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Lezione magistrale tenuta al Master di II

livello in Sessuologia Clinica presso il Centro


MAP - Salerno - corso G. Garibaldi 215.
https://www.egidioerrico.com/la-logica-del-desiderio

Quello del desiderio è un argomento complesso, uno dei più complessi della psicoanalisi, e tuttavia
se ne parla continuamente, e comunemente, segno che quello del desiderio è anche l’argomento che
più sta a cuore in ciascuno di noi.

"Desiderio e godimento"

Il godimento non è il piacere (Lust) poiché esso scardina ogni armonia possibile nel funzionamento
del soggetto; il godimento implica infatti sempre un eccesso, un elemento di "trauma", di non-
assimibilità, di intrusione per il soggetto. Se il piacere funziona - come Freud ha mostrato seguendo
alla lettera l'insegnamento di Schopenhauer - obbedendo alla logica dell'equilibrio e della riduzione
delle tensioni, il godimento introduce un al di là. Esso deve essere collocato stutturalmente al di là
del Lustprinzip. [...] Il piacere concerne il ritmo necessario della natura; la sua ratio è biologica, il
suo finalismo edonistico. Il godimento, invece, è in relazione al significante: la sua ratio è storica, il
suo finalismo, come si espresse una volta Lacan in "Di un discorso che non sarebbe del sembiante",
iperedonistico, nel senso che al di là del bene naturale il soggetto persegue un eccesso che può
rivelarsi rovinoso. La demarcazione tra godimento e desiderio viene prodotta da Lacan a partire da
"Il Seminario. Libro VII" e formalizzata pienamente negli anni '60. [...] "Il desiderio", scrive Lacan,
"viene dall'Altro, e il godimento è dal lato della Cosa". Viene qui costruita una doppia opposizione:
quella tra l'Altro e la Cosa e quella tra il desiderio e il godimento. [...] L'Altro è ciò che stacca il
soggetto da un godimento pieno, senza scarti, totalizzante, com'è quello di das Ding. [...] L'Altro
dunque impone che la Cosa sia un vuoto e non un pieno. Il desiderio può solo scaturire da qui, da
questa barratura originaria della Cosa per azione dell'Altro. Ecco perché Lacan ci dice che il
desiderio "viene dall'Altro".

Massimo Recalcati, "Il vuoto e il resto. Il problema del reale in Jacques Lacan", Mimesis, Milano
2019 (5 edizione ).

Il passo fa riferimento alla distinzione tra piacere e godimento, che potrebbe sfuggire ai non addetti
ai lavori. Se il piacere è armonia, equilibrio, serenità interiore, il godimento va letteralmente al di là
del piacere, va oltre il bene naturale dell'uomo, eccede, cerca di più, rifiuta il limite, la necessità
della castrazione e tende all'assoluto. In questa sua corsa verso l'assoluto, brucia e distrugge tutto.
L'al di là del principio di piacere (lustpinzip: lust: piacere, prinzip: principio) è dispiacere, insomma.
L'uomo sperimenta il godimento prima del suo ingresso nel linguaggio e nella relazione. Quando
entra nel linguaggio e si relazione agli altri, si allontana dalla Cosa (condizione di godimento

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assoluto) e diventa soggetto mancante, soggetto che ha perso qualcosa, che smette di essere tutto,
che è sbarrato. Per questo, leggete che l'Altro stacca il soggetto dal godimento, per trasformarlo in
un soggetto che desidera. L'Altro fa perdere qualcosa e la perdita trasforma l'uomo da sostanza che
gode a soggetto che desidera. SC

L’uomo è il suo desiderio

Non esiste essere umano che non si interroghi sul proprio desiderio poiché non vi è niente di più
soggettivo, di più personale, di più privato del desiderio umano, al punto che possiamo dire che la
singolarità di ciascuno coincide con il desiderio che vi abita. Per questo la psicoanalisi, in quanto
pratica che procede attraverso l’interrogazione soggettiva, dell’uno per uno, pone al centro della sua
indagine il desiderio umano, arrivando a riconoscere che l’uomo è il suo desiderio e, di
conseguenza, che il desiderio è sempre in causa nella sofferenza psichica. Per questo, possiamo dire
che ogni qual volta un paziente si rivolge ad un qualsiasi psicoterapeuta, in effetti vi si rivolge per
avere una risposta sul proprio desiderio, sull’enigma del proprio desiderio, essendo il desiderio ciò
che interroga continuamente il soggetto, in quanto, al tempo stesso, mai del tutto soddisfatto e mai
del tutto eludibile. Il proprio desiderio è l'enigma fondamentale dell'uomo.

Ineludibilità e indistruttibilità sono le prime due caratteristiche del desiderio umano. Per questo,
come dicevamo, esso è al centro della sofferenza psichica e della domanda di aiuto che il soggetto
rivolge al terapeuta attraverso il proprioo sintomo. Possiamo dire che il desiderio costituisce
l’architrave di ogni sintomo psichico e che il sintomo contiene al suo interno, nel suo nucleo, un
desiderio che, non potendo essere sopportato come insoddisfatto, chiede di essere interpretato .
L’impossibilità della sua soddisfazione è dunque la terza caratteristica del desiderio.

Non esiste desiderio senza un soggetto che ne sia abitato

Il desiderio su cui ci intratterremo oggi è il desiderio così come viene visto dalla psicoanalisi, è il
desiderio di cui ha parlato prima di tutti Freud e poi, in particolare, Lacan.

Dovendo affrontare oggi la questione del desiderio non possiamo infatti non rifarci al grande
psicoanalista francese Jacques Lacan, in quanto è Lacan che ha dimostrato che il soggetto che
interessa alla psicoanalisi non è tanto il soggetto che parla, ma il soggetto che desidera, e che anzi il
soggetto vero e proprio è il soggetto desiderante.

Esiste nel nostro campo una coincidenza tra soggetto e desiderio, nel senso che quando, in
psicoanalisi, in particolare quella lacaniana, parliamo di soggetto, intendiamo, non il soggetto che
parla, cammina, va al bar o fa delle cose, ma il soggetto del desiderio, il soggetto che desidera, il
soggetto desiderante e, d’altra parte, quando parliamo di desiderio, parliamo di qualcosa che non
esiste senza un soggetto che ne sia abitato, vale a dire che non esiste desiderio se non quello di ogni
singolo soggetto, uno per uno considerato. Non esiste desiderio senza un suo soggetto. Il soggetto
umano è sempre un soggetto di desiderio, e il rapporto che un soggetto intrattiene con il proprio

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desiderio è un rapporto sempre ambivalente, in quanto, possiamo dire, che rispetto al proprio
desiderio un soggetto è soggetto e assoggettato al tempo stesso.

Il desiderio è “Il disagio della civiltà"

Il desiderio è dunque quanto di più soggettivo e singolare possa esserci: ogni soggetto ha il proprio
desiderio, che è suo, proprio suo, e vale solo per lui. Di conseguenza, se il desiderio è l’essenza
stessa della soggettività umana, possiamo capire perché sia proprio il desiderio a rendere ogni
individuo mai del tutto adattabile e omologabile alle richieste della società in cui vive, laddove essa
vorrebbe indicarci, invece, quali desideri dovremmo avere. Infatti, sin dal primo ingresso in quella
che è il prototipo della società in cui viviamo, la famiglia, siamo raggiunti dalla indicazione, da
parte dei genitori, di quali dovrebbero essere i nostri desideri.

Possiamo perciò dire che il desiderio è ciò che rende impossibile un perfetto e soddisfacente
adattamento del soggetto alle istanze della collettività, le quali, per quanto democratiche e flessibili,
non possono mai arrivare a tener conto delle singole soggettività, dovendo tutelare gli interessi dei
singoli, non uno per uno considerati, ma in quanto facenti parte di una collettività. Se il desiderio è
del soggetto singolo, è di ciascuno, la norma sociale è del soggetto collettivo, è per tutti. Per questo
possiamo dire che il desiderio è “Il disagio della civiltà” di cui parla Freud .

Per questo, per quanto possiamo desiderare di uniformare il nostro desiderio a quello degli altri,
esisterà sempre una quota che vi si sottrarrà, che non vorrà saperne di accordarsi alle richieste
dell’altro. Il desiderio umano è lo scarto, la faglia tra il soggetto e gli altri, è appunto quello che
viene a mancare in ciò che il soggetto usa come legame con l'altro, vale a dire il linguaggio: per cui
possiamo dire che il desiderio, inevitabilmente, è ciò che, nel linguaggio può trovare posto solo
attraverso la sua mancanza. Il desiderio dunque non può che essere inconscio, è l'inconscio stesso
del soggetto.

Per quanto possiamo volerlo, e per quanto l’altro possa chiedercelo, non possiamo dunque
compiacere mai del tutto le sue richieste. In questo possiamo cogliere un altro paradosso del
desiderio umano: da una parte, come fa osservare Lacan, ogni essere umano vuole essere il
desiderio dell’altro , dall’altra parte ognuno reclama anche l’autonomia del proprio desiderio , il
diritto di poter seguire, e soddisfare, prima di tutto il proprio desiderio. Questo è un aspetto di
particolare importanza, su cui ritorneremo, perché è intorno al desiderio che si costituisce il modo
attraverso cui ci relazioniamo all’altro . Lacan vede infatti nel fantasma soggettivo - vale a dire in
ciò attraverso cui il soggetto si suppone essere per l’altro - l’insistenza del soggetto tramite il
proprio desiderio, vale a dire che è nelle maglie dell'articolazione del fantasma che il desiderio
compie i suoi giri senza mai trovarvi un punto di arresto: se è nel fantasma che il soggetto cerca, da
una parte, l'aggancio del proprio desiderio all'altro, è nel fantasma stesso che vi trova anche,
dall'altra parte, la propria difesa nei confronti dell'angoscia di potervi precipitare del tutto. E
dunque, è a partire dal desiderio che, per esempio, noi formuliamo la domanda che rivolgiamo
all'altro, domanda che, proprio perché mossa dal desiderio, è domanda sempre ambivalente, anche
quando è domanda d'amore. Non vi è nulla, dunque, come il desiderio che, se da una parte ci
sospinge verso il nostro simile, dall'altro ne condiziona il modo in senso sempre ambivalente e

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contrastato. Per questo Lacan, nel mettere in formula il desiderio, interporrà tra il Soggetto (barrato)
e l'altro cui il desiderio si rivolge, il famoso "puntone", la losanga che vuole indicare una relazione,
sempre ravvicinata e distanziata al tempo stesso, con l'altro verso cui insiste la domanda soggettiva.
Il desiderio, insomma, è ciò che permette e determina l’insieme dei nostri scambi simbolici con
l’altro, è la base del legame sociale. La famosa frase che Lacan fa sua riprendendola da Hegel,
l’uomo è il desiderio dell’altro , vuol dire non solo che nessun essere parlante può evitare di
desiderare il proprio simile, ma anche che nessuno può rinunciare a volerne essere al tempo stesso
anche il desiderio.

