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CAPITOLO PRIMO

La selezione delle immagini per la rappresentazione. La funzione del corpo


Per un istante fingeremo di non conoscere niente delle teorie della materia e delle teorie dello spirito. Eccomi
dunque in presenza di immagini, nel senso più vago con cui si possa assumere questa parola, immagini
percepite quando apro i miei sensi, non percepite quando li chiudo. Tutte queste immagini agiscono e
reagiscono le une sulle altre in tutte le loro parti elementari, secondo delle leggi costanti, che chiamo leggi di
natura. Tuttavia ce n'è una che risalta su tutte le altre per il fatto che non la conosco soltanto dall'esterno,
attraverso delle percezioni, ma anche dall'interno, attraverso delle affezioni: è il mio corpo. L'atto al quale
termina lo stato affettivo non è di quelli che potrebbero rigorosamente dedursi dai fenomeni antecedenti,
come un movimento da un movimento, e, di conseguenza, aggiunge veramente qualcosa di nuova
all'universo e alla sua storia. Mi accingo a formulare puramente e semplicemente ciò che sento e ciò che
vedo: Tutto accade come se, in questo insieme di immagini che chiamo universo, niente potesse prodursi di
realmente nuovo se non tramite certe immagini particolari, il cui tipo mi è fornito dal mio corpo. Il corpo è
nell'insieme nel
mondo materiale, un'immagine che agisce come le altre immagini, che riceve e rende del movimento, con
questa sola differenza, che il mio corpo sembra scegliere in una certa misura il modo in cui rendere ciò che
riceve. Ma in che modo il mio corpo in generale, il mio sistema nervoso in particolare, potrebbero generare,
in tutto o in parte, la mia rappresentazione dell'universo? Il mio corpo, oggetto destinato a muovere degli
oggetti, è dunque un centro d'azione: non saprebbe far nascere una rappresentazione. Ma se il mio corpo è un
oggetto capace di esercitare un'azione reale e nuova sugli oggetti che lo circondano, deve occupare rispetto
ad essi un posto privilegiato. In generale, un'immagine qualunque influenza le altre immagini in un modo
determinato, calcolabile pesino, conformemente a ciò che chiamiamo leggi di natura. L'azione necessaria si
compirà da sola quando sarà giunta la sua ora. Ma io ho supposto che la funzione dell'immagine che chiamo
il mio corpo fosse quella di esercitare influsso reale su delle altre immagini, e di conseguenza, di decidersi
tra diversi procedimenti materialmente possibili. E poiché questi procedimenti sono senza dubbio suggeriti
ad essa dal maggior o minor vantaggio che può ricavare dalle immagini circostanti, bisogna proprio che
queste immagini delineino, in qualche modo, sul lato che volgono verso il mio corpo, la risoluzione che il
mio corpo potrebbe ricavare da questa. Di fatto io noto che la dimensione, la forma, persino il colore degli
oggetti esterni si
modificano a seconda che il mio corpo si avvicini o si allontani da essi, che la forza degli odori, l'intensità
dei suoni, aumentano o diminuiscono con la distanza. Via via che il mio orizzonte si allarga, le immagini che
mi circondano sembrano profilarsi su uno sfondo più uniforme e diventarmi indifferenti. Più restringo questo
orizzonte, più gli oggetti che circoscrive si scaglionano distintamente secondo la maggiore o minore facilità
con cui il corpo può toccarli o muoverli. Gli oggetti che circondano il mio corpo riflettono l'azione possibile
del mio corpo su di essi. Chiamo materia l'insieme delle immagini, e percezione della materia queste stesse
immagini riferite all'azione possibile di una certa immagine determinata, il mio corpo. Approfondiamo
quest'ultimo rapporto. Considero il mio corpo, con i centri nervosi. Io so che gli oggetti esterni imprimono ai
nervi afferenti delle vibrazioni che si propagano ai centri, che i centri sono il teatro di movimenti molecolari
molto vari. Cambiate gli oggetti, modificate il loro rapporto con il mio corpo, e tutto è cambiato nei
movimenti interni dei miei centri percettivi. Ma tutto è cambiato anche nella ''mia percezione''.
Domandarsi se l'universo esista soltanto nel nostro pensiero o al di fuori di esso significa enunciare il
problema in termini insolubili; vuol dire condannarsi ad una discussione sterile, nella quale i termini come
pensiero, esistenza, universo, saranno necessariamente assunti, da una parte e dall'altra, secondo significati
totalmente differenti. Per troncare la discussione bisogna trovare dapprima un terreno comune su cui
impegnare la lotta. Ora, nessuna dottrina filosofica contesta che le stesse immagini possono entrare
contemporaneamente in due sistemi distinti, uno che appartiene alla scienza, e in cui ogni immagine, essendo
riferita soltanto a se stessa, serba un valore assoluto; l'altro, che è il mondo della coscienza, e in cui tutte le
immagini si regolano su un'immagine centrale, il nostro corpo, di cui seguono le variazioni. Il problema
posto tra realismo e idealismo diventa allora molto chiaro: quali sono i rapporti che questi due sistemi di
immagini intrattengono tra loro?
Ed è facile vedere come l'idealismo soggettivo consista nel far derivare il primo sistema dal secondo, il
realismo materialista il secondo dal primo. Scavando adesso al di sotto delle due dottrine, scoprirete un
postulato in comune, che formuleremo così: la percezione ha un interesse totalmente speculativo, è pura
conoscenza. Tutta la discussione verte sul rango che bisogna attribuire a questa conoscenza di fronte alla
conoscenza scientifica. Gli uni non vedono nella percezione che una scienza confusa e provvisori. Gli altri
propongono dapprima la percezione, l'innalzano ad assoluto, e considerano la scienza come un'espressione
simbolica del reale. Ora è proprio questo postulato che contestiamo. Esso è smentito dall'esame, anche il più
superficiale, della struttura del sistema nervoso nella serie animale. Il cervello deve essere soltanto, secondo
noi, una specie di centralino telefonico: la sua funzione è quella di passare la comunicazione o di farla
attendere. Non aggiunge niente a ciò che riceve; ma siccome tutti gli organi percettivi inviano qui i loro
prolungamenti, e siccome tutti i meccanismi motori hanno qui i loro rappresentanti autorizzati, esso
costituisce un vero e proprio centro, dove l'eccitazione periferica si mette in rapporto con questo o quel
meccanismo motorio. Così, talvolta la funzione del cervello è quella di condurre il movimento raccolto ad un
organo di reazione scelto, talvolta quella di aprire a questo movimento la totalità delle vie motorie. In altri
termini il cervello ci sembra essere uno strumento di analisi rispetto al movimento raccolto e uno strumento
di selezione rispetto al movimento eseguito. Vale a dire che il sistema nervoso non ha nulla di uno strumento
che servirebbe a fabbricare o anche a preparare delle rappresentazioni. Abbiamo esaminato ciò che accade
nel corpo organizzato; abbiamo visto dei movimenti trasmessi o inibiti, mutati in azioni compiute o dispersi
in azioni
nascenti. Questi movimenti ci sono sembrati estranei al processo della rappresentazione. Allora abbiamo
considerato la rappresentazione stessa e l'indeterminazione (la parte di indipendenza dell'essere vivente) che
lo circonda e in vista della quale questo sistema sembra essere stato costruito molto più che in vista della
rappresentazione. Da questa indeterminazione accettata come un fatto, siamo potuti giungere alla
conclusione della necessità di una percezione, cioè di una relazione variabile tra l'essere vivente e gli influssi
più o meno lontani degli oggetti che lo interessano. La realtà della materia consiste nella totalità dei suoi
elementi e delle loro azioni di ogni genere. La nostra rappresentazione della materia è la misura della nostra
possibile azione dui corpi; risulta dall'eliminazione di ciò che non riguarda i nostri bisogni e, più in generale,
le nostre
funzioni. In un certo senso si potrebbe dire che la percezione di un qualsiasi punto materiale incosciente è
infinitamente più vasta e più completa della nostra, perchè questo punto raccoglie e trasmette le azioni di
tutti i punti del mondo materiale, mentre la nostra coscienza ne coglie soltanto alcune parti per certi lati. La
coscienza consiste precisamente in questa scelta. Ma c'è in questa necessaria povertà della nostra percezione,
qualcosa di positivo e che annuncia già lo spirito: è il discernimento. Come funziona a questo punto la
percezione? Ci avevate mostrato le immagini esterne che raggiungevano gli organi di senso, che
modificavano i nervi, che propagavano il loro influsso nel cervello. Andate fino in fondo. Il movimento
attraverserà la sostanza celebrale, non senza avervi sostato, e quindi sboccerà in azione volontaria. Ecco tutto
il meccanismo della percezione. Quando una lesione dei nervi o dei centri interrompe il percorso della
vibrazione
nervosa, la percezione è diminuita in egual misura. La funzione del sistema nervoso è quella di utilizzare
questa vibrazione, di convertirla in processi pratici realmente o virtualmente compiuti. Se, per una ragione o
per un'altra l'eccitazione non passa più, sarebbe strano che la corrispondente percezione avesse ancora luogo.
Il mio sistema, interposto tra gli oggetti che scuotono il mio corpo e quelli che potrei influenzare, gioca il
ruolo di semplice conduttore che trasmette, distribuisce o inibisce del movimento. Questo conduttore è
composto da un'enorme moltitudine di fili tesi, che vanno dalla periferia al centro e dal centro alla periferia.
Tanti sono i fili che vanno dalla periferia verso il centro, altrettanti sono i punti dello spazio capaci di
sollecitare la mia volontà e di porre, per così dire, una domanda elementare alla mia attività motoria: ogni
domanda posta è precisamente ciò che si chiama una percezione. Così la percezione viene diminuita di uno
dei suoi elementi ogni
volta che uno dei fili cosiddetti sensitivi è spezzato.
Gli psicologi che hanno studiato l'infanzia sanno bene che la nostra rappresentazione incomincia in forma
impersonale. E' a poco a poco, e a forza di induzioni, che essa adotta il nostro corpo come centro e diventa la
nostra rappresentazione. Via via che il mio corpo si sposta nello spazio, tutte le altre immagini variano;
questa, al contrario, resta invariabile. Io devo quindi farne proprio un centro, al quale riferirò tutte le altre
immagini. Se si ammette, come attesta l'esperienza, che l'insieme delle immagini è data fin dall'inizio, vedo
chiaramente come il mio corpo finisca per occupare, in questo insieme, una situazione privilegiata. E allora
comprendo anche come nasca la nozione di interno ed esterno, che all'inizio non è altro che la distinzione del
mio corpo dagli altri corpi. Dapprima c'è l'insieme delle immagini; in questo insieme ci sono dei centri
d'azione, contro
cui sembrano riflettersi le immagini interessanti; è così che nascono le percezioni e che si preparano le
azioni. Il mio corpo è ciò che prende forma al centro di queste percezioni; la mia persona è l'essere a cui
bisogna riferire queste azioni. Le cose si chiariscono se si a così dalla periferia della rappresentazione al
centro, come fa il bambino, come ci invitano a fare l'esperienza immediata e il senso comune. Come mai
allora quest'idea di un mondo esterno costruito artificialmente, pezzo dopo pezzo, con delle sensazioni
inestensive di cui non si comprende né come arriverebbero a formare una superficie estese, né come, in
seguito, si proietterebbero al di fuori del nostro corpo?
