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Anthropotes

RIVISTA DI STUDI SULLA PERSONA E LA FAMIGLIA

2017 XXXIII 2
Anthropotes Rivista ufficiale del
Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II
per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia
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ISBN 978-88-6879-591-7
SOMMARIO

Francesco, Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio “Summa Familiae


Cura” 335

J. Noriega, Editorial 339

Famiglia e dimora: edificare, generare, abitare

Articoli

P. Sequeri, Famiglia e dimora: edificare, generale, abitare 347


G. Consonni, Intimità / esteriorità dell’abitare: la casa, la città 351
A. López, The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial
Relationships 367
S. Belardinelli, Abitare la società dei non-luoghi: la famiglia sorgente
di spazio sociale 397
J. Granados, “Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne
e dimora 407
W. Abi-Zeid, To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life 433
J.A. Reig-Pla, Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare
in Chiesa 459

In rilievo

J. Granados, Semina Verbi: una esperanza para la familia 485

331
E. Falque, Eros, corps et Eucharistie 513
J. Granados, Sacerdozio e famiglia: quale nesso? 537

Nota critica

J. J. Pérez-Soba, Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer,


la Veritatis splendor vista tras Amoris laetitia. Una respuesta a un libro
reciente de Alain Thomasset y Jean-Miguel Garrigues 565

Quaestiones disputatae

Introducción a la rubrica Quaestiones disputatae 616

Quaestio disputata 2: Comunione ai divorziati risposati: continuità o


rottura con la Tradizione?

J.-F. Chiron, L’Exhortation apostolique Amoris laetitia a-t-elle introduit


une rupture dans la tradition? 619
M.G. Sirilla, Whether the Proposal to Give Communion to Divorced and
Remarried Catholics Living in More Uxorio Is a Development
of Doctrine in Continuity with Tradition? 627

Quaestio disputata 1: È tomistica Amoris laetitia?

B. Cole, The Hurdles of St. Thomas Aquinas to Overcome in Amoris laetitia.


In response to Prof. Eberhard Schockenhoff 641

Testimonianza
Carlo Caffarra: il profilo di un pastore teologo

Introducción a la rubrica Testimonianza Carlo Caffarra 656


C. Caffarra, Discorso del Preside in occasione del primo atto accademico
dell’Istituto alla presenza di Papa Giovanni Paolo II (1981) 657
M. Camisasca, Testimonianza su Carlo Caffarra 661

332
M.L. Di Pietro, L’integrum: dovere etico e proposta educativa in Carlo
Caffarra 665
W.J. Eijk, Un esempio indimenticabile per i suoi alunni e per tutti
i teologi moralisti 675
H. Geissler, Carlo Caffarra e il dibattito sulla coscienza morale 681
J. Granados, Itinerario hacia el misterio: matrimonio y familia según
Carlo Caffarra 691
S. Grygiel, Servus veritatis et amoris 705
L. Melina, Carlo Caffarra: maestro e testimone della verità dell’amore 711
N. Menestò, Don Carlo: un padre 723
J.M. Meyer, Le Cardinal Caffarra, témoin de la vérité 729
L. Negri, Memoria del Cardinal Carlo Caffarra 743
J.A. Reig- Pla, La enseñanza de un maestro y un padre 749
P. Sequeri, Il Vangelo come Evento e Comandamento. Sull’epistemologia
teologico-morale di Carlo Caffarra (1938-2017) 761

Vita dell’Istituto 773

Indice annata 2017 811

333
Anthropotes 33 (2017)

LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI MOTU PROPRIO
DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO

SUMMA FAMILIAE CURA


che istituisce il
Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II
per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia

Animato dalla più grande cura per la famiglia, San Giovanni Paolo
II, dando seguito al Sinodo dei Vescovi del 1980 sulla famiglia e all’Esor-
tazione apostolica post-sinodale Familiaris consortio, del 1981, con la Co-
stituzione apostolica Magnum Matrimcotronii sacramentum conferì stabile
forma giuridica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Ma-
trimonio e Famiglia, operante presso la Pontificia Università Lateranen-
se. Da allora esso ha sviluppato un proficuo lavoro di approfondimento
teologico e di formazione pastorale sia nella sua Sede Centrale di Roma,
sia nelle Sezioni extra-urbane, ormai presenti in tutti i continenti.
Più di recente, la Chiesa ha compiuto un ulteriore percorso sinodale
mettendo nuovamente al centro dell’attenzione la realtà del matrimonio
e della famiglia, in primo luogo nell’Assemblea straordinaria del 2014,
dedicata a “Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizza-
zione”, e poi in quella ordinaria del 2015 su “La vocazione e la missione
della famiglia nella Chiesa e nel mondo”. Compimento di questo inten-
so cammino è stata l’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia,
pubblicata il 19 marzo 2016.
Questa stagione sinodale ha portato la Chiesa a una rinnovata con-
sapevolezza del vangelo della famiglia e delle nuove sfide pastorali a cui

335
Papa Francesco

la comunità cristiana è chiamata a rispondere. La centralità della fami-


glia nei percorsi di “conversione pastorale”1 delle nostre comunità e di
“trasformazione missionaria della Chiesa”2 esige che – anche a livello di
formazione accademica – nella riflessione sul matrimonio e sulla famiglia
non vengano mai meno la prospettiva pastorale e l’attenzione alle ferite
dell’umanità. Se un fruttuoso approfondimento della teologia pastorale
non può essere condotto trascurando il peculiare profilo ecclesiale della
famiglia3, d’altro canto, non sfugge alla stessa sensibilità pastorale della
Chiesa il prezioso apporto del pensiero e della riflessione che indagano,
nel modo più approfondito e rigoroso, la verità della rivelazione e la
sapienza della tradizione della fede, in vista della sua migliore intelligen-
za nel tempo presente. “Il bene della famiglia è decisivo per il futuro
del mondo e della Chiesa. […] È sano prestare attenzione alla realtà
concreta, perché le richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche
negli stessi avvenimenti della storia, attraverso i quali la Chiesa può esse-
re guidata ad una intelligenza più profonda dell’inesauribile mistero del
matrimonio e della famiglia”4.
Il cambiamento antropologico-culturale, che influenza oggi tutti gli
aspetti della vita e richiede un approccio analitico e diversificato, non ci
consente di limitarci a pratiche della pastorale e della missione che riflet-
tono forme e modelli del passato. Dobbiamo essere interpreti consape-
voli e appassionati della sapienza della fede in un contesto nel quale gli
individui sono meno sostenuti che in passato dalle strutture sociali, nella
loro vita affettiva e familiare. Nel limpido proposito di rimanere fedeli
all’insegnamento di Cristo, dobbiamo dunque guardare, con intelletto
d’amore e con saggio realismo, alla realtà della famiglia, oggi, in tutta la
sua complessità, nelle sue luci e nelle sue ombre5.
Per queste ragioni ho ritenuto opportuno dare un nuovo assetto giu-
ridico all’Istituto Giovanni Paolo II, affinché “la lungimirante intuizione
di San Giovanni Paolo II, che ha fortemente voluto questa istituzione
accademica, oggi [possa] essere ancora meglio riconosciuta e apprezzata

1 Cfr. Francesco, Esort. Ap. Evangelii gaudium, 26-32.


2 Cfr. ibid., cap. I.
3 Cfr. Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, 11.
4 Francesco, Esort. Ap. Amoris laetitia, 31; cfr. Giovanni Paolo II, Esort. Ap. Familiaris
consortio, 4.
5 Cfr. Francesco, Esort. Ap. Amoris laetitia, 32.

336
Summa Familiae Cura

nella sua fecondità e attualità”6. Pertanto, sono venuto alla deliberazione


di istituire un Istituto Teologico per le Scienze del Matrimonio e della
Famiglia, ampliandone il campo di interesse, sia in ordine alle nuove
dimensioni del compito pastorale e della missione ecclesiale, sia in riferi-
mento agli sviluppi delle scienze umane e della cultura antropologica in
un campo così fondamentale per la cultura della vita.

Art. 1
Con il presente Motu proprio istituisco il Pontificio Istituto Teologico
Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, che, legato
alla Pontificia Università Lateranense, succede, sostituendolo, al Pontificio
Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, stabilito
dalla Costituzione apostolica Magnum Matrimonii sacramentum, il quale per-
tanto, viene a cessare. Sarà, comunque, doveroso che l’originaria ispira-
zione che diede vita al cessato Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia
continui a fecondare il più vasto campo di impegno del nuovo Istituto
Teologico, contribuendo efficacemente a renderlo pienamente corrispon-
dente alle odierne esigenze della missione pastorale della Chiesa.

Art. 2
Il nuovo Istituto costituirà, nell’ambito delle istituzioni pontificie,
un centro accademico di riferimento, al servizio della missione della
Chiesa universale, nel campo delle scienze che riguardano il matrimonio
e la famiglia e riguardo ai temi connessi con la fondamentale alleanza
dell’uomo e della donna per la cura della generazione e del creato.

Art. 3
Lo speciale rapporto del nuovo Istituto Teologico con il ministero e
il magistero della Santa Sede sarà ulteriormente avvalorato dalla privile-
giata relazione che esso stabilirà, nelle forme che saranno reciprocamente
concordate, con la Congregazione per l’Educazione Cattolica, con il Di-
castero per i Laici, la Famiglia e la Vita e con la Pontificia Accademia per
la Vita.

6 Francesco, Discorso alla comunità accademica del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per
Studi su Matrimonio e Famiglia, 27 ottobre 2016: L’Osservatore Romano, 28 ottobre
2016, p. 8.

337
Papa Francesco

Art. 4
§ 1. Il Pontificio Istituto Teologico, così rinnovato, adeguerà le pro-
prie strutture e disporrà gli strumenti necessari – cattedre, docenti, pro-
grammi, personale amministrativo – per realizzare la missione scientifica
ed ecclesiale che gli è assegnata.
§ 2. Le autorità accademiche dell’Istituto Teologico sono il Gran
Cancelliere, il Preside e il Consiglio dell’Istituto.
§ 3. L’Istituto Teologico ha la facoltà di conferire iure proprio ai suoi
studenti i seguenti gradi accademici: il Dottorato in Scienze su Matri-
monio e Famiglia; la Licenza in Scienze su Matrimonio e Famiglia; il
Diploma in Scienze su Matrimonio e Famiglia.

Art. 5
Quanto stabilito dal presente Motu proprio sarà approfondito e de-
finito negli Statuti propri, approvati dalla Santa Sede. In modo parti-
colare, si provvederà a individuare le modalità più adatte a favorire la
cooperazione e il confronto, nell’ambito della didattica e della ricerca,
tra le autorità dell’Istituto Teologico e quelle della Pontificia Università
Lateranense.

Art. 6
Fino all’approvazione dei nuovi Statuti, l’Istituto Teologico sarà
temporaneamente retto dalle norme statutarie finora vigenti nell’Istituto
Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, ivi comprese la
strutturazione in Sezioni e le relative norme, nella misura in cui non si
oppongano al presente Motu proprio.
Tutto ciò che ho deliberato con questa Lettera apostolica in forma di
Motu proprio, ordino che sia osservato in tutte le sue parti, nonostante
qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e sta-
bilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione sul quotidiano
L’Osservatore Romano, entrando in vigore il giorno della promulgazione,
e che, successivamente, sia inserito in Acta Apostolicae Sedis.

Dato a Roma, presso San Pietro, l’8 settembre, Festa della Natività della B.V.
Maria, dell’anno 2017, quinto del Nostro Pontificato

Francesco

338
Anthropotes 33 (2017)

Editorial

José Noriega*

¿Qué relación existe entre familia y hogar?


Al hogar era donde Ulises ansiaba volver. No era casa hecha de solos
maderos y piedras, sino hogar habitado por Penélope, construido a base
de prácticas que entretejían al entramado de su casa amor y esperanza.
Esa pieza no se podía destejer y reclamaba en ambos una esperanza: ha-
bitarla juntos.
Volver al hogar es lo que ansía el hombre posmoderno, cansado de
técnica en la construcción de sus casas y ciudades. Cuando llega a su casa,
sin embargo, encuentra sí, el armazón de una casa, pero a la que falta
el calor del hogar. La tardo modernidad ha producido un adefesio: los
no-lugares, cuya idea ha llegado a influir en los espacios hasta entonces
comunes. Las casas y puestos de trabajo se llenan también de transitorie-
dad, de movilidad, y quienes en ellos se alojan saben que lo que define
esos lugares es el pasar de individuos, también ellos. ¿A qué hogar vuelve

* Director editorial y Profesor ordinario de Teología moral especial en el Pontificio


Instituto Teológico Juan Pablo II, Roma.

339
José Noriega

el individuo posmoderno? Utilitario y emotivo como se ha vuelto, busca


un lugar útil y en el que su sentimiento encuentre correlación. Tecno-
logía y sentimiento han generado nuevos no-lugares dentro de la casa, y
quien los habita navega pasando de aquí para allá en relaciones virtuales.
¿Puede habitar la familia un lugar así? Pero ¿es que acaso son las paredes
de la casa las que hacen la familia?
El Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matri-
monio e della Famiglia ha querido dedicar el Seminario de Estudio durante
el Consiglio Internazionale del año 2017 al siguiente tema: Familia y hogar:
edificar, generar, habitar. En él se planteó una cuestión de gran relevancia:
qué espacio se hace habitable para la familia. Anthropotes ha querido ofre-
cer el fruto de este trabajo publicando los textos que guiaron la reflexión,
en la que los profesores de la Sede Central, así como los Vicepresidentes
y decanos de las secciones extraurbanas se confrontaron entre sí y con
el Prof. Giancarlo Consonni, del Politécnico de Milán. Se abre el nú-
mero con una presentación del Preside del Istituto, el Prof. Pierangelo
Sequeri. Lo que el célebre arquitecto humanista pone en evidencia en su
texto es en qué manera el hogar queda constituido por una interacción
entre don y deber, llegando esta correlación hasta la misma lógica de la
construcción de la ciudad. La convivencia civil y la sociabilidad, con su
mezcla de público y privado, se basan entonces en un don recibido que
se debe cultivar.
El claro-oscuro de lo que es una casa con padres gays manifiesta el
límite de una pretensión: el niño no precisa simplemente de dos perso-
nas que le cuiden o se ocupen de él. El Prof. Antonio López, de nuestra
Sección de Washington, D.C., evidencia en qué modo el hogar, para ser
realmente un hogar para un niño, requiere que esté entretejido de rela-
ciones en las que la diferencia sexual esté presente. Este aspecto juega un
papel decisivo precisamente en cuanto manifiesta la verdad de un origen
como fundamento del hogar. En esta misma línea se sitúa el Prof. Sergio
Belardinelli, de la Sede Central del Istituto, para quien la familia, con el
haz de relaciones que comporta, se constituye en fuente de espacios so-
ciales dignos del hombre.
La dimensión teológica del hogar, así como del habitar que implica,
ha sido resaltada por el Prof. José Granados, de la Sede Central, y por
el Prof. Walid Abi-Zeid, del Centro Asociado de Beirut. El teólogo

340
Editorial

español parte de la relación en la Encarnación entre “hacerse carne”


y “habitar entre nosotros”. La carne se convierte así en el lugar donde
habitar y en el que edificar un espacio a través de la palabra. Los sacra-
mentos, al tocar la carne del hombre, abren un espacio nuevo en el que
vivir las relaciones que Cristo vivió. Es en el matrimonio donde aparece
en modo patente que la creación se dilata para asumir el modo de amar
de Cristo, en el que se da una fecundidad especial: a partir de esta acción
sacramental la misma sociedad queda afectada en sus espacios. Por su par-
te, el teólogo libanés resalta en qué modo el tiempo de la familia queda
afectado por el tiempo litúrgico y sus prácticas.
La dimensión pastoral de la relación entre familia y hogar ha sido
estudiada por S. E. Mons. Juan Antonio Reig Pla, Vicepresidente de la
Sección Española del Instituto. El obispo complutense pone en eviden-
cia en qué manera el hogar, para ser tal, precisa de una interioridad. La
Iglesia es un hogar porque en ella se regenera el corazón del hombre al
recibir un amor nuevo: es el amor el que hace que la Iglesia sea un lugar
vivible, un verdadero hogar. La familia, al recibir el amor de Cristo se
convierte a su vez en Iglesia doméstica, construida sobre la piedra angu-
lar de Cristo. Desde este amor recibido es como las prácticas familiares se
hacen relevantes y necesarias.
La rúbrica In rilievo ofrece un primer estudio del Prof. Granados sobre
el tema de las semillas del Verbo en la creación, recientemente traído a
colación a propósito del aparente bien, por ejemplo, de la convivencia.
La cuestión, por la ambigüedad con que se ha planteado, precisaba una
aclaración. A continuación se ofrecen dos estudios que recogen las impli-
caciones entre eucaristía y matrimonio. El primero del Prof. Emmanuel
Falque, del Institut Catholique de París, en el que se recoge el texto con el
que inauguró el nuevo año académico: Eros, Corps et Eucharistie. Se trata
de una potente visión de la implicación cultural de la fórmula eucarística
“esto es mi cuerpo”. La Eucaristía cambia el modo de ver y de vivir el
cuerpo, y de la fuerza del eros que conlleva. El segundo, también del Prof.
José Granados, quiere ver la relación entre sacerdocio y familia. De nuevo
será la fórmula eucarística la que abrirá una clave de comprensión nueva de
la identidad narrativa del sacerdote en el tiempo. No en vano la memoria
filial le reconduce a la alianza originaria y le proyecta en la esperanza de
una fecundidad y paternidad en Cristo, que tiene que ver con la familia.

341
José Noriega

Por su parte, un libro apenas aparecido: Jean-Miguel Garrigues -


Alain Thomasset, Une morale souple mais non sans boussole. Répondre aux
dubia des quatre cardinaux à propos d’Amoris laetitia, de Les Éditions Du
Cerf, ha motivado una nota crítica del Prof. Juan José Pérez-Soba.
El número ofrece una segunda quaestio disputata: “si la propuesta
de una nueva disciplina en la que se dé la comunión a divorciados en
nueva unión que no viven en continencia está o no en continuidad con
la tradición”, en la que participan los profesores Jean-François Chiron y
Michael G. Sirilla, y a la vez, la respuesta del Prof. Basil Cole a la primera
quaestio publicada en el numero 1 de este año.
Al final del volumen se incluyen diversos testimonios ofrecidos
en ocasión de la muerte del Cardenal Carlo Caffarra, así como los he-
chos más notables de la Vita dell’Istituto acaecidos en el año académico
2016-2017.

342
FAMIGLIA E DIMORA:
EDIFICARE, GENERARE, ABITARE
ARTICOLI
Anthropotes 33 (2017)

Famiglia e dimora: educare, generare, abitare

Pierangelo Sequeri*

Il tema di studio scelto per questo appuntamento del Consiglio Inter-


nazionale non è certamente un argomento inedito, nell’ambito della ri-
flessione che riguarda il legame coniugale e la condizione famigliare.
Nello stesso tempo, non si può certo dire che le profonde connessioni
che l’argomento chiama in causa – suggestivamente evocate dal lessico
popolare, che concepisce come sovrapposte le formule “fare famiglia”
e “metter su casa” – siano un motivo propulsore di riflessione sul nesso
della casa, della città, della Chiesa.
Nell’attuale congiuntura, l’immaginario del rapporto tra famiglia e
dimora è potentemente requisito dalla problematica economica dell’edi-
lizia civile: la “casa” non è soltanto il porto-rifugio dell’intimità affettiva1
è un bene-rifugio contro la precarietà dell’economia domestica. E anche
l’oggetto di interessi speculativi di varia natura, che aggiungono diffi-
coltà. La pressione che questo tipo di polarizzazione esercita sui valori
simbolici della “casa”, come luogo dell’incarnazione degli affetti che in-
troducono alla forma personale dei rapporti umani e custodiscono la ma-
trice comunitaria della società civile, concorre certamente ad impoverire
l’irradiazione sociale delle relazioni fiduciali e cooperative plasmate dalla
forma familiare della coabitazione e del vicinato.

* Preside del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del
Matrimonio e della Famiglia.
1 Cfr. Chr. Lasch, Haven in a Hearthless World. The Family Besieged, W. W. Norton
Company, New York 1995.

347
Pierangelo Sequeri

Un ulteriore apporto a questo indebolimento, viene indubbiamente


da due ordini di fattori di portata globale.
Il primo è la straordinaria progressione dell’individualismo della cit-
tadinanza e della flessibilità del lavoro, che esalta la funzionalità dell’abi-
tare e l’estemporaneità del dimorare. Questo nuovo nomadismo, che ha
reso i “non-luoghi”2, come ad esempio aereoporti, stazioni, mall center,
multi-sale) simboli dell’inattualità del dimorare tradizionale, ha rivestito
anche i panni di una certa idealità apolide, che rende il nuovo soggetto
cittadino “del mondo”, più che abitante di “una patria”. Un secondo
vettore di trasformazione simbolica dei valori dell’abitare viene diret-
tamente dall’indebolimento dei legami familiari e generazionali come
matrice della costituzione temporale e della memoria storica dell’iden-
tità, che si riflette nel ruolo preminente della comunità domestica e lo-
cale nella costituzione della città e nella tradizione della sua memoria.
La progressiva tendenza dell’architettura verso un’esteriorità dell’edificio
abitabile che privilegia in realtà i suoi valori plastici, tecnologici, estetici,
di fatto nasconde i simbolismi del dimorare ed esalta la monumentalità
dell’edificare. La familiarità dell’habitat viene spinta nella clandestinità
degli interni (che si fanno sempre più estetici e intelligenti: come dire
che tendono a diventare essi stessi il soggetto dell’abitare, più che gli
umani che li contemplano e li programmano). Insomma, l’abitare fami-
gliare non si lascia più neppure immaginare quale componente dell’abi-
tare collettivo, e la domesticità dei luoghi della città che essa condivi-
de è una variabile indipendente dell’edificare (non per caso la struttura
urbana, per quanto affascinanti siano le sue architetture faraoniche e i
suoi arredi imperiali, è sempre più ostile alla presenza di bambini e di
anziani). Per il resto, l’urbanistica segue logiche strettamente funzionali
alle esigenze della mobilità dei consumatori e delle merci, più che quelle
riferibili ai valori dell’abitare opportunamente modellati in riferimento
alle parti comuni della città.
La teologia pastorale, negli anni immediatamente successivi al Con-
cilio aveva intercettato generosamente le questioni relative alla potenza
simbolica del nesso tra edificare e abitare, generare e abitare.

2 Cfr. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eléuthera,


Milano 2008.

348
Famiglia e dimora: educare, generare, abitare

In quel contesto erano valorizzati i primi tentativi di una “teolo-


gia della città”3, che già tenevano conto dell’incidenza delle sue trasfor-
mazioni sull’immagine della “comunità del villaggio” al quale il lessico
cristiano del ministero pastorale era ancora sostanzialmente collegato.
E contemporaneamente, ci si muoveva nella linea della riscoperta della
originaria vocazione della parrocchia ad essere dimensione locale della
Chiesa4 “vicina alle case” (in linea con l’ispirazione registrata dalla sua
stessa etimologia). L’apertura di questa prospettiva ha certamente con-
tribuito alla valorizzazione del legame fra comunità cristiana e dimora
famigliare, riabilitando la speciale idoneità della “parrocchia” a rappre-
sentare l’icona fondamentale della “edificazione” della Chiesa, proprio
in quanto “luogo” di prossimità della comunità cristiana alla forma “ba-
silare” dell’habitat umano, che è quella definita dalla dimora famiglia-
re. Questa connessione, che avvicina fortemente lo spazio ecclesiale al
grembo famigliare, incorporando il tempo qualificante della sua peculia-
re storia di amore e di generazione, esalta in modo speciale il tema cri-
stiano fondamentale dell’incarnazione del Figlio di Dio (che “pose la sua
dimora fra noi”). L’adesione della forma ecclesiale allo spazio e al tempo
della generazione e della convivenza famigliare, illumina il carattere non
estemporaneo dell’incarnazione dell’amore di Dio nella città dell’uomo:
sul fondamento cristologico di questa grazia si rende possibile una vera
storia del nostro abitare con Dio.
Occorre riconoscere, nondimeno, che quel fervore, per ragioni del
resto ben comprensibili, non è arrivato a mettere in gioco le dimensioni
specifiche del rapporto tra le forme dell’abitare (e quindi dell’edificare,
del dimorare, del vivere) e l’edificazione dei legami familiari in ordi-
ne alla costruzione del legame sociale e all’oggettivazione dello spirito
comunitario. In quel contesto, di fatto, la sovrapposizione era scontata
e sembrava ancora ovvia. I mutamenti nel frattempo tumultuosamente
sopraggiunti impongono ora una specifica riflessività su tutti gli aspetti
di questo rapporto.
Da un lato, infatti, la tensione fra il bisogno personale di dimo-
ra affettiva e riconoscibile (famigliare, locale, cittadina) e il desiderio

3 Cfr. J. Comblin, Teologia della città, Cittadella, Assisi 1971.


4 Cfr. L. Cerfaux, La teologia della Chiesa secondo San Paolo, A.V.E., Roma 1968; I.-Y.
Congar, La mia parrocchia vasto mondo. Verità e dimensioni della Salvezza, Paoline, Alba
1963.

349
Pierangelo Sequeri

individuale di nomadismo avventuroso e flessibile (come simbolo di li-


bertà individuale, sperimentazione di rapporti on the road, creatività della
vita in diretta) è diventata acutissima. E persino dolorosa. Per contrac-
colpo, si presenta oggi davanti a noi anche la forma non-ludica di questa
tensione: l’impoverimento che respinge verso un’esistenza “senza fissa
dimora”, la destabilizzazione economica e conflittuale di intere regioni,
che genera flussi migratori al tempo stesso speranzosi e disperati “in cerca
di casa”. Questo rovescio della medaglia ci interpella prepotentemente,
imponendoci di fare i conti con il nostro stesso modo di intendere il
senso del rapporto fra “edificare, abitare e generare”.
Il nodo della condizione famigliare viene prepotentemente alla ri-
balta come l’indicatore più sensibile della qualità delle soluzioni che de-
vono essere cercate per una nuova antropologia dell’abitare.
L’alleanza generativa dell’uomo e della donna porta alla luce in se
stessa la logica della qualità umana del dimorare che ci fa umani: il grem-
bo, la casa, la città, il cosmo hanno intime e segrete corrispondenze con
le logiche ospitali e creative della vita, delle quali deve essere trovata
l’armonia. La perdita di umanità si ripercuote sull’intero: la dissoluzione
delle logiche famigliari del grembo, svuota di umanità la casa, la città e
il mondo. E simmetricamente, l’espulsione degli affetti che generano la
comunità dalla visibilità delle forme dell’edificare e dell’abitare, apre la
strada alla trasformazione della totalità del dimorare nella frequentazione
funzionale di non-luoghi: in cui si gode e si consuma il mondo, intanto
che lo si rende drammaticamente inabitabile – e impensabile – per gli
umani.
La questione pastorale posta dal tema dell’abitare e dell’edificare
umano viene dunque in primo piano come questione antropologica to-
tale, che chiama in causa precisamente l’archetipo famigliare del legame
fra dimorare e generare.
In quanto tale, la questione non appare più così distante dalla ne-
cessità di riflettere teologicamente sul tema, per rendere disponibile il
rischiaramento che la fede porta nell’attuale difficoltà di orientamento.
Molto opportunamente i Relatori del Convegno Internazionale toccano
tutti i punti nevralgici di questo nuovo status quaestionis, che interpella
l’intelligenza cristiana della condizione presente, con la fiducia che la
loro riflessione possa incoraggiarne il necessario approfondimento.

350
Anthropotes 33 (2017)

Intimità / esteriorità dell’abitare: la casa, la città

Giancarlo Consonni*

SUMMARY: Incŏla (inhabitant) comes from colĕre: etymology here is very


eloquent. In colĕre operates the munus: living together in equilibrium of
duty and gift. The current crisis of the city can be interpreted as a crisis of
virtuous interaction between duty and gift. The answer to this crisis can only
be the active reaffirmation of urban values as a vital necessity for civil coex-
istence. Human settlements must find their way back to affability, dialogue,
interaction between the public and private sectors and architectural narrative.
Re-humanization of the world as a dwelling place must be pursued. It is nec-
essary to equip cities with civil cohabitation, giving the utmost importance to
social infrastructures.

1. Le ragioni civili della bellezza in architettura

Il termine composizione, ricorrente in architettura, in musica, in poesia e


nelle arti visive, evoca l’idea del porre insieme elementi diversi al fine di
conseguire un’unità armonica. Il ricorso a misurazioni, calcoli e schemi
al fine di individuare i segreti della creazione artistica ha talora finito per
attribuire alla composizione il carattere di operazione intesa a combinare
elementi inerti in un risultato statico. L’immagine estrema a cui questa
concezione finisce per associarsi è la composizione dei cadaveri; quan-
do invece, negli esiti alti del fare artistico, ci troviamo di fronte a una

* Professore emerito di urbanistica del Politecnico di Milano.

351
Giancarlo Consonni

materia incandescente e sfuggente: così viva e vitale che tutte le volte


sorprende e interpella non solo i cosiddetti fruitori ma gli stessi artefici.
Decisamente più feconda, anche se assai meno fortunata, è la no-
zione di concinnitas. Nata, come altri concetti impiegati nell’indagine
sulla bellezza, nell’ambito della retorica (Cicerone e poi Quintiliano),
la concinnitas è riscoperta nel Rinascimento grazie in particolare a Leon
Battista Alberti che, nel De re ædificatoria1, la assume a elemento cardinale
nel tentativo di spiegare in cosa consista la venustas in architettura. Il si-
gnificato di concinnitas è tanto denso e complesso che è difficile tradurre
in altra lingua il lemma latino con una sola parola. Lo stesso Alberti, del
resto, ha sentito il bisogno di specificare concinnitas universarum partium2 e
di affiancarvi, a mo’ di esegesi, consensus et conspiratio partium3, espressione
in cui emerge l’idea di un’armonia conseguita grazie al contributo attivo
di tutte le parti e al loro accordarsi in una interrelazione reciproca. Con-
cinnitas è appunto questa idea.
Viene subito in evidenza la stretta parentela tra la sfera estetica e
la sfera sociale4. La bellezza e la società esistono in virtù di uno stesso
principio: la concertazione fra componenti diverse al fine di conseguire
sinergie in un assetto quanto più possibile equilibrato e armonico. Non
solo: tra bellezza e società, sembra suggerire il De re ædificatoria, corre
un legame di necessità: da un lato la società ha bisogno della bellezza
e dall’altro la bellezza si carica di senso nelle relazioni sociali. Nell’at-
tenzione posta dai nostri «antenati più avveduti» alla bellezza – sostiene
Alberti – traspare la consapevolezza che «le manifestazioni dei più vari
campi della vita pubblica: diritto, vita militare, religione, etc. […], senza
le quali la società civile cessa sostanzialmente di esistere, una volta private

1 L. B. Alberti, De re ædificatoria, Niccolò di Lorenzo Alemanno, Firenze 1485 (Editio


princeps, curata da Bernardo Alberti (cugino di Leon Battista), d’ora in poi Alberti, De
re ædificatoria). Il trattato fu scritto tra il 1443 e il 1452.
2 Alberti, De re ædificatoria, VI, 2.
3 Ibid., IX, 5.
4 «[concinnitas] ut eam quidem esse animi rationisque consortem interpreter. Habetque
campos latissimos, ubi exerceatur atque efflorescat. Totam complectitur hominis vitam
et rationes […]». Ibidem. «[La concinnitas] io la chiamo compagna dell’animo e della
ragione; ha spazi vastissimi nei quali applicarsi ed affermarsi. Abbraccia l’intera vita
dell’uomo e le sue leggi […]». Alberti, L’architettura, trad. it. di Giovanni Orlandi,
introduzione e note di Paolo Portoghesi, il Polifilo, Milano 1989 (d’ora in poi Alberti,
L’architettura), 814.

352
Intimità / esteriorità dell’abitare: la casa, la città

della magnificenza dell’ornamento [qui sinonimo di bellezza] si riduco-


no ad operazioni vuote e insulse»5.
L’abitare condiviso è il terreno del mutuo alimentarsi di bellezza
e senso. Ed è la concinnitas, dice sempre il progettista della basilica di
Sant’Andrea di Mantova, il modus operandi che consente all’architettu-
ra di conseguire nel consorzio civile «onore, pregio, autorità, valore»6.
Uscendo dalla visione platonica che affermava il sussistere di un vincolo
ontologico tra Bello, Buono e Vero, nella visione di Leon Battista Al-
berti, bello, buono e vero tornano insieme ma camminano per strada,
con e tra i cittadini. Sulle orme del grande umanista, possiamo affermare
che la bellezza è tanto più principio attivo nella definizione della sfera
simbolica quanto più si esaltano i valori urbani, a cominciare dall’urbani-
tas. È qui che rifulge la magnificenza civile.
In Leon Battista Alberti è già presente in modo implicito il con-
cetto di «bellezza civile» che verrà enunciato tre secoli dopo da Giam-
battista Vico7. Una bellezza, quella propugnata dal filosofo napoletano,
ancorata alla nobiltà d’animo e alla virtù (l’honestas in particolare) e che
nell’aggettivo civile esplicita la tensione che la anima: il suo puntare sul
ritrovamento di una misura e di un equilibrio nella relazione, qualità
irrinunciabili nell’opera intesa a rendere abitabile il mondo e a creare le
migliori condizioni del convivere.
Da quanto sostenuto da Alberti, e più sinteticamente da Vico, emer-
ge un’idea di bellezza come componente per nulla esornativa della realtà
umana. Del resto, i due autori, nello scavare con finezza sul tema della
bellezza, in verità davano conto di un’idea operante: era la realtà in cui
si svolgeva la loro vita a essere intessuta di bellezza. Una condizione
questa che ha il respiro lungo dell’umanizzazione del mondo e della

5 Alberti, L’architettura, cit., 444. «Dignissima igitur atque in primis affectanda


pulchritudo est his præsertim qui sua velint reddere non ingrata. Huic rei maiores
nostri, viri prudentissimi, quantum deberi existimarint: inditio sunt cum cætera tum
leges militia res divina totaque res publica, quam incredibile dictu est quantopere
curarint ut essent ornatissima, acsi censuisse videri voluerint, ista hæc, sine quibus
bominum vita vix constare possit, ornamentorum apparatu et pompa sublata insipidum
quid negocii et insulsum fore». Alberti, De re ædificatoria, VI, 2.
6 Alberti, L’architettura, cit. 816. «Hanc [concinnitas] ipsam maiorem im modum res
ædificatoria sectatur; hac sibi dignitatem gratiam auctoritatem vendicat atque in precio
est». Alberti, De re ædificatoria, IX, 5.
7 G. Vico, Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, Stamperia
Muziana, Napoli 1744, ora in Id., Tutte le opere, Mondadori, Milano 1957, 170.

353
Giancarlo Consonni

civilizzazione e che ha tenuto fino a che il costruire è stato guidato dal


colĕre, ovvero da un principio in cui l’avere cura, il coltivare e il venerare
erano inscindibili. Il colĕre latino – di cui l’ora et labora di San Benedetto
da Norcia è in qualche modo la riproposizione in ambito cristiano – ha
le sue radici nel sentimento dell’abitare condiviso e si manifesta nelle
opere concepite per rispondere alle valenze culturali e spirituali dell’abi-
tare non meno che alle sue necessità materiali. Non a caso incŏla, abitan-
te, deriva da colĕre: mai etimologia è stata così eloquente.
In colĕre opera uno scambio dinamico e in equilibrio fra dovere e
dono; un dare e avere non confinabile nella sfera economica e, non-
dimeno, di importanza capitale. Anche per questo aspetto dell’humana
conditio la lingua latina ha il termine appropriato: munus, che significa
appunto sia dovere che dono. È veramente munifico, cioè generoso, chi
fa la sua parte nell’assicurare le migliori condizioni all’abitare condiviso,
compresa – è superfluo dirlo – la bellezza degli edifici e dei luoghi.
L’ambivalenza espressa da munus è la chiave che può gettare luce
sull’intera storia della città, oso dire in qualsiasi contesto storico-geografi-
co. Senza il costante rinnovarsi di dovere e dono – in un equilibrio fatto di
reciprocità tra privato e pubblico, tra i singoli nuclei familiari e la comu-
nità urbana nel suo insieme – quegli aggregati complessi che sono le città
(unità inscindibili di urbs, la città fisica, e civitas, la città degli esseri umani)
non sarebbero mai esistiti. Sull’archivolto d’ingresso di palazzo Castani
(sec. XV-XVI) in Piazza S. Sepolcro a Milano è inciso il motto: elegantiae
publicae commoditati privatae; ovvero: questo edificio è concepito per assicu-
rare bellezza civile e comfort privato. Il privilegio di poter erigere l’abita-
zione confortevole per sé e la propria famiglia nel cuore della città veniva
ricambiato dal proprietario sotto forma di dono alla comunità urbana: il
contributo dell’abitazione privata alla bellezza d’assieme e, più in generale,
alla qualità architettonica del luogo pubblico in cui si inseriva.

2. La crisi della città come crisi dell’interazione virtuosa fra


dovere e dono

L’interazione virtuosa di dovere e dono è stata un principio attivo nella


costruzione degli insediamenti umani fintanto che i rapporti comunitari
hanno connotato il consorzio civile. Sono quei rapporti, e una religio

354
Intimità / esteriorità dell’abitare: la casa, la città

ancorata a una profonda sapienza ecologica, a guidare alla radice l’opera


di trasformazione dei contesti al fine di renderli abitabili. La caduta della
bellezza di cui il mondo abitato era capillarmente impastato è tutt’uno
con la disgregazione del tessuto comunitario e con una concezione del
costruire disancorata dalla necessità dell’abitare e dalle sue ragioni di sen-
so. Non c’è tempo qui per indagarne le cause. Mi limito a indicare le
conseguenze più manifeste nella realtà attuale.
Il fatto più eclatante è il contrasto tra l’affermarsi dirompente di una
bellezza coltivata in chiave narcisistica, con l’ossessione del possesso e
dell’esibizione (il corpo, l’abbigliamento, gli oggetti), e la caduta della
bellezza d’assieme (i paesaggi, le città, i luoghi). La ricerca del bello negli
insediamenti umani non è più illuminata dalla concinnitas: manca la guida
di questa tensione ordinatrice che Leon Battista Alberti chiamava «com-
pagna dell’animo e della ragione»8 e qualificava come «nutrita di ogni
grazia e splendore»9. Risultato: la bellezza civile non è più sostanza della
trasformazione del mondo; in particolare non è più il legante di edifici,
luoghi, città e paesaggi, ma viene accanitamente ricercata una bellezza
narcisistica in costruzioni spaesate e autoreferenziali: lacerti nei quali, in
assenza dell’humus e del motore primario – le necessità e il sentimento
dell’abitare condiviso –, la tecnica spadroneggia chiedendo alla forma
un ruolo servile. Con il risultato che tecnica e forma sono giustapposte
e orfane di senso, incapaci di trovare la strada di quell’intermediazione
virtuosa che da sempre si è chiamata architettura e da cui è scaturita la
bellezza delle città.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: i paesaggi metropolitani
tendono da tempo all’omologazione all’insegna di un tratto dominante:
affastellamenti di edifici che competono in altezza, solitudini che si af-
fiancano a solitudini, disgregazione del tessuto fisico e relazionale e l’in-
sorgere di nuove compartimentazioni sociali, palesi o camuffate.
La stravaganza, l’eccesso, l’urlo sono i vicoli ciechi in cui si è in-
filata un’estetizzazione esasperata, incapace di bellezza perché la forma
si è ridotta a maschera che mal nasconde il vuoto di significato e di
senso. Ancora una volta l’artificio non mente: la caduta delle relazioni

8 Alberti, L’architettura, cit., 814. «ut eam quidem esse animi rationisque consortem
interpreter». Alberti, De re ædificatoria, IX, 5.
9 Alberti, L’architettura, cit., 814. «quam eandem profecto omnis esse gratiæ atque
decoris alumnam dicimus». Alberti, De re ædificatoria, cit., IX, 5.

355
Giancarlo Consonni

comunitarie e l’egemonia del capitale speculativo trovano nel paesaggio


contemporaneo una rappresentazione puntuale.
Sono dinamiche che lo stesso Leon Battista Alberti aveva intravisto,
tanto che giudicava «biasimevoli coloro che passano il segno»10; da cui
il monito:

Nessuno che sia saggio – credo – avrà neppure il desiderio di discostarsi


dall’uso generale nell’apprestare la propria casa privata; si guarderà anzi dal
suscitare invidia con l’ ostentazione del lusso11.

Allo stesso modo, il progettista della facciata di Santa Maria Novella


di Firenze raccomandava che agli edifici pubblici venisse assicurata la su-
premazia in fatto di «eleganza e ricchezza degli ornamenti»12, senza che,
con questo, gli edifici privati mai avessero a rinunciare al «decoro» (decus)
e alla «dignità» (dignitas). Consapevole che l’espressione «ornamentorum
copia» («ricchezza degli ornamenti») si sarebbe prestata a equivoci, Al-
berti si premurava di specificare che non si tratta di una qualità che si
conquista con lo scialo, e dunque con l’eccesso e la dismisura, ma con «la
forza dell’ingegno»13. In altri termini, quella «ricchezza» non è da inten-
dersi come ridondanza e ricercatezza insulsa ma come qualità degli edifi-
ci pubblici sapientemente conseguita dall’architettura entro e in sintonia
con il corpo delle città, dove decoro e dignità sono la nota di fondo.

3. Riaffermazione fattiva dei valori urbani come necessità vitale


della convivenza civile

Le raccomandazioni del De re ædificatoria appena richiamate pongono


l’accento sul rapporto fra tessuto insediativo e monumento, altro tratto

10 Alberti, L’architettura, cit., 782. «vituperandos profitear qui modum excesserint […]».
Alberti, De re ædificatoria, cit., IX, 1.
11 Alberti, L’architettura, cit., 782. «Credo, ne volet quidem, qui sapiat, in suis privatis
ædibus parandis egregie differre ab aliis: cavebitque nequid sumptu et ostentatione
contrahat invidiæ». Alberti, De re ædificatoria, cit., IX, 1.
12 «le costruzioni private devono adattarsi di buon grado a farsi superare dalle pubbliche in
tutto ciò che riguarda l’eleganza e la ricchezza degli ornamenti». Alberti, L’architettura,
cit., 784. «privata in omnium ornamentorum elegantia et copia superari se facile a
publicis patientur». Alberti, De re ædificatoria, cit., IX, 1.
13 Alberti, L’architettura, cit., 782. «profecto non opum impendio/ sed vel maxime
ingenii ope comparari atque consistere». Alberti, De re ædificatoria, cit., IX, 1.

356
Intimità / esteriorità dell’abitare: la casa, la città

peculiare della storia delle città che, nelle politiche urbane, sembra oggi
relegato in posizione secondaria. È superfluo osservare come anche que-
sto mutamento sia intrecciato alla crisi delle relazioni comunitarie. Ma
qui insorge un interrogativo: alla luce dell’ampio quadro di problemi che
drammaticamente investono il mondo contemporaneo, le questioni su
cui ho richiamato l’attenzione avendo come guida il tema della bellezza
non sono alla fine irrilevanti? Sotto lo tsunami della metropoli contem-
poranea, non è il caso di dire addio all’urbs, e a tutto quello che essa ha
rappresentato, e di concentrare gli sforzi sulla civitas?
Urbs e civitas, rispondo, sono così connesse e interagenti che la tesi
di una indifferenza delle forme insediative rispetto alla qualità delle rela-
zioni sociali, oltre a essere infondata, non fa che portare acqua al mulino
della deresponsabilizzazione circa i destini del consorzio civile. In altri
termini, se si vogliono perseguire obiettivi come la coesione sociale,
l’integrazione, la sicurezza e, più in generale, se si intende migliorare
la convivenza civile, si devono mettere in campo azioni specifiche sul
fronte degli assetti fisici degli insediamenti umani che siano sinergiche e
coerenti con quelle riguardanti la civitas.
A questo punto qualcuno potrebbe chiedermi di ‘calare le carte’,
indicando in cosa consistano i valori urbani. Per la verità – questa la mia
risposta –, nel parlare di bellezza in architettura, non ho fatto che incro-
ciare, a ogni passaggio, elementi riconducibili alla costellazione di quei
valori. Merito anche de «lo mio duca», Leon Battista, e di quel suo trat-
tato di architettura nutrito da una conoscenza profonda della condizione
umana e della società e da un solido sapere, sperimentalmente acquisito,
in fatto di interdipendenze fra relazioni sociali e assetti spaziali. Non è un
caso che proprio Alberti, nel cercare di spiegare in cosa consista il lavoro
dell’architetto, sia pervenuto a una delle sintesi più incisive in merito alla
natura relazionale dello spazio dell’abitare, laddove afferma che tra casa
e città, tra abitare privato e abitare pubblico, in fatto di organizzazione
degli spazi, sussiste una sostanziale omogeneità:

Nella suddivisione si dimostra tutta l’acutezza d’ingegno e la preparazio-


ne tecnica dell’architetto. La suddivisione infatti è rivolta a commisurare
l’intero edificio nelle sue parti, la configurazione completa di ciascuna
parte in sé, e l’inserimento di tutte le linee e di tutti gli angoli in un unico
complesso, avendo di mira la funzionalità, il decoro e la leggiadria. E se

357
Giancarlo Consonni

è vero il detto dei filosofi, che la città è come una grande casa, e la casa a
sua volta una piccola città, non si avrà torto sostenendo che le membra di
una casa sono esse stesse piccole abitazioni […]14.

Suddividere e porre in connessione: è questa una delle operazioni


sostanziali del fare architettura in senso lato, che si tratti di un edificio, di
singoli luoghi urbani, di parti città, di città nel loro insieme.
Intimità e condivisione: è sul forte legame tra queste due polarità
che si sono da sempre strutturate sia l’abitazione privata che la città.
Lo ribadirà, a più di quattro secoli di distanza dalla stesura del De re
ædificatoria, Ildefons Cerdá nella sua Teoria generale dell’urbanizzazione15
riconoscendo nel binomio rifugio e relazione una delle costanti di lungo
respiro nella storia degli insediamenti umani e un principio motore del
fare città. Ne sono stati plasmati non solo gli interni delle abitazioni
ma anche gli aggregati di edifici che formano i tessuti urbani: la città
storica è configurata dalla strettissima interdipendenza – si potrebbe
dire coappartenenza – di privato e pubblico, di interno ed esterno. Da
cui la grande rilevanza assunta dalla figura della soglia, densa di valenze
semantiche e incarnata in porte e finestre – ma anche in androni, por-
ticati e logge – che, nel mettere in comunicazione interno ed esterno,
concorrono ad attribuire agli stessi spazi pubblici aperti il carattere di
interni, a conferma di come la spazialità della città sia strettamente im-
parentata con quella della casa.
Quelle della soglia e dell’internità dell’esterno sono figure e matrici
dell’organizzazione dello spazio dell’abitare che hanno trovato espres-
sioni fra le più pregnanti ed estese nella città cristiana. Non a caso, del
loro potenziale sinergicamente significante ha dato conto, in restituzioni

14 Alberti, L’architettura, cit., 36. «Tota vis ingenii omnisque rerum ædificandarum ars et
peritia una in partione consumitur. Integri enim ædificii partes et partium singularum
integras, ut ita loquar, habitudines omniumque denique linearum et angulorum
in unum opus consensum et cohesionem una hæc partitio utilitatis dignitatis
amœnitatisque habita ratione commetitur. Quod si civitas philosophorum sententia
maxima quædam est domus et contra domus ipsa minima quædam est civitas, quidni
harum ipsarum membra minima quædam esse domicilia dicentur?». Alberti, De re
ædificatoria, cit., I, 9.
15 Il. Cerdá, Teoría General de la Urbanización y aplicación de sus principios y doctrinas a la
Reforma y Ensanche de Barcelona, Imprenta Española, Madrid 1867.

