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LO SGUARDO DISPOSITIVO DELLARTE RICCARDO PANATTONI E GIANLUCA SOLLA

Panopticon: linstallazione di Andrea Nacciarriti ha chiamato a s questo nome, lha richiamato con tutte le implicazioni che gli gravitano attorno e se lo attribuito a posteriori come titolo. Ma unopera darte nasce disattendendo lattribuzione di senso implicita in un titolo. Allo stesso tempo mostra il segreto che in esso implicato. Cos lopera che porta questo titolo non corrisponde direttamente alla forma che il suo nome richiama. Non si tratta tanto di una (per altro prevedibile) eccedenza della cosa rispetto alla sua denominazione, quanto piuttosto del fatto che, una volta che stato richiamato, quel nome mette in movimento una serie di intrecci e di connessioni, una sequenza di effetti e di collegamenti di cui dovremmo qui cercare di rendere conto. Com noto, il Panopticon di Jeremy Bentham, su cui Michel Foucault ha scritto pagine esemplari per rigore e lucidit in Sorvegliare e punire, prevede una struttura dotata di una torre centrale che permetta a un solo sguardo di tenere sotto controllo tutto quello che lo circonda, senza essere a sua volta visto. Un antico sogno dellumanit sembra avere qui trovato finalmente corso. Vedere senza essere visti, raccogliere informazioni e venire a conoscenza senza doversi mettere allo scoperto, sorvegliare delle vite dalla posizione di un incognito che garantisce lincolumit della propria. Pensato inizialmente per gli edifici carcerari, il panopticon era tuttavia adattabile a ogni struttura o istituzione che avesse per finalit quella di imprimere negli individui il rispetto di determinati canoni di comportamento. Chi entrava in una di queste strutture istituzionalizzate fosse una scuola o un ospedale, un ospizio o una caserma doveva sentirsi costantemente come sotto osservazione. Questo il suo effetto specifico: di indurre a credere o a sentire di essere sorvegliati anche in assenza di un carceriere o di un sorvegliante che effettivamente svolgano tale mansione in quel preciso istante. In questo senso la torre non corrisponde semplicemente a un punto di osservazione. Ben di pi, essa locchio quasi-divino costantemente aperto sui sorvegliati. Panopticon dunque il nome attribuito non tanto a una specifica forma architettonica che permetta il controllo, quanto al regime di un controllo che dispone indiscriminatamente ciascuno allaccettazione dei propri criteri. Inizia qui a delinearsi quello che chiameremo un dispositivo. Nellinstallazione di Nacciarriti infatti come sincrinasse il concetto specifico di controllo, che il panopticon come tale non pu invece che sottendere. Daltronde il gesto artistico porta piuttosto in evidenza le effettive implicazioni di un dispositivo, i modi in cui esso ha preso forma allinterno della realt che quotidianamente viviamo. In questo caso nella forma banale di lastre di vetro antisfondamento utilizzate negli stadi dove laggettivo banale rimanda almeno a due cose: da un lato alla sua ordinariet, al fatto di essere un oggetto usuale in certi ambienti o nei paesaggi metropolitani; dallaltro, al fatto che nella sua semplicit un dispositivo di questo tipo non pu che essere a sua volta la personificazione di quel bando su cui si regge tutto lordinamento giuridico e che decide della normalit e della criminalizzazione dei singoli. Linstallazione, come il dispositivo, pensata apparentemente per gli sguardi, ma realizzata per i corpi. La sua trasparenza tale da non trattenere lo sguardo. Lo sguardo anzi deve poter procedere oltre, in assoluta libert. Una simile struttura materiale non deve essere vista. Non deve mai essere loggetto diretto dellinteresse. Essa deve rimanere al contrario del tutto inapparente. La sua forza si riversa nel solo momento in cui il corpo si avvicina effettivamente a quella trasparenza. Solo allora la sua materialit emerge in tutta la sua potenza. E questo vale tanto per il dispositivo quanto per lopera. In fondo un dispositivo, cos come in genere unopera darte, si gioca tutto in un rapporto di equilibrio tra vicinanza e lontananza. Il privilegio dellocchio sta proprio in questo poter passare attraverso tutte le forme per decodificarne il significato o per sentirne lemozione, ma tenendo al contempo tutto sempre a dovuta distanza. Cos, lopera di Andrea Nacciarriti rivela il suo essere tutta per lo sguardo, ma allo stesso tempo mostra anche tutta linsufficienza dello sguardo. Se ci si dovesse limitare infatti al puro gesto dellosservazione, il rischio sarebbe quello di non vedere

