Sei sulla pagina 1di 9

10’ dispensa

METAMORFOSI DELL’ANIMA

QUARTA CONFERENZA
Berlino, 28 ottobre 1909
La missione della devozione

Tutti conosciamo le parole con le quali Goethe ha concluso il Faust, il lavoro di un'intera vita:
Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l'imperfetto qui si completa, l'ine abile è qui realtà,
l'eterno femminino ci attira in alto accanto a sé.
Oggi non dovrebbe essere necessario speci care che in questo caso l'eterno femminino non ha
niente a che vedere con l'uomo o la donna, ma che qui Goethe si è avvalso di un' antichissima
espressione linguistica di uso comune.
In tutte le concezioni mistiche - e Goethe si riferisce a queste parole chiamandole Chorus
mysticus - si sottolinea che nell'anima vive un' aspirazione, dapprima indistinta, verso qualcosa
che non ha ancora riconosciuto, con il quale non si è ancora unita e verso cui deve tendere. A
fi
ff
questo ideale di cui l'anima ha inizialmente un vago presentimento, verso il quale aspira e con cui
vuole congiungersi, Goethe, in accordo con i mistici delle varie epoche, dà il nome di "eterno
femminino", e l'intero senso della seconda parte del Faust conferma questa interpretazione delle
parole conclusive dell'opera.
A questo Chorus mysticus con le sue lapidarie parole si potrebbe contrapporre una sorta di unio
mystica, il termine usato dai pensatori mistici nel chiaro e autentico senso della parola per
designare l'unione raggiungibile dall'essere umano con l'eterno femminino che risiede nelle
lontananze spirituali.
Quando l'anima si innalza no a sentirsi una cosa sola con l'eterno femminino, ha raggiunto la
cosiddetta unione mistica. Questa unio mystica è la vetta più alta dell'argomento che tratteremo
in questa conferenza. Nelle nostre ultime considerazioni, e in particolare in quelle sulla missione
della collera e sulla missione della verità, abbiamo visto che l'anima umana è un'entità in corso di
evoluzione, e da un lato abbiamo soprattutto indicato alcune qualità che l'anima deve cercare di
superare, in modo che per esempio la collera possa diventare una sua educatrice, mentre
dall'altro abbiamo illustrato come la verità sia una straordinaria educatrice dell'anima.
L'anima umana sta attraversando un'evoluzione di cui non sempre riesce a prevedere l'esito e
l'obiettivo. Al limite, possiamo esaminare quanto abbiamo già raggiunto ed esserne soddisfatti al
punto da poter dire che si è sviluppato n qui partendo da una condizione diversa. Ma non
possiamo a ermare una cosa simile riguardo a un'entità come l'anima, che è nel mezzo di questa
evoluzione e ne costituisce l'elemento attivo. Essendosi evoluta n qui, quest'anima umana deve
sentire che il suo sviluppo è destinato a proseguire. E in quanto anima cosciente di sé, deve
chiedersi: come posso ri ettere non solo sul modo in cui mi sono evoluta, ma anche su come mi
evolverò ulteriormente? - Orbene, abbiamo già ribadito più volte che per l'autentico osservatore
scienti co-spirituale l'anima umana con tutta la sua vita interiore risulta suddivisa in tre parti. Oggi
non possiamo descrivere di nuovo minuziosamente questa strutturazione, ma è bene farla notare,
di modo che questa conferenza possa essere assimilata anche indipendentemente dalle altre.
Nell'anima umana distinguiamo tre elementi costitutivi: l'anima senziente, l'anima razionale o
a ettiva e l'anima cosciente. Quella che chiamiamo anima senziente può esistere anche senza
essere particolarmente pervasa dal pensare. E innanzitutto la componente dell'anima umana che
raccoglie le impressioni esteriori e trasmette all'interiorità le percezioni sensoriali. È inoltre l'anima
senziente che suscita nell'intimo i sentimenti di piacere e dispiacere, di gioia e dolore interiore
collegati alle impressioni che ci giungono dall'esterno e a quanto osserviamo. E dall'anima
senziente che in un primo tempo sorgono gli impulsi, gli istinti, le passioni e le emozioni della
natura umana. L'essere umano si è sviluppato a partire dall'anima senziente, ha raggiunto
determinate altezze e ha compenetrato la componente animica con il proprio pensare e il proprio
sentire guidato dal pensiero. E nell'anima razionale o a ettiva, che abbiamo indicato come il
secondo elemento animico, non dobbiamo più cercare quel sentimento inde nito che sembra
emergere dal profondo, ma quello che si lascia a poco a poco pervadere dalla luce interiore del
pensare. Nel contempo, nell'anima razionale o a ettiva dobbiamo vedere l'elemento dal quale
appare gradualmente quello che chiamiamo l'io umano, quel punto centrale della nostra anima
che può condurre al vero sé e ci consente di puri care ed elaborare dall'interno le nostre
caratteristiche animiche, in modo da diventare signori, guide e padroni degli impulsi volitivi
all'interno della nostra vita a ettiva e mentale.