358
Intimità / esteriorità dell’abitare: la casa, la città

illuminanti, una vasta produzione artistica, in particolare con le interpre-


tazioni pittoriche dell’Annunciazione16.
Il qualificarsi delle piazze come interni a cielo aperto ha favorito il
loro assurgere a “teatri” entro cui i singoli organismi che vi si affacciano
mostrano un’attitudine attorale, con disposizione, postura, carattere – e
quel che incarnano della vicenda storica – che si caricano di significati
e ragioni di senso anche grazie all’interazione con le altre presenze. Gli
edifici vengono così ad assumere il ruolo di dramatis personæ e lo spazio
aperto su cui insistono è sottoposto a tensioni e linee di forza simili a
quelle che si generano su un palcoscenico. In tal modo, la concinnitas non
è confinata nell’architettura dell’edificio ma investe i luoghi dell’abitare
condiviso, introducendo nuove declinazioni della bellezza in senso dialo-
gico e teatrale; da cui un arricchimento ulteriore dell’abitabilità e del senso
di ospitalità dei luoghi urbani.
Se la piazza ha assunto la figura e la funzione di caposaldo su cui si
è storicamente imperniata la struttura urbana e il suo impianto gerar-
chico (la piazza centrale e le piazze di quartiere, a rimarcare l’esistenza
di almeno due livelli nelle relazioni comunitarie), la strada è da sempre
il telaio primario della città. Ha visto bene Louis I. Kahn nel 1971: «la
strada è una delle […] prime istituzioni» della città17. Al grande architetto
statunitense di origini ebraiche va il merito di aver saputo condensare in
poche, limpide parole ragioni costitutive, peculiarità architettonico-spa-
ziali, ruolo e significato della strada urbana: «La strada è una stanza che
esprime un patto»18. E precisa: «Il Patto Umano è un senso di rapporto,
di comunanza […]. È una ispirazione con la promessa del possibile»19.
E ancora: «La strada è una stanza comunitaria. […] Una strada molto
lunga è una successione di stanze che ricevono le proprie connotazioni,
una stanza dopo l’altra, dall’incontro con le strade trasversali»20. A più

16 G. Consonni, Le Annunciazioni e il senso dell’architettura, in G. M. Massari (a cura di),


Tempo forma immagine dell’architettura, Officina, Roma 2010, 41-66.
17 L. I. Kahn, “The room, the street and human agreement” (The American Institute of
Architects: Gold metal acceptance speech, Detroit, June 24, 1971), in AIA Journal,
56, sept. (1971) 33-34, trad. it. di T. Fiori, La stanza, la strada e il patto umano, in Ch.
Norberg-Schulz (a cura di), Louis I. Kahn: idea e immagine, Officina, Roma 1980,
133.
18 Ibid., 132.
19 Ibid., 132-133.
20 Ibid., 132.

359
Giancarlo Consonni

di quarant’anni di distanza dal proclama «Il faut tuer la rue corridor»21


enunciato da Le Corbusier nel 1929, Kahn dava la risposta più chiara e
convincente alle proposte antiurbane dell’architetto svizzero22: «l’urbani-
stica [può] cominciare prendendo coscienza di questa perdita e cercando
di reintegrare la strada, dove la gente vive, impara, compera e lavora, nel
suo ruolo di stanza comunitaria»23.
Le opposte prospezioni sul destino della strada urbana formulate da
Le Corbusier e da Louis Kahn sono indicative del divaricarsi delle vi-
sioni urbanistiche nella contemporaneità. Al centro c’è il diverso modo
di considerare quanto ci è pervenuto dalla storia: il suo portato di cul-
tura e di senso. Aspirando a una palingenesi all’insegna del connubio tra
tecnica e natura – una tecnica ritenuta sempre e comunque salvifica e
una natura intesa come fatto primigenio –, il Le Corbusier urbanista fa
piazza pulita della vicenda urbana; all’opposto Kahn, avendo a cuore la
riumanizzazione del mondo, punta a riproporre nella contemporaneità,
reinterpretandole, le conquiste più significative della storia della città.
Nell’architettura degli spazi aperti pubblici uno dei punti più alti è
rappresentato dalla strada fiancheggiata da portici su entrambi i lati. Si
tratta di una delle invenzioni più straordinarie della città cristiana, frutto
della fusione della strada porticata della romanità antica con il tessuto
abitativo. Sulla scia di Louis Kahn, potremmo affermare che la strada
porticata della cristianità è una successione di interni basilicali (con il
cielo a fare da volta alla navata principale). In questo modello, prediletto

21 «Occorre uccidere la strada corridoio». L’affermazione compare in uno dei disegni


prodotti da Le Corbusier nella Conferenza tenuta il 18 ottobre 1929 a Buenos Aires
nella sede dell’associazione “Amigos de las Artes” (Le Corbusier, Précisions sur un
état présent de l’architecture et de l’urbanisme, Crès, Paris 1930, 195). L’“uccisione” è
motivata da una diagnosi schematica, enunciata quattro anni dopo dallo stesso Le
Corbusier, secondo cui «Par le bruit, le gaz et la poussière la rue est devenue un
crime» («A causa del rumore, del gas e della polvere la strada è diventata un crimine»).
4e congrès international d’architecture moderne. Rapport des séances du lundi 31 juillet 1933,
6. Archivio Piero Bottoni (Politecnico di Milano), Documenti scritti. 11.10. Enti,
istituzioni, manifestazioni.
22 Su questo rinvio a G. Consonni, “Urbanismo. La conferenza di Le Corbusier a
Milano del 19 giugno 1934”, in A. Bottoni, Le Corbusier «Urbanismo», Milano 1934,
Mazzotta, Milano 1983, 36-47; Id., Conférence à Milan, in M. Talamona (a cura di),
L’Italie de Le Corbusier, XVe Rencontres de la Fondation Le Corbusier, Editons de La
Villette, Paris 2010, 188-199; Id., Le Corbusier: rivoluzionario, sublime, antiurbano. Ogni
uomo è tutti gli uomini, Bologna 2012.
23 Kahn, 132.

360
Intimità / esteriorità dell’abitare: la casa, la città

da Leon Battista Alberti24, rifulge il carattere ospitale dell’architettura


urbana. L’esempio più eloquente è rappresentato da Bologna, i cui quasi
40 chilometri di vie porticate, oltre a infondere una straordinaria qualità
alla città, assumono un alto valore simbolico in quanto risultato di un
progetto condiviso (saldamente ancorato a un’idea di abitare) e di una
lotta tenace. A Bologna i portici continui nell’edificato compaiono gros-
so modo, nella stessa fase storica – i secoli XII e XIII – in cui, come in
molte altre città italiane, il paesaggio urbano assumeva l’aspetto di «sel-
va»25 con il proliferare delle torri gentilizie, veri e propri fortilizi verticali
eretti nel corpo urbano dalle famiglie più abbienti «a ostentazione di
dovizie e di potenza, a loro schermo e offesa de’ nemici privati, a osta-
colo delle leggi vendicatrici»26. Quei portici continui rappresentavano
l’opzione opposta alla città «puntaspilli» (Lewis Mumford): non la guerra
intestina, ma il ‘dono’ e i legami basati sulla reciprocità si dimostravano
l’unico modo per rendere possibile e feconda la convivenza civile. La
rinuncia dei proprietari a una porzione di lotto edificabile fiancheggiante
la strada per far posto ai portici veniva infatti ricambiata da un notevole,
sinergico accrescimento del carattere accogliente e protettivo della con-
trada e della città tutta.
Fatta salva la specifica personalità di ciascuna, le città italiane presen-
tano non pochi tratti in comune con Bologna. Ma, più nitidamente delle
altre, la vicenda bolognese ci invita a non sottovalutare i molti segnali
involutivi che si manifestano nel mondo contemporaneo. Da tempo,
negli agglomerati insediativi la nota di fondo è diventata la compresenza
degli edifici nell’indifferenza. E questo perché gli organismi edilizi ten-
dono a ridurre il rapporto con il contesto al solo legame con le reti, a
cominciare dai trasporti e dalle telecomunicazioni; un rapporto egoistico

24 «Quanto alle strade di città, le adorneranno ottimamente, oltreché una buona


pavimentazione e una perfetta pulizia, due file di porticati di ugual disegno, e di
case tutte di una stessa altezza». Alberti, L’architettura, 710. «Atqui viam quidem
intra urbem, præter id quod recte constratam et omnino mundissimam esse oportet,
bellissime ornabunt porticus lineamentis pariles, et hinc atque hinc mutuo coæquatæ
domus ad lineam et libellam». Alberti, De re ædificatoria, VIII, 6.
25 G. Gozzadini, Delle torri gentilizie di Bologna e delle famiglie alle quali prima appartennero,
Zanichelli, Bologna 1875, 10. Delle città italiane costellate di torri private, oltre a
Bologna, Gozzadini nomina Padova, Vicenza, Verona, Cremona, Brescia, Pavia,
Modena, Pistoia, Lucca, Firenze, S. Gimignano, Siena, Roma, Genova e Ascoli
Piceno.
26 Ibid., 7.

361
Giancarlo Consonni

puntualmente registrato nel carattere chiuso e introverso degli edifici,


malcelato nelle torri terziarie dagli involucri vetrati che le trasforma-
no in teche sigillate, più evidente nelle villettopoli (Pierluigi Cervellati)
laddove si assiste al rintanarsi delle case dietro alte siepi. Ne derivano
paesaggi sempre più estesi in cui si respira aria da bunker, dove la soglia
è abolita nel suo ruolo e significato di legame, di intermediazione, di
penombra, di «punto d’incontro tra silenzio e luce»27. In questi paesaggi,
o si è dentro o si è fuori, con la sensazione dominante, negli spazi aperti,
di essere sempre e comunque fuori posto. L’esatto contrario di quanto
è ancora possibile riscontrare nelle città storiche nei cui ‘interni’ aperti
pubblici viene esaltato tanto il carattere affabile quanto la propensione
all’affabulazione degli aggregati; qualità che si manifestano nella capacità
di alimentare il desiderio e il piacere della scoperta delle potenzialità della
convivialità, da cui il generarsi di una narrazione nella quale chi passeggia
è insieme interprete e destinatario. «È infatti cosa di non poco conto –
afferma Leon Battista Alberti a proposito delle strade delle città – che chi
vi cammini venga scoprendo a mano a mano, quasi ad ogni passo, nuove
prospettive di edifici»28.
Nel mondo in cui viviamo la narrazione urbana si è interrotta: i
nuovi agglomerati sono muti tanto sul fronte della memoria quanto su
quello della coltivazione del desiderio e del sogno. Gli edifici, se parlano,
è per esibirsi in vaniloqui.
Tutto questo ha a che vedere con le relazioni sociali e con i modi
di organizzazione dell’habitat, di cui, per cecità diffusa, si misconosce la
natura intima: il loro essere elementi strutturali e persistenti della politi-
ca, intesa come l’insieme delle pratiche che regolano e promuovono la
convivenza civile. Tra i modi di organizzazione dell’habitat e la politica
corre infatti un legame profondo. È ancora una volta la città storica eu-
ropea a insegnarcelo: i luoghi in cui si è storicamente articolata la scena
urbana, nell’accogliere il convivere civile, ne hanno rispecchiato regole
e modi conseguendo un elevato grado di ospitalità e di valenza simbolica
e allo stesso tempo una forte potenzialità pedagogica. La concinnitas ha
così potuto distendersi nell’urbanitas e questa, a sua volta, in un circolo

27 Kahn, “La stanza, la strada e il patto umano”, cit., 136.


28 Alberti, L’architettura, cit., 306. «Etenim et quanti erit hoc, ut rectantibus ad singulos
gradus sensim novæ ædificiorum facies obiiciantur […]». Alberti, De re ædificatoria,
cit., IV, 5.

362
Intimità / esteriorità dell’abitare: la casa, la città

virtuoso, ha potuto nutrire la concinnitas volgendola ai registri dell’affabi-


lità, del dialogo, dell’interazione teatrale e dell’affabulazione.
Non reagire alla caduta di tutto questo, non lavorare con ogni mez-
zo per invertire la rotta, non potrà che avere, sul medio lungo periodo,
conseguenze assai gravi sul terreno delle relazioni sociali.

4. Le città vanno armate di convivenza civile

Si dirà che dai riferimenti alla città storica qui enunciati emerge un qua-
dro edulcorato e idilliaco in cui non si tiene conto che le città sono
sempre state, oltre che teatro di conflitti (anche violenti), un terreno di
distinzione sociale, fino alla segregazione. Come negarlo? Ciò che ho
inteso rimarcare è che il quadro sarebbe ancora più drammatico senza
il rinnovarsi dei valori urbani nelle relazioni e nei comportamenti indi-
viduali e sociali e senza la loro incarnazione nella città fisica. L’architet-
tura dei luoghi urbani assolve infatti alla funzione di monimentum, dove
memoria e testimonianza danno vita al più antiretorico dei monumenti,
il tessuto urbano, il cui messaggio è verificato e reso palpabile dall’uso.
Certo: molti fatti, recenti e lontani, ci mostrano come sia insosteni-
bile la tesi per cui la bellezza può essere un argine alla violenza – come
invece riteneva Alberti, convinto che «la bellezza fa sì che l’ira distrug-
gitrice del nemico si acquieti e l’opera d’arte venga rispettata»29 –; ma
questo non ci autorizza a qualificare la bellezza come fatto inutile, tanto
più quanto più essa si fa manifestazione civile: corpo e anima della città.
Ho cercato di dare conto di una bellezza consunstanziale ai modi di
organizzazione dell’habitat ispirati al rispetto reciproco, alla condivisione
e alla coesione sociale. Questi valori non sembrano più fare da guida
nelle pratiche di conservazione/trasformazione degli insediamenti; disat-
tesi sul piano politico, finiscono però per ripresentarsi irruentemente, in
negativo, negli episodi in cui viene in evidenza la carenza di sicurezza. La
questione della sicurezza si impone così nella cosiddetta «agenda politi-
ca», senza che tuttavia coloro che hanno la responsabilità delle decisioni
relative al bene comune, e gli stessi cittadini, si interroghino sulle cause

29 Alberti, L’architettura, cit., 446. «pulchritudo etiam ab infestis hostibus impetrabit, ut


iras temperent atque inviolatam se esse patiantur». Alberti, De re ædificatoria, cit., VI,
2.

363
Giancarlo Consonni

e agiscano di conseguenza. Si tratta di problemi complessi la cui soluzio-


ne, se non può essere delegata per intero alla triade urbanistica, disegno
urbano, architettura, ha comunque a che vedere, e non poco, con questi
ambiti. Vi assumono infatti un peso non trascurabile i rapporti che inter-
corrono fra gli assetti urbanistico-architettonici e i modi delle relazioni
interpersonali e sociali.
Ma, appunto, da molto tempo ormai, quando si affrontano scel-
te rilevanti in fatto di insediamenti umani, tutto questo è lasciato in
ombra. La gran parte degli amministratori pubblici ritiene di assolvere
egregiamente al proprio compito ottemperando a incombenze di rou-
tine (definizione degli indici di edificabilità; verifica delle dotazioni di
servizi e spazi verdi rispetto a quanto previsto per legge; miglioramento
dell’efficienza in materia di viabilità e trasporti; infine, nel migliore dei
casi, un occhio alla domanda insoddisfatta di abitazioni per la popola-
zione meno avvantaggiata). Ma è una trama debole; spesso volutamente
debole, in quanto si ritiene che la trasformazione dei contesti insediativi
spetti all’iniziativa privata e sia interesse della collettività assecondarne
pretese e visioni. Si fanno invece sempre più urgenti un programma e
una regia pubblica che sappiano portare l’iniziativa privata, mai come
in questi decenni così aggressiva, a cooperare fattivamente a un’impresa
controcorrente, quale quella del fare città nell’era della metropoli.
Vi è la necessità di mobilitare tutto il sapere iscritto nella città sto-
rica, e insieme il massimo delle energie intellettuali e quanto è possibile
delle risorse economiche della società per contrastare la disgregazione
insediativa. Come ho già detto, la disgregazione nasce dal fatto che la
trasformazione dei contesti non è più guidata dall’abitare e dal colĕre ma
dalla mera ricerca della massimizzazione della rendita immobiliare che
si traduce e nella costruzione di contenitori edilizi ancorati alle reti di
trasporto ma del tutto indifferenti all’intorno e nella formazione di gated
communities, più o meno camuffate. Ben pochi si preoccupano del pro-
blema della coesione sociale e di dar vita a luoghi atti ad accogliere e a
indirizzare la convivenza civile.
Per invertire questa tendenza devastante, accanto alle infrastrutture
primarie (acqua, luce, gas, fognature, viabilità, trasporti, telefonia ecc.)
e alle infrastrutture secondarie (i servizi sociali, dalla scuola alla sani-
tà), vanno riconosciute e quanto più potenziate quelle che possiamo

364
Intimità / esteriorità dell’abitare: la casa, la città

chiamare le infrastrutture della socialità: quell’insieme di elementi (non solo


fisici) da cui dipende non poco la qualità delle relazioni di prossimità e in
generale la qualità urbana delle formazioni insediative, di cui ho cercato
qui di dare conto. Armare le città di convivenza civile: è questa la strada
da perseguire.
Qualcuno potrebbe obbiettare che il quadro tracciato è prevalente-
mente rivolto al passato, che i miei commenti sono intrisi di nostalgia e
che quanto propongo non fa i conti con il carattere multietnico assunto
dalla gran parte delle metropoli contemporanee.
Rispondo così: le culture etniche in cui si sono formati molti indivi-
dui confluiti nei contesti metropolitani, se considerate nelle loro radici e
nelle forme dell’abitare da esse espresse, mostrano non poche parentele e
vicinanze tra loro, mentre appaiono tutte egualmente distanti dalle forme
insediative che connotano le metropoli e le megalopoli contemporanee,
caratterizzate dal dilagare di disurbanità e deserto di senso. La proposta
di dare la massima importanza alle infrastrutture della socialità nella riquali-
ficazione dell’habitat, vuole anche essere l’indicazione del terreno di una
possibile alleanza fra le diverse culture in cui, attraverso la valorizzazione
delle multiformi e specifiche radici, sia possibile trovare la strada per una
nuova umanizzazione del mondo e per una nuova magnificenza civile.

365
Anthropotes 33 (2017)

The First Dwelling Place:


Childhood and the Structure of Familial Relationships

Antonio López*

SUMMARY: In light of some testimonies of adults who were raised in gay


households, this essay seeks to answer the question: “why is it that, in order
to be himself, a child needs a father and a mother and not simply two caretak-
ers?” To reflect on this question, three preliminary questions are raised: What
does it mean to be a child, a father, and a mother? How and why are the filial,
nuptial, and parental relations constitutive of the human person? Finally, why
do these relations require sexual differentiation? After a brief clarification of the
nature of our inquiry, and an account of what these children experienced grow-
ing up in gay households—as articulated once they reached adulthood—the
essay offers a response to the central question concerning the child’s need for a
father and mother.

Reflections on the family often inhabit the point of view of the man and
woman who freely accept the call to become one flesh, a communion
of life and love1. Indeed, the family stems from a fruitful marriage, and
the child, a deeply desired gift who is irreducible to his parents, is fruit
and expression of the conjugal union’s transcendental dimension. Much

* Provost / Dean and Professor of Dogmatic Theology at the Pontifical John Paul II
Theological Institute, Washington D.C.
1 Second Vatican Council, Gaudium et spes, no. 48, AAS 58 (1966), 1025-1120, at
1067.

367
Antonio López

thought has been given to the intrinsic relation between the conjugal
embrace, children, and parents’ educational responsibility towards their
children2. Yet, either because children are never guaranteed or because
one limits childhood to the developmental stage preceding the full ex-
ercise of reason and will, reflections on the family are, with a few rare
exceptions, prone to miss what childhood discloses of the nature of both
conjugal union and the family. This paper therefore considers marriage
and the family as a dwelling place from the point of view of the child.
As we pursue this task, we cannot ignore the fact that recent bio-
technological and legal developments have allowed Western societies
to grant gay and lesbian relationships equal status to natural marriage.
Without this capacity to legally adopt a child or to “procure” one by
technologically bypassing the conjugal embrace of two sexually differen-
tiated persons, gay and lesbian couples could not claim full equality with
natural families. While much public space has been given to children
raised within gay households who speak positively of their upbring-
ing3, there are examples of children from such households whose love
for the persons who reared them coexisted with the perception that
something was amiss in their homes and who, having come as adults to
an understanding of what it was, have decided, for everyone’s sake, to
argue against gay marriage and against children being brought up in gay
households4. There are also an increasing number of children conceived

2 See, among others, Paul VI, Humanae vitae, AAS 60 (1968), 481-503; John Paul
II, Familiaris consortio, AAS 74 (1982), 81-191; John Paul II, Mulieris dignitatem, AAS
80 (1988), 1653-1729; John Paul II, Letter to Families, AAS 86 (1994), 868-925; John
Paul II, Catechesi sull’amore umano (1979-1984) in Insegnamenti II (1979) – VII (1984);
Francis, Amoris laetitia.
3 See, among many, A. Garner, Families Like Mine: Children of Gay Parents Tell It Like
It Is, Harper, New York 2005; N. Howey – El. Samuels (eds.), Out of the Ordinary:
Essays on Growing Up with Gay, Lesbian, and Transgender Parents, St. Martin’s Press,
New York 2000; S. Goldberg – Ch. B. Rose (eds.), And Baby Makes More: Known
Donors, Queer Parents, and Our Unexpected Families, Insomniac Press, Ontario 2009; T.
Fakhrid-Deen, Let’s Get This Straight: The Ultimate Handbook for Youth with LGBTQ
Parents, Seal Press, Berkeley, CA 2010; and the websites of GLAAD (Gay and Lesbian
Alliance Against Defamation), PFLAG (Parents, Families and Friends of Lesbians and
Gays), Family Equality Council, and GLSEN (Gay, Lesbian, and Straight Education
Network).
4 See, among others, R. O. López – R. Edelman (eds.), Jephthah’s Daughters: Innocent
Casualties in the War for Family “Equality”, CreateSpace Publishing, Los Angeles 2015;
D. Stefanowicz, Out from Under: The Impact of Homosexual Parenting, Annotation
Press, Enumclaw, WA 2007; Redemption Press, 2014, citations refer to 2007 edition;

368
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

through sperm or egg donation who, while grateful for their existence
and the parents who welcomed them, now speak out against the way
they came to be5. Given the legal recognition that has been conferred
upon gay unions and gay adoption in Western cultures, one may won-
der whether there is still reason to attend to this latter group’s testi-
mony6. Nevertheless, these children of gay couples knew early on of
an irremovable desire that went unanswered. Dawn Stefanowicz, raised
by a gay father and a conniving, passive mother, wrote that “same-sex
marriage” deprives children “of their biological mother and/or biolog-
ical father… Children’s identity and security are robbed forever: What
child does not need to know his or her biological ancestral roots, next-
of-kin and genetic and familial characteristics (such as physical appear-
ance, medical history, disposition, ethnic and religious origins and other
qualities)?”7 Robert López, himself raised by two lesbians, expresses the
same need for relations of origin: “Adults’ same-sex attraction does not

D. Shick and Help 4 Families, When Hope Seems Lost, Xulon Press, Maitland, FL
2011; D. Shick – J. Gramckow, My Daddy’s Secret, Xulon Press, Maitland, FL 2008;
K. Faust, askthebigot.com.
5 A. S. Newman (ed.), The Anonymous Us Project: A Story-Collective on 3rd Party
Reproduction, Broadway Publications, New York: 2013; A. S. Newman, Anonymous
Us, vol. 2, 100+ Stories from the Front Lines of Third Party Reproduction, Pronoun,
New York 2016; E. Marquardt – N. D. Glenn – K. Clark, My Daddy’s Name
Is Donor: A New Study of Young Adults Conceived through Sperm Donation, Institute for
American Values, New York 2010. Noteworthy are the documentaries produced
by Jennifer Lahl on third party reproductive technology: Eggsploitation; Anonymous
Father’s Day; Breeders: A Subclass of Women? and the documentary short Maggie’s Story.
More information can be found at the website of the Center for Bioethics and Culture
Network, http://www.cbc-network.org/film/.
6 A. Garner writes that “Until LGBT parenting rights are equivalent to those of
straight parents, the public will continue to scrutinize the lives of children of LGBT
parents. It’s unfortunate that it is necessary to counter the claims that these children are
negatively affected by their parents’ sexuality. Parents need to be sensitive to how that
scrutiny may be affecting their children’s perceptions of themselves. By celebrating
differences rather than denying them, parents demonstrate to their children that they
should not have to be “just like” straight families in order to obtain equal rights”,
Garner, Families Like Mine, 36. See, among many, Massachusetts v. U.S. Department
of Health and Human Services, 698 F. Supp. 2d 234 (2010); J. Stacey- T. J. Biblarz,
“(How) Does the Sexual Orientation of the Parents Matter?”, in American Sociological
Review 66, no. 2 (2001)159-83.
7 Brief for D. Stefanowicz and D. Shick as Amicae Curiae in Support of Respondents,
Obergefell v. Hodges, 576 U.S. ___ (2015) (No. 14-556), p. 14 in http://sblog.
s3.amazonaws.com/wp-content/uploads/2015/04/14-556_Dawn_Stefanowicz_
and_Denise_Shick.pdf; see also Newman, Anonymous Us Project, 48-9.

369
Antonio López

magically or by judicial decision cause a child to stop longing for and


needing a mother and a father”8.
These testimonies of adult children raised in gay households raise a
question of great importance regarding the structure of the family that
will be the main focus of this essay: why is it that, in order to be himself,
a child needs a father and a mother and not simply two caretakers? To
reflect on this question, we must first elucidate three preliminary ques-
tions: What does it mean to be a child, a father, and a mother? How
and why are the filial, nuptial, and parental relations constitutive of the
human person? Finally, why do these relations require sexual differenti-
ation? A brief clarification of the nature of our question (part 1) and an
account of what these children experienced growing up in gay house-
holds, as articulated by them once they became adults (part 2), will lay
the groundwork for a response to the central question concerning the
child’s need for a father and mother (part 3)9.

1. A Cultural Quandary

What one says about the adequacy of raising children in gay households
depends on the perception one has of man’s being and of the meaning
of human existence in time. Christianity, which brought the revelation
of the meaning of person and of every human being’s incomparable

8 Brief for R. O. López and B. N. Klein as Amici Curiae in Support of Respondents,


Obergefell v. Hodges, 576 U.S. ___ (2015) (No. 14-556), p. 34 in https://www.
supremecourt.gov/ObergefellHodges/AmicusBriefs/14-556_Robert_Oscar_Lopez_
and_BN_Klein.pdf.
9 It is important to mention the time it takes for every child to put into words what
he or she sees, undergoes, feels, and thinks growing up in a gay household or in
a family. A child learns in time what true nuptial, paternal, and maternal love is
about. Yet, the child, even before he is able to articulate his experience, does have
a sense of love’s truth inasmuch as what he lives and discovers at home corresponds
to his being and to his most fundamental desires for love, truth, freedom, justice,
and beauty. Our present reflections will limit themselves to what adult children of
gay households have conveyed in adulthood about their upbringing and will offer
theological and metaphysical arguments to support what they experienced and
communicated. Undoubtedly, a full elucidation of their experience would require,
among other things, a Trinitarian unfolding of the meaning of childhood and an
account of the psychological development of the child, including its relation to the
ensuing arguments here presented. Unfortunately, these tasks must be left for another
time.

370
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

dignity, understands man to be created from nothingness in the im-


age of God; he is thus called to participate in the love that created and
redeemed him, and he must respond to this call with his being and
throughout his historical existence. Man’s greatness is the vocation to
adoptive divine sonship, to communion with the triune God. Revealing
this call to be the final destiny of every person and making the pursuit
of this destiny possible, Christianity grounds and clarifies the dignity of
being a son or daughter—a dignity that consists in owing one’s existence
to another and reciprocating this gift of being by giving all of oneself
back to the Creator. Moreover, Christianity shows that to become an
adult is to grow into the truth of childhood. To become childlike (Mt
18:3) is to live existence as conscious, free, and creative reciprocation to
one’s source—ultimately, God—or, in other terms, to grow ever more
deeply into grateful and fruitful dependence on the origin. One never
outgrows childhood because one never leaves behind the condition of
completely owing one’s being to another and depending on this other10.
Differing from this view, Western culture, since the early years of
modernity, deems man to be an autonomous rational chooser11. In this
case, the child is considered to be either a “not-yet adult,” rightly des-
tined to grow out of gullibility and ignorance12, or a “non-adult,” such
that “child” constitutes a peculiar identity13. The predominant percep-
tion, however, is to see the child as fundamentally equal to the adult14.
Accordingly, his growth, rather than being a maturation stemming from
the response to his origin, is a cognitive15, psychological16, and moral

10 See H. U. von Balthasar, Wenn ihr nicht werdet wie dieses Kind, Johannes Verlag,
Einsiedeln 1988; F. Ulrich, Der Mensch als Anfang: Zur philosophischen Anthropologie
der Kindheit, Johannes Verlag, Einsiedeln 1970.
11 See, among others, J. Locke, Second Treatise of Government (1689); J. Locke, Some
Thoughts concerning Education (1693).
12 J.-J. Rousseau, Emile (1762); A. Krupp, Reason’s Children: Childhood in Early Modern
Philosophy, Bucknell University Press, Lewisburg 2009.
13 Ph. Ariès, L’Enfant et la vie familiale sous l’Ancien Régime, Plon, Paris 1960; N.
Postman, The Disappearance of Childhood, 1st Vintage Books ed., Vintage Books, New
York 1994.
14 G. B. Matthews, Philosophy and the Young Child, Harvard University Press,
Cambridge, MA 1994.
15 J. Piaget, The Child’s Conception of the World, trans. Joan and Andrew Tomlinson,
Harcourt, Brace and Company, New York 1929.
16 S. Freud, Totem and Taboo: Some Points of Agreement between the Mental Lives of Savages
and Neurotics, trans. James Strachey, Norton, New York 1950.

371
Antonio López

development towards self-conscious rationality and self-determining


freedom that educational institutions, society, and the state should fos-
ter17. This view rejects the Christian conception of childhood as alien-
ating since the latter, by emphasizing man’s constitutive dependence on
God, stalls freedom’s genuine self-determination and subjugates reason
and critical thinking to tradition and clerical power.
When it comes to bear on the experience of children raised in gay
households, this modern anthropology seeks to defend the goodness
of the care and education that such children receive by showing that
they fare just as well as children raised by natural families—that is, they
can live equally well the successful, adult lives of autonomous rational
choosers. Sociological studies are offered to buttress this claim18. Modern

17 J. Piaget, The Moral Judgment of the Child, trans. Marjorie Gabain, Free Press, New
York 1965; L. Kohlberg, Essays on Moral Development, vols. 1 and 2, Harper and
Row, San Francisco 1981, 84); J. Dewey, Democracy and Education: An Introduction to
Philosophy of Education, Macmillan, New York 1916.
18 Certainly valuable, sociological accounts reflect trends that, if studied in an unbiased
and rigorous manner, help us perceive the truth of principles that inform both the
questions at hand and the conclusions of the research. In this regard, although much
debated, P. Sullins’s studies are very helpful: P. Sullins, “Emotional Problems among
Children with Same-Sex Parents: Difference by Definition”, in British Journal of
Education, Society and Behavioural Science 7, no. 2 (2015) 99-120; P. Sullins, “The
Unexpected Harm of Same-Sex Marriage: A Critical Appraisal, Replication, and Re-
Analysis of Wainright and Patterson’s Studies of Adolescents with Same-Sex Parents”,
in British Journal of Education, Society and Behavioural Science 11, no. 2 (2015) 1-22; P.
Sullins, “American Catholics and Same-Sex ‘Marriage’”, in Catholic Social Science
Review 15 (2010) 97-123. See also W. R. Schumm, “A Review and Critique of
Research on Same-Sex Parenting and Adoption”, in Psychological Reports 119, no.
3 (2016) 641-760. Knowing how many children of gay couples there are—which
is difficult to find out—and how they fare as they grow up does not tell us what the
child is, although it does help us see it. “I don’t think statistics,” wrote R. López, “can
capture what it means not to have a dad in your life” (López, Jephthah’s Daughters,
cit., 52). His statement, of course, is a critique of ideologically conducted statistical
research, not a claim that sociology must provide something that in principle is beyond
its competence. Legal arguments, like those coming from the psychological sciences,
also presuppose a conception of the human being—and hence of the child and the
family—that informs their reasoning. The fact that legal reasoning rejects as irrational
those arguments protesting against the equality of gay unions with natural marriages
and against gay adoption does not do away with what human experience of familial
relations reveals of both human nature and of these relations’ character. In fact, this
experience puts into question the theological anthropology presupposed by culturally
dominant legal and psychological pronouncements. Thus, focusing more directly on
the metaphysical (and theological) dimensions of our question will help us gain more
clarity in its regard and help the work of these other sciences become more robust.
See on this point D. Crawford, “Gay Marriage, Public Reason, and the Common
Good”, in Communio: International Catholic Review 41 (2014) 380-437.

372
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

anthropology, in maintaining that a human being is constituted by the


capacity to enact self-determined choices, also claims that experience
and history create and define human nature. The simple observation that
not every child raised in a natural family embraces a heterosexual life-
style, just as not every child reared in a gay household adopts a gay life-
style, is offered to prove the priority of history over nature. Everyone, so
the claim goes, has the capacity to creatively design his or her own histo-
ry. The self-written narrative that accounts for one’s existence—which
can be modified at will to better accommodate changing circumstances,
ideas, or fancies—is what gives it its meaning. Thus, according to mod-
ern anthropology, every experience of childhood lived in any kind of
household has the same right to claim truth for itself.
It would be fruitless to examine the truth of what adult children
of gay households say about themselves if the same abstract methodol-
ogy and anthropological assumptions governed our reflections. Rather
than presuming that the human being is simply an autonomous ration-
al chooser and instead of seeking help from sociological and positivist
sciences to show the rationality of one position or another, it is better
to consider these adult testimonies in light of the event of birth, which
stands at the beginning of each person’s life and informs all subsequent
knowledge of oneself and one’s every action. The mystery of birth is
a permanent reminder that man is given to himself and that he can be
himself, know, and will only because he continuously receives his be-
ing. The issue, therefore, is not that of rejecting rationality or the adult
exercise of human freedom, but of looking at them without forgetting
that man is given to be a rational, free, embodied spirit. By not taking for
granted the fact that life is given, we will be able to heed the experience
of adult children of gay households and discover more profoundly the
gift-character of man’s being. Considering the mystery of birth will also
enable us to better discern why sexually differentiated parents are needed
for the relations of origin (childhood, fatherhood, motherhood) to exist.

2. Disordering Families

We will organize what children raised in gay and lesbian households


learned about themselves and their origins around three main issues: the

373
Antonio López

perception of the nature of love, the traits that characterize fatherhood


and motherhood, and the child’s awareness of his or her own dignity19.
As will be seen, the absence of a decisive element in each one of these
areas yields several paradoxes that reveal the inadequacy of the anthro-
pology undergirding the claim to family equality.

a. Loving without Bodies

In her amicus curiae brief opposing the legalization of gay marriage, B.


N. Klein, a Jewish woman raised by two lesbians, wrote that “many
adults are capable of child-care and many love children. But adult love
does not make a family”20. What is at stake, according to this statement,
is not whether gay couples can take care of children but whether their
reciprocal love can be the origin of a family. In DeBoer v. Synder (2014)
we find a lucid defense of their capacity to form a family: “Over time,
marriage has come to serve another value—to solemnize relationships
characterized by love, affection, and commitment. Gay couples, no less
than straight couples, are capable of sharing such relationships. And gay
couples, no less than straight couples, are capable of raising children and
providing stable families for them. The quality of such relationships, and
the capacity to raise children within them, turns not on sexual orienta-
tion but on individual choices and individual commitment”21.
It is crucial to see that these assertions in favor of gay households rest
on a twofold assumption. First, they presume that same-sex attractions

19 It is important to clarify that the following does not represent a personal judgment
on individuals with same-sex attractions. For the most part, the children of gay and
lesbian couples we are dealing with here express a deep love for their parents. See,
e.g., Stefanowicz, Out From Under, cit., 205. By “homosexuality” I mean, with the
Catechism of the Catholic Church, those “relations between men or between women
who experience an exclusive or predominant sexual attraction toward persons of the
same sex. It has taken a great variety of forms through the centuries and in different
cultures. Its psychological genesis remains largely unexplained. Basing itself on Sacred
Scripture, which presents homosexual acts as acts of grave depravity (cfr. Gn 19:1–29;
Rom 1:24–27; 1 Cor 6:10; 1 Tm 1:10), tradition has always declared that ‘homosexual
acts are intrinsically disordered,’” (CCC, no. 2357). See also Congregation for the
Doctrine of the Faith, Persona humana, no. 8. My concern in the following is with
the ontological, anthropological order implied in gay and lesbian households.
20 Brief for R. O. López and B. N. Klein as Amici Curiae, cit., 29.
21 DeBoer v. Snyder, 772 F.3d 388, 20 (6th Cir. 2014), http://www.opn.ca6.uscourts.
gov/opinions.pdf/14a0275p-06.pdf.

374
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

and relations can be identified with spousal love, because they reductive-
ly construe such love as feelings of intimacy, which may then motivate a
voluntaristic commitment22. Love is no longer the affective recognition
of the truth of the other, a recognition that carries within itself all of the
lover’s personhood and sets him on the path toward fulfillment of the
needs that constitute every human person. If loving no longer means
affirming the other, that is, recognizing what the other is—a gift—and
embracing his or her otherness because the other is and is as he or she
is given to be, then “love” does not give rise to a fruitful union. In-
stead, love, the unity it generates, and its members are identified with
the feelings that lovers experience. Feelings are, of course, important,
but only inasmuch as they allow one to see what one thinks and what
things are; they cannot define what things are, especially in the case of
people and relations. Second, this semantic transgression of the meaning
of love is only possible if one also assumes that the human body is no
more than a res extensa, pure matter that can supposedly be mastered
by human freedom. One significant example of the attempt to master
the body in this way is the use of third-party, artificial reproductive
technologies (ARTs). Alana Newman, a donor-conceived woman, has
correctly indicated that the legitimatization of heterosexual couples’ re-
course to ARTs teaches that “biology does not matter for the well-be-
ing of the child”23. Once this principle is established, the parents’ gen-
der is no longer of consequence, and the number of parents one child

22 As A. Giddens writes, “Intimacy is above all a matter of emotional communication,


with others and with the self, in a context of interpersonal equality.” A. Giddens,
The Transformation of Intimacy: Sexuality, Love and Eroticism in Modern Societies, Stanford
University Press, Stanford, CA 1992, 130. Since, according to Giddens, intimacy
requires autonomy, democracy is the ideal that governs and rules intimate relations
(ibid., 188). For a synthetic account of the nature and history of this conception of
love, I would like to refer the reader to my article “Marriage’s Indissolubility: An
Untenable Promise?,” in Communio: International Catholic Review 41 (2014) 269-305.
23 López, Jephthah’s Daughters, 125. It is also important to recall that the same logic
surfaces in arguments that, opposing Humanae vitae, defend contraception. In fact, if
contraceptive technological means are employed to allow the use of sexuality without
one’s having to deal with its intrinsic fruitfulness—hence making possible and securing
the separation of love from sex and of these from fruitfulness—then reproductive
technologies can be used to aid couples who cannot conceive either because they are
infertile or because they are of the same sex. We also note that, since the criterion
in both cases is the parents’ “will”, ARTs and abortion fall under the same logic.
Whereas the first affirms the child as wanted by the parents, the latter denies the child
existence because the parents do not want it.

375
Antonio López

may have becomes a matter of indifference24. When these assumptions


about spousal love and the body are sustained, persons are understood
independently from their bodies. “Marriage”, on this view, is a type of
union rooted in the exercise of personal freedoms that are unburdened
by their sexually differentiated bodies25. Interestingly, it is this twofold
assumption that the adult children raised by gay and lesbian couples put
radically into question.
The abstract perception of the body as malleable matter, now cul-
turally assumed as paradigmatic, is one obtained from the “adult” per-
spective. The child’s experience, however, helps us recognize that this
pretension to master the body effectively contradicts itself: when the
sexually differentiated body is denied as being integral to person and
love, sexuality—which inevitably remains bound to the body—ends up
imposing itself as the measure of the person. “My mother”, writes Klein,
“had three lesbian lovers… . Each of these women asserted adult power
over me as if they were a parent. I realized by age five that they were
not a parent. I grew up in an atmosphere where adult sexuality was a
measure of people’s worthiness. There was a lot of contempt for other
people and especially heterosexuals”26.
Why does adult sexuality end up determining the identity (“wor-
thiness”) of the person? To answer this difficult question, we need to
step back and clarify what sexual difference expresses. Sexual difference,
of course, is understood by children, but not in words. Its significance
is perceived later, provided that one remains true to what experience

24 Concurring with this, Katy Faust, who was raised by two lesbians, writes, “If love
between adults was the only important factor in child rearing, then step-parents would
be interchangeable with biological parents”. K. Faust, “You’re Only Against Gay
Marriage Because of Your Religion. Part 4—Biology Matters,” Ask the “Bigot”: A
Place Where Ideas, Not People, Are Under Assault, August 20, 2012, https://askthebigot.
com/2012/08/20/biology-matters/. In saying this, Faust does not mean that there
is no distinction between the love that a child can receive from adoptive parents
and from biological parents. Instead, she is rejecting the identification of adoption
by sexually differentiated couples with the ownership and rearing of a child by gay
couples.
25 As is known, this perception of marriage was adopted by the U.S. Supreme Court
when it granted legal recognition to homosexual marriages in Obergefell v. Hodges, 576
U.S. __ (2015).
26 Brief for R. O. López and B. N. Klein as Amici Curiae, 26. Further, “Their sex and
identity meant everything. To them heterosexuals meant nothing—breeding, low-
level amoebas splitting in their conservative bedroom communities” (ibid., 27).

376
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

reveals of one’s own being and that one does not reduce the latter to
what one wishes or understands. Its meaning, therefore, cannot be ob-
tained through the abstract categories of “biological sex”, used to refer
to the somatic character of an individual—mainly the genitalia and their
use; “gender”, adopted to indicate the person’s cultural, sociological,
psychological, and legal appropriation of “biological sex”; or “sexual
orientation”, used to name the affective relations between two indi-
viduals regardless of their sexual identity. All these terms are offered
precisely to hide sexual difference, which cannot finally be suppressed,
and depend upon a specific anthropology and technological ontology27.
In order to recover a more complete view of what sexual difference
reveals, we first recall that sexuality does not coincide fully with the hu-
man person. Personhood is more fundamental to the human being than
sexuality insofar as the former regards one’s constitutive relation with
God, the original giver of one’s being. It is this experience of “original
solitude,” as John Paul II defined it, that enables the human being to
relate to others28. Sexuality is thus not coextensive with personhood,
nor does it coincide fully with human nature. If it did, the sexual dif-
ference would render male and female two different species. Finally,
sexuality does not exclusively coincide with the body. Because the soul
is the form of the body, the body—albeit imperfectly—manifests the

27 D. Crawford, “Liberal Androgyny: ‘Gay Marriage’ and the Meaning of Sexuality


in Our Time”, in Communio: International Catholic Review 33 (2006) 239-65. For a
treatment of technological ontology, see G. Grant, Collected Works of George Grant:
Vol. 3 (1960-1969), ed. A. Davis - H. Roper, University of Toronto Press, Toronto
2005, 227-44, 255-70, 595-602; G. Grant, Collected Works of George Grant: Vol. 4
(1970-1988), ed. A. Davis - H. Roper, University of Toronto Press, Toronto 2009,
269-79, 525-35.
28 John Paul II, L’amore umano nel piano divino: La redenzione del corpo e la sacramentalità
del matrimonio nelle catechesi del mercoledì (1979-1984), Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 2009, nn. 5-7. Hereafter cited as CHL, with English translations
taken from John Paul II, Man and Woman He Created Them: A Theology of the Body,
trans. Michael Waldstein, Pauline Books and Media, Boston 2006. Joseph Ratzinger
explains, “The likeness to God in sexuality is prior to sexuality, not identical with
it. It is because the human being is capable of the absolute Thou that he is an I who
can become a Thou for another I. The capacity for the absolute Thou is the ground
of the possibility and necessity of the human partner. Here too, therefore, it is most
important to pay attention to the difference between content [Inhalt] and consquence
[Folge].” J. Ratzinger, “The Dignity of the Human Person,” in Commentary on the
Documents of Vatican II, ed. H. Vorgrimler et al., Herder and Herder, New York 1969,
5:115-63, at 122.

377
Antonio López

soul. The sexual difference discovered through the body cannot, there-
fore, be reduced to a property of the body alone. Rather, it belongs also
to the human soul, such that one’s being male or female is the physical
expression of something proper to the spiritual person who exists as an
embodied soul.
While human sexuality, understood in light of the sexual difference,
cannot be reduced to either person or nature, it does help us grasp how
they are integrated in human beings. If the human person is rooted in
nature (the human being is the bodily hypostatization of a rational soul),
and if human nature finds its fullness at the personal level (the human be-
ing as person, as incarnate spirit, always exists in the constitutive, free re-
lation with God and others), then sexual differentiation is what, at the level
of human nature, coordinates individual human beings towards each
other. Whereas their enjoyment of esse brings human beings into the
larger community of all created beings, and the possession of a rational
and free embodied spirit unites them as members of the same species,
sexual differentiation specifies further the belonging to human com-
munion by ordering each human being towards another in a relation
of reciprocal and fruitful opposition. Sexual difference reveals human
communion to be interpersonal and ordered, preventing this commun-
ion from being an abstract gathering of individuals. At the personal level,
each one finds that he is always already oriented towards the opposite
other and that he is himself most deeply in being “for” this other who
is sexually different from and thus irreducible to him. In addition to
expressing and enabling each human person’s being “in communion
with” and “made for” another person, the sexual difference permits each
human being, as male or female, to be fruitful and in this way to par-
ticipate in the gratuity characteristic of his or her own birth. By making
the fruitful relation possible, sexual differentiation also allows each per-
son to experience the positive character of receptivity. When we take
account of the essential features that sexual differentiation contributes
to human existence—namely, concrete, ordered relativity and receptive
fruitfulness—we realize that this difference is the means through which
nature and person come together in man. It is only in man’s being male
and female that the personal is rooted in the natural and that the natural
maintains a fruitful openness to the personal.