niente. Eppure a chi si avvicini a quella struttura e la tocchi, non potr che venire incontro un sentimento di sgomento: come se si toccasse la sua stessa inapparenza. Se la mano pu sentire la consistenza del materiale che le impedisce di procedere oltre, lo sguardo continua invece indisturbato a vedere al di l senza incontrare alcuno ostacolo. Lopera, come il dispositivo, consiste in questa dislocazione. Pi precisamente: essa proprio la dissociazione di ci che permane nellapparenza di una semplice continuit. proprio in questa dissociazione permanente che i dispositivi pi diversi hanno finito per diventare parte del paesaggio quotidiano delle nostre vite, anzi si sono fatti il loro indissociabile corredo. proprio questa dissociazione a costituire il principio cardine delle strutture che fanno una citt. In fondo lo spazio di una citt, preso nellinsieme dei suoi dispositivi, non altro che una conduzione dei corpi. Tutto deve defluire senza incontrare ostacoli, per questo ogni corpo deve essere adeguatamente indirizzato e predisposto. I dispositivi sono divenuti a tal punto elementi effettivi della costituzione di una citt, da poterli considerare architettura in atto, reale architettura urbana. Rappresentano parte integrante delledificazione di una citt. In questo loro principio genetico, non possono essere ridotti a semplici aggiunte, a protesi o supplementi. Chi ancora li considerasse cos, dovrebbe ammettere allora che le nostre citt sono tutte composte da protesi e che queste protesi sono altrettanto reali almeno quanto gli edifici in cui si vive. anche per questo motivo che un dispositivo non esprime mai semplicemente unesigenza di controllo, non pu essere ridotto per esempio allocchio della macchina che ci osserva e ci registra. Non infatti la sola telecamera a essere un dispositivo, lo gi il semplice cartello che, facendo riferimento a una disposizione legislativa che tutela i nostri diritti, ci segnala che stiamo entrando in unarea videosorvegliata. Anche se le telecamere poi non si vedono, anche se forse in realt non ci sono, lavvertenza fa le loro veci. Funziona per loro e, al limite, in loro assenza. Tuttavia se funziona perch induce a comportarsi in un determinato modo, sapendosi controllati. Qui il cuore del problema. Un dispositivo, pi che instaurare una vera e propria costrizione, ha come effetto quello dimprimere una condotta. Il problema del dispositivo non nella sua forza coercitiva, bens nel desiderio di una buona condotta istillato nei singoli individui. Avere una buona condotta non soltanto sinonimo di sicurezza, vi implicato anche il piacere di sapere come comportarsi. In fondo, essere allaltezza di una situazione, significa saper leggere in anticipo la predisposizione che determina i canoni di una realt costituita allinterno della quale si chiamati a muoversi. Il lavoro dei dispositivi agisce soprattutto nel predisporre delle condotte e nellallestire delle procedure che tutti dovrebbero avvertire come rassicuranti. Riconoscere i criteri su cui unistituzione si fonda mette infatti in grado di corrispondere adeguatamente alla condotta da tenere al suo interno. Cos un dispositivo non lo si subisce solamente. C da parte della soggettivit umana il mettere in atto uno spirito di adattamento e di anticipazione capace di conformarsi quasi inavvertitamente. C dunque qualcosa nel soggetto umano per definizione responsabile di s e delle sue azioni che collabora con i dispositivi e che anzi si offre alla loro predisposizione. Questa collaborazione tuttavia segna il punto di crisi tra aspetto attivo e passivo che lespressione essere soggetto porta con s nel suo indicare insieme lessere soggetti di qualcosa (delle proprie azioni, dei propri diritti, ecc.) e, daltra parte, lessere soggetti a qualcosa (come per esempio si soggetti alla