Il desiderio è Uno e ha a che fare con la mancanza

Avrete notato che parlo di desiderio sempre al singolare. Dico “il desiderio dell’uomo”, oppure “il
soggetto del desiderio” e non “i desideri dell’uomo” oppure “il soggetto dei suoi desideri”. Perché?
Perché il desiderio di cui trattiamo nel nostro campo, è uno. È uno in quanto dell’Uno , di ogni
singolo soggetto. Il desiderio è la struttura stessa della soggettività come effetto della castrazione: di
quel soggetto che Lacan designa come Soggetto barrato, essendone il desiderio la barra che lo
divide, vale a dire un sistema che mette in tensione il soggetto e lo spinge verso qualcosa a partire
dal fatto che egli si avverte, si percepisce come mancante, in quanto diviso per effetto della
castrazione. Il desiderio umano ha a che fare dunque con la mancanza , e questo è anche intuibile
perché va da sé che, se non ci mancasse qualcosa, non potrebbe esserci desiderio, se non ci
mancasse nulla, nulla potremmo desiderare.Eppure, è esperienza comune che, anche quando
sappiamo di avere tutto, possiamo accorgerci di desiderare ancora qualcosa, oppure che, anche
avendo tutto, continuiamo a sentirci comunque mancanti, pur non sapendo di cosa in particolare. Il
desiderio sembra dunque essere sempre desiderio di altro , di qui appunto la sua natura
essenzialmente insoddisfatta . Ora, se è intuibile che non può esservi desiderio senza mancanza, è
molto meno chiaro di che cosa siamo così irriducibilmente mancanti, e quale sia questo altro che
continuiamo a desiderare e a cercare, anche quando sembra che non ci manchi nulla. Cosa è che
cerchiamo senza trovare, oppure che se ci sembra di aver finalmente trovato poi ci accorgiamo che
non è quello che veramente cercavamo? Cosa è che ci manca allora? Cosa vogliamo veramente? È
quello che cercheremo di capire più avanti.
Dunque, il desiderio di cui si tratta non ha a che fare con i desideri, al plurale, di cui comunemente
parliamo, i desideri di questo o di quello, anche se in qualche misura ne sono pure una conseguenza.
Il desiderio cui alludiamo è sempre desiderio di altro ed è inconscio: il desiderio vero e proprio,
quello che interessa la psicoanalisi è il desiderio inconscio. Precisiamo: parliamo dell’inconscio
proprio di quella psicoanalisi che oggi si riconosce nel solco tracciato da Freud, quell’inconscio e
non inteso come il sacco dove vanno a finire pensieri, rappresentazioni, affetti non accessibili alla
coscienza, né tanto meno come quella specie di sottosuolo oscuro e misterioso, il luogo dove, come
in un calderone, ribollono caoticamente le passioni, irrazionali e inconfessabili.

L’inconscio che ci riguarda, l’inconscio del desiderio, è piuttosto una struttura che assembla,
attraverso una logica e una grammatica precise, ciò che non può essere detto, l’indicibile, in altri
termini tutto quello che pur appartenendo al soggetto in quanto parlante, al linguaggio si sottrae per
esser detto in altro modo. Per questo, possiamo dire che l’inconscio freudiano è ciò che, in quanto

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intenzione originaria del dire del soggetto, non entra nel suo detto, vale a dire lo scarto, il resto tra
l’enunciazione e l’enunciato.

Vediamo di chiarire meglio questo aspetto, anche perché è cruciale per la comprensione del
desiderio, di come esso si origina, di come si struttura e di ciò che lo causa.

Il livello del bisogno

Alla nascita, il bambino deve essere accudito in tutto e per tutto dalla propria mamma, e mamma e
bambino sono come uniti in una cosa sola, in una condizione di narcisismo assoluto, essendo a
questo livello lo scambio tra madre e bambino soltanto speculare , dunque immaginario .
Chiamiamo livello dei bisogni questa fase originaria delle cure materne. In virtù di questa
condizione originaria di narcisismo - che Winnicott chiama della dipendenza assoluta e Lacan la
condizione in cui il bambino è il fallo della madre - la madre risponde in maniera adeguata ai
bisogni del bambino. In questa fase, quello che domina come fattore di regolazione dello scambio
tra la mamma e il suo bambino è il bisogno e non ancora il desiderio. Bisogno e desiderio non sono
infatti la stessa cosa, esistendo tra i due delle differenze radicali.

Il bisogno, il cui etimo deriva dal francese besoin che significa cura , designa la condizione di
necessità in virtù della quale non si può vivere senza ottenere ciò che è indispensabile per la
sopravvivenza, come per esempio il cibo, l’acqua, l’accudimento eccetera. Stati di bisogno sono
infatti, per esempio, la fame, la sete, e tutte quelle condizioni di malessere che il bambino esprime
attraverso il pianto o il grido e che la madre soddisfa, prima di tutto dando al bambino, attraverso il
seno, il nutrimento di cui egli ha bisogno, il buon latte materno , e poi l’accudimento, le premure, e
le coccole, profuse, come sappiamo, sia attraverso il contatto fisico (prendere in braccio, sostenere,
cullare), sia attraverso la parola: una parola che però non è ancora sempre articolata, non è ancora
sempre di senso compiuto, in quanto si tratta per lo più di una parola vezzeggiativa, dove il suono
della voce materna conta più di quello che la madre dice. In altre parole, nella fase del bisogno,
nella fase in cui il bambino dipende in tutto e per tutto dalla sua mamma, questa non solo lo nutre,
ma lo fa in un certo modo, con tenerezza, sostenendo adeguatamente, coccolando e, soprattutto,
parlando, e non solo: la mamma fa tutto questo inserendo il proprio bambino nella dimensione del
gioco, esitando, in maniera tale che il bambino si illuda di essere lui a creare quel nutrimento che
invece è la madre a fornirgli. La possibilità per il bambino di accedere all’esperienza dell’illusione
costituisce infatti per Winnicott la base della sua creatività e della sua futura capacità di tollerare e
di ricreare ciò che gli manca: è la base dunque della creatività intesa anche come capacità di stare
nel desiderio, in quanto mancanza, e di sopportarlo.

Potete rendervi conto dell’importanza - purché nel giusto modo - dell’esperienza della frustrazione
ai fini della crescita e della salute mentale. Molti dei disturbi alimentari dell’adulto, o anche della
sessualità, possono essere l’effetto di qualcosa che non ha funzionato bene a questo livello, in
quanto:

1)Il nutrimento è associato inevitabilmente al modo attraverso cui la madre lo dispensa e alle parole
che rivolge al bambino. Per questo motivo, negli umani, il cibo non sarà mai solo un nutrimento

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(come è invece per gli animali nei quali la funzione del nutrimento è regolata, come quella sessuale,
dall’istinto e non dalla parola) ma è anche, e soprattutto, un significante, in particolare un
significante delle cure materne;

2)Dal momento che la mamma, quando dispensa le sue cure, oltre che parlare al suo bambino, lo
coccola, lo tocca, lo accarezza, gioca insomma con il suo corpo, e anche con i suoi genitali e i suoi
orifizi (cosa che gli animali non fanno, anche perché non hanno né le mani, né la parola, e anche se
le mamme leccano i loro piccoli per pulirli, si limitano allo stretto necessario e senza tante moine e
connotazioni, essendo anche questi contatti corporei regolati dall’istinto e non dalla parola) il corpo
del bambino viene inevitabilmente anche sessualmente sollecitato dalle cure materne (gli orifizi
sono zone erogene già nel bambino, come Freud capì e descrisse accuratamente nei Tre saggi sulla
sessualità del 1905, nei quali definì infatti il bambino un perverso polimorfo e delineò le fasi orale,
anale e genitale del suo sviluppo psicosessuale) e dunque il corpo diventa inevitabilmente anche il
luogo di un godimento interdetto, dal momento che la madre, se da una parte squittisce gioiosa
indugiando nelle manipolazioni corporee, dall’altra rimprovera quelle del bambino. In questo modo
anche il corpo viene introdotto nel significante delle cure materne con la variante di cure che
autorizzano e vietano al tempo stesso quel godimento che pure viene sollecitato.

L’iscrizione sia del nutrimento, sia del corpo del bambino nel significante materno sarà giustamente
considerato da Lacan il vero trauma del bambino, più che quello della nascita, poiché «non è trauma
semplicemente ciò che ha fatto irruzione a un certo momento e ha incrinato da qualche parte una
struttura immaginata totale. […] Il trauma è dato dal fatto che certi avvenimenti vengono a situarsi
in un certo posto di quella struttura. E, occupandolo, vi assumono il valore significante che vi è
connesso in un determinato soggetto. Ecco in che cosa consiste il valore traumatico di un
avvenimento» ( J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII, p. 352 )

È dunque qui, in questi annodamenti del significante materno con i bisogni di nutrimento e di cure
corporee del bambino, che disturbi alimentari e disturbi della sessualità dell’adulto potranno trovare
la loro ragione e la loro causa.

Dal bisogno al desiderio

Durante i primi mesi di vita, dunque, il bambino riceve le cure materne, e la madre fornisce quello
di cui lei effettivamente dispone (il seno, il latte, le coccole, la voce) e che corrisponde a quello che
il bambino si aspetta, per cui possiamo dire che il bisogno è avere quello che si sta chiedendo a chi
è in grado di darlo .

Il bisogno è perciò una domanda transitiva in quanto è domanda di un oggetto che corrisponde
esattamente a ciò di cui si ha bisogno: il bisogno di nutrimento è una domanda di cibo sostenuta
dalla fame, per cui fame e cibo sono rispettivamente la condizione di necessità e l’oggetto che serve
per risolverla. Non si può rispondere alla fame dando acqua, quindi fame (stato di bisogno) e cibo
(oggetto) sono un tutt’uno.

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Freud considererà il desiderio proprio a partire dall’esperienza del soddisfacimento dei bisogni che
la madre permette al proprio bambino. Il desiderio, per Freud, è la ripetizione di un’esperienza
percettiva che già vissuta, soprattutto quando si era molto piccoli: un’esperienza collegata al
soddisfacimento di un bisogno, e tale da lasciare, dice Freud, una traccia mnestica.
Successivamente, se qualcosa nella mente inconscia rievoca associativamente questa esperienza
percettiva di soddisfacimento pregresso, allora si mette in moto un’attività: il soggetto cerca,
inconsciamente, di ripetere, di riprodurre, quella precedente esperienza di soddisfacimento del
bisogno. Senonché, trattandosi di un’esperienza ormai perduta, di essa rimane solo la traccia
mnestica , e dunque il tentativo di riprodurre nel presente ciò che è stato perduto può avvenire solo
per via allucinatoria, nel sogno per esempio, e infatti non a caso Freud vedrà il sogno come
l’appagamento del desiderio:

"L’immagine mnestica di una determinata percezione rimane associata alla traccia mnestica
dell’eccitamento di bisogno. Appena questo bisogno ricompare una seconda volta, si apre, grazie al
collegamento stabilito, un moto psichico che intende reinvestire l’immagine mnestica
corrispondente a quella percezione, e riprovocare la percezione stessa; intende dunque in fondo
ricostruire la situazione del primo soddisfacimento. È un moto di questo tipo che chiamiamo
desiderio; la ricomparsa della percezione è l’appagamento di desiderio.” (Freud, “L’interpretazione
dei sogni”, pagg. 565-566) .

Quindi per Freud il desiderio è un moto, un movimento psichico che cerca di ripristinare nel
presente il soddisfacimento di un bisogno avvenuto nel passato, cui si ricollega attraverso una
traccia mnestica .