378
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

Having considered the concrete significance of human sexuality, it


is now possible to indicate how in gay relations sexuality ends up de-
termining personal identity (“worthiness”). The speculative separation
of the personal from the bodily—enshrined by the distinction between
gender and physical sex—circumscribes sexuality within the bodily
realm. If every person is understood as an equal and abstract self-de-
termining freedom for whom relationships with God and others are al-
ways secondary (that is, chosen), and if it is therefore physical sexuality
alone that orders one person to another prior to free choice, then one’s
difference vis-à-vis another—and hence one’s identity—cannot but be
fully determined by physical sexuality. Lacking an intrinsic relation to
the personal, however, this physical sexuality is deprived of its capaci-
ty to reveal the person’s intrinsic ordering to another of the opposite
sex. When adults are thus deprived of their reason for being and their
identity, so too are the children whose lives are shaped by this privative
sexual relation. When the personal order can receive no illumination
from the physical-relational order, the question “Who am I?” will be
referred to the physical order in search of its answer. While the physical
relation to the other remains for sexually differentiated couples one of
correlation or complementarity (and thus one in which concrete reality
allows the person to discover who he is in spite of the speculative sepa-
ration of person and body), for the same-sex couple, the sexual relation
can provide nothing but a tautological answer to the question “Who
am I?” One seeks to compensate for the disintegration of person and
body through a relation with another who is physically similar to one-
self—and who could thus, one hopes, shed light on oneself. Relations
of sexual sameness misconstrue union as bonding with someone like
oneself. However, because homosexual acts require sexual bodies that
only exist as male and female, they depend on the very thing they deny.
Refusing to acknowledge difference, these acts cannot affirm the other
as other or one’s unity with the other. Homosexual acts are objectively,
then, a denial of the other’s otherness—i.e., of his or her relativity to
the opposite sex—and hence a denial of oneself. This double negation
of otherness and of the one-flesh union, though having the appearance
of an affirmation, cannot but transform the loving relation with another
person into a negative and unending dialectic, precisely because it feeds

379
Antonio López

off what it denies and because it cannot be fruitful in a third (a child).


In a word, the natural impossibility of the third inevitably transforms
the relation between same-sex individuals into a denial of otherness and
hence of oneself. Same-sex relations can never yield new life, and thus
sexuality ultimately express only its ties with death. Absence of fruitful-
ness is the absence of a mediating third who, while binding the two to-
gether objectively, affirms their spiritual and bodily difference. Deprived
of this natural fruitfulness, the dialectics of same-sex relations lacks an
inner principle of unity in difference thanks to which individuals can
overcome the tendency to deny the other, whether this other is a human
person or God29.
In addition to observing that the sexual body ends up determining
the identity of persons in relation, adult children of gay households also
challenge the assumption that love is simply intimacy between equal per-
sons, because they witnessed personal equality being denied rather than
realized. The idea of equality, they say, belongs to a “world of double-
speak” demanded by same-sex marriage.30 What they lived and saw in
their households was instead inequality between children and parents
and between men and women. Not being naturally conceived, children
are coerced into belonging—although many of them did not sense this
belonging from inside the socially engineered homosexual world. This,
of course, does not mean that children should be asked permission for
their own coming to be, nor that adoption jeopardizes the freedom of
the child. Rather, it acknowledges that the only way for a gay couple to
satisfy the craving for offspring is to order children into existence: they
are “made” or “bought.” It is thus no wonder that children of gay cou-
ples compare their coming to be to “slavery”31.
The fact that same-sex relationships entail inequality between men
and women is also clearly graspable. The child witnesses both of his

29 Because erotic desire understood in terms of “sexual orientation” is thought to lack an


organic connection to one’s body and freedom, the search for sexual self-affirmation
accompanying this desire is a search for unlimited satisfaction only brought to a halt by
the natural limits of the body. L. S. Mayer- P. R. McHugh, “Sexuality and Gender:
Findings from the Biological, Psychological, and Social Sciences,” special report, The
New Atlantis: A Journal of Technology and Society 50 (2016). J. Hallman, The Heart of
Female Same-Sex Attraction, InterVarsity Press, Downers Grove, IL 2008.
30 López, Jephthah’s Daughters, cit., 444.
31 Ibid., 272-90.

380
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

or her homosexual parents defining themselves in contradiction to the


other sex, rather than in relation to it. When a child is raised by two gay
men, what is seen is that women, including their daughter, tend not to
be treated equally by men: “For a little girl to grow up in a gay home
and GLBT subcultures damages her sense of femininity and budding
womanhood. Women are not the primary recipients of love and kind-
ness; male and female are not considered equal and necessary”32. The
corresponding rejection is experienced by the male child: “Therein lies
the rub for the boy raised by lesbians. You grow up seeing a loving rela-
tionship between two women who have defined themselves against what
you are, and against the man who gave you life. Father’s Day becomes a
black hole of time, a day you get through, trying to listen to everyone’s
stories about their dads without rolling your eyes”33.
The male or female body with which the person is born is the clear-
est reminder of the mystery that we are ourselves without being at our
own absolute disposal. One is born and hence given to oneself; there-
fore, one can be oneself in responding to this original gift with the gift
of oneself. At the same time, it is through the body that one discovers
that equality and difference belong together. When difference (man is
not God; the male is not the female and vice versa) is suppressed, it re-
asserts itself in the two distorted forms we discussed above: sexualization
of identity and imposition of inequality. This is because the attempt to
replace sexual difference with sexual orientation frustrates the harmoni-
ous form of giving that true difference makes possible, even if this sub-
stitution does not entirely block the movement of giving. The dynamic
of gift revealed by the mystery of birth and the sexually differentiated
body can never be entirely eliminated and thus asks to be rediscovered
and lived in truth.

32 Brief for D. Stefanowicz and D. Shick as Amicae Curiae, p. 8. Stefanowicz writes:


“What makes it so hard for a girl to grow up with a gay father is that she never gets
to see him loving, honoring, or protecting the women in his life” (Stefanowicz, Out
From Under, cit., 230).
33 López, Jephthah’s Daughters, 111, emphasis added. Under consideration here is not
how a given gay couple may think of men or women and deal with them but rather
the conception of what they objectively claim to be as a gay couple.

381
Antonio López

b. The Excluded Middle

The claims that gay couples can take care of children equally well as he-
terosexual couples can and that fatherhood and motherhood are acqui-
red skills or exchangeable roles both presuppose that the mystery of birth
is insignificant for the understanding of what it means to be a parent and
a child. The child, from the gay couple’s point of view, lacks nothing: he
enjoys affection, attention, education, financial support, health care, etc.
Still, the experience of the children we are considering here shows that
all of this care cannot silence the most conspicuous lie told in every gay
household: the denial that every child has a father and a mother. These
children consider gay marriage untrue not because they were not loved
or because they lost respect for their parents. Rather, they claim it is
untrue because it contradicts what everyone sooner or later learns about
his own coming to be: his conception and birth did in fact require a fa-
ther and a mother, and no one can come from two men or two women.
This lie is both biological and ontological, since, as we shall see in more
detail in the last section, the child’s experience of not having a proper
biological origin means that he also lacks the personal, ontological dwel-
ling place from which he derives his identity. Gay households are thus
built upon the systematic denial of the biological parent needed in order
for the child to come to be. As Klein writes, “Gay men are not infertile
women”; we should not liken “same-sex couples to heterosexual cou-
ples who have medical conditions leading to infertility”34. Ironically, it
is precisely this excluded middle person, the biological parent rendered
childless, who enables the gay couple to have a child and call themselves
a “family”35. No one, these children insist, has the right to replace the
missing parent36.

34 Brief for R. O. López and B. N. Klein as Amici Curiae, cit., 31.


35 This also applies in the case of children raised by transgender parents. Cfr. D. Shick,
When Hope Seems Lost. R. López writes, “Every child has a father. The lesbian couple
raising a child has simply decided to steal the child from his father and to steal the
father from his child. That’s wrong” (López, Jephthah’s Daughters, cit., 112).
36 López, Jephthah’s Daughters, cit., 439. The absence of the missing parent cannot be
compared to the absence occasioned by death or divorce, nor can its effects on the
child be identified. The deceased parent and the parent who abandons the family
remain an integral part of the child’s coming to be and hence of his permanent
origin. In gay unions, the absence is brought about by denying the goodness of the
other as a sexually different person. Nor is gay adoption comparable to adoption by

382
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

Three crucial implications follow from the denial of the indispen-


sable biological parent. First, because the gay couple procures the child
either by ARTs or by legal adoption overseen by the State, familial rela-
tions are exhaustively defined in legal terms37. The separation of person
and body described earlier justifies uncoupling the biological (the beget-
ting and conceiving of children) from the existential (lived fatherhood,
motherhood, and childhood). Hence, a man does not need to beget in
order to be a father, nor does a woman need to conceive and give birth
in order to be a mother. Inevitably, difficult questions arise: Is the father
the sperm donor or the man who raises the child? Is the mother the
woman who supplies the ovum, the surrogate mother who carries the
child, or the woman who, paying for the whole process, expects to be
able to welcome the baby into her home and take care of him? In such
situations, it can only be the State that, having defined what marriage
is, also determines who gets to be father, mother, and child and what
these roles mean38. The State, whose existence depends on the freedoms
that entrusted themselves to it for their own security and well-being,
must in turn secure “symbolic recognition and material benefits to pro-
tect and nourish the [familial] union”39. This assurance cannot but mean
that, through various financial, legal, educational, and cultural channels,
the State ensures that every person understands himself to be a citizen,

natural families. The reason for this is in fact centered on sexual difference and the
ontological character of childhood. It has to do with the fundamental import of sexual
differentiation in the parents’ representation of the origin, and this representation
bears on the kind of affirmation the child needs in order to be himself. While sexually
differentiated adoptive parents are not the natural origin of the child they adopt, they
and their nuptial union still represent the ultimate origin of the human being; they can,
therefore, be father and mother to the adopted child and affirm the child for what he
or she is. Our final section will clarify why this is the case. Cfr. M. McCarthy, Torn
Asunder: Children, the Myth of the Good Divorce, and the Recovery of Origins, Eerdmans,
Grand Rapids, MI 2017.
37 Once gay marriage is publicly recognized, the transformation of natural familial
relations into legal ones affects both natural and homosexual marriages.
38 ARTs increasingly complicate matters. Alana Newman writes that she “once met a
lesbian who fertilized her own eggs using IVF with the sperm from a known donor and
then had the embryo implanted into her romantic partner’s womb. She complained
at the ridiculousness of having to adopt her own genetic child, disappointed that
she could not list both her partner and herself as mothers on the birth certificate”
(Newman, Anonymous Us Project, cit., 40).
39 Obergefell v. Hodges, 576 U.S. ___ (2015) (No. 14-556), p. 16 in https://www.
supremecourt.gov/opinions/14pdf/14-556_3204.pdf.

383
Antonio López

an individual holder of rights with the capacity to enact his freedom as


he sees fit. As Rawls suggested, democratic societies consider all family
members, children included, first as equal, right-holding citizens, and
this view takes priority over any other conception of familial relations40.
“In effect,” writes Dawn Stefanowicz, “same-sex marriage permits state
powers to override the autonomy of biological parents and deprives
children of their own rights to natural parentage. Consequently, parents
experience state interference when it comes to moral values and teach-
ings about family, parenting, and sex education”41.
The second implication is that, contrary to what he yearns for, the
child is deprived of access to his origin. The need to know one’s origin is
not limited to the desire to know one’s biological heritage so that, resting
in the ongoing parental confirmation of the goodness of one’s being, one
can face the future with greater confidence (and avoid marrying a sister
or brother). More importantly, one seeks to know, through the missing
parent, one’s extended family, culture, and, ultimately, God, the giver
of every life. “I did not realize at the time how deep my longings were
for my father. Without a secure attachment to Dad, I could not similarly
connect to any other male in my life or even relate to God the Father”42.
To be deprived of one’s own origin entails, then, a great difficulty not
only in living the present in a non-instinctive way, or in discovering who
one is as male or female and how to relate to others, but also in living the
future. In a sense, children raised in gay households are stuck in the past,
because without both father and mother there is no real beginning; they
are left in search of the excluded middle. With no real past, one is left to
simply enact possibilities in a process of realization burdened with the task
of constructing history. Narratives are thus created to replace the person’s
unknown identity and allow him to face an uncertain future.
The final consequence of denying the biological mother or father is
that the parenthood of the non-biologically related gay parent is violently
imposed upon the child. This causes much suffering—even when there
is no verbal or sexual abuse taking place. The relation is abusive because
the child must treat his parent’s partner as if he or she were the father or

40 J. Rawls, Political Liberalism, expanded ed. Columbia University Press, New York
2005, 466-74.
41 Brief for D. Stefanowicz and D. Shick as Amicae Curiae, 15.
42 Stefanowicz, Out From Under, cit., 42.

384
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

the mother that he or she is not. Furthermore, because the partner cannot
replace the sex of the biological parent that he or she displaces, a child of
the opposite sex—a girl raised by two men, or a boy raised by two wom-
en—must embrace not only the partner as purported parent but also the
denial of his or her own sexual identity. A disorder is thus inflicted upon
the child’s identity. The child, rejected in this way, unconsciously feels
this rejection and abandonment while living with his or her same-sex
“parents”43. Such imposition of parenthood is perceived as “systematic
child abuse”44 and even as “the parental version of ‘stalking’”45.
Along with this structural form of abuse, parents also pass on their
view of oversexualized identities. Children are thus “forced to approve
and tolerate all forms of expressed sexuality, including various sexual
and gender identity preferences”46. For many children raised in LGBT
households, the imposition of this view of human nature came along
with much sexual abuse wrought upon them or the friends they brought
home47. These adult children are, of course, aware that child abuse also
takes places in natural families. Yet, their testimonies indicate that, bor-
rowing the words of the Catechism of the Catholic Church, intrinsically
disordered acts are the expression of an intrinsic disorder48. The oppres-
sion children feel in having imposed upon them a certain understanding
of human nature normally becomes a repression. More often than not,
children of gay couples are forced into silence. They “are not easily al-
lowed to speak honestly about their families or themselves while they
are children or while they are adults. They cannot easily associate with

43 A. Garner contends that modern society’s homophobic culture is the source of this
experience of abuse. She foresees that this pressure will be lifted from children once
homosexual families are granted full legal equality with natural families (Garner,
Families Like Mine, 32-37).
44 López, Jephthah’s Daughters, cit., 121.
45 López, Jephthah’s Daughters, cit., 435.
46 Brief for D. Stefanowicz and D. Shick as Amicae Curiae, 12. This, of course, does
not mean that children raised in gay households become gay or that their parents
necessarily want them to be so.
47 For accounts pervaded by evidence of such abuse, see López, Jephthah’s Daughters;
Stefanowicz, Out From Under, cit.; Shick, When Hope Seems Lost, cit.; Shick, My
Daddy’s Secret, cit.
48 L. Melina, “Homosexual Inclination as an ‘Objective Disorder’: Reflections of
Theological Anthropology”, in Communio: International Catholic Review 25 (1998) 57-
67. D. Mattson, Why I Don’t Call Myself Gay: How I Reclaimed Sexual Reality and
Found Peace, Ignatius Press, San Francisco 2017.

385
Antonio López

churches or political groups that conflict with their gay parents’ politi-
cal agenda”49. This forced silence is also due to the fact that the child’s
speaking against the way in which he came into being and was raised
is identified with his passing a negative judgment on his “parents” and
hence expressing ingratitude—something most foreign to the nature of a
child50. To distinguish the deed from the person, to condemn the former
while affirming the latter, requires great maturity.

c. Children without Kinship

Not being the natural fruit of their parents’ love, children conceived
by recourse to a third party perceive their belonging to their purported
parents as a violation of their identity: they cannot be received as a gift
because they were instead procured as a commodity put at the service
of fulfilling their parents’ cravings for fruitfulness.51 Artificial means of
reproduction or legal adoption by gay couples cannot give rise to natural
familial relations; they can only presuppose them.
This violation of identity—being treated as a commodity rather than
as a gift—is expressed by children of gay or lesbian households in three
different but related ways. First, to consider the child a commodity is
to violate his or her rights. In her amicus curiae brief, Katy Faust argues,
“Children have a right to their parents. No one has an automatic right
to a child. We cannot normalize separating children from their natural
parents or manipulating children into existence with the express intent
to deny them a relationship with one parent just because adults have
chosen a union which cannot produce children. It is an injustice to the
child, pure and simple”52. Parents, whether homosexual or heterosexual,
have no right to a child because, as the mystery of birth reveals, to be

49 Brief for R. O. López and B. N. Klein as Amici Curiae, p. 17.


50 Newman, Anonymous Us Project, cit., 29-30.
51 It is true that love, as a bond between persons, establishes a possession of one by the
other. Yet, this being owned by another and finding oneself in another is freeing, not
enslaving, precisely because—as sexual difference reveals—one is made for another
and in the gift of self to the other becomes ever more oneself.
52 Brief for H. Barwick and K. Faust as Amicae Curiae in Support of Respondents,
Obergefell v. Hodges, 576 U.S. _ (2015) (No. 14-556), p. 13 in http://sblog.
s3.amazonaws.com/wp-content/uploads/2015/04/14-556_Heather_Barwick_and_
Katy_Faust.pdf.

386
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

born is a grace. “Grace” here does not mean that conception of a child
is unnatural, nor does the term simply recognize that a child is never
guaranteed. It is also not to be understood in the aleatory sense required
by the utter prodigality of the sexual act (in both the male and the fe-
male) and by the radical impossibility of predetermining who will result
from that union. Rather, birth is a grace, or a gift, in the sense that the
child born is a concrete person whose conscious and free existence has
been given a destiny for which it has been wanted. Fruitfulness is thus
an expression of love’s gratuity. Unlike the adults who do not have a
right to a child, the child has a “right to be born free rather than sold”,
a right to a mother and father, and a right to origins53. The experience
of children conceived through artificial means helps us recognize the
human person’s need for his origins and for the gratuity characteristic
of the mystery of birth. In doing so, it prevents us from falling into an
abstract discussion about competing rights—one in which “right” no
longer means that which corresponds to man as one given to himself but
that which serves him as a means to secure either freedom from coercion
or freedom to enact whatever suits his self-perception, needs, or whims.
It is only in this latter sense of “right”, which forgets that each person
is a gift, that the gay couple’s purported right to offspring would trump
the rights not only of natural families but also of a person who is not
even there yet. The child should instead be allowed to be, not forced
into existence.
The second manifestation of the child’s violated identity is that, hav-
ing been procured by his parents, he does not perceive himself as other
from them. Rather, he experiences himself as their reflection: “We ex-
isted only as a mirror”54. It is true that parents in many natural families
impose their ideas on their children. Yet this, which is a moral weakness,
is unlike what happens in gay households. In a natural family, the child
is the fruit of his mother and father’s communion, not simply the yield
of one of the two. In a gay household, however, he cannot be perceived
as fruit in this way, rendering him no longer child but not-yet adult.
Once the child ceases to be what he is—the memory of his parents’

53 López, Jephthah’s Daughters, cit., 29, passim.


54 Ibid., 149.

387
Antonio López

communion of life and love—he cannot but be reduced to a reflection


of his purported parents.
The third symptomatic appearance of violated identity is the absence
of a proper language for naming oneself and relations of kinship. “Many
of us”, writes A. Newman, “describe our missing biological fathers as
half of who we are. We use words like ‘holes’, ‘missing’, ‘incomplete’
and ‘void’ in describing how being donor-conceived has affected us”55.
A. Garner, an advocate of gay families, acknowledges the inadequacy
of current language in this regard, observing that “sons and daughters
are often inconsistent when they choose kinship terms to refer to their
parents’ partners”, shuffling between terms such as “other mother” and
“stepmother”56. She claims, however, that language is merely a change-
able product of culture: because “language is often dictated by the cul-
ture in power, heterosexism limits the words we have to describe queer
relationships”57. Garner does hope that “as more families examine the
limitations of language, new kinship terms will emerge for queer families
— terms that are both technically and emotionally accurate… . We need
a verbal revolution”58. It is true that language cannot be separated from
a given culture and that, just as laws educate people to understand and
live life in a specific way, words change the way we account for beings
and relations among them. Yet, if language were reduced to a cultural
tool, it would not only become a means of violently imposing an ideol-
ogy but also, more significantly, lose its revelatory capacity. Every word
would simply be a flatus vocis, and this would amount to the end of lan-
guage. Language is open to man’s enrichment, but it is also an expression
of being. In fact, through yet another ironic reversal, the sought-after
“linguistic revolution” that would free language from heterosexual lim-
itations would, no less than these, still impose a certain understanding
of what human beings are and what their relations of kinship should be.
The accounts offered by adult children of gay and lesbian couples
have illuminated our central themes, namely, the effects of conceiving
love in separation from the body, the exclusion of biological parents,
and the violation of children’s identities resulting from their lack of true

55 Newman, Anonymous Us Project, cit., 33.


56 Garner, Families Like Mine, cit., 11.
57 Garner, Families Like Mine, cit., 138.
58 Garner, Families Like Mine, cit., 141.

388
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

kinship to parents. The issue at stake emerges clearly: a child needs both
a father and a mother to be himself or herself. This affirmation from
the child’s perspective also indicates the need for all familial relations —
nuptiality, filiality, and parenthood — to come together harmoniously
so that each person in the family may be him or herself. Now, we must
press this matter further to discover more deeply why personal identity
requires that these familial relations be relations of mutual indwelling.

3. Familial Relations

The child, to be himself, needs a father and a mother — not simply one
or many caretakers — because his sexually differentiated parents’ com-
munion of love constitutes the dwelling place in and through which the
child receives his ontological and personal identity. In this concluding
section, I would like to elucidate how this “dwelling place” is to be
understood.
If the mystery of birth is decisive for an adequate understanding of
who we are, so also is the way in which we are conceived and born.
If one upholds the separation of sex from gender, that is, of the bodily
from the personal, and the separation of the exercise of sexuality from
love and of sexuality and love from fruitfulness, then the conjugal em-
brace becomes only a means to an end. Given the advances of tech-
nology, the conjugal embrace can then be replaced by other, perhaps
better means without perceived loss. There is, however, a profound
loss wrought by such technological substitution. When body and person
are dualistically separated, birth ceases to appear as anything more than
the coming to be of an individual of the human species who, in time,
will become a person — that is, according to this framework, an agent
capable of exercising free and rational choices. The child becomes a
“given”, a product taken for granted and not a gift; likewise, parents,
heterosexual or otherwise, become nothing but producers and caretak-
ers. Fruitfulness is therefore caged within the realm of the natural — it
is just reproduction — and we are left in the dark as to why the human
being is someone and not something, someone born with a personal
destiny that transcends matter. Instead, if the sexed body, rather than be-
ing brute matter, is expressive of the person — that is, if biology reveals

389
Antonio López

the being-gift of the person — then our being generated by our father
and mother’s communion of love is constitutive of who we are59. The
sexed body concretizes the gift-character of being for the human spirit.
Expressing and being itself gift, the body carries with itself its own or-
igin, which, in the case of the human being, is the dual unity of father
and mother60. The child’s body not only manifests both his mother’s and
father’s biological contributions to his being but also, as male or female,
reveals to him that he, too, is made to participate in a fruitful commun-
ion like the one from which he came. Borrowing from St. Hilary, we
could say that the parents who generate dwell in the begotten child by
means of the commonality of nature and the personal relations, and the
one who is begotten dwells in his parents by means of the birth through
which he was generated61.
To understand better how the parents’ communion grounds rela-
tions of indwelling that are constitutive of the child’s identity, it will be
helpful to return for a moment to the father and mother’s perspective
and consider their conjugal embrace. This embrace, which expresses the
unity proper to marriage as a communion of life and love, consists in
the spouses’ reciprocal gift. This gift is always a response to their having
been given to themselves and to each other. When they give themselves
to each other, the spouses also give one another the opportunity of

59 John Paul II wrote, “It is certainly possible to ‘describe’ the human body, to express
its truth with the objectivity proper to the natural sciences; but such a description—
with all its precision—cannot be adequate (that is, commensurate with its object),
given that what is at issue is not only the body (understood as an organism in the ‘somatic’
sense) but also man who expresses himself by means of that body, and in this sense, I would
say, ‘is’ that body” (CHL, 55:2). It is helpful to read also the following passage, in
which he clarifies the meaning of the body: “When we speak about the meaning of
the body, we refer above all to the full consciousness of the human being, but we also
include every effective experience of the body in its masculinity and femininity, and,
in any case, the constant predisposition to such an experience. The ‘meaning’ of the
body is not something merely conceptual… . The ‘meaning of the body’ is at the same
time what shapes the attitude: it is the way of living the body. It is the measure that the inner
man—that is, the heart, to which Christ appeals in the Sermon on the Mount—applies
to the human body with regard to its masculinity or femininity (and thus with regard
to its sexuality)” (CHL, 31:5).
60 Given that for the human being, person and esse do not coincide, and that God, not
the parents or the cosmos, is the ultimate origin of every human child, parents are not
the final dwelling place that gives the child his identity. Still, the child receives himself
only through the mediation of the parental origin.
61 Hilary, De Trinitate 7.28 (PL 10:224).

390
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

giving and receiving a further gift: their being for and with each other
becomes, with God’s grace, fruitful in a third. Out of the self-giving of
each comes the child of both. The child is, in a certain sense, in both
the husband and the wife — although the immanence of the child in
his mother is far more complete and important than his immanence in
the father. Because he comes from both, the child represents his parents’
union and is the fruit of their love. As fruit, he is also a person who is ir-
reducible to them. Differently put, the ontological value of the child, as
fruit and bond, is to be the love within the parents’ love. He is the love
of both yet is so as other from them. If he were not the personal embodi-
ment of their communion, the child would not feel any longing or sense
of injustice due to the absence of one of his biological parents (the “ex-
cluded middle”). If he were not the fruit of their love, he would have no
sense of belonging to his parents beyond the affective or psychological
attachment that fluctuates with changing circumstances. Finally, if this
genuine belonging were not essential to childhood, there would be no
grounds for children of gay parents to protest what they experience as
“ownership” or “slavery”. To be a child is to be a gift, given to oneself
as fruit and bond of nuptial love.
Fatherhood and motherhood are relations of origin and are thus
irreducible to the care that any human being can give to a minor simply
by virtue of his being a human person. Parental originating has a three-
fold sense that, once clarified, will enable us to grasp the nature of the
indwelling that constitutes the child as such. Fatherhood and mother-
hood are relations of origin because, first of all, it is through them that
the child comes to be. Given that the birth of a human spirit signals that
God is the ultimate personal origin of each human being, motherhood
and fatherhood cannot but be understood as asymmetrically different
ways of participating in God’s eternal fatherhood. When it is fecund, the
conjugal embrace is the point of contact between God’s creative love
and human spousal love. Fruitfulness therefore reveals the great depth
of the relation between human beings and God. This partial but real
participation requires the (ontological) simultaneity of fatherhood and
motherhood. Just as a man becomes a father thanks to his wife, so the
latter becomes a mother by receiving her husband’s seed in herself. It is
the divine ground as participated through the nuptial communion that

391
Antonio López

makes motherhood and fatherhood a most wonderful and difficult en-


deavor. As John Paul II wrote, “A woman knows infinitely more about
giving birth than a man. She knows it particularly through the suffering
that accompanies childbearing. Still, motherhood is an expression of fa-
therhood. It must always go back to the father to take from him all that
it expresses. In this consists the radiation of fatherhood. One returns
to the father through the child. And the child, in turn, restores to us
the bridegroom in the father [which also means that the father, for the
daughter, besides being origin tends to represent the archetype of bride-
groom]. One must enter the radiation of fatherhood, since only there
does everything become fully real”62.
Because the human being is an embodied spirit, fatherhood and
motherhood entail a dimension extending beyond conception and the
moment of birth: the gratuitous affirmation of the child for who and
what she is. “Nothing,” wrote C.S. Lewis, “is so obvious in a child—not
in a conceited child, but in a good child—as its great and undisguised
pleasure in being praised”63. To praise, we could say, is to joyfully and
gratuitously affirm the goodness of the other. The parents’ affirmation is
unlike that found in any other relation, because it confirms the goodness
of the child’s finite existence. From one point of view, being born to his
mother and father, the child is a gift given to himself; in this sense, he
has his own self-standingness. Yet, from another point of view, since the
child accepts the gift of himself only by gratuitously reciprocating it to
the giver, this gift of himself must be confirmed by the child’s source and
natural origin: his sexually differentiated parents. This affirmation is both
the parents’ express avowal of the intrinsic goodness of the child—which

62 K. Wojtyła, Radiation of Fatherhood, in Id., The Collected Plays and Writings on Theater,
trans. Boleslaw Taborski, University of California Press, Berkeley 1987, 340-341.
63 Lewis continues: “Apparently what I had mistaken for humility had, all these years,
prevented me from understanding what is in fact the humblest, the most childlike, the
most creaturely of pleasures—nay, the specific pleasure of the inferior: the pleasure of
a beast before men, a child before its father, a pupil before its teacher, a creature before
its Creator. I am not forgetting how horribly this most innocent desire is parodied
in our human ambitions, or how very quickly, in my own experience, the lawful
pleasure of praise from those whom it was my duty to please turns into the deadly
poison of self-admiration. But I thought I could detect a moment—a very, very short
moment—before this happened, during which the satisfaction of having pleased those
whom I rightly loved and rightly feared was pure.” C. S. Lewis, The Weight of Glory
and Other Addresses HarperOne, New York 2001, 37.

392
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

includes the confirmation of whatever is true and beautiful in what he


does or says as well as the correction of what is not—and the loving,
ongoing relation between husband and wife. When the husband affirms
and loves his wife, and when the wife affirms and loves her husband, this
affirmation extends to the child once again, analogically to the way in
which it was granted at the child’s conception (regardless of how aware
the parents were of it then). Thus, the child feels affirmed not only
when he or she is praised but also when the child witnesses the parents,
husband and wife, loving each other, because that love expresses the
child’s origin. The double nature of the child’s affirmation is why he or
she needs a father and a mother and not simply two caretakers. Spiritual-
ly speaking, the child’s perception and certainty of the goodness of his
existence hinges on the ongoing confirmation (affirmation and praise)
of this existence by the parents through whom he came to be. The in-
terplay of originating, responding, and confirming that constitutes man’s
being and historical existence is what prompts him to expect that after
his death the ultimate origin of his being will eternally confirm the finite
being-gift that he is. To dwell, in this sense, is a restless rest.
For parents to affirm their child’s goodness requires, on the one
hand, that they recognize him as a gift that has been given rather than
something claimed or bought. Such recognition entails accepting him
as he is and letting him be, affirming him as he is and not only in light
of the plans or feelings they have for him. On the other hand, parents’
affirmation is true only when they recognize and confess to the child that
their own being origin is a participation in God’s creative love64. Parents’
praise or affirmation is thus not true unless it affirms God as both their
and the child’s source, consistency, and destiny.
While spouses can affirm themselves as origin or source only in their
union with and in response to one another, originating assumes a dif-
ferent form in each of them thanks to the sexual difference. It is only
through these different ways of participating in God’s original gift that
their nuptial love is realized and can be fruitful. Let us briefly consider

64 The parents’ obedience to their own ontological dependence is a sacrifice that ensures
the positivity and truth of the love that constitutes familial relations. The opposite of
this obedience is the incapacity to make real sacrificial gestures for the child’s sake,
which is one of the aspects that, according to their testimonies, most hurt the children
raised in gay households. López, Jephthah’s Daughters, cit., 18, 114, 444.

393
Antonio López

these respective modes of participation. In the union with his wife, the
husband represents the gratuitous, fruitful origin of the gift that both of
them are; hence, he alone can beget. In the union with her husband, the
wife represents the gratuitous, fruitful, and active letting be (receptivity)
proper to the gift that both of them are; hence, she alone can conceive
and nurture. Each one has an asymmetrical priority within the union:
the male primarily represents transcendent initiative, while the female
primarily represents receptive fruitfulness. Their respective priority is
always nuptial; that is, it exists in each spouse only together with and as a
response to the other. In eliciting her husband’s initiative, the wife is also
origin, but she is so as gratuitous beauty and not as source. By allowing
her to conceive, the husband is also generously fruitful, but he is so as
one tasked with welcoming the child as a gift that his wife ultimately
receives from God (Gen 4:1). The realization of spousal love depends
on these different ways of giving and receiving proper to both spouses:
if the man did not represent the origin’s transcendence, neither certainty
nor response—nor, therefore, love—would be possible. If the woman
did not incarnate more clearly than the man the “letting be” of the gift,
then no gratuitous giving and, hence, no love could take place. Insepa-
rable from the sexual difference, nuptial love, the free gift of self to the
other as a participation in God’s anterior gift of life and love, is the most
precious gift that parents can share with their child, since it is itself the
origin whence he came to be (although not the ultimate one). This is a
gift that gay couples—who, being of the same sex, must obtain a child
through other means—simply cannot give. When a mother and father
live their being origin truly, however, we have seen that the affirmation
they give their child assumes three essential aspects: first, they affirm him
in his finite goodness; second, they affirm him as a gift from God, to
whose love he is called to respond; and, third, they affirm him through
the ongoing bestowal of their nuptial love.
The final dimension of originating follows naturally from the first
two, which we identified as participation in divine paternity and ongo-
ing affirmation. When the spouses allow their fatherhood and mother-
hood to be a radiation of the divine paternal origin and when the child
is received for what he is—a gift and not the natural yield (whether
desired or despised) of their union—his parents allow him to enter into

394
The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial Relationships

the realm of true freedom: the child will be able to affirm God as the ul-
timate Father and therefore to be free in that obedience, and his parents
will acknowledge their own childhood, thus letting God give the child’s
life the form his eternal beauty has designed for it.
Parents dwell in the child by communion of nature and relations of
origin, and the child dwells in his parents by means of the birth through
which he was generated. This indwelling enables us to understand what
it means to be a person and thus to be in relations of origin: human per-
sonal relations are both the non-privative receptivity of one’s own being
and of other persons and the gratuitous communication of oneself in re-
sponse to the antecedent love that calls for that gift of self without coerc-
ing it65. The reciprocity of fatherhood, motherhood, and childhood—
and thus the indwelling of persons constituted in these relations—can
be described as follows: Husband and wife, in loving, find themselves in
one another. Through the fruitfulness of their reciprocal relation, both
rediscover their childhood; the husband rediscovers his constitutive son-
ship through his wife’s motherhood, just as she rediscovers her identity
as a daughter through her husband’s fatherhood. Both father and mother
grow in the child through one another, and the child restores his parents
to one another as the groom and bride that they are. These interwoven
ways of “being in” one another indicate the unity proper to love: in this
unity, each person is part of the others, not as a piece of the other, but as
belonging to the definition of his or her very self. When this multi-lay-
ered dwelling place is denied or broken, the child loses the ground that
constitutes him. Because every human child is fully given to himself by
God, he will not in this brokenness cease to be, but his identity will be
deeply shaken.
Since the fruitfulness proper to nuptial love depends on God, who is
the root and destiny of every human being, the child’s character as fruit
keeps alive the memory of God. The child is not only the love within
his parents’ nuptial love; he also reawakens the ontological bond that the
parents’ nuptial bond and all the members of the family keep with God.
It is this theological root that explains why the suffering experienced
by children of gay couples is so deep and, at the same time, why the

65 K. L. Schmitz, “Created Receptivity and the Philosophy of the Concrete”, in The


Thomist 61, no. 3 (1997) 339-71, at 369.

395
Antonio López

proposal of familial models alternative to the natural family are a denial


of the divine origin. Yet, as we have seen, this denial spawns various re-
versals proving ever anew that, after all, and thanks to the fact that God is
the giver of all life, nature is not at our complete disposal and love always
possesses secret resources to reorder itself.

396
Anthropotes 33 (2017)

Abitare la società dei non-luoghi:


la famiglia sorgente di spazio sociale

Sergio Belardinelli*

SUMMARY: Starting from Heidegger’s work on “Bauen, Wohnen,


Denken”, this article develops in three fundamental directions. In the first,
we reflect on man as an animal that dwells; in the second, we try to show
what the consequences are for man and society at a time when most social
places, starting with cities, become “non-places”; in the third, we underline
the fundamental role of the family as an institutional and cultural form capable
of generating social spaces, where even the many “non-places” that surround
us can become human places. The family, therefore, is a source of social spaces
worthy of mankind.

Il titolo dell’intervento che mi è stato assegnato contiene almeno tre


indicazioni di fondamentale importanza, che assumerò come traccia
dell’intervento stesso. La prima indicazione riguarda la centralità del ver-
bo abitare; la seconda riguarda la società nella quale viviamo, identificata
come la società dei “non-luoghi”; la terza, piuttosto coraggiosa visti i
tempi che viviamo, riguarda la famiglia, considerata sorgente di spazio
sociale.

* Docente presso il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, Roma. Ordinario
di Sociologia dei Processi culturali e comunicativi all’Università di Bologna.

397
Sergio Belardinelli

1. Abitare

L’uomo è un animale che abita. Non lo diremmo di nessun altro anima-


le, ma quando parliamo di uomini, sappiamo che essi abitano da qualche
parte; sappiamo che essi hanno una casa, un luogo dove sentirsi protetti
e dove coltivare i propri affetti. Non è umano essere costretti a vivere
sempre all’aria aperta come gli uccelli o sotto i ponti come fanno i gatti.
L’abitare, la casa e la città (la polis, quindi la politica) esprimono il regi-
stro materiale e simbolico del mondo degli uomini, del nostro mondo, il
quale non è semplice natura, bensì artificio, costruzione umana, libertà.
Come ha mostrato Martin Heidegger, nel famoso saggio del 1951
su Bauen, Wohnen, Denken, il “costruire” esprime l’essenza più profonda
dell’“abitare” dell’uomo. Con un linguaggio un po’ arcano e quasi ora-
colare, giocando sul fatto che l’antica parola tedesca “Buan” racchiudeva
in sé, non soltanto il significato di “costruire”, ma anche quelli di “abita-
re” e “custodire”, Heidegger mostra come l’“abitare-costruire-custodi-
re” vada ben oltre la semplice “casa”, ma esprima la modalità privilegiata
dell’essere uomini. “Il modo in cui tu sei e io sono, la maniera secondo
la quale noi uomini siamo sulla terra, è il Buan, l’abitare”1.
Senza il mondo che gli uomini hanno eretto tra sé e la natura, senza
la stabilità e la permanenza che questo mondo garantisce, non sarebbero
possibili la politica né la storia, avremmo soltanto il gigantesco, immu-
tabile ripetersi di cicli naturali, dove in senso proprio non appare nulla a
nessuno e dove ci sarebbe soltanto qualcosa di simile alla mors immortalis
di cui parlava Lucrezio. Per questo possiamo dire con Heidegger che
“costruire è autentico abitare” e “l’abitare è il modo in cui i mortali
sono sulla terra”2. È insomma l’artificio umano, ossia la casa, i palazzi,
i ponti, la città che schiudono all’uomo se stesso e la stessa natura, non
viceversa. Su questi aspetti del pensiero heideggeriano, come sappiamo,
ha scritto cose memorabili Hannah Arendt, che qui non possiamo ri-
prendere, poiché ci porterebbero troppo lontano3.

1 M. Heidegger, Costruire, Abitare, Pensare, Mimesis, Milano 2010, 17.


2 Ibid., 19.
3 Cfr. S. Belardinelli, “Il mondo e l’agire. Un confronto tra Martin Heidegger e
Hannah Arendt”, in S. Belardinelli – G. Dalmasso (a cura di), Discorso e verità. Scritti
in onore di Francesca Rivetti Barbò, Jaca Book, Milano 1995, 61-72.

398
Abitare la società dei non-luoghi: la famiglia sorgente di spazio sociale

Ma il passo heideggeriano, forse senza volerlo, ci dice anche qual-


cos’altro di molto importante per il discorso che stiamo sviluppando; ci
dice che “abitare” evoca non soltanto il costruire, ma anche il “custodi-
re” e che questo va ben oltre la casa, esprimendo la modalità stessa del
nostro essere uomini, il nostro modo di essere sulla terra. A questo punto
come non pensare alla famiglia e al suo ruolo fondamentale di custodia di
ciò che è umano? La casa, come dicevo sopra, non è soltanto un registro
materiale della nostra vita, ma anche un registro simbolico, precisamente
il registro che evoca il nostro essere, ontologicamente, custoditi e cu-
stodi, che poi è il senso di quella relazione costitutiva rappresentata dalla
famiglia.
Riprenderò più avanti questo tema, il tema della famiglia. Qui riten-
go opportuno sottolineare un altro aspetto, che ci introdurrà al secondo
punto del mio intervento. Posto infatti che l’abitare rinvia alla casa, alla
città, all’artificio umano, che cosa succede nel momento in cui la città
che l’uomo ha costruito per abitare perde la sua stabilità, la sua capacità
di essere un elemento di identificazione per l’uomo? Rispetto al fluire
del tempo e delle stagioni, l’uomo ha la possibilità di riconoscersi nella
permanenza degli oggetti e delle opere che lui stesso ha prodotto e co-
struito: la sua casa, al pari della chiesa o della città in cui vive. È in questo
mondo umano che si sedimentano la cultura e la storia umana. Lewis
Munford ha scritto giustamente che la città “è il migliore organo della
memoria che l’uomo abbia sinora creato”4. Che cosa succede dunque
nel momento in cui nella città moderna si innesca un evidente processo
di estraniazione? Che cosa succede nel momento in cui la città, il luogo
per eccellenza dell’umano, diventa una specie di “non-luogo”, secondo
la celebre definizione di Marc Augé?5
Assistiamo a una crisi della città, della polis (e della politica!), che fa
pensare ai momenti peggiori della nostra storia. Piani regolatori, archi-
tettura funzionale, abusivismi d’ogni genere, periferie spesso abbando-
nate a se stesse, un’immigrazione crescente sembrano aver reso le nostre
città una sorta di arabesco di forme imprevedibili e quasi inintenzio-
nali, dal quale fuoriescono contraddizioni sempre più laceranti sia sul

4 L. Mumford, La città nella storia, Vol. III, Bompiani, Milano 1961, 706.
5 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Eléuthera editrice,
Milano 1993.

399
Sergio Belardinelli

piano individuale che sociale: scandalose povertà, vergognose forme di


schiavitù, degrado umiliante di certi quartieri, la stessa politica ridotta a
“non luogo”, visto che non è più chiaro dove si prendono le sue de-
cisioni fondamentali, se nei parlamenti o dietro le quinte tra i leader e
i loro “cerchi magici”, da un lato, e il mondo dei media e del denaro,
dall’altro. La Metropolis nell’omonimo film di Fritz Lang, la Los Ange-
les di Ridley Scott in Blade Runner o Gotham City di Tim Burton in
Batman sono esempi eloquenti in tal senso. Un vecchio detto tedesco
dice che “la città rende liberi”, ma in questi racconti cinematografici la
città appare piuttosto come un luogo degradante dell’ humanum e della
civiltà in generale, vuoi nella forma di geometrie sempre più astratte,
perfette e inquietanti (Metropolis e Gotham City), vuoi nella forma di
una “città-fogna” letteralmente dilaniata dalla violenza e da delitti d’ogni
genere (Los Angeles). Questi esempi ci dicono che le nostre città posso-
no essere forse delle “macchine per abitare”, ma esse appaiono sempre
meno come “luoghi” da abitare, luoghi che evochino la capacità umana
di “costruire” e “custodire”, la capacità umana di riconoscere e di rico-
noscersi negli edifici e nei volti delle persone che si incontrano. Le città
ridotte a “non-luoghi”, appunto: spazi sempre più anonimi, frequentati
da individui sempre più soli e isolati. Stazioni, areoporti, supermercati,
alberghi, campi profughi esprimono secondo Augé la quintessenza del
“non luogo”, diciamo pure, il contrario di un luogo nel senso comune
del termine6. Ma potremmo radicalizzare il discorso dicendo che anche
le nostre case faticano spesso ad essere un luogo; anche le nostre case,
trasformatesi in anonimi appartamenti per proteggere meglio un’intimità
sempre più egoista, rischiano di diventare un luogo di solitudine.

2. La società dei non-luoghi

Come ha notato George Simmel, non è privo d’importanza il fatto che


“le case cittadine del Medioevo fossero in generale, e spesso ancora
fino al secolo XIX, indicate con un nome proprio”7 e che da un cer-
to momento in poi vengano identificate attraverso un numero. “Nella

6 Cfr. ibid.
7 G. Simmel, Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società, in Id., Sociologia, Edizioni
Comunità, Milano 1989, 541.

400
Abitare la società dei non-luoghi: la famiglia sorgente di spazio sociale

differenza tra il nome individuale e il semplice numero della casa – dice


Simmel – si esprime una diversità nel rapporto del possessore e dell’a-
bitante con essa, e proprio perciò con il suo ambiente. Determinatezza
e indeterminatezza della designazione sono qui mescolate in misura del
tutto caratteristica. La casa contraddistinta con il nome proprio deve dare
a quelle persone una sensazione di individualità spaziale, l’appartenenza
ad un punto spaziale qualitativamente stabilito; con il nome, che era as-
sociato alla rappresentazione della casa, questa costituisce in misura mol-
to maggiore un’esistenza per conto proprio, colorata individualmente, e
che ha per il sentimento una forma superiore di unicità che non nel caso
di una designazione mediante numeri, che si ripetono uniformemente
in ogni strada e tra i quali sussistono soltanto differenze quantitative”8.
Per usare un’espressione che ho sentito dall’architetto Lucien Kroll,
le prime città antiche nacquero spontaneamente, come una sorta di im-
provvisazione jazzistica; esprimevano un vero e proprio disordine viven-
te che cresceva organicamente, non geometricamente. I piani regolatori
sono invenzioni moderne che trasformano la città in un oggetto fabbri-
cato, obbediente non più alla liturgia della casa e dell’abitare degli uomini,
bensì al potere.
In effetti, certi quartieri che vengono costruiti in modo uniforme,
privi di punti d’identificazione, l’agglomerato urbano, dove le strade
sembrano essere ovunque le stesse, dove le case diventano appartamenti
e le piazze cessano poco a poco di essere luoghi d’incontro; questi quar-
tieri, dicevo, hanno ben poco di “liturgico”. Piuttosto essi fanno pensare
a Trude, una delle città invisibili di Italo Calvino, la “città continua”,
dove i sobborghi e le “strade gialline e verdoline” e “le stesse aiole delle
stesse vie del centro” sono uguali a quelli di qualsiasi altra città. Cambia-
no solo i nomi degli aeroporti.
Pertanto, parafrasando il saggio di Georg Simmel sulla “metropoli”,
la domanda che ho posto poco sopra potrebbe essere posta anche in
questo modo: che cosa succede nel momento in cui la città diventa una
sorta di fluido, incapace di marcare lo spazio rispetto agli orti suburbani
e la campagna e, come diceva Marx, “tutto ciò che è solido si dissolve
nell’aria”?