legge). forse per ovviare a questa crisi che si portati a emancipare il concetto di soggettivit con quello di persona. Riteniamo tuttavia che proprio il concetto di persona costituisca il dispositivo per eccellenza. Ecco perch questultimo non pu essere pensato semplicemente come ci che limita le nostre libert con il pretesto di garantirle, quanto piuttosto come ci che deve essere assunto da quel soggetto personale capace, per definizione, di libere scelte. A differenza di quanto comunemente si crede, essere presi dalla propria persona significa in realt farsi dimentichi di se stessi, della conduzione del proprio corpo per potersi cos liberamente occupare di s. Se una delle propriet caratteristiche dei dispositivi quella della loro trasparenza ovvero di uninapparenza senza esitazione, la persona il dispositivo per eccellenza in quanto rappresenta il desiderio compiuto di questa inapparenza o trasparenza di s. Non pertanto casuale che Andrea Nacciarriti abbia scelto lo stadio come luogo privilegiato del suo

lavoro artistico. In fondo lo stadio non nientaltro che un grande dispositivo incentrato sullo sguardo. Si l per osservare uno spettacolo o, forse pi precisamente, per esserne parte. Solo allora ci si pu finalmente dimenticare di se stessi. Tutto predisposto perch questa dimenticanza diventi non solo possibile ma anche desiderabile. Tutto predisposto affinch ogni singolo si senta adeguatamente collocato, abbia il suo posto, la sua parte e si senta finalmente libero di essere completamente con se stesso. il piacere di guardare sprofondando in se stessi, presi nel piacere del proprio essere un insieme, del non guardarsi n essere guardati, del non controllarsi pi. Proprio la persona che dovrebbe essere garanzia dellindividualit di ciascuno, rivela invece come il concetto di singolarit sia il presupposto della produzione di un indistinto. Pi precisamente potremmo affermare che la persona il dispositivo di produzione di indistinti individuali, produzione cio di figure indistinte, perfettamente sostituibili luna con laltra, ma tutte persuase della propria individualit e centralit. Se la persona rappresenta il dispositivo per eccellenza, perch rivela in s la richiesta generalizzata di controllo, di tutela e sicurezza, e tutto questo in nome del desiderio della propria libert. Per questo lo stadio, prevedendo di accogliere la presenza di persone, anzi essendo funzionale alla loro effettiva accoglienza, fa s che tutto quanto si collochi al suo interno non possa astenersi dallassumere a sua volta i tratti stessi del dispositivo. Rivela cio sino a che punto i dispositivi abbiano come proprio orizzonte lerogazione di quelle libert di cui costituiscono la simmetrica negazione spettacolare. Ecco perch non si riesce a entrare allinterno delle implicazioni relative al concetto di dispositivo, cos come al Panopticon di Andrea Nacciarriti, senza insistere sul fatto che tutto il discorso ruota intorno al concetto di libert. Il singolo individuo accetta o, meglio, desidera il dispositivo in quanto il dispositivo apparentemente lo libera. Lo libera perch gli fornisce come un supplemento di tempo. Allo stadio possibile mentre si guarda la partita, sentirsi parte di unemozione collettiva, lasciarsi attraversare da sensazioni personali, dai propri pensieri, parlare con chi vicino o rispondere al cellulare. Ed possibile fare tutto questo allinterno di diverse contemporaneit. Il dispositivo libera praticamente dallimpedimento temporale del corpo, dalla struttura materiale della sua memoria. Il dispositivo come se pensasse per me, agisse per me, liberando il mio tempo. Ecco perch si accetta con tanta facilit che i dispositivi entrino a far parte della propria vita, ne regolino la scansione quotidiana e finiscano per deciderne il ritmo. Ogni dispositivo prende infatti corpo allinterno della giornata, ne codifica i tempi, ne regola lordine, promettendo a ciascuno che in quello spazio codificato potr trovare un eccesso di tempo che gli permetter di stare con se stesso il meglio possibile. Risiede forse qui il grande impensato attorno a cui girano a vuoto le discussioni sulla violenza negli stadi. Si sostiene spesso che negli stadi dovrebbero