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Professione pianista, una realtà per pochi

di Filippo Michelangeli, gennaio 2008

«Da grande farò il pianista!» Quante volte abbiamo sentito questa frase uscire dalla bocca degli studenti dei
conservatori? Quante volte l’abbiamo letta nelle interviste rilasciate dai giovani leoni della tastiera? Chiarito che “fare il
pianista” vuol dire vivere dell’atto del suonare, ovvero tenere concerti in pubblico e per questo riceverne un compenso –
il cosiddetto “cachet” – e che in Italia un insegnante o un orchestrale guadagnano mediamente 20mila euro all’anno, al
netto di tasse e di previdenza, siamo andati a verificare quanti sono realmente i pianisti italiani che vivono di questo
mestiere. Lo dico subito: due dozzine. Avete letto bene, nel nostro Paese sono pochissimi i musicisti che possono
rinunciare all’insegnamento o a altri incarichi fissi per dedicarsi esclusivamente al concertismo e di questo camparne.
Ognuno potrà cercare di trovare da solo, scorrendo i cartelloni delle stagioni di concerti, i nomi dei “magnifici 24”. Dal
canto mio mi limito a dire che nell’inusuale classifica si lotta soltanto per il secondo posto, giacché il primo è da anni
appannaggio di Maurizio Pollini che domina saldamente lo sparuto drappello.

Accanto alla generazione di “decani”, ben rappresentata da Campanella e Canino, e escludendo il sommo Ciccolini,
ormai cittadino francese, gli altri pianisti sono tutti giovani tra i 25 e i 45 anni. Affermare che il mercato pianistico
italiano è microscopico non è una notizia né brutta, né buona. È soltanto la realtà. E, salvo imprevedibili novità,
difficilmente nel breve periodo lo scenario potrà cambiare. Detto questo risulta incomprensibile e persino culturalmente
inutile, l’inesorabile proliferare di cattedre di pianoforte principale nei nostri conservatori. Non basterà certo la legge di
riforma a fare breccia nella mentalità dei direttori che negli anni hanno fatto irresponsabilmente esplodere
l’insegnamento professionale di questo strumento. A gennaio Suonare news pubblica, come sempre, la prima parte
dell’elenco dei diplomati nei conservatori italiani e ogni lettore potrà rendersi conto delle dimensioni del fenomeno. In
uno Stato democratico nessuno può impedire a un cittadino di avventurarsi in uno studio lungo e difficile anche se non
dà sbocchi professionali. Tuttavia credo che manchi completamente la consapevolezza da parte degli insegnanti della
grave responsabilità che si assumono incoraggiando l’avvio di una carriera concertistica in un giovane che non abbia un
talento clamoroso. Sarebbe molto più saggio nel nostro sistema didattico offrire un’alternativa allo studio professionale
del pianoforte, con un programma più semplice e breve (non oltre i 5 anni) in modo da ampliare la platea degli
appassionati che un giorno formeranno un pubblico competente e numericamente in grado di dare finalmente maggiori
opportunità ai “leoni della tastiera”.

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