Come già accennato, l'io presenta due aspetti. Una possibilità dell'evoluzione è costituita dagli
obiettivi che l'uomo deve raggiungere: ra orzare sempre di più dentro di sé il centro del suo
essere, irradiare dal proprio sé con intensità sempre maggiore quello che può diventare per il suo
ambiente e per la vita. Un aspetto dell'evoluzione dell'io è quello che comporta il colmare l'anima
di un contenuto interiore che la renda sempre più preziosa per il mondo circostante e nello stesso
tempo la doti di un'autonomia sempre maggiore.
Il rovescio di questa evoluzione del sé è l'egoismo, l'amore smodato di sé. Un sé troppo debole si
smarrisce nella vita, sprofonda per così dire nel mondo esterno; ma un sé che voglia godere,
desiderare, pensare e rimuginare ogni cosa in se stesso si indurisce nell'egoismo.
Abbiamo quindi delineato per sommi capi il contenuto dell'anima razionale o a ettiva. In un certo
senso abbiamo visto che gli impulsi incontrollati - fra i quali rientra per esempio la collera -,
quando vengono superati e vinti diventano educatori dell'anima per quanto concerne lo sviluppo
dell’io.
Abbiamo visto che l'anima razionale o a ettiva viene educata in senso positivo dalla verità, se
questa è intesa come qualcosa che bisogna possedere interamente in se stessi, di cui rendere
conto in ogni istante e che, pur essendo un intimo possesso, nello stesso tempo ci porta fuori da
noi stessi e dilata l'io rendendolo sempre più forte e altruista.
ff
fi
ff
fl
fi
ff
ff
fi
ff
ff
fi
ff
fi
ff
fi
Abbiamo quindi visto quali sono gli strumenti di educazione e di autoeducazione per l'anima
senziente e per quella razionale.
A questo punto dobbiamo chiederci se esista uno strumento analogo anche per l'anima
cosciente, la componente animica più elevata. Una domanda che ci possiamo porre è anche la
seguente: che cosa si sviluppa nell'anima cosciente senza il suo intervento, analogamente agli
istinti e ai desideri che sorgono nell'anima senziente?
Che cosa si sviluppa in essa in base alle attitudini umane così che l’uomo se lo possa procurare
solo in minima parte se non gli arriva sotto forma di disposizione naturale? Si tratta di qualcosa
che emerge ancora dall'anima razionale per penetrare nell'anima cosciente: il pensare, la forza e
la saggezza del pensiero. L'anima cosciente, tuttavia, può svilupparsi solo se l'uomo esercita il
pensare, poiché l'anima autocosciente deve sapere, deve conoscere il mondo e se stessa, e può
evolvere solo mediante il più elevato strumento di conoscenza, ovvero il pensare. Per quanto
riguarda il mondo sensibile esterno, il sapere ci viene trasmesso dalla sensazione e dalla
percezione esteriore, poiché da esse nasce lo stimolo a conoscere gli oggetti del mondo esterno
da cui siamo circondati. Ne consegue la necessità di abbandonarsi a questo stimolo e non essere
insensibili nei suoi confronti. E dunque il mondo esterno, il mondo dei sensi stesso, che ci sprona
a conoscerlo e che, o rendosi alla nostra osservazione, è anche in grado di appagare il desiderio
e la sete di conoscenza esteriore. Le cose stanno però diversamente per quanto concerne il tipo
di conoscenza di cui in queste conferenze scienti co-spirituali dobbiamo sempre tornare a
parlare: la conoscenza di ciò che non è sensibile, ovvero del sovrasensibile. Dapprima il
sovrasensibile non esiste per l'uomo, e poiché l'oggetto del sapere non esiste esteriormente, se
egli vuole inglobarlo nelle proprie conoscenze in modo da compenetrarne la propria anima
cosciente, occorre che lo stimolo nasca dall'interno, che l'impulso parta dall'interno. Questo
impulso che promana da dentro deve stimolare il pensare, pervaderlo e intriderlo. Ma se un tale
impulso deve partire dall'anima, non può che scaturire dalle forze in essa presenti oltre al pensare,
vale a dire il sentire e il volere. E se il pensare non si lascia stimolare da queste altre due forze non
si spingerà mai in un mondo sovrasensibile. Con questo non si intende a ermare che il
sovrasensibile sia soltanto un sentimento, ma che il sentire e il volere devono essere le guide che,
agendo dall'interiorità, conducono l'uomo alla sfera sovrasensibile.
Quello che ci guida non è l'oggetto della nostra ricerca. L'uomo deve cercare il mondo
sovrasensibile, poiché inizialmente non lo conosce, e n dal principio deve avere nel sentire e nel
volere le forze che lo guidano dall'interno. Ma quali caratteristiche dovranno assumere il sentire e
il volere per poter guidare l'uomo nel mondo spirituale sovrasensibile?
Di primo acchito, qualcuno potrebbe scandalizzarsi a sentir dire che il sentimento debba fare da
guida per il conseguimento del sapere, ma una semplice ri essione ci mostrerà che in ogni caso il
sentire deve assumere questa funzione. Chi prende sul serio il sapere ammetterà senza dubbio
che per acquisirlo occorre procedere in modo logico, che bisogna essere pervasi e guidati dalla
logica, e che di quest'ultima ci si deve avvalere come di uno strumento atto a dimostrare
chiaramente le cose che accogliamo nel nostro sapere.