andare indisturbati anche i bambini, le famiglie. Non a caso in una recente intervista il capo della polizia italiana ha dichiarato di sognare uno stadio senza poliziotti. Paradossalmente questa immagine, per alcuni versi quasi idilliaca, rivela tuttavia fino in fondo lutilizzo effettivo del dispositivo, la cui finalit quella di fornire e di garantire una libert incentrata sul principio di sicurezza, stabilendo uno stato di perfetta normalizzazione. La normalizzazione daltronde trova il suo reale effetto solo quando lo svolgimento di una situazione totalmente prevedibile. Se la normalizzazione fosse raggiunta, sarebbe possibile ipotizzare anche labbandono di ogni forma di controllo. Nel momento in cui una societ o alcune sue manifestazioni apparissero completamente riprese nella disciplina, il controllo diverrebbe infatti inutile. Il successo di unistituzione idealmente raggiunto non quando riesce ad applicare i suoi criteri coercitivi, ma paradossalmente proprio quando questi criteri vengono resi inutili da una buona condotta apparentemente spontanea. sempre stato questo, del resto, il paradosso implicito in tutte le istituzioni disciplinari, cos come in quelle di controllo: esercitare, senza soluzione di continuit, forme di violenza, imputando per sempre alle contraddizioni della realt lesigenza della forza da loro effettivamente esercitata. La cifra di questo paradosso fornita dalla figura a suo modo classica delleducatore che usa malvolentieri la coercizione, che anzi soffre di doverla esercitare, ma che non per nulla disposto a rinunciarvi, perch per lui quella violenza compiuta in nome di un bene che risulta maggiore della sofferenza che la sua disciplina provoca.

Si dimentica cos troppo facilmente come larena sia sempre stata, fin dallantichit, un luogo di canalizzazione delluso della forza. lo spettacolo che chiama in s la violenza o, pi precisamente, la violenza ne sempre stata parte integrante. Pensare a uno spettacolo senza violenza vuol dire fondamentalmente volerlo epurare dalle sue contraddizioni costitutive o, meglio, volerlo emendare nel punto in cui tali contraddizioni vengono alla luce. In particolare lo spettacolo sportivo, raccolto attorno a un luogo a destinazione specifica come lo stadio, implica uno dei concetti-cardine di tutta la storia pi recente, almeno dal Novecento: il concetto di concentrazione. Lo stadio infatti di per s un luogo concentrazionario. E finch continueranno ad esistere simili luoghi di concentrazione intorno a uno spettacolo, la violenza non potr che esserne parte integrante. Si potrebbe anzi affermare che la violenza negli stadi lunica risposta che prova a corrispondere a quella realt di fatto, a quella realt che concentra nei suoi luoghi masse di persone. In un certo senso come se nella tanto demonizzata violenza del tifo calcistico emergesse il sintomo di qualcosa di pi grande. Non si tratta evidentemente di opporre un ingannevole elogio della violenza degli ultras allipocrisia istituzionale del rifiuto della violenza (ipocrita nel momento in cui lo spettacolo stesso a produrre violenza). Si tratta piuttosto di riconoscere in essa il luogo in cui qualcosa, nonostante tutto, insiste, al di sotto della retorica delle parole. come se quella violenza, anchessa spettacolare e dunque parte integrante di un preciso meccanismo, fosse il punto in cui emerge un aspetto che appartiene alla competizione sportiva in quanto tale: quella manifestazione di tifo uno dei punti in cui affiora la parentela tra lo sport e la guerra, parentela strettissima per quanto a tuttoggi ancora insufficientemente pensata. Questa parentela rivelata innanzitutto dal fatto che lo sport nasce come preparazione del corpo alla guerra attraverso latletica (in greco athlos indica appunto la lotta) e con il fatto che la forma ideale del corpo il corpo in forma, espressione duso comune su cui tanto bisognerebbe dire sia quella del corpo del guerriero. Come recita una recente pubblicit, per lo sportivo, come per il militare, si tratta di essere sempre pronto a battersi. Cos un articolo apparso in questi giorni su La Repubblica rivela che lallenamento della nazionale di rugby francese si basa sui percorsi