8 Ibid.

401
Sergio Belardinelli

Simmel, Spengler, lo stesso Heidegger che abbiamo visto, tanto per


fare qualche esempio significativo, ma potremmo aggiungere anche il
nome di Pierpaolo Pasolini, sono particolarmente attenti a questa tra-
sformazione della città; avvertono come pochi la tragedia culturale che
in essa si consuma. Il prodotto più grande della cultura umana, ciò che
l’uomo ha costruito per sottrarsi alla natura, ai suoi cicli sempre uguali,
e darsi in questo modo una dimora stabile, una casa, dove far nascere i
propri figli, e una piazza dove essere “cittadino”; questo artificio, dice-
vo, diventa poco a poco una sorta di “seconda natura”, qualcosa in cui
diventa sempre più difficile per l’uomo riconoscersi; diventa un nemico
che bisogna nuovamente assoggettare. “L’uomo della civiltà, che era sta-
to formato spiritualmente dalla campagna, diviene proprietà e strumento
della sua stessa creatura, della città, e infine viene ad essa sacrificato”9.
È la famosa diatriba tra cultura e civilizzazione, che si esprime in
diverse forme: nell’abbandono di quello che Spengler chiamava il “cor-
po vivo” di un’anima, la cultura, a vantaggio dell’affermarsi della sua
“mummia”, la civilizzazione; nella “gabbia d’acciaio” di cui parlava We-
ber o nel passaggio dalla “comunità” alla “società”, da una situazione in
cui gli individui erano uniti “nonostante le separazioni”, a una situazione
in cui gli individui sono “separati anche quando sono uniti”, di cui par-
lava Toennies. Confesso che non ho grande simpatia per questa temperie
culturale che attanaglia un po’ tutta la cultura europea d’inizio secolo
ventesimo. Il pessimismo culturale, il senso di decadenza, il fastidio per
la civiltà e le libertà borghesi che la pervadono finiranno purtroppo per
favorire l’affermazione dell’ideologia totalitaria fascista e nazionalsocia-
lista10. Ciononostante mi sembra comunque degno di considerazione
quanto i “Kulturpessimisti” vedono nella moderna metropoli. Come è
stato scritto in riferimento a Spengler, essi effettivamente vedono “nel
volto vittorioso e fascinosamente tecnologico della ‘cosmopoli’ la cifra
stessa del destino della nostra civilizzazione: la maschera funebre dell’e-
stremo sradicamento che, al contempo, consente di sentirsi a casa ovun-
que e in nessun dove, trasformando i suoi abitanti in cosmopoliti dap-
pertutto stranieri. Essa è l’ultima incarnazione del grande mito fondante

9 O. Spengler, Tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 1981, 793.


10 S. Belardinelli, “Kulturpessimismus gestern und heute”, in Geschichte und Gegenwart,
3 (1992) 159-171.

402
Abitare la società dei non-luoghi: la famiglia sorgente di spazio sociale

dei Lumi, che ormai disvela la logica della sua anima faustiana, l’anelito
prometeico dell’Occidente. Il vagare inquieto dell’uomo dei primordi
paradossalmente ritorna all’estremo limitare della civiltà: quelle patrie
faticosamente inventate, quelle comunità da cui ha tratto identità e pro-
tezione, l’uomo d’Occidente le ha dissolte nella sua smania dell’oltre”11.
La città metropolitana, di cui parlava Georg Simmel, non ha più
nulla della bellezza che lo stesso Simmel attribuisce alla città di Roma,
da lui considerata come l’esempio più alto di una bellezza relazionata alla
“totalità interdipendente delle parti che sopravviene come il dono miste-
rioso dell’unità”12; è sempre più anonima e anomica e i suoi abitanti, per
sopravvivere, debbono “intellettualizzarsi mettendo a tacere emozioni e
sensazioni” e diventare dei semplici “blasé”. “L’essenza dell’essere blasé
consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alla differenza tra le
cose; il loro significato e valore sono avvertiti come irrilevanti. Al blasé
tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, senza preferenze”13.
Riprendendo la terminologia heideggeriana usata all’inizio, potrem-
mo dire che, nella città metropolitana, “abitare” diventa sempre più dif-
ficile; le “costruzioni” e la stessa vita pubblica non sembrano interessare
più la creatività e la libertà degli uomini; piuttosto sembrano quasi farsi da
sole, secondo una logica impenetrabile e autoreferenziale. Quanto infine
al riferimento che l’“abitare” intrattiene col “custodire”, col “prendersi
cura”, tale riferimento scompare completamente dall’orizzonte del blasé
metropolita; nell’opaco, uniforme, indifferente e febbrile grigiore della
sua vita, questi si limita tutt’al più alla “cura di sé”. “La casa è tramonta-
ta”, dice bruscamente Adorno nei Minima moralia: “Le case non esistono
più che per essere gettate via come vecchie scatole di conserva”14.
Dobbiamo dunque ritenere che l’odierna città metropolitana non
consenta più un “abitare” degno dell’uomo? Dobbiamo veramente pen-
sare che la moderna città sia La ville cubo-futurista, dipinta da Fernand
Léger nel 1919: un caos di tubi e ingranaggi apparentemente sconnessi,
ma tenuti insieme da una sorta di segreta, invisibile e coerente poten-
za? Assolutamente no. Certe tendenze ci dicono soltanto, quali sono le

11 C. Resta, “Stranieri nella metropoli”, in Anterem, 58 (1999) 82.


12 A. De Simone, Filosofia e sociologia dello spazio. Saggio su Simmel, in A. De Simone (a
cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, Quattroventi, Urbino 2005, 70.
13 G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1998, 43.
14 T. W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1954, 28.

403
Sergio Belardinelli

sfide con le quali dobbiamo fare i conti e l’urgenza di fronteggiarle con


una cultura adeguata, diciamo pure, con uno sguardo giusto, con uno
“sguardo contemplativo”, direbbe Papa Francesco. Ma dov’è che pos-
siamo essere introdotti a questo sguardo? Esiste un luogo dove sia ancora
possibile la gioia del custodire e del sentirsi custoditi? E, soprattutto,
esiste un luogo che sia “sorgente di spazio sociale”?

3. La famiglia come sorgente di spazio sociale

Anche a rischio di apparire eccessivamente perentorio, ritengo che que-


sto luogo esista e che si chiami famiglia. La famiglia rappresenta uno dei
luoghi privilegiati in grado di contrastare il degrado e la frammentazione
della nostra società. Ovviamente anche la famiglia ne è spesso intaccata,
ma proprio guardando la famiglia ci si può rendere conto che i processi
sociali di cui stiamo parlando non hanno in se stessi soltanto “pericoli”,
bensì anche numerose opportunità di salvezza. Su questo punto le ricer-
che sociologiche parlano molto chiaro. Sono coloro che hanno la fortuna
di sperimentare relazioni familiari soddisfacenti ad avere maggiori chan-
ce di cogliere le grandi opportunità del tempo presente, trasformando lo
stesso degrado delle nostre metropoli in luoghi dove incontrare l’umano,
trasformando altresì la libertà, non in un luogo di solitudine, bensì in un
luogo di responsabilità, quindi di apertura agli altri e alla società. La fami-
glia insomma come sorgente di spazio sociale, diciamo pure, la famiglia
come dimostrazione che nessun luogo potrà mai essere un “non luo-
go” finché ci sarà qualcuno capace di guardalo e di prendersene cura in
modo umano. Il moltiplicarsi di tanti “non luoghi” nella nostra società
dipende certo anche dal fatto che la famiglia stessa è diventata spesso un
“non luogo” e, in quanto tale, sempre più incapace di fornire quel patri-
monio di capitali sociali, quali fiducia, autonomia, responsabilità, solida-
rietà, senza i quali nessuna società, specialmente se liberale e democratica
è in grado di svilupparsi e sopravvivere15. Per questo abbiamo bisogno di
una cultura della famiglia che sia davvero un “coltivare”, un “aver cura”
dell’umano che in essa nasce e si sviluppa, consentendo a ciascuno, per

15 Cfr. S. Belardinelli, La normalità e l’eccezione. Il ritorno della natura nella cultura


contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.

404
Abitare la società dei non-luoghi: la famiglia sorgente di spazio sociale

dirla ancora con Heidegger, anche se in un senso non proprio heidegge-


riano, di abitare nel suo luogo più “autentico”16.
I “Kulturpessimisti” che ho citato prima almeno un merito lo hanno
avuto: quello di aver mostrato come il processo moderno, la tecnica, la
scienza, l’industria, l’individualizzazione, l’urbanizzazione abbiano pro-
dotto l’indebolimento di qualsiasi legame comunitario, rendendo obso-
lete pressoché tutte le “forme di vita” del passato, ma anche esponendo
gli uomini al pericolo di rimanere vittime di ciò che essi stessi hanno
costruito. Proprio come la Samaritana al pozzo con Gesù, di cui parla
Papa Francesco al n.72 della Evangelii gaudium, abbiamo bisogno di paro-
le che, suscitando pentimento e perdono, ci riconcilino con la comunità.
“Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto”: è
con queste parole piene di stupore che la Samaritana dà a vedere di es-
sersi riconciliata con se stessa e con la sua gente, ritrovando con se stessa
e con gli altri una relazione significativa.
Un po’ come si sentiva la Samaritana prima di incontrare Gesù, le
nostre famiglie e le nostre città sembrano spesso “incustodite”. Eppure
guai se pensassimo che tutto ciò rappresenti una sorta di destino, qualcosa
di ineluttabile, sfuggito definitivamente al controllo degli uomini, qual-
cosa che si fa beffe del loro desiderio di sentirsi a casa, di abitare, di avere
“luoghi” in cui identificarsi e vivere una vita umana degna del nome.
Il desiderio di libertà e di autorealizzazione che ha fatto da battistrada a
gran parte del pensiero moderno aveva in se stesso un grande impulso
generativo e liberante, ma anche un vulnus che soltanto oggi siamo in
grado di vedere nella sua giusta luce. Non si può essere liberi né felici in
solitudine: questo il vulnus. Siamo animali relazionali e, in quanto tali, la
nostra capacità di realizzare forme di vita individuale e sociale soddisfa-
centi dipende principalmente proprio dalle relazioni che abbiamo avuto
e che abbiamo con gli altri. Lo stesso vale per i nostri diritti. In quanto
uomini abbiamo sicuramente dei diritti, per esempio la vita e la libertà,
che ci spettano semplicemente per il fatto di essere nati uomini, ossia per
natura. Tuttavia, e questo nel nostro contesto mi sembra particolarmente
significativo, nessuno di noi, alla nascita, è in grado, da solo, di far va-
lere questi diritti. Essi valgono soltanto a condizione che una comunità
li riconosca e se ne faccia carico, li coltivi, prendendosi cura dei nuovi

16 Heidegger, Costruire Abitare Pensare, cit., 18.

405
Sergio Belardinelli

venuti. Veniamo al mondo dipendendo completamente dalle persone


che ci hanno generato; è con gli occhi di nostra madre, o comunque
di chi si prende cura di noi, che impariamo a guardare le cose e i volti
che abbiamo intorno; è grazie al volto di chi ci ama che impariamo la
bellezza della vita e della nostra libertà. In questo senso davvero la co-
munità familiare è la prima forma di “spazio sociale” che incontriamo
nella nostra vita; una forma che non è incidentale, ma costitutiva. Per
tutto il tempo della nostra prima infanzia, il tempo che gli psicologi e i
sociologi chiamano della socializzazione primaria, ognuno di noi esiste
soltanto nello spazio delle relazioni familiari. Il prendersi cura da parte
dei genitori è la modalità attraverso la quale i bambini imparano a usci-
re fuori, a emanciparsi dalla famiglia, a diventare autonomi, a guardare
con fiducia il resto del mondo e gli altri uomini. È grazie al fatto che
qualcuno si prenda cura di noi che diventiamo adulti, che impariamo a
prenderci cura di noi stessi e a sentirci a casa nel mondo che abitiamo, a
sentirlo nostro, fino ad assumerci la responsabilità di prendercene cura a
nostra volta.
Qui davvero possiamo dire che la famiglia è “sorgente di spazio
sociale”. Se è vero che dobbiamo ricostruire un tessuto urbano vivibile,
prenderci cura del luogo dove abitiamo, prestare maggiore attenzione
alle nostre relazioni con gli altri, alle formazioni sociali, diciamo pure, a
quei beni relazionali o immateriali, che per la qualità della nostra vita e
del nostro benessere sono di gran lunga più importanti del reddito o del
patrimonio, allora la strada passa inevitabilmente attraverso la famiglia,
attraverso la sua forza generativa sia in senso biologico che socio-cultu-
rale17. Soltanto la famiglia è in grado di produrre, dentro e fuori di sé,
quello “spazio sociale” che consenta di guardare a noi stessi, agli altri, alle
cose che produciamo, alle nostre stesse metropoli con lo sguardo di chi
intende “prendersene cura”, rendendo in questo modo più “umano” il
nostro abitare.

17 Belardinelli, La normalità e l’eccezione. Il ritorno della natura nella cultura contemporanea,


cit.

406
Anthropotes 33 (2017)

“Venne ad abitare in mezzo a noi”:


teologia della carne e dimora

José Granados*

SUMMARY: What are the basic forms of Christian dwelling? The article
responds to this question starting from the mystery of the Incarnation, where
“becoming flesh” is equivalent to “dwelling amongst us”. The connection in-
vites us to focus on the biblical conception of the body as the original dwelling
of man on earth (a conception also explored by contemporary philosophy and
theology) to describe the logic of dwelling inaugurated by Christ. It is proper of
this dwelling that it is, at the same time, a continuous building-up, and that
it is constituted as a space of conversation traversed by the word. This logic is
offered to Christians in the place opened up by the sacraments which, in their
turn, sustain the building of the Church, the house of God. On this horizon,
the role that marriage plays is explored, in order to see how the creaturely logic
of dwelling is included in the Christian habitat inaugurated by Jesus. The
study of the Christian environment helps to explore how the Church vivifies
social spaces that today, in a society of “non-places”, tend to close in on them-
selves, becoming uninhabitable.

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14).


Nella frase di Giovanni, l’Incarnazione della Parola è legata all’acquisi-
zione di una dimora: piantò la sua tenda. La prima parte del versetto –“si
fece carne”- definisce l’elemento apicale di ciò che è cristiano; in essa si
* Docente di Teologia Dogmatica e Vice Preside del Pontificio Istituto Teologico per
le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, Roma.

407
José Granados

basa la confessione di fede, intorno ad essa cresce l’immaginazione cre-


dente, in essa la teologia affonda le sue radici. Un modo per approfondi-
re il suo significato, consiste nell’osservare la seconda parte del medesimo
versetto (la dimora, la tenda, l’abitare tra i suoi). Questo “abitare”, di
fatto, non va letto come se fosse successivo all’assunzione della carne. Al
contrario, incarnarsi significa piantare la tenda: “E il Verbo si fece car-
ne”, vale a dire che “venne ad abitare in mezzo a noi”.
Alla luce di questo, l’evento cristiano per eccellenza -l’incarnazio-
ne- tratta di qualcosa di tanto semplice quanto la dimora, una dimora
comune, nella quale Gesù entra trasformandola radicalmente con la sua
presenza e con il suo cammino nel mondo. Si tratta, inoltre, della dimo-
ra primigenia di ogni uomo: la carne, fragile casa di argilla (cfr. Giobbe
9,15), grazie alla quale, a partire dalla nostra nascita in una famiglia, siamo
dimora gli uni degli altri. Incarnazione significa, quindi, “inabitazione”.
Si uniscono così due parole chiave della teologia: la prima riferita al mi-
stero di Cristo, la seconda al mistero della vita di grazia dei cristiani, nei
quali vive la Trinità. Entrambi i termini si ricollegano all’esperienza della
dimora, quella prima dimora che è il corpo, là dove si aprono all’uomo
le relazioni con il mondo, con gli altri, con Dio.
Il mio intento, in questa disamina, è volto a cercare di mostrare
come la condizione cristiana consista precisamente in una forma comu-
ne di abitare il mondo, inaugurata con la vita nella carne di Gesù. Di
conseguenza, per comprendere e praticare la fede, occorrerà partire non
già dall’individuo (dalla sua coscienza e dalle sue decisioni private) ma
piuttosto dall’ambiente relazionale che gli viene dato, quello nel quale
vive e a partire dal quale può fiorire. Naturalmente, alla luce di questa
considerazione, il matrimonio e la famiglia, luogo originario dell’espe-
rienza dell’abitare, si mostrano come cammino privilegiato della Chiesa,
nell’ambito di tutta l’economia sacramentale.
La questione diventa importante soprattutto al giorno d’oggi quan-
do, da un lato, la Chiesa perde terreno nello spazio pubblico e, dall’al-
tro, la società sembra aver rinunciato ad abitare il mondo poiché, come
osserva Zygmunt Bauman, l’utopia che riempie i sogni dell’uomo viene
interpretata oggi in senso letterale: non un luogo futuro a cui arrivare, ma
un “non-luogo”, vale a dire, l’u-topia come assenza di ogni ambiente, in

408
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

quanto si pensa che ogni ambiente opprima l’uomo1. Da qui scaturisco-


no una serie di interrogativi: come descrivere la dimora cristiana? In che
modo è possibile entrare e rimanere in essa? Qual è il rapporto tra questa
dimora e gli altri spazi in cui vivono gli uomini? Nel rispondere a queste
domande, comprenderemo quanto è importante il ruolo della famiglia e
vedremo in che senso continua ad essere il cammino della Chiesa.

1. L’Incarnazione: una nuova forma dell’abitare

L’antropologia biblica conferma l’equivalenza tra incarnarsi ed abitare.


Vivere nella carne è il primo stabilirsi nel mondo, è quello che dà sen-
so a qualsiasi altra dimora che l’uomo possa edificare: la casa, la città, il
tempio… È così perché la carne ci mette in relazione con le cose e le
persone, consentendoci di appartenere ad esse. Data la nostra condizione
incarnata, il mondo circostante non è estraneo al nostro nome, ma ne è
una dimensione integrante, necessaria per esprimere la nostra identità.
Questo fatto potrebbe portarci a definire il corpo come un carcere,
ritenendo che le sue circostanze concrete siano un limite; ma l’esperien-
za corrente dell’uomo che viene al mondo smentisce questo approccio.
La prima cosa che l’uomo percepisce, quando è accolto nel ventre ma-
terno e quando nasce in una famiglia, sotto la protezione dell’amore dei
genitori, è che il corpo, lungi dall’essere una prigione, è una dimora, è
un luogo accogliente di appartenenza che garantisce la bontà della vita.
Gli archi e le mura dell’abitare corporale dell’uomo sono le relazioni
personali che lo ricevono e che lo accompagnano lungo il suo cammino:
l’unione indissolubile tra suo padre e sua madre, il rapporto con i fratelli,
l’appartenenza ad un paese e ad una catena di generazioni… Dire “di-
mora” e non “carcere” non significa, naturalmente, che questa dimora
non sia minacciata o che non sia fragile o che non sia necessario ripa-
rarne le mura; ma garantisce tuttavia che la prima parola sia sempre una
parola affermativa sull’esistenza, affinché il male sia soltanto un parassita
del bene.
Osserviamo brevemente che questo nesso tra incarnarsi e abitare
in una famiglia è stato appurato anche dalla filosofia contemporanea.

1 Cfr. Z. Bauman, Society Under Siege, Polity Press, Cambridge 2013.

409
José Granados

Secondo Gabriel Marcel, ad esempio, “tra il mistero dell’unione dell’a-


nima con il corpo e il mistero familiare c’è un’unità profonda, forse
troppo poco sottolineata: nei confronti di entrambe siamo in presenza di
un medesimo fatto, o meglio di qualcosa che è molto di più di un fatto,
poiché è la condizione stessa di tutti quanti i fatti: l’incarnazione”2. Allo
stesso modo, Martin Heidegger identifica con un “abitare” la situazione
originaria dell’uomo nel mondo: non è che l’uomo abiti perché inizial-
mente abbia edificato, ma edifica perché fin da sempre abita, ossia, vive
tra gli altri e tra le cose, sulla terra e sotto il cielo3.
Quali sono le prospettive per comprendere l’Incarnazione che si
aprono a colui che parte dall’esperienza biblica dell’“abitare”? In primo
luogo, questo fatto ci invita ad adottare uno sguardo relazionale, che
vede Cristo situato nell’ordine del cosmo e delle generazioni: è primo-
genito, è fratello, sposo, padre, è nostro concorporeo e consanguineo4.
Che il Verbo si faccia carne significa che abita in mezzo a noi, ossia, che
appartiene alla nostra stessa rete di relazioni per mezzo della carne della
Vergine Maria, figlia di Abramo, figlia di Adamo. Ecco perché, per i
Padri della Chiesa, l’assunzione della carne equivaleva all’essere “consu-
stanziale a sua madre” (consubstantialis matri)5.
Sarebbe dunque in errore colui che volesse riferire “il Verbo si fece
carne” al Verbo come persona isolata e alla carne come natura umana in-
dividuale. Al contrario, entrambi, Verbo e carne, mostrano un’apertura
radicale: il Verbo è il Logos o la Parola che vive in dialogo continuo di
risposta al Padre per estendere la conversazione ai fratelli; la carne è quel-
la plasmata da Dio mediante la quale apparteniamo ad una sola famiglia.
In altri termini, se “incarnazione” è “inabitazione” allora la figura
di Cristo esce dai margini angusti dell’individuale isolato per introdursi,
fin dal principio, senza mescolarsi né separarsi, nel racconto dell’intera

2 Cfr. G. Marcel, “Le mystère familial”, in Id., Homo viator: prolégomènes à une
métaphysique de l’espérance, Aubier, Paris 1963, 87-124: “entre le mystère de l’union de
l’âme et du corps et le mystère familial, il y a une unité profonde qu’on a peut-être
trop peu soulignée: ici et là nous sommes en présence d’un même fait, ou plutôt de
quelque chose qui est bien plus qu’un fait, puisque c’est la condition même de tous les
faits quels qu’ils soient: l’incarnation” (91).
3 Cfr. M. Heidegger, “Bauen, Wohnen, Denken”, in Vorträge und Aufsätze, Neske,
Pfullingen 1994, 139-156.
4 Cfr. Cirillo di Gerusalemme, Catequesis Mystag. IV 3 (SCh 126 bis,136).
5 Cfr. B. Studer, “Consubstantialis Patri, consubstantialis Matri: une antithèse
christologique chez Léon le Grand” in REAug 18 (1972) 87-115.

410
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

famiglia umana e nella storia del cosmo. Partendo dalla visione del corpo
come istallazione nel mondo, possiamo applicare a Cristo la ben nota
frase di José Ortega y Gasset: poiché ogni uomo può affermare “Io sono
io e la mia circostanza”6, allora “Cristo è Cristo e la sua circostanza” e
a questa circostanza apparteniamo noi e appartiene la Chiesa. Di conse-
guenza, il cristianesimo non consiste nell’azione di un individuo (Cristo)
su altri individui (i cristiani), ma piuttosto nella fondazione, a partire
da Gesù, di una nuova forma di abitare che ricostruisce e ridimensiona
l’istallazione umana nel mondo e, a partire da questo nuovo ambiente,
rigenera l’identità della persona.
Che il “farsi carne” del Verbo sia equiparato all’“abitare” del Verbo
tra noi, è qualcosa che conferma Gesù stesso nel Vangelo di Giovanni
quando chiama Tempio (dimora di Dio con gli uomini) il suo stesso
corpo (Gv 2,21). La teologia del Tempio, di fatto, è già l’elemento chia-
ve necessario per capire che “il Verbo si è fatto carne”: abitare significa
piantare la tenda (skenóo) come a suo tempo la piantò Dio tra il Popolo
e per questo si associa alla gloria manifestata da Dio (shekinah), che noi
abbiamo contemplato (cfr. Gv 1,14). La tradizione profetica aveva già
insistito, da un lato, sull’equivalenza tra il corpo del profeta e la città elet-
ta, e dall’altro su quella tra il corpo del profeta e la presenza rivelatrice di
Dio nel Tempio: mediante il corpo del suo inviato, il Signore abita già
in mezzo ai suoi7.
Lo stesso Evangelista ci offre altri due elementi che completano il
legame tra l’Incarnazione e l’abitare:
In primo luogo, san Giovanni precisa che la dedicazione definiti-
va del Tempio passa attraverso la morte e resurrezione di Cristo (cfr.
Gv 2,21): l’incarnazione-inabitazione è, pertanto, una realtà dinamica
che si concluderà soltanto con l’arrivo della Pasqua. Alla luce di questa
considerazione, possiamo affermare che abitare presuppone edificare (e
riedificare) giacché la dimora si costruisce nel tempo. I due estremi abi-
tare-edificare ci permettono di riassumere tutta la storia della salvezza
come un’espansione, a partire da Dio stesso, dell’ambiente relazionale
dell’uomo: la Bibbia narra la storia di un luogo in costruzione. Poiché il

6 Cfr. J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, in Obras completas, vol. I, Taurus,
Madrid 2004, 757: “Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella, no me salvo yo”.
7 Cfr. M. Cucca, Il corpo e la città: studio del rapporto di significazione paradigmatica tra la
vicenda di Geremia e il destino di Gerusalemme, Cittadella, Assisi 2010.

411
José Granados

Tempio che si edifica è una realtà vivente, allora possiamo usare anche il
binomio “abitare-coltivare”8.
Nel suo Commento al Vangelo di Giovanni, Sant’Agostino identifi-
ca perfettamente questo nesso tra l’Incarnazione e l’“abitare-edificare”.
Secondo l’Ipponate, Gesù parla del Tempio che si iniziò a costruire in
Adamo9. Cristo, assumendo la carne, assume questo Tempio dell’u-
manità, che sarà distrutto con la sua passione e nuovamente ricostituito
con la risurrezione. Il tempio di Adamo racchiude in sé tutti gli uomini,
poiché le lettere del suo nome indicano, in greco, il nord e il sud, l’o-
riente e l’occidente. Inoltre, la somma dei numeri associati ad ognuna
delle lettere della parola “Adamo” fa esattamente quarantasei, ossia gli
anni che furono necessari per la costruzione del Tempio (cfr. Gv 2,20):
pertanto, il Tempio assume in sé il trascorrere delle generazioni, a partire
da Adamo fino a Gesù, per prolungare la sua storia nella Chiesa.
In questa luce si possono capire le affermazioni del Vangelo che
presentano Gesù senza abitazione fissa, nel senso che egli è sempre in
cammino. Gesù non ha dimora sulla terra in quanto la sua dimora è
solo una, il Padre. Si spiega così che tutto il creato, in tutte le situazio-
ni, possa essere dimora per lui. Dopo aver detto, infatti, che il Figlio
dell’uomo “non ha dove posare il capo” (Mt 8,18-22), lo vediamo ben
presto addormentato nella tormenta, “posando il capo” sulla volontà del
Padre suo (Mt 8,23-27). In conclusione, l’abitare con noi è un abitare in
cammino verso la patria, che si inaugurerà solo quando il risorto, nella
sua carne, si siederà alla destra del Padre.
In secondo luogo, dimorare con Cristo significa anche accettare le
sue parole e rimanere in esse, come si evince chiaramente dal discorso di
commiato di Gesù: chi osserva la parola diventa dimora del Padre e del
Figlio (Gv 14,23; cfr. Gv 15,3-4.10). Ancora una volta, stiamo toccando
un elemento chiave di ogni esperienza umana che il Verbo ha assunto
nella sua totalità. La dimora specifica dell’uomo, infatti, a differenza di
quanto accade con gli animali, è una dimora del linguaggio. Ogni bam-
bino che nasce nella carne, avvolto dal ventre materno e dall’amore dei
suoi genitori, nasce anche nell’atmosfera di una conversazione, a partire

8 Cfr. C.G. Bartholomew, Where Mortals Dwell: A Christian View of Place for Today,
Eerdmans, Grand Rapids 2011, 26-28.
9 Cfr. Agostino, In Ioh. X, 12 (CCL 36, lin. 1).

412
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

dalla quale potrà imparare a parlare e a pronunciare autonomamente una


parola. Come ha recentemente scritto Charles Taylor: “il punto fonda-
mentale che emerge dall’ontogenesi del linguaggio è che può essere im-
partita soltanto a partire dall’interno di relazioni nelle quali si condivide
un legame emozionale, che potremmo definire ‘comunione’“10. Succes-
sivamente Taylor spiega la costituzione dell’identità personale citando
un verso di Hölderlin: “a partire da una conversazione, noi siamo” 11. Il
noi dell’“abitare” è completo soltanto quando si intende unito alla sfera
del linguaggio, alla conversazione alla quale partecipiamo per il semplice
fatto di essere nati. Il linguaggio, afferma Luce Irigaray è “la dimora che
rende l’uomo essenzialmente uomo”12.
Dall’“incarnarsi” del Verbo si passa dunque all’“abitare-coltiva-
re-conversare” dei cristiani. Questa connessione di idee ricorrerà in tut-
ta l’età patristica. I Padri, in continuità con la Scrittura, concepiscono
la carne come categoria relazionale, assunta da Gesù per unirsi ad ogni
uomo e, così, offrire a tutti il riscatto. In quest’ambito, sant’Ilario è uno
dei testimoni più eloquenti, con la sua teoria sull’assunzione in Cristo
di tutta l’umanità13. Per spiegare questa capacità di toccare ogni uomo,
Ilario adotta un concetto relazionale della persona, concetto la cui radice
affonda nella carne. Di fatto, è suo il confronto della carne con una città.
Da un lato, il corpo di Cristo è un monte sul quale è costruita la città
che non si può nascondere, la Chiesa14. Dall’altro, è il corpo stesso di
Cristo ad essere la città, i cui abitanti siamo noi15. Non vi è qui nessuna

10 Sul rapporto tra dimora e linguaggio, cfr. Ch. Taylor, The language animal: the full
shape of the human linguistic capacity, Harvard University Press, Cambridge, MA -
London 2016, 55.
11 Cfr. Ch. Taylor, The language animal, cit., 67: “This [Hölderlin’s dictum] not only
points to the beginnings of speech in communion, but also to the ‘we’ of communion,
which needs recurrently to be recovered out of alienation and division by such
restorative exchanges”.
12 Cfr. L. Irigaray, Éthique de la différence sexuelle, Minuit, Paris 1984, 123: “Deuil jamais
accompli de la nidation intra-utérine que l’homme va tenter, en une fondamentale
nostalgie, de colmater par ses œuvres de bâtisseur de mondes, de choses, et de cette
demeure qui le ferait essentiellement homme: le langage”.
13 Cfr. L.F. Ladaria, La cristología de Hilario de Poitiers, Editrice Pontificia Università
Gregoriana, Roma 1989.
14 Cfr. Ilario di Poitiers, In Psal XIV, 5 (CCL 61, 83).
15 Cfr. Ilario di Poitiers, In Mt IV 12 (SCh 254, 130): “Ciuitatem carnem quam
adsumpserat nuncupat, quia, ut ciuitas ex uarietate ac multitudine consistit habitantium,
ita in eo per naturam suscepti corporis quaedam uniuersi generis humani congregatio
continetur”.

413
José Granados

confusione che tolga valore all’unione ipostatica, ma è piuttosto una


visione relazionale della persona a partire dalla sua carne, che è specifica
dello sguardo biblico.

2. I sacramenti, forma dell’abitare del cristiano

Possiamo chiederci ora: come si trasmette l’abitare di Cristo all’abitare


dei cristiani? La risposta della Bibbia e della tradizione è unanime: ciò
avviene nei sacramenti. Già San Giovanni, nel suo Vangelo, associa l’a-
bitare di Gesù tra noi e l’Eucaristia. Così, con l’immagine della vite e i
tralci (Gv 15,1-8) si insiste, sia sulla presenza di Cristo tra i suoi, come il
Padre dimora in Lui (abitare); sia sulla coltivazione e sul frutto che matu-
rano grazie a questa permanenza (coltivare); sia sulla parola che permette
di rimanere in Lui (conversare). Nel discorso del pane di vita (Gv 6,25-
71), Gesù dice che mangiare la sua carne significa abitare in Lui e che
Lui abita nel credente (Gv 6,56); tutto questo per raggiungere il frutto
della vita eterna, accogliendo le sue parole (Gv 6,45.68). L’Eucaristia
(e, a partire da essa, si dirà lo stesso per gli altri sacramenti) appare, alla
luce di queste considerazioni, come il luogo in cui la dimora di Cristo
diventa dimora dei suoi discepoli, proprio in virtù della comunicazione
tra il corpo e la parola.
Questo approccio rimane in auge nell’età patristica. Ilario di Poi-
tiers, al quale abbiamo già fatto riferimento, si spinge a dire che l’unione
dei cristiani non si basa sull’unanimità (comunione degli animi) tra loro.
In altri termini, la Chiesa non è in primo luogo l’assemblea di coloro
che condividono una stessa decisione nei confronti di Dio abbracciando
una stessa fede, poiché il tocco non si concentra principalmente sulla
coscienza o sul volere. Sant’Ilario contrappone questa unità ad un’altra
che assomiglia molto a quella dei membri di una famiglia che, già fin
dalla nascita, appartengono ad un medesimo corpo. Il bambino che vede
la luce in una famiglia non è un individuo isolato che successivamente
inizia a rapportarsi con altri individui che si trovano lì. Accade piuttosto
che questo, ben prima di volersi unire alla sua famiglia, già appartiene ad
essa in quanto è fatto della stessa carne, poiché abita nelle sue relazioni,
relazioni che lo costituiscono dal di dentro. L’“abitare” appare come
realtà primigenia: a partire dalle “mura” relazionali, che lo associano fin

414
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

da subito ai suoi, si struttura l’identità del figlio e la sua capacità di amare


questa unità.
Seguendo questo confronto, la dimora nella quale i cristiani abitano
in comune è, per Ilario, il corpo di Cristo, nel quale si entra mediante il
battesimo e l’eucaristia. L’abitare insieme conferisce una unità che pre-
cede il volere umano, unità nella quale l’uomo è introdotto da una sorta
di generazione, ricevuta nel sacramento. Ecco dunque che ritroviamo
l’idea di una forma di abitare che non è il risultato di ciò che l’uomo
ha costruito, ma piuttosto il suo presupposto. Anche in questo caso vale
l’intuizione di Heidegger: edifichiamo perché fin da sempre abitiamo, e
abitiamo perché Cristo ci ha generati nella sua famiglia.
In questa prospettiva, i sacramenti, in quanto contengono la forma
di vita di Cristo, sono lo sfondo architettonico sul quale si innalza la vita
cristiana. È qui che stanno i progetti della casa, l’ordine dei pilastri e del-
le colonne, un ordine che raccoglie le caratteristiche del fatto cristiano.
Rinunciare a questo ordine armonico dei suoi sette sacramenti nonché
alle sue caratteristiche essenziali, come modi di vivere nel corpo comuni
a tutti i fedeli, equivarrebbe per la Chiesa a chiedere a una famiglia di
rinunciare alle sue proprietà fondamentali: è proprio così che oggi si
giustificano erroneamente i vari “modelli di famiglia”.
Ilario aggiunge che questa comunità eucaristica, unita poiché abita
in uno stesso corpo (o casa) è un riflesso della Trinità, in cui il Padre e il
Figlio sono uno, non primariamente per una comunione di volontà, ma
per la natura comune, il che garantisce la piena uguaglianza di entram-
bi16. La dimora corporale riflette così la conversazione tra il Padre e la
sua Parola eterna. Vediamo, in questo caso, come l’età patristica conser-
vi, insieme all’“abitare-edificare”, che si radica nella carne, il riferimento
alla parola, allo spazio di conversazione che il Verbo inaugura. Ecco per-
ché il luogo privilegiato per confessare la dottrina cristiana sarà sempre
l’ambito sacramentale, cassa di risonanza necessaria affinché la parola sia
accolta e trasmessa. Al di fuori dello spazio e del racconto dei sacramenti,
la parola non può dirsi né comprendersi; d’altro canto, questo spazio,
senza parola, si riduce ad una discarica amorfa e perde la sua unità narra-
tiva, cessando di essere abitabile. In questo modo, la dottrina cristiana si
comprende non già come una verità idealizzata o astratta, ma piuttosto

16 Cfr. Ilario di Poitiers, De Trinitate VIII 13-17 (CCL 62A,325-329).

415
José Granados

come una forma concreta che adottano le relazioni e l’edificazione della


dimora nel tempo, come avviene con i progetti e i calcoli delle forze che
consentono alla casa di stare in piedi.
In altri termini, nel sacramento si concentra la triplice dimensione
dell’abitare-edificare-conversare. Può essere definito come una forma
di abitare radicata nel corpo che si apre al di la di sé (è simbolica) attra-
verso un cammino nel tempo. Questa forma di abitare è, inoltre, intrisa
di parola, la parola di Gesù che coordina lo spazio sacramentale e il suo
ritmo narrativo. Questo approccio corrisponde alla divisione classica del
segno sacramentale in materia e forma (parola). Salta agli occhi che il
matrimonio, inteso come prima dimora relazionale che accoglie l’uomo
nel mondo, serve qui da sostrato creaturale per l’ordine delle relazioni
inaugurato da Cristo, e nel quale la Chiesa abita.

3. La Chiesa, casa o città di Dio: sintesi agostiniana

Se i sacramenti sono il modo in cui ci viene comunicato questo “abi-


tare-edificare” di Cristo, essi saranno anche le colonne fondanti della
Chiesa, che potrà essere vista come casa o città. Così risulta dallo studio
di una delle prime opere che ha analizzato nel dettaglio il modo in cui i
cristiani abitano il mondo: La città di Dio, di Sant’Agostino.
Per l’Ipponate, è chiaro che il cristianesimo non è un evento indivi-
duale, ma è piuttosto una forma comune di abitare, di entrare in relazio-
ne con le cose e le persone. Ciò significa che la nostra relazione con Dio
è sempre mediata dalla concreta adesione alla forma di abitare di Cristo,
che si conserva nella Chiesa. Dio si chiama nostro Dio perché edifica
per noi una città (cfr. Ebr 11,16), e lo è nella misura in cui ce la edifica.
Ebbene, se questo è vero, se il cristianesimo è una forma comune
dell’abitare, allora non potrà essere descritto senza tenere in considera-
zione altri modi di abitare degli uomini. È alla luce di questa conside-
razione che Agostino sviluppa il contrasto tra la città della Chiesa, dove
l’uomo vive secondo Dio, e la “città dell’uomo”, dove l’uomo vive
secondo l’uomo17. Occorre osservare che in entrambi i casi abbiamo

17 Cfr. De civ. Dei XIV, 6, 2: “civitates duas diversas inter se atque contrarias […] quod
alii secundum hominem, alii secundum Deum vivant”; ibid. XIV, 5, 1: “deserto
Creatore bono, vivere secundum creatum bonum, non est bonum”.

416
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

delle società e non solo dei modi individuali di vivere; anche la “città
dell’uomo” lavora per una certa pace e concordia ed edifica un certo
focolare terreno18. La differenza è che la città dell’uomo ha già qui la sua
dimora, nella quale si cerca la pienezza dell’umano, ma dell’umano senza
Dio (che è la perdita dell’umano)19. La città di Dio, invece, è una città di
pellegrini, i cui abitanti non hanno qui la loro patria, poiché vivono in
cammino verso di essa20. Di conseguenza, la forma cristiana dell’abitare
è sempre in cammino; non è una modalità già insediata, ma in attesa
della sua pienezza ancora da venire e che arriverà soltanto con la fine
della storia. Per capire chi è la Chiesa si devono mettere insieme, come
abbiamo visto accadere nella vita di Gesù, la dimensione della dimora e
la dimensione del “cammino” verso il Padre, verso la patria21.
Naturalmente, questo non significa che i cristiani non abbiano qui
sulla terra un modo comune di vivere, che dà forma alle loro relazioni
e alle loro azioni nella società. Di fatto, il fondatore di questa società è
Cristo, colui che pose le fondamenta con la sua vita nella carne. È ad
essa che appartengono i cristiani mediante il battesimo, porta d’ingresso,
che contiene specifiche modalità di entrare in relazione, a immagine
della vita di Gesù. Seguendo Agostino, la piantina della città può essere
definita a partire dall’Eucaristia. Con essa culmina la prima parte de La
città di Dio (libro X), dove si parla del culto retto a Dio, ossia dell’ordine
ultimo dell’abitare umano. Mentre la città terrena è caratterizzata da un
politeismo che, in fondo, altro non è che esaltazione delle diverse attività
terrene che i molteplici dei proteggono, la città di Dio risulta ordina-
ta intorno all’amore fondante del Creatore, a cui si riferiscono gli altri
amori. È proprio in questo voler ordinare tutti gli amori all’amore di Dio

18 Cfr. De civ. Dei XIX, 14.


19 Cfr. De civ. Dei XIV, 3, 2: “vivendum secundum se ipsum, hoc est secundum
hominem, factus est homo similis diabolo, quia et ipse secundum se iipsum vivere
voluit, quando in veritate non stetit”; ibid. XIV, IV, 1: “homo ita factus est rectus,
ut non secundum se ipsum, sed secundum eum a quo factus est, viveret […] de Dio
potest bene esse homini, quem delinquendo deserit; non de se ipso, secundum quem
vivendo delinquit”.
20 Cfr. De civ. Dei XIX, 17.
21 Cfr. L. Melina – P. Zanor, “La dimora ecclesiale dell’agire cristiano. Cronaca
teologica del II Colloquio “Quale dimora per l’agire? Dimensioni ecclesiologiche
della morale”, in Anthropotes 16 (2000) 211-218; L. Melina, “Agire morale cristiano
e Regno di Dio”, in L. Melina – P. Zanor, Quale dimora per l’agire? Dimensioni
ecclesiologiche della morale, Atti del II Colloquio dell’Area di Ricerca sullo Statuto della
Teologia Morale (Roma, 19-20 nov. 1999), PUL-Mursia, Roma 2000, 131-149.

417
José Granados

che consiste la misericordia, ovvero il più grande di tutti i sacrifici e di


tutto il culto. L’Eucaristia, dove si offre al Padre il corpo di Cristo e, con
esso, il corpo dei cristiani è, pertanto, il sacrificio più grande, in quanto
sacrificio di unità in Dio di tutte le membra del corpo di Cristo. Ecco
perché possiamo affermare che il sacrificio è la città stessa di Dio, corpo
di Cristo, la quale si offre precisamente in ciò che offre22.
La forma cristiana dell’abitare, quindi, non è mera forma futura, ma
possiede piantine e pareti già prestabilite. Come abbiamo avuto modo di
osservare, giacché queste pareti si stanno ancora espandendo, possiamo
affermare che la città di Dio racchiude un modo simbolico di abitare,
poiché guarda al di là di sè, preparando il mondo a venire. In questo
modo, Agostino ha inteso la città di Dio come pellegrina tra le perse-
cuzioni del mondo e le consolazioni divine. La formula coniata da Cul-
lmann “già e non ancora” raccoglie qualcosa di questa forma dell’abitare
cristiano secondo l’Ipponate, che tiene conto della distanza escatologica.
Questa formula, tuttavia, risulta alquanto vaga e dialettica e occorrereb-
be renderla più concreta come segue: “già abitiamo e, per questo, ancora
edifichiamo”. L’“abitare” è costituito dalla vita di Cristo e dalla forma
dei sacramenti che Lui ci ha lasciato e che sono le mura e le colonne
della città di Dio. Il rispetto verso queste pareti, il fatto di lasciarsi pro-
teggere da queste e farne delle fondamenta, l’essere disposti a edificare
su di esse, è il principio della vita cristiana. “Edificare”, dal canto suo,
consiste nel modo personale di far proprio l’abitare ed estenderlo a tutte
le regioni e ai tempi della vita: si concluderà soltanto alla fine dei tempi.
Potremmo affermare, contraddicendo Mario Vittorino, la cui conversio-
ne ci viene raccontata da Agostino nelle sue Confessioni: sì, parietes faciunt
christianos23, in riferimento alle pareti che strutturano i legami personali
vissuti nella Chiesa, in quanto raccolgono il modo di vivere di Cristo.
È da questo approccio che, agli occhi di Sant’Agostino, emergono
due interrogativi.
a) Proprio perché la forma dell’abitare della città di Dio si radica
nel corpo del cristiano, che si conforma nei sacramenti al corpo di Cri-
sto, non sarà possibile stabilire una netta separazione con altre forme

22 Cfr. De civ. Dei X, 6: “Hoc est sacrificium Christianorum: multi unum corpus in
Christo. Quod etiam sacramento altaris fidelibus noto frequentat Ecclesia, ubi ei
demonstratur, quod in ea re quam offert, ipsa offeratur”.
23 Cfr. Agostino, Confessioni VIII 2 (CCL 27,115).