Ma se la logica è uno strumento di questo tipo, a che cosa si dovrà ricorrere per comprovarne la
validità? Si può dire che essa può dimostrarsi da sé, ma allora deve esserci almeno una
possibilità di comprendere la logica con il sentire prima di iniziare a dimostrarla mediante la logica
stessa. Il pensiero logico non può essere dimostrato dall'inizio per mezzo del pensiero logico, ma
solo mediante il sentimento; e tutta la logica viene dapprima dimostrata con il sentire, l'infallibile
senso di verità presente nell'anima umana. Da questo esempio classico vediamo quindi che la
logica stessa si fonda sul sentire, che il sentire fornisce la base per il pensare. Il sentire deve dare
l'impulso alla realizzazione del pensare. Ma quale caratteristica dovrà assumere il sentire per non
limitarsi a essere di stimolo al pensare in generale, bensì a un pensare sui mondi che dapprima
sono ignoti e invisibili all'uomo?
La qualità che il sentimento dovrà acquisire per poter guidare l'uomo verso un ambito ignoto deve
essere una forza che dall'interno tenda verso questo ignoto, verso ciò che ancora non si conosce.
Quando l'anima umana aspira a qualcosa di diverso, quando vuole abbracciare qualcosa con il
sentire, a un simile sentimento si da il nome di amore. E possibile amare cose già note, e nel
mondo si deve provare amore per molte di queste. Ma poiché l'amore è un sentimento e il
sentimento deve essere nel senso più ampio del termine il fondamento del pensare, se vogliamo
trovare qualcosa di sovrasensibile servendoci del pensare dobbiamo renderci conto che, prima di
poter essere pensato, questo sovrasensibile ignoto deve essere colto mediante il sentire. In altre
parole: all'uomo deve essere possibile - e l'osservazione priva di preconcetti dimostra che lo è -
sviluppare amore per l'ignoto, per il sovrasensibile, prima di poterlo pensare.
ff
fi
fi
fl
ff
Amare il sovrasensibile prima di essere in grado di penetrarlo con la luce del pensiero è possibile,
è necessario. Ma anche la volontà può essere pervasa da una forza che tenda verso l'ignoto
sovrasensibile prima che il pensare gli si possa accostare. La caratteristica della volontà grazie
alla quale l'uomo può realizzare volitivamente gli scopi e le intenzioni dell'ignoto prima di riuscire
ad abbracciarlo con la luce del pensiero è la dedizione a questo sovrasensibile. La volontà può
quindi sviluppare un atteggiamento di dedizione nei confronti dell'ignoto e il sentimento può
sviluppare l'amore per l'ignoto, e quando la dedizione della volontà nei confronti dell'ignoto e
l'amore verso l'ignoto si congiungono, dalla loro unione nasce quella che chiamiamo devozione
nel vero senso della parola. E se la devozione è l'unione, la compenetrazione, la reciproca
fecondazione dell'amore e della dedizione nei confronti dell'ignoto, allora essa sarà anche la
spinta congiunta in grado di condurci nell'ignoto, a nché il pensare possa appropriarsene. La
devozione diventa quindi l'educatrice dell'anima cosciente. Infatti, quando quest'anima cosciente
si sforza di raggiungere ciò che le è inizialmente nascosto, è possibile parlare di devozione anche
nella vita ordinaria. Quando l'uomo si trova di fronte a qualcosa che, pur essendo una realtà
esteriore, gli risulta ancora sconosciuto e non raggiungibile con il pensiero, si può dire che egli vi
si accosta con amore e dedizione. L'anima cosciente non arriverà mai alla conoscenza, neanche
di un oggetto esterno, se non gli si avvicina con amore e dedizione, poiché la nostra anima passa
accanto alle cose ignorandole se non si accosta a esse con quei due sentimenti, o in altre parole
con devozione. Quest'ultima è la guida alla conoscenza dell'ignoto. L'amore e la dedizione
svolgono questo ruolo già nella vita ordinaria, ma lo rivestono in particolare laddove viene preso in
considerazione il mondo sovrasensibile.
Tuttavia, dovunque sia necessario educare l'anima, questa educa, concorre a educare e si fa
educare da quello che abbiamo de nito il suo punto centrale: l'io, l'elemento in virtù del quale
l'uomo è dotato di autocoscienza. Dopo aver visto come l'io si delinei progressivamente e diventi
sempre più forte grazie al superamento di certe caratteristiche animiche, ad esempio la collera, e
alla cura di determinate altre come il senso di verità, dobbiamo dire che con queste qualità
l'autoeducazione dell'io è conclusa, e a questo punto ha inizio l'educazione mediante la
devozione. La collera va superata e abbandonata, e il senso di verità deve pervadere l'io. La
devozione deve sgorgare dall'io e con uire verso l'oggetto che si deve conoscere. Così l'io si
innalza al di sopra dell'anima senziente e dell'anima razionale superando la collera e altre passioni
e coltivando il senso di verità, e in tal modo lascia che la devozione lo attragga sempre più verso
l'anima cosciente. Se questa devozione cresce e diventa sempre più forte, si può dire che arriva a
essere una potente spinta verso quello che Goethe descrive con le seguenti parole:
Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l'imperfetto qui si completa, l'ine abile è qui realtà,
l'eterno femminino ci attira in alto accanto a sé.