Perchè si vuole, contro ogni apparenza, che io vada dal mio io cosciente al mio corpo, poi dal mio corpo agli
altri corpi, quando di fatto io mi colloco subito nel mondo materiale in generale, per limitare
progressivamente questo centro d'azione che si chiamerà il mio corpo e distinguerlo così da tutti gli altri? Ci
sono, in questa credenza nel carattere inizialmente insestensivo della nostra percezione esterna, tante illusioni
riunite, si troveranno, in quest'idea per cui proiettiamo fuori di noi degli stati puramente interni, tanti
malintesi, tante risposte zoppicanti a domande mal poste, che non potremmo pretendere di far luce tutto d'un
colpo. Speriamo che si faccia a poco a poco, via via che mostreremo più chiaramente, dietro a queste
illusioni, la confusione metafisica tra l'estensione indivisa e lo spazio omogeneo, la confusione psicologica
tra la ''pura percezione e la memoria. Ma esse si ricollegano, inoltre, a dei fatti reali che possiamo fin d'ora
segnalare per correggerne
l'interpretazione.
• il primo di questi fatti è che i nostri sensi hanno bisogno di educazione. Nè la vista né il tatto giungono
subito a localizzare le loro impressioni. E' necessaria una serie di accostamenti e di induzioni, attraverso i
quali coordiniamo, a poco a poco, le nostre impressioni le une con le altre. Da qui si salta all'idea di
sensazioni inestensive per essenza e che, giustapponendosi, costituirebbero l'estensione Le diverse percezioni
dello stesso oggetto che i miei sensi forniscono, non ricostruiranno, riunendosi l'immagine completa
dell'oggetto; esse resteranno separate le une dalle altre attraverso degli intervalli che misurano, in qualche
modo, altrettanti vuoti nei miei bisogni: è per colmare qusti intervalli che è necessaria l'educazione
dei sensi. Questa educazione ha come scopo quello di armonizzare i miei sensi tra loro, di ristabilire tra i loro
dati una continuità che è stata interrotta dalla discontinuità stessa dei bisogni del mio corpo, di ricostruire
approssimativamente, infine, l'oggetto materiale nella sua interezza. Così si spiegherà, nella nostra ipotesi, la
necessità di un'educazione dei sensi. Delle sensazioni inestensive della vista si comporranno con delle
sensazioni inestensive del tatto e degli altri sensi per fornire, grazie alla loro sintesi, l'idea di un oggetto
materiale. Ma non si vede come queste sensazioni acquisteranno dell'estensione, né soprattutto come, una
volta acquisita in linea di principio l'estensione, si spiegherà la preferenza, di fatto, di una tra queste per un
certo punto dello spazio.
• il secondo fatto addotto consisterebbe in ciò che per molto tempo si è chiamata ''l'energia specifica dei
nervi''. Si sa che l'eccitazione del nervo ottico per un violento stimolo esterno, o per una scarica elettrica darà
una sensazione visiva, che questa stessa scarica elettrica, applicata al nervo acustico o al glossofaringeo, farà
percepire un sapore o sentire un suono.
Da questi fatti molto particolari si passa a queste due leggi generalissime per cui cause differenti, agenti sullo
stesso nervo, eccitano la stessa sensazione, e la stessa causa, che agisce su nervi differenti, provoca
sensazioni differenti. E da queste stesse leggi si inferisce che le nostre sensazioni sono semplicemente dei
segnali, che la funzione di ogni senso è quella di tradurre nella propria lingua movimenti omogenei e
meccanici che si compiono nello spazio. Da ciò infine l'idea di scindere la nostra percezione in due parti
distinte: da un lato i movimenti omogenei nello spazio, dall'altro le sensazioni inestensive nella coscienza.
La verità è che tutti i fatti addotti sembrano ricondursi ad un solo tipo: la singola eccitazione capace di
produrre delle differenti sensazioni, le molteplici eccitazioni capaci di generare una stessa sensazione, sono o
la corrente elettrica, o una causa meccanica capace di determinare nell'organo una modificazione
dell'equilibrio elettronico. Limitiamoci a far notare che le sensazioni di cui qui si parla non sono delle
immagini da noi percepite fuori dal nostro corpo, ma piuttosto delle affezioni localizzare nel corpo stesso;
• questi terzo argomento deriva dal fatto che si passa per gradi insensibili, dallo stato rappresentativo, che
occupa dello spazio, allo stato affettivo che sembra inesteso. Da ciò si giunge alla conclusione
dell'inestensione naturale e necessaria di ogni sensazione, in quanto l'estensione si aggiungerebbe alla
sensazione e il processo della percezione consisterebbe in una esteriorizzazione di stati interni. Il nostro
intelletto, cedendo alla sua abituale illusione, pone il dilemma per cui una cosa o è estesa o non lo è; e
siccome lo stato affettivo partecipava vagamente dell'estensione, ed è imperfettamente localizzato, ne
conclude che questo stato è assolutamente inestensivo. Ma allora i successivi gradi dell'estensione, e
l'estensione stessa, si spiegheranno attraverso non so quale proprietà acquisita dagli stati inestensivi.
Vogliamo mettere quest'argomentazione sotto un'altra forma? Non c'è quasi nessuna percezione che non
possa per un accrescimento dell'azione del suo oggetto sul nostro corpo, diventare affezione e più
particolarmente dolore. Così si passa insensibilmente dal contatto dello spillo alla puntura. Realisti e idealisti
concordano nel ragionare in questa maniera. Quando un corpo estraneo tocca uno dei prolungamenti
dell'ameba, questo prolungamento si ritrae; ogni parte della massa protoplasmatica è dunque ugualmente
capace di ricevere l'eccitazione e di reagire ad essa; percezione e movimento qui si confondono in un'unica
proprietà che è la contrattilità. Ma via via che l'organismo si complica, il lavoro si divide, le funzioni si
differenziano e gli elementi anatomici così costituiti perdono la loro indipendenza. In un organismo come il
nostro, le fibre cosiddette sensitive sono esclusivamente incaricate di trasmettere delle eccitazioni ad una
regione centrale da cui la vibrazione si propagherà a degli elementi motori. Esse rimangono esposte
alle stesse cause di distruzione che minacciano l'organismo nel suo insieme: e mentre questo organismo ha la
capacità di muoversi per scappare dal pericolo o per riparare alle sue perdite, l'elemento sensitivo conserva
l'immobilità relativa a cui lo condanna la divisione del lavoro. Così nasce il dolore, il quale non è altro che
uno sforzo dell'elemento leso per rimettere a posto le cose. C'è un momento preciso in cui il dolore
interviene: è quando la parte interessata dell'organismo, al posto di accogliere l'eccitazione, la respinge. E
non è soltanto una differenza di grado che separa la percezione dall'affezione, ma una differenza di
natura.
Posto questo, noi abbiamo considerato il corpo vivente come una specie di centro da cui si riflette, sugli
oggetti circostanti, l'azione che questi oggetti esercitano su di esso: in questa riflessione consiste la
percezione esterna. Ma questo centro non è un punto matematico: è un corpo, esposto, come tutti i corpi della
natura, all'azione delle cause esterne che minacciano di disgregarli. Abbiamo appena visto che esso resiste
all'influenza di queste cause. Non si limita a riflettere l'azione dall'esterno; lotta, e assorbe così qualcosa di
quest'azione Questa sarebbe la fonte dell'affezione. Si potrebbe dunque dire, metaforicamente, che se la
percezione misura il potere riflettente del corpo, l'affezione ne misura il potere assorbente. Con ciò si ritorna
sempre a dire che la mia percezione è fuori dal mio corpo, e la mia affezione nel mio corpo. Come gli oggetti
esterni sono da me percepiti dove si trovano, in sé e non in me, così i miei stati affettivi sono sentiti là dove
si producono, cioè in un determinato punto del mio corpo. Considerate questo sistema di immagini che si
chiama il mondo materiale. Il mio corpo è ima di queste immagini. Attorno a questa immagine si dispone la
rappresentazione, vale a dire il suo eventuale influsso sulle altre. In essa si produce l'affezione, vale
a dire il suo attuale sforzo su se stessa. Questa è proprio la differenza che ciascuno di noi stabilisce
naturalmente tra un'immagine e una sensazione. Quando diciamo che l'immagine esiste al di fuori di noi, in
tal modo intendiamo dire che è esterna al nostro corpo. Quando parliamo della sensazione come di uno stato
interno, vogliamo dire che essa sorge dentro il nostro corpo. E per questo noi affermiamo che la totalità delle
immagini percepite sussisterebbe anche se il nostro corpo svanisse, mentre non possiamo sopprimere il
nostro corpo senza far svanire le nostre sensazioni. La mia percezione allo stato puro, è isolata dalla mia
memoria, non va dal mio corpo agli altri corpi: è, all'inizio, nell'insieme dei corpi, poi a poco a poco si limita
e adotta il mio corpo come centro. Ed essa vi condotta precisamente dall'esperienza della duplice facoltà, che
questo corpo possiede di compiere azioni e di provare affezioni, in una parola, dall'esperienza del potere
sensorio-motorio di una certa immagine, privilegiata da tutte le immagini. Da una parte, in effetti,
quest'immagine occupa sempre il centro della rappresentazione, così che le altre immagini si dispongono
attorno ad essa nello stesso ordine in cui potrebbero subire la sua azione; dall'altra, invece di conoscere
soltanto, come per le altre immagini, la pellicola superficiale, io ne percepisco l'interno, il di dentro, grazie a
delle sensazioni che chiamo affettive. C'è dunque, nell'insieme delle immagini, un'immagine privilegiata,
percepita nella sua profondità e non più semplicemente nella sua superficie, sede d'affezione nello stesso
tempo che fonte d'azione: è questa immagine particolare che io adotto per centro dell'universo e per base
fisica della mia personalità.