418
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

dell’abitare mondane. Di fatto, se la fede fosse questione di individui, o


se riguardasse soltanto lo spirito, potrebbe disporre di sfere ermetiche, al
riparo da intrusioni di estranei. Tuttavia, poiché condivide l’unico spazio
del mondo corporeo, e poiché si propone di fondare in esso una città, le
è impossibile isolarsi. Ecco perché il cristianesimo non si colloca sempli-
cemente accanto allo spazio profano, ma vi inserisce elementi propri, di
modo che entrambi si mescolino. Ne consegue dunque, in primo luogo,
che alla Chiesa interessi un buon governo temporale e che i cristiani si
sottopongano agli ordini dell’Imperatore e, in secondo luogo, che emer-
gano inevitabili conflitti tali da provocare violente persecuzioni.
È proprio qui che sta la differenza rispetto alle altre religioni con le
quali il cristianesimo primitivo ha dovuto fare i conti. Tutte disponeva-
no del proprio spazio in seno alla forma politica dell’impero. Si trattava
di forme dell’abitare in quanto si vivevano comunitariamente, sebbene
non fossero forme radicali dell’abitare ma piuttosto forme derivate, che
accettavano come base l’abitare comune nell’impero, il quale continua-
va a determinare il modo fondamentale di vivere. Era proprio questa
separazione di ambiti a consentire la convivenza pacifica tra questi culti
e la religione civile, o imperiale, che tutti potevano condividere e che
rappresentava il fondamento della vita comune.
Ebbene, eccezione fatta per il Popolo ebraico -ma esso rimane con-
finato nella razza ebraica- solo nel cristianesimo la comunità di salvezza
media radicalmente l’abitare del fedele e si presenta dinanzi all’impero
romano come una città che ha interesse per gli spazi stessi e che preten-
de di ordinare tali spazi in modo differente, orientandoli verso un’altra
meta. Proprio perché la Chiesa media il rapporto radicale con il divino,
non può essere subordinata all’impero, né considerarsi una parte di esso
e, in tal senso, fu correttamente identificata come una minaccia24. La
Chiesa si pone in conflitto con l’Impero, pur continuando ad obbedire
alle sue leggi, in quanto nega all’Impero la capacità di dare senso ad ogni
cosa e di conseguire una pace universale e duratura.
Alla luce di tutto questo, si potrebbe affermare l’esistenza di una
città pianificata da Dio al principio, e il cui ritmo di vita è la settimana,
l’hebdomada che culmina nel Sabato. Di fronte a questa, con il peccato,

24 Concetto formulato con grande lungimiranza dal pagano Celso: cfr. Origene, Contra
Celsum VIII, 2 (SCh 150, 182).

419
José Granados

nasce un’altra città, che Sant’Agostino chiama ‘la città dell’uomo’ e che
ha cancellato Dio dal proprio orizzonte: si tratta di una città il cui ritmo
temporale è l’hexameron, una settimana senza sabato, poiché imperniata
sulla glorificazione dell’uomo. E poi, c’è la Chiesa, la città di Dio, che ha
assunto in sé l’hebdomada completandola però a partire dalla domenica,
primo e ottavo giorno. Si tratta di una città che supera il tempo di questo
mondo e che vive verso una pienezza ancora da venire ma, nello stesso
tempo, è una città già posta sulle fondamenta della risurrezione di Cristo
e sui sacramenti istituiti da Lui.
A questo proposito, occorre osservare il ruolo rilevante di cui gode
il matrimonio nell’edificazione della città di Dio. Giacché il matrimonio
è, per Agostino, principio sociale originario per il quale tutti gli uomini
possono essere ricondotti ad uno solo e il cui fine è l’amicizia tra gli uo-
mini, questo sacramento si colloca al cuore di ogni società25. Inoltre, se-
condo il disegno del Creatore, la città di Dio avrebbe dovuto estendersi
a partire dal matrimonio. Il rifiuto opposto da Adamo ed Eva al progetto
divino farà sì che nel matrimonio si diffonda una città chiusa in se stes-
sa, guidata dalla concupiscenza. Tuttavia, è in questo stesso matrimonio
che si prepara anche la venuta di Gesù, fondatore della città Dio. Nel
matrimonio si incrociano, pertanto, gli spazi e i racconti delle due città.
b) Questa differenza di tempi tra l’abitare e l’edificare, consentirà
ad Agostino di spiegare un’altra caratteristica della Chiesa. Questa, non
essendo ancora giunta in patria, non costituisce una forma perfetta di
abitare sulla terra. Infatti, non tutti coloro che vivono tra le sue mura
accettano il modo di vivere di Gesù. Taluni si oppongono ad esso nel
privato, altri alla luce del sole. La Chiesa, come la rete colma di pesci
di cui parla Gesù, racchiude in sé una pesca buona ma anche una pesca
cattiva, che potrà essere separata soltanto all’arrivo in porto26.
Sant’Agostino si colloca dunque tra le due posizioni estreme: quel-
la che vuole la perfezione già fin d’ora (rappresentata dal donatismo) e
quella che dilata ogni perfezione al tempo futuro (coloro che l’Ipponate
descrive come mossi da una commiserazione indiscreta)27. Per rispon-
dere ad entrambe, Agostino ricorre all’esempio dell’arca di Noè, che è

25 Cfr. De civ. Dei XIV; De bono coniug. I 1.


26 Cfr. De fide et operibus III, 4.
27 Su questi ultimi, cfr. De fide et operibus I, 1-2.

420
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

proprio la città di Dio. Tale città contiene imperfezioni, poiché in essa


è consentito l’accesso a tutti gli animali, puri e impuri. Orbene, ciò
non significa che la Chiesa non conosca una forma comune dell’abitare;
tutti gli animali, infatti, entrano da una stessa porta, l’unica che possiede
l’arca: è la porta dei sacramenti, nella quale è racchiusa la forma di vita
di Gesù28. Di conseguenza, la Chiesa può ammettere nel suo seno tutti
coloro che conducono vite imperfette, a condizione che rispettino le
coordinate fondamentali del suo abitare, come raccolte nei sacramenti:
“Chi infatti, meditando come si conviene sulla nostra dimora presso Dio
- alla quale sono predestinati tutti coloro che sono stati chiamati secondo
il suo disegno -, non si sforzerà di vivere in modo da essere in armonia
con tale dimora?”29.
I due estremi che Agostino evita, sebbene opposti, disdegnano pro-
prio la forma dei sacramenti, ricevuta in eredità da Gesù. Ciò accade,
nel donatismo, a causa dell’ansia da rigorismo: non conta il sacramento
come forma di vita, ma la santità personale di colui che lo dà e lo riceve.
Dall’altro lato, accade a causa dell’impazienza di accogliere tutti, giacché
in questo caso ciò che conta è offrire la salvezza e non la forma di tale
salvezza, la quale si ottiene, secondo quest’ottica, solo asintoticamente
nel corso della vita30. La soluzione sostenuta da Agostino, fedele alla
tradizione, evita sia la tendenza ad “immanentizzare l’eschaton” imma-
ginando forme ideali di presenza ecclesiale già sulla terra31; sia “escatolo-
gizzare il fatto cristiano” situandolo in un ideale futuro irraggiungibile. Il
criterio della forma sacramentale della Chiesa gli consente di descrivere
la forma cristiana dell’abitare in modo che, da un lato, non risulti astratta
ed idealizzata e, dall’altro, non sminuisca la grandezza del fatto cristiano.
Tale analisi ci ha consentito di scoprire l’architettura della Chiesa,
ossia la forma specifica dei sacramenti. Con questo criterio si possono

28 Cfr. De fide et operibus XXVII, 49: “Non enim quaecumque libuit intraverunt
immunda animalia arcae compage confracta, sed ea integra per unum atque idem
ostium, quod artifex fecerat”; la porta in questione è il costato di Cristo, dal quale
sgorgano i sacramenti: cfr. De civ. Dei XV, 26, 1.
29 Cfr. De fide et operibus XXII, 40.
30 Con questo modo di procedere, approvano qualcosa di peggio di quanto operato
dalla moglie di Lot: “nec exeuntes de Sodomis more uxoris Loth, in praeterita iterum
attendunt, sed omnino de Sodomis dedignantur exire; imo ad Christum cum Sodomis
conantur intrare” (De fide et operibus XXV, 47).
31 Cfr. E. Voegelin, The New Science of Politics: An Introduction, The University Press,
Chicago 1952.

421
José Granados

distinguere, da una parte, la città dell’uomo e la città di Dio; per poi


osservare, dall’altra, la maniera interna in cui si organizza la Chiesa: una
rete colma di pesci buoni e cattivi che saranno separati soltanto alla fine32.
La struttura sacramentale costituisce, quindi, le fondamenta della città
di Dio, come dimostrato dall’esegesi patristica e medievale di Prov 9,1:
“La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne”. In
epoca patristica, il testo si applica spesso alla casa che è la carne del Verbo,
scaturita da Maria. Si conferma così quanto abbiamo già osservato: per i
Padri, l’Incarnazione è inabitazione, poiché il corpo è la prima dimora.
È dunque implicito, in questo versetto, che la casa che il Verbo edifica
include in sé i cristiani. Ecco perché i Padri allargano la loro esegesi e
riferiscono anche il testo all’edificazione della Chiesa33. Il Medioevo sarà
ancor più esplicito, in quanto metterà in relazione le sette colonne con i
sette sacramenti34. Fintanto che tali colonne staranno in piedi, si sosterrà
anche la Chiesa che invece, crollerebbe, se queste cedessero.

4. Dalla città di Dio alla “società assediata”

Questo sostrato sacramentale della Chiesa come modo di vivere le re-


lazioni nel corpo, aiuta a porre una domanda che Sant’Agostino, ne

32 Queste due distinzioni sono necessarie per la catechesi: “instruenda et animanda est
infirmitas hominis adversus tentationes et scandala, sive foris sive in ipsa intus ecclesia:
foris adversus gentiles vel Iudaeos vel haereticos, intus autem adversus areae dominicae
paleam” (Agostino, De cat. rud. VII 11).
33 San Cipriano, ad esempio, applica il testo all’Incarnazione: Ad Quirinum II, cap. 2: CCL
3, linea 40; così come fa San Cromazio d’Aquileia, In Matt. II: CCL 9A, linea 131:
“Hoc et salomon ostendit cum dicit: sapientia aedificauit sibi domum, quia christus
qui dei sapientia est corpus sibi in utero uirginis figurauit”; anche San Geronimo
aderisce all’esegesi cristologica in In Isaiam III, 7, 14 (CCL 73, lin 8). Sant’Agostino, dal
canto suo, conosce l’esegesi cristologica (Sermo 225: PL 38, c.1097, lin. 13) insieme
a quella ecclesiale (Ad Galatas XIII: CSEL 84, p. 68, lin. 4), ed articola entrambe
in De civ. Dei XVII, 20 (CCL 48, linea 69): “hic certe agnoscimus dei sapientiam,
hoc est uerbum patri coaeternum, in utero uirginali domum sibi aedificasse corpus
humanum et huic, tamquam capiti membra, ecclesiam subiunxisse, martyrum uictimas
immolasse, mensam in uino et panibus praeparasse, ubi apparet etiam sacerdotium
secundum ordinem melchisedech, insipientes et inopes sensu uocasse, quia, sicut dicit
apostolus, infirma huius mundi elegit, ut confunderet fortia”; combina entrambe le4
esegesi, sebbene non cn tanta unità, anche Gregorio Magno, Moralia in Job XXXIII
16 (CCL 143B, lin 10).
34 Cfr. San Bonaventura, Sermones de diversis XI, 6, ed. Bougerol, Parigi 1993, vol I,
209.

422
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

La città di Dio, ha appena avuto modo di abbozzare. L’Ipponate accetta


l’idea secondo cui la Chiesa possa trarre beneficio dai successi del bene
comune ottenuti dalla città dell’uomo. La pace dell’impero romano, ad
esempio, va a vantaggio dei cristiani che possono vivere e predicare il
Vangelo senza ansie. Avviene qualcosa di simile a quanto gli israeliti,
lasciando l’Egitto, fecero con i loro vecchi padroni, depredandoli35. In
questa luce ci domandiamo: è anche possibile che la città di Dio aiuti
la città dell’uomo e, così facendo, la apra al di là di se stessa, edifican-
dola per quanto possibile a sua immagine? È interessante porre questo
interrogativo in quattro diversi momenti della storia della Chiesa. Solo
narrando questa storia possiamo essere consapevoli del compito attuale e
del ruolo che, in essa, svolge la famiglia.
a) Il periodo successivo a Sant’Agostino, nel quale scompare l’im-
pero romano, aprirà una nuova epoca, con una presenza sociale inedita
della Chiesa, che fiorisce durante il Medioevo e che darà forma alla cul-
tura europea. Dinanzi allo sgretolamento delle istituzioni romane, sarà
la Chiesa a mantenere l’unità in Occidente. La città di Dio, descritta da
Agostino, rimane particolarmente vitale nel corso della storia, non solo
perché ispira gli imperatori cristiani, ma anche in quanto riesce a plasma-
re le fondamenta della società civile36.
A tal fine, i sacramenti svolgeranno un ruolo fondamentale. Nel suo
tentativo di spiegare l’unità europea dopo la decadenza romana, Peter
Brown esclude come fattori decisivi, sia la vitalità del mondo mediter-
raneo, che sarebbe perdurato dopo il crollo dell’impero consentendo lo
sviluppo di un fiorente commercio (Henri Pirenne), sia la virtù unifi-
catrice del Papa da Roma (Christopher Dawson). Egli spiega, invece,
questa unità creata dal cristianesimo a partire dai beni simbolici (“symbolic
goods”) diffusi dalla nuova fede (la sua presenza sacramentale) capaci di
adattarsi ai diversi registri culturali37. Brown indica, ad esempio, il ruolo
dei vescovi e del clero come ordo che conferisce unità alla popolazione, e
richiama la funzione della penitenza per ricostruire l’unità sociale quan-
do è danneggiata38. A questo occorre aggiungere il matrimonio, che

35 Cfr. Ireneo di Lione, Adv. Haer. IV 30,1-4 (SCh 100, 770-786).


36 Per il ritratto dell’imperatore cristiano che fa Sant’Agostino, cfr. De civ. Dei V, 24-26.
37 Cfr. P. Brown, The Rise of Western Christendom, Blackwell, Oxford 2003,16.
38 Cfr. P. Brown, The Rise of Western Christendom, cit., 166-189; 241-246.

423
José Granados

poco a poco viene a dipendere unicamente dalla Chiesa la quale, proprio


mediante il matrimonio, plasmerà le usanze sociali39.
Di fatto, una volta fissato il dogma cristologico, i sacramenti diven-
teranno il tema teologico che susciterà più interesse durante il Medio-
evo, a cominciare dai dibattiti eucaristici dell’epoca carolingia. Tanto
interesse si spiega, sia per la necessità di definire chiaramente la struttura
della Città di Dio dinanzi alla mancanza del sostrato culturale dell’impe-
ro romano; sia per l’opportunità di estendere la forma dell’abitare della
Chiesa a tutta la società civile, esercitando su quest’ultima un’influenza
benefica.
b) La fine di questo periodo è sancita dal Concilio di Trento, situato
agli albori della modernità. In esso si rispondeva alla teologia luterana,
che leggeva il cristianesimo intorno all’elemento chiave della giustifica-
zione del peccatore, rinunciando pertanto a considerare il cristianesimo
come dimora e tendendo a vederlo piuttosto come evento dell’incontro
con il divino. La risposta di Trento a Lutero non è consistita soltanto
nel presentare in altro modo la giustificazione, ma piuttosto nel negare
che questo fosse il principio fondamentale del cristianesimo, fulcro che
governa ogni dottrina40. L’elemento chiave della proposta di Trento sta,
come dicevamo, nei sacramenti, che offrono il quadro generale essenzia-
le entro il quale comprendere la giustificazione: ecco le vere colonne che
sostengono la Chiesa. Di fatto, i sacramenti sono il contesto necessario
per comprendere la giustificazione, per poggiarla su solide fondamenta.
In essi “ogni vera giustizia o ha inizio o è aumentata, o se fosse perduta
viene ristabilita” (DS 1600). I sacramenti sono dunque il sostrato narrati-
vo a partire dal quale si comprende la giustificazione, e non il contrario.
Trento risponde a Lutero, sessione dopo sessione, riaffermando che
i sacramenti sono forma comune e stabile dell’abitare, e non solo evento
di salvezza dell’individuo. Forma dell’abitare è l’Eucaristia, con la sua
presenza reale, atta a dare forma a tutta la Chiesa; sono forme dell’abitare
il battesimo, la cresima e l’ordine, in quanto imprimono un carattere
dal quale sgorga l’intera vita cristiana; la penitenza, dal canto suo, non

39 Cfr. D. L. D’Avray, Medieval Marriage: Symbolism and Society, Oxford University


Press, Oxford 2005.
40 Cfr. Lutero, WA XXXIX/1, 205, 2s: “articulus iustificationis est magister et princeps,
dominus, rector et iudex super omnia genera doctrinarum, qui conservet et gubernat
omnem doctrinam ecclesiasticam et erigit conscientiam nostram coram Deo”.

424
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

consiste soltanto nel confidare nella forza salvifica divina, ma piuttosto


nel tornare ad accogliere nella vita la forma corporale dell’abitare di Gesù
-ecco perché occorre confessare ogni peccato grave, in quanto modo
oggettivo di distruggere la dimora di Cristo; infine, Trento conferma
che la forma dell’abitare più originaria, il matrimonio, appartiene al set-
tenario sacramentale.
Davanti alla risposta di Trento, la modernità, spinta in buona parte
dal protestantesimo, finirà col ridurre l’influenza delle forme cristiane
dell’abitare sulle forme civili41. Il progetto moderno, in realtà, collo-
candosi in opposizione alla Chiesa come casa, rifiuta anche l’esperienza
stessa della dimora, e poco a poco perde ogni forma dell’abitare: secola-
rizzazione e defamiliarizzazione procedono di pari passo42. È per questa
ragione che si è potuto descrivere il soggetto moderno come “homeless
mind” e che si parla ormai di una “società assediata” ovvero, una società
che vede minacciati, dal di fuori e dal di dentro, tutti i suoi spazi43.
c) È proprio da qui che si può interpretare la proposta del Vaticano
II e il cammino che ha aperto per la Chiesa. Se, da un certo punto di
vista, c’è un asse Vaticano I – Vaticano II, in cui le due prospettive sulla
Chiesa gerarchica si completano, occorre ricordare che c’è anche un
asse Trento – Vaticano II, che si riferisce ai sacramenti. Infatti, anche
nel Vaticano II questi acquisiscono un ruolo decisivo. Ricordiamo che
il primo testo emanato è Sacrosanctum Concilium, nel quale confluisce
tutta la ricchezza del movimento liturgico del XX secolo. C’è, poi, la
definizione della Chiesa come sacramento, che occupa un posto centrale
nella Lumen Gentium (cfr. LG 1; LG 48, et passim)44, e che raccoglie mol-
ti dei risultati della sacramentologia contemporanea. Definire la Chiesa
come sacramento significa definirla a partire dall’Eucaristia, la quale ci
permette di scoprire il sacramento come una forma dell’abitare radicata
nel corpo. Da questo si può evincere la descrizione della Chiesa come
Corpo di Cristo, come communio e come Popolo di Dio. Infine, è un

41 Cfr. B. S. Gregory, The unintended Reformation: how a religious revolution secularized


society, Harvard University Press, Cambridge, MA - London 2012.
42 Cfr. M. Eberstadt, How the West Really Lost God? A New Theory of Secularization,
Templeton Foundation Press, West Conshohocken, PA 2014.
43 Cfr. P. L. Berger – H. Kellner – B. Berger, The Homeless Mind: Modernization and
Consciousness, Random House, New York 1973.
44 A questo proposito si veda: J. M. Pasquier, L’Église comme sacrement. Le développement
de l’idée sacramentelle de l’Église de Möhler à Vatican II, Academic Press, Friburgo 2008.

425
José Granados

sacramento, quello del matrimonio, che si colloca al centro della Gau-


dium et Spes per articolare il nesso tra Chiesa e società (cfr. GS 47-52).
È qui che si giungerà ad affermare che nella famiglia cristiana si riflette
l’essere genuino della Chiesa (GS 48). In altri termini, Trento è riusci-
to a mantenere la forma sacramentale all’interno della Chiesa cattolica,
sebbene non sia riuscito ad arrestare il lento degrado di questa forma
cristiana dell’abitare. L’approccio adottato dal Vaticano II aveva lo scopo
di offrire la dimora cristiana al mondo intero, che aveva visto svuotarsi il
proprio progetto di un soggetto autonomo e senza dimora. Ecco perché
il termine sacramento può essere descritto, nella sua dimensione gene-
rativa, come capacità di contenere la vocazione dell’intera umanità e del
cosmo, proprio a partire dalla consapevolezza dell’umiltà del sacramento,
qualcosa di piccolo che ha la vocazione di contenere il tutto.
d) Dopo il Concilio Vaticano II è diventato ancor più evidente il
processo di decadimento della cultura cristiana che aveva strutturato gli
spazi sociali dell’Occidente a partire da una forma sacramentale dell’a-
bitare. La secolarizzazione ha favorito l’emersione di nuovi modi dell’a-
bitare che escludono esplicitamente la presenza di Dio e, di conseguen-
za, tendono a divinizzare loro stessi come forme politiche45. Dinanzi a
questo panorama, Michel de Certeau si chiedeva -rispondendo affer-
mativamente- se non fosse necessario che la Chiesa abbandonasse i suoi
spazi e trasformasse la sua azione in un umile tratto, per risvegliare per-
corsi mistici nei luoghi ormai irrimediabilmente profani. La successiva
postmodernità ha complicato ancor più questo interrogativo, in quanto
oggi questi stessi spazi profani stanno scomparendo e si moltiplicano
i “non luoghi”, tanto da arrivare a considerare il corpo stesso come
un “non luogo”. Viviamo oggi, infatti (nelle proposte dell’ideologia di
gender) un nomadismo estremo, che vuole esiliarsi anche dal corpo, ne-
gando che esso sia dimora da abitare. D’altra parte, il fenomeno odierno
dell’immigrazione, non mostra la sua problematicità proprio in quanto
si cerca di accogliere coloro che non hanno dimora in questo Occidente
radicalmente nomade, che ha rinunciato ad ogni dimora?
Ricordiamo comunque che lo spazio che la Chiesa abita non è lega-
to alla sua influenza sociale né a quella politica. Di fatto, la dimora radi-
cale della Chiesa sono i sacramenti, radicati nel modo concreto di vivere

45 Cfr. E. Voegelin, The New Science of Politics, cit., 107-132.

426
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

nel corpo che Gesù visse e che ci insegnò a vivere. L’unico tempio che
il cristianesimo necessita per sussistere è, pertanto, il tempio del corpo,
come luogo primigenio delle relazioni, come luogo in cui la persona
si apre al mondo, agli altri, a Dio. Fintanto che la Chiesa continuerà a
nascere dall’Eucaristia, e fintanto che potrà contare sul sacramento del
matrimonio, Essa avrà sempre uno spazio sociale nel quale abitare: “Dio
li [i cristiani] ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbando-
nare” (Lettera a Diogneto VI 10). È soltanto da questo spazio originario
dei sacramenti che si potranno plasmare altri spazi più ampi di presenza
della Chiesa nella società.
In questa situazione di fragilità degli spazi nei quali l’uomo vive, ac-
quisisce particolare rilevanza un sacramento, quello della penitenza, che
si riferisce alla necessità di riedificare continuamente la dimora cristiana
nel mondo. La penitenza, in quanto si interessa del peccato del battezza-
to, tiene conto dell’esistenza di divisioni in seno alla città di Dio, talvolta
visibili (come lo scisma, l’eresia, i peccati manifesti), altre volte celate46.
Questo sacramento consente, da un lato, di evitare l’idealizzazione della
Chiesa, giacché i penitenti continuano ad appartenere ad essa. D’altro
canto, la penitenza mantiene la concreta visibilità del fatto cristiano, poi-
ché i penitenti continuano ad essere tali fino al momento in cui saran-
no pronti ad assumere la forma cristiana dell’abitare. Ricordiamo che il
penitente è inserito nella struttura sacramentale, in quanto il potere di
vincolare che ha la Chiesa, e che si esercita quando il penitente si mani-
festa come tale, ha una valenza salvifica e tende alla manifestazione del
peccato, affinché sia possibile curarlo.
Un aspetto caratteristico della penitenza è quello di preservare una
forma concreta dell’abitare, ed è qui che sta la differenza tra il foro pe-
nitenziale, il foro divino (che giudica la colpevolezza del peccatore) o il
foro della coscienza morale (che indica alla persona la bontà o meno di
un’azione). Ciò che garantisce il sacramento è un modo di abitare che sia
concorde con il fatto cristiano. Il sacerdote, quando dice “io ti assolvo”,
dice: “io ti separo da un habitat relazionale contrario a Cristo e ti vincolo
all’habitat della città di Dio, ossia, al modo di abitare che Cristo praticò e
ci insegnò a vivere”. La assoluzione, quindi, non si rivolge direttamente

46 A tal proposito, cfr. G. Moioli, Il quarto sacramento: note introduttive, Glossa, Milano
1996.

427
José Granados

all’interiorità del peccatore, ma piuttosto al modo concreto e visibile


con il quale edifica le sue relazioni corporali: il suo effetto è teso, come
quello degli altri sacramenti, a preservare e ricostruire l’ambiente.
È proprio la distensione temporale della penitenza (con le sue diver-
se fasi: contrizione, confessione / assoluzione, soddisfazione) che per-
mette al peccatore di continuare ad essere membro della città durante
il suo processo di conversione. Sebbene non sia pienamente partecipe
delle sue fonti (sacramentali), egli è in cammino per stabilirsi nuova-
mente sulle fondamenta gettate da Gesù Cristo. Il fatto cristiano visibile
e operante nel mondo si mantiene perché la penitenza preserva la forma
battesimale ed eucaristica della vita. Il giudizio del sacerdote al momento
di dare l’assoluzione consiste nel verificare che il penitente accetti cor-
dialmente questa forma di vita, rifiutando tutto ciò che è contrario alla
struttura della città.

5. Conclusione: minoranze creative sacramentali

Gli elementi chiave che abbiamo raccolto, partendo dal fatto cristiano
dell’Incarnazione, ci riportano alla triade abitare-coltivare-conversare,
come punto di partenza per definire gli spazi sacramentali che la Chiesa
è chiamata ad edificare al giorno d’oggi e che descriviamo brevemente,
sottolineando la loro incidenza sulla vita della famiglia.

a) Abitare uno spazio corporale di relazioni

Da quanto indicato, si evince che il tema del nostro tempo, tanto per
comprendere chi sia la Chiesa, quanto per esplorare il suo rapporto con il
mondo, può essere descritto come una questione “ambientale”. Non mi
riferisco, quanto meno non direttamente, alla crisi ecologica, ma piutto-
sto al suo fondamento ultimo, ossia la crisi dell’ambiente relazionale e la
crisi del significato del corpo, sostrato del nostro stabilirsi relazionale nel
mondo (cfr. Papa Francesco, Laudato Sì 155).
Il compito consiste nel prestare attenzione, non già agli individui
isolati, ma alle forme dell’abitare insieme, alimentate dalle buone prati-
che e che richiedono virtù relazionali. La base di questa promozione sta

428
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

nei sacramenti, nella loro sostanza istituita da Cristo, che offre un nuovo
linguaggio del corpo e un nuovo modo di ritmare il racconto della vita.
Preservare l’armonia sacramentale e la sua corrispondenza con la forma
dell’abitare di coloro che li ricevono risulta, quindi, imprescindibile.
Ed ecco che appare chiaramente l’importanza di coltivare gli spazi
familiari, nei quali si preserva la forma originaria dell’abitare. Si tratta di
nutrire il desiderio di amore vero che c’è nel cuore delle persone (punto
di partenza per attirarle verso il Vangelo: cfr. Amoris laetitia 294) allonta-
nandole con pazienza da quelle forme dell’abitare contrarie al sacramento
del matrimonio e che contaminano l’ambiente ecclesiale e sociale. Alla
luce di questo, occorre continuare ad approfondire la teologia del corpo
e delle relazioni familiari, nonché la connessione tra Chiesa e famiglia.

b) Coltivare lo spazio: tempo di memoria e fecondità

Stabilirsi su una forma cristiana dell’abitare permette non solo di espan-


derla ad altri spazi della vita, ma anche di ricostruire le rovine o gli am-
bienti nocivi che impediscono alla persona di maturare verso una vita
piena. Insieme alla cura degli spazi occorre, quindi, imparare a narrarli,
con riti di passaggio che consentano di percorrere la vita e di dare frutti.
Nell’ambito familiare questo significa immaginare racconti che conten-
gano una memoria filiale grata, che si sostengano sulla fedeltà alla pro-
messa e che rimangano aperti ad un perdono che reintegri l’uomo nella
vita secondo l’alleanza.
La sfida passa attraverso la promozione di forme dell’abitare sacra-
mentali nelle quali si possa generare il soggetto umano e cristiano. Nel
nostro tempo queste forme si caratterizzeranno come forme minoritarie.
Ricordiamo, comunque, che queste non vedranno ergersi dinanzi a loro
delle forme diverse dell’abitare, ma piuttosto delle forme del non-abita-
re, ovvero, dei non-luoghi. Ecco perché sono proprio queste minoranze
a possedere il futuro, proprio come l’humus generativo di un terreno si
distingue dalla sabbia del deserto, tanto innumerabile quanto sterile. Il
deserto è, sì, più esteso, ma soltanto l’humus permette al seme di crescere
e di maturare, in attesa di diventare verziere.

429
José Granados

c) Conversare in uno spazio permeato dalla Parola

Come abbiamo osservato, Incarnazione significa “abitare in mezzo a


noi” e, questo abitare, trattandosi dell’abitare della Parola, significa, a
sua volta, “conversare con noi”, chiamarci e convocarci ad una risposta.
Tipico dell’essere umano, è che la casa della carne, dove egli nasce, è
sempre, nel contempo, casa della parola. Nascere significa essere ammes-
so ad una conversazione, essere riconosciuto come qualcuno che conta
in questa conversazione e al quale si può rivolgere la parola invitandolo a
rispondere. La novità cristiana consiste nel far sì che lo spazio del corpo
si trasformi in cassa di risonanza della Parola in persona, che è dialogo di
risposta al Padre e che diventa dialogo tra gli uomini, per introdurre gli
uomini alla conversazione con Dio47. La forma cristiana dell’abitare è
quella in cui lo spazio corporale è diventato capace di contenere la Parola
definitiva, che illumina il senso di tutto e, pertanto, che mai passerà.
Ebbene, giacché i sacramenti contengono la forma dell’abitare di
Cristo, essi sono lo spazio nel quale risuona la dottrina cristiana e in
cui si può accedere ad essa. Ecco perché, colui che volesse modificare
la struttura dei sacramenti toccherebbe necessariamente la dottrina di
Cristo; così come distorcerebbe la musica colui che volesse modificare
la struttura architettonica di una sala da concerti. Questa presenza della
verità nello spazio sacramentale non implica che i sacramenti non porti-
no già la pienezza. Accade, piuttosto, che essi ci introducano nel luogo
in cui possiamo raggiungere, conversando e camminando, tale pienezza.
Per quanto riguarda la famiglia cristiana, le parole che la attraversa-
no sono fondate su questa promessa sponsale indissolubile e sul fatto di
pronunciare il nome dei figli, simbolo dell’educazione. Queste parole
contengono l’architettura dello spazio familiare –l’unica che permetta di
edificarvi una vita riuscita. La nostra sfida continua passando attraverso
lo studio della verità della famiglia, non già in quanto tale verità ci co-
munichi teorie astratte, ma piuttosto perché contiene i progetti sui quali
si edifica la dimora o, in altri termini, perché contiene l’architettura della
forma cristiana dell’abitare.

47 Cfr. R. Williams, The Edge of Words: God and the Habits of Language, A&C Black,
London 2014.

430
“Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e dimora

Quanto abbiamo affermato sulla forma cristiana dell’abitare è con-


fermato dalle parole di Amoris laetitia (AL 36) che Papa Francesco ha
recentemente ricordato al nostro Istituto, indicando che talvolta è stata
sviluppata una teologia troppo astratta o idealizzata del matrimonio48.
Come evitare dunque questa teologia troppo astratta o ideale?
Abbiamo osservato che lo sguardo astratto o ideale può essere evita-
to quando si distingue tra abitare ed edificare, tra ciò che appartiene alla
fondazione della dimora da parte di Cristo (la sostanza dei sacramenti e
l’armonia tra di loro) e ciò che riguarda l’edificazione di tale dimora in
ogni vita cristiana. È possibile, in questo modo, comprendere che la pie-
nezza cristiana non è ancora giunta, evitando ogni idealizzazione. D’altro
canto, non dobbiamo dimenticare che il fatto cristiano è già accaduto ed
è questo che fonda l’intero cammino della Chiesa, poiché è contenuto
nella forma dei sacramenti. Rispettare la forma e disciplina sacramentale
come base per edificare su di essa la vita è il fondamento che consente
una visione non idealizzata dell’essere cristiano, senza per questo sotto-
valutare l’opera compiuta da Cristo che è venuto ad abitare in mezzo a
noi.
Fondamentale per promuovere questo sguardo equilibrato è, da un
lato, il sacramento del matrimonio, in quanto è qui che la forma cristia-
na dell’abitare assume la dimora primigenia dell’intero abitare sociale.
Attraverso il matrimonio la Chiesa diffonde nei vari ambienti l’influsso
benefico dell’“abitare” del Verbo in mezzo a noi. D’altro canto, ab-
biamo anche messo in evidenza l’importanza di mantenere la disciplina
penitenziale della Chiesa, che lega e slega, chiedendo al penitente, per
ricevere l’assoluzione, di accogliere il modo relazionale dell’abitare spe-
cifico di Cristo, accompagnandolo però nel frattempo, quando ancora
non fosse pronto a compiere un tale passo. In questo modo, la Chiesa
non abbandona coloro che debbono riedificare degli spazi distrutti o
instabili, senza perdere per questo il modo di abitare che essa ha ricevuto
da Cristo. Essa confessa così, sia che l’ideale cristiano è ancora da raggiun-
gere, sia che il fatto cristiano è già stato operato da Cristo e costituisce le
sue fondamenta. È questa, come abbiamo osservato, la forma corretta del
“già e non ancora”: “abitiamo già, e per questo, possiamo ancora edificare

48 Cfr. Papa Francesco, Discorso al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su
Matrimonio e Famiglia, 27 Ottobre 2016.

431
José Granados

e riedificare”. Se la Chiesa rinunciasse alla forma dell’abitare ricevuta


da Cristo, tutto il suo sforzo volto a riedificare coloro che vivono tra le
rovine o le macerie sarebbe inutile.
“Maestro, dove dimori?” La prima domanda dei discepoli a Gesù
non si riferisce direttamente alla sua identità (chi sei?), né tanto meno al
suo messaggio (cosa insegni?) o al suo cammino (quo vadis?), ma alla sua
dimora. Questo perché soltanto entrando nella sua dimora possiamo ca-
pire chi è Gesù, cosa implicano le sue Parole e quali vie aprono per noi.
Il segreto ultimo di Cristo risiede nel suo abitare insieme al Padre, che
si apre ora all’abitare degli uomini. Gesù anticipa la sua risposta quando
dice a Natanaele che vedrà gli angeli del cielo salire e discendere sopra il
Figlio dell’uomo, evocando così la dimora santa della scala di Giacobbe
(Gv 1,51). La soluzione finale, tuttavia, arriverà soltanto alla fine della
sua vita, quando dal suo costato sgorgheranno sangue ed acqua. Ecco
come Sant’Agostino commenta questo brano, applicandolo alla Chiesa,
città di Dio, la cui immagine è racchiusa nell’Arca di Noè: “Per questo
appunto è stata costruita l’arca di trecento cubiti in lunghezza, cinquanta
in larghezza e trenta in altezza. L’apertura da un lato è la ferita con cui
fu trafitto il costato del Crocifisso. Per essa entrano quelli che vengono a
Lui perché da lì sgorgano i sacramenti con cui sono iniziati i credenti”49.

49 Cfr. Agostino, De civ. Dei XV, 26, 1

432
Anthropotes 33 (2017)

To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

Walid Abi-Zeid*

SUMMARY: In face of a mere psychological stability as a solution suggested


to inhabit the liquid postmodern time, this article proposes a generative stability
of a unified personal identity hosted by an interchange between family and
Christian liturgy. This time-generating interchange is rendered possible by
virtue of the original liturgical pattern with which a natural family is charac-
terized and of the nuptial pattern of the liturgical time marked by God’s ever
new and irreversible intervention which promotes man by and in Christ’s grace
and virtues. Along with the sacraments, a key to this generation is an educa-
tion which harmonizes the children’s freedom and affections to God’s plan of
salvation and edification. In family, an education to charity will contribute to
making society a better environment for domesticating time in other families
who could be in difficulty as well. The synergy between liturgy and family life
with proper education, renders time of liturgy, family, and society inhabitable.

For many engaged couples, the price of an apartment is becoming as-


tronomical, making the possibility of their marriage far behind reach.
How could they dwell together without a house? This crisis is not only
one of space but also of time; summarizing a space-time crisis. A relation
cannot practically persist without space, and a crisis of space is also a crisis
of time.

* Director of Family Institute – La Sagesse, Beirut Associated Center to the Pontifical


John Paul II Theological Institute.

433
Walid Abi-Zeid

However, in other situations material space exists, yet time becomes


rare, missing, or even overcrowded, and therefore not inhabitable. In
addition, circles of treason, violence, hatred, and negativity make the
time of a relationship unbearable. Some would want to abandon time or
on the contrary control it, whereas others want to consume it, acceler-
ate it, or isolate other’s or one’s own time. All these attempts transform
time into quick moving sands, destroying what was already built, or not
allowing the construction of a steady house.
The American social researcher, Alvin Toffler, has predicted in his
book, Future Shock, written in 1970, the effect of social and technolog-
ical changes on individuals, organizations, and families. The accelera-
tion of these changes was becoming higher than the capacity of human
beings to cope with them. He has predicted that relationships will in-
crease in quantity, superficiality, and liquidity. Toffler is not against such
changes as much as he is for the decrease of acceleration of these changes
so that man may be able to adapt1. His pragmatic thought views the
importance of stability in life, but it doesn’t matter that relationships be
solid, as long as another kind of stability is conserved, such as that of
daily schedules or habits.
Can adaptation to changes that dismember families be a solution
for the future of humanity? An article on the effect of surrogate moth-
erhood shows in a long term study that confused surrogate mothers are
able to adapt to the family situation they have contributed to; even many
feel more worthy because they have given a child to a sterile couple 2.
Although this study disregards another longitudinal study which reveals
that children born by surrogacy continue to have difficulties in adjust-
ment as a result of absence of gestational connections with parents3; can
the psychological health be the sole indicator of human health? If hu-
mans get psychologically adapted to this kind of post-modern liquid

1 Cfr. A. Toffler, Future Schock, Amereon Ltd., New York 1970.


2 Cfr. V. Jadva et al., “Surrogacy: the experiences of surrogate mothers”, in Human
Reproduction 18/10 (2003) 2196-2204; S. Imrie – V. Jadva, “The long-term
experiences of surrogates: relationships and contact with surrogacy families in genetic
and gestational surrogacy arrangements”, in Reproductive BioMedicine Online 29 (2014),
424-435.
3 S. Golombok et al., “Children Born through Reproductive Donation: A Longitudinal
Study of Psychological Adjustment”, in Journal of Child Psychol Psychiatry, 54/6 (2013)
653-660.

434
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

relations, can it be said that, after all, liquidity of relations and of time is
not harmful to people?
In other words, can this kind of psychological adaptation be the
“fittest” way to inhabit time which remains fragmented and relationships
which stay liquid? Or contrary to that, shouldn’t one assimilate time and
relations as the human beings do with elements of nature, according to
Marxism? Can time be controllable according to human dreams and
needs? Or is there another approach to time that can respect its mystery,
allowing humanity to achieve itself while dwelling in it?
On the other hand, if in social life time is seen to be quick and fully
loaded, in liturgical celebrations some people are bored, experiencing a
never ending time, thinking that this “quality” of time is the real mean-
ing of eternity. To overcome this boredom is it enough to adequately
animate celebrations? Or should one just content himself with contem-
plation on the bonds of community present in the liturgy, while expect-
ing God’s free intervention to refresh the soul during the celebration4?
Without denying these options, can’t there be a more fundamental ap-
proach which reveals liturgy’s significance to the life of the faithful?
These questions evoke the study of the meaning of inhabitation and
of time. Does inhabitation mean absolute control over time for it to
comply with human needs? Or does it mean adaptation to the chaotic,
hectic, and fragmented time? Can family and liturgy redeem man’s time
in the midst of challenges set by post-modernity?

1. Time inhabiting and family

For Heidegger to inhabit is closely related to the act of building5. One


does not only build to inhabit, but it is also necessary to inhabit in order
to build; it is necessary to be at peace, protected, happy, free and able
to manage one’s existence in order to build one’s house, and to build
bridges between different geographies, in order to generate new space,

4 For the positive fruit one can get of boredom in liturgy refer to Jean-Yves Lacoste’s
thought explained in Ch. M. Gschwandtner, “The Vigil as Exemplary Liturgical
Experience: on Jean-Yves Lacoste’s Phenomenology of Liturgy”, in Modern Theology
31/4 (2015) 648-657, 652-653.
5 M. Heidegger, « Bâtir, habiter, penser », in Essais et conférences, Gallimard, Paris 1958,
175-193.

435
Walid Abi-Zeid

and hence new possibilities of acting and building. The real meaning
of inhabitance is to bring back existence to the original unity of the
four components of being (Quadriparti), a reception of things as they
are, the earth, the sky, the gods and mortals, by constructing a bridge
between them. An extrapolation of this kind of “inhabitance” for time
in Heidegger’s thought entails the construction of bridges between the
components of time, past, present and future, in order to dwell and pen-
etrate the unity of the Quadriparti. Since mortals’ future is death, living
this future means to lead one’s life to a good death. It is in this sense that
death gives meaning to time and makes it inhabitable, but not without
the consideration of the other parts of the original unity, i.e. earth, sky
and gods which are open to the mortals. Ensuring a good death starts by
inhabiting the present unity of the Quadriparti without dominating any
of its parts. Be it as it may, mustn’t man’s relationship to the other be also
taken into consideration in order to inhabit time?
According to E. Levinas, inhabiting entails a separation from the
habitat not only for the sake of protection, but as a beginning of ex-
istence. To inhabit is to exist as a subject, to exist while self-gathering
(en se recueillant): “Le recueillement œuvre de séparation, se concrétise comme
existence dans une demeure, comme existence économique…”6. Although
chronologically speaking, self-recollection might happen after dwelling
in a house, existentially speaking, the latter takes place after the first.
The existential dwelling in a material house after self-recollection means
passing to act, that opens new possibilities showing up when the energies
of self-gathering are unloaded.
For the French Lithuanian philosopher, if it is true that self-recol-
lection is the first step of freedom from the immediate enjoyment of na-
ture’s elements, it does not entail that it (self-recollection) is a mere rela-
tionship with self or with vacuum. How can a person take distance from
enslaving enjoyment without falling into vacuum? It happens through
intimate familiarity, through a tenderness coming from a friendship to
this me. Therefore, the interiority of self-recollection is a separation by
virtue of an already existing human world. In fact for Levinas, existential

6 E. Levinas, Totalité et infini. Essai sur l’exteriorité (1971), Le livre de poche « Biblio
essais », Paris 2006, 164.

436
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

dwelling or self- recollection refers to reception, or being received by


another person.
How is separation from the material world produced while main-
taining intimacy? For the distance to occur, the other’s presence must
also be absence: it is the Feminine other. She is able to receive in virtue
of her very absence in presence. Inhabiting happens in the silence of the
encounter with the feminine other. Silence and discretion within the
encounter open the door to a transcendent relationship with the other.
This receptive familiarity allows separation to become an act of
inhabiting:

Demeurer, n’est pas précisement le simple fait de la réalité anonyme d’un


être jeté dans l’existence comme une pierre qu’on lance derrière soi. Il est
un recueillement, un venue vers soi, une retraite chez soi comme dans
une terre d’asile, qui répond à une hospitalité, à une attente, à un accueil
humain7.

Dwelling therefore starts in relationship, with accepting and being


accepted without possession. It allows for dwelling to be a reality not
only brought by separation but also fullfilled through self-gift to the
other8.
If this is Levinas’ conception of inhabiting space, beginning from
the interior of self, how does he conceive time and is there a way of
inhabiting it?
For Levinas, to have time is much related to self-recollection and
separation. It is to separate and take a safe distance from the present. To
have time is to be in front of the present as if it is not totally yet here9.
Freedom comes from this kind of dwelling that is not in fusion with the

7 Ibid., 166.
8 For Levinas, self-recollection and self-possession, although cannot occur without the
relationship with the feminine, remain at risk of dominating the other’s being. After
encountering the other’s face, giving what we possess secures the entry in relationship
with the existent (étant). Cfr. ibid., 185.
9 Cfr. ibid., 179 : « Avoir conscience – c’est d’être en rapport avec ce qui est, mais
comme si le présent de ce qui est n’était pas encore entièrement accompli, et constituait
seulement l’avenir d’un être recueilli. Avoir conscience, c’est précisément avoir du
temps. Non pas déborder le temps présent dans le projet qui anticipe l’avenir, mais
avoir à l’égard du présent lui-même une distance, se rapporter à l’élément où l’on est
installé, comme à ce qui n’est pas encore là ».

437
Walid Abi-Zeid

present time (i.e. with the presence of the entity that is facing me), but
that allows the inhabitant to always have time to use. The incompre-
hensible aspect of the environment allows this distance to happen for the
sake of using time for the purpose of action.
Levinas believes that being mortal doesn’t necessarily entail existing
for death. Time means, not yet death even in front of death’s imminence.
Time is always what separates man from his death and allows him to
act10.
The perception of unaccomplished being, of a-not-yet-entirely-ac-
complished-being-in-front-of-me is a door to the future and hence to
time. Facing this not yet, a desire is reborn, to which time corresponds.
For Levinas, this happens also in the act of caressing which does not
possess the other but is in search of him. Caressing is a sort of protrusion
in time because it is in an indefinite search beyond the other’s body as
object. It gives space for the other’s future, this is why it can be taken as
a metaphor of education11.
Therefore, to start inhabiting time for Levinas is to be separated
from the present’s absolute in order to have place for the future. If we
can have time in front of an unaccomplished object, how much more
can we have in front of the absence of the present feminine? And how is
it even more through fecundity? When the feminine allows time by giv-
ing the desire for self-gift, fecundity, the fruit of this self-gift, is the best
way of inhabiting time. More than an illusion of self-projection into the
future, fecundity is a true realistic future of the self, since, being neither a
self-repetition nor absolute rupture with self, it allows for continuity and
novelty at the same time. My son is me (repetition and continuity) yet
because of the feminine’s mediation to his conception, he is totally other

10 Cfr. ibid., 247 : « Le temps est précisement le faite que toute l’existence de l’être
mortel – offert à la violence – n’est pas l’être pour la mort, mais le « pas encore » qui
est une façon d’être contre la mort, un retrait à l’égard de la mort au sein même de
son approche inexorable. » … « Dans la guerre se reconnait ainsi la réalité du temps
qui sépart l’être de sa mort, la réalité d’un être prenant position à l’égard de la mort,
c’est-à-dire encore la réalité d’un être conscient et de son intériorité ».
11 Cfr. ibid., 288; cfr. M. Léna, « Fragilità umana ed educazione”, in J.J. Perez Soba – O.
Goţia (a cura di), Il cammino della vita: l’educazione, una sfida per la morale, PUL, Roma
2007, 209-225, 219.

438
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

than I (novelty). In this sense, fecundity is a factor of unity of a renewing


time saving it from being a monotonous succession or separate instants12.
Moreover, for Levinas it is necessary for totality of knowledge and
history to be open to transcendence of infinite time. This infinite time
pertains to the relation with the Other and to the responsibility pro-
voked by the revelation of the Other through the other’s face. It gives
the present time its value, rather than waiting for a final instant of ac-
complishment in history13. Away from fusion with the present or from
giving absolute value to the future, Levinas’ inter-subjectivity situates
man in a good relation with the present through awareness, responsibili-
ty and justice (the name of non-erotic love), and with the future through
fecundity (mediated by the feminine) that joins the self with the totally
other in the son. Yet, in order to render this possible one has to go back
to the fountain of paternity that gives back virginity to existence, in the
sense that it resets the already known and accomplished into an expecta-
tion of the unknown and unaccomplished14.
Therefore, in order to inhabit time one has to be in a just and un-
accomplished relation with the present object, with the other, with the
feminine, with the son, and with the Other revealed through the face of
each. This stature, one of paternity, is made possible by the encounter
with the feminine reality. To be in front of the feminine is to have time;
whereas, generating children with the feminine is to be time, it is to be
the future without projecting or fusing oneself with it.