I contributi successivi a Freud, da parte soprattutto di Winnicott e Lacan, rivedono il rapporto tra
desiderio e bisogno, non tanto in termini di ritorno allucinatorio al soddisfacimento di un bisogno
del passato ormai perduto, ma, al contrario, come uno spostamento del bisogno verso il desiderio
per effetto della progressiva venuta meno da parte della madre alle cure del bambino, in modo da
permettergli, oltre che l’esperienza di soddisfacimento dei suoi bisogni, anche quella della loro
frustrazione (Winnicott) : vale a dire, in altri termini, che il desiderio è la conseguenza della
castrazione attraverso cui passa il bambino quando si accorge, ad un certo punto, di non essere più il
fallo della madre (Lacan).

Quindi il desiderio è la conseguenza di una frustrazione, o, se preferite, della castrazione a livello


delle cure materne, e non il ritorno allucinatorio ad un soddisfacimento del bisogno nel passato,
anche se da questa esperienza il desiderio trae il carattere della ricerca dell’oggetto perduto.

Se per Freud il desiderio si aggancia sempre alla ripetizione nel presente di un'esperienza passata, e
perduta, per cui anche l'oggetto d'amore è sempre l'effige dell'oggetto perduto che si ripete
nell'oggetto presente, per Lacan il desiderio apre al nuovo e l'oggetto d'amore, pur nella ripetizione,
è anche un oggetto nuovo, un oggetto che sorprende e rompe, con la sua contingenza, l'autòmaton
della necessità della ripetizione. Se per Freud le successive esperienze d'amore sono pur sempre
delle fotocopie tutte uguali, per Lacan si accede all'amore solo in quanto esperienza del nuovo, in

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quanto inceppo della fotocopiatrice, essendo quella della fotocopia l'esperienza solo di ciò che
attiene al godimento, e non dell'amore.

La madre parla al bambino e vi si rivolge come ad un adulto

Una madre non è soltanto una nutrice, vale a dire, non sta lì solo a nutrire il suo bambino, e non è
neanche soltanto una madre che coccola e cambia pannolini. Se provvedesse solo a queste cose,
sarebbe, forse, tecnicamente perfetta nel soddisfare i bisogni fisiologici del suo bambino, ma
emotivamente inadeguata.

La madre efficace anche sul piano emotivo, ed affettivo, la madre sufficientemente buona , per dirla
con Winnicott, è la madre che, oltre che assicurare latte, coccole e acqua di colonia, come dice
Lacan, sa che deve farlo in un certo modo, e sa anche che deve parlare in un certo modo al suo
bambino . Lo abbiamo già visto: è importante che la madre parli al bambino, inizialmente mediante
un linguaggio dove conta più la musicalità del suono della sua voce, in grado di avvolgere il piccolo
come in un abbraccio, che non l’articolazione di senso della parola che gli rivolge, e poi attraverso
una parola articolata e dotata di senso compiuto

La madre insomma arriva sempre più a rivolgersi al proprio bambino come se lo vedesse già un
adulto in grado di comprendere la lingua che lei ora utilizza in quanto la propria lingua, la lingua
condivisa nella comunità, nella Nazione in cui vive.

In questo modo la madre prepara il proprio bambino all'ingresso nel mondo poiché, parlandogli,
non solo gli insegna la lingua che in quel mondo si parla, ma gli trasmette anche il significante ,
vale a dire quella connotazione di senso che è al di là del significato della parola pronunciata, e che
rappresenta il codice per lo scambio intersoggettivo: se infatti il significato è ciò che la parola vuole
dire, il significante è il senso che il soggetto che la pronuncia vuole darle al di là del suo significato,
cosa che ha permesso a Lacan di dire che il soggetto è un significante per un altro significante . Il
significante è anche ciò che conferisce alla parola stessa il suo potere , una efficacia maggiore sia
nel suo aspetto comunicativo, sia come mezzo per lo scambio simbolico e dunque indispensabile
per fare legame sociale. In altri termini, se il significato assicura alla parola il suo valore
informativo, il significante vi conferisce il suo potere performativo.

Il bambino dunque, attraverso le cure materne e grazie al fatto che la madre gli parla, impara la
lingua madre , e impara a servirsi del significante, sia attraverso la sua articolazione sempre più
corretta grazie al graduale adeguamento dell’apparato fonatorio, sia mediante quella concatenazione
significante tale da conferire al discorso che viene a costituirsi, non solo il suo senso compiuto e
condiviso, ma anche che il soggetto possa godere dell'uso che ne fa. Molti disturbi del linguaggio
del bambino e dell’adulto trovano le loro ragion d’essere, le loro cause, proprio nel disturbo della
comunicazione madre-bambino in questa fase. E ancora, dal momento che la parola conta non solo
per il suo significato, ma anche per la sfilata dei significanti che vi insiste, un disturbo della
comunicazione madre-bambino a questo livello può avere i suoi effetti anche sul piano dello
sviluppo psicoaffettivo del bambino: autismo e psicosi, dal nostro punto di vista, sono in relazione,

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evidentemente, proprio ad un mancato accesso al significante e dunque al registro Simbolico di cui
il significante è il mezzo per poterne disporre.

La madre si rivolge al bambino come ad un adulto non solo attraverso la parola, ma anche mediante
il gesto : per esempio, quando ella solleva il suo bambino, lo fa in maniera tale da dargli la
sensazione che non siano le braccia materne a sollevarlo, ma che sia lui stesso a farlo, da sé e con la
sua sola forza. In questo modo, così facendo più e più volte, la madre trasmette al bambino un
credito anticipato di soggettività e un’illusione : credere di essere un adulto ancora prima di esserlo
effettivamente diventato.

Questa qualità particolare dello scambio tra la madre e il bambino, fatto di parole e di gesti materni
che vanno sempre più nella direzione di favorire il distacco e l’autonomia del bambino, è cruciale,
come vedremo, per la transizione dal livello del bisogno a quello del desiderio, è cruciale affinché il
bisogno venga trasferito ad un livello superiore che è quello del desiderio, in quanto livello non più
del grido, del pianto, ma livello della parola significante: non più livello della richiesta
improcrastinabile di ciò di cui si ha bisogno, ma livello, come vedremo, della domanda di
riconoscimento.

Illusione e anticipazione

Come vedete, nel corso del processo di graduale distacco che la madre consente al bambino, fattori
importanti, fattori cruciali, possiamo dire, di modulazione del processo - e dunque di elevazione del
bisogno a desiderio - sono l’esperienza dell’ illusione (il bambino crede che sia lui a creare ciò di
cui ha bisogno) e quella dell’ anticipazione (il bambino riceve un credito anticipato di soggettività):
entrambe queste esperienze spostano - traumaticamente - il bambino dal luogo della passività , entro
cui lo relega il bisogno, al luogo dell’ attività , in cui lo costituisce appunto il desiderio.

Anche la famosa fase dello specchio che descrive Lacan rientra evidentemente nella logica
dell’illusione e dell’anticipazione della soggettività. Già fin da quando il bambino, in ragione della
sua immaturità motoria, non è ancora in grado di tenersi in piedi da solo, davanti allo specchio la
madre - o comunque un adulto - gli indica la sua immagine riflessa presentandogliela come la sua:
tu sei quello . In questo modo il bambino, purché sapendosi visto dall’adulto affianco o appena
dietro di lui (è importante che avvenga questa doppia visione: il bambino vede la sua immagine
riflessa allo specchio sapendosi al contempo visto dall’adulto dietro di lui), ne gioisce manifestando
una reazione giubilatoria - è il termine che usa Lacan - con l'effetto di costituirsi anticipatamente
come un Io dotato di autonomia motoria e posturale sua propria, ortopedizzato , come si dice, anche
se ancora non lo è veramente. Per questo possiamo dire che la nozione di io , sapersi un io , avviene,
non attraverso un processo di maturazione interna, intrapsichica, ma per effetto della riacquisizione
della propria immagine riflessa nello specchio e percepita illusoriamente come di un altro. Il
bambino quindi si forma come un Io attraverso un processo di alienazione soggettiva : io sono
quello, il mio Io è quello lì nello specchio . Il processo di costruzione dell’Io avviene dunque per via
immaginaria, illusoriamente e anticipatamente . Per questo possiamo dire che, sul piano dell’io,
siamo una serie di identificazioni immaginarie che si susseguono e che l’io è, in questo senso, e
come ci fa notare Lacan, il sintomo narcisistico per eccellenza , vale a dire la paranoia del soggetto.

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La Simbolizzazione e l'Edipo

Il processo di graduale separazione del bambino dalla madre, grazie alla qualità delle sue cure che,
come abbiamo visto, ne comportano non solo la presenza, ma anche la capacità di somministrare
nel dovuto modo anche la sua assenza, se ad un livello permette lo spostamento del bambino dal
regime del bisogno a quello del desiderio, attraverso le evoluzioni del linguaggio e l’apprendimento
della parola significante secondo le modalità che abbiamo delineato, ad un altro livello, quello per
così dire di struttura psichica , può essere descritto in termini di evoluzione dalla dimensione della
dualità madre-bambino a quella della terzeità: madre-bambino-l’altro, dove l’altro, il terzo,
corrisponde alla funzione paterna. Vale a dire che possiamo descrivere l’evoluzione dalla
dipendenza assoluta verso la sua parziale frattura - la evoluzione cioè del bisogno verso il desiderio
- anche in termini di acquisizione, accanto al registro dell’Immaginario, di quello Simbolico: il
livello del bisogno essendo infatti quello dell’immaginario, mentre quello del desiderio proprio
dell’ordine simbolico [1].

Da questa prospettiva, parliamo ora di processo di Simbolizzazione , in quanto si tratta, per il


bambino, di elaborare in termini simbolici quello che viene a mancare come effetto dell’assenza
della madre. Si tratta dunque del fatto che il bambino deve simbolizzare una mancanza: la
mancanza del fallo nella madre. Vale a dire che il bambino, a questo punto della sua storia, si trova
costretto a fare i conti con il fatto che la madre è mancante proprio di quel fallo che egli pensava di
essere, avendolo la madre collocato, come abbiamo visto, proprio nel posto che reca l’insegna della
sua mancanza. Abbiamo visto che all’inizio il bambino è tutto per sua madre, e se è tutto, di
conseguenza, la madre, nell’esperienza di entrambi, non manca di nulla. Quindi la madre non è
castrata: ha il fallo in quanto ha il suo bambino.

Se, per il bambino, essere il fallo della madre è fondamentale nei primi mesi perché è proprio questa
condizione che gli assicura la presenza materna in tutto e per tutto, non lo sarebbe altrettanto se
continuasse ad esserlo per troppo tempo. E infatti, se tutto va bene, prima o poi la madre stessa, pur
godendo della sensazione di appagante ripienezza che le deriva dal sentire il bambino come il suo
fallo, avvertirà - si spera - che sarà pure bene che cominci, gradualmente, anche a venir meno alla
sua funzione di accudimento assoluto, e dunque a distaccarlo sempre più dalla posizione di fallo
nella quale lo ha finora collocato. Insomma, la madre deve cominciare ad accedere all’esperienza
che il suo bambino non è tutto per lei e permettere al tempo stesso che condivida dal canto suo la
stessa esperienza: solo così egli può realizzare di non essere più il fallo di sua madre, di non essere
più il suo unico, assoluto desiderio .