E' venuto il momento di reintegrare la memoria nella percezione, di correggere in tal modo ciò che le nostre
conclusioni possono avere di esagerato, e di determinare così il punto di contatto tra la coscienza e le cose,
tra il corpo e lo spirito. Innanzitutto diciamo che se si pone la memoria, ovvero una sopravvivenza delle
immagini passate, queste immagini si mischiano costantemente alla nostra percezione del presente e
potranno anche sostituirsi ad esse. Perchè queste si conservano soltanto per rendersi utili: ad ogni istante
completano l'esperienza presente arricchendola con l'esperienza acquisita; e siccome questa va ingrandendosi
incessantemente, finirà per ricoprire e per sommergere l'altra. E' incontestabile che il fondo d'intuizione
reale, e per così dire istantaneo, sul quale si schiude la nostra percezione del mondo esterno, è poca cosa
rispetto a tutto quanto la nostra memoria vi aggiunge. Proprio perchè il ricordo di precedenti intuizioni
analoghe è più utile dell'intuizione stessa , esso sposta l'intuizione reale, la cui funzione allora è unicamente
quella di richiamare il ricordo, di dargli un corpo, di renderlo attivo, e, per questo, attuale. Bisogna tener
conto del fatto che il percepire finisce con l'essere soltanto un'occasione per ricordare, del fatto che noi
misuriamo praticamente il grado di realtà dal grado di utilità, del fatto che abbiamo tuttol'interesse a erigere a
semplici segni del reale queste immediate intuizioni che, in fondo, coincidono con la realtà stessa. L'errore
fondamentale, l'errore che, risalendo dalla psicologia alla metafisica, finisce per nasconderci la conoscenza
del corpo così come quella dello spirito, è quello che consiste nel vedere soltanto una differenza di intensità,
invece che una differenza di natura, tra la pura percezione e il ricordo. Le nostre percezioni sono senza
dubbio impregnate di ricordi e, inversamente, un ricorso, ridiventa presente soltanto prendendo il corpo di
qualche percezione in cui si inserisce. Dunque questi due atti, percezione e ricordo, si compenetrano sempre,
Scambiano sempre qualcosa delle loro sostanze per un fenomeno di endosmosi. La funzione dello psicologo
sarà di dissociarli, di rendere a ciascuno di essi la sua purezza naturale: così si chiarirebbe un buon numero di
difficoltà che la psicologia, e forse anche la metafisica, solleva. Ma nient'affatto. Si vuole che questi due dati
misti, totalmente composti, in dosi ineguali, di pura percezione e di puro ricordo, siano degli stati semplici.
In tal modo si condanna a ignorare tanto il puro ricordo quanto la pura percezione, a conoscere soltanto un
unico genere di fenomeno, che a volte si chiamerà ricordo e a volte percezione, a seconda che in esso
predomini l'uno o l'altro di questi due aspetti, e, di conseguenza, a cogliere soltanto una differenza di grado e
non più di natura tra la percezione e il ricordo. Si ritiene la percezione una semplice contemplazione, perchè
le si attribuisce sempre uno scopo puramente speculativo e si vuole che miri a non so quale conoscenza
disinteressata: come se, isolandola dall'azione, spezzando così i suoi legami con il reale, non la si rendesse
contemporaneamente inspiegabile e inutile! M, da quel momento, è abolita ogni differenza tra la percezione
e il ricordo, poiché il passato è per essenza ciò che non agisce più e misconoscendo questo carattere del
passato si diventa incapaci di distinguerlo realmente dal presente, cioè da ciò che agisce. Ristabiliamo al
contrario il vero carattere della percezione; mostriamo, nella pura percezione, un sistema di azioni nascenti
che penetra nel reale tramite le sue radici profonde: questa percezione si distinguerà radicalmente dal
ricordo; la realtà delle cose non sarà più costruita o ricostruita, ma toccata, penetrata, vissuta. Ora, dov'è
esattamente la differenza tra la materia e la percezione che ne abbiamo? La nostra percezione ci fornisce
dell'universo una serie di quadri pittoreschi ma discontinui: dalla nostra attuale percezione non potremmo
dedurre ulteriori percezioni, poiché non c'è niente, in un insieme di qualità sensibili che lasci prevedere le
nuove qualità nelle quali si trasformeranno. Al contrario, la materia evolve in modo che si possa passare da
un momento al momento seguente per via di deduzione matematica. L'eterogeneità qualitativa delle nostre
percezioni successive dell'universo dipende dal fatto che ciascuna di queste percezioni si estende essa stessa
in un certo spessore di durata, e dal fatto che la memoria condensa in essa un enorme molteplicità di
vibrazioni che ci appaiono tutte insieme. Per passare dalla percezione alla materia basterebbe dividere
idealmente questo spessore indiviso del tempo, distinguere in esso la molteplicità voluta di momenti, in una
parola, eliminare ogni memoria. Ma la nostra distinzione tra la pura percezione e la pura memoria mira ad un
altro obiettivo ancora. Se la pura percezione, fornendoci delle indicazioni sulla natura della materia, deve
permetterci di prendere posizione tra il realismo e l'idealismo, la pura memoria aprendoci una prospettiva su
ciò che si chiama lo spirito, dovrà essere, da parte sua,discriminante nei confronti di queste altre due dottrine,
lo spiritualismo e il materialismo. E' esattamente di questo aspetto del problema che ci preoccuperemo
all'inizio dei due capitoli che seguiranno perchè è da questa prospettiva che la nostra ipotesi comporta una
verifica sperimentale. Le nostre conclusioni sulla pura percezione si potrebbero riassumere dicendo
che nella materia c'è qualcosa in più, ma non qualcosa di differente, rispetto a ciò che è attualmente
dato. Senza dubbio la percezione cosciente non riguarda la totalità della materia, poiché essa consiste nella
separazione di ciò che, in questa materia, interessa i nostri bisogni. Ma tra questa percezione della materia e
la materia stessa c'è soltanto una differenza di grado, ma non di natura.

CAPITOLO SECONDO
Il riconoscimento della immagini. La memoria e il cervello
Dicevamo che il corpo, interposto tra gli oggetti che agiscono su di esso e quelli che influenza, è soltanto un
conduttore, incaricato di raccogliere i movimenti e di trasmetterli, quando non li ferma, a certi meccanismi
motori, determinati se l'azione è riflessa, scelti se l'azione è volontaria. Tutto deve accadere dunque come se
una memoria indipendente raccogliesse delle immagini lungo il tempo via via che si producono, e come se il
nostro corpo, con ciò che lo circonda, fosse soltanto una certa immagine tra queste immagini, l'ultima, quella
che otteniamo in ogni momento, praticando una cesura istantanea nel divenire in generale. In questa cesura,
il nostro corpo occupa il centro. Le cose che lo circondano agiscano su di esso ed esso agisce su queste. Le
sue reazioni sono più o meno complesse, più o meno diversificate, secondo il numero e la natura degli
apparati che
l'esperienza ha costruito all'interno della sua sostanza. E' dunque sotto forma di dispositivi che esso può
immagazzinare l'azione del passato. Da ciò risulterebbe che le immagini passate propriamente
delle si conservano diversamente e che dobbiamo di conseguenza formulare questa ipotesi: il passato si
conserva sotto due forme distinte: 1° dentro dei meccanismi motori; 2° dentro dei ricordi
indipendenti. A volte si attuerà nell'azione stessa e con l'attivazione totalmente automatica del meccanismo,
appropriato alle circostanze; a volte implicherà un lavoro dello spirito, che andrà a cercare nel passato, per
dirigerle sul presente, le rappresentazioni più atte ad inserirsi nella situazione attuale. Da qui la nostra
seconda proposizione: il riconoscimento di un oggetto presente avviene per dei movimenti quando procede
dall'oggetto, per delle rappresentazioni quando emana dal soggetto. Possiamo parlare del corpo come un
limite mobile tra il futuro ed il passato, come di una punta mobile che il nostro passato spingerebbe
incessantemente nel nostro futuro. Mentre il mio corpo, considerato in un unico istante, è soltanto un
conduttore interposto tra gli oggetti che l'influenzano e gli oggetti su cui agisce, in compenso, rimesso nel
tempo che scorre, è sempre
situato nel punto preciso in cui il mio passato terminerà in un'azione. E, di conseguenza, queste particolari
immagini che chiamiamo meccanismi celebrali , concludono in ogni momento la serie delle mie
rappresentazioni passate, essendo l'ultimo prolungamento che queste rappresentazioni inviano nel presente,
loro punto di contatto con il reale, cioè con l'azione. Spezzate questo contatto, forse l'immagine passata non
viene distrutta, ma voi le togliete ogni mezzo per agire sul reale e, di conseguenza, di realizzarsi. E' in questo
senso, e soltanto in questo senso, che una lesione del cervello potrà abolire qualcosa della memoria. Da qui la
nostra terza ed ultima proposizione: si passa per gradi impercettibili, dai ricordi disposti lungo il tempo ai
movimenti che ne delineano l'azione nascente o possibile nello spazio. Le lesioni del cervello possono
colpire questi movimenti, ma non questi ricordi. Resta da vedere se l'esperienza verifica queste tre
proposizioni.
1. Le due forme della memoria. Potremmo raffigurarci due memorie teoricamente indipendenti. La prima
registrerebbe, sotto forma di immagini-ricordo, tutti gli avvenimenti della nostra vita quotidiana via via che
si svolgono; non trascurerebbe alcun particolare; ad ogni fatto, ad ogni gesto, lascerebbe il suo posto e la sua
data. Senza secondi fini di utilità o di applicazione pratica, immagazzinerebbe il passato soltanto per effetto
di una necessità naturale. In essa ci rifugeremmo tutte le volte che, per cercare una determinata immagine,
risaliamo il pendio della nostra vita passata. Ma ogni percezione si prolunga in azione nascente; e via via che
le immagini una volta percepite, si fissano e si allineano in questa memoria, i movimenti che le continuavano
modificano l'organismo, creano nel corpo delle nuove disposizioni ad agire. Così si forma un'esperienza di
altro genere e che si deposita nel corpo, una serie di meccanismi totalmente costruiti, con delle reazioni
sempre più numerose e diversificate alle eccitazioni esterne, con delle risposte già pronte ad un numero
incessantemente crescente di possibili richieste. Noi prendiamo coscienza di questi meccanismi nel momento
in cui essi entrano in atto, e questa coscienza di tutto un passato di sforzi immagazzinato nel presente è
certamente ancora una memoria, ma una memoria profondamente differente dalla prima, sempre tesa verso
l'azione, posta nel presente e rivolta soltanto al futuro. Essa non ci raffigura più il nostro passato, ma lo mette
in atto; e se merita ancora il nome di memoria, non è più perchè conserva delle vecchie immagini, ma perchè
ne prolunga l'effetto utile fino al momento presente. Di queste due memorie, di cui l'una immagina e l'altra
ripete, la seconda può supplire la prima e spesso anche darne l'illusione.