e i metodi delle unit speciali dellesercito francese. Che nello stesso articolo un celebre ciclista italiano venga intervistato per confermare che metodi simili sono in uso in tutti gli altri sport, e che per altro lo stesso ciclista sia stato pi volte al centro di cosiddetti scandali per uso di doping, non fa che confermare il fatto che lecito il ricorso a tutti gli strumenti possibili disciplinari, ma anche medici ossia chimici per fare dei corpi macchine capaci di garantire in qualsiasi condizione la continuit dello spettacolo. In questo senso allora, anche se dallo stadio venissero rimossi non solo tutti i poliziotti ma anche tutti i dispositivi di controllo e di contenimento della violenza, come sono le barriere antisfondamento, quegli stessi dispositivi continuerebbero comunque a esserci, a essere in ogni modo allopera. Smantellarli vorrebbe dire tuttal pi farli scomparire, nasconderli. Lopera di Nacciarriti l a dircelo con estrema precisione. Non si tratta tanto del fatto che un determinato dispositivo ci sia o non ci sia effettivamente: la questione solo nei modi e nei gradi della sua reale presenza. Tutto questo ci porta a unulteriore asserzione che questa opera ci suggerisce: il dispositivo funziona sempre non per aggiunte ma per sottrazioni. O, pi precisamente, ogni aggiunta unaggiunta per sottrazione. giustificata e dunque legittimata unicamente perch sottrae violenza. solo in questo modo, del resto, che ogni nuovo dispositivo pu apparire in piena sintonia con il desiderio di libert. Il dispositivo infatti dovrebbe essere percepito come un rinforzo al servizio della libert, come se una tale libert personale dovesse necessariamente passare attraverso un atto di contrizione. Se un dispositivo aggiunge per sottrazione, ci non pu essere raggiunto che attraverso continui nuovi interventi. Nella loro apparente staticit i dispositivi si muovono, sono fondamentalmente dialettici. Si aggiungono e si tolgono a secondo dei casi e delle situazioni. Si mobilitano dov necessario. Cancellano la loro presenza invasiva dove risultasse sgradita. anche per questo che il loro esserci sottost al principio della sottrazione. Non c mai tanto dispositivo quanto l dove esso si sottrae, si rende impalpabile, gentile. Lincivilimento dei dispositivi segna appunto linizio di una civilt a loro sottoposta, cos come daltra parte la nostra, in cui tutto lo spazio pubblico e

privato pieno della loro presenza. Pieno nel senso per di esserne in un certo modo come privati o, pi precisamente, alleggeriti. Il dispositivo qualcosa che, decidendo le condizioni delle nostre vite, si e ci alleggerisce. Rendendosi sempre meno greve, il meno invadente possibile, sprigiona tutta la sua efficacia. In questo suo procedere per sottrazioni, il dispositivo rispecchia il sentimento da cui nasce, che quello della paura. In fondo la paura il sintomo preventivo di ogni possibile violenza vuole solo essere sottratta. Ecco perch i dispositivi sono sempre potenzialmente presenti: sappiamo che la paura non potr mai essere del tutto cancellata o annullata, ma contemporaneamente sappiamo anche che forse potremmo avere un po meno di paura e che potremmo ridurla almeno un poco. su questo poco che si edifica una civilt dei dispositivi. Questi, per quanto controllino e disciplinino, servono tuttavia fondamentalmente da dispositivi di sicurezza ovvero di rassicurazione. Cos quel dispositivo che abbiamo chiamato persona, tutto teso alla realizzazione della propria libert, diviene il dispositivo privilegiato perch per realizzare la propria libert non pu che edificare altri dispositivi. Esso si rivela cos il presupposto che alimenta la stessa paura di cui si vorrebbe liberare. La sua paura precisamente quella di perdere la conquista di tale libert. proprio su questo circolo vizioso che i dispositivi trovano la loro legittimit. Si dovrebbe parlare allora, insieme al sentimento della paura, anche della sensazione del disagio. Se la paura infatti un sentimento forte, importante, il disagio si caratterizza invece essenzialmente per il suo fondo indistinto. Quando si a disagio non si tranquilli, si sente che qualcosa sta accadendo, ma non si sa bene di cosa si tratti. Si