Questa fase di distacco, di passaggio dall’essere un tutto all’essere un non tutto , e che, possiamo
dire, corrisponde allo svezzamento (il bambino non si nutre più del solo latte materno, ma anche di
altro ) è resa possibile dal fatto che al cosiddetto desiderio della madre (di essere l’unico desiderio
per suo figlio e di avere come desiderio unicamente suo figlio) subentra gradualmente anche il
desiderio della donna, della donna che una madre non dovrebbe mai dimenticare di essere, e che è
desiderio non più solo per il suo bambino, ma anche per altro, per il suo uomo, per esempio, che in

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genere è poi anche il padre del bambino. o comunque quell’altro che la madre avrebbe collocato nel
luogo simbolico del padre.

Ed è il Padre che entra in funzione come causa del desiderio della madre verso di lui, dal momento
che il padre è in effetti non altro che ciò che interdice il desiderio d'incesto tra madre e bambino: in
Freud, vietandolo al bambino, in Lacan, vietandolo alla madre, nel senso che per Lacan, il padre si
rivolge più alla madre che al bambino: "non è lui il fallo che puoi desiderare, perché il fallo del tuo
desiderio lo posseggo io", liberando in questo modo il bambino dal desiderio materno, che
diventerebbe altrimenti un desiderio cannibalico.

Vedremo a breve quanto sia importante per il bambino trovare il luogo del desiderio materno
occupato da un padre , vale a dire da quella figura che viene incaricata dalla madre a svolgere le
incombenze di padre nel modo dovuto: mi esprimo in questi termini perché, anche se la funzione di
padre è generalmente assunta dal padre generativo, il padre che conta è il padre riconosciuto e
presentato in quanto tale dalla madre, è il padre nominato dalla madre, il padre che ella mette in
funzione.

È in questo modo, grazie alla nominazione paterna ad opera della madre, che la relazione duale
madre-bambino può fratturarsi per dare spazio al terzo, e dunque alla movimentazione dell’Edipo .

L’Edipo significa che, se l’altro occupa il posto del padre per incarico della madre, è per lo più
perché, dal canto suo, il padre fa della madre l’unico oggetto del suo desiderio: la madre mette
l’altro nel luogo del padre, a patto che questi metta la madre nel luogo del proprio desiderio. In tal
modo la madre sostituirà più facilmente il desiderio della madre, che va verso il suo bambino, con
il desiderio della donna, che va invece verso altro, il proprio uomo per esempio, e il bambino, dal
canto suo, potrà rendersi conto che, se pure perderà il privilegio di essere il fallo immaginario della
propria madre, tuttavia guadagnerà quello, di ordine superiore, di ricevere, ora, dal padre il fallo
simbolico, grazie al quale potrà desiderare tutte le donne del mondo tranne una, quella che, in
quanto sua madre, è l’unica donna che invece il padre potrà desiderare, ai suoi occhi.

Come vedete l’Edipo è dunque l’apparato che, vietando il godimento dell’incesto, permette lo
spostamento del bambino dal registro del bisogno a quello del desiderio: l’Edipo è ciò che presiede,
come effetto della simbolizzazione della castrazione della madre, alla costituzione del desiderio e
alla sua giusta distribuzione tra i soggetti in cui si implica, giusta distribuzione cui presiede - ed è
questo l'apporto lacaniano all'Edipo freudiano - non il padre, ma un quarto elemento, (oltre i tre
coinvolti classicamente in Freud, del padre, della madre, e del bambino) e cioè il Fallo, quel
significante che permette l'effetto di significazione di ogni significante.

Andiamo a vedere adesso come le cose si dispongono rispettivamente dalla parte della madre e da
quella del bambino.

La madre

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La madre dunque provvede al graduale distacco da sé del bambino, condizione ineludibile per il suo
ingresso nel mondo e per poter stabilire relazioni con i suoi simili.

Ma cos’è, nella madre, che le permette di rinunciare al godimento che trae dall’essere tutta per il
proprio bambino e , distaccandosene progressivamente, di optare invece per essere ora non tutta?
Glielo permette il suo desiderio. È il desiderio che la sostiene nella rinuncia al godimento, in quanto
il desiderio che il bambino possa intraprendere il proprio percorso di separazione supera (o
dovrebbe superare) il godimento di trattenerlo tutto a sé. Solo un desiderio può permetterle di
tollerare che anche il proprio bambino sia ora non tutto per lei, e di sostenerlo in questo.

Vedete la forza del desiderio nel mettere la madre nella condizione di porre un limite al proprio
godimento, e vedete pure come, di conseguenza, sia proprio la possibilità di transitare
dall’esperienza condivisa di essere un tutto , a quella di essere ora un non tutto a rappresentare uno
snodo cruciale per la crescita del soggetto umano. Alla base della salute mentale troviamo infatti la
condizione del non tutto, non quella del tutto , essendo la prima la condizione del desiderio, la
seconda quella del godimento cui il desiderio impone il suo limite.

In che modo opera il desiderio nella madre?

Possiamo dire che il desiderio opera secondo una logica di sostituzione (la logica del desiderio è
sempre una logica di sostituzione e il desiderio è di per sé metonimico ): la madre può sopportare il
lutto (ogni processo separativo è un lutto) del distacco dal proprio bambino se è in grado di
sostituire il proprio godimento di madre con il godimento di donna, vale a dire, se riesce a sostituire
il suo essere del tutto madre con il suo essere anche una donna.

La sostituzione ad opera del desiderio della madre è dunque una sostituzione di godimento: la
madre riesce a dire non al godimento d'incesto per il figlio se può guadagnarne subito dopo un altro
di ordine superiore e che è il godimento della donna per il proprio uomo o comunque per altro.
Questa sostituzione di godimento è importante perché, se dal lato del figlio rende impossibile
l'incesto, dal lato della madre, fa della madre di nuovo una donna desiderante di altro , in particolare
di quell’altro che è il proprio uomo, e del proprio uomo non solo in quanto partner sessuale, ma
anche in quanto colui che ella mette nel luogo di padre, perché è grazie a questa sostituzione di
godimento che la madre può arrivare a presentare un padre al proprio bambino, iniziandolo in
questo modo all’Edipo.

Chiamiamo metafora paterna l’insieme di questo processo di sostituzione di godimento che di fatto
permette ad una madre di desiderare l’entrata in scena del padre. In altre parole, se la metafora
paterna, vietando nella madre il godimento d'incesto, l'autorizza al godimento della donna, un padre,
di conseguenza, è una metafora, un simbolo, una funzione attivata dalla madre stessa. Ora, che la
madre attivi questa funzione è fondamentale, perché solo in questo modo un bambino, o una
bambina (le cose avvengono a questo livello per entrambi allo stesso modo), può introiettare,
installare dentro di sé la rappresentazione della figura paterna come funzione normativa, come
quella Legge interna che fissa il principio del limite, del no, che è limite e no prima di tutto, come
vedremo, al godimento - vale a dire al tutto e subito. Si tratta della precondizione del desiderio,

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poiché il desiderio è proprio la capacità di tollerare il no , di optare per la rinuncia a un godimento
immediato per qualcosa di più utile e costruttivo in un secondo momento, e di un ordine superiore.
Per questo il desiderio è anche ciò che permette - anzi obbliga - un soggetto alla sua etica, vale a
dire ad un sapere circa quello che può e quello che non può fare.

Lacan chiama il Nome-del-Padre questa struttura che il bambino preleva dalla presentazione che ne
fa la madre e che si costituisce dentro di lui, come abbiamo visto, non solo in quanto Legge - la
Legge che, vietando il godimento dell’incesto, fonda appunto il desiderio - ma anche in quanto
architrave stabilizzante del soggetto, dal momento che la logica del limite, del non tutto e non
subito, l’inclusione del no come opzione possibile che può precedere talvolta anche il sì, dona al
soggetto la possibilità di reperire, stabilire, sopportare, fissare quei punti fermi che servono a
punteggiare un discorso, a concedersi una pausa, a poter aspettare altri tempi o altre opportunità, ad
arrestare in tempo le cogitazioni del pensiero, l’impellenza dei bisogni, la spinta coattiva delle
pulsioni, e soprattutto a imporre un freno al godimento che altrimenti, come dice Lacan, può
iniziare come un solletico e finire come un incendio. Insomma, senza questa funzione, del Nome-
del-Padre, non vi è possibilità di struttura soggettiva che possa sostenersi nel suo stare al mondo.

Disturbi della sessualità femminile dopo uno svezzamento e molti disturbi psichici del bambino
prima, dell’adulto poi, dall’autismo, alla psicosi, alla schizofrenia, sono spesso l’effetto, la
conseguenza della mancata iscrizione del Nome-del-Padre, nella madre come nel bambino.

Il bambino

Durante il progressivo distacco dalla madre il piccolo si trova a dover fare i conti con un fatto
nuovo, da una parte inatteso, dall’altra però anche non del tutto inatteso, in quanto la madre, se è,
come dice Winnicott, sufficientemente buona , in effetti avrà provveduto anche a prepararlo
progressivamente al fatto che le sue cure non sono per sempre. E tuttavia, in quanto, se pur
progressivamente, e amorevolmente , madre che ora non dona più solo nutrimento e accudimento
incondizionato, non assicura più solo presenza, ma comincia a donare anche assenza è, e deve
essere, nella percezione del bambino anche una madre sufficientemente cattiva , come giustamente
osserva lo psicoanalista lacaniano Eric Laurent . Diciamo, insomma, che la madre che funziona è -
sempre dal versante del bambino - un misto di buono (presenza) e di cattivo (assenza). E dunque, il
fatto nuovo che il bambino si trova ora a dover affrontare è quello di non essere più tutto per la
propria mamma. Il bambino accede all’esperienza traumatica di non essere più l’unico desiderio
della madre, di non essere più il fallo della madre, e dunque, di conseguenza, che ella non ha alcun
fallo: ne è priva. Noi chiamiamo questa esperienza della privazione del fallo nella madre la
castrazione della madre . L’esperienza che il bambino fa di non essere più il desiderio unico e solo
della madre è una esperienza di castrazione: qualcosa viene a mancare, e lì dove vi era un pieno
nella unione assoluta con la madre, ora lì vi è una faglia, una frattura, una beanza. Come abbiamo
visto dal lato della madre, è il desiderio della donna che, facendo del desiderio della madre un
desiderio non più tutto e solo per il proprio bambino, ma anche un desiderio di altro , a causare il
decentramento del bambino dalla posizione privilegiata di essere il suo unico desiderio. Possiamo
solo accennare qui, en passant, che questa frattura, come tutte le fratture, oltre che essere
traumatica, lascia anche dei pezzi, dei resti , che provenendo da ciò che univa il bambino alla

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madre, ne portano la traccia, resti che Lacan, nell'insieme, chiama, al singolare, l'oggetto piccolo a ,
che corrisponde più o meno, in un certo senso all' oggetto transizionale di Winnicott - in quanto
anche questo sta tra il bambino e la madre - e che rimanendo quindi, come dire, al di qua della
separazione, alle sue spalle, è designato da Lacan come l'oggetto causa del desiderio, nel senso che
essendo - l'oggetto piccolo a - ciò che è stato perduto in seguito alla separazione, è il vero oggetto
del desiderio, ma in quanto causa, non potendo essere più ritrovato come oggetto del suo
soddisfacimento. Il che spiega l'impossibilità della soddisfazione del desiderio: l'oggetto che il
desiderio cerca è l'oggetto che lo causa e non quello che possa permetterne il soddisfacimento,
perché questo oggetto è perduto per sempre, è ormai alle spalle.