Tuttavia i ricordi che si acquistano volontariamente, per ripetizione sono rari, eccezionali. Al contrario, la
registrazione, grazie alla memoria di fatti e immagini uniche nel loro genere si perpetua in tutti i momenti
della durata. Ma siccome i ricordi imparati sono più utili, li si noto maggiormente. E siccome l'acquisizione
di questi ricordi per la ripetizione dello stesso sforzo assomiglia al processo conosciuto dell'abitudine, si
preferisce spingere in primo piano questo tipo di ricordo, ergerlo a ricordo modello, e vedere nel ricordo
spontaneo soltanto questo stesso fenomeno allo stato nascente, l'inizio di una lezione imparata a memoria. Il
ricordo spontaneo è immediatamente perfetto; il tempo non potrà aggiungere nulla alla sua immagine senza
snaturarla; esso conserverà per la memoria il suo posto e la sua data. Al contrario, il ricordo imparato uscirà
dal tempo via via che la lezione sarà meglio saputa; diventerà sempre più impersonale, sempre più estraneo
alla nostra vita passata. Delle due memorie che abbiamo appena distinto, la prima sembra dunque essere
proprio la memoria per eccellenza. La seconda, quella che gli psicologi studiano di solito è l'abitudine
illuminata dalla memoria piuttosto che la memoria stessa. Questo ricordo spontaneo, che senza dubbio si cela
dietro al ricordo imparato, può rivelarsi per delle improvvise illuminazioni; ma si sottrae al minimo
movimento della memoria volontaria. Se il soggetto vede scomparire la serie di lettere di cui credeva d'aver
conservato l'immagine, questo sforzo sembra spingere il resto dell'immagine fuori della coscienza. Diciamo,
dunque, per riassumere ciò che precede, che il passato sembra proprio immagazzinarsi, come avevamo
previsto, sotto queste due forme estreme: da un lato i meccanismi motori che l'utilizzano, dall'altro le
immagini ricordo personali che ne delineano tutti gli avvenimenti con il loto contesto, il loro colore, il
loto posto nel tempo. Di queste due memorie, la prima è veramente orientata nel senso della natura; la
seconda, lasciata a se stessa, andrebbe piuttosto in senso contrario. La prima, acquisita grazie allo sforzo,
resta sotto le dipendenze della volontà; la seconda, totalmente spontanea è tanto capricciosa nel riprodurre
quanto è fedele nel conservare. L'unico servizio regolare e certo che la seconda possa rendere alla prima è
quello di mostrarle le immagini di ciò che ha preceduto o seguito le situazioni analoghe alla situazione
presente, al fine di illuminare la sua scelta: in questo consiste la associazione di idee. Queste sono le due
forme estreme della memoria, esaminate ciascuna allo stato puro.
2. Il riconoscimento in generale: immagini-ricordo e movimenti. Ora, l'atto concreto attraverso cui noi
riafferriamo il passato nel presente è il riconoscimento. E' dunque il riconoscimento che dobbiamo studiare.
Ci sono due modi abituali per spiegare il sentimento del ''già visto''. Per gli uni, riconoscere una percezione
presente consisterebbe nell'inserirla, grazie al pensiero, in un vecchio contesto, Incontro una persona per la
prima volta: la percepisco semplicemente. Se la ritrovo, la riconosco, nel senso che le circostanze
concomitanti della primitiva percezione, ritornandomi in mente, delineano attorno all'immagine attuale un
quadro che non è il quadro attualmente percepito. Riconoscere significherebbe dunque associare ad una
percezione presente le immagini date un tempo in contiguità con essa. Nella seconda si suppone che la
percezione presente vada sempre a cercare, in fondo alla memoria, il ricordo della percezione anteriore che le
assomiglia: il sentimento del ''già visto'' deriverebbe da una giustapposizione o da una fusione tra la
percezione ed il ricordo. Senza dubbio, la somiglianza è un rapporto stabilito dallo spirito tra alcuni termini
che mette a confronto e che, di conseguenza, possiede già, così che la percezione di una somiglianza è più un
effetto dell'associazione che la sua causa. Ma in realtà l'associazione di una percezione con un ricordo non
basta affatto a render conto del processo del riconoscimento. Perchè se il riconoscimento avvenisse in questo
modo, sarebbe abolito quando le vecchie immagini sono scomparse, e avrebbe sempre luogo quando queste
immagini sono conservate. Da ciò si conclude che non ogni riconoscimento implichi sempre l'intervento di
una vecchia immagine e che si possa anche fare appello proprio a queste immagini senza riuscire a
identificare con esse le percezioni. Che cos'è allora il riconoscimento, e come lo definiremo? Prima di tutto
c'è, al limite, un riconoscimento nell'immediatezza, un riconoscimento di cui è capace il corpo da solo, senza
che intervenga alcun ricordo esplicito. Esso consiste in un'azione e non in una rappresentazione. Alla base
del riconoscimento ci sarebbe, dunque, proprio un fenomeno di ordine motorio. Riconoscere un oggetto
usuale consiste soprattutto nel sapersene servire. Non c'è percezione che non si prolunghi in movimento.
L'educazione dei sensi consiste precisamente nell'insieme delle connessioni stabilite tra l'impressione
sensoriale e il movimento che l'utilizza. Se, dunque, ogni percezione abituale ha il suo accompagnamento
motorio organizzato, il sentimento di riconoscimento abituale ha la sua radice nella coscienza di questa
organizzazione. Questo significa che noi normalmente attuiamo il nostro riconoscimento prima di pensarlo.
La nostra vita quotidiana si svolge tra oggetti la cui sola presenza ci invita a svolgere una parte: in questo
consiste il loro aspetto di familiarità. Le tendenze motorie basterebbero già, dunque, a darci il sentimento del
riconoscimento. Ma ad esso si aggiunge il più delle volte, dell'altro. Mentre in effetti sotto l'influsso delle
percezioni sempre meglio analizzate dal corpo gli apparati motori si costruiscono, la nostra precedente vita
psicologica è la: sopravvive. Incessantemente inibita dalla coscienza pratica cioè dall'equilibrio
sensoriomotorio di un sistema nervoso teso tra la percezione e l'azione, questa memoria attende
semplicemente che si manifesti una fessura tra l'impressione attuale ed il suo movimento concomitante per
farvi passare le sue immagini. Ma adesso dobbiamo passare dal riconoscimento automatico, che si compie
soprattutto grazie a dei movimenti, a quello che esige l'intervento regolare dei ricordi-immagine. Il primo è
un riconoscimento per distrazione; il secondo, come vedremo tra poco, è il riconoscimento attento. Inizia,
anch'esso, attraverso dei movimenti. Ma, mentre nel riconoscimento automatico i nostri movimenti
prolungano la nostra percezione per ricavarne degli effetti utili, e così ci allontanano dall'oggetto percepito,
qui, al contrario, essi ci riconducono all'oggetto per sottolinearne i contorni. Da ciò deriva la parte
preponderante, e non più accessoria, che vi esercitano i ricordi-immagine.
3. Passaggio graduale dei ricordi ai movimenti. Il riconoscimento e l'attenzione. Qui
tocchiamo il punto essenziale del dibattito. Nel caso in cui il riconoscimento sia attento, cioè
in cui i ricordi-immagini raggiungano regolarmente la percezione presente, è la percezione
che determina meccanicamente l'apparizione dei ricordi, o sono i ricordi che si dirigono
spontaneamente incontro alla percezione? Dalla risposta che si darà a questa domanda
dipende la natura dei rapporti che stabiliremo tra il cervello e la memoria. Che cos'è
l'attenzione? Da un lato l'attenzione ha come effetto essenziale di rendere la percezione più
intensa e di evidenziarne i dettagli: considerata nella sua materia, essa si ridurrebbe, dunque,
ad un certo accrescimento dello stato intellettuale. Ma, dall'altro, la coscienza constata
un'irriducibile differenza di forma tra questo accrescimento d'intensità e quello che dipende
da una maggiore potenza dell'eccitazione esterna: esso sembra, in effetti, venire dal di dentro
e testimoniare un certo atteggiamento adottato dall'intelligenza. Ma qui incomincia
precisamente l'oscurità, perchè l'idea di un atteggiamento intellettuale non è un'idea chiara.
Si parlerà di una ''contrazione dello spirito''. Nello sforzo dell'attenzione lo spirito si dà
interamente, ma si semplifica o si complica a seconda del livello che sceglie per compiere le
sue evoluzioni. Normalmente è la percezione presente che determina l'orientamento del
nostro spirito; ma a seconda del grado di tensione che il nostro spirito adotta, a seconda
dell'altezza in cui si mette, questa percezione sviluppa in noi un maggior o minor numero di
ricordi-immagine. Secondo noi, il momento preciso in cui la nostra percezione si è
automaticamente scomposta in movimenti di imitazione, viene lanciato alla nostra attività un
richiama: allora ci è dato uno schizzo, di cui ricreiamo i particolari ed il colore proiettandovi
dei ricordi più o meno lontani. Ma non è affatto così che si considerano normalmente le
cose. A volte si conferisce allo spirito un'autonomia assoluta; gli si attribuisce il potere di
lavorare sugli oggetti presenti o assenti a suo piacimento; e allora non si comprendono più i
disturbi profondi dell'attenzione e della memoria, che possono seguire la minima alterazione
dell'equilibrio sensorio-motorio. A volte, al contrario, dei processi di immaginazione si
fanno altrettanti effetti meccanici della percezione presente; si pretende che un progresso
necessario ed uniforme, l'oggetto faccia sorgere delle sensazioni, e le sensazioni delle idee
che vi si attaccano: allora, siccome non c'è motivo che il fenomeno all'inizio meccanico,
cambi di natura per strada, si giunge all'ipotesi di un cervello in cui potrebbero depositarsi,
sonnecchiare e risvegliarsi, degli stati intellettuali. In un caso come nell'altro, si misconosce
la vera funzione del corpo, e poiché non si è visto a che cosa sia necessario l'intervento di un
meccanismo, a maggior ragione non si sa, una volta che si è ricorso ad esso, dove lo si
debba fermare. Ritornando al punto di partenza, dobbiamo quindi mostrare nel riconoscimento: 1° un
processo automatico sensorio-motorio; 2°una proiezione attiva, e per
così dire eccentrica, di ricordi-immagine.
1°. Ascolto due persone conversare in una lingua sconosciuta. Questo basta perchè io le
capisca? Io percepisco soltanto un rumore confuso, in cui tutti i suoni di assomigliano. Io
non distinguo niente, e non potrei ripetere niente. In questa stessa massa sonora, al contrario,
i due interlocutori distinguono delle consonanti, delle vocali e delle sillabe che non si
assomigliano molto, infine delle parole distinte. Tra loro e me, dov'è la differenza? Il
problema è sapere come la conoscenza di una lingua, che è soltanto ricordo, possa
modificare la materialità di una percezione presente, e fare attualmente capire agli uni ciò
che altri, nelle stesse condizioni fisiche, non capiscono. Perchè il ricordo della parola si lasci
evocare dalla parola sentita, bisogna almeno che l'orecchio capisca la parola. I suoni
percepiti come parleranno alla memoria, come sceglieranno, nel magazzino delle immagini
uditive, quelle che devono posarsi su di essi, se non sono già state separate, distinte,
percepite infine, come sillabe e come parole? Formare il proprio orecchio agli elementi di
una lingua nuova non consisterebbe né nel modificarne il suono bruto né nell'aggiungerne d
esso un ricordo; consisterebbe nel coordinare le tendenze motorie dei muscoli della voce con
le impressioni dell'orecchio, significherebbe perfezionare l'accompagnamento motorio.