2. Inhabiting time and familial liturgy

A better approach – pertaining to the subject of time, family and liturgy


– that explains how succession of time is given a form15 in family and

12 Cfr. E. Levinas, Totalité et infini, cit., 288, 291-302.


13 It is wondered whether Levinas is not influenced with the Qohelet’s notion of time,
whereby the important is not the final point of existence, rather happiness having
family and work in relation with God, the infinite who is revealed in the present
of family and work: “He has made everything beautiful in its time. He has also set
eternity in the human heart; yet[a] no one can fathom what God has done from
beginning to end” (Qoh 3, 11).
14 Cfr. E. Levinas, Totalité et infini, cit., 277, 288.
15 Robert Spaemann views kairos to be “time for” something, which already molds a
form out of the running time (Cfr. R. Spaemann, Persone: Sulla differenza tra “qualcosa”

439
Walid Abi-Zeid

therefore how can the family be time inhabited, is given by Prof. José
Granados’ theology of time which reveals an intersection of the human
person with time through the body16. Made of time, the body is mem-
ory of the origin, seal of God’s promise, and source of future fecundity.
Memory, promise, and fecundity are the special rhythm that time of the
body takes when past, present, and future act as sacraments to one an-
other, one referring to the other in a manner that opens to a person the
way of fulfillment in communion17.
Absolutizing one of these time dimensions transforms time into an
unhealthy nostalgia for a good past or an obsessed memory of an evil
past (translated by unwillingness to get over a harm or to forgive an
offender), an anxious expectation of a bad future or a continuous fugue
toward a utopian future, a total absence from the presence, a grabbing of
the moment that will definitely pass, or living a liquid present that can-
not generate a consistent horizon for the future. As JH. Cilliars puts it,
disregarding the relation between the three tenses of time, renders them
“autonomous “pockets” of “historicism” that monumentalizes time, of
“futurism” which apocalyptizes time, and “presentism” that superficializes
time, letting it run without true purpose18. These attitudes are ones of
non-inhabiting time precisely because time is not generated for the very
reason that the bridges between the tenses are destroyed.
On the contrary, it can be said that inhabiting time is to have a rel-
ative and safe distance with the three dimensions of time, allowing them
to play the role of sacraments that they are, positioning the person on
a steady path of communional relationship with God and the people of
his/her past, present and future. In the present, a good reference to the
past becomes a source of hope for the future, and therefore a source of
promise and action in the present that will generate time for oneself and
for other people. If time is made of body, then to inhabit time means
also to extend and develop one’s existence into grateful filiality, faithful

e “qualcuno”, trad. it. L. Allodi (a cura di). Editori Laterza, Roma 20072, 108).
16 Cfr. J. Granados, “The Liturgy; Presence of a New Body, Source of a Fulfilled
Time”, in Communio 39 (Winter 2012) 529-553, 541-544; cfr. Id., Teología del tiempo,
Ediciones Sigueme, Salamanca 2012, 103-252.
17 Cfr. ibid.
18 J.H. Cilliers, “Time out. Perspectives on liturgical temporality”, in Dutch Reformed
Theological Journal 50/1 - 2 (2009), 26-35, 27.

440
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

sponsality, and fruitful paternity that allows the others develop their own
existence by the same rhythm but in a novel way19.
The son’s / daughter’s memory remembers the promise that found-
ed and generated his / her new existence as a fecund one. The bride-
groom / spouse founds his / her promises on the memory of a past
promise that preceded him / her, and on the gift the promised person
represents to him / her. The father / mother expects and receives from
the future a fruit of the present promise and faithfulness, while giving
himself / herself to its growth.
With this identity bridge, the past, present, and future become a
gift to my being in as much as they put me in communion with people
belonging to these tenses. These tenses, in as much as they are virtuously
(pertaining to virtues) interrelated, represent our existence as gifted into
being, since we are our past and our present, and will be our future20. In
short, through the gift of past, present, and future, my being is being giv-
en to me as a gift of persons and tasks of communion with these persons.
It is in this sense that family life striving with God given remem-
brances, promises and expectations reveals that the liturgical language
present in Jewish and Christian rituals, already exists in the body21. The
body is capable of a familial language and significance. Living its litur-
gical aspect by following its significance and grammar unites time and
identity, and therefore, represent the way of inhabiting time.
The natural liturgy of the family is not a secular one, it is a reli-
gious one, where the events and experiences of marriage, birth, growth,
brotherhood, meals, suffering, and death receive a transcendental aspect.
They are sacramental events and qualities that send people to God’s
providence and care pertaining to the natural order22. Here, remember-
ing, promising, and expectation (of fecundity) depend on the Origin of
creation, and sends one’s desires to it, in terms of prayers of demands,
gratitude, and praise, making it ready to act.
Indeed, a love encounter between two sexually different persons is
novelty that makes the person discover himself as he has never before; a

19 Cfr. J. Granados., Teología del tiempo, cit.; Id., “The Liturgy; Presence of a New
Body, Source of a Fulfilled Time”, cit., 541-544.
20 Cfr. ibid., 541-542.
21 Cfr. ibid., 537.
22 Cfr. J. Daniélou, “Famille et mission”, in Anneau d’or 54 (1953) 478-484, 480.

441
Walid Abi-Zeid

birth of a person is also a novelty since he or she is unrepeatable. Both


of these novelties, even if shattered away by separation or death are still
novelties inscribed in the eternal memory of historical truth23. In terms
of faith it is God who intervenes in order to unite man and woman with
an act of creation24; it is He who intervenes to create every child for his
own sake25. Regardless of what happens later, every action of God in
history is a kairos, as much as it is a hapax, an unrepeatable and irreversi-
ble event of quality that gives progress in history26. It is obvious therefore
that in contrast to a secular family as conceived in modernity, the family
as St Paul and the rest of antiquity conceived it27, is a sacred community
of life founded on God’s interventions to unite and create, let alone on
His Providence for work, food, education, edification, and growth.
If every fatherhood has its origin in the Father, then, inside family
life, the already born children will be generated in as much as the mother
- father’s one flesh is generated by God’s paternity as a source for time.
Even if not religiously practicing, at least, as Levinas might suggest, a
father and a mother feel their responsibility as parents in front of the
Other revealed in the face of their son. Through their son’s face, God
generates them as responsible parents who will in their turn provide care
and education that their child need to receive in order to be generated
by God. The time of family life is a quality time because it is submerged
in the divine. It is not merely a biological, cosmological or socio-politi-
cal time, though it can give meaning to the first two by assuming them,
and generate the third and be generated through it by being open to it.
In the Old Testament, family life, sacred history, and liturgical
rhythm are interlaced. The family is the religious community where the
rhythm of liturgy can make sense. Even if the week seems cyclical (cfr.
Gn 1), on the sixth day – when male and female were created – time

23 For eternity of a historical event cfr. R. Spaemann, Persone: Sulla differenza tra
“qualcosa” e “qualcuno”, cit., 116-117.
24 Cfr. Mt 19: “what God has united”; Cfr. John Paul II, Wednesday Catechesis
(7.11.1979); Cfr. J. Granados, Una sola Carne in un solo Spirito. Teologia del matrimonio,
trad. sp. Francesca Ciotti – Anna Lugas, Cantagalli, Siena 2014, 80.
25 Cfr. Pius XII, Encyclical Humani generis. Concerning some false opinions threatening to
undermine the foundations of catholic doctrine, (12.08.1950), 36.
26 Cfr. J. Daniélou, Essai sur le mystère de l’histoire, Edition du Seuil, Paris 1953, 10.
27 K. Ritzer, Le mariage dans les Eglises chrétiennes du Ier au XIe siècle, Editions du Cerf,
Paris 1970.

442
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

began to be linear as much as human freedom is tied to the seventh day


which represents eternity, man’s eschatological end. One day announces
the creation of the family (the sixth), another marks its end (the seventh).
Inside the 6th day God inserted a community vector (man and woman’s
freedom) that ensured the linearity of time as much as this vector rest on
the 7th day. It can be seen here how eternity gives form to time.
The 6th day represents the time of family, dominance (for the sake of
service) and work, which is also a time of dependence of family, dom-
inance (for the sake of service) and work on God. But the presence of
the 7th day is a way to remember the origin of the 6th day by resting and
feasting; the 7th day gives meaning to the 6th day, not only by remem-
bering dependence on God, but also by being a memorial reference and
a reaching point during the week days. Between two Days of the Lord,
the family, after remembering creation of the cosmos and liberation
from slavery expects that it will be given to rest in Him in a new way.
For S. John Paul II the Sabbath is the memory of the truth of the
universe’s and history’s belonging to God. The awareness of this truth
allows man to serve as the Creator’s collaborator. Therefore, because it
is indissolubly linked to this truth, the Sabbath can give a consistency to
sacred time of Israel, thus rendering it inhabitable28.
But also, S. John Paul II indirectly reads the sanctification of the 7th
day in the light of the 6th day. In fact the day of the Lord is a day that
represents the Covenant between God and man. It is a Covenant ani-
mated by a nuptial dialogue, whose pattern is primarily recognized with
the indissoluble and ever new love relationship between husband and
wife29. In that day, the rest which the faithful are called to, is a rest in the
Lord, a rest that brings “the entire creation to him, in praise and thanks-
giving, intimate as a child and friendly as a spouse”30. The celebration in
that day is experienced as work of another kind that renews one’s gaze
by founding it on the nuptial gaze of the Creator. As S. John Paul II puts
it: “It is a gaze which already discloses something of the nuptial shape of

28 Cfr. S. John Paul II, Dies Domini, 15. “The “Sabbath” has therefore been interpreted
evocatively as a determining element in the kind of “sacred architecture” of time
which marks biblical revelation. It recalls that the universe and history belong to God;
and without a constant awareness of that truth, man cannot serve in the world as co-
worker of the Creator”.
29 Cfr. ibid., 14.
30 Cfr. ibid., 16.

443
Walid Abi-Zeid

the relationship which God wants to establish with the creature made
in his own image, by calling that creature to enter a pact of love”31. It
is a promising gaze of what He will accomplish in the future. Here, in
a way, the 6th day announces the form of eternal dialogue between God
and humanity; it prepares man to inhabit eternity.
In the Old Testament despite the gravity of sin that entered history
and de-formed the family time, God continues to work for redemption
within family. In fact, in sacred history, the old covenant starts within
a family (Abraham’s) and is accomplished in a family (Nazareth’s). Be-
tween the two, Israel’s time is inhabited by succession of families flow-
ing to fulfillment32. Families are the context in which celebrations and
readings take place33, while these give the families their destination and
meaning in the history of the bigger family of Israel. The families allow
a unified meaningful reading of the sacred scripture and of the succession
of liturgical feasts34.

3. A new order of inhabiting family and liturgical time

Be it as it may, when sin enters the scene, time of family life becomes an
easy prey for the secularized, consumed, accelerated, terrified (pertain-
ing to terrorism), and ideologized time that modern society is running
through, let alone the circle of internal conflicts and sins with which a
house was inflicted with, from the dawn of history. Although family life
is a natural liturgy that is time inhabiting35, it remains fragile, sinful, and
therefore it could be wondered how it (the family) can still contribute
to time dwelling. After sin, can human time be redeemed without the
family? Or better, after Christ came in a family to redeem the world,

31 Ibid., 11. Cfr. J. Granados, “Celebrare la festa in famiglia”, in Id., Nessuna famiglia è
una isola, San Paolo, Milano 2013, 41-66.
32 Cfr. Mt 1.
33 Cfr. J. Ratzinger, Dieu nous est proche, l’eucharistie au cœur de l’Eglise, Fr. trans. Maria
Linnig, Parole et Silence, Paris 2003, 47-48.
34 Cfr. J. Granados, “Una dimora della parola: vivere la Bibbia in famiglia”, in Id.,
Nessuna famiglia è una isola, San Paolo, Milano 2013, 171-192.
35 Cfr. S. John Paul II, Wednesday catechesis on human love in the divine plan, (24.11.1982):
“the original “unity in the body” of man and woman does not cease to mold the history
of man on earth, even though it has lost the clarity of the sacrament, of the sign of
salvation, which it possessed at the beginning”. My emphasis.

444
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

does the family still have a word to say for time inhabitance? Isn’t ec-
clesial liturgy enough to transmit to man Christ’s work of redemption?
And if marriage is passing with this world, can Christian liturgy in a way
redeem the family and show its full liturgical load?
To understand the inhabitance of liturgical space and time, Christo-
phe Boureux finds it helpful to extract what is useful of Heidegger’s no-
tion of dwelling which is “le fait de ménager un espace dans lequel l’existence
peut se déployer”, through living, through acting, through making things
appear. Bridges give place to space because they relate pieces together
making it more habitable, more apt for human action and living36. But
without mentioning Levinas, he brings something similar as to the first
moment of having time.
He gives three elements that found liturgical inhabitance: believing
existence, the exterior structure and the gathered community37. This li-
turgical inhabitance allows for the encounter with Christ which is kairos
time. Then the essence of time inhabitance becomes a self-recollection
that assumes its responsibility in front of Christ’s presence; it is assuming
the time that we have in order to be ourselves in response to Christ’s
call38. Inhabiting liturgical time is looking at the present as time of re-
lation with Christ, as a paschal time, that is, a time of dying of oneself
in order to live for Christ39. It is a time that transcends the time of this
world with all its distinctions, living as if the world has passed by.
In his interpretation of 1 Cor 7, 29-31, he considers the distinction
between marriage and celibacy as things of this passing world, as chronos,
where identity cannot be found because of lack of unity amidst chron-
ological change40. Kairos enters chronos and transforms it from within.

36 Ch. Boureux, « La liturgie comme manière d’habiter l’espace et le temps », in


Théophilyon 15/1 (2010), 27-50, 31-33.
37 Cfr. ibid., 35.
38 Cfr. ibid., 42-44.
39 Cfr. ibid., 44 : « Quel est par contre le temps messianique, le kairos ? C’est le moment
opportun, le temps de la responsabilité, le temps de « sortir de votre sommeil, le temps du
salut qui est près de nous » (Rm 13,11) c’est le temps que nous avons et que nous
sommes nous-mêmes. Le kairos n’est pas un segment du temps qui nous sépare du
Christ, il est le temps où le Christ est au milieu de nous, le temps qui permet à Paul de
dire « je vis mais ce n’est plus moi, c’est Christ qui vit en moi ». My emphasis.
40 A more precise interpretation of 1 Cor 7, 29-31 in the light of 1 Cor 7, 7 considers
marriage and celibacy as “charismas”, placing them both in the context of the mystical
body of Christ and the community founded on the Eucharist (1 Cor 11) that gives
birth to other charismas for the sake of the Church’s edification (1 Cor 12), which in

445
Walid Abi-Zeid

Christ’s kairos in the liturgical present touches biological, cosmologi-


cal, as well as social (calendar consensus) chronos, thus giving unity (and
therefore identity) for each one’s chronos in Christ and carries them to
full potential. Christ’s present kairos gives the liquid man the time for
responsible decision participating in Christ’s decision to elect him41.
Therefore kairos is time for action.
This is what the whole liturgical year with its rhythm and variety
represents; it rotates around the memory of Christ’s death and resur-
rection, into which every existence is to be configured. The rhythm
and repetition in liturgy is imprinted with the irrevocable novelty that
renders and – paradoxically – lets us wind our historical existence to
Christ’s.
While Boureux’s article is significant pertaining to the necessity of
dogma in liturgy that binds faith with prayer and existence, it is not clear
(in his article) whether he considers marriage, even the natural one as
kairos.
If for St Paul the distinction between marriage and celibacy pertains
to the order of chronos – of the world that will pass – it was seen above
(section 2.) that there is a kind of kairos inside marriage and familial re-
lationships. In this sense when liturgy is considered in relation to family,
it is not a kairos that assumes a mere chronos.
Despite family’s fragility and sin, S. John Paul II, in his Wednesday
catechism, explains that the liturgy of the body in the creational order
and matrimonial context gives the form of the liturgy of the redemp-
tive order present in the sacramental relation between Christ and His

their turn must all be animated by higher charismas: faith, hope, and above all charity (1
Cor 13). In the context of the church, marriage and celibacy differ from the two other
kinds of charismas because they are a whole life dedication for the edification of the
Church rather than talents for action until final resurrection. They are complementary
ways of inhabiting time of personal existence and of the common life of the Church
since our body is for Christ (1 Cor 6, 13). The natural family’s assumption into the
economy of the Church gives them a kairotic meaning. Cfr. J. Granados, Una sola
Carne in un solo Spirito. Teologia del matrimonio, cit., 322-323; Cfr. M. Ouellet, Mystery
and sacrament of love. A Theology of Marriage and the Family for the New Evangelization,
eng. trans. Michelle K. Borras – Adrian J. Walker, William B. Eerdmans Publishing
Company, Grand Rapids, Michigan 2015, 181.
41 Cfr. Ch. Boureux, « La liturgie comme manière d’habiter l’espace et le temps », cit.,
45 : «Le chronos est le temps que nous nous représentons (nous le mettons en figure
dans un espace circulaire sur lequelle une aiguille tourne) et le kairos est le temps que
nous avons, que ne sommes, le temps opératif qui agit ici et maintenant». My emphasis,

446
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

Church42. On one hand, family life acts as a prophetic herald of the


fulfilled time that would have been accomplished with Christ. On the
other hand, Christ’s redemption can thus be a salvation accessible for the
family, with the help of Ecclesial liturgical rhythm. The latter, in order
to render Christ’s redemption a real fulfillment to the family, and not
a mere substitute, has to speak the same language even if in a new and
superior form. The seeds of kairos in the family are to be assumed into
the fulfilled Christian kairos.
In this way, if liturgy is the expression of the Christianity’s essence
through visible signs43, then a liturgical rhythm of the Church cannot
be a boring repetition because it assumes the cosmic cycles into the
Church’s nuptial relationship (indissoluble and ever new) with Christ,
a relationship that is also consumed and recapitulated into Jesus’ filial
relationship with the Father44.
This assumption was possible when the unfolding of the natural
familial body within (and transcendent to) time mentioned above, was
lived in a new way by the familial and historical body of Christ, and
granted to the Church inside the liturgical rhythm. In Christ, the Word
assumed the body with its language, giving it new coordinates, that of
Filiation with respect to the Father and of nuptiality with respect to
Humanity.
Through liturgy, which represents the mysteries of Christ’s incarnat-
ed life in the present time of His Spouse, a new order of remembering,
promising (and faithfulness), and fecundity is conferred to believers and

42 Cfr. S. John Paul II, Wednesday catechesis on human love in the divine plan, (20.10.1982):
“in a certain sense all the sacraments of the new covenant find their prototype in
marriage as the primordial sacrament. This seems to be indicated in the classic passage
quoted from the Letter to the Ephesians […] On the basis of the sacrament of
creation, one must understand the original sacramentality of marriage (the primordial
sacrament). Following upon this, on the basis of the sacrament of redemption one can
understand the sacramentality of the Church, or rather the sacramentality of the union
of Christ with the Church”.
43 Cfr. J. Danielou, Bible et liturgie, Editions du Cerf, Paris 1951, 328.
44 Second Vatican Council, Const. Sacrosanctum Concilium (4.12.1963) 84: “the divine
office is devised so that the whole course of the day and night is made holy by the
praises of God. Therefore, when this wonderful song of praise is rightly performed by
priests and others who are deputed for this purpose by the Church’s ordinance, or by
the faithful pryaing together with the priest in the approved form, then it is truly the
voice of the bride addressed to her bridegroom; It is the very prayer which Christ Himself, together
with His body, addresses to the Father”. My emphasis.

447
Walid Abi-Zeid

families45. This pattern is expressed inside a celebration where rhythm


flows and allows the person to have his time united. Jesus’ Kingdom is
expected as a fruit of anamnetic remembrance and Amen’s faithfulness
especially in Eucharistic communion.
Ecclesial liturgy even if composed of community of men, is con-
voked by Christ, it is God’s work in people’s work. Novelty is already
there in every beat. Through the liturgical rhythm people are introduced
into the mystery of Christ by virtue of His spousal relationship with the
Church. Every beat recalls Christ’s life and his relation to the Church in
a certain manner, fulfills and renews a promise (“I am with you all days
until the end of times” Mt 28, 20), and expects further fruits (of increas-
ing communion) but is also a fruit of previous acts and preparations.
Family life provides to the liturgical rhythm the form that allows the
ecclesial celebrations to summarize the unity of history, from creation
to redemption until final advent. Precisely because of this capacity, it is
seen how liturgy can accomplish the familial relationships. If the family
is the starting point pertaining to creation where it thanks and asks God
to be its source and its provider, when recalling Christ through liturgy,
it cannot but see its accomplishment in Him because of what it already
is: a community of love and life46. If the Word was able to assume a familial
body in order to hold spousal relationship with a community of people
rendering it a communion of charity and life47, so much the family can see
itself upgraded to the level of conjugal charity which springs paternal,
filial and fraternal charity. Here, the family can find its place among oth-
er families, as a fundamental cell of the Church.
This new form of time rhythm is unfolded within the liturgical year
which itself contains a rhythm: time of preparation for the great feasts
(advent and lent), time of the feasts themselves (Christmas and Easter),
and a time to taste the fruit received after the feasts48. Isn’t there a nup-

45 J. Granados, “The Liturgy; Presence of a New Body, Source of a Fulfilled Time”, in


Communio 39 (Winter 2012) 529-553.
46 Cfr. Second Vatican Council, Past. Cons. Gaudium et Spes (7.12.1965) 47.
47 Cfr. Id., Dogm. Cons. Lumen Gentium (21.11.1964) 9.
48 For example, Daniélou explains how the 40 days before the triduum are days of
penance since they symbolize the present history of humanity that is struggling to
overcome its sinful fragility; whereas, the 50 days after Resurrection are days that
symbolize eternity found in Christ’s access to full risen life. (Cfr. J. Daniélou, Essai
sur le mystère de l’histoire, cit., 247-260).

448
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

tial or at least a corporeal form in this pattern of preparation, celebration,


and enjoyment? This pattern evokes stages of affection dynamism of an
encounter that is characterized with time of encounter, time of desire,
and time of union followed by enjoyment49. If the liturgical preparation
is possible, it is because it was preceded by a promising encounter that
calls for a real union which allows for enjoyment. It is true that for the
baptized real union has already begun with the gift of the Holy Spirit,
but it still remains that man’s road to maturity is still open to progression.
This liturgical time that corresponds to the time of the body (revealed
by a loving encounter) allows the ‘homo liturgicus’ to navigate progres-
sively50, from encounter to encounter, into the Trinity in an ascending
spiral that traces its way within the ecclesial communion stemming from
Christ’s flesh.
Moreover, due to the liturgical language which it already has within
its relationships, the Christian family can read its real significance within
the Christian liturgy. Thus for example, the sacrament of marriage, as
an effective sign of Christ’s Incarnation and His love to the Church, can
have a special brightness during Advent / Christmas and Lent / Easter
since the first feast celebrates the irrevocable wedding between the Word
and the human nature, and the second commemorates Christ’s indissol-
uble wedding with the Church51. Also every person’s relation to his par-
ents or his children can be influenced by Christ’s birth in Christmas and
His new birth in the resurrection. The Jordan and Transfiguration is also
1) a moment of filiation that marks a degree of maturity of a person and
a heading toward a new phase in life (desert/ mission, and cross/resur-
rection), and 2) a call for the parents to generate their children in Christ,

49 Cfr. J. Noriega, Il destino dell’eros. Prospettive di morale sessuale, EDB, Bologna 2006,
46-47; Cfr. J.J. Pérez-Soba, Amore:introduzione a un mistero, trad. it. Francesca Ciotti,
Cantagalli, Siena 2012, 53-57.
50 Cfr. J. K. A. Smith, Desiring the Kingdom: Worship, Worldview, and Cultural Formation,
Baker Academic, Grand Rapids, MI 2009, especially Chapter 1: “Homo Liturgicus: The
Human Person as Lover”, 39-63. According to Smith the primarily anthropological
foundation of the human’s liturgical aspect is neither rationality, nor faith, nor concern;
it is man as a desiring and loving agent.
51 View St. Augustine’s doctrine that considers the mystery of Incarnation as the first
significant of marriage since the spousal relation that started between the Word and his
flesh is a necessary step before Christ’s nuptial relation with the Church on the Cross.
(Cfr. St. Augustine, In Epist. Ioannis ad Parthos I, 2 (SC 75, 114-116; Granados, Una
sola Carne in un solo spirito, cit. 215).

449
Walid Abi-Zeid

through the sacraments and His word. Pentecost can also be a feast that
reminds the spouses of the Spirit animating their conjugal charity and
fecundity from within their bond52. Also, the feasts pertaining to the last
advent prepare the family to its end in other families and in the greater
family of the Church, and fraternity of saints in heaven.
The Christian liturgical year as a whole is a continuous time charac-
terized by centers that can take nuptial and familial meaning since they
recapitulate and actuate Christ’s nuptial economy53. This economy is
revealed and communicated especially through Sundays. If Easter day is
the sacrament of Christ’s resurrection, and Sunday is the sacrament of
Easter, then Sunday is also a sacrament of Christ’s resurrection.
Following the typology of the Fathers, Sunday as an anti-type sac-
rament of Easter54, is a day which concentrates the meanings of the
Word’s Eternal Generation, creation’s beginning, and Christ’s Resur-
rection (the beginning of new creation in Christ), the Church’s Eucha-
rist, and the coming eon55. This Christian Day of the Lord can unite
man to the Original generation of the Word in eternity, through the
sacrament of creation assumed by Christ’s Resurrection – the sacrament
of new creation.
For Gregory of Nyssa, the week is the sacrament of the time of
creation of the universe, representing the latter’s finitude, i.e. a universe
whose time is an interval of cosmic movement which can terminate.
Whereas, Sunday, considered as the 8th day, represents the future life. It
is the beginning of eternal life, the anticipation and symbol of fullness at
the end of times56.
The Christian Sunday (first day) also acquired the meaning of rest
that pertains to Jewish Shabbat. In Christianity, to enter God’s rest, does
not mean to stop activity, but to cease sinning, and live spiritualization

52 Cfr. P. Evdokimov, The Sacrament of Love: the Nupital Mystery in the Light of Orthodox
Tradition, Eng. Trans. Anthony P. Gythiel and Victoria Steadman, St Vladimir’s
Seminary Press, New York 1995, 153.
53 In fact, each peak of the liturgical year is immanent to the Word’s Pessah (passage)
within creation, to the accomplishment of the week of creation in the Unique Day
of Christ’s resurrection. (Cfr. M. Gimenez, « La liturgie et le temps », in Irenikon
53/4(1980) 469-500, 496-497).
54 Cfr. S. Augustine, In Ioa. Ev. Tractatus, XX, 20, 2 (CCL 36), 203; Epist. 55, 2 (CSEL
34), 170-171.
55 Cfr. J. Daniélou, Bible et liturgie, cit., 329-354.
56 Cfr. ibid., 367-372 ; cfr. M. Gimenez, « La liturgie et le temps », cit., 476, 499.

450
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

in Christ57. In this sense, it can be deduced that Sunday is a prophetic


call for conversion from sin. As much as liturgy is loaded with the Truth
revealed in sacred history, it is a call for an active transformation of the
faithful and the families in resonance with this Truth.
If the symbolism of this generation is given with this day, it is much
more concentrated in the Eucharist celebrated in this same day. Inside
Mass, the recapitulation of Christ’s economy, crowned by the memo-
ry of his death and resurrection, is time that generates and edifies His
Mystical Body, setting it on the track of eschatological await. The family
gives the Eucharistic assembly at Sunday to reveal the identity and role
of the Church as a Bride that gathers her children, forming in them
the desire and eagerness (while receiving foretastes of heavenly joy) to
meet the “divine Bridegroom”58. On the other hand, Eucharistic time
is a time that most expresses the identity and the ministry of Christian
families as “domestic churches” whose members share “the word and
Bread of life”59.
This identity of the family as a domestic church is already founded
on the sacrament of marriage which is based on baptism and Eucharist.
Since the sacrament of marriage is characterized by the indissoluble bond
which, as a source of grace, accompanies the spouses during their daily
life, it can, like the Eucharist and in unity to it, make the family remem-
ber its new and first origin which is Christ’s Pascal mystery, the slaugh-
tered Lamb60. It can also, like the Eucharist and in unity to it, give hope
for the eschatological end (resurrection) of its members; a hope also
triggered by dominance over egoism and carnal concupiscence required
by the present tasks of marriage and truth of the one flesh’s language61.

57 Cfr. J. Daniélou, Bible et liturgie, cit., 305-314.


58 S. John Paul II, Ap. Lett. Dies Domini (31.5.1998) 37.
59 Ibid., 35.
60 Cfr. J. C. Atkinson, Matrimonio, eucaristia, e santità di Cristo, in J. Granados – S.
Salucci (a cura di), Eucaristia e Matrimonio: due sacramenti, un’alleanza, Cantagalli,
Siena 2015, 17-53, 47-48.
61 Cfr. S. John Paul II, Wednesday Catechesis (1.12.1982) : “The origin of man in the
world is united with marriage as a sacrament, and its future is also inscribed in it. This is
not merely in the historical dimensions, but also in the eschatological. […] Thus, then,
Christ’s words which exclude marriage from the reality of the future world, reveal
indirectly at the same time the significance of this sacrament for the participation of
men, sons and daughters, in the future resurrection. […] If this “world passes”, and if
with it the lust of the flesh, the lust of the eyes and the pride of life which come from
the world also passes, marriage as a sacrament immutably ensures that man, male and

451
Walid Abi-Zeid

It can therefore be said that the teachings of the Church regarding


the respect of the conjugal acts’ integrity has a nuptial and motherly
function. The Magisterium of the Bride is very related to the eschato-
logical dimension of the sacraments in as much as it prepares Her chil-
dren’s bodies and affectivity to final resurrection brought by the advent
of the Bridegroom.
In summary, the liturgy is a fruit of Christ’s relation to his Spouse
but it is also the place and time where this relationship is actuated62,
and whose peak is the Eucharist63. It is at the same time the place and
time where the desire of each baptized is upgraded to be conformed to
Christ’s kinship.
There can be two meanings for rhythm in liturgy. The first is the
flow of different celebrations throughout a liturgical year, week by week,
Sunday after Sunday. It is also characterized by the pattern of prepara-
tion-union-enjoyment in congruence with the affection dynamics of an
encounter. The second is the time-form that this successive repetition
imprints in man in conformity with the time-form into which man is
molded by the family. If it is true that the rhythm of time given by fami-
ly takes the form of recalling, promising, and fruitfulness, that gives men
and women their true identity as sons / daughters, grooms / brides, and
fathers / mothers, then it is also true that the liturgical rhythm, interpret-
ed in the light of the familial rhythm, gives them a new and upgraded
identity pertaining to the renewed body born with baptism.
Therefore the family’s time pattern continues in the new life brought
by Jesus. Christ’s relationship to the Church actuated in every liturgical
encounter infuses the Spirit so that humans live as sons, spouses, and
parents of God within the context of community of believers and in
first hand through the baptized inter-personal relationships within the
domestic community. Such new identity is granted specifically because
of the liturgical rhythm that takes the form of 1) recalling the mysteries
of Christ’s Incarnation – Life - Redemption, 2) answering His promises
by assuming the sacramental promises (of baptism and marriage, at least)
that He evokes, and 3) being disposed to actively receive the gift of

female, by dominating concupiscence, does the will of the Father. And he “who does
the will of God remains forever” (1 Jn 2:17)”. My emphasis.
62 Cfr. Second Vatican Council, Coun. Cons. Sacrosanctum Concilium, 5, 7.
63 Cfr. ibid., 47.

452
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

that mutual promise and faithfulness. It is precisely this third dimension,


intrinsically based on the first two, which entails into the generation of
God inside the Great Church, the domestic church, and society. The
Christian family also contributes to this generativity.

4. Education and generation of time for other families and


society

In fact, the family plays a great role for the future of the society and other
families through education. The latter constructs the subject and gives
him the means to accept, confront, and domesticate society and dwell in
it. In the Christian family, education is a participation in the fullness of
conjugal charity, which is intrinsically fruitful. As it is an act springing
from conjugal charity, it has the goal to participate in the generation of
the subject in familial and social charity.
Education is not an act of mere human production. For example,
the fruit of love, i.e. the child, cannot be controlled to abide to a fixed
preconceived ideal future plan. In fact, a generative education is in syn-
ergy with God’s action. The Eucharistic Christ educates the children
to his virtues through the conjugal bond of their parents. Respectively,
Jesus and the parents accompany the time of their children along their
different phases of maturity64. The parents offer the child to a sacra-
mental generation and educate him accordingly, thereby soliciting and
giving him the opportunity to answer to and receive Christ’s continuous
advent with a life disposed to self-gift with the finality given by reason
born inside a community.
Christ’s multiform advents (Eucharist, baptism, magisterium, mar-
tyrdom, etc.) in the present time of the Church, wants to build His
Mystical Body into the fullness of His stature. Nevertheless, it remains
that Christ’s stature is not a plan to be executed by the faithful parent on
his child, since it is not an idea, but a mystery that calls to the partici-
pation of everyone’s unique, unrepeatable, and non-pre-existent free-
dom. With generative education, the norms and the accompaniment,

64 G. Angelini, “Le età della vita”, in J.J. Pérez Soba – O. Goţia (a cura di), Il cammino
della vita: l’educazione, una sfida per la morale, cit., 57-83.

453
Walid Abi-Zeid

the authority and encouragements have the goal to open a Godly future
to the persons, to the Church, and to society.
The liturgical rhythm that receives Christ’s advents helps the Chris-
tians generate God in their children, and helps their children be gener-
ated in God by their Christian parents. It opens the way to the desire
of educating as well as the desire of being educated. Christ’s gift to his
Church allows liturgy to regenerate life making it correspond to the
mysteries of His life and his nuptial economy with the Church until His
last Advent. As a result, a new subject is born, grown, fed, forgiven, and
introduced to social as well as ecclesial edification, by theological and
human virtues, as well as by acts of true and good communion.
When the family passes by liturgical time (starting with baptism), it
receives the possibility, not only to overcome the obstacles that impede
inhabiting its own time, but also to generate inhabitable time for other
families and for society. Christian families gain the possibility of creating
an atmosphere of hospitality, love, trust, and truth that can receive di-
vided families or single people that have failed to inhabit time, allowing
them to reconnect to the good origin and rediscover in their body the
desire and hope for a common future.
Ordered to the Eucharist which represents the paschal presence, and
which is a nuptial presence “for the multitude”65, a presence that con-
forms the others into persons for a community66, baptism introduces
people to the community and hands on to the catechumen the garment
of the risen Christ67. In this sense baptism is a regeneration of man in
new faith, relationships, and expectations proper to the Church of the
Eucharist.
With baptism, the generativity of the familial “one flesh” to society
becomes purified and elevated to a new generativity that is a more sol-
id rock for the edification of society and for rendering the latter’s time
habitable for other families too. In fact, the Christians’ “one flesh” nour-
ished by the Eucharist converts the latter’s charity into conjugal charity

65 Cfr. J. Ratzinger, Dieu nous est proche, cit., 44-45, 63-65; Cfr. Benedict XVI, Ap.
Ex. Sacramentum Caritatis (22.2.2007) 27; S. John Paul II, Ap. Lett. Mulieris Dignitatem
(15.10.1988), 26: AAS 80 (1988), 1715-1716.
66 Cfr. J. Zizioulas, The Eucharistic communion and the world, ed. L. B. Tallon, Bloomsbery
Publishing, New York 2011, 13-14, 20.
67 Cfr. Benedict XVI, Ap. Ex. Sacramentum Caritatis, 17; Cfr. J. Danielou, Bible et
liturgie, cit., 52-53, 70-71.

454
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

which is converted into familial and social charity. The conjugal charity
that springs from the indissoluble bond of spouses immersed in Christ’s
Body can be, for those who receive its fruits, an occasion of growth in
filial virtue of charity. In its turn, this filial charity purifies reason and
natural inclinations giving them fullness and rendering them primary
agents for justice and solidarity in society68.
With baptism, the cultural memory carried and transmitted by the
family is also purified and elevated into a memory of Christ’s Gospel and
economy for His Spouse69. In this way, the family can be like St Paul,
a leitourgo.j of Christ and priest of His Gospel for society so that the
latter becomes an agreeable offering, sanctified by the Holy Spirit (Cfr.
Rm 15, 16).

5. Conclusion

A real way of inhabiting time is to extend one’s existence in past, present


and future in a way that unifies the person and allows him / her to live
to fullness. To adapt oneself to fragmented time, or to assimilate and
control time according to a self-projected ideal, reduces humans into
succession of separated instants, like sands escaping an open hand.
Moreover, not any kind of stability allows a person to inhabit time.
Alone, a constancy of schedules and patterns of daily life amidst liquid
relationships can keep man in a subjective good conscience and anes-
thetized mind, but does not allow to gather the succession of his phases
of life into a unity, and hence into an identity; alone, it does not allow
to inhabit the future because fragmented relations are not solid grounds
of space and time, and therefore do not generate a new subject that can
appreciate his past and be oriented for his future.

68 Cfr. L. D. Malaspina, “El agape cristiano como hermeneutica de la ley natural.


Actualidad del pensamiento de Santo Tomàs de Aquino a la luz de Caritatis in
veritate”, in J.J. Pérez Soba – M. Magdič (a cura di), L’amore principio di vita sociale,
Cantagalli, Siena 2011, 413-423, 418-419.
69 Cfr. T. Rowland, “La mediazione della tradizione all’interno della famiglia”, in
L. Melina – J. Granados (a cura di), Famiglia e nuova evangelizzazione: la chiave
dell’annuncio, Cantagalli, Siena 2012, 123-132, 130-132; Cfr. G. K. Neville, “Learning
Culture through Ritual: The Family Reunion”, in Anthropology & Education Quarterly
15/2 (Summer 1984) 151-166.

455
Walid Abi-Zeid

A surrogate mother, proud for giving a child to a needy couple,


should ask herself whether she has contributed to a unified identity for
her child or not. When a child of surrogacy looks at his past, he will
necessarily have a memory of at least three controlling sources, instead
of one receiving source, instead of love between parents open to life; as
a result, he will have difficulties in relating with the Original Promise
that created him. If the child’s past is not perceived in a unity, that of
conjugal love, on what rock can his present promise and faithful union
lean in order to have a future for and in others?
On the contrary, based on memory of a faithful promise that preced-
ed them, persons can maintain a steady relationship of self-gift and re-
ception of the other. As a result, not only do these persons pave the way
for continuity of self in future generations, but they also give society the
possibility of being just and solidary, allowing the people to give their
full potential. Societies rendered solid by the help of Christian families
living according to their vocation can also be healthy environments for
the flourishing of other families.
On the other hand, ecclesial liturgical rhythm corresponds to the
familial natural liturgical rhythm. The latter’s language helps to reveal
the nuptial pattern of Church celebrations and sacraments which in their
turn generate the family members to God, and allow them to be litur-
gists for society. As the Church can give a future and accomplishment
for the family, the family can also edify the Church and society, both
becoming places where Christ the Bridegroom has time for families and
each of their members, as well as for people with a shattered past.
In liturgy, Christ’s nuptial flesh is the foundational past and present
of the Church that can also be the foundational past and present of the
Christian family. Moreover, the Church’s spousal faithfulness to Christ
can also remind the families to be faithful to their vocation and mission.
In addition, the Church’s expectation of Jesus’ Kingdom (as His full stat-
ure) helps families’ expect the generation of society and of other families,
and the resurrection of its members’ bodies.
Since the way of the Church passes through the family and the way
of the family passes through the Church, the memory, promise, and fru-
ition lived in each also has to contain the other’s time and contribute to
the edification and generation of the other.

456
To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life

The perichoresis of ecclesial and family time need key factors for gen-
erating a time for the world to inhabit. These keys are sacraments and
education. Conferring sacraments and education according to Christ’s
narrative and virtues are the means for channeling charity springing from
Christ’s Eucharistic flesh and from the conjugal bond to the children of
the conjugal act, and from them to society.
This perichoresis is made of an indissoluble link between dogma,
prayer, and practice. A further study needs to be done to discover the
nature of practices that allow the synergy between liturgy and family to
be fruitful, and reveal the real significance of this synergy for the accom-
plishment of the world in the Kingdom of Christ.

457
Anthropotes 33 (2017)

Edificare la chiesa domestica:


pratiche familiari per abitare in Chiesa

Juan Antonio Reig-Pla*

SUMMARY: In the present article, we ask ourselves firstly if the Church is a


livable place. In this way, we intend to respond to those who reject Christian
morality, considering it as unfeasible. The answer implies grace and redemp-
tion of the heart. Only love can make the Church livable, and, through it,
the world becomes livable. The family, a communion of persons, contributes
in making the world livable because it is true human ecology. Secondly, we
realize the necessity of the creation of the family, a true domestic church. This
construction of the family rests upon the corner stone that is Christ. Sustained
by the grace of redemption, building up the family implies faith and needs
practice: becoming one flesh, opening conjugal love to life, education, prayer in
the family, forgiveness, celebration, realizing and following the path of beauty,
and building upon mercy.

La Chiesa, è abitabile?1 Ecco una domanda che molti si pongono di-


nanzi al rifiuto che nutrono nei confronti di un’istituzione che si presen-
ta come poco adatta all’attuale stile di vita. Agli occhi di molti, la Chiesa
e tutto ciò che è religioso presenta l’immagine di un museo, utile per

* Vescovo di Alcalá de Henares. Vice Preside della Sezione Spagnola del Pontificio
Istituto Teologico Giovanni Paolo II.
1 Cfr. A. Auer, “¿Es la Iglesia, hoy en día, todavía «éticamente habitable»?”, in D. Mieth
(dir.), La teología moral, ¿en fuera de juego? Una respuesta a la encíclica “Veritatis splendor”,
Herder, Barcelona 1995, 335-357.

459
Juan Antonio Reig-Pla

ammirare la bellezza di alcuni oggetti ispirati, ma che nessuno immagina


come essere la propria casa. Tutto è fatto per essere contemplato, ma non
si può toccare nulla né spostare nulla. Serve per sentirsi in pace, ma non
per rispondere agli interrogativi inquietanti che pone il futuro.
In ogni modo, la domanda iniziale scaturisce da una disaffezione
ecclesiale estesa in ampi settori della società, nell’ambito di un processo
crescente e rivolto, in larga misura, alla proposta morale cristiana. Poiché
quest’ultima è considerata peculiare rispetto alle molte altre proposte
ricevute, al momento di ascoltarla si prova un maggior disagio. In realtà,
l’elemento davvero in gioco qui, è l’“abitabilità” ossia, la possibilità di
trovare nella Chiesa uno spazio nel quale vivere. È questo il problema
al di là della razionalità della fede che, invece, fu ciò che, in altri tempi,
rendeva difficile ammettere la proposta cristiana2. La questione è legata
dunque al modo di vivere con un indubbio contenuto morale.
Non possiamo esimerci dal considerare seriamente la radicalità di
questo interrogativo ma, naturalmente, occorre adottare una prospettiva
più ampia del mero tono rivendicativo con il quale si usa formularlo.
Nell’ambito pubblico nel quale solitamente si esprime, ciò che implicita-
mente si dice è che la Chiesa sarebbe più abitabile se adattasse la propria
dottrina e la propria morale agli elementi chiave più correnti nella so-
cietà, ossia quelli grazie ai quali le persone sentono la vita più gradevole.
Ma questa è una proposta miope. L’errore nel quale cade consiste nel
non percepire che uno dei maggiori ostacoli alla vita buona sta pro-
prio nel fatto di cercare innanzitutto ciò che appare gradevole. Questo
non è affatto un principio di abitabilità, ma soltanto di gradevolezza.
Lo stesso Epicuro lo aveva sottolineato nella sua teoria del “giardino”
quando si riferiva all’abitabilità più come ad una protezione dal male
che alla vita gradevole. Il mero adattamento alle condizioni ambientali
non crea abitabilità nell’uomo: egli abita nel mondo quando compren-
de le sue esigenze interne e la specifica creatività, non quando guarda
semplicemente a ciò che è esteriore. Una capanna, il fuoco, il tempio,
gli elementi di riferimento per l’abitabilità, sono creazioni umane non
un’imitazione. L’uomo è stato capace di vivere in tutti gli ambienti della
terra perché ha sempre costruito qualcosa e non si è mai accontentato di

2 Auer cita (ibid., 354) Friedrich von Hügel che chiedeva che la Chiesa fosse
“intellettualmente abitabile”.

460
Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare in Chiesa

adattarsi semplicemente. La Chiesa non è più abitabile se si presenta più


attraente, ma lo è se offre una vita buona piena, allorché gli altri offro-
no semplicemente il sentirsi bene. È la differenza che c’è tra una casa e
un hotel: quest’ultimo è fatto di un insieme di servizi che l’ospite paga
poiché nulla gli appartiene. Tutti accettano la Chiesa come luogo nel
quale sostare, o anche come cornice per celebrare un evento, ma abitarla
significa considerarla “propria”, come una casa piena di vita.
Per comprendere il tema qui proposto, occorre partire da una con-
statazione: l’elemento davvero difficile non è una Chiesa abitabile, ma
piuttosto l’abitabilità del mondo. La Chiesa può esserlo nella misura in
cui rende più abitabile il mondo e se è principio di rinnovamento dello
stesso: lumen gentium. Non ci illudiamo: il malessere dinanzi alle esigenze
sociali3 e a tutte le sue istituzioni è crescente e il fenomeno dei gruppi
“antisistema” è fortemente presente nella nostra cultura. Il desiderio di
cambiamento a tutti i costi che lo anima, non è altro che un modo di
esprimere il fatto di vivere in un mondo poco abitabile da cui scaturisce
un malessere che ostacola la convivenza autentica tra persone. Una vi-
sione più attenta consente di scoprire quanto sia difficile per gli uomini
trovare il mondo abitabile. Non possiamo ignorare, infatti, che la peg-
gior patologia di cui soffre l’uomo di oggi è la solitudine4.
Papa San Giovanni Paolo II, dall’inizio del suo pontificato, sottoli-
neò che soltanto l’amore rende il mondo e la Chiesa abitabili. Ma questo
amore non riguarda soltanto il sentimento; bensì è un amore che, con
la Grazia rigeneratrice di Cristo, fa possibile la propria donazione della
persona costruendo, così, una storia di vita buona. Così lo spiegava il
chiamato Papa della famiglia: «L’uomo non può vivere senza amore.
Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di
senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore,
se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamen-
te. E perciò appunto Cristo Redentore (…) rivela pienamente l’uomo
all’uomo stesso. Questa è - se così è lecito esprimersi - la dimensione

3 Cfr. Ch. Taylor, The Ethics of Authenticity, Harvard University Press, Cambridge,
Massachusetts 1992.
4 Cfr. Benedetto XVI, L. Enc. Caritas in veritate, n. 53: “Una delle più profonde
povertà che l’uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere anche le altre
povertà, comprese quelle materiali, nascono dall’isolamento, dal non essere amati o
dalla difficoltà di amare”.