Per via della forza della devozione in essa presente, l'anima prova una forte attrazione verso
l'eterno, con cui desidera sempre più fondersi. L'io però ha due aspetti. È necessario che esso
aumenti progressivamente la propria forza e la propria attività, così da diventare un sé sempre più
ricco di contenuto. Il suo compito consiste nel divenire un sé che non si degradi e non si indurisca
nell' egoismo e nell'amore smodato di sé. Quando si tratta di progredire verso la conoscenza
dell'ignoto e del sovrasensibile, quando la devozione diventa l'educatrice dell'uomo stesso, il suo
io, ovvero il suo sé, corre un notevole rischio di perdersi. La possibilità di smarrirsi è dovuta
soprattutto al fatto che la volontà dell'uomo si pone di fronte al mondo in un atteggiamento di
perenne dedizione, e se questa nisce per prendere il sopravvento, l'io esce da se stesso e si
dissolve totalmente nell'oggetto della sua dedizione, nell'altro, no a smarrirsi.
In tal modo l'io non riesce più a trovarsi nell'altro, poiché è Iì che bisogna spingerlo se lo si vuole
trovare all'esterno. La dedizione, che può portare l'io a perdersi potrebbe essere paragonata a
uno stato che potremmo de nire deliquio animico per distinguerlo dal deliquio sico. In
quest'ultimo, l'io sprofonda in un'oscurità indi erenziata a causa di uno smarrimento corporeo,
mentre nel deliquio animico l'io si smarrisce solo a livello animico, pur rimanendo intatto dal punto
di vista sico e continuando a percepire il mondo esterno. L'io può perdersi sul piano animico
quando non ha più la forza necessaria per dirigere da sé la propria volontà ed e ondervi la propria
essenza, quando la dedizione lo porta a smarrirsi nell'altro.
Questa sarebbe la forma estrema del fenomeno che viene chiamato repressione del proprio
volere. Quando la volontà del proprio sé viene so ocata, non è più l'uomo a volere: ha indotto la
propria volontà a rinunciare ad agire di propria iniziativa; allora la volontà viene esercitata dalla
cosa o dalla persona che è diventata oggetto della sua dedizione, e l'uomo ha smarrito se stesso.
Se prende il sopravvento, questa condizione può trasformarsi in uno stato di perenne deliquio
animico, in contrapposizione a quello sico. Solo il sentimento di dedizione in ammato dall'io, la
dedizione in cui ci si immerge portandosi appresso l'io, può essere la salvezza dell'anima umana.
fi
fi
fi
fi
fi
fl
ff
ff
ffi
fi
fi
ff
ff
fi
Ma in che modo la dedizione può portare l'io ovunque con sé? - L'io, il sé dell'uomo, non può
lasciarsi introdurre da nessuna parte in quanto tale se non conserva la conoscenza, la
conoscenza pensante di se stesso. Nell'anima cosciente, il pensare è dapprima sviluppato come
una dote naturale. È solo e soltanto il pensare che può impedire all'io di smarrirsi quando esce nel
mondo attraverso la dedizione. La volontà può fungere da guida all'anima umana nell'uscire da se
stessa, ma per essere condotta a qualcosa di esterno quest'anima deve voler essere illuminata
dalla luce del pensare laddove varca il limite di ciò che è al di fuori di essa. Il pensare non può
portare l'uomo al di fuori di se stesso, è la dedizione a condurre all'esterno, dopodiché occorre
mettere immediatamente in pratica il pensare, che, non appena la volontà ha condotto l'uomo
all'esterno, deve sforzarsi di illuminare con la luce del pensiero l'oggetto al quale l'anima rivolge la
propria dedizione. In altre parole, è necessaria la volontà di pensare a ciò per cui si prova
dedizione.
Proprio nell'istante in cui la volontà di dedizione perde la volontà di pensare è esposta al pericolo
di smarrirsi: una volontà che n dall'inizio rinunciasse per principio a ri ettere sull'oggetto della
propria dedizione potrebbe condurre a un estremo, consistente nel perenne deliquio dell'anima
umana.
È possibile che anche l'amore, l'altro elemento della devozione umana, subisca una sorte
analoga? Nell'amore deve riversarsi qualcosa che dal sé umano si irradia verso un oggetto ignoto,
a nché l'io non venga meno a se stesso neppure per un istante. L'io deve voler penetrare in tutto
ciò che è destinato a diventare oggetto della sua devozione, e deve voler salvaguardare se stesso
di fronte a tutto ciò che vuole abbracciare nell'amore, di fronte all'ignoto, al sovrasensibile, a ciò
che è al di fuori di lui. Che cosa diventa in particolare l'amore se l'io non mantiene la propria
integrità no al limite dove incontriamo l'ignoto, se non vuole che questo ignoto venga
compenetrato dalla luce del pensiero e del giudizio assennato?
Un amore di questo genere si trasforma nella cosiddetta esaltazione.
Ma poiché vive nell'anima razionale e a ettiva, questo io umano può iniziare il suo cammino verso
l'ignoto esterno prendendo le mosse da essa; in tal caso però non può più estinguersi del tutto.
La volontà può spegnersi, ma se l'io, l'anima, vuole abbracciare per mezzo del sentimento ciò che
sta fuori, non si spegne: l'io rimane sempre presente nel sentimento, ma se non è sostenuto dal
pensare e dal volere, si precipita ininterrottamente all'esterno. E questo lanciarsi fuori dell'io,
inconsapevole di sé, fa sì che un tale amore per l'ignoto, privo della volontà di esercitare un
pensiero vigoroso, possa spingere sempre più l'anima a cader preda dell'esaltazione.