Resta da sapere come potrebbe prodursi un accompagnamento di questo genere, e se in
realtà si produce sempre. Si sa che la pronuncia effettiva di una parola esige l'intervento
simultaneo della lingua e delle labbra per l'articolazione, della laringe per la fonazione,
infine dei muscoli toracici per la produzione della corrente d'aria da espirare. Ad ogni sillaba
pronunciata corrisponde dunque l'entrata in funzione di un insieme di meccanismi. Così, a
seconda che desideriamo articolare un suono od un altro, noi trasmettiamo l'ordine di agire a
tale o talaltro di questi meccanismi motori. In questi diversi fenomeni c'è qualcosa di più che
delle azioni assolutamente meccaniche, ma qualcosa meno di un richiamo alla memoria
volontaria; essi testimoniano un tendenza delle impressioni verbali uditive a prolungarsi in
movimenti di articolazione, tendenza che non sfugge sicuramente al controllo abituale della
nostra volontà, che implica persino, forse, un rudimentale discernimento e che si traduce,
allo stato normale, in una ripetizione interiore dei tratti salienti della parola sentita. Questi
movimenti interni di ripetizione e di riconoscimento sono come un preludio dell'attenzione
volontaria. Segnano il limite tra volontà e automatismo. Per essi si preparano e si decidono,
come facevamo presentire, i fenomeni caratteristici del riconoscimento intellettuale. Ma che
cos'è questo completo riconoscimento, giunto alla piena coscienza di se stesso?
2°. Affrontiamo la seconda parte di questo studio: dai movimenti passiamo ai ricordi. Il riconoscimento
attento, dicevamo, è un vero circuito, in cui l'oggetto esterno ci consegna
delle parti sempre più profonde di se stesso via via che la nostra memoria, simmetricamente
posta, adotta una maggiore tensione per proiettare verso di esso i suoi ricordi. Nel caso
particolare che ci interessa, l'oggetto è un interlocutore le cui idee sbocciano nella sua
coscienza in rappresentazioni uditive, per materializzarsi in seguito in parole pronunciate.
Bisognerà dunque, se siamo nel vero,, che l'ascoltatore si metta subito in mezzo alle idee
corrispondenti, e le sviluppi in rappresentazioni uditive che ricopriranno i suoni bruti
percepiti inserendosi esse stesse nello schema motorio. Ma interroghiamo la nostra
coscienza. Domandiamole che cosa accade quando ascoltiamo la parola altrui con l'idea di
comprenderla . Aspettiamo passivi che le impressioni vadano a cercare le loro immagini?
Non sentiamo piuttosto che ci mettiamo in una cera disposizione, variabile a seconda
dell'interlocutore, variabile a seconda della lingua che parla, con il genere di idee che
esprime, e soprattutto con il movimento generale della sua frase, come se noi
incominciassimo col regolare il tono del nostro lavoro intellettuale? Lo schema motorio che
sottolinea le sue intonazioni, che segue di svolta in svolta la curva del suo pensiero, mostra
al nostro pensiero il cammino. La parola non fa che segnare di quando in quando le
principali tappe del movimento del pensiero. Per questo io comprenderò la vostra parola se
partirò da un pensiero analogo al vostro per seguirne le sinuosità con l'aiuto di immagini
verbali destinate, come altrettanti cartelli, a mostrarmi di volta in volta il cammino. Ma non
la comprenderò mai se parto dalle immagini verbali stesse, perchè tra le due immagini
verbali consecutive c'è un intervallo che nessuna delle immagini verbali stesse, perchè tra le
due immagini verbali consecutive c'è un intervallo che nessuna delle rappresentazioni
concrete arriverebbe mai a colmare. Le immagini saranno sempre, in effetti, soltanto delle
cose, e il pensiero è un movimento.
CAPITOLO TERZO
La sopravvivenza delle immagini. La memoria e lo spirito
Riassumiamo brevemente ciò che precede. Abbiamo distinto tre termini, il puro ricordo, il ricordoimmagine
e la percezione, nessuno dei quali peraltro si produce in realtà isolatamente. La percezione non è mai un
semplice contatto dello spirito con l'oggetto presente; essa è tutta impregnata di ricordi-immagine che la
completano interpretandola. Il ricordo-immagine, a sua volta, partecipa del puro ricordo che esso incomincia
a materializzare, e della percezione in cui tende ad incarnarsi: considerato da quest'ultimo punto di vista, si
potrebbe definire una percezione nascente. Infine il puro ricordo, senza dubbio indipendente in linea di
principio, che normalmente si manifesta soltanto nell'immagine colorata e viva che lo rivela. E' del resto,
quanto la coscienza constata senza fatica tutte le volte che, per analizzare la memoria, segue il movimento
stesso della memoria che lavora. Noi abbiamo coscienza di un atto per il quale ci distacchiamo dal presente
per metterci prima nel passato in generale, poi in una certa regione del passato: lavoro di brancolamento
analogo alla messa a fuoco di una macchina fotografica. Ma il nostro ricordo resta ancora allo stato virtuale;
in questo modo noi ci disponiamo semplicemente a riceverlo adottando l'atteggiamento appropriato. A poco
a poco esso appare come una nebulosità che si condenserebbe: da virtuale passa allo stato attuale; e via via
che i suoi contorni prendono forma e che la superficie si colora, tende ad imitare la percezione. Ma esso resta
attaccato al passato per le sue radici profonde, e se, una volta realizzato, non risentisse della sua originaria
virtualità, se non fosse nello stesso tempo uno stato presente e qualcosa che spezza il presente, non lo
riconosceremmo mai come ricordo.
Essenzialmente virtuale, il passato può essere afferrato da noi come passato soltanto seguendo e adottando il
movimento attraverso cui si dischiude in immagine presente, emergendo dalle tenebre al pieno giorno.
Invano, se ne cercherebbe la traccia in qualcosa di attuale e di già realizzato: tanto
varrebbe cercare l'oscurità sotto la luce. Immaginare non è ricordarsi. Senza dubbio un ricordo via via che si
attualizza, tende a vivere in un'immagine: ma la reciproca non è vera e la pura e semplice immagine mi
riporterà al passato soltanto perchè, in effetti, è nel passato che sono andato a cercarla, seguendo, dunque, il
progresso continuo che l'ha condotta dall'oscurità alla luce.
Il mio presente consiste nella coscienza che io ho del mio corpo. Esteso nello spazio, il mio corpo prova delle
sensazioni e nello stesso tempo esegue dei movimenti. Posto tra la materia che influisce
su di esso e la materia su cui esso influisce, il mio corpo è un centro d'azione, il luogo in cui le impressioni
ricevute scelgono intelligentemente la loro via per trasformarsi in movimenti compiuti; esso rappresenta
proprio, dunque, lo stato attuale del mio divenire, ciò che, nella mia durata è in via di formazione. La
materia, in quanto estesa nello spazio, deve essere definita come un presente che ricomincia
incessantemente; inversamente, il nostro presente è la materialità stessa della nostra esistenza , cioè un
insieme di sensazioni e di movimenti: nient'altro. E questo insieme è determinato, unico per ogni momento
della durata precisamente perchè sensazioni e movimenti occupano dei luoghi dello spazio, e non ci
potrebbero essere, nello stesso luogo, diverse cose contemporaneamente. Le mie attuali sensazioni sono ciò
che occupano delle determinate porzioni della superficie del mio corpo; il puro ricordo, al contrario, non
interessa nessuna parte del mio corpo. Senza dubbio materializzarsi genererà delle sensazioni; ma in quel
preciso momento cesserà di essere ricordo per passare allo stato di cosa presente, attualmente vissuta. E'
proprio perchè l'avrò reso attivo che sarà diventato attuale, cioè sensazione capace di provocare dei
movimenti. Ciò che chiamo il mio presente è il mio atteggiamento di fronte all'immediato futuro, è la mia
azione imminente. Il mio presente è proprio, dunque, sensorio-motorio. Del mio passato diventa immagine,
e di conseguenza sensazione almeno nascente, soltanto ciò che può collaborare a quest'azione; ma non
appena diventa immagine il passato lascia lo stato di puro ricordo e si confonde con un certa parte del mio
presente. Il ricordo, attualizzato in immagine, differisce profondamente, dunque, da questo puro ricordo.
L'immagine è uno stato presente e può essere partecipe del passato soltanto grazie al ricordo da cui è uscita.
Il ricordo, al contrario, impotente finchè rimane inutile, resta puro da ogni mescolanza con la sensazione,
senza legame con il presente, e, di conseguenza, inestensivo.
Diciamo semplicemente che, per ciò che concerne le cose dell'esperienza, l'esistenza sembra implicare due
condizioni riunite: 1a. La presentazione alla coscienza; 2a. La connessione logica o causale di ciò che è così
presentato con ciò che precede e ciò che segue. Per noi la realtà di uno stato psicologico o di un oggetto
materiale consiste in questo duplice fatto, che la nostra coscienza li percepisce e che fanno parte di una serie,
temporale o spaziale, in cui i termini si determinano gli uni gli altri. Dovremmo dire che l'esistenza, nel
senso empirico della parola, implica sempre contemporaneamente, ma a livelli differenti, l'apprensione
cosciente e la connessione regolare. Ma il nostro intelletto, che come funzione ha quella di stabilire delle
distinzioni nette, non capisce affatto così le cose. Piuttosto che ammettere la presenza, in tutti i casi, dei due
elementi mischiati in proporzioni diverse, preferisce dissociare questi due elementi e attribuire così, da una
parte agli
oggetti esterni, dall'altra agli stati interni due modi d'esistenza radicalmente differenti, ognuno dei quali
caratterizzato dalla presenza esclusiva della condizione che bisognerebbe dichiarare semplicemente
preponderante. Allora l'esistenza degli stati psicologici consisterà interamente nella loro apprensione da parte
della coscienza, e quella dei fenomeni esterni consisterà interamente nell'ordine rigoroso della loro
concomitanza e della loro successione. Se voi considerate il presente concreto e realmente vissuto dalla
coscienza, si può dire che questo presente consiste in gran pare nel passato immediato. Nella frazione di
secondo che dura la più corta percezione possibile di luce, dei trillioni di vibrazioni hanno preso posto, la
prima delle quali è separata dall'ultima per un intervallo enormemente suddiviso. La vostra percezione per
quanto sia istantanea consiste dunque in un'incalcolabile moltitudine di elementi ricordati e ogni percezione a
dire il vero è già memoria. Noi percepiamo, praticamente, soltanto il passato, essendo il puro presente
l'inafferabile progresso del passato che rode il futuro. La coscienza, dunque, illumina in ogni momento con il
suo bagliore questa immediata parte del passato che proteso sul futuro, lavora per realizzarlo e per
annetterselo. Unicamente preoccupata di determinare così un futuro indeterminato, essa potrà diffondere un
po' della sua luce su quegli stati più remoti del nostro passato che potrebbero organizzarsi utilmente col
nostro stato presente, cioè con il nostro passato immediato; il resto rimane oscuro. E' in questa parte
illuminata dalla storia che restiamo collocati, in virtù della legge fondamentale della vita, che è una legge
d'azione: da qui la difficoltà che proviamo nel concepire dei ricordi che si conserverebbe nell'ombra.