Il bambino deve dunque fare i conti con il fatto che la madre desidera ora anche altro , un altro che
al bambino appare per il momento misterioso ed enigmatico. Lacan giustamente sottolinea che il
desiderio della madre deve poter diventare un desiderio enigmatico nella percezione del bambino, in
quanto rimanda ad un altro di cui il bambino non sa ancora nulla, e che per questo si tinge di
mistero e di angoscia. Vedete qui il valore positivo che l’angoscia riveste per la crescita del
soggetto.

Si profila in questo modo l’ingresso nella scena del terzo, di quel terzo che sarà ben presto incarnato
da quella figura che, come abbiamo visto, dal suo versante, la madre colloca nel luogo del padre.

Il bambino può dunque fare i conti con questo terzo, che imparerà a riconoscere come il proprio
padre, solo passando attraverso il trauma della scoperta della castrazione della madre. Questo
significa, in altri termini, che un soggetto può introiettare un padre come funzione, come il Nome-
del-Padre che abbiamo conosciuto, solo a patto che accetti la castrazione della madre, e dunque
possiamo dire che un padre è quella figura che una madre erige sulla propria castrazione.

Il riconoscimento da parte del bambino della castrazione della madre - che Freud designa con il
termine di Bejahung - è dunque un passaggio fondamentale, poiché, come vedremo, sarà dalla sua
adeguata elaborazione che dipenderà il destino del bambino verso la salute o verso la malattia.

La Bejahung è dire di sì alla mancanza, ammetterla, riconoscerla, non negarla, e dunque possiamo
considerarla la base del processo di elaborazione di ogni mancanza e di ogni perdita successive,
processo di elaborazione che abbiamo chiamato di simbolizzazione , in quanto consiste nel fare
della perdita, e di quel vuoto che essa lascia, qualcosa d’altro che serve, non a negarlo, non ad
otturarlo, ma a rappresentarlo : funzione di rappresentazione cui presiede quel significante di tutti i
significanti che è il Fallo ( ? ), con la F maiuscola, questa volta, per distinguerlo dal fallo, con la f
minuscola, che è il fallo - immaginario - della madre la cui mancanza, il Fallo - simbolico - deve
ora, appunto, simbolizzare. Per questo, possiamo dire che il Fallo, è il segnale che indica che da
qualche parte, là dove ce lo aspettiamo, il fallo manca, vale a dire che il Fallo è l’insegna di una
mancanza.

La Bejahung - base di ogni simbolizzazione - è dunque precondizione sia della significazione del
Fallo (Lacan), sia della rimozione di ciò che riconosce, la castrazione, in quanto la sua
simbolizzazione è inconscia, anzi movimenta il lavoro dell’inconscio.

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In sintesi, possiamo dire che la possibilità di tollerare la castrazione, il fatto cioè che siamo
mancanti, uomini e donne, del fallo della madre, e dunque la possibilità che si costituisca la
condizione del desiderio, discende direttamente dall’esperienza di riconoscimento, rimozione e
simbolizzazione della castrazione materna, resa possibile, come abbiamo visto, dall’ingresso del
padre nella scena del legame madre/bambino ad opera del desiderio della madre, che lascia il posto
al desiderio della donna: l’insieme di questi passaggi costituisce l’apparato dell’Edipo visto dalla
parte del bambino: e dunque vedete ancora una volta l’Edipo come quella sorta di laboratorio nel
quale il bambino entra come soggetto di bisogni e ne esce come soggetto di desiderio.

Freud ha visto nel famoso gioco del rocchetto del nipotino Ernst ( fort-da ), che descrive in Al di là
del principio di piacere (1920) , il modo attraverso cui il bambino fronteggia sia l’angoscia
dell’allontanamento della madre, quindi della sua assenza, e sia anche quella del suo ritorno, quindi
della sua presenza, vale a dire l’angoscia di questo andirivieni della madre che il gioco del va e
vieni del rocchetto serve a simbolizzare, poiché trasmette al bambino l’illusione che sia lui a
controllarlo. Un modo dunque per affrontare l’enigma del desiderio della madre e dunque di
elaborare la castrazione materna. Un modo che in fondo corrisponde all’uso che il bambino fa del
famoso oggetto transizionale descritto da Winnicott.

È in questo modo allora, a partire cioè dalla Bejahung della castrazione materna e dalla sua
simbolizzazione, che può strutturarsi il desiderio, e di conseguenza è nella misura in cui la madre sa
rendere enigmatico il proprio desiderio che può produrre lo spostamento del bambino dall’ordine
del bisogno a quello del desiderio.

Come effetto di questo spostamento, il bambino accede alla domanda, in quanto può mettere il
bisogno sotto forma di domanda intransitiva. Per questo il desiderio è ciò che rende possibile la
domanda rivolta all'altro e che non è più domanda di questo o quello, ma domanda di
riconoscimento.

La domanda del bisogno e la domanda del desiderio

Vedete dunque che il desiderio, la possibilità che si strutturi nel soggetto la funzione del desiderio,
senza la quale non può esservi salute e vita psichica, è l’effetto del superamento del bisogno grazie,
diciamo così, all’ azione della madre - azione causata dal padre in quanto funzione (metafore
paterne) - nella misura in cui ella sa far venire meno la prontezza della risposta, sa introdurre la
frustrazione - il no – come elemento di crescita. Solo dalla frustrazione del bisogno la posizione del
bambino, da passivo-dipendente, può evolvere verso quella attiva di soggetto che organizza la
domanda a partire da un desiderio e non più da un bisogno.

Possiamo quindi dire che il desiderio rappresenta lo spostamento del discorso, l’acquisizione di un
modo nuovo di rapportarsi all’altro mediante l’uso del linguaggio.

Nella fase del bisogno non vi è possibilità di accedere ad un discorso che includa la domanda. La
condizione del bisogno si struttura intorno alla richiesta, alla pretesa e pone l’altro nella funzione
d’uso, nella funzione di strumento che deve prontamente soddisfare la richiesta che è dunque

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domanda transitiva , vale a dire domanda di ciò che serve e di cui non si può fare a meno, e dunque
presuppone che l’altro sia in grado di dare quello che serve. La madre del bisogno è la madre che dà
quello che ha.

La posizione del desiderio invece comporta l’acquisizione del fatto che la madre dà quello che non
ha , vale a dire l’acquisizione del fatto che la madre è castrata , è non tutta per il suo bambino. Di
conseguenza il bambino deve fare i conti con la mancanza, con il fatto che l’altro manca proprio di
quello che ha perduto e che dunque non gli potrà mai più rendere.

Il desiderio è dunque ciò che spinge alla domanda che rivolgiamo all’altro nella speranza che possa
darci quello che abbiamo perduto, ma si tratta di una domanda impossibile perché, ovviamente,
l’altro è anch’egli sprovvisto esattamente di quello che cerchiamo, perché perduto anche per lui. Per
questo la domanda sostenuta dal desiderio è una domanda di riconoscimento: che l’altro riconosca il
nostro desiderio. Il desiderio dell’uomo è sempre il desiderio dell’Altro , dice Lacan, dove il
dell’Altro è da intendersi sia in senso genitivo, che oggettivo.

Il desiderio e l’amore

Se il desiderio si struttura a partire dalla mancanza, si organizza intorno ad una mancanza, è esso
stesso mancanza. Possiamo dire che il desiderio è la struttura stessa della mancanza e che per
poterlo tener vivo dobbiamo allora saper amministrare quella mancanza su cui esso si fonda. Saper
amministrare la propria mancanza (il soggetto è una mancanza-a-essere, dice Lacan) significa
evitare, come invece oggi spesso e diffusamente non succede, di riempirla di qualsiasi cosa possa
servire a questo scopo: i gadget, le sostanze, le droghe, i farmaci, il cibo, il sesso. Ma anche i saperi,
le scienze, le religioni, che, facendo credere di poter risolvere e spiegare tutto, e di poter colmare
ogni vuoto, possono essere utilizzate per realizzare un pieno là dove non sopportiamo possa esserci
un vuoto, il vuoto di sapere, appunto. Il desiderio è invece la capacità di tollerare che non tutto può
esser compreso, non tutto può essere capito, non tutto si può sapere. Essere nel proprio desiderio
significa fare della propria mancanza un punto di forza e non di debolezza, perché è solo dalla
mancanza che possiamo creare il nostro sapere, soprattutto il sapere su noi stessi, quel sapere
soggettivo che non corrisponde a quel sapere prestabilito che la scienza vuol farci credere che tratti
effettivamente di noi.

Ma dalla mancanza soggettiva non proviene solo la creatività: è a partire dal nostro vuoto, se
sappiamo non saturarlo immediatamente e in ogni caso secondo la logica del tutto e subito, che noi
possiamo rivolgerci a qualcuno facendone il destinatario della nostra domanda d’amore.

L’amore si sostiene sul desiderio ( un amore senza desiderio è un amore morto, avverte Lacan) ed è
causa di desiderio. Non esiste amore possibile se non quello che mette in causa il nostro desiderio,
dunque la nostra mancanza. Rendersi amabili, farsi amare, far innamorare di sé, oltre che
naturalmente potersi innamorare, significa saper causare il desiderio in sé stessi e nell’altro, e
dunque, siccome il desiderio è mancanza, amare significa causare la mancanza nell’altro. Di qui il
noto aforisma di Lacan che l’amore è dare quello che non si ha . La domanda più frequente degli

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amanti, dopo mi ami? E' ti manco? Ogni amante vuole sentirsi dire dalla persona amata che le
manca.

Dunque, l’amore, in quanto alimentato dal desiderio, è scambiarsi le rispettive mancanze, come
hanno capito molto bene i poeti. L’amore non è certo scambio di doni, quella è semmai la festa -
dice Lacan - l’amore è invece scambio di mancanza nella presenza che ognuno sa assicurare
all’altro, perché far sentire la mancanza non significa essere assenti, ma al contrario, garantire una
presenza che non saturi, che sappia rispettare, anzi, causare la mancanza.

Spesso l’amore è invece inteso come ciò che ci deve appagare e non farci sentire mancanti di nulla.
Ma questa è il godimento, la dipendenza, la droga, non l’amore: molti disturbi delle relazioni tra i
sessi ruotano intorno a una tale confusione.

Se gli amanti si scambiano quello che non hanno, tenendo in questo modo vivo il desiderio,
dall’altra parte l’amore è ciò che si sostiene attraverso la domanda, non di questo o quello, ma di
riconoscimento: io chi sono per te? Cosa rappresento per te? Ecco, il desiderio che è alla base della
domanda d’amore è desiderio di riconoscimento ed è sempre un desiderio che si rivolge ad uno in
particolare. A differenza di quei legami, spesso, come abbiamo visto, scambiati per amore, ma che
si basano invece sulla dipendenza dall’altro in quanto l’altro del soddisfacimento, l’altro che dà
quello che ha e dunque che in quanto tale è un altro sostituibile, l’altro del bisogno e non l’altro del
desiderio, il legame d’amore si rivolge ad uno in particolare, all’altro che ci dice qualcosa e solo a
noi e che è causa, non soddisfacimento, del desiderio, l’altro che dà quello che non ha, un altro
dunque insostituibile, perché, come dice Lacan, l’amore è sempre l’amore per un nome. Quel nome
che siamo riusciti a mettere nella intimità di quel luogo, nostro e solo nostro, che è il luogo della
causa e non della soddisfazione del desiderio: il luogo del nostro desiderio, il luogo del nostro
oggetto piccolo a, il luogo del nostro amore.