Come possiamo de nire deliquio animico la dedizione quando si smarrisce, in questa esaltazione
c'è qualcosa che possiamo chiamare sonnambulismo animico, esattamente come si può parlare
di sonnambulismo sico. Un esaltato è un individuo che non si porta appresso nell'ignoto il
proprio io vigoroso, ma vuole addentrarsi in ciò che è esterno solo con le forze inferiori dell'io; e
quindi, poiché non lascia uire tutta la forza del proprio io dalla coscienza, cercherà di a errare
l'ignoto come lo si a erra nel mondo dei sogni. Se l'esaltazione si impadronisce sempre più
dell'anima, si trasforma in quello che può essere de nito uno stato permanente di sogno o un
sonnambulismo animico. Nel caso in cui l'anima perda la capacità di porsi in un corretto rapporto
con il mondo e le altre persone, laddove si getti impetuosamente nella vita poiché ha timore di
servirsi della luce del pensiero e trascuri di entrare in un giusto rapporto con le cose e gli esseri
che la circondano, un'anima si atta, un io di questo genere che passa a uno stato di
sonnambulismo animico, è destinato a smarrirsi e a vagare per il mondo come un fuoco fatuo.
Questa condizione è dovuta al fatto che un'esaltazione di questo tipo, che nel suo amore per
l'ignoto non è in ammata dall'io, rifugge dall'acquisire la piena chiarezza di pensiero e dal far
piena luce sul proprio io, e rinuncia a portarlo dovunque con sé esercitando un pensare vigoroso
e una forte autocoscienza. Quanto più la coscienza di sé è debole, tanto più è facile cadere
nell'esaltazione; l'anima può acquisire quelle caratteristiche che possiamo de nire superstizione in
tutte le sue forme solo se si abbandona alla pigrizia del pensiero e non ha la volontà di farsi
illuminare dalla luce del pensare laddove incontra l'ignoto. L'anima in preda all' esaltazione, che
vaga in un sogno d'amore e si muove nella vita come se dormisse, l'anima pigra nell'esercizio del
pensare, che non vuole portare la piena coscienza di sé fuori nel mondo, è incline a credere
ciecamente a tutto, poiché tende necessariamente a non penetrare nelle cose attraverso lo sforzo
interiore richiesto dal pensare, per mezzo della propria attività pensante, ma a farsi dettare
dall'esterno la verità e la conoscenza riguardo alle cose. In questo caso non occorre esercitare un
pensiero creativo autonomo a partire dalla propria interiorità. Per conoscere qualcosa di esteriore
che ci viene o erto dai sensi non è necessario un pensiero capace di creatività autonoma, ma la
volontà di giungere alla conoscenza del sovrasensibile, di qualsiasi forma essa sia, non può
assolutamente prescindere dal pensare. Nel momento in cui vogliamo cogliere il sovrasensibile
ffi
fi
ff
fi
fi
fi
ff
fl
fi
ff
ff
fi
fl
fi
ff
per mezzo della pura e semplice osservazione, siamo esposti a illusioni ed errori di ogni genere. E
tutti gli errori e le superstizioni, come pure tutto ciò che può condurci in maniera erronea o
menzognera nella sfera sovrasensibile, dipendono in de nitiva solo dal fatto che nella sua
autocoscienza l'uomo non si fa illuminare dal pensare capace di creatività autonoma. A nessuno
che abbia la volontà di pensare per attività propria potrà accadere di essere ingannato mentre
accoglie qualcosa destinato a fornirgli informazioni sul mondo spirituale. Questo però è anche
davvero l'unico strumento: non ne esistono altri che permettano di non essere tratti in inganno.
Ogni ricercatore spirituale può dirlo e lo dirà, e quanto più ci sarà la volontà di avvalersi di un
pensare capace di creare autonomamente, tanto maggiore sarà la possibilità di riconoscere il
mondo spirituale nella sua verità, chiarezza e infallibilità. Nello stesso tempo vediamo quindi che
per l'autoeducazione dell'io abbiamo bisogno di qualcosa che ci faccia addentrare sempre più
nell'anima cosciente, che funga da guida all'anima nell'educazione dell'anima cosciente di fronte
a tutto l'ignoto a livello sico e sovrasensibile: la devozione, costituita da amore e dedizione.
Quando sono pervasi e in ammati dal giusto senso di sé, questi due sentimenti diventano i
gradini che ci conducono sempre più in alto.
La giusta devozione - qualunque sia la forma con cui compenetra e in amma l'anima, in veste di
preghiera o altro - non può mai imboccare una strada sbagliata; le cose che si imparano meglio
sono quelle per le quali ci si è in ammati di devozione, ovvero di amore e dedizione. -
Un'educazione sana dovrà tener conto in particolare di quale forza in relazione allo sviluppo
dell'anima può trasmetterle l'impulso della devozione. Una gran parte del mondo è sconosciuta al
bambino; se lo si vuole educare nel migliore dei modi a conoscere e a giudicare, si susciti in lui un
sentimento di devozione per ciò che gli è ignoto, e non ci si sbaglierà mai nel sostenere che una
devozione correttamente diretta conduce davvero a quanto nel mondo può essere chiamato vera
esperienza di vita in tutti i campi.