ha come la sensazione di un fondo di paura, anche se non lo si ammette direttamente perch non si hanno gli elementi per sostenerlo. Ci si deve tuttavia chiedere perch la barriera antisfondamento non crei un effettivo disagio, anzi in qualche modo una presenza che fa adagiare. Il dispositivo rivela qui nuovamente di portare con s lesigenza di rispondere a unurgenza. proprio questa urgenza, vera o fittizia non conta perch tramontata la possibilit di operare questa distinzione, a chiamare il dispositivo a predisporsi. Questa urgenza costituita da una violenza da sottrarre, da evitare, da negare sin dalla sua origine o addirittura, se solo fosse possibile, da prevenire. Linsicurezza, a cui il dispositivo apparentemente risponde, rimane una fonte di disagio. Ecco perch il dispositivo trova nellinapparenza la sua giusta misura. ci che non si deve vedere, ma che deve avere la forza per fronteggiare la situazione; deve avere lefficacia di un reale impedimento. Cos il panopticon come un muro che non rende per impossibile lo sguardo, anzi lo lascia liberamente scorrere. Ci che tuttavia esso comporta di escludere che gli sguardi possano effettivamente toccarsi. In fondo il panopticon in realt un incrocio di sguardi mancati. Gli sguardi sincrociano ma non si trovano mai. Questo lintreccio che il lavoro di Nacciarriti porta in scena tra il dispositivo e lopera darte. Nella sua iniziale inapparenza, come se linstallazione rivelasse la vera natura del panopticon. tra quegli sguardi che mancano a se stessi linterstizio dove linapparenza materiale del dispositivo sorge. Panopticon allora il nome di una delocazione che avviene per dislocarsi in uno spazio espressivo. per questo che il panopticon chiede di essere pensato da capo: pi che come una struttura di controllo, che prevede un centro e delle periferie, dove chi nelle periferie controllato, mentre chi al centro controlla, si tratta di un punto di passaggio, dove gli sguardi si incrociano, ma solo per mancarsi. Il dispositivo attira su di s gli sguardi, ma non permette che gli sguardi effettivamente si incontrino. Quando dallo sguardo si vuole passare al tocco, la trasparenza di quel dispositivo ritrova tutta la sua insuperabile consistenza materiale. Dalla dimenticanza della propria struttura corporea a causa della visione, improvvisamente si passa soltanto al punto in cui il dispositivo rivela non solo la materialit del proprio corpo, ma anche i limiti allinterno dei quali il lato corporeo del nostro guardare deve dipanarsi. In quale posizione ci si deve collocare per usufruire adeguatamente di uno spettacolo sportivo cos come di unesposizione darte. Lo stadio, come una galleria darte, imprimono in fondo lo stesso movimento. Chi si trova alla periferia osserva ci che sta al centro dellattenzione, ma questo sguardo come rappreso su di una trasparenza impercettibile. (Cos linstallazione stata inaugurata mentre nella galleria era in corso unesposizione che essa rendeva inaccessibile, rivelando tutte le implicazioni di questa impenetrabilit.) Nessuna solidariet, nessun

piacere, nessun incontro deve in effetti aver luogo. Il dispositivo del resto ci che immunizza la societ dai diversi pericoli impliciti in questi tre momenti. Qui tutto deve aver luogo senza che nulla davvero accada. Tra dispositivo e opera darte affiorano cos vicinanze inaspettate. Qualcosa in entrambi i casi affiora dal nulla. Insieme al supplemento di tempo che un dispositivo garantisce viene qui allo scoperto anche un supplemento di spazio. E la vita si gioca tutta proprio allinterno di questo supplemento spazio-temporale prodotto dal dispositivo. Il concetto stesso di vita in fondo non altro che quel dispositivo che stabilisce i criteri su cui ogni persona trova il proprio fondamento. Se la vita il punto di attraversamento dei corpi come degli sguardi, essa non consiste in altro che in ci che comunemente viene definito una rete di relazioni. questo punto, lattraversamento che esso implica, a essere impedito da questo panopticon, che lo occupa con le sue lastre di vetro antisfondamento. La vita si stabilisce proprio su questa dislocazione dei corpi. Il dispositivo attira gli sguardi e poi li scarta per