[1] Bisogna tener presente che, se pure è corretto esprimerci in termini evolutivi, in quanto si tratta,
nel bambino, di un processo di arricchimento di possibilità ulteriori, grazie alla funzione materna,
sul piano linguistico, operazionale, di autonomia e di esperienza soggettiva in relazione all’altro
(esperienza duale/immaginaria verso quella terza/simbolica), i livelli di cui parliamo non sono da
intendersi come superati e ormai relegati nel passato man mano che si acquisiscono quelli di ordine
superiore. Piuttosto, si tratta di evoluzione in cui i livelli successivi non sostituiscono i precedenti,
ma vi si aggiungono e si annodano tra di loro costituendo così il modo di essere del soggetto
nell’attualità della sua esperienza.

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Che cosa intendiamo per godimento?
di Marisa Fiumanò

Pubblicato in Psicanalisi

https://www.laboratoriofreudiano.it/testi-on-line/psicanalisi/che-cosa-intendiamo-per-godimento-di-marisa-fiumano/

Conferenza tenuta il 16 gennaio 2009 presso il Centro di Studi italo-francesi – Roma

Il titolo che ho dato a questa conferenza è un titolo pretenzioso perché il godimento è più una
nozione che un concetto, una nozione che ci sfugge e che ci interroga. Io cercherò di commentare
questa nozione a partire da alcune affermazioni di Lacan e di Melman e da un sogno di un paziente.
Come ricordava giustamente la Dr.ssa Drazien, il godimento è un termine che solo con Lacan entra
a far parte a pieno titolo del linguaggio psicoanalitico. Freud solitamente usa il termine “Genuss”
ma per indicare un soddisfacimento pulsionale usa il termine “Befriedigung”. La differenza tra
queste due varianti in Freud, “genuss” e “befriedigung”, non è soltanto terminologica, perché Freud
quando usa dei termini distinti per indicare una nozione similare, non lo fa mai in modo casuale e
approssimativa. Befriedigung in Freud è l’obiettivo della pulsione, vale a dire soddisfarsi e riportare
il corpo del soggetto che lo abita, in uno stato di equilibrio e di non tensione. Quindi possiamo dire
che la Befriedigung risponde all’economia del principio di piacere. Freud, pur non teorizzando la
differenza tra questi due termini, befriedigung e genuss, usa genuss quando parla della perversione.
Lo usa quando si tratta di uno scenario, costruito appunto dal perverso, che prevede il godimento
sempre di uno stesso oggetto. Questo è particolarmente evidente nel caso della perversione per
eccellenza, e cioè nel caso del feticismo, in cui appunto è insistentemente rimesso in scena un
oggetto feticcio. Lacan usa “jouissance” che in italiano è tradotta “godimento” e con questa nozione
indica, nel seminario “D’un Autre à l’autre” tutto ciò che impregna e condiziona quello che lui
definisce “un campo energetico”. Usa la nozione di campo psichico, per analogia al campo della
fisica, poiché è tutto da misurare e Lacan è alla ricerca di una misura di tale campo che è dominato
dal fenomeno della jouissance e aggiunge che non sarà lui a riuscire a dare una formula che dia la
misura del godimento perché non ne avrà il tempo (siamo negli anni ’70). La radice etimologica di
godimento è “gaudium” che ha dei sinonimi in latino quali: “voluctas”, “delectatio”,
“delectamentum”, ma gaudium in latino ha un significato diverso da “laetitia” perché gaudium
indica una gioia interiore, mentre “laetitia” in latino indica una manifestazione esteriore.

Potremmo pensare che la traduzione letterale di gaudium in latino sarebbe “gaudio”, però “gaudio”
è un termine desueto o letterario e quindi la traduzione letteraria di “jouissance” è stata appunto
“godimento” che nella nostra tradizione linguistica ha un impiego giuridico. Il dizionario ci dice che
godimento è motivo o sentimento soggettivo di soddisfazione ma anche uso o esercizio riconosciuto
specialmente nel linguaggio giuridico e amministrativo. Quindi la prima definizione è un
sentimento soggettivo di soddisfazione e indica che il godimento non è lo stesso per tutti, cioè che è
particolare a ognuno, che quello che può soddisfare qualcuno lascia completamente indifferente
qualcun altro; mentre la seconda definizione, quella riguardante l’uso giuridico, chiarisce appunto
che si può godere di una cosa senza possederla, quindi che non è necessario essere proprietari di

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qualcosa per ricavare soddisfazione da un bene e questo diritto riconosciuto giuridicamente si
chiama “usufrutto”. Quanto al termine francese “jouissance” deriva da un termine medievale “joy”,
che indica, come “godimento” in italiano, entrambi i significati, cioè sia quello di soddisfacimento
sessuale nel caso del termine medievale, sia invece quello giuridico, cioè l’usufrutto di un bene.
Quindi vedete che la nozione lacaniana di “jouissance” non corrisponde né a “befriedigung” né a
“genuss”, sembrerebbe essere più vicina a “genuss” per una certa tendenza perversa che possiamo
ritrovare nel godimento poiché è legato alla natura polimorfa delle sessualità infantile, rimossa in
età adulta, ma anche “genuss” non esaurisce la nozione lacaniana di “jouissance”. Tuttavia il
godimento e la jouissance ed anche la befriedigung, cioè la soddisfazione pulsionale in Freud,
hanno a che fare con il corpo che avvalora il fatto che, quando si tratta di godimento in realtà si
tratta di usufrutto, perché chi può dire di essere padrone del proprio corpo? Il corpo non fa e
sorprenderci! Possiamo dire del corpo esattamente quello che diciamo dell’inconscio, ossia: “Chi
può dire di esserne padrone?” Melman ha proposto una formula per l’inconscio, dicendo:
“l’inconscio è l’organico”. Lo dice in un testo che abbiamo pubblicato in Italia su “Aut Aut” che mi
è sembrato molto bello e che s’intitola “La questione del corpo in psicoanalisi”.

Così come Melman dice che “l’inconscio è l’organico” potremo dire anche che il godimento è
l’organico, cioè l’organico è il funzionamento degli orifici, luoghi del corpo intorno a cui gira la
pulsione e intorno cui si ricava piacere, gli stessi orifici da cui si genera il bisogno, come la bocca e
la vagina e che poi una volta erotizzati diventano luoghi di desiderio. Se funzionano, dice Melman,
significa che sono stati erotizzati in maniera felice, cioè che la conversione da bisogno a desiderio è
avvenuta in maniera armoniosa, altrimenti si verificano delle patologie, anch’esse modi di
godimento, anche se infelici e distorti. In ogni caso, sia che esprime in maniera felice o che si
esprime in maniera infelice, il corpo esprime un sapere, che è un sapere sul godimento. Cioè il
corpo è animato da un sapere sul godimento, ed è ancora Melman a ricordare che una volta Lacan
aveva chiesto alle persone presenti ad ascoltarlo “Il corpo a che cosa serve?” e poiché nessuno
aveva risposto a questa questione era stato lui stesso, Lacan, a rispondere “il corpo serve a godere”
e quantomeno si ha la padronanza di questo godimento tanto più si gode, quanto più il soggetto
svanisce e si lascia portare dal corpo, che conosce la strada della sua soddisfazione, tanto più questo
godimento si realizza. Naturalmente questo lasciarsi portare, comporta dei rischi perché se si lascia
fare questo sapere del corpo, se si segue questa inclinazione naturale del corpo, lo sbocco è
l’incesto.

La china verso cui rotola il godimento è una china incestuosa, che porterebbe a mettere le mani
sull’oggetto perduto cui assegniamo il nome “madre”, ma che è una china che ha un versante
mortifero, perché è contraria alla vita che, con il desiderio, è sostenuta da una perdita. Quando si è
vicini alla realizzazione di questo fantasma incestuoso, fatto che possiamo costatare nella clinica,
allora la vita stessa, intesa come sorretta dal desiderio, è minacciata e il corpo rischia di funzionare
senza soggetto, cioè in una situazione in deriva (nei casi di psicosi di perversione troviamo un corpo
che insegue questo godimento di tipo incestuoso senza una soggettività che lo sorregga). Il fatto che
l’oggetto che il corpo cerca sia mancato, che non possa essere rintracciato, è qualcosa di strutturale,
altrimenti, e qui è ancora Melman che lo ricorda in questo bellissimo articolo pubblicato in “Aut
Aut”, il corpo si consuma, si auto divora, cioè gode divorandosi e distruggendosi. E’ il caso degli
alcolisti e dei tossicomani, dei quali, dice Melman, più che vino, più che coca, più che eroina,

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l’oggetto che consumano è il proprio corpo e in questo caso il corpo non è più mezzo di godimento
ma lo stesso oggetto di cui si gode. Quindi il corpo si fa oggetto del godimento, non è più un
“mezzo per”, ma è un qualcosa di cui ci si auto nutre.

Le definizioni di Lacan. Il godimento, dice Lacan, costituisce la forma di soddisfazione


condizionata dal fatto che il desiderio è alienato dal linguaggio. Tale definizione introduce il
termine di desiderio, un termine anche questo usato da Freud ma che in Lacan diventa una nozione
centrale ed anche qui non saprei dire se il desiderio è un concetto. Proprio per questo carattere che
ha il desiderio mi sembra, come per il godimento, che si tratta più di nozione, anche se ha un posto
d’onore la nozione del desiderio in Lacan. Senza desiderio non c’è soggetto, possiamo dire che il
soggetto non può rinunciare al godimento ma senza desiderio è soltanto una sostanza che gode,
come una pianta o un animale. C’è certo una dialettica tra desiderio e godimento, però per lo più è
una dialettica che li prevede in alternanza, cioè là dove c’è desiderio non c’è godimento e là dove
c’è godimento non c’è desiderio, tranne in un caso in cui abbiamo 1’eccezione a questa
coniugazione impossibile, che è quella della sessualità. Quando il desiderio accondiscende al
godimento, dice Lacan, si verifica l’unico caso in cui queste due dimensioni non si alternano. Oggi
leggevo uno dei testi di Freud “I tre saggi sulla vita sessuale” e lui comincia proprio dicendo questo:
“la scienza”, intendendo per scienza la psicoanalisi, “è il caso in cui più radicalmente si rinuncia al
principio di piacere” (siamo prima del ’20) e quindi intendeva dire che là dove c’è desiderio, nel
caso della psicoanalisi è un desiderio molto forte come nel suo caso, non c’è godimento, cioè c’è
rinuncia al godimento. Lui lo chiamava lì “principio di piacere”, ma intende, almeno secondo me,
indicare quest’alternanza. Quindi il godimento è per definizione, godimento del corpo, ma, ci dice
Lacan, è regolato dal linguaggio e in questo senso può diventare una nozione analitica perché anche
gli animali non parlano ma godono, ma un bambino, anche se molto piccolo, non gode come un
animale. L’economia dell’animale consiste nel muoversi per ottenere il minor godimento possibile,
vale a dire per essere il più vicino possibile al principio di piacere e qui iniziano a complicarsi le
cose, perché quale rapporto ha il godimento con il principio di piacere? Si tratta di piacere o meno?
Qui ci viene di nuovo in aiuto Lacan che ci dice “Non restiamo lì dove si gode, perché solo Dio sa
dove questo potrebbe condurci”. Questo è sempre 1970, credo che sia “D’un Autre à l’autre”.