Oh, per quest'anima umana è importante poter anche in una fase più avanzata della vita tornare
con lo sguardo all'infanzia e trovarla colma di una venerazione portata no alla devozione.
Quell'anima che durante l'infanzia è stata in grado di sollevare più e più volte lo sguardo verso
persone da lei venerate e, in intima devozione, verso cose di cui con il suo intelletto ancora
limitato non poteva rendersi conto, porta un impulso positivo per l'ulteriore e superiore evoluzione
della vita. Si ripensa sempre con gratitudine al corso degli eventi quando, per esempio, si ricorda
di aver avuto l'opportunità di sentir parlare in famiglia di qualche persona eccellente alla quale
tutti si riferivano con ammirazione e venerazione. In quei casi scende nell'anima un sacro timore
che rende la devozione qualcosa di particolarmente intimo. Con sentimenti che vengono s orati
solo nella devozione, si racconta di come si toccasse con mano tremante la maniglia per poi
entrare con timido rispetto nella stanza della persona venerata che si poteva vedere per la prima
volta dopo averne sentito tanto parlare con profondo rispetto e riverenza. Essere stati al suo
cospetto, aver scambiato con lei anche solo poche parole avendo provato prima devozione, è
uno dei migliori impulsi in questo senso. Questa devozione può farci da guida soprattutto quando
vogliamo cercare gli interrogativi più alti, gli enigmi dell'esistenza, quando tentiamo di risolvere
questi compiti importantissimi dell'anima, quando decidiamo di metterci alla ricerca di ciò a cui
aspiriamo e con cui vogliamo congiungerci. Proprio in questi casi la devozione è una forza che ci
eleva e, trascinandoci, esercita un'azione forti cante e consolidante sull'organismo animico
dell'uomo. Com'è possibile?
Partendo dall' espressione esteriore della devozione, proviamo a renderci conto di come questo
sentimento agisce nei gesti dell'essere umano. La devozione agisce come manifestazione
esteriore proprio laddove si sviluppa la facoltà più importante dell'uomo. Che cosa fa
esteriormente l'uomo devoto? Piega le ginocchia, congiunge le mani e volge con devozione il
capo verso l'essere o l'oggetto venerato.
Questi sono gli organi umani attraverso i quali l'io, e soprattutto quelle che chiamiamo le
componenti animiche superiori dell'uomo, possono estrinsecarsi più intensamente. Nella vita,
l'uomo adotta la posizione verticale grazie al fatto di stare eretto sulle gambe; assume un ruolo
benedicente, cioè irradia l'essenza del proprio io attraverso le mani; e osserva il Cielo e la Terra
con gli organi presenti nel capo, muovendolo. L'osservazione dell'uomo ci insegna però anche
che nell'iniziativa autocosciente le nostre gambe si raddrizzano meglio se prima hanno appreso a
piegare le ginocchia davanti a ciò che è veramente degno di venerazione, poiché piegando le
ginocchia si accoglie una forza che in un certo senso penetra nel nostro organismo. Le ginocchia
che si raddrizzano senza aver mai imparato a piegarsi in un atteggiamento di devozione
dispiegano solo quello che hanno sempre avuto: la loro nullità, cui non hanno aggiunto niente.
Invece le gambe che si sono degnate di piegare le ginocchia accolgono una nuova forza quando
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
le raddrizzano, e allora non è la nullità a far mostra di sé, ma l'elemento nuovo che è stato
accolto.
Le mani che vogliono benedire e consolare senza essersi prima congiunte con venerazione e
devozione non hanno molto da dare in termini di amore e benedizione se non la propria nullità. Ma
quelle che hanno imparato a congiungersi con devozione hanno assorbito una forza da cui ora
possono essere compenetrate, e sono diventate mani pervase d'amore. Il percorso della forza
assimilata mediante le mani giunte, prima di riversarsi in queste, passa infatti attraverso il cuore
umano e vi accende l'amore; e la devozione delle mani giunte, passando dal cuore per con uire
nelle mani, diventa benedizione.
Per quanto numerose siano le cose che la testa può misurare osservando il mondo mentre volge
occhi e orecchie in ogni direzione, a esse potrà contrapporre soltanto la propria vacuità. Ma il
capo che si è chinato con devozione davanti alle cose attingerà da questa devozione una forza
che lo pervaderà, e alle cose non o rirà la propria vacuità, ma i sentimenti assorbiti per mezzo
della devozione.
Chi studia con animo sano l'espressione esteriore dell'uomo, i suoi gesti, e sa quel che avviene al
suo interno a livello di rapporto vitale, sarà in grado di dedurre dalla sionomia esteriore della
devozione come questo sentimento si impadronisca del nostro io e aumenti la forza individuale, e
come questa, a sua volta, abbia la possibilità di penetrare nelle cose ignote. Se vogliamo
addentrarci nelle cose sconosciute, dobbiamo accostarci a esse con le nostre facoltà, ed è
quanto facciamo andando loro incontro con amore e dedizione. Vediamo così che l'io non viene
indebolito dalla devozione, ma che al contrario diventa più forte e vigoroso. Grazie
all'autoeducazione e alla devozione, vengono elevati gli oscuri sentimenti e impulsi dell'uomo,
come pure i suoi sentimenti di simpatia e antipatia nei confronti delle cose. Proprio quei
sentimenti di simpatia o antipatia che entrano nell'anima a livello inconscio o subconscio senza
che ci siamo fatti un giudizio su di essi, senza che siano illuminati dalla luce, vengono puri cati ed
elevati per il fatto che l'io si educa nella devozione e penetra progressivamente nelle componenti
animiche superiori. In tal modo, vengono pervasi dalla luce dell'anima tutti i sentimenti di simpatia
e antipatia che agiscono come una forza oscura e possono essere soggetti a errori.
