'insieme completo di questi antecedenti, l'atto poteva
e non poteva essere previsto. Ci sono infatti due modi di assimilare questi antecedenti, l'uno dinamico e
l'altro statico. Nel primo caso, attraverso passaggi impercettibili, si sarà portati a coincidere con la
persona di cui ci si occupa, a passare attraverso la stessa serie di stati e a tornare così al momento stesso
in cui l'atto si compie; e allora non si tratterà più di prevederlo. Nel secondo caso, si presuppone l'atto
finale solo in quanto, accanto all'indicazione degli stati, ci si figura la valutazione quantitativa della loro
importanza. Così i primi sono portati a constatare semplicemente che, nel momento in cui sta per
compiersi, l'atto non è ancora compiuto, e gli altri che, una volta compiuto, lo è definitivamente. E la
questione della libertà non viene toccata.
Che la confusione sia naturale, e persino inevitabile, deriva dal fatto che la scienza sembra fornire alcuni
indiscutibili esempi di previsione del futuro. Non è forse vero che si determinano in anticipo le
congiunzioni degli astri, le eclissi di sole e di luna, e la maggior parte dei fenomeni astronomici?
Possiamo riconoscerlo senza difficoltà, ma una previsione di tal genere non ha la minima somiglianza
con quella di un atto volontario. Anzi, come vedremo, le ragioni che rendono possibile la predizione di
un fenomeno astronomico sono proprio le stesse che ci impediscono di determinare in anticipo un fatto
che proviene da un'attività libera. Il futuro dell'universo materiale non ha alcuna analogia con il futuro di
un essere cosciente. Il tempo di cui si parla in astronomia è un numero, e i calcoli non possono
specificare la natura delle unità di tale numero: le si possono quindi supporre piccole a piacere, a
condizione però che l'ipotesi venga estesa a tutta la serie delle operazioni, e che, in tal modo, i rapporti
successivi di posizione dello spazio vengano conservati. Si assisterà allora, nell'immaginazione, al
fenomeno che si vuole predire; si saprà in quale punto preciso dello spazio o dopo quante unità di tempo
si produce questo fenomeno. Ma queste unità di tempo che costituiscono la durata vissuta e di cui
l'astronomo può disporre a piacere, poiché non offrono alcun appiglio alla scienza, sono proprio ciò che
interessa allo psicologo, in quanto la psicologia si basa sugli intervalli stessi, e non sui loro punti
estremi. La coscienza pura non percepisce il tempo come somma di unità di durata: lasciata a se stessa
non ha alcun mezzo e nessuna ragione per misurare il tempo; ma per essa, un sentimento che, per
esempio, durasse un numero di giorni due volte minore, non sarebbe più lo stesso sentimento; questo
stato di coscienza sarebbe privato di una molteplicità di impressioni che l'hanno arricchito e ne hanno
modificato la natura. Quando attribuiamo un certo nome a un sentimento lo trattiamo come una cosa. Ma
dimentichiamo che gli stati di coscienza sono progressi e non cose. Così, non appena ci si chiede se

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un'azione futura possa essere prevista, si identifica inconsciamente il tempo delle scienze esatte, quello
che si riduce a un numero, con la durata reale, la cui apparente quantità è, in realtà, una qualità, che non
possiamo abbreviare in un solo istante senza modificare la natura dei fatti che la riempiono.
Al determinista non resterà che una scelta. Rinuncerà alla possibilità di prevedere un certo atto o stato di
coscienza futuro, ma affermerà che ogni atto è determinato dai suoi antecedenti psichici o, che, come i
fenomeni della natura, anche i fatti di coscienza obbediscono a delle leggi. Si lascia allora nell'ombra la
natura propria di questi fenomeni, ma si afferma che, in quanto fenomeni, restano sottoposti alla legge di
causalità. Ora, questa legge stabilisce che le stesse cause producano gli stessi effetti. Quest'ultima forma
dell'argomentazione deterministica differisce meno di quanto si possa credere da tutte quelle che
abbiamo esaminato precedentemente. Dire che le stesse cause interne producono gli stessi effetti,
significa supporre che una stessa causa può presentarsi più volte sul teatro della coscienza. Ora, la nostra
concezione della durate tende proprio ad affermare l'eterogeneità radicale dei fatti psicologici profondi, e
l'impossibilità che due di essi si assomiglino completamente, poiché costituiscono due momenti
differenti di una storia. Infatti, mente l'oggetto esterno non porta il segno del tempo trascorso, di modo
che, nonostante la diversità dei momenti, il fisico potrà trovarsi di nuovo in presenza di condizioni
elementari identiche, per la coscienza che ne conservi la traccia, la durata è una cosa reale e, in questo
caso, non è possibile parlare di condizioni identiche, perchè lo stesso momento non si presenta due volte.