Ritorniamo così al nostro punto di partenza. Ci sono, dicevamo, due memorie profondamente distinte: l'una
fissata nell'organismo, è semplicemente e soltanto l'insieme dei meccanismi intelligentemente costruiti che
assicurano una conveniente replica alle diverse interpellanze possibili. Essa fa sì che ci adattiamo alla
situazione presente, e che le azioni subite da noi si prolunghino da sole in reazioni, talvolta complete, talvolta
semplicemente nascenti, ma sempre più o meno appropriate, Abitudine piuttosto che memoria, essa
mette in atto la nostra esperienza passata, ma non ne evoca l'immagine. L'altra è vera memoria.
Coestensiva alla coscienza, trattiene e allinea gli uni di seguito agli altri tutti i nostri stati via via e man mano
che si producono, lasciando ad ogni fatto il suo posto e, di conseguenza, segnalandolo con la sua data,
muovendosi realmente nel passato definitivo e non, come la prima, in un presente che ricomincia senza soste.
Ma, se noi percepiamo sempre soltanto il nostro passato immediato, se la nostra coscienza del presente è già
memoria, i due termini, che prima avevamo separato, si salderanno intimamente insieme. Considerato da
questo nuovo punto di vista, in effetti, il nostro corpo non è nient'altro che la parte invariabilmente rinascente
della nostra rappresentazione, la parte sempre presente, o piuttosto quella che, in ogni momento, è appena
passata. Esso stesso immagine, questo corpo non può immagazzinare le immagini, poiché fa parte delle
immagini; per questo è chimerica l'impresa di voler localizzare nel cervello le percezioni passate o anche
presenti: quelle non sono in questo; è questo che è in quelle. Ma quest'immagine tutta particolare, che
persiste in mezzo alle altre e che chiamo il mio corpo, costituisce ad ogni istante uno spaccato trasversale
nell'universale divenire. E' dunque il luogo di passaggio dei movimenti ricevuti e rinviati, il tratto di
congiunzione tra le cose che agiscono su di me e le cose sulle quali agisco, la sede, in una parola, dei
fenomeni sensorio-motori. Se rappresento con un cono SAB la totalità dei ricordi accumulati nella mia
memoria, la base AB, posta nel passato, rimane immobile, mentre il vertice S, che raffigura in ogni momento
il mio presente, avanza senza sosta e senza sosta tocca anche, così, il piano mobile P della mia attuale
rappresentazione dell'universo. In S si concentra l'immagine del corpo; e quest'immagine, che fa parte del
piano P, si limita a ricevere e a rendere le azioni emanate da tutte le immagini di cui si compone il piano. La
memoria del corpo, costituita dall'insieme dei sistemi sensorio-motori che l'abitudine ha organizzato, è
dunque, una memoria quasi istantanea a cui la vera memoria del passato serve da base. Siccome esse non
costituiscono due cose separate, siccome la prima è soltanto, dicevamo, la punta mobile inserita grazie alla
seconda nel piano mobile dell'esperienza, è naturale che queste due funzioni si prestino un mutuo sostegno.
Da un lato, in effetti, la memoria del passato presenta ai meccanismi sensorio-motori tutti i ricordi capaci di
guidarli nel loro compito e di dirigere la reazione motoria nel senso suggerito degli insegnamenti
dell'esperienza: in questo consistono precisamente le associazioni per contiguità e per somiglianza.
Ma, d'altra parte, gli apparati sensorio-motori forniscono ai ricordi impotenti, cioè inconsci, il modo di
prendere corpo, di materializzarsi, insomma di diventare presenti. Perchè un ricordo riappaia alla
coscienza, infatti, bisogna che discenda dalle alture della pura memoria fino al punto preciso in cui si compie
l'azione. In altri termini, è dal presente che parte il richiamo al quale risponde il ricordo, ed è dagli elementi
sensorio-motori dell'azione presente che il ricordo prende il calore che dà la vita.

Vivere nel puro presente, rispondere ad un'eccitazione con una reazione immediata che la prolunghi, è la
caratteristica di un animale inferiore: l'uomo che procede così è impulsivo. Ma non è molto più adatto
all'azione colui che vive nel passato per il piacere di viverci e colui nel quale i ricordi emergono alla luce
della coscienza senza profitto per la situazione attuale: non è più un impulsivo, ma un sognatore. Tra questi
due estremi si colloca la felice disposizione di una memoria abbastanza docile per seguire con precisione i
contorni della situazione presente, ma abbastanza energica per resistere ad ogni altro richiamo. Il buon senso,
o senso pratico, verosimilmente non è altro che questo. Questi due stati estremi, l'uno di una memoria
totalmente contemplativa, che nella sua visione apprende soltanto il singolare, l'altro di una memoria
totalmente motoria, che imprime il segno della generalità alla propria azione, non si isolano e non si
manifestano pienamente se non in casi eccezionali. Nella vita normale essi si compenetrano intimamente,
abbandonando, l'uno e l'altro, qualcosa della loro purezza originaria. Ciò significa che tra i meccanismi
sensorio-motori rappresentati dal punto S e la totalità dei ricordi disposti in AB c'è posto per mille e mille
ripetizioni della nostra vita psicologica, rappresentata da altrettante selezioni di A'B', A''B'', e così via, dello
stesso cono. Noi tendiamo a disperderci in AB man mano che ci distacchiamo maggiormente dal nostro stato
sensoriale e motorio per vivere la vita del sogno; tendiamo a concentrarci in S via via che ci attacchiamo più
fermamente alla realtà presente, rispondendo con delle razioni motorie a delle eccitazioni sensoriali. Di fatto,
l'io normale non si fissa mai ad una di queste posizioni estreme; si muove tra queste, di volta in volta adotta
le posizioni rappresentate dalle selezioni intermedie, o, in altri termini, fornisce alle sue rappresentazioni
proprio quanto basta dell'immagine e proprio quanto basta dell'idea perchè possano concordare utilmente
all'azione presente.

Da questa concezione della vita mentale inferiore si possono dedurre le leggi dell'associazione di
idee. Supponiamo per un istante, che la nostra vita psicologica si riduca alle sole funzioni sensoriomotorie.
Mettiamoci, in altri termini, nella figura schematica che abbiamo tracciato, in questo punto
S che corrisponderebbe alla maggior semplificazione possibile della nostra vita mentale. In questo
stato, ogni percezione si prolunga da sé in reazioni appropriate, perchè le analoghe percezioni
antecedenti hanno costruito degli apparati motori più o meno complessi che, per entrare in funzione,
attendono soltanto la ripetizione dello stesso richiamo. Ora, in questo meccanismo c'è
un'associazione per somiglianza, poiché la percezione presente agisce in virtù della sua somiglianza
con le percezioni passate, e c'è anche un'associazione per contiguità, perchè i movimenti consecutivi
a queste vecchie percezioni si riproducono, e possono anche trascinarsi dietro un numero indefinito
di azioni coordinate con la prima. Qui noi cogliamo, dunque, nella loro fonte stessa e quasi confuse
insieme l'associazione per somiglianza e l'associazione per contiguità. Queste rappresentano i due
aspetti complementari di una sola e medesima tendenza fondamentale, la tendenza di ogni
organismo a ricavare da una situazione data ciò che essa ha di utile, e di immagazzinare l'eventuale
reazione, sotto forma di abitudine motoria, per utilizzarla in situazioni dello stesso genere. Adesso
spostiamoci all'altra estremità della nostra vita mentale. Passiamo, secondo il nostro metodo,
dall'esistenza psicologica semplicemente giocata a quella che sarebbe esclusivamente sognata.
Mettiamoci, in altri termini, su questa base AB della memoria dove si delineano, nei loro minimi
dettagli, tutti gli avvenimenti della nostra vita trascorsa. Una coscienza che, distacca dall'azione,
tenesse così sotto il suo sguardo la totalità del suo passato non avrebbe alcuna ragione per fissarsi su una
parte di questo passato piuttosto che su un'altra. Da un lato, tutti i suoi ricordi differirebbero
dalla sua attuale percezione, perchè, se li si prende con la molteplicità dei loro dettagli, due ricordi
non sono mai in modo identico la stessa cosa. Ma, dall'altro, un ricordo qualunque potrebbe essere
accostato alla situazione presente: basterebbe trascurare, in questa percezione e in questo ricordo,
un numero sufficiente di dettagli perchè appaia solo la somiglianza. Del resto, una volta legato il
ricordo alla percezione, una moltitudine di avvenimenti contigui ai ricordi si collegherebbe d'un sol
colpo alla percezione – moltitudine indefinita che si limiterebbe soltanto nel punto in cui
scegliessimo di fermarla. Le necessità della vita non sono più lì per regolare l'effetto della
somiglianza e di conseguenza della contiguità e siccome, in fondo, tutto si assomiglia, ne segue che
tutto può associarsi. Poco fa la percezione attuale si prolungava in movimenti determinati: adesso si
dissolve in un'infinità di ricordi ugualmente possibili. In AB l'associazione provocherebbe quindi
una scelta arbitraria, come in S un passo fatale. Ma questi sono soltanto due limiti estremi in cui
deve porsi di volta in volta, per comodità di studio, lo psicologo, e che in realtà non sono mai
raggiunti. La nostra normale vita psicologica oscilla dicevamo, tra queste due estremità. Nel piano
estremo, che rappresenta la base della memoria, non c'è ricordo che non sia legato, per contiguità,
alla totalità degli avvenimenti che lo precedono ed anche di quelli che lo seguono. Mentre nel punto
in cui si concentra la nostra azione nello spazio, la contiguità porta soltanto, sotto forma di
movimento, la reazione immediatamente conseguente ad una percezione antecedente simile. In
realtà, ogni associazione per contiguità implica una posizione dello spirito intermedia tra questi due
limiti estremi. Più ci si avvicina all'azione, per esempio, più la contiguità tende a partecipare della
somiglianza e a distinguersi così da un semplice rapporto di successione cronologica. Al contrario,
più ci distacchiamo dall'azione reale o possibile, più l'associazione per contiguità tende a riprodurre
puramente e semplicemente le immagini consecutive della nostra vita passata.