In linea di massima, dice Lacan, nessuno ha voglia di fare un uso eccessivo del godimento, anche se
ne ha la tentazione. Quando Freud scopre l’esistenza e l’importanza dell’aldilà del principio di
piacere, parla proprio di questa tentazione che Lacan chiama per tentazione un “uso eccessivo del
godimento” da cui in genere le persone sagge si tengono relativamente a distanza. La tentazione di
cui parla Lacan produrrebbe uno slittamento dal piacere nel dispiacere, in tutte le possibili
gradazioni fino alle più estreme. Possiamo chiederci dove ha origine questo funzionamento
paradossale dell’apparato psichico che è tentato, per mantenere il termine di Lacan, dal male più
che dal bene, dalla sofferenza piuttosto che dalla felicità (felicità intesa come principio del piacere).
Si tratta di una tendenza che corrisponde a un piacere già ben articolato nell’inconscio e da cui
siamo risucchiati, anche se ceriamo di respingerlo, però non facciamo che incontrarlo. Freud aveva
isolato questo meccanismo dell’aldilà del principio di piacere osservando il meccanismo della
ripetizione. Possiamo pensare alla ripetizione in analisi, Freud ad esempio ne parla con le nevrosi da
guerra, del fatto che questi pazienti ritornavano sempre su quest’esperienza traumatica. Lacan
considera la scoperta di Freud di questa dimensione così fondante dell’economia psichica, un vero

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spartiacque. Lui non solo accoglie la tesi di Freud ma la enfatizza, v’introduce però delle correzioni
e delle modifiche nel corso del suo insegnamento. Lacan si chiede di che tipo di ripetizioni si tratta
in quest’aldilà del principio di piacere e ci dice che non si tratta di un processo che si ripete una
volta che è finito, come nella digestione in cui si finisce di ingerire e inizia la digestione o come in
altre funzioni fisiologie, ma si tratta, dice Lacan “della ripetizione di un tratto che commemora
un’irruzione del godimento”. La parola “commemora” colpisce perché normalmente si commemora
un morto, una perdita, un lutto, quindi rinvia a una perdita che in qualche modo la ripetizione
celebra. E’ la commemorazione di un dispiacere, inteso come opposto al piacere, come rottura di un
equilibrio. E quando questa rottura non riguarda la morte, ma il sesso, i due poli in cui oscilla il
godimento, quest’irruzione sembra avere a che fare con il fatto che la comparsa del sessuale per il
piccolo dell’uomo è sempre “un’irruzione”, dice Lacan, di carattere traumatico.

Cioè si tratta sempre di una precipitazione improvvisa e probabilmente possiamo pensare a quello
che dice Freud quando parla di traumatismo della famosa “scena primaria”, cioè questo falso
ricordo di un coito tra i genitori, ma con Lacan possiamo forse retrodatare quest’irruzione
traumatica del godimento al rapporto con la madre e con le sue cure. Perché è alla madre che si
rivolge la domanda, è la madre che dispone del suo bambino ed è lei che istituisce la dipendenza del
piccolo. Quindi la ripetizione è marcata da questa specificità che fa tratto e che è appunto, è legata
al ritorno di un godimento traumatico di natura incestuosa. E questo, secondo me è detto molto bene
in questo brevissimo testo di un sogno “Ero sul letto, mia madre mi faceva il solletico, io ero
passivo ma godevo benché non lo volessi”. Qui vediamo come il solletico è un godimento che
irrompe con questo inizio apparentemente poco pericoloso come il solletico per poi diventare un
godimento che il soggetto prova benché non lo voglia. E’ difficile che un sogno così si presenti
all’inizio di un’analisi, infatti, in questo caso si è presentato dopo un certo tempo, ma senza
un’analisi un’intera vita può rimanere sospesa nella ripetizione di un tratto che commemora
l’irruzione di questo godimento primitivo, un godimento che resta irrinunciabile e una ripetizione
che, nel tentativo di recuperare questo godimento resta invece opaca.

Un altro aforisma proposto da Lacan: “il corpo è una sostanza che gode”. Naturalmente per sapere
che io godo del corpo è necessario che qualcuno me lo dica, cioè che sono proprio io che provo
piacere o dispiacere. Per gli animali che non parlano questo problema non c’è, gli animali se ne
infischiano della nostra alienazione. Noi invece dobbiamo passare dall’altro, in questo caso
dall’altro primordiale e qui, secondo me, sono molto utili le tesi di Jean Bergès che dice che un
bambino può attribuirsi delle sensazioni soltanto se qualcuno le verbalizza per lui, “hai fame”? dice
la madre al lattante che piange ed è appunto perché la madre glielo dice che il bambino potrà
attribuirsi quella sensazione a prefigurarsi che succhiare al seno allevierà quella sensazione di fame,
mentre ci sono altri bambini, come gli autistici, che sembrano non provare dolore, possono farsi
male ma non lo sentono, possono avere un’ottima motricità, ma cadere e rimanere completamente
indifferenti, reagendo come se fosse successo a qualcun altro, perché la parola della madre non si è
loro trasferita e quindi non l’hanno assunta.

La teoria del transitivismo riflette molto bene il Lacan che definisce il godimento come il rapporto
di un essere parlante con il suo corpo. Naturalmente anche il principio del piacere, che non
corrisponde esattamente con il godimento, contempla il rapporto con il corpo, ma quando parliamo

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di godimento facciamo riferimento a un altro piacere. Il principio di piacere consiste nel tenere la
soglia della tensione il più basso possibile, quindi nel regolare e nell’evitamento del dispiacere. Però
è Freud stesso che quando parla di pulsione di morte ammette la debolezza della funzione di
barriera che ha il principio di piacere e la tendenza ad andare al di là. Il godimento così come lo
propone Lacan, può essere definito anche come un modo di nominare l’al di là del principio di
piacere freudiano, anche se non vi corrisponde del tutto.

Un’altra definizione di Lacan: “Il godimento è come la botte delle Danaidi, entrati nella quale non
si sa più dove si va a finire, s’incomincia con il solletico e si finisce arsi nella benzina, si tratta pur
sempre di godimento”. Questo fa pensare un po’ al sogno raccontato prima “s’incomincia con il
solletico e non si sa dove si va a finire”, ma anche rimanda al Museo di Galla Placidia a Ravenna
dove c’è la descrizione di questo martire che si avvia a farsi arrostire sul cumulo di legno che arde,
anche questa è una forma di godimento se dobbiamo seguire Lacan, arsi con la benzina in quel caso,
non è la benzina ma si tratta pur sempre di godimento. Il godimento non contraddice il principio di
piacere perché la soglia tra l’uno e l’altro può essere varcata in maniera impercettibile e non lo
contraddice, soprattutto nel campo del rapporto sessuale. Là il piacere c’è, c’è Befriedigung,
parliamo degli uomini in questo caso, c’è soddisfacimento sessuale, ma anche nel caso della
sessualità della donna il piacere non è isolabile dagli scivolamenti nel suo opposto, cioè dalle derive
mortifere o perverse, ed anche in questo caso è privilegiato. Non c’è una soddisfazione dell’oggetto
o comunque non basta mai e Freud ha impiegato la seconda metà della sua opera a esplorare le
ragioni di questa deriva, chiedendosi perché siamo insoddisfatti, cosa ci manca, cosa è all’origine
delle nostre domande, che cosa è all’origine delle nostre malinconie, cosa muove il nostro desiderio,
cosa abbiamo davvero perduto e poi: di che cosa godiamo? Lacan, che spesso è umoristico e
paradossale, quando denuncia i nostri desideri e la nostra aspirazione alla felicità e alla
soddisfazione, dice che l’unica felicità di cui ci ha parlato è la felicità del fallo, perché è solo lui che
può essere felice e neanche il suo portatore “anche” dice Lacan “quando un lui lo mette dentro una
lei che suppone desolata di non esserne portatrice lei stessa”.

Anche qui ricordiamo il godimento del fallo, in quanto organo, ha un privilegio rispetto agli altri
luoghi erotizzabili del corpo, perché è il suo godimento è isolabile, legato alla tumescenza ed alla
detumescenza, come per altro in molti animali, ma anche qui è Lacan a ricordare, che a differenza
degli animali, come ricorda anche Orazio “post costuma” l’uomo è triste o almeno frustrato, cioè la
soddisfazione pulsionale è sempre imperfetta o in qualche modo mancata. Il godimento sessuale
non è in armonia con la natura e negli esseri umani le cose non funzionano come per gli animali,
perché appunto c’è l’ostacolo del linguaggio, però al tempo stesso la definizione che Lacan del
godimento si potrebbe definire materialistica, nel senso che afferma che si dà godimento solo del
corpo. Anche quando si parla del godimento del pensiero e della parola, il mezzo del godimento è
sempre il corpo. Quando Bergès parla dell’apprendimento del linguaggio da parte del bambino,
sottolinea molto tutta la funzione dell’apparato fonatorio e l’apprendimento del bambino non
avviene soltanto attraverso l’orecchio e il suono, ma anche attraverso tutta la messa in funzione di
quest’apparato, ossia tutto l’apparato che fa da supporto materiale alla parola. Lacan ha cercato di
stabilire quali sono i parametri di questa economia del godimento. Freud aveva già parlato del
carattere allucinatorio del godimento, legato all’illusione di ritrovare il primo l’oggetto perduto e
nitido: la madre, quella che Lacan chiama “la cosa” nel Seminario sull’Etica, ma siccome si tratta di

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allucinazioni, il ritrovamento è sempre mancato. E’ un altro modo di dire l’impossibilità dell’incesto
e il suo interdetto. Lacan parla di questo concetto della cosa che poi non riprenderà in seguito nei
Seminari successivi, e ne parla anche, nel suddetto seminario, in riferimento all’opera di Sade, cioè
a proposito della perversione. La cosa e un tratto strutturale nel caso del perverso nevrotico.