461
Juan Antonio Reig-Pla

umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l’uomo ri-


trova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità. Nel
mistero della Redenzione l’uomo diviene nuovamente «espresso» e, in
qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato! (…).
L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto se-
condo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri
e misure del proprio essere - deve, con la sua inquietudine e incertezza
ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte,
avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se
stesso, deve «appropriarsi» ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione
e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo pro-
fondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di
Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso» (Giovanni Paolo II,
Redemptor hominis, 10).
Di nuovo, Papa Giovanni Paolo II si esprimeva in questo modo nel
parlare della famiglia come autentica ecologia umana: «Oltre all’irrazio-
nale distruzione dell’ambiente naturale è qui da ricordare quella, ancor più
grave, dell’ambiente umano, a cui peraltro si è lontani dal prestare la ne-
cessaria attenzione. Mentre ci si preoccupa giustamente, anche se mol-
to meno del necessario, di preservare gli «habitat» naturali delle diverse
specie animali minacciate di estinzione, perché ci si rende conto che
ciascuna di esse apporta un particolare contributo all’equilibrio generale
della terra, ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni mo-
rali di un’autentica «ecologia umana». Non solo la terra è stata data da Dio
all’uomo, che deve usarla rispettando l’intenzione originaria di bene,
secondo la quale gli è stata donata; ma l’uomo è donato a se stesso da
Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato
dotato. (…). La prima e fondamentale struttura a favore dell’«ecologia
umana» è la famiglia, in seno alla quale l’uomo riceve le prime e determi-
nanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire
amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere
una persona. Si intende qui la famiglia fondata sul matrimonio, in cui il
dono reciproco di sé da parte dell’uomo e della donna crea un ambiente
di vita nel quale il bambino può nascere e sviluppare le sue potenzialità,
diventare consapevole della sua dignità e prepararsi ad affrontare il suo

462
Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare in Chiesa

unico ed irripetibile destino (…)» (Giovanni Paolo II, Centesimus annus,


38-39).
Nell’enciclica Laudato si’ si opera una riflessione sul mondo abitabi-
le come una “casa comune”, partendo da un approccio in cui la storia
umana è importante, “è parte dell’identità comune di un luogo e una
base per costruire una città abitabile”5. Tuttavia, occorre comprender-
la più come un desiderio che come una realtà. È stato il razionalismo
moderno che, negando la realtà della provvidenza divina, ha pensato di
costruire il mondo per l’uomo senza tanti presupposti, ciò che, in fin
dei conti, equivale a pensare all’uomo senza una dimora6. Proprio per
questo, appaiono estemporanee le richieste odierne di un adattamento
della Chiesa alle esigenze di una ragione illuminista atemporale, priva di
spazio7, e che non è abitabile. È proprio nell’ambito di questa ragione
fredda e calcolatrice, che ha portato ad esperimenti come la seconda
parte dell’opera di Le Corbusier, che sperimentiamo la verità di quanto
afferma San Paolo: “la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore
edifica” (1 Cor 8,1). Già von Balthasar aveva mostrato con grande acume
che il Dio deista che lascia uno spazio vuoto all’uomo affinché edifichi il
proprio mondo senza tanti punti di riferimento, non solo non risponde
a questa necessità ma, proprio per il vuoto che lascia, si rivolta contro
l’uomo che vuole misurare se stesso soltanto a partire dalla propria ra-
gione8. Solo l’amore che costruisce un storia rende abitabile il mondo,
non una serie di deduzioni razionali. Kant non arrivò a pensare che “il
sogno della ragione produce mostri”.
In realtà, l’uomo non ha una casa per natura, ma la deve costruire
come espressione primigenia della cultura di cui ha bisogno per essere

5 Francesco, L. Enc. Laudato si’, n. 143. Per questo occorre considerare che: ibid., 164:
“l’umanità come popolo che abita una casa comune”.
6 Come già evidenziava: G. K. Chesterton, Lo que está mal en el mundo, Ciudadela,
Madrid 2006, 13-64.
7 Possiamo presentare come esempio di questo atteggiamento così privo di prospettiva,
proprio la proposta di Auer per una nuova etica cristiana che non è altro che quella
di una decadente etica illuminista: cfr. A. Auer, “¿Es la Iglesia, hoy en día, todavía
«éticamente habitable»?”, cit., 356.
8 Così si esprime: H. U. von Balthasar, Solo el amor es digno de fe, Sígueme, Salamanca
19954, 27: “El hombre [en la visión iluminista] no es sólo un microcosmos sino que,
en las pujantes ciencias naturales, aparece como imagen del formador de ese cosmos,
al que es capaz de sobrepasar por medio de la razón. Así lo presenta Kant concluyendo
ya la Ilustración”.

463
Juan Antonio Reig-Pla

se stesso. Il compito di edificare è l’unico modo in cui può avere il suo


“mondo”. La missione dell’uomo di umanizzare ciò che tocca è parte
della benedizione ricevuta nella Genesi (cfr. Gen 1,28). Si tratta di un’e-
sigenza interna della cosiddetta “ecologia umana” e il cui primo referente
è la famiglia9.

1. Edificare la casa

Nel racconto biblico, il compito di edificare ha due riferimenti che sem-


brano opposti ma, a ben vedere, la loro congiunzione ci parla di un
ordine interiore necessario per il senso della vita umana: sono l’arca di
Noè e la Torre di Babele. In entrambi i casi, il compito umano si inse-
risce nella necessità di rispondere all’estensione del male che minaccia di
distruggere l’umanità, ossia nel dramma della storia umana.
“Il primo costruttore è Noè, che con l’Arca, riesce a mettere in
salvo la sua famiglia (cfr. Eb 11,7)”10. La prima edificazione segue il
comandamento divino (cfr. Gen 6,14-16) che consegna all’uomo le co-
ordinate necessarie per operare nell’ambito di un compito che si presenta
come familiare. Tutto indica l’alleanza con la vita nell’ambito della fami-
glia come il principio del culto a Dio, dinanzi alle unioni deviate (Gen
6,1-4). Il vero culto reso a Dio è in grado di preservare l’alleanza tra le
generazioni poiché è in esse che si mantiene la speranza in mezzo agli
uomini. L’arca costruita ha le dimensioni di un tempio (Gen 6,15), al
suo interno l’uomo può sperimentare la salvezza in pieno cataclisma. Un
mondo senza speranza di salvezza non è veramente abitabile perché non
è in grado di conferire unità ai desideri che si frammentano senza ordi-
narsi in una unità di vita di cui l’uomo ha bisogno per avere una dimora
e indirizzare la propria libertà. La dimora trasmette qualcosa alle nuove
generazioni in un ambito nel quale la libertà ha un significato11. La Sacra
Famiglia conclude il racconto dell’Arca con la celebrazione della prima

9 Cfr. Francesco, L. Enc. Laudato si’, n. 155 in riferimento alla legge naturale.
Il concetto emerge in: Giovanni Paolo II, L. Enc. Centesimus annus, nn. 38-39;
Benedetto XVI, L. Enc. Caritas in veritate, n. 51.
10 Francesco, L. Enc. Lumen fidei, n. 50.
11 Cfr. J. Ratzinger, Iglesia, ecumenismo y política. Nuevos ensayos de eclesiología, BAC,
Madrid 1987, 213-216.

464
Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare in Chiesa

Alleanza che Dio fa con l’uomo intorno al dono della vita come sacro
(Gen 9,1-17). Dio è il garante della vita e la famiglia è il suo santuario.
La seconda edificazione sembra opposta alla prima. La “torre di Ba-
bele” (Gen 11,1-9) è un compito che scaturisce dall’iniziativa umana
come compito comune a livello dei popoli. È un modo di mostrare che
nulla resiste al potere umano, tanto da arrivare ad esprimere il desiderio
che l’uomo si possa procurare la salvezza da solo. Ecco l’errore più grave
che l’uomo possa commettere; un orgoglio peggiore della hibris greca.
Si potrebbe porre come il paradigma della “durezza del cuore” (cfr. Mt
19,8), che è quella che, di fatto, infrange la vera unione tra gli uomini.
L’intervento divino mostra proprio ciò che l’uomo è incapace di dare a
se stesso e che è il presupposto di qualsiasi lavoro comune: il linguaggio.
È questo il primo dono che l’uomo riceve nella famiglia, insieme allo stu-
pore che nasce dalla possibilità di comunicare e di crescere nell’unione.
Questa edificazione umana mancata che presenta la difficoltà enorme di
poter parlare di una effettiva “casa comune” richiede una nuova casa nella
quale Dio abiti in mezzo agli uomini e rinnova, anche a livello sociale,
questa frattura tra gli uomini. La Pentecoste, che si produce nella casa
di una famiglia, e secondo i racconti tipici dell’alleanza mosaica (cfr. At
2,1-11), ci parla del nuovo linguaggio di Dio, capace di unire gli uomini.
Il fatto di edificare, nel modo in cui ci viene presentato dalla rivela-
zione, significa seguire una chiamata divina in cui la salvezza sia presente
e con un linguaggio che insegni il vero significato della vita. La famiglia
ha un ruolo essenziale da svolgere: “Dio ha affidato alla famiglia il pro-
getto di rendere “domestico” il mondo”12.
Quella che Dio chiede, è una realtà attiva. Smettere di edificare porta
al disastro. La risposta a questa domanda deve essere urgente e sapiente
poiché in gioco vi è la vita intera, come dimostra la parabola della casa che
deve resistere nel momento della prova (Mt 7,24-27). Per far ciò, occorre
mettere in atto determinate pratiche, ossia compiere un esercizio di azioni
buone che poco a poco costruiranno l’autentica comunione di persone13.
In fondo, le Catechesi di Papa Francesco sulla famiglia, in parti-
colare quelle che parlano della “vita familiare” (cfr. Cat. 14-24), sono

12 Francesco, Es. Ap. Amoris laetitia, n. 183.


13 Per l’idea di pratica virtuosa: cfr. A. MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory,
University of Notre Dame Press, Indiana 1981.

465
Juan Antonio Reig-Pla

una riflessione su queste pratiche familiari che consentono di edificare la


“chiesa domestica”. Per il Pontefice: “La famiglia introduce al bisogno
dei legami di fedeltà, sincerità, fiducia, cooperazione, rispetto; incorag-
gia a progettare un mondo abitabile e a credere nei rapporti di fiducia,
anche in condizioni difficili; insegna ad onorare la parola data, il rispetto
delle singole persone, la condivisione dei limiti personali e altrui. E tutti
siamo consapevoli della insostituibilità dell’attenzione famigliare per i
membri più piccoli, più vulnerabili, più feriti, e persino più disastrati
nelle condotte della loro vita”14.

2. Edificare richiede fede

Edificare richiede, come ci insegna il caso di Abramo, la fede: una fede


specifica rivolta ad un amore che edifica una vita, che sa stare in un tempo
e in uno spazio dove vivere le relazioni in profondità. La sua storia si in-
serisce nella missione di edificare che l’uomo riceve: “Appare poi Abra-
mo, di cui si dice che, per fede, abitava in tende, aspettando la città dalle
salde fondamenta (cfr. Eb 11,9-10). Sorge, dunque, in rapporto alla fede,
una nuova affidabilità, una nuova solidità, che solo Dio può donare”15.
Per costruire con fede, l’ambiente della famiglia è necessario. Que-
sto ci dimostra che costruire riguarda i vincoli stabili tra gli essere umani,
con i loro propri significati, che si comunicano e danno la necessaria sta-
bilità. “La fede fa comprendere l’architettura dei rapporti umani, perché
ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio, nel suo
amore, e così illumina l’arte dell’edificazione, diventando un servizio
al bene comune. Sì, la fede è un bene per tutti, è un bene comune, la
sua luce non illumina solo l’interno della Chiesa, né serve unicamente
a costruire una città eterna nell’aldilà; essa ci aiuta a edificare le nostre
società, in modo che camminino verso un futuro di speranza”16. Ecco
perché la crisi della famiglia coincide con la crisi della fede17, con la
mancanza di una luce per edificare.

14 Francesco, Catechesi sulla famiglia, 28, Spirito familiare (7-X-2015). Cfr. Papa
Francesco, Famiglia in cammino. Le catechesi sulla famiglia di Papa Francesco commentate
da Juan José Pérez-Soba, Cantagalli, Siena 2016.
15 Francesco, L. Enc. Lumen fidei, n. 50.
16 Francesco, L. Enc. Lumen fidei, n. 51.
17 Cfr. M. Eberstadt, Cómo el mundo occidental perdió realmente a Dios. Una nueva teoría de
la secularización, Rialp, Madrid 2014.

466
Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare in Chiesa

Non si può dare per scontata la capacità dell’uomo di edificare poi-


ché deve essere sostenuta e sviluppata. Questo diventa ancor più urgente
nel nostro mondo poiché si tratta di un compito che non può essere
imperniato né sulla tecnica né sugli accordi. È quanto appare chiara-
mente nella fragilità dei primi anni di matrimonio18, proprio quelli in
cui occorre dimostrare questa sapienza nell’edificare. Il richiamo urgente
dell’esortazione Amoris laetitia a prestare maggior attenzione a questo pe-
riodo, è il miglior riconoscimento della necessità di insegnare agli sposi
quest’arte di edificare.

3. Maturare la propria identità

Nel contesto delle “ideologie colonizzatrici”19, ci troviamo dinanzi


alla nuova sfida di proporre la fede sulla creazione e la redenzione della
“carne”: aiutare a maturare nella mascolinità e nella femminilità come
logica ineludibile del dono. Questa maturazione richiede una serie di
processi20 e riti. Occorre esplicitare la necessità di attuare pratiche che
stimolino il rapporto individualizzato e stretto tra padre e figlio o figlia,
così come quello tra madre e figlio o figlia. La figura dei fratelli maggiori,
quella dei nonni, dei padrini, degli zii, dei maestri, ecc. sono anch’esse
vitali per la maturazione dei nostri bambini, adolescenti e giovani ma

18 Un riferimento obbligato è: L. Melina (a cura di), I primi anni di matrimonio. La sfida


pastorale di un periodo bello e difficile, Cantagalli, Siena 2014.
19 Femminismi ideologici (costruttivisti, ecc.), ideologia di genere, teoria queer, teoria
cyborg, transumanesimo e postumanesimo. Queste ideologie si stanno sviluppando in
un contesto globalizzato di capitalismo tecno-nichilista che – al fine di rendere tutto una
merce, incluso il corpo – “fagocita” e “integra” nel “sistema” qualsiasi dissidenza,
comprese le proposte di matrice marxista che “addomestica” e “commercializza”.
Nel “sistema”, coniugando la cultura della morte con l’idolatria del denaro, sembra
emergere con forza, come alternativa a Dio-creatore-redentore, la cosiddetta tecno-
redenzione: “En sus diferentes variantes la propuesta del transhumanismo supone la
posibilidad de mejorar tecnológicamente a los seres humanos como individuos y como
sociedad por medio de su manipulación como especie biológica; abrazando el sueño
de abandonar y superar la precariedad de la existencia orgánica” (A. Roca – M. A.
Dellacasa, Tecno redención de cuerpos transexuales: apropiación tecnológica y autogestión de
identidades inconclusas. Mediações-Revista de Ciências Sociais, 20(1) (2015) 239-259
[on line]. [Consultato: 6-6-2017]. Disponibile sul web: <http://www.uel.br/revistas/
uel/index.php/mediacoes/article/download/23264/pdf_8>).
20 Esistono esperienze molto positive che integrano la Dottrina Sociale della Chiesa
e la vocazione alla santità come parte essenziale della maturazione nella mascolinità
e femminilità; si veda ad esempio: www.esposiblelaesperanza.com y www.
esposibleelcambio.com.

467
Juan Antonio Reig-Pla

anche adulti. Bisogna essere consapevoli del fatto che ci troviamo dinan-
zi alla tendenza culturale della “adolescenza interminabile”. “Esso [Que-
sto idolo] si nutre di un prodotto culturale recente: l’esistenza separata di
un mondo giovanile con logiche proprie, desideri propri, organizzazione
propria, irresponsabilità propria21. In pochi decenni, questa invenzione
postbellica (essenzialmente mercantile) ha generato, per contraccolpo,
l’universo tignoso della competizione senile: incorporazione di un’ado-
lescenza infinita, scarso interesse per il lavoro della generazione, ricerca
di complicità nel godimento. Ma al tempo stesso difesa corporativa del
potere e di tutti i suoli accessi”22.
Come fondamento dell’antropologia adeguata affermiamo l’unità
della persona corpo-spirito. Nel contempo però, siamo persona-maschio
o persona-femmina. Non ci sono altre identità ma, come per ogni realtà
umana, anche la nostra identità-vocazione è chiamata a maturare e a
crescere con l’aiuto della figura paterna e materna.

4. Essere una sola carne

Come abbiamo osservato, il linguaggio è il presupposto per ogni edifi-


cazione in quanto compito umano, giacché richiede una comunicazione
di significati comuni. Indubbiamente nella famiglia si parla il “linguaggio
del corpo” nel quale si articola una prima grammatica essenziale per l’a-
bitabilità del mondo. In essa si esprimono i significati basilari: la differen-
za sessuale e la differenza tra le generazioni, aperta ad una trascendenza
mediante l’esogamia. Senza questi significati, il mondo diventa ostile
come un’ingegneria sociale, sempre violenta.
Comprendiamo dunque come la prima edificazione che si compie
sia proprio quella di “essere una carne” (Gen 2,24)23. È così che si edifi-
cano le vere fondamenta di una famiglia nella quale si vive nel contem-
po una trascendenza, un’intimità e un’esclusività che sono gli elementi
chiave necessari per poter rendere abitabile lo spazio umano. La prima

21 R. Simone, “Il culto del bambino. Così l’Occidente ha creato un piccolo adulto senza
infanzia”, in La Repubblica, 3 agosto 2011, 40.
22 P. Sequeri, Contro gli idoli postmoderni, Lindau, Torino 2016.
23 Cfr. J. Granados (a cura di), Una caro. Il linguaggio del corpo e l’unione coniugale,
Cantagalli, Siena 2014.

468
Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare in Chiesa

volta che San Paolo parla dell’essere “una carne” (1 Cor 6,16) lo fa per
spiegare che il corpo del cristiano non è fatto per la prostituzione perché
è “tempio dello Spirito” (1 Cor 6,19). Il richiamo ad essere una carne
è quindi l’edificazione per eccellenza in seno ad un amore solido, “per
sempre”. Certamente, vi è un rapporto intrinseco con il culto autentico
di Dio che si vive nell’offerta del proprio corpo: “come sacrificio viven-
te, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rom 12,1)24.
Questo compito che consiste nel gettare le fondamenta, è riassunto
nel seguente pensiero di Papa Francesco: “Penso anzitutto all’unione sta-
bile dell’uomo e della donna nel matrimonio. Essa nasce dal loro amore,
segno e presenza dell’amore di Dio, dal riconoscimento e dall’accettazio-
ne della bontà della differenza sessuale, per cui i coniugi possono unirsi
in una sola carne (cfr Gen 2,24) e sono capaci di generare una nuova
vita, manifestazione della bontà del Creatore, della sua saggezza e del
suo disegno di amore. Fondati su quest’amore, uomo e donna possono
promettersi l’amore mutuo con un gesto che coinvolge tutta la vita e che
ricorda tanti tratti della fede. Promettere un amore che sia per sempre è
possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri progetti, che
ci sostiene e ci permette di donare l’intero futuro alla persona amata. La
fede poi aiuta a cogliere in tutta la sua profondità e ricchezza la genera-
zione dei figli, perché fa riconoscere in essa l’amore creatore che ci dona
e ci affida il mistero di una nuova persona”25.
Il compito pastorale della Chiesa nei confronti della famiglia consiste
nell’aiutarla ad edificare, ossia insegnare alle persone a costruire veramen-
te quella “una sola carne” che trabocca della presenza di Dio. In primo
luogo, occorre una formazione affettivo-sessuale26: educare alla castità dei
desideri affinché siano capaci di creare legami stabili. È questa la “pastorale
del vincolo” di cui ci parla Amoris laetitia27 e che deve rappresentare il pri-
mo aiuto che la Chiesa offre alla famiglia affinché sia in grado di operare
secondo i vincoli e di trasmettere la sua forza. Il fatto di vivere l’Alleanza
imperniata sulla promessa è di fondamentale importanza28.

24 Per una riflessione su questo culto razionale: cfr. J. Ratzinger, El espíritu de la liturgia:
una introducción, Cristiandad, Madrid 2001. 66-71.
25 Francesco, L. Enc. Lumen fidei, n. 52.
26 Cfr. Francesco, Es. Ap. Amoris laetitia, nn. 280-290.
27 Cfr. Francesco, Es. Ap. Amoris laetitia, n. 211.
28 Per una fenomenologia della promessa: J. L. Chrétien, La voix nue: phénoménologie de
la promesse, Minuit, Paris 1990.

469
Juan Antonio Reig-Pla

La cultura attuale mette la pastorale familiare dinanzi ad una sfida


formidabile: che lo sposo e la sposa imparino a donarsi integralmente con
la bellezza del linguaggio del corpo. Va ricordato che stiamo parlando di un
sacramento, di una “liturgia”. Lo strumento che spesso funge da model-
lo pedagogico per molti giovani e adulti è la pornografia. Non è questa
la sede adatta per sviluppare questo tema, ma le conseguenze di questo
comportamento si stanno dimostrando davvero devastanti. Non si tratta
di offrire “tecniche” o “ricette” ma criteri precisi che possano servire agli
sposi come guida per tutto ciò che si riferisce al linguaggio del corpo
e al contesto richiesto: criteri che consentano loro di discernere come
concretizzare, in ogni circostanza, le espressioni di affetto, come avere
cura della bellezza della propria dimora e del talamo-altare nuziale senza
dimenticare le esigenze di carità, giustizia, verità, bene e bellezza dell’ab-
braccio coniugale29.

5. L’amore che è promessa di una vita

La fede, che è costitutiva della prima edificazione dell’“essere una sola


carne” richiede una nuova pratica per la sua trasmissione nella famiglia.
È qui che si comunica come l’amore che promette una vita. Il respiro
della famiglia è proprio la capacità di generare vita come linguaggio di
speranza. La paternità è legata a questa speranza di un amore primo e

29 Catechismo della Chiesa Cattolica: 2360 “La sessualità è ordinata all’amore coniugale
dell’uomo e della donna. Nel matrimonio l’intimità corporale degli sposi diventa un
segno e un pegno della comunione spirituale. Tra i battezzati, i legami del matrimonio
sono santificati dal sacramento”.
2361 “La sessualità […] mediante la quale l’uomo e la donna si donano l’uno all’altra
con gli atti propri ed esclusivi degli sposi, non è affatto qualcosa di puramente
biologico, ma riguarda l’intimo nucleo della persona umana come tale. Essa si realizza
in modo veramente umano solo se è parte integrante dell’amore con cui l’uomo e la
donna si impegnano totalmente l’uno verso l’altra fino alla morte” (FC 11).
2362 “Gli atti […] coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità, sono onorevoli
e degni, e, compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione
che essi significano, ed arricchiscono vicendevolmente in gioiosa gratitudine gli sposi
stessi” (GS 49).
2363 “Mediante l’unione degli sposi si realizza il duplice fine del matrimonio: il
bene degli stessi sposi e la trasmissione della vita. Non si possono disgiungere questi
due significati o valori del matrimonio, senza alterare la vita spirituale della coppia e
compromettere i beni del matrimonio e l’avvenire della famiglia. L’amore coniugale
dell’uomo e della donna è così posto sotto la duplice esigenza della fedeltà e della
fecondità”.

470
Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare in Chiesa

incondizionato che da sempre il meglio di sé30. Da un lato, è quello che


spiega l’origine come un mistero d’amore iniziale al quale bisogna ri-
spondere e che è principio di libertà. Dall’altro è il sostegno del compito
educativo come continuità della logica di sovrabbondanza da cui parte.
È il contrario di quanto avviene con un calcolo che cerca di risolvere
un problema ma perde il percorso edificativo della famiglia. Non ha una
visione di insieme: è utile per riparare un danno ma non per costruire
l’edificio. La missione di edificare nasce dalla relazione più profonda
tra desiderio e amore che esige l’ermeneutica del dono31 come la vera
luce che dà senso alla vita che chiede fede. Non è difficile comprendere
il motivo per cui il decostruttivismo abbia attaccato in modo radicale
la possibilità stessa del dono come modo di dissolvere il significato del
linguaggio32.
Il modo in cui la famiglia vive concretamente la paternità responsa-
bile si trasforma quindi nella trasmissione, di fatto, della fede nel dono di
Dio come fondamento della sociabilità umana. Si tratta di un comporta-
mento basilare per l’edificazione della famiglia.
A quasi cinquant’anni dalla promulgazione della Humanae vitae, ab-
biamo potuto osservare come l’abbandono da parte di molti di una pra-
tica adeguata del significato della procreazione abbia generato una diffi-
coltà enorme nel comprendere il linguaggio del dono della vita. Il mon-
do è certamente diventato più inospitale giacché l’estensione dell’euge-
netica più o meno camuffata, colpisce i più deboli che non hanno voce
e attacca la famiglia nella realtà dell’accogliere la vita. Un aborto voluto
distrugge di fatto la fiducia più elementare in questi rapporti33.

6. Essere più come l’introduzione in una cultura

Il linguaggio iniziale del corpo si sviluppa successivamente in un linguag-


gio affettivo nel quale il sostegno dell’amore incondizionato da parte dei

30 Cfr. L. Melina, La cultura de la familia y el lenguaje del amor, Edicep, Valencia 2009,
21-24.
31 Cfr. Juan Pablo II, Hombre y mujer lo creó, Cat. 13, 2 (2-I-1980), Cristiandad, Madrid
2000, 117.
32 Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 19982.
33 Cfr. L. Melina – C. A. Anderson (eds.), Aceite en las heridas. Análisis y respuestas a los
dramas del Aborto y del divorcio, Palabra, Madrid 2010, 197-211.

471
Juan Antonio Reig-Pla

genitori è imprescindibile. “La comunione di vita e di amore che è il


matrimonio si configura così come un autentico bene per la società.
Evitare la confusione con altri tipi di unioni basate su un amore debole si
presenta oggi con una speciale urgenza. Solo la roccia dell’amore totale e
irrevocabile tra uomo e donna è capace di fondare la costruzione di una
società che diventi una casa per tutti gli uomini”34.
La natura dell’uomo lo spinge ad abitare con una cultura alla quale
accede mediante la famiglia35. L’esperienza di base è quella di una cresci-
ta specifica dell’uomo che si apre ad un mondo più grande e del quale
la sua attività è parte integrante. “L’educazione36 consiste in sostanza nel
fatto che l’uomo divenga sempre più umano, che possa «essere» di più e
non solamente che possa «avere» di più, e che, di conseguenza, attraverso
tutto ciò che egli «ha», tutto ciò che egli «possiede», sappia sempre più
pienamente, «essere» uomo”37.
Gli affetti iniziali strutturano un mondo di significati che richiede
un insieme di vita per ordinarli. L’affetto iniziale di attaccamento alla
persona come fonte di identificazione, l’affetto di appartenenza come
scoperta del bene comune di una prima comunione di persone e quello
di possesso come la chiamata ad una trascendenza della libertà dinanzi
alle cose, si configurano mediante la vita familiare.
Osserviamo dunque la carenza radicale dell’emotivismo attuale che
ha deformato la convivenza di molte famiglie, tanto da arrivare al mo-
dello della cosiddetta “famiglia affettiva”38. Poiché il suo fine è ormai
quello di sentirsi bene, la famiglia diventa il baluardo contro qualsiasi
sofferenza, ma è incapace di proporre fini più grandi nei quali il dono di
sé sia la propria ragion d’essere.
Ma c’è di più: questo modello emotivista che gira intorno al concet-
to di “sentirsi bene” fa parte di una strategia chiara: come spiega il Prof.
Pierangelo Sequeri, uno degli idoli attuali è questo: “il vero benessere

34 Benedetto XVI, Discorso in occasione del XXV anniversario della fondazione del Pontificio
Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, (11-V-2006). Cfr. L. Melina,
La roccia e la casa. Famiglia, società e bene comune, San Paolo, Cisinello Balsamo 2013.
35 Cfr. L. Melina (a cura di), Il criterio della natura e il futuro della famiglia, Cantagalli, Siena
2011.
36 Il corsivo è nostro.
37 Giovanni Paolo II, Discorso all’UNESCO (1-VI-1980), n. 11.
38 Come ha saputo mettere in evidenza: G. Angelini, Educare si deve ma si può?, Vita e
Pensiero, Milano 2002.

472
Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare in Chiesa

è la sensazione di potenza che scaturisce dal possesso, più che dall’uti-


lità. (…) Il godimento del godimento disponibile”39. L’aspetto critico,
inoltre, è che “l’avidità auto riferita del potere e del godimento si è
insediata nella sfera pubblica del diritto”40 e cerca di assoggettare tutto
ciò che è umano al potere economico. “Naturalmente, la conversione
dei beni umanistici in beni mercantili non fa crescere la politica del bene
comune: fa crescere la sovranità del dominio finanziario”41. Come ho
avuto modo di ricordare in altre occasioni, ci troviamo dinanzi al co-
siddetto “capitalismo tecno-nichilista ” che è il “modello di accumulazione
economica che, in questa fase storica, fa dipendere la crescita sempre
più direttamente dalla capacità di innovazione tecnica e che, di con-
seguenza necessita di una cultura nichilista per disporre liberamente di
qualsiasi significato in modo da non avere ostacoli di sorta al suo pieno
dispiegamento”42.
Naturalmente, questo ha imposto di sottomettere il nobile esercizio
della buona politica43 alle esigenze del “Dio Denaro” che è, in realtà, co-
lui che governa il mondo. La natura umana diventa dunque un semplice
strumento bioeconomico al servizio del tecnocapitalismo. La questione
è chiara: per massimizzare l’arricchimento dei potenti e permettergli di
raggiungere i loro obiettivi (la tecno-redenzione post-umanista) la logica di
produzione-consumo non deve avere nessun limite morale. Soltanto la
famiglia, la comunità cristiana e la scuola, in quanto minoranze creative,
sono capaci di generare, con l’aiuto della grazia, una cultura che collochi
la persona al suo vero posto, ossia nel centro del cuore di Dio, nel co-
stato aperto di Cristo che nella “follia” della Croce decripta l’enigma del
senso della vita di ogni uomo e di ogni donna, al di là delle esperienze
di sofferenza.

39 P. Sequeri, Contro gli idoli postmoderni, Lindau, Torino 2011.


40 Ibid.
41 Ibid.
42 M. Magatti, La fe ¿esperanza para Europa?, [on line]. [Consultato: 9-6-2017].
Disponibile sul web: < http://vd.pcn.net/es/index.php?option=com_docman
&task=doc_download&gid=8&Itemid=11>. Cfr. M. Magatti, Libertà immaginaria.
Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009.
43 Francesco: “Coinvolgersi nella politica è un obbligo per un cristiano. Noi cristiani non
possiamo “giocare da Pilato”, lavarci le mani: non possiamo. Dobbiamo coinvolgerci
nella politica, perché la politica è una delle forme più alte della carità, perché cerca il
bene comune. E i laici cristiani devono lavorare in politica”. (Discorso agli studenti delle
scuole gestite dai gesuiti in Italia e Albania, 7-VI-2013).

473
Juan Antonio Reig-Pla

7. La preghiera in famiglia

La Chiesa domestica si edifica a partire dal sacramento del matrimonio


tra soggetti battezzati la cui gestazione è stata portata avanti dalla famiglia
e dalla comunità cristiana con un processo lucido di iniziazione cristiana,
secondo il modello del catecumenato battesimale. Questo processo di inizia-
zione cristiana si basa su due pilastri fondamentali: la Parola di Dio e i
sacramenti e, soprattutto nella vita ordinaria, la Penitenza, l’Eucaristia e
la preghiera.
Gesù Cristo, quando insegna a pregare, adotta un modello familiare
inedito basato su un nuovo modo di abitare di Dio negli uomini e che è
necessario per dare alla vita il suo vero significato: “entra nella tua camera,
chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel
segreto” (Mt 6,6).
L’introduzione alla preghiera è la pratica familiare per eccellenza,
presente nelle celebrazioni ebraiche e riaffermata concretamente nel
cristianesimo. È davvero facile comprendere che il vero significato del
Padre nostro richiede un “habitat familiare” come quadro generale di
comprensione e che l’assenza di un’esperienza forte di paternità trasfor-
ma la preghiera cristiana in una sorta di proiezione di un desiderio in-
soddisfatto. “Se dunque c’è qualcuno che può spiegare fino in fondo la
preghiera del “Padre nostro”, insegnata da Gesù, questi è proprio chi
vive in prima persona la paternità”44.
La preghiera in famiglia si inserisce nella quotidianità ordinaria come
fonte di significato, come modo di riconoscere la sua presenza e pre-
parazione alla vita sacramentale, in particolare per quanto attiene all’i-
niziazione cristiana. “La preghiera familiare ha sue caratteristiche. È una
preghiera fatta in comune, marito e moglie insieme, genitori e figli in-
sieme. La comunione nella preghiera è, ad un tempo, frutto ed esigenza
di quella comunione che viene donata dai sacramenti del battesimo e del
matrimonio”45. È un’introduzione all’anima della vita cristiana.
Inoltre, la preghiera diventa particolarmente presente nelle esperien-
ze di dolore in famiglia, in quei momenti in cui l’uomo scopre la sua
impotenza e vulnerabilità: ecco che diventa un “luogo della speranza”.

44 Francesco, Catechesi sulla famiglia, 3bis, Padre II (4-II-2015).


45 Giovanni Paolo II, Ex. Ap. Familaris consortio, n. 59.

474
Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare in Chiesa

Come ci ricorda Benedetto XVI, “Un primo essenziale luogo di appren-


dimento della speranza è la preghiera. Se non mi ascolta più nessuno,
Dio mi ascolta ancora”46. La preghiera edifica la famiglia. Nella quotidia-
nità, strettamente legate alla pratica dei sacramenti, ci sono le ben note
pratiche familiari connesse con la preghiera: le preghiere del risveglio, la
lettura e meditazione della Parola di Dio, la liturgia delle Ore, il Santo
Rosario, l’Angelus (e Regina caeli a Pasqua), la benedizione del cibo, la
catechesi familiare con lo studio del Catechismo, le preghiere della sera
prima di coricarsi, ecc.
A tal proposito, Papa S. Giovanni Paolo II nell’Esortazione Aposto-
lica Familiaris consortio 59-61 offre uno sviluppo completo di ciò che in-
tendiamo per preghiera familiare. Analogamente, Papa Francesco, della
sua Esortazione Amoris laetitia 223-230 offre una serie di risorse utili ad
accompagnare i primi anni di vita matrimoniale.

8. Il perdono

Non possiamo continuare questo breve excursus delle pratiche familiari


della Chiesa domestica, senza parlare del perdono. È qui, infatti, che si
rivela l’amore più forte, la vera roccia solida su cui edificare una casa (cfr.
Mt 7,22). L’immagine del padre misericordioso che ci insegna la parabo-
la (Lc 15,11-31) è essenziale per l’edificazione familiare, poiché si tratta
di rigenerare le persone in un amore originario che non passa.
Il perdono che gli sposi si offrono reciprocamente racchiude un va-
lore speciale, come prova reale del dono di Dio capace di vincere la
durezza del cuore e che consente di vivere del dono di Dio dal quale
scaturisce ogni perdono. In larga misura, le fratture familiari sono di-
rettamente collegate con la capacità di perdonare. Vi sono poi alcune
proposte di una certa “teologia del fallimento”47 che sembrano basarsi
proprio sulla volontà di considerare impossibile una riconciliazione vera

46 Benedetto XVI, L. Enc. Spe salvi, n. 32. Ricordando che: ibid., n. 32: “Un primo
essenziale luogo di apprendimento della speranza è la preghiera. Se non mi ascolta più
nessuno, Dio mi ascolta ancora”.
47 Cfr. E. Schockenhoff, La Chiesa e i divorziati risposati. Questioni aperte, Queriniana,
Brescia 2014, 135-170.

475
Juan Antonio Reig-Pla

e propria. Di conseguenza, in questa mancanza di fede nella potenza del


perdono risiede una delle più grandi falsificazioni della misericordia.
Un mondo che non perdona è il più ostile dei mondi, immerso
nell’esigenza spietata di una giustizia senza difetti, dove il giudizio è
escludente per i deboli. La nostalgia della casa del padre continua ad
essere uno dei desideri nascosti nel cuore dell’uomo e assolutamente
necessario alla costruzione di una dimora.
La maternità ecclesiale è strettamente legata a questa offerta di un
perdono capace di rigenerare48 e deve assolutamente essere considerata
come una delle dimensioni fondamentali di tutta la pastorale familiare,
in particolare di quella rivolta alle situazioni più fragili, con la speranza
di restaurare la capacità edificativa delle famiglie cristiane.

9. La festa, la domenica e l’Anno Liturgico

Altre pratiche alle quali occorre far riferimento sono quelle legate alla
festa familiare in cui il senso di appartenenza diventa più ancor forte. È
qui che si comprende il significato pieno di ciò che è la celebrazione: una
memoria che richiede un’azione di grazie per qualcosa di grande che si
è ricevuto.
È già inserita nella chiamata al riposo in Dio come la più grande
azione dell’uomo (Gen 2,3). Come ci ricorda Papa Francesco: “In tal
modo, la spiritualità cristiana integra il valore del riposo e della festa.
L’essere umano tende a ridurre il riposo contemplativo all’ambito dello
sterile e dell’inutile, dimenticando che così si toglie all’opera che si com-
pie la cosa più importante: il suo significato. Siamo chiamati a includere
nel nostro operare una dimensione ricettiva e gratuita, che è diversa da
una semplice inattività. Si tratta di un’altra maniera di agire che fa parte
della nostra essenza”49.
Con la celebrazione cristiana si raggiunge una sovrabbondanza di-
vina capace di superare le carenze che, spesse volte, si trasformano nella

48 Cfr. L. Melina, “Il sacramento che rigenera la persona e la coppia”, in S. Nicolli – E.


e M. Tortalla (a cura di), Il perdono in famiglia, Cantagalli, Siena 2008, 231-246.
49 Francesco, L. Enc. Laudato si’, n. 237.

476
Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare in Chiesa

dinamica tipica della vita familiare50. Riacquista tutto il valore del lavoro,
poiché “la festa è anzitutto uno sguardo amorevole e grato sul lavoro ben
fatto; festeggiamo un lavoro”51, giacché si festeggiano soprattutto i frutti.
Il tempio interiore che edifica la famiglia è espressione di una pro-
fonda azione di grazie, quella volta a sperimentare che la vita familiare
e la sua capacità edificativa è stata proprio la manifestazione prima della
misericordia divina52 e questo ci fa tornare alla grande lode: rendere
grazie ad Dio, “perché il suo amore è per sempre” (Sal 118,1).
Indubbiamente, la domenica appare come la festa familiare per ec-
cellenza. La Santa Messa -soprattutto- e i suoi preparativi, la preghiera
delle Lodi, l’occasione di compiere opere di carità e di misericordia,
la possibilità di un ozio sano e santo costituiscono gli elementi chiave
delle pratiche domenicali della famiglia. Ci sono anche tutte le celebra-
zioni legate all’Anno Liturgico nonché le celebrazioni di sacramenti e
sacramentali, che rivestono grande importanza per le famiglie. In que-
sto senso, i Rituali (Benedizionale, Matrimonio, Unzione degli Infermi,
Esequie, ecc.) e il Direttorio sulla pietà popolare e la liturgia. Principi e orienta-
menti (Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti)
sono strumenti validi per proporre pratiche familiari che avvicinano al
cuore della Chiesa.

10. Il cammino della bellezza come pratica familiare

Come ci insegna Papa Francesco, dobbiamo ricordare che “È bene che


ogni catechesi presti una speciale attenzione alla “via della bellezza” (via
pulchritudinis). Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e
seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace
di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche
in mezzo alle prove. In questa prospettiva, tutte le espressioni di autenti-
ca bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta ad in-
contrarsi con il Signore Gesù. Non si tratta di fomentare un relativismo

50 Cfr. J. J. Pérez-Soba (a cura di), “Saper portare il vino migliore”. Strade di pastorale
familiare, Cantagalli, Siena 2014.
51 Francesco, Catechesi sulla famiglia, 22, Festa (12-VIII-2015).
52 P. Bordeyne, “Il matrimonio, sacramento della misericordia divina”, in J. J. Pérez-
Soba (a cura di), Misericordia, verità pastorale, Cantagalli, Siena 2014, 123-140.

477
Juan Antonio Reig-Pla

estetico, che possa oscurare il legame inseparabile tra verità, bontà e bel-
lezza, ma di recuperare la stima della bellezza per poter giungere al cuore
umano e far risplendere in esso la verità e la bontà del Risorto. Se, come
afferma sant’Agostino, noi non amiamo se non ciò che è bello, il Figlio
fatto uomo, rivelazione della infinita bellezza, è sommamente amabile,
e ci attrae a sé con legami d’amore. Dunque si rende necessario che
la formazione nella via pulchritudinis sia inserita nella trasmissione della
fede” (EG 167). Partendo da questa convinzione, è necessario favorire le
“pratiche familiari” ordinarie percorrendo la via della bellezza.
Recuperare la bellezza del linguaggio e della comunicazione familiare. I
membri della famiglia debbono imparare ad abbracciarsi con parole buo-
ne che riempiano di bellezza tutti “i tempi e gli spazi” della dimora della
vita familiare e che consentano loro di esprimere con bellezza, precisione
e assertività, la ragione della loro fede, i loro aneliti, i desideri e le neces-
sità, ma anche le sofferenze, la gratitudine a Dio e al prossimo, ecc. Altro
aspetto rilevante consiste nel recuperare la bellezza della comunicazione
in famiglia: ben vengano le nuove tecnologie se utilizzate con prudenza
e raziocinio, ma nulla può sostituire la bellezza di una conversazione
in presenza, di una chiacchierata dopo mangiato, di una conversazione
familiare, di incontri e convivenze tra tutti i membri della famiglia al
completo, ecc.
Recuperare la bellezza della lettura e delle letture. Il nutrimento, se è
buono, ci aiuta a crescere e a maturare; in quest’opera, la lettura è essen-
ziale, anche in famiglia. Oltre alla Sacra Scrittura e al Catechismo della
Chiesa Cattolica, è fondamentale discernere correttamente i contenuti
offerti ai bambini e ai giovani, ma anche agli adulti; la tradizione ci viene
in aiuto in tal senso: “diceva il venerabile Papa Pio XII che il compito di
un buon libro è educare ad una comprensione più profonda delle cose,
a pensare e a riflettere”53.
Recuperare la bellezza dell’educazione e del modo di presentarsi. Non si
tratta di imparare il “protocollo” ma piuttosto di apprendere a rispettare
la propria dignità (nel mangiare, nel passeggiare, nel prendersi cura di
sé, ecc.) imparando anche ad abbracciare, nella vita quotidiana, gli altri
membri della famiglia con opere buone e belle. Ad esempio, c’è un

53 Benedetto XVI, Videomessaggio trasmesso durante l’inaugurazione della XIV Fiera


internazionale del libro di Santo Domingo (4-V-2011).

478
Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare in Chiesa

modo di vestire che, pur adattandosi sempre ad ogni occasione e neces-


sità, possiede come criterio generale la bellezza, la semplicità e il pudore.
A tal proposito, il Catechismo della Chiesa cattolica insegna: “il pudore
custodisce il mistero delle persone e del loro amore (…). Il pudore è
modestia. Ispira la scelta dell’abbigliamento” (n. 2522), “ il pudore detta
un modo di vivere che consente di resistere alle suggestioni della moda e
alle pressioni delle ideologie dominanti” (n. 2523), “ insegnare il pudore
ai fanciulli e agli adolescenti è risvegliare in essi il rispetto della persona
umana” (n. 2524). Infine, la tradizione della Croce di Cristo sul petto, il
fatto di portare lo scapolare del Carmine e altre immagini sul corpo e i
sui vestiti, comunica, attraverso i segni, che apparteniamo all’amore più
grande: quello di Dio.
Recuperare la bellezza del focolare e degli altri spazi che si condivi-
dono. Le “belle arti” hanno anch’esse il loro posto nella dimora: l’ar-
chitettura, la musica, la pittura, la letteratura, la cinematografia, senza
dimenticare il mobilio della casa o la gastronomia, che hanno grande
importanza. Nulla deve sfuggire ai criteri di verità, bene, bellezza e sem-
plicità. Tutto è chiamato ad essere pensato e sottoposto a discernimento.
La decorazione e l’iconografia nella casa debbono rispondere a questi
criteri.
Recuperare la bellezza delle attività in famiglia e con altre famiglie: i
pellegrinaggi, il contatto con la natura, le vacanze e i tempi di ozio, lo
sport (in particolare quelli di squadra), l’esercizio della carità e delle opere di
misericordia, l’associazionismo e tutte le attività riferite alla Dottrina So-
ciale della Chiesa, debbono essere conquistate dalla bellezza. “L’amore
familiare è fecondo, e non soltanto perché genera nuove vite, ma perché
amplia l’orizzonte dell’esistenza, genera un mondo nuovo; ci fa credere,
contro ogni scoraggiamento e disfattismo, che una convivenza basata sul
rispetto e la fiducia è possibile. Di fronte a una visione materialista del
mondo, la famiglia non riduce l’uomo allo sterile utilitarismo, ma offre
un canale per la realizzazione dei suoi desideri più profondi”54, soprat-
tutto l’anelito di Dio. Come ci ricorda Benedetto XVI ognuno di noi è
“pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita”55.

54 Francesco, Messaggio del Santo Padre al I Congresso Latinoamericano di Pastorale familiare,


che si svolge dal 4 al 9 agosto 2014 a Città di Panama (8-V-2014).
55 Benedetto XVI, Incontro con gli artisti nella Cappella Sistina (21-XI-2009).

479
Juan Antonio Reig-Pla

Recuperare la bellezza dell’ospitalità. “In Gesù, Dio è venuto a chie-


dere ospitalità agli uomini. Per questo, Egli pone come virtù caratteri-
stica del credente la disposizione ad accogliere l’altro nell’amore. Egli ha
voluto nascere in una famiglia che non ha trovato alloggio a Betlemme
(cfr Lc 2, 7) e ha vissuto l’esperienza dell’esilio in Egitto (cfr Mt 2, 14).
Gesù, che “non aveva dove posare il capo” (Mt 8, 20), ha chiesto ospita-
lità a coloro che incontrava. A Zaccheo ha detto: “Oggi devo fermarmi
a casa tua” (Lc 19, 5). È arrivato ad assimilarsi allo straniero bisognoso di
riparo: “Ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25, 35). Inviando i suoi
discepoli in missione, egli fa dell’ospitalità, di cui essi beneficeranno, un
gesto che lo riguarda personalmente: “Chi accoglie voi accoglie me, e
chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato” (Mt 10, 40)”56.
Un caso particolare di ospitalità che merita particolare attenzione è
quella che ha a che vedere con la bellezza dell’adozione e dell’accoglienza
di minori, anziani, ammalati, persone disabili o bisognose. Papa Giovanni
Paolo II, nell’Esortazione Familiaris consortio 41 spiega che: “Le fami-
glie cristiane che nella fede riconoscono tutti gli uomini come figli del
comune Padre dei cieli, verranno generosamente incontro ai figli delle
altre famiglie, sostenendoli ed amandoli non come estranei, ma come
membri dell’unica famiglia dei figli di Dio. I genitori cristiani potranno
così allargare il loro amore al di là dei vincoli della carne e del sangue,
alimentando i legami che si radicano nello spirito e che si sviluppano nel
servizio concreto ai figli di altre famiglie, spesso bisognosi delle cose più
necessarie”. Questo stesso atteggiamento è quello che occorre mantene-
re rispetto agli anziani, agli ammalati, alle persone disabili o bisognose
appartenenti alla propria famiglia o ad altre57.