distribuire i corpi, per ordinarli e per disciplinarli. Il punto in cui sorge esattamente quello spazio in cui gli sguardi dovrebbero trovare il proprio corpo e toccarsi. Questo tuttavia espressamente il contenzioso, la lotta che si apre, tra il dispositivo e lopera darte. Se linstallazione di Nacciarriti ne rivela infatti la pericolosa vicinanza, ne rivela al contempo anche tutta la radicale differenza. Se il dispositivo l in nome della sua funzione, larte invece non serve a nulla. Questa inutilizzabilit, questa sua fondamentale inoperosit, ci che pone la percezione di s in quel punto determinante tra sguardo e corpo, decidendo per un radicale ripensamento del concetto stesso di relazione sociale. Qui larte viene allo scoperto, si dichiara e si scopre profondamente politica. Si tratta come di un doppio movimento: uno il cristallizzarsi, il condensarsi del dispositivo nello spazio che esso definisce, ordina, struttura e che, in qualche modo, crea; laltro il fatto che in questa cristallizzazione permane un inaggirabile elemento virtuale. Potremmo dire che tutta la potenza del dispositivo si dispiega nel tentativo di rendere quel supplemento spazio-temporale esclusivamente virtuale. daltronde soltanto da una posizione virtuale che il reale rimane effettivamente condizionabile. La sua virtualit funziona unicamente se una realt se ne appropria, mancando cos a se stessa. Per questo la cristallizzazione di quelle lastre di vetro permette di percepire fino a che punto il virtuale effettivamente agisca. La materialit dellopera rivela tutto il peso della virtualit. Mostrandosi in tutto il suo impedimento, d la percezione di quanto effettivamente incida sulla realt del mondo la virtualit dei dispositivi. In fondo i dispositivi non sono semplicemente inevitabili o, per lo meno, lasserzione della loro inevitabilit ha un riscontro di fatto costituito dal loro utilizzo politico. Nella loro virtualit quelle barriere antisfondamento sono collocate materialmente e trasformano di fatto le nostre vite. Cos linstallazione di Nacciarriti non si limita a sovvertire lo spazio della galleria negando lesposizione a cui essa si apre: quel Panopticon lascia intravedere nel suo impedimento trasparente quanto il luogo espositivo sia di per s soggetto a uno sguardo immaginativo che precede ogni reale incontro visivo, predeterminandolo. Rivela in altri termini come lo stesso concetto di arte non sia a sua volta nientaltro che un dispositivo. Il dispositivo tuttavia l espressamente per non rivelare nulla. Non dovrebbe cio fornire di s alcuna percezione. Attraverso quel gesto artistico, che rende finalmente visibile ci a cui eravamo ciechi perch sempre sotto i nostri occhi, ora possibile giungere fino al fondo della sua lettura. Dove il dispositivo deposto in se stesso, abbandonato in tutto il suo impedimento fuori luogo, l si attiva la percezione del proprio corpo come punto di crisi tra lo sguardo di cui quel corpo capace e il tocco di cui soggetto. Si riattiva quel sentire del proprio corpo che i dispositivi avevano nel frattempo annullato, sostituendo i corpi con unimmagine di s. cos che unopera darte pu trovare, anche da sola, la forza di risvegliare dal sonno dei dispositivi, la cui natura fondamentalmente anestetica. Solo cos la struttura del dispositivo appare in tutta la sua funzione e senza la necessit di passare per la sua genealogia. Del resto il dispositivo non ha un da dove da cui proviene, che ne faciliti la comprensione. Non esiste alcuna genealogia del dispositivo. una presenza che sempre stata l,

inapparente, accanto alle nostre vite, nella trasparenza delle sue lastre di vetro che ci dividono dai nostri corpi, dalle nostre stesse paure per alimentarle, fino a farle diventare delle entit a parte, separate, che pure si nutrono della nostra stessa vita. Questo Panopticon permette di dire che forse il panopticon qualcosa daltro da ci che abbiamo sempre pensato e immaginato. E questo proprio perch non ne ricostruisce affatto unimprobabile storia, ma ne mostra la presenza in tutta la sua consistenza, in tutta la sua brutalit e, certo, anche in tutta la sua sorprendente bellezza.

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