Quella che prima era simpatia o antipatia non illuminata diventa giudizio, giudizio di sentimento,
diviene gusto estetico o giudizio morale correttamente guidato. L'anima educatasi nella devozione
puri cherà le proprie oscure simpatie e antipatie, i propri oscuri sentimenti di piacere e dispiacere,
trasformandoli in ciò che può essere chiamato senso del bello e senso del buono. Se nel
contempo avrà salvaguardato il sentimento e la coscienza di se stessa, l'anima che ha puri cato
nel modo giusto la propria volontà in direzione della dedizione nella devozione puri cherà gli
oscuri istinti e pulsioni che di solito compenetrano i desideri e gli impulsi volitivi umani, e a poco a
poco li trasformerà in quegli impulsi interiori cui diamo il nome di idee morali. La devozione è il
modo in cui l'anima si educa a prendere le distanze dagli impulsi e dagli istinti oscuri, dalle brame
e dalle passioni della vita, e a dirigersi verso gli ideali morali.
La devozione è il modo in cui l'anima si educa a prendere le distanze dagli impulsi e dagli istinti
oscuri, dalle brame e dalle passioni della vita, e a dirigersi verso gli ideali morali.
La devozione è qualcosa che possiamo instillare nell'anima come un
seme destinato a germogliare.
Chi osserva la vita con imparzialità può notare questo fenomeno anche in un altro esempio.
Ovunque si guardi, vediamo che l'uomo nel corso della sua esistenza segue dapprima uno
sviluppo ascendente e poi uno discendente. Durante l'infanzia e l'adolescenza, questa evoluzione
ha un andamento ascendente, dopodiché si arresta per un certo periodo e in ne in età avanzata,
nella vecchiaia, inizia un processo di declino. In un certo senso si può dire che lo sviluppo
discendente sul nire della vita è l'opposto di quanto è stato sviluppato durante l'infanzia e
l'adolescenza. E tuttavia, le qualità assimilate in quelle due fasi della vita si manifesteranno di
nuovo nella vecchiaia in maniera peculiare. A un autentico osservatore della vita non sfugge come
questo seme dia grandi frutti nelle persone anziane, se queste da bambine hanno assimilato in
abbondanza la devozione ben indirizzata. Una simile devozione ricompare in vecchiaia come
facoltà di agire nella vita. Questa forza si manifesta in età avanzata come la controparte della
devozione coltivata negli anni giovanili. Una giovinezza trascorsa senza devozione, durante la
quale non si siano sviluppati una corretta dedizione della volontà e corretti sentimenti d'amore,
sfocerà in una vecchiaia debole e priva di forze. Attribuiamo la devozione all'anima umana
destinata a evolversi, ma allora la natura di questa devozione deve essere tale per cui un'anima in
evoluzione possa e debba esserne toccata.
E quale qualità corrispondente troveremo nell'oggetto della nostra devozione? Se guardiamo con
amore a un altro essere, nel suo amore per noi possiamo di nuovo vedere ciò che forse si sta
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
fl
sviluppando. Possiamo parlare di devozione anche in un caso opposto come questo? Che in
generale non sarebbe corretto lo ricaviamo dal fatto di doverci dire: se l'uomo è devoto a Dio
nell'amore, allora può sapere che anche Dio si china verso di lui nell'amore. L'essere umano
sviluppa devozione nei confronti di quello che de nisce sempre il suo dio nell'universo. Il contrario
della devozione non può essere di nuovo chiamato devozione: non possiamo parlare di una
devozione divina nei confronti dell'uomo. Qual è, a questo riguardo, l'esatto contraltare della
devozione? Che cosa irradia verso la devozione nel momento in cui essa solleva lo sguardo verso
il proprio elemento divino? Ciò che essa stessa non è in grado di abbracciare con la propria
volontà e il proprio potere: la potenza e, quando si tratta del divino, l'onnipotenza. Quello che in
gioventù ci siamo conquistati nella devozione, in vecchiaia ci risplende incontro come potenza di
vita, e quello che chiamiamo il divino e a cui ci siamo rivolti con devozione ci si ri ette indietro
come esperienza dell'onnipotenza.
Questa è la sensazione dell'onnipotenza, sia se solleviamo lo sguardo verso il cielo stellato nella
sua in nita magni cenza, mentre la devozione si accende per ciò che ci circonda e che non siamo
in grado di comprendere, sia se alziamo gli occhi verso quello che, nell'una o nell'altra forma, è il
nostro dio invisibile che vive e uttua in questo universo. Prendendo le mosse dalla nostra
devozione, solleviamo lo sguardo verso l'onnipotenza, e da questa sensazione nasce qualcosa
che ci rende consapevoli di non poter penetrare, di non poterci congiungere con ciò che sta al di
sopra di noi, se non cercando di innalzarci al suo livello mediante la devozione. Immergendoci
nella devozione ci avviciniamo all'onnipotenza. Si può quindi giustamente parlare di una simile
onnipotenza, mentre neppure una ra nata sensibilità linguistica permette di parlare di onniamore.