In breve, se la relazione causale continua ad esistere anche nel mondo dei fatti interni, essa non può
assomigliare in alcun modo a ciò che definiamo causalità nella natura. Ci troviamo quindi in presenza di
un'illusione talmente profonda, di un pregiudizio così tenace, che non riusciremo ad avere ragione su di
essi, se non attaccandoli nel loro stesso principio e cioè il principio di causalità. Analizzando il concetto
di causa, mostreremo l'equivoco che vi si nasconde. Vi concediamo, per un istante, che il principio di
causalità riassuma solo le successioni uniformi e incondizionate che sono state osservate nel passato: con
quale diritto allora le applicate anche qui fatti di coscienza profondi in cui non avete ancora distinto le
successioni regolari, dal momento che non si può prevederli? In verità, quando gli empiristi fanno valere
il principio di causalità contro la libertà umana, essi assumono il termine causa in una nuova accezione,
che, d'altronde, è quella del senso comune. Constatare la successione regolare di due fenomeni significa
infatti riconoscere che, essendo dato il primo, si può già percepire l'altro. Ma questo legame affatto
soggettivo tra due rappresentazioni non basta al senso comune. Ad esso sembra che, se l'idea del
secondo fenomeno è già implicata in quella del primo, è necessario che in una forma o in un'altra, lo
stesso secondo fenomeno esista oggettivamente in seno al primo. Si passerà allora, impercettibilmente,
dal primo significato al secondo, e ci si rappresenterà la relazione causale come una specie di
preformazione del fenomeno futuro nelle sue condizioni presenti. Ora, questa preformazione può essere
intesa in due sensi molto diversi, ed è proprio qui che si genera l'equivoco. Il rapporto di causalità è
necessario nel senso che si avvicinerà indefinitamente al rapporto di identità. Il principio di identità è la
legge assoluta della nostra coscienza; afferma che ciò che è pensato lo è nel momento in cui viene
pensato; e ciò che costituisce l'assoluta necessità di questo principio consiste nel fatto che esso non lega

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il futuro nel presente, ma solo il presente al presente: esprime l'incrollabile fiducia in se stessa che la
coscienza sente. Che si approfondisca la fisica cartesiana o le teorie scientifiche del nostro tempo, si
troverà dappertutto la medesima preoccupazione di stabilire un rapporto di necessità logica tra la causa e
l'effetto, e si vedrà che tale preoccupazione si traduce nella tendenza a trasformare i rapporti di
successione in rapporti di inerenza, ad annullare l'azione della durata, e a sostituire la causalità apparente
con una identità fondamentale. Ora, se lo sviluppo della nozione di causalità, intesa come legame
necessario, porta alla concezione cartesiana della natura, inversamente, ogni rapporto di determinazione
necessaria stabilito tra fenomeni successivi deve derivare dal fatto che, al di sotto di questi fenomeni
eterogenei, si scorge confusamente un meccanismo matematico. Si vedrà però che, quanto più l'effetto
sembra essere necessariamente legato alla causa, tanto più si tende a porlo nella causa stessa come la
conseguenza matematica nel principio, e a cancellare l'azione della durata Le cose considerate al di fuori
della nostra percezione, non ci sembrano durare, e quanto più approfondiamo quest'idea, tanto più ci
sembra assurdo che, oggi, la stessa causa non produca lo stesso effetto di ieri. Quanto più tendiamo a far
diventare la relazione causale un rapporto di determinazione necessaria, tanto più affermiamo con ciò
che le cose non durano come noi.