Tutti i fatti e tutte le analogie sono a favore di una teoria che nel cervello vedrebbe soltanto un
intermediario tra le sensazioni e i movimenti, che farebbe di questo insieme di sensazioni e di
movimenti la punta estrema della vita mentale, incessantemente inserita nel tessuto degli
avvenimenti e che, attribuendo al corpo l'unica funzione di orientare la memoria verso il reale e di
collegarla al presente, considererebbe perciò questa memoria stessa come assolutamente
indipendente dalla materia. In questo senso il cervello contribuisce a richiamare il ricordo utile, ma
può scartare provvisoriamente tutti gli altri. Non vediamo come la memoria potrebbe risiedere nella
materia.
CAPITOLO QUARTO
La delimitazione e la fissazione delle immagini. Percezione e materia. Anima e corpo
Dai primi tre capitoli di questo libro deriva una conclusione generale: il corpo, sempre orientato
verso l'azione, ha come funzione essenziale di limitare, in vista dell'azione, la vita dello spirito. Esso
è, rispetto alle rappresentazioni, uno strumento di selezione e soltanto di selezione. Non saprebbe né
generare né causare uno stato intellettuale, Per il posto che in ogni istante occupa nell'universo, il
nostro corpo segna le parti e gli aspetti della materia su cui avremmo presa: la nostra percezione,
che misura precisamente la nostra azione virtuale sulle cose, si limita così agli oggetti che
attualmente influenzano i nostri organi e preparano i nostri movimenti. Il ruolo del corpo non è di
immagazzinare i ricordi, ma semplicemente di scegliere, per portarlo a coscienza distinta tramite
l'efficacia reale che gli conferisce il ricordo utile. Rimane il fatto che l'orientamento della nostra
coscienza verso l'azione sembra essere la legge fondamentale della nostra vita psicologica.
Potremmo, a rigore, limitarci, a ciò, perchè è per definire la funzione del corpo nella vita dello
spirito che avevamo intrapreso questo lavoro. Ma da una parte abbiamo sollevato, un problema
metafisico che non ci sentiamo di lasciare in sospeso. Questo problema è niente meno che quello
dell'unione dell'anima con il corpo. Esso ci si impone in forma acuta perchè distinguiamo
profondamente la materia dallo spirito. E non possiamo ritenerlo insolubile perchè definiamo lo
spirito e la materia con delle caratterizzazioni positive, non con delle negazioni. L'oscurità del
problema, in tutte le dottrine, deriva dalla duplice antitesi che il nostro intelletto stabilisce tra
l'esteso e l'inesteso, da una parte, la qualità e la quantità dall'altra. È incontestabile che lo spirito si
oppone innanzitutto alla materia come un'unità pura ad una molteplicità essenzialmente divisibile,
che inoltre le nostre percezioni si compongono di qualità eterogenee mentre l'universo percepito
sembra dissolversi in cambiamenti omogenei e calcolabili. Ci sarebbero, dunque, l'inestensione e la
qualità da una parte, l'esteso e la quantità dall'altra. Prima di impegnarci su questa strada,
formuliamo il principio generale del metodo che vorremmo applicare. Ciò che normalmente si
chiama un fatto non è la realtà così come apparirebbe ad un'intuizione immediata, ma un
adattamento del reale agli interessi della pratica e alle esigenze della vita sociale. La pura
intuizione, esterna o interna, è quella di una continuità indivisa. Noi la frazioniamo in elementi
giustapposti che qui rispondono a parlo distinte, là a oggetti indipendenti, Ma, proprio perchè così
abbiamo rotto l'unità della nostra intuizione originaria, ci sentiamo obbligati a stabilire un legame
tra i termini separati, che potrà essere soltanto esteriore e aggiunto. Smontando ciò che questi
bisogni hanno fatto, ristabiliremmo l'intuizione nella sua purezza primitiva, e riprenderemmo contatto con il
reale. Questo metodo presenta, nell'applicazione, delle difficoltà considerevoli e
incessantemente rinascenti, perchè esige, per la soluzione di ogni nuovo problema, uno sforzo
interamente nuovo. Rinunciare a certe abitudini di pensare ed anche di percepire è già diffice;
questa inoltre è soltanto la parte negativa del lavoro da fare; e quando lo si è compiuto, resta da
ricostruire, con gli elementi infinitamente piccoli che noi così percepiamo della curva reale, la
forma della curva stessa che si stende nell'oscurità, dietro ad essi. Noi abbiamo tentato, tempo da, di
applicare questo metodo al problema della coscienza, e ci è sembrato che il lavoro utilitaristico
dello spirito, per ciò che concerne la percezione della nostra vita interiore, consistesse in una specie
di rifrazione della pura durata attraverso lo spazio, rifrazione che ci permette di separare i nostri
stati psicologici, di ricondurli ad una forma sempre più impersonale, di imporre ad essi dei nomi,
infine di farli entrare nella corrente della vita sociale. Abbiamo pensato che ci sarebbe una
risoluzione da prendere. Sarebbe quella d metterci nella pura durata, il cui flusso è continuo, e in cui
si passa, per gradazioni insensibili, da uno stato all'altro: continuità realmente vissuta, ma
artificialmente scomposta per la maggior comodità della conoscenza usuale. La durata in cui ci
guardiamo agire, in cui è utile che ci si guardi, è una durata i cui elementi si dissociano e si
giustappongono; ma la durata in cui agiamo è una durata in cui i nostri stati si fondono gli uni negli
altri, ed è là che, grazie al pensiero, dobbiamo fare lo sforzo per rimetterci, nel caso eccezionale e
unico in cui speculiamo sulla natura intima dell'azione, cioè nella teoria della libertà. Scegliamo
subito, tra i risultati ai quali dell'applicazione di questo può condurre, quelli che interessano la
nostra ricerca. Noi ci limiteremo, d'altronde, a delle indicazioni; qui non si tratta di costruire una
teoria della materia.
1° Ogni movimento in quanto passaggio da uno stato di quiete ad uno stato di quiete, è
assolutamente indivisibile. Ora, passaggio è un movimento, e l'arresto un'immobilità. L'arresto
interrompe il movimento; il passaggio non è che tutt'uno con il movimento stesso. Quando vedo il
mobile passare in un punto, capisco senza dubbio che possa fermarsi in esso. Ma non bisognerebbe
confondere i dati dei sensi, che percepiscono il movimento, con gli artefici dello spirito che lo
ricompone. I sensi lasciati, lasciati a se stessi, ci presentano il movimento reale, tra due arresti reali,
come un tutto solido e indiviso. La divisione è l'opera dell'immaginazione, che ha precisamente la
funzione di fissare le mobili immagini della nostra ordinaria esperienza, come il lampo istantaneo
che illumina nella notte una scena di temporale. Gli argomenti di Zenone di Elea non hanno altra
origine se non in questa illusione. Consistono tutti nel far coincidere il tempo e il movimento con la
linea che li sottende, ad attribuire ad essi le stesse suddivisioni,, infine a trattarli come quella. A
questa confusione Zenone era incoraggiato dal senso comune, che di solito trasferisce nel movimento le
proprietà della sua traiettoria, e anche dal linguaggio, che traduce sempre in spazio il
movimento e la durata. Ritenendo divisibile il movimento come la sua traiettoria, il senso comune
esprime semplicemente i due unici fatti che importano nella vita pratica: 1° che ogni movimento
descrive uno spazio; 2° che in ogni punto di questo spazio il mobile potrebbe fermarsi. Ma il
filosofo che ragiona sulla natura intima del movimento è tenuto a restituire ad esso la mobilità che
ne costituisce l'essenza, ed è ciò che Zenone non fa. Senza impegnarci qui in una discussione che
sarebbe fuori luogo, limitiamoci a constatare che il movimento immediatamente percepito è un fatto
molto chiaro, e che le difficoltà o le contraddizioni segnalate dalla scuola di Elea riguardano molto
meno il movimento stesso che una riorganizzazione artificiale, e non virtuale, del movimento da
parte dello spirito. Tiriamo, del resto, le conclusioni di tutto quanto precede:
2° Ci sono dei movimenti reali. Il matematico del movimento conosce soltanto i cambiamenti di
lunghezza. Se il movimento si riduce ad un cambiamenti di distanza, lo stesso oggetto diventa
mobile o immobile a seconda dei punti di riferimento ai quali lo si riferisce, e non c'è movimento
assoluto. Ogni movimento è relativo, per lo studioso di geometria: ciò significa soltanto che non c'è
simbolo matematico in grado di esprimere se sia il mobile che si muove piuttosto che gli assi o i
punti ai quali lo si riporta. Ed è del tutto normale, poiché questi simboli, sempre destinati a delle
misure, possono esprimere soltanto delle distanza. Ma che un movimento reale ci sia, nessuno può
seriamente contestarlo: altrimenti niente cambierebbe nell'universo.