La potenza può ampliarsi e aumentare. Se qualcuno ha potere su due o tre esseri, il suo potere è
doppio o triplo, cresce in base al numero di persone sulle quali viene esercitato. Per quanto
riguarda l'amore, le cose stanno diversamente. Il fatto che una madre ami il proprio glio non
esclude che possa amarne con la stessa intensità anche un secondo, un terzo e un quarto.
L'amore non ha a atto bisogno di raddoppiarsi o triplicarsi. Ed è un' a ermazione sbagliata quello
che sostiene: sono costretta a ripartire il mio amore, se questo deve estendersi a due esseri. - Per
una ra nata sensibilità linguistica, parlare di onniscienza è altrettanto sbagliato quanto parlare di
un inde nito onniamore. L'amore non ha gradi e non può essere limitato numericamente.
L'amore è una componente della devozione, e la dedizione è l’altra. Fra la dedizione e l'amore c'è
una certa a nità. Se siamo pervasi da questo sentimento di dedizione, possiamo infatti
manifestarlo nello stesso tempo nei confronti di vari sconosciuti. E questa dedizione può
intensi carsi, senza tuttavia aver bisogno di dividersi o moltiplicarsi, indipendentemente dal
numero di esseri ai quali la rivolgiamo. Poiché non c'è alcun bisogno che questi due sentimenti,
l'amore e la dedizione, si dividano, l'io, che dovrebbe costituire un'unità, non sarà costretto a
perdersi e a frammentarsi nel momento in cui si rivolge con amore e dedizione all'uno o all'altro
sconosciuto. L'amore e la dedizione sono quindi le guide appropriate per ascendere all'ignoto e
sono gli educatori dell'anima nel suo passaggio da anima razionale ad anima cosciente. Come il
superamento della collera educa l'anima senziente, e il senso della verità o l'anelito alla verità
educa la nostra anima razionale, così la devozione educa la nostra anima cosciente. Educando
l'anima cosciente alla devozione, l'essere umano acquisisce un sapere sempre maggiore, una
conoscenza sempre più ricca. Questa devozione deve però essere guidata e governata dalla
prospettiva di una coscienza di sé che non tema la luce del pensiero. Se lasceremo uire l'amore
da noi, per sua virtù l'amore ci consentirà di portare con noi il nostro sé. Parimenti, se saremo
inclini alla dedizione, essa per sua natura ci permetterà di portare con noi il nostro sé. Possiamo
perderci, ma non siamo obbligati a farlo. Questo è ciò che conta e che non va dimenticato, in
particolare quando applichiamo l'impulso della devozione in ambito educativo. Non dobbiamo
inculcare una devozione cieca e inconsapevole: insieme alla devozione è necessario
coltivare anche un sano senso di sé.
Se, come Goethe, la mistica di tutti i tempi chiama eterno femminino quell'elemento
indeterminato e ignoto verso il quale l'anima è attratta, noi possiamo, senza essere fraintesi,
de nire eterno mascolino ciò che deve sempre pervadere la devozione, poiché come nel senso
della mistica e di Goethe l'eterno femminino è presente nell'uomo e nella donna, così l'eterno
mascolino, questo sano senso di sé, pervade tutta la devozione nell'uomo e nella donna. E grazie
al fatto di aver conosciuto la missione della devozione che ci guida verso l'ignoto, al Chorus
mysticus di Goethe che ci viene presentato nel senso della mistica possiamo aggiungere
l'elemento deputato a pervadere la devozione: l'eterno mascolino. Ora dunque, grazie a quanto
abbiamo ascoltato a proposito della missione della devozione, siamo in grado di intendere
correttamente quell'esperienza dell'anima umana in cui con uisce, si esprime e culmina tutta la
devozione: l'unione con l'ignoto verso il quale aneliamo, l'unio mystica.
fi
fi
ffi
fi
fi
ffi
ff
fi
fl
ffi
fi
fl
ff
fl
fl
fi
• Ogni unio mystica porta alla rovina dell'anima se l'io si smarrisce nel volersi congiungere con un
ignoto qualsiasi. Se ha perduto se stesso, l'io non apporta neppure nulla di prezioso a questo
ignoto.
Per sacri carsi all'ignoto, per o rirgli il proprio sé nell' unio mystica, è necessario essere diventati
qualcosa. Se uniremo un io debole, privo di forza in se stesso, con ciò che sta al di sopra di noi,
tale unione non avrà alcun valore. L'unio mystica ha valore soltanto se un io forte ascende alle
regioni di cui ci parla il Chorus mysticus. Quando Goethe ci parla delle sfere a cui la devozione
superiore può condurre per conquistare le somme conoscenze, il suo Chorus mysticus pronuncia
queste belle parole: Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l'imperfetto qui si completa,
l'ine abile è qui realtà, l'eterno femminino ci attira in alto accanto a sé.
Al che l'unio mystica correttamente intesa può rispondere: Si.
Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l'imperfetto qui si completa, l'ine abile è qui realtà,
l'eterno mascolino ci attira in alto accanto a sé.
ff
fi
ff
ff

Potrebbero piacerti anche