La cosa resta interdetta, ma c’è la tendenza a raggiungerla e questa è la scoperta freudiana


dell’interdetto dell’incesto, definito da Lacan come “la proibizione della cosa poiché cosa materna,
in quanto madre” e la cosa è il desiderio essenziale dell’uomo. Freud è stato il primo ad affermare
che questo è il desiderio dell’uomo e al tempo stesso questo è il più interdetto dei desideri. E perché
interdetto? Quest’interdizione è inconscia, possiamo dire che l’unico vero incesto è quello con la
madre, questo vale per gli uomini ma anche per le donne, e questo interdetto è l’unico interdetto
inscritto nell’inconscio. Se il desiderio per la madre fosse soddisfatto smetteremmo di domandare,
non ci sarebbe più domanda e quindi non ci sarebbero più soggetti, non ci sarebbe più cultura e
nessun tipo di costruzione sociale. E’ proprio dall’interdetto dell’incesto che ha inizio la cultura, in
quanto contrapposta alla natura. E l’incesto è un divieto squisitamente culturale, non è un divieto.
che serve a evitare, ad esempio, l’endogamia, come l’incesto tra padre e figlia. E’ un divieto che ci
rende umani, perché se fosse realizzato smetteremmo di vivere. Questo non impedisce che
l’aspirazione a raggiungere questa cosa materna continui nell’innamoramento, ad esempio, che è
uno dei casi in cui questa tensione si rinnova, perché vorremmo ripetere l’esperienza di questa
prima mitica soddisfazione di fare uno. E tale esperienza del ripetere, nel cercare di raggiungere
l’oggetto, recupera questo del godimento, ma al tempo stesso la perde, così ci dice Lacan. Al posto
di tale perdita Lacan ci propone gli oggetti a.

Lacan chiama “godimenti del sembiante” i godimenti sostitutivi degli oggetti a, li chiama così
perché vengono al posto del vero oggetto del godimento. Questa ripetizione è da un lato una spinta
a ricercare il godimento ma al tempo stesso è qualcosa che va contro la vita, la ripetizione di ciò che
Freud chiama pulsione di morte e con cui intende una tendenza al ritorno all’inanimato,
ricongiungendosi alla cosa c’è una tendenza alla sparizione della vita. Questo al di là del principio
del piacere in Freud è qualcosa che il principio di piacere cerca di arginare e di riportare al minor
livello possibile e ogni volta la perdita sarà riconfermata. Lacan chiama questo “masochismo”, che
consiste in un continuo ritornare nella ricerca e in un reiterato fallimento. Il testo di Freud, dice
Lacan, ruota intorno al masochismo concepito “solo nella dimensione della ricerca del godimento
esiziale”, Lacan lo definisce così, cioè mortifero. L’insistenza della ripetizione, ci dice Lacan,
avviene attraverso la ripetizione di un tratto che Lacan chiama il “trattario”, termine che prende in
prestito da Freud, che però non gli conferisce lo stesso senso. Questo trattunario, che si manifesta
nella ripetizione, è una specie di marchio con cui il soggetto s’identifica e, ci dice Lacan, è
all’origine del significante, che insiste nella ripetizione perché in attesa di una significazione. Se noi
possiamo parlare di godimento è proprio perché è legato a questo significante che insiste e che
introduce una distanza tra il corpo e il godimento. Non sappiamo niente del godimento degli animali
perché gli animali non parlano, tanto meno sappiamo del godimento della pianta. Lacan ritorna in
una conferenza complicatissima qui a Roma, nel ’74, la Dr. Drazien aveva organizzato le prime e
credo uniche giornate dell’Ecole Freudienne di allora, e Lacan aveva pronunciato una Conferenza
chiamata “la troisieme” (si può trovare in “outre seclì”) torna sulla questione del godimento e dice
che nell’animale c’è qualcosa che ci dà l’idea che se la goda, non ne abbiamo le prove ma questo è

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implicato da ciò che si chiama “il corpo animale” perché non c’è distanza tra il corpo e il
godimento.

Qui Lacan si interroga di nuovo sulla pianta (fatto già in altri seminari prima) chiedendosi se la
pianta se la goda e ricorda la parabola famosa di Gesù dei gigli del campo. Gesù dice di non
preoccuparsi di come mangiare e sopravvivere perché i gigli del campo non tessono e non filano
eppure vivono e crescono. Lacan dice che questo non potremmo dirlo oggi, perché guardando a loro
struttura al microscopio non possiamo dire che essi non tessono e non filano. Anche nel caso del
mito di Dafne, quando viene tramutata in pianta, nel momento di estremo dolore e di godimento, nel
senso della natura mortifero del godimento, il mito ce la rappresenta con un dolore eternizzato in
pianta. Questo non ci risponde alla domanda se ci sia godimento nella vita, intesa come qualcosa
che si sviluppa, come anche nel caso della pianta. Questo mi ha fatto riflettere anche sul caso di
Eloana Englaro, che si dice sia ridotta come una pianta ad una vita vegetativa. Non possiamo sapere
se si tratta di un estremo dolore di questo corpo ridotto a pianta, così come non sappiamo nulla del
dolore della pianta. Lacan indica nell’immobilità della pianta l’eterizzazione del dolore, inteso come
godimento esiziale, mortifero, cioè il godimento che diventa immobilità, per cui lui dice che il
muoversi serve a non godere troppo, muoversi asseconderebbe di più il principio del piacere,
rispetto all’istinto di morte. E questo mi sembra una chiave molto interessante per leggere le
questioni dell’ipercinesia infantile, che oggi tanto preoccupa gli educatori. Il corpo in movimento
può essere un modo di cercare un limite. Il godimento femminile, che si prova e di cui non si può
dire, dice Lacan, è contrapposto al godimento fallico. Il godimento fallico si appoggia alla legge
simbolica e per questo motivo i modi di questo godimento variano secondo le epoche, le culture, le
religioni e le economie. Il rapporto con il corpo è sempre culturale, perché tutte le culture sono
animate dall’esigenza di esercitare una padronanza sul corpo ma ovviamente non tutte le culture lo
fanno allo stesso modo, ad esempio per noi cattolici c’è una contrapposizione tra il corpo e lo
spirito, il corpo va padroneggiato
ed è lo spirito che lo guida e il cattolicesimo ha imposto un marchio alla nostra cultura.

Anche se non siamo cattolici siamo profondamente intrisi di questo modo di concepire il corpo. I
nostri modi di godere ne sono influenzati, se pensiamo alla storia dell’arte italiana vediamo che tutta
la nostra tradizione pittorica è la rappresentazione di una narrazione religiosa e questa narrazione
mette in scena le dimensioni del godimento in tutte le loro varianti (le annunciazioni per il
godimento delle vergini, le madonne con il bambino per il godimento incestuoso, la strage degli
innocenti, i supplizi dei martiri). L’arte esprime la sensibilità di una cultura rispetto alle diverse
modalità di godimento e possiamo azzardare che la nostra cultura abbia una propensione per un
godimento tendenzialmente incestuoso (se pensiamo a quante rappresentazioni di madonne con il
bambino ci sono ovunque), inteso come godimento Altro. Anche la storia del nostro popolo di eroi,
poeti e navigatori che cercano continuamente un ricongiungimento con la cosa. Tutto questo collude
con l’attuale progressiva perdita di religiosità e di trascendenza, cosa che riguarda tutto l’Occidente.
Il corpo non è più oggetto di Dio, ma è soprattutto oggetto di cure di benessere che vorrebbero
assecondarne il funzionamento “naturale”. L’ideologia del benessere pretende di godere in modo
naturale del corpo e anche questo esprime una dimensione culturale del godimento, un modo di
disciplinare il godimento del corpo quel tanto che basta perché non ecceda, per non farsi disturbare
troppo dal corpo. Melman ci dice che l’ideale di un corpo è un corpo che non si fa sentire, un corpo

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i cui organi tacciono, un corpo insomma che sia rimosso. Quando invece il corpo esprime dolore,
quando si manifesta attraverso la sofferenza, allora ci dice Freud “tutto si rifugia nell’incavo del
dente che fa male”. Se il dolore non irrompe per dissipare tutte le suddette pretese di padronanza,
posso funzionare le forme di padronanza che sono inscritte nella cultura in cui si vive, ad esempio
pensiamo alla cultura greca che rispondeva ad un ideale di bellezza che noi oggi definiamo
“classica” in cui la bellezza del corpo era qualcosa che segnalava la distanza dall’animalità.

Il fatto che il corpo fosse qualcosa da esibire, da ammirare, da lavorare e da scolpire era una micro
dimensione etica. I corpi delle statue che ammiriamo erano il risultato di un lavoro intensivo e di un
allenamento, di disciplina, ma erano inscritti in un orizzonte culturale in cui tutto questo aveva una
dimensione etica. Pensate a come è diverso questo modo di pensare alla dimensione del corpo da
quello ad esempio della pubblicità dell’acqua minerale che dice “belli fuori perché belli dentro”, in
fondo è una pubblicità che allude a quel tipo di ideale di bellezza, soltanto che in questo è appiattito.
Si è belli fuori perché si è belli dentro non perché a questo corrisponda 1’etica, ma perché
l’intestino è sgombro, grazie alle virtù dell’acqua minerale. Qui c’è un appiattimento con la cosa,
cioè la bellezza esteriore rimanda all’oggetto corpo, e non ad un orizzonte culturale ed etico ben
definito. Per tale motivo i corpi dei guerrieri greci non corrispondono certamente a quelli dei nostri
culturisti delle palestre, anche se magari il risultato estetico può essere simili.

Non c’è nessuna corrispondenza tra i corpi allenati delle nostre palestre ed un ideale etico
condiviso, poiché lì si tratta di un godimento tendenzialmente privo di una referenza centrale. Freud
e Lacan, formalizzandolo in altri modi, hanno sostenuto il cosiddetto primato fallico, il fatto cioè
che tutta l’economia libidica sia regolata da questo significante fuori catena, il fallo appunto, che
non rinvia a nessun altro, che fa eccezione, che organizza la differenza sessuale e quindi tutto
l’ordine simbolico e culturale. Questo fa si che anche il godimento fallico che ne deriva sia
collocato in un posto d’eccezione e che l’unico caso in cui desiderio e godimento trovino una
possibilità di collaborazione è l’ambito del rapporto tra uomo e donna. Vedremo come nei testi di
Freud anche le patologie della vita amorosa vengono letti nell’ottica dell’economia fallica.
Possiamo dire che oggi questi intoppi di cui parla Freud sono ancora gli stessi? Possiamo ancora
parlare di godimento sessuale come il più privilegiato dei godimenti? Oggi i godimenti non sono
più regolati da una nostra economia psichica, cioè la rimozione, e possiamo chiederci, come fa
Melman in “L’Homme sans gravité”, se la rimozione è ancora oggi il meccanismo che regola la
nostra vita psichica e quindi fa del corpo sessuato e del godimento sessuale il più desiderabile,
quando funziona, dei godimenti.

Il godimento del sintomo è un godimento coattivo, c’è soddisfazione nel sintomo. Anche il principio
di piacere, nella nozione di jouissance di Lacan, è implicato e quindi anche un certo equilibrio
dell’economia psichica è una forma di godimento, ma il godimento nella sua natura stessa ha delle
derive e tendenze che non sono padroneggiabili. Per questo ho proposto la nozione e non il concetto
di godimento, perché è così a contatto della nozione di reale che è difficile da circoscrivere. Lacan
si preoccupa soprattutto della sua misurabilità nella definizione che ne dà.

Riferimenti Bibliografici:
C. Melman, “L’Homme sans gravité”, a c. di Jean-Pierre Lebrun, Denoël, 2002.

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C. Melman, “La questione del corpo in psicanalisi”, “Aut Aut”, 330 (2006).
J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960).
J. Lacan, Il seminario. Libro XVI. D’un Autre a l’autre (1968-1969).
J. Lacan, “La troisième” (1974). Lettres de l’Ècole freudienne, n°16 (1975).
S. Freud, “Tre saggi sulla teoria sessuale” (1905).

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