Esiste un altro tipo di performazione, ancor più familiare al nostro spirito perchè la coscienza immediata
ce ne fornisce l'immagine. Infatti, noi passiamo attraverso successivi stati di coscienza, e, sebbene lo
stato che segue non fosse per nulla contenuto in quello che lo precede, ce ne siamo rappresentati più o
meno confusamente l'idea e l'azione, si sono frapposti degli elementi intermedi appena percepibili,
l'insieme dei quali assume per noi quella forma sui generis che viene definita sentimento dello sforzo. Si
capisce allora come si possa ancora dire che il futuro era in un certo senso performato nel presente. Non
abbiamo forse detto, infatti, che se cerchiamo il fenomeno B in seno stesso al fenomeno A che lo
precede regolarmente è perchè l'abitudine di associare due immagini finisce col darci l'idea del secondo
fenomeno come se fosse racchiusa in quella del primo? È naturale che questa oggettivazione venga poi
portata fino in fondo e che lo stesso fenomeno A diventi uno stato psichico in cui il fenomeno B sarebbe
contenuto in forma di rappresentazione confusa. Con ciò ci limitiamo a supporre che il legame oggettivo
tra due fenomeni assomigli all'associazione soggettiva che ce ne ha suggerito l'idea. Le qualità delle cose
diventeranno così dei veri e propri stati, molto simili a quelli del nostro io; si attribuirà all'universo
materiale una personalità vaga, diffusa attraverso lo spazio, e che, anche senza essere dotata di una vera
e propria volontà cosciente, passa da uno stato all'altro in virtù di una spinta interna, di uno sforzo. Ora,
è evidente che, inteso in questo secondo modo, il rapporto di causalità non comporta la determinazione
dell'effetto da parte della causa.
Da questa analisi risulta che il principio di causalità racchiude due concezioni contraddittorie della
durata, due immagini non meno incompatibili di quanto non lo sia la preformazione del futuro nel
presente. A volte ci si rappresenta tutti i fenomeni, fisici o psicologici, come fenomeni che durano nello
stesso modo, e, di conseguenza, che durano in modo identico al nostro; il futuro, allora, esisterà nel
presente solo sotto forma di idea, e il passaggio dal presente al futuro assumerà l'aspetto di uno sforzo

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che non sempre perviene alla realizzazione dell'idea concepita. A volte, al contrario, si attribuisce alla
durata la forma propria degli stati di coscienza; le cose non durano più allora come noi, e, per esse, viene
ammessa una preesistenza matematica del futuro nel presente. Del resto, prese isolatamente, ognuna di
queste ipotesi salvaguarda la libertà umana; la prima, infatti, giungerebbe a introdurre la contingenza
persino nei fenomeni della natura; e la seconda, attribuendo la determinazione necessaria dei fenomeni
fisici al fatto che le cose non durano come noi, ci invita a fare dell'io che dura proprio una forza libera.
Per questo ogni chiara concezione della causalità perviene all'idea della libertà umana come a una
conseguenza naturale.
Possiamo ora formulare la nostra concezione della libertà. Si chiama libertà il rapporto tra l'io concreto e
l'atto che compie. Questo rapporto è indefinibile, proprio perchè siamo liberi. Infatti, si può analizzare
una cosa, ma non un progresso; si può scomporre l'estensione, ma non la durata.
Potremo definire l'atto libero dicendo che esso, una volta compiuto, avrebbe potuto non esserlo? Ma
questa affermazione implica l'idea di un'equivalenza assoluta tra la durata concreta e il suo simbolo
spaziale. Oppure potremo definire l'atto libero, “quello che non può essere previsto neppure quando ne
siano note in anticipo tutte le condizioni”? Ma pensare che tutte le condizioni siano date, equivale, nella
durata concreta a collocarsi al momento stesso in cui l'atto si compie. Oppure, infine, definiremo l'atto
libero dicendo che non è necessariamente determinato dalla sua causa? Ma, o queste parole perdono
qualsiasi significato, oppure con ciò si intende dire che delle stesse cause interne on conseguiranno
sempre gli stessi effetti. In sintesi, ogni domanda di chiarimento per quanto concerne la libertà, ci porta
senza che ce ne accorgiamo alla seguente domanda: ''Il tempo può essere rappresentato adeguatamente
mediante lo spazio?'' Al che rispondiamo di sì, nel caso in cui non si tratti del tempo trascorso, e di no se
parlate del tempo che scorre. Ora, l'atto libero s produce nel tempo che scorre, e non in quello trascorso.
La libertà è quindi un fatto, ed è il più chiaro tra i fatti che constatiamo.

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