3° Ogni divisione della materia in corpi indipendenti, dai contorni assolutamente determinati,
è una divisione artificiale. Un corpo, cioè un oggetto materiale indipendente, dapprima ci si
presenta come un sistema di qualità, in cui la resistenza ed il colore occupano il centro, e tengono
sospesi, in qualche modo, tutti gli altri. D'altra parte, i dati della vista e del tatto sono quelli che si
estendono più chiaramente nello spazio, e la caratteristica essenziale dello spazio è la continuità. Tra
i suoni ci sono degli intervalli di silenzio, perchè l'udito non è sempre occupato; tra gli odori, tra i
sapori, si trovano dei vuoti, come se l'odorato ed il gusto funzionassero soltanto accidentalmente: al
contrario, non appena apriamo gli occhi, il nostro campo visivo tutto intero si colora, e poiché i
solidi sono necessariamente contigui gli uni agli altri, il nostro tatto deve seguire la superficie o i
contorni degli oggetti senza mai incontrare delle vere interruzioni. Come spezzettiamo la continuità
originariamente percepita dell'estensione materiale in altrettanti corpi, ognuno dei quali avrebbe la
sua sostanza e la sua individualità?Accanto alla coscienza e alla scienza c'è la vita. Al di sotto dei
principi della speculazione, così accuratamente analizzati dai filosofia ci sono quelle tendenze di cui
si è trascurato lo studio e che si spiegano semplicemente attraverso la necessità in cui ci troviamo di
vivere, cioè, in realtà, di agire. Già il potere conferito alle coscienze individuali di manifestarsi attraverso
degli atti esige la formazione di zone materiali distinte, che corrispondano
rispettivamente a dei corpi viventi: in questo senso, il mio proprio corpo, e, per analogia con esso,
gli altri corpi viventi, sono quelli che io posso distinguere, nella totalità dell'universo, con più
fondamento. Ma, una volta costituito e distinto questo corpo, i bisogni che esso prova lo portano a
distinguere e a costituirne degli altri. La conservazione della vita esige, senza dubbio, che
distinguiamo, che distinguiamo nella nostra esperienza quotidiana, delle cose inerti e delle azioni
esercitate nello spazio da queste cose. Siccome ci è utile fissare la sede della cosa nel punto preciso
in cui potremmo toccarla, i suoi contorni tangibili diventano per noi il suo limite reale e allora noi
vediamo nella sua azione un qualcosa che si distacca da essa e ne differisce. Ma, poiché una teoria
della materia si propone precisamente di ritrovare la realtà sotto queste immagini abituali,
totalmente relative ai nostri bisogni, è da queste immagini che essa deve prima di tutto fare fare
astrazione. E di fatto vediamo riavvicinarsi e ricongiungersi la forza e la materia via via che il fisico
ne approfondisce gli effetti. Vediamo la forza materializzarsi, l'atomo idealizzarsi, questi due
termini convergere verso un limite comune, l'universo ritrovare così la sua continuità. Si parlerà
ancora di atomi; l'atomo conserverà la sua individualità, per il nostro spirito che lo isola; ma la
solidità e l'inezia dell'atomo si dissolveranno sia in movimenti, sia in linee di forza, la cui reciproca
solidarietà ristabilirà la continuità universale. Nè la scienza né la coscienza rifiuterebbero dunque
quest'ultima proposizione:
4° Il movimento reale è la traslazione di uno stato più che di una cosa. Formulando queste
quattro proposizioni, noi non abbiamo fatto, in realtà, che restringere progressivamente l'intervallo
tra due termini che vengono opposti l'uno all'altro, le qualità o sensazioni, e i movimenti. A prima
vista la distanza sembra insormontabile. Le qualità sono eterogenee tra loro, i movimenti omogenei.
Le sensazioni, indivisibili per essenza sfuggono alla misura; i movimenti, sempre divisibili, si
distinguono per delle differenze, calcolabili, di direzione e di velocità. Si è inclini a mettere le
qualità, sotto forma di sensazioni, nella coscienza, mentre i movimenti si attuerebbero
indipendentemente da noi nello spazio. Per un misterioso processo, la nostra coscienza, incapace di
toccarli, li tradurrebbe in sensazioni che in seguito proietterebbero nello spazio e verrebbero a
ricoprire, non si sa come, i movimenti, che esse traducono. Da ciò due mondi differenti, incapaci di
toccarli, li tradurrebbe in sensazioni che in seguito si proietterebbero nello spazio e verrebbero a
ricoprire, non si sa come, i movimenti che esse traducono. Da ciò due mondi differenti, incapaci di
comunicare se non per un miracolo; da una parte quello dei movimenti nello spazio, dall'altra la
coscienza con le sensazioni. E, certamente, la differenza resta irriducibile, come un tempo noi stessi
abbiamo mostrato, tra la qualità da una parte e la pura quantità dall'altra. Ma il problema è precisamente
quello di sapere se i movimenti reali presentano tra loro soltanto delle differenze di
quantità, o se essi non sarebbero la qualità stessa, che vibra, per così dire, interiormente e che
scandisce la propria esistenza in un numero spesso incalcolabile di momenti. Il movimento che la
meccanica studia è soltanto un'astrazione o un simbolo, una misura comune, un comun
denominatore, che permetta di paragonare tra loro tutti i movimenti reali; ma questi movimenti,
considerati in se stessi, sono degli indivisibili che occupano della durata, suppongono un prima e un
poi, e collegano i movimenti successivi del tempo con un filo di qualità variabile che non può non
avere qualche analogia con la continuità della nostra stessa coscienza. Insistiamo su quest'ultimo
punto, che abbiamo già trattato altrove, ma che riteniamo essenziale. La durata vissuta dalla nostra
coscienza è una durata dal ritmo determinato, molto differente da quel tempo di cui parla il fisico, e
che può immagazzinare, in un dato intervallo, un numero, grande quanto si voglia, di fenomeni.
Che ci siano, in un certo senso, molteplici oggetti, che un uomo distingua da un altro uomo, un
albero da un albero, una pietra da una pietra, è incontestabile. Ma la separazione tra la cosa e il suo
ambiente non può assolutamente essere netta; si passa per gradazioni insensibili dall'una all'altro: la
stretta solidarietà che lega tutti gli oggetti dell'universo materiale, la perpetuità delle loro azioni e
reazioni reciproche, provano a sufficienza che non hanno i limiti precisi che noi attribuiamo ad essi.
La nostra percezione delinea, in qualche modo, la forma del residuo; li termina nel punto in cui si
ferma la nostra possibile azione su di essi, e in cui essi cessano, di conseguenza, di interessare i
nostri bisogni. Questa è la prima e la più evidente operazione dello spirito che percepisce; esso
traccia delle divisioni nella continuità dell'estensione, cedendo semplicemente alle suggestioni del
bisogno e alle necessità della vita pratica. Ora, nello stesso tempo in cui la nostra percezione
attuale, e per così dire istantanea, effettua questa divisione della materia in oggetti indipendenti, la
nostra memoria solidifica in qualità sensibili il flusso continuo delle cose. Prolunga il passato nel
presente, poiché la nostra azione disporrà del futuro nell'esatta proporzione in cui la nostra
percezione, accresciuta dalla memoria, avrà contratto il passato. Rispondere ad un'azione subita con
una reazione immediata che ne regola il ritmo e si prolunga nella stessa durata, essere nel presente e
in un presente che ricomincia senza posa, ecco la legge fondamentale della materia: in questo
consiste la necessità. Se ci sono delle azioni libere, esse possono appartenere soltanto a degli esseri
capaci di fissare, di quando in quando, il divenire su cui il loro specifico divenire si applica, di
soddisfarlo in momenti distinti, di condensarne così la materia e, assimilandola, di assorbirla in
movimenti di reazione che passeranno attraverso le maglie della necessità naturale. La maggiore o
minore tensione della loro durata, che esprime, in fondo, la loro maggiore o minore intensità di vita,
determina così sia la forza di concentrazione della loro percezione, sia il grado della loro libertà. Ritorniamo
così, attraverso un lungo giro, alle conclusioni che avevamo trattato nel primo capitolo
di questo libro. La nostra percezione, dicevamo, è originariamente nelle cose piuttosto che nello
spirito, fuori di noi piuttosto che in noi. Le percezioni dei diversi generi indicano altrettante vere
direzioni della realtà. Ma questa percezione che coincide con il suo oggetto, aggiungevamo, esiste
di diritto piuttosto che di fatto: essa avrebbe luogo nell'istantaneo. Nella concreta percezione
interviene la memoria,e la soggettività delle qualità sensibili dipende precisamente dal fatto che la
nostra coscienza, che incomincia con l'essere soltanto memoria, prolunga gli uni negli altri, per
contrarli in un'unica intuizione, una pluralità di momenti. Coscienza e materia, anima e corpo,
entravano così in contatto nella percezione. Ma quest'idea restava oscura, per un certo aspetto,
perché la nostra percezione, e di conseguenza anche la nostra coscienza, sembrava allora
partecipare della divisibilità che si attribuisce alla materia. Ma se la divisibilità della materia è
totalmente relativa alla nostra capacità di modificarne l'aspetto, se essa non appartiene alla stessa
materia, ma allo spazio che noi tendiamo al di sotto di questa materia per farla cadere sotto le nostre
prese, allora la difficoltà svanisce. La materia estesa, considerata nel suo insieme, è una coscienza in
cui tutto si equilibra, si compensa, si neutralizza; essa offre veramente l'indivisibilità della nostra
percezione; così che, inversamente, noi possiamo, senza scrupolo, attribuire alla percezione
qualcosa dell'estensione della materia. Questi due termini, percezione e materia, procedendo così
l'uno verso l'altro via via che ci spogliamo sempre di più di ciò che potremmo chiamare i pregiudizi
dell'azione: la sensazione riconquista l'estensione, l'estensione concreta riprende la sua continuità e
la sua indivisibilità naturali. E lo spazio omogeneo, che si innalza tra i due termini come una
barriera insuperabile, non ha più altra realtà se non quella di uno schema o di un simbolo. In tal
modo si chiarisce anche, in una certa misura, la questione verso la quale tutte le nostre ricerche
convergono, quella dell'unione anima con il corpo. L'oscurità di questo problema deriva dal fatto
che si considera la materia come essenzialmente divisibile, ed ogni stato d'animo come
rigorosamente inesteso, così che si incomincia con lo spezzare la comunicazione tra i due termini. Il
torto del dualismo volgare è di mettersi dal punto di vista dello spazio, di porre da una parte la
materia con le sue modificazioni nello spazio, dall'altra delle sensazioni inestensive nella coscienza.
Da qui l'impossibilità di comprendere come lo spirito agisca sul corpo, o il corpo sullo spirito.
Abbiamo cercato di stabilire che le difficoltà si attenuano in un dualismo che, partendo dalla pura
percezione in cui il soggetto e l'oggetto coincidono, spiega lo sviluppo di questi due termini nelle
loro rispettive durate – visto che la materia, via via che se ne prolunghi l'analisi, tende sempre più
ad essere soltanto una successione di momenti infinitamente rapidi che si deducono gli uni dagli
altri, e in tal modo si equivalgono; mentre lo spirito è già memoria nella percezione, e si afferma
sempre più come un prolungamento del passato nel presente, come un progresso, una vera evoluzione. Le
difficoltà del dualismo volgare non derivano dal fatto che i due termini si
distinguono, ma dal fatto che non si vede come l'uno dei due si innesti nell'altro. Ora, noi l'abbiamo
mostrato, la pura percezione, che sarebbe il grado più basso dello spirito – lo spirito senza memoria
– farebbe veramente parte della materia, così come la intendiamo noi. Andiamo oltre, la memoria
non interviene come una funzione di cui la materia non avrebbe alcun presentimento e che non
imiterebbe già a modo suo. Se la materia non si ricorda del passato è perchè ripete il passato senza
posa, perchè, sottomessa alla necessità, svolge una serie di momenti ciascuno dei quali equivale al
precedente, e può esserne dedotto: così il suo passato è veramente dato nel suo presente. Ma un
essere che evolve più o meno liberamente crea ad ogni momento qualcosa di nuovo: invano,
dunque, si cercherebbe di leggere il suo passato nel suo presente, se il passato non si depositasse in
lui allo stato di ricordo. Così, per riprendere una metafora che è già apparsa diverse volte in questo
libro, bisogna, per ragioni simili, che il passato sia giocato dalla memoria, immaginato dallo spirito.

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