11. Edificare la dimora della misericordia

Tornando al titolo di questo intervento, possiamo affermare che “edifi-


care la Chiesa domestica” significa “edificare la dimora della misericor-
dia”. Le “pratiche familiari per abitare nella Chiesa” hanno a che vedere
con le “opere di misericordia” mostrate, ad esempio, nella parabola del

56 San Giovanni Paolo II, Giornata Mondiale del Migrante, 2000 (21-XI-1999).
57 Cfr. San Giovanni Paolo II, Es. Ap. Familiaris Consortio 41 e Franscesco, Es. Ap.
Amoris laetitia, 191, 196-198.

480
Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare in Chiesa

“buon samaritano”. Non a caso, Papa Francesco ha offerto a tutta la


Chiesa la grazia del Giubileo della Misericordia e ci ammonisce con ve-
emenza dicendo: “Verità e misericordia: non disgiungiamole. Mai!”58.
Siamo, per così dire, immersi in un tempo nel quale uomini e donne
feriti -ogni membro della famiglia- hanno bisogno di sentire l’annuncio
del kerygma, di sapere che Dio li ama e di sperimentare la sua misericor-
dia. La famiglia, assieme alla comunità cristiana, sono chiamate ad essere
la dimora nella quale si rende visibile la grazia della conversione, il cam-
biamento della vita, il perdono e la rigenerazione. La Parola di Dio e i sa-
cramenti svelano il disegno divino sulla persona ed offrono l’architettura
che rende il mondo abitabile. La Chiesa è la dimora della misericordia in
cui il Padre dice a suo figlio (Cfr. Lc 15): « torna, torna, è ora di tornare
a casa!» (Papa Francesco, Meditazione mattutina, 28-III-2014).

58 Francesco, Discorso alla 66 Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana


(19-V-2014).

481
IN RILIEVO
Anthropotes 33 (2017)

Semina Verbi: una esperanza para la familia

José Granados*

SUMMARY: The article aims to illuminate the use of the expression “semi-
na Verbi” in the theology of matrimony and the family. Part of this is the
study of the Synods on the family of 2014 and 2015 until Amoris Laetitia,
noting an evolution: semina Verbi is avoided in reference to irregular situa-
tions, but its use is accepted for natural marriage among non-Christians. To
understand the reasons for this change, the use of the expression in the Fathers
is explored, particularly in Justin Martyr. Speaking of “seeds of the Word” is
therefore illuminating for exploring the theology of marriage and for discovering
the hopes that it opens in the cultural situation which we are going through.
The “seeds of the Word” stand in connection both with the “language of the
body” and with the narrative weft of family life. Present in creaturely expe-
rience, these seeds flourish in the sacramental economy of the Church, which
gives us the keys to distinguish between true seed and bad plants.

“Cuanto de bueno está dicho en todos los filósofos nos pertenece a


nosotros, los cristianos…”1. Tuvo audacia san Justino para pronunciar
esta frase en una sociedad en que el cristianismo, como hoy, vivía en mi-
noría. Para justificar su afirmación, san Justino se basaba en la aceptación
común de un Logos, o razón, que regía el universo y que todos podían

* Vice-presidente y profesor de Teología dogmatica en el Pontificio Instituto Teológico


Juan Pablo II para las Ciencias del Matrimonio y la Familia, Roma.
1 Cfr. San Justino Mártir, Apol. II 13,4; Cfr. también Apol. II 10,1.

485
José Granados

aceptar. Así prosigue, en efecto, su frase: “nos pertenece a nosotros, los


cristianos, porque nosotros adoramos y amamos, después de Dios, al
Logos, que procede del mismo Dios ingénito e inefable”. Yace aquí una
de las razones de la fascinación que el cristianismo ha ejercido sobre el
hombre, en cuanto la fe era capaz de mostrar que, con ella, nada de lo
bueno se perdía, y todo alcanzaba plenitud.
¿Podemos hoy usar el mismo método para anunciar a Cristo? La
cosa parecería útil precisamente si tratamos del camino de la Iglesia con
la familia, pues esta es una realidad universal, la cifra de todo aquello que
acomuna a los hombres, en cuanto todos la reciben como marco origi-
nario de su camino. Pero justo en este punto constatamos que nuestra
posición está en desventaja con respecto a la defendida por Justino. ¿No
hay que resignarse a que el modo cristiano de vivir en familia sea ya uno
entre muchos y que, por tanto, resulte imposible usar conceptos fami-
liares para vehicular el Evangelio, el cual, sin embargo, no parece poder
explicarse sin palabras tales como padre, madre, hijo, esposo y esposa…?
Algo de esperanza ofrece saber que Justino, al decir que todos los
hombres participan del Logos o razón universal, usa la imagen de la
semilla, es decir, de un núcleo pequeño que está llamado a crecer y
expandirse con fecundidad. El símil le sirve para describir a aquellos pa-
ganos que, sin conocer a Cristo, llevaron una vida digna de Él, hasta ser
perseguidos por la verdad. Es que tenían en ellos “la semilla del Verbo,
que se halla ingénita en todo el género humano”, y vivían “conforme a
una parte del Verbo sembrador” (Lógos spermatikós)2. El tema será re-
cogido por otros Padres (entre los que descuella Clemente Alejandrino)
siempre para indicar que todo hombre tiene relación con el cristianismo,
en cuanto participó de la siembra del Logos en la creación3.
¿Podría la imagen de semilla orientarnos en la presente crisis del ma-
trimonio, e indicarnos un itinerario para conducir las familias a Cristo?
Ella nos permitiría decir que, aun cuando no se comparte una misma
visión sobre la familia, queda una siembra oculta que, si se cultiva con

2 Cfr. San Justino Mártir, Apol. 2,8(7).


3 Cfr. J. Granados, Los misterios de la vida de Cristo en Justino Mártir, Pontificia Università
Gregoriana, Roma 2005, 64-82; R. Holte, “Logos Spermatikos. Christianity and
Ancient Philosophy according to St. Justin’s Apologies”, in Studia Theologica 12 (1958)
109-168; J. Danielou, Message évangelique et culture héllenistique, Desclée, Tournai
1961, cap.2.

486
Semina Verbi: una esperanza para la familia

paciencia, puede llevar al fruto deseado. Precisamente de “semillas del


Verbo” han hablado los dos últimos Sínodos sobre la familia y la exhor-
tación apostólica postsinodal Amoris laetitia. ¿En qué sentido lo han he-
cho? ¿Y qué consecuencias pueden extraerse sobre el modo de acercarse
a las familias y de acompañarlas hacia Cristo? Comencemos explorando
el uso de esta expresión en los recientes Sínodos, para ver después sus
fundamentos patrísticos y su posible aplicación en la situación actual.

1. El uso de semina Verbi en las recientes discusiones sobre la


familia y en Amoris laetitia

Durante el Sínodo de 2014 se había hablado de semina Verbi para explicar


que también en las uniones no matrimoniales (convivencias, uniones de
hecho después del divorcio, uniones civiles de bautizados, poligamia…)
se dan elementos de bondad4. Estas situaciones, en las que hoy viven
muchos cristianos, habría que mirarlas desde su lado positivo. ¿No pue-
den dos que conviven sacrificarse el uno por el otro? ¿No hay ya en la
unión civil una cierta estabilidad, aunque incompleta? ¿Por qué ver aquí
una oposición neta al matrimonio y no, más bien, etapas de su prepara-
ción? A esta luz sería preciso difuminar la división entre estas uniones y el
matrimonio y desaparecería la base para dividir con rotundidad lo regular
de lo irregular. Se trataría, en el fondo, de distintas sombras de gris.
¿Permanece presente en Amoris laetitia esta postura? En la Exhortación
se descubre una cierta tensión:
Por un lado, reaparece la idea de que se deben apreciar los elementos
de bondad propios de situaciones no matrimoniales. De algunas de estas
situaciones se dice que realizan el ideal “de modo parcial y análogo”
(AL 292). Se habla también de “los elementos constructivos en aquellas

4 Cfr. “Relatio post disceptationem del Relatore Generale, card. Peter Érdö”, n.20,
en L. Baldisseri (ed.), Sinodo dei Vescovi. III Assemblea Generale Straordinaria: Le sfide
pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione, LEV, Roma 2015: “compete
alla Chiesa di riconoscere quei semi del Verbo sparsi oltre i suoi confini visibili e
sacramentali. Seguendo lo sguardo ampio di Cristo, la cui luce rischiara ogni uomo
(cfr. Gv 1,9; cfr. GS 22), la Chiesa si volge con rispetto a coloro che partecipano
alla sua vita in modo incompiuto e imperfetto, apprezzando più i valori positivi che
custodiscono, anziché i limiti e le mancanze”.

487
José Granados

situaciones que todavía no corresponden o ya no corresponden a su en-


señanza [de la Iglesia] sobre el matrimonio” (ibídem).
Por otro lado, corrigiendo la tendencia que surgió en el Sínodo de
2014 (y entró en el Instrumentum Laboris del Sínodo de 20155), las situa-
ciones de vida contrarias al Evangelio no son calificadas como “semillas
del Verbo”. El término se emplea, sí, pero solo para denominar a matri-
monios entre no cristianos que, aunque no sean sacramentales, conser-
van las propiedades naturales del matrimonio (cfr. AL 77, con referencia
a Ad Gentes, 11)6. Es un uso que puede juzgarse concorde con el tono
general de la tradición teológica. Se recoge de este modo el enfoque del
documento final del Sínodo de 2015.
Además, Amoris laetitia toma como ejemplo el encuentro entre Jesús
y la Samaritana, donde el Maestro no valora lo que de positivo había en
la forma de vida de esta mujer. El Papa Francisco dice que Jesús “dirigió
una palabra a su deseo de amor verdadero, para liberarla de todo lo que
oscurecía su vida y conducirla a la alegría plena del Evangelio” (AL 294).
Según este texto, por tanto, la forma de vida de la mujer pertenece a lo
que “oscurecía su vida” y de lo que hay que liberarla; y lo positivo se
encuentra en el amor verdadero que su corazón deseaba.
Surgen desde aquí dos posibles interpretaciones de Amoris laetitia:
a) Con “elementos positivos” podría querer decirse elementos aisla-
dos de bondad, que pueden servir para iniciar una conversación pastoral,
pues reflejan el deseo de amor verdadero que habita en el corazón de
toda persona; pero esto se afirmaría sin olvidar que la situación en que
la persona vive está impidiendo su avance hacia el cumplimiento de su
vocación y que, por tanto, más tarde o más pronto habrá de romper con
ella.

5 Cfr. “Instrumentum Laboris della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei
Vescovi”, n.99, en L. Baldisseri (ed.), Sinodo dei Vescovi. XIV Assemblea Generale
Ordinaria: La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo
LEV, Roma 2016: “[la Chiesa] deve essere anche capace di accompagnare quanti
vivono il matrimonio civile o la convivenza nella graduale scoperta dei germi del
Verbo che vi si trovano nascosti, per valorizzarli, fino alla pienezza dell’unione
sacramentale”.
6 Hay un error importante, de peso teológico, en la traducción española del texto oficial
italiano del Sínodo, que aparece en Amoris Laetitia 77. “Oltre al vero matrimonio
naturale…”, debe traducirse por “además del verdadero matrimonio natural” y no por
“fuera del verdadero matrimonio natural”. En el texto latino se dice “praeter” (cfr.
AAS 108 [2016] 342) que corresponde con “además de”.

488
Semina Verbi: una esperanza para la familia

b) O, con “elementos positivos” se podría entender un camino que,


con tiempo y maduración gradual, conducirá por sí mismo a la forma de
vida propia del matrimonio, por lo que no es necesario que se dé ningu-
na ruptura con formas anteriores de vida y queda eliminada la división
neta entre situaciones regulares e irregulares: todos somos cristianos pe-
cadores y en camino.
La elección entre una u otra lectura tiene serias consecuencias pas-
torales. Pues el médico debe saber si el ambiente en que el enfermo vive
es o no dañino para él, incluso aunque de momento dicho enfermo no
se sienta capaz de abandonar un tal ambiente. Y también es preciso al
médico encontrar los lugares propicios para que la enfermedad pierda
influjo y pueda ser derrotada.
Contra la lectura (b) parece ir, primeramente, la misma imagen de
la semilla. Pues esta nos inclina a mirar, no a varios elementos aislados
de bondad, sino a un conjunto organizado, del que surgirá el árbol,
y que está impulsado por un dinamismo de maduración. Las semillas,
por tanto, no se reconocen si miramos solo a algunos elementos, sino a
la totalidad de la vida en sus pilares básicos, junto a la dinámica que la
mueve y conduce a una meta. Los Padres de la Iglesia distinguían bien
las semillas del Verbo presentes en la búsqueda filosófica del único Dios
de las imitaciones de la idolatría. Aun cuando estas últimas contengan
similitudes (como la roca del mitraísmo, que evoca la roca que es Cristo)
no conservan una misma dinámica. No hay aquí una parentela de formas
y de meta, sino el ovejuno disfraz del lobo.
Además, el hecho de que, en el iter de los dos Sínodos se haya re-
chazado el término “semilla del Verbo” para describir estas situaciones,
milita también contra la lectura (b). Pues esto significa que no se juzga
adecuada la comparación con un modelo que, en la tradición teológi-
ca, ha significado precisamente la preparación gradual a la llegada del
Evangelio.
De hecho, para profundizar en la solución (a) y entender el problema
que suscita la (b), es buen camino estudiar a fondo la expresión “semillas
del Verbo”. Aplicada al matrimonio y a la familia, ofrece pistas para saber
cómo regenerar al sujeto cristiano, llevando a los hombres hasta la vida
plena en Cristo, lo cual puede decirse que es el objeto último que han
buscado los Sínodos y también Amoris laetitia.

489
José Granados

Vamos a comenzar exponiendo el significado que los Padres de la


Iglesia dieron a las “semillas del Verbo” para situarlo después en el con-
texto de la tradición teológica hasta nuestros días, y declinarlo en relación
con el matrimonio. Emergerá de aquí una tarea: la necesidad de salvar la
semilla que pueda devolver un futuro a la sociedad a través de la familia.

2. Significado originario de los semina Verbi en los Padres de la


Iglesia

¿Qué significa, en los primeros escritores cristianos, la expresión “semi-


llas del Verbo (en griego Logos)”?

2.1. Semina Verbi y Encarnación

El término había sido usado ya por la filosofía. Por “semillas del Logos”
entendían los estoicos la presencia inicial, en el ser humano, del Logos
que mueve todo el Universo. El hombre posee estas semillas desde que
nace, en cuanto que es capaz de conocer el orden de las cosas y de vivir
conforme a él. A partir de ellas el Logos va dando forma completa a su
vida.
También el platonismo medio había usado de este símil para expre-
sar una participación del hombre en el Logos, concebido ahora como
transcendente al mundo material. La semilla contenía ideas innatas, po-
seídas por el hombre desde su nacimiento, que le permitían, al crecer,
conocer las cosas.
Los cristianos –en primer lugar, san Justino– adoptan la fórmula,
pero a la luz de su fe en Jesucristo, que es el Verbo (Palabra o Logos) an-
terior a la creación y que sirve de modelo para esta. Así explican cómo
ningún hombre de ninguna época ha sido ajeno a Cristo, sino que todos
han participado en cierto modo del Logos, pues tienen la semilla de Él.
Al Logos llama san Justino, de hecho, Logos sembrador (lógos spermatikós),
que ha esparcido sus semillas al crear el mundo, para que puedan descu-
brirle los hombres.
Notemos que, a diferencia del uso entre filósofos, lo sembrado no
son semillas solo de la razón madura y plena del hombre. No se trata,

490
Semina Verbi: una esperanza para la familia

como había dicho Cicerón, de semina virtutum (semillas de virtudes) que


luego, tras una buena educación, producirían virtudes floridas. Justino
insiste, por el contrario, en que el hombre, en su ser creado, tiene solo
elementos incompletos que no pueden madurar desde el esfuerzo huma-
no7. Por eso la semilla no se desarrolla por sí misma, sino en diálogo
con la persona del Logos.
De hecho, las semillas del Logos crecen solo a partir de la revela-
ción de este en la historia. Si entre paganos actúan ya estas semillas, el
incremento de ellas pasa por la revelación del Antiguo Testamento, que
apunta a la Encarnación del Verbo. Es decir, el crecimiento no ocurre
solo por acción del Logos en el interior del hombre, sino a partir de la
acción del Logos en la historia, con plenitud en su venida en la carne.
Notemos que la imagen de las semillas del Logos le viene a Justino
de la persona concreta de Jesús y en su predicación. Parece que la pa-
rábola del sembrador (Mt 13,3-23) se encuentra en el trasfondo8. Las
semillas del Logos anticipan la predicación que Jesús realizará durante su
ministerio. Así como Cristo sembró el Evangelio y Él mismo lo vivió,
así ha sembrado en todo hombre una semilla de Evangelio, de forma que
todos puedan conformarse de algún modo a la vida de Jesús.
El Logos pleno al que apuntan las semillas no es, por tanto, solo el
Logos preexistente, sino el Logos que se ha encarnado. Podemos hacer-
nos partícipes de Él porque Él se “ha hecho partícipe de nuestros sufri-
mientos para sanarlos”9. Es lógico entonces que las semillas, además de
una instrucción doctrinal, contengan un modo de vida, la de quien re-
chaza los ídolos y se dedica al Dios verdadero. Así ocurrió, por ejemplo,
con Sócrates, a quien Justino sitúa como modelo de quien vivió según el
Logos sembrador, anticipando en algún modo su martirio10.

7 Cfr. San Justino Mártir, Apol. II 13,5-6; usaré como base la traducción de D. Ruiz
Bueno, Padres apologetas griegos BAC, Madrid 1979.
8 Cfr. Clemente Alejandrino, Strom. I 7, 37, 2 (SCh 30,72): “Aquí se aplica también
la parábola de la semilla, que el Señor ha explicado. Solo hay un agricultor que siembra
desde el principio, sobre el terreno que está en el hombre, desde la Creación del
mundo, las semillas destinadas a crecer. Se trata de Aquel que en cada ocasión ha hecho
llover su Logos Señor. Las diferencias surgieron de los tiempos y de los lugares que las
recibían”.
9 Cfr. San Justino Mártir, Apol. II 13,4.
10 Cfr. E. Benz, „Christus und Socrates in der alten Kirche: ein Beitrag zum altkirchlichen
Verständnis des Märtyrers und des Martyriums“, Zeitschrift für die Neutestamentliche
Wissenschaft und die Kunde der Älteren Kirche 43 (1950/51) 195-224.

491
José Granados

Puede concluirse que las semillas no crecen solo en el interior del


hombre, sino que se van manifestando en eventos concretos de su histo-
ria y dan forma a las relaciones corporales en que vive. Por eso la doctri-
na de las semillas del Verbo, útil ante paganos, se prosigue con la acción
de la Palabra de Dios en profetas y justos del Antiguo Testamento, que
anticipaban, en dichos y obras, la venida de Cristo. Las mismas Escrituras
y los sucesos que estas relatan contienen una siembra de noticias sobre
Jesús, de donde habían aprendido los mismos filósofos11.
De hecho, según Justino, el hombre participa del Logos no solo en
su alma racional, sino también en su cuerpo, por el que ha sido confi-
gurado al Verbo Encarnado. Lo que distingue el cuerpo humano es su
capacidad de adquirir la forma de la Cruz, puesto en pie y extendiendo
los brazos12. Desde la manifestación máxima del amor de Cristo que
en ella sucedió, la Cruz se descubre como la figura que fundamenta la
armonía cósmica y social, conforme a la cual han sido modelados Adán
y los suyos.
Añadamos que la participación en el Logos se realiza por la presencia
en el hombre del Espíritu de Cristo, que animaba la creación desde los
orígenes y se ha ido derramando cada vez con más vigor en la historia de
Israel. El Logos, por medio de su Espíritu, con el que ha sido ungido por
su Padre ya desde antes de la creación, hace participar dinámicamente
de sí a todas las cosas. La meta última de este movimiento es Jesús resu-
citado, quien concede plenamente el don de su Espíritu en Pentecostés
para asimilarnos a Sí.

2.2. Semina Verbi y Decálogo

En la exposición de un autor de la misma escuela que Justino, san Ireneo


de Lyon, el tema de las “semillas del Verbo” se declina de forma pareci-
da, y en conexión con el Decálogo. Si Justino miraba a Sócrates, Ireneo
se fija en Abrahán, que era ya seguidor del Verbo. Dado que el Patriarca
vivió antes de la ley de Moisés puede considerarse en paralelo con los
antiguos paganos; y aparece como hombre que buscaba con ansia a Dios

11 P. Pilhofer, Presbyteron Kreitton. Der Altersbeweis der jüdischen und christlichen Apologeten
und seine Vorgeschichte, Tübingen 1990.
12 Cfr. San Justino Mártir, Apol. I 55,4.

492
Semina Verbi: una esperanza para la familia

y seguía los diez mandamientos. Es que Abrahán llevaba en su corazón


lo esencial de la Ley, sus preceptos naturales, que pudo obedecer. Estas
diez palabras coinciden con lo sembrado por el Logos en el hombre y,
según Ireneo, configuran a Abrahán con Cristo.
Ahora bien, por otra parte, Ireneo afirma que Abrahán se configura
con Cristo porque anticipa los sucesos de la Encarnación. Se trata, sobre
todo, del sacrificio de Isaac, que prefigura la Cruz, con lo cual Abrahán
ensaya ya los sufrimientos de Jesús. ¿Qué relación hay entre el segui-
miento del Decálogo y la anticipación de la Cruz? Ambos aspectos son
en realidad coincidentes, pues san Ireneo dice que el Decálogo estaba
“infixus” (clavado) en el corazón de Abrahán. Es decir, los diez man-
damientos adoptan la forma de la Cruz, y en la Cruz Jesús no hará sino
llevarlos a su colmo. Abrahán puede representar así a todo hombre, que
lleva escrita en su corazón la Ley de su Dios (cfr. Rom 2,15) y, a la vez,
prefigura la vida concreta del Maestro13.
Todo esto coincide con lo que hemos dicho sobre Justino: el Uni-
verso entero, y en particular el ser humano, recibieron ya desde el prin-
cipio la forma de la Cruz14. Es la Cruz la que mantiene unidas todas las
cosas desde la misma creación. Pues solo si la Cruz estaba presente en los
principios, podía ella mostrarse, en la plenitud del tiempo, como punto
de juntura de cielo y tierra, Oriente y Occidente, reconciliando en uni-
dad a todo. Desde la percepción de que Cristo daba plenitud al mundo,
los Padres comprendían la constitución del cosmos y del ser humano.
Sintetizando, podemos decir que las semillas del Verbo se explican a
partir de dos elementos. a) Por una parte, está la configuración con la
forma de vida de Cristo, que se anticipa en la creacion y que llegará a
plenitud en la Encarnación; al hombre se le introduce, desde sus inicios,
en un entramado concreto, en una forma de relacionarse (la del Decálo-
go) que contiene ya de modo incipiente la forma que se manifestará en
Jesús (en la Cruz). b) Por otra parte, tenemos la acción del Espíritu, que
dinamiza ese proceso de configuración, personal y comunitaria, al modo
de vida proprio de Cristo. En el Evangelio, por tanto, se encuentra la
plenitud de aquello que el hombre vivía desde los comienzos, no solo

13 Cfr. M. Aróztegi, La amistad del Verbo con Abraham según San Ireneo de Lyon, Editrice
Pontificia Università Gregoriana, Roma 2004, 124-128.
14 Cfr. San Justino Mártir, Apol I 55.

493
José Granados

como aspiración íntima, sino como sistema de relaciones que le rodeaba


e impulsaba hacia el bien.
A partir de esta visión de las semillas del Verbo los cristianos se
apropiaban, siguiendo a san Pablo, de la doctrina filosófica sobre la ley
natural, iluminada desde el Evangelio de Jesús15. Entre los estoicos esta
doctrina conocía dos formulaciones. a) Según la primera (del maestro
Cleante) la ley expresa el puesto que el hombre ocupa en la naturaleza,
su papel en el orden (taxis) general del cosmos. Para descubrirla es ne-
cesaria, por tanto, una mirada de cada uno alrededor de sí. b) Según la
segunda formulación (sostenida por Zenón y Crísipo), la mirada se dirige
al interior del hombre, para escuchar la voz de un espíritu bueno que
allí hablaba.
Pues bien, los Padres adoptan esta doble mirada. Por un lado, el
hombre ha sido modelado, exteriormente, según la forma de vida que
tomará el Verbo al encarnarse. Esto significa que su modo concreto de
relacionarse corresponde con las coordenadas de la vida de Cristo, que
se resumen en la Cruz como signo máximo de caridad. Por otro lado,
el hombre ha recibido una participación del Espíritu, que contiene esa
misma fórmula del amor, y que le va moviendo interiormente para adap-
tar a ella su vida, plasmando poco a poco y dinámicamente todas sus
relaciones16.
A esta luz puede presentar san Justino a los paganos la predicación de
Cristo, sabiendo que toca el corazón de sus oyentes: “sus discursos [los
de Jesús], empero, son buenos y compendiosos, pues no era él ningún
sofista, sino que su palabra era una fuerza de Dios”. Y entre la siembra
de palabras que realiza Jesús, no olvida el Mártir su enseñanza sobre el
matrimonio, como orden primario de relaciones en que fueron creados
hombre y mujer: “aquellos que contraen un segundo matrimonio, con-
forme a la ley humana, son pecadores para nuestro Maestro…”17.
Notemos ya que, desde este punto de vista, las semillas no consti-
tuyen elementos sueltos de bondad, sino a) un orden dinámico de estos
elementos, que permite un camino de plenitud humana; b) la fuerza (el
Espíritu) que propulsa este orden hacia su plenitud en Cristo. San Ireneo

15 Cfr. M. Aróztegi, La amistad del Verbo con Abraham, cit. 122-124.


16 Cfr. M. Aróztegi, La amistad, cit., 123, para la relación entre la visión de la ley natural
en Ireneo y en los estoicos Zenón y Crísipo.
17 Cfr. San Justino Mártir, Apol I 14,4.

494
Semina Verbi: una esperanza para la familia

afronta desde aquí la teoría clásica de las dos vías, una hacia el bien y otra
hacia el mal. Dado que el camino hacia el bien requiere el buen orden de
los elementos, su ruta es una sola, mientras que son muchas las maneras
de errar, como son múltiples los tipos de desorden. “Para aquellos que
ven, no hay más que un camino ascendente, iluminado por la luz celeste;
pero para aquéllos que no ven, los caminos son muchos, sin iluminación
y descendentes”18.

3. Semillas del Verbo y lenguaje del cuerpo

De cuanto dicho, es posible sacar consecuencias para la aplicación de las


“semillas del Verbo” al matrimonio y la familia. Según hemos visto, estas
semillas no son sólo dotaciones internas del individuo, sino que implican
también modos de configurar las relaciones. Es decir, las semillas del
Verbo no están solo dentro del hombre, sino también fuera de él, en su
cuerpo como espacio de presencia relacional en el mundo. De hecho, la
imagen de las semillas evoca un entorno de aire, luz, agua, donde cada
elemento debe estar presente en su medida justa y coordinarse bien con
los otros. Todo esto ya nos acerca a la experiencia familiar.
Y es que el entramado familiar es el ambiente concreto donde es
acogida la persona, la cual se genera por dentro en la medida en que se
deja acoger en familia, recibiendo allí un nombre y una vocación. De
hecho, mirar a las semillas del Logos como orden concreto de relaciones
permite iluminar una cuestión decisiva en nuestro tiempo para com-
prender la familia, así en la sociedad como en la Iglesia:
a) La pregunta es urgente en la sociedad, donde se descubre el deseo
de familia, pero de una familia redefinida solo desde el individuo auto-
referencial. Rige la “relación pura” de Anthony Giddens, libre de todo
condicionamiento exterior19. El orden externo de relaciones se diluye,
dando lugar al amor líquido descrito por Zygmunt Bauman. Louis Al-
thusser había llegado a definir la tradición familiar misma en que el niño
nace como una estructura ideológica de la que había que liberarse:

18 Cfr. San Ireneo de Lyon, Epideixis 1, ed. E. Romero Pose, Fuentes Patrísticas 2,
Ciudad Nueva, Madrid 1992, 52-53.
19 Cfr. A. Giddens, The Transformation of Intimacy. Sexuality, Love and Eroticism in Modern
Society, Stanford University Press, Stanford, CA 1992.

495
José Granados

Antes de nacer el niño, está por tanto ya por siempre sujeto, asignado al
ser, en y por la específica configuración ideológica familiar en la que se le
“espera” después de haber sido concebido. Inútil decir que esta configura-
ción ideológica familiar resulta, en su unicidad, fuertemente estructurada,
y que es en esta estructura implacable, más o menos patológica, […] don-
de el antiguo futuro-sujeto deberá encontrar “su” “lugar” […]20.

b) La cuestión urge también en la Iglesia, donde el debate sobre


Amoris laetitia se ha concentrado cada vez más sobre la distinción entre
la conciencia subjetiva y la situación objetiva donde la persona se halla.
Como vía alternativa a la que algunos indicaron en el Sínodo de 2014,
donde se difuminaba la gravedad de la situación concreta que ordena las
relaciones, algunos proponen hoy quitar todo peso a esa situación, para
juzgar solo el interior subjetivo de la persona, donde hablaría la voz de
Dios21.
Según lo dicho, la presencia de semina Verbi no puede reducirse
al sagrario de la conciencia, eliminando la referencia a una verdad del
amor (cfr. AL 294). De otro modo, con la intención de acercar la Igle-
sia al tiempo moderno, se repropondría un gastado dualismo cartesiano
en donde lo importante seguiría siendo solo lo interior, pues allí está
lo personal, mientras lo exterior sería lo objetivo, impersonal, frío y
rígido… La misma reflexión filosófica contemporánea ha abandonado
hace tiempo esta primacía de lo íntimo, como muestra el subtítulo de
una obra importante de Emmanuel Lévinas: Ensayo sobre la exterioridad22.
Pretender modernizar de este modo a la Iglesia sería anclarla en tiempos
ya bastante caducos.
Para explorar este orden de las relaciones vamos a tomar el con-
cepto de naturaleza (usado por la tradición teológica para describir el

20 Cfr. L. Althusser, “Idéologie et appareils idéologiques d’État (Notes pour une


recherche)”, en Íd., Positions (1964-1975), Les Éditions sociales, Paris 1976, 67-125:
“Avant de naître, l’enfant est donc toujours-déjà sujet, assigné à l’être dans et par
la configuration idéologique familiale spécifique dans laquelle il est «attendu» après
avoir été conçu. Inutile de dire que cette configuration idéologique familiale est, dans
son unicité, fortement structurée, et que c’est dans cette structure implacable plus ou
moins «pathologique» (à supposer que ce terme ait un sens assignable), que l’ancien
futur-sujet doit «trouver» «sa» place, c’est-à-dire «devenir» le sujet sexuel (garçon ou
fille) qu’il est déjà par avance”.
21 Es la propuesta de lectura que encontramos en V. M. Fernández, “El capítulo VIII de
Amoris Laetitia: lo que queda después de la tormenta”, Medellín 43 (2017) 449-468.
22 Cfr. E. Lévinas, Totalité et infini: Essai sur l’extériorité, Kluwer Academic, Paris 1990.

496
Semina Verbi: una esperanza para la familia

matrimonio) y vamos a iluminarlo acudiendo a la experiencia del cuer-


po, como instalación originaria de la persona en el mundo.

3.1. Semillas del Verbo, naturaleza humana, cuerpo

La tradición teológica se ha referido al matrimonio como realidad “natu-


ral”. De hecho, el concepto de naturaleza recubre parte de lo enseñado
con ayuda de las “semillas del Verbo”, en cuanto afirma la existencia de
una estructura común a todo hombre, proveniente del Creador. Recor-
demos que, para san Ireneo, esta ley natural era anticipación de la caridad
plena de la Cruz, y por eso la ley estaba infixa en el corazón del hombre.
Lo que se va a perder poco a poco en la visión teológica de la natu-
raleza es la orientación hacia el Verbo encarnado. Prevalece la idea de la
naturaleza como un orden completo de realidad que debe poder alcanzar
desde sí mismo sus fines. Los tiempos modernos siguen en esta línea,
pero separando lo natural de toda inteligencia y querer. La naturaleza es
estudiada por las ciencias positivas, y consiste en materia cuyos movi-
mientos los determinan leyes fijas23. De este modo la naturaleza aparece
como realidad que el hombre puede manipular, proporcionándole a ella
un sentido que esta no posee en sí misma, y en ningún caso se ve como
realidad interior al mismo hombre y a su acción.
La naturaleza, sin embargo, en la concepción griega originaria, fue
un término que se comprendía, no como realidad aislada, sino como un
elemento interior al conjunto de la acción humana. Así, por ejemplo, el
hombre toma elementos naturales y, añadiendo su trabajo, construye un
artefacto. Esto ocurre también cuando lo obrado no produce ningún ob-
jeto exterior, sino que transforma a la misma persona. Hay en esta acción
algo natural, es decir, dado, previo, que nuestro obrar supone y sobre
lo cual se alza. Lo natural, a esta luz, no es lo opuesto al pensar y querer
libre de la persona, sino más bien la base, lo recibido (“natura” viene de
“nacer”) que le permite obrar acompañándole en su acción.
Es posible aproximar esta dimensión “natural” de la vida a la expe-
riencia del “cuerpo”, por el que el hombre habita el mundo material. El

23 Cfr. R. Spaemann, “Natur”, en Íd., Philosophische Essays, Reclam, Stuttgart 1994,


19-40; “Über den Begriff eines Natur des Menschen”, in Das Naturliche und das
Vernünftige: Essays zur Anthropologie, München, Piper 1987, 13-39.

497
José Granados

capítulo primero del Génesis recoge la armonía de la creación corpórea:


es el Hexámeron (los seis días) donde se escancia sinfónicamente la acción
divina que culmina con la aparición de Adán y Eva. Los comentaristas
medievales han distinguido entre una obra de separación de espacios los
primeros días (el aire, el mar, la tierra) y una obra de embellecimiento
de estos mismos espacios los días siguientes (pájaros y peces para aire y
mar; animales terrestres el sexto día)24. Que el hombre habita este espa-
cio queda claro a partir del término basar (carne), con que se describe la
creación del ser humano. Adán es tomado de la tierra y modelado (único
entre los seres, según una antigua tradición patrística)25 por las manos
de Dios, que son su Verbo y su Espíritu. El cuerpo resulta ser el primer
espacio que sitúa al hombre en el mundo. Este espacio es, además, un
espacio interhumano: la carne, que dice la pertenencia a la creación, in-
dica también que los hombres pertenecen a una sola familia, procedentes
de un mismo origen en Dios, el cual les es mediado desde la unión de su
padre y madre en la diferencia sexual.
Vemos entonces que el cuerpo, al igual que la naturaleza en su acep-
ción clásica, es aquello que se recibe, la pasividad originaria que nos sitúa
en el mundo, cuyo lenguaje nos es dado y que nos permite relacionarnos
con los otros, vinculándonos a ellos26. Esta conexión entre naturaleza
y carne aparece, de hecho, en los Padres de la Iglesia, y se observa, por
ejemplo, en las fórmulas del concilio de Calcedonia. Allí, para expresar
que Cristo asumió nuestra naturaleza se dice que fue “consubstancial a su
madre”, engendrado de ella, es decir, carne de su carne27.
A esta luz es posible volver a proponer la doctrina sobre el matri-
monio natural desde la experiencia originaria del cuerpo, siguiendo la
intuición de san Juan Pablo II en sus Catequesis sobre el amor humano28.
Y recuperar, a partir del cuerpo, una visión más certera de lo natural en

24 Cfr. Santo Tomás de Aquino, STh. I q. 66 - q. 72.


25 Cfr. Teófilo de Antioquía, Ad Autolycum II 18, SCh 20,144.
26 Ya en los Padres se establece la relación entre natura y carne: Cfr. Hilario de Poitiers,
De Trin XI,1: “habita la natura de toda carne”… “Ipse autem, universitatis nostrae in
se continens ex carnis assumptione naturam…” Y enseguida: “ex ea natura qua frater
est”.
27 Cfr. B. Studer, “Consubstantialis Patri. Consubstantialis Matri”, en Revue des études
augustiniennes 18 (1972) 87-115.
28 Cfr. Giovanni Paolo II, L’amore umano nel piano divino: la redenzione del corpo e la
sacramentalità del matrimonio nella catechesi del mercoledì (1979-1984), LEV, Città del
Vaticano 2009.

498
Semina Verbi: una esperanza para la familia

el hombre, que lo acerca precisamente al tema patrístico de las “semillas


del Verbo”. Pensar la naturaleza humana a partir del cuerpo y sus signi-
ficados interpersonales, ayuda a evitar una visión cerrada de lo natural,
articulándolo, sea dentro de la acción humana, sea en relación con la
plenitud de la historia en Cristo.

3.2. Semillas del Verbo y condición encarnada de la persona

En cuanto que la carne-natura es aquella dimensión constitutiva del


hombre que precede a la acción de él, esta carne-natura nos refiere a la
condición filial de la persona. Lo corporal no es lo “ya dado” que nos
limita, por impersonal; sino lo “ya donado” que nos capacita, y que es
personal en cuanto que es filial. Así, el ser persona del hombre es siempre
un “ser-hijo”29.
Pues bien, si el cuerpo revela la condición filial, esta referencia se
da también en el resto de la naturaleza, en cuanto la iluminamos desde
el concepto bíblico de creación. Unida a un querer personal que la ha
originado, la naturaleza no resulta ajena al amor y a la inteligencia30. El
hombre la recibe como donada, es decir, como resultado del acto crea-
dor y base de todas sus acciones libres que están precedidas y sostenidas,
de este modo, por otra libertad. Ya para la Biblia la constancia de los
ritmos naturales se reconduce, en último término, a la fidelidad de Dios
a la Alianza. A esta luz podrá decir san Clemente Romano que todas las
cosas “obedecen” a su Creador31.

29 Desde este punto de vista se queda corta la obra de R. Bodei, Limite, Il Mulino,
Bologna 2016, que no tiene en cuenta que el límite no es solo lo ya dado, sino
lo donado; y, por tanto, no solo lo que limita movimientos, sino lo que expande
movimientos.
30 Cfr. R. Williams, The Edge of Words, Bloomsbury, London 2014: “So far from matter
being by definition mindless, it seems we have no choice but to talk about it as a
linguistic or symbolic reality, whose processes we can only understand by analogy
with our own conscious systems of recognition and collaboration”.
31 Cfr. San Clemente, A los Corintios XX 1-12 (SCh 167,134): “Los cielos movidos por
su gobierno se le someten en paz. El día y la noche recorren la carrera impuesta por
Él sin que se estorben mutuamente. El sol, la luna y los coros de las estrellas recorren,
según su mandato, en armonía y sin ninguna desviación, las órbitas que les han sido
prescritas. La tierra, fecunda por voluntad suya, produce en distintos tiempos alimento
abundante […] sin discrepar ni cambiar nada de lo que ha sido decretado por Él…”
(traducción de J. J. Ayán, Padres Apostólicos, Ciudad Nueva, Madrid 2000, 161).

499
José Granados

Este lenguaje del cuerpo, donde se expresa lo natural en el hombre,


nos dona el eje central que ordena las semillas sembradas por el Logos.
Se trata de una relación filial con el origen de la vida, que estructura el
cuerpo y apunta hacia el Creador. No extraña que esta semilla encuen-
tre su plenitud en la Encarnación, cuando el Hijo de Dios empiece a
hablar el lenguaje filial del cuerpo. Anclar el concepto de naturaleza en
la experiencia personal del cuerpo permite así reabrir lo natural más allá
de sí mismo, recuperando la intuición presente en los Padres que habla-
ban de las “semillas del Verbo”, y veían en ellas la orientación al Verbo
encarnado.
Además, esta dimensión filial se percibe siempre a través de la re-
lación hombre-mujer, que media el origen de cada persona. Por eso
también el amor conyugal se reconoce como procedente del Creador.
La razón última del origen del cuerpo masculino y femenino, desde el
cual se aprende la primera ordenación filial de la vida, se refiere también
a Dios. Si se eliminara esta referencia, el lenguaje primordial del cuer-
po solo podría interpretarse como condición que oprime la libertad del
hombre, pues el hijo procedería del querer directo de otro ser humano,
a quien quedaría ligado, perdiendo la libertad32. Por mediar esta relación
de subyugación, el cuerpo sería rechazado como parte de la propia iden-
tidad y se reduciría, entonces, según el título de la novela de Maxence
Van der Meersch, a una “máscara de carne”33.
Precisamente en esta dimensión filial del cuerpo, mediada por la di-
ferencia sexual, se arraiga la primera comprensión sistemática del matri-
monio, llevada a cabo por san Agustín34. El Hiponate afirma la bondad
de las nupcias frente a la secta maniquea y enumera los tres bienes de
ellas, que se harán clásicos (proles, fides, sacramentum)35. En realidad, para
san Agustín, la bondad del matrimonio no es una bondad entre tantas,
sino que es la base de nuestra capacidad misma de percibir lo bueno.
Pues es allí, en el matrimonio, donde el hombre viene a la existencia, y
por allí, por el matrimonio de sus padres, pasa su relación con el origen

32 Cfr. M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero,
Miliano 2010.
33 Cfr. M. Van der Meersch, La máscara de carne, Plaza&Janés, Barcelona 1972.
34 Para lo que sigue, cfr. J. Granados, Una sola carne en un solo Espíritu: Teología del
matrimonio, Palabra, Madrid 2014, 119-122.
35 Cfr. un resumen de su doctrina en De bono con. XXIV 32, CSEL 41,227.

500
Semina Verbi: una esperanza para la familia

de todo en Dios. Dice san Agustín: “El hombre abre los ojos para ver a
sus padres, y así esta vida toma su principio de la amistad de ellos”36. La
bondad del matrimonio asegura que se pueda afirmar, desde el amor, la
bondad radical del mundo.
Esta bondad se revela en lo que san Agustín llama proles (los hijos
generados en la unión), fides (que excluye el adulterio) y sacramentum (es
decir, para san Agustín, la indisolubilidad, que excluye el divorcio). La
tríade muestra el modo en que la gramática del cuerpo puede mediar la
experiencia de la bondad de la vida. La apertura a la prole manifiesta el
origen del amor en el Creador, que lo hace fecundo. Y el amor puede
apuntar a su origen, en donde los hijos descubrirán el misterio último de
la vida, si se mantiene la unicidad de la relación hombre-mujer (fides) y
su permanencia en el tiempo (sacramentum). Sin estos dos otros bienes, el
origen en Dios tendría un rostro polifacético e inestable, y no podría ga-
rantizarse su bondad radical. Solo desde estas coordenadas, que aseguran
la bondad del origen, es dado declarar la bondad del propio cuerpo y,
por tanto, de las relaciones humanas que desde él se traban y del cosmos
donde el cuerpo nos sitúa. De la unidad de todos estos bienes depende la
bondad del hijo que nace de la unión y la bondad del amor mismo que
lo engendra.
Este modo de vivir el cuerpo, ligado a la institución matrimonial,
diferencia al hombre de los animales. Pues resulta que entre los animales
el hombre es el que vive con mayor hondura las relaciones en que le
sitúa la carne. Propio del hombre es, en efecto, que quienes le han dado
origen a través de la carne (sus padres y antepasados), se mantengan pre-
sentes a lo largo de toda su vida, con un influjo decisivo sobre su identi-
dad y sobre su camino. El animal, podríamos decir, no está tan apegado a
su carne y pronto se desvincula de su origen. La existencia humana es la
más encarnada. Negar el orden matrimonial de la familia, fundado sobre
los tres bienes, significa, en realidad, desencarnar a la persona y, a la vez,
animalizarla.
Añadamos que la naturaleza humana, por sernos siempre mediada,
como carne, a través de otras personas de la familia, nunca es algo im-
personal. La carne nos revela, en efecto, una relación concreta, en pri-
mer lugar, con quien nos ha engendrado, relación que quedará grabada

36 Cfr. San Agustín, Sermo IX 6, 7, PL 38, 80-81.

501
José Granados

siempre en lo más hondo del propio nombre. Dado que la persona llega
a ser ella misma a partir de las relaciones familiares, nunca podrá enten-
derse sin hacer referencia a una naturaleza, como modo concreto de vi-
vir estas relaciones recibido al nacer. Por eso la naturaleza humana no es
solo la descripción de cómo es el hombre, al modo en que ocurre con la
naturaleza de los demás animales, sino que naturaleza humana quiere de-
cir también “familia humana”, pertenencia a una misma red personal de
relaciones37. El Creador, dice san Agustín, quiso fundar a los hombres
“de modo que en la sociedad de ellos no solo se mantuvieran unidos por
la semejanza del género, sino también por el vínculo de parentela”38.
En suma, el hombre que viene al mundo participa, por el hecho de
tener un cuerpo, en un entramado relacional, que pertenece a su natura-
leza. Este entramado se estructura desde una referencia filial que, a través
de los padres llega hasta el Creador; desde una fraternidad con aquellos
que comparten su mismo origen; y desde una apertura a la relación hom-
bre – mujer, como forma de unidad nueva, tan honda que desde ella es
posible mediar la presencia generativa del Creador. Hay en estas coor-
denadas una red que sostiene y fomenta la identidad y la vocación de la
persona. Se trata de una especie de gramática del cuerpo, que consiente
luego hablar su lenguaje en modo comunicativo.
Precisamente la imagen del lenguaje dotado de gramática enlaza casi
literalmente con las “semillas del Logos”, pues el Logos es la Palabra.
Con esto nuestras reflexiones sobre el cuerpo vuelven a nuestro punto
de partida: hay un Logos (lenguaje) del cuerpo porque en el cuerpo el
Logos ha puesto sus semillas (semina Verbi).

3.3. De las semillas del Verbo al lenguaje corporal

Propio de la relación del hombre con su cuerpo es la capacidad para


pronunciar la palabra: el hombre es “animal racional (logiké)” o “animal
que habla”. Notemos que la carne y la palabra no son dos realidades
heterogéneas, de difícil juntura. Al contrario, la presencia corporal del
hombre en el mundo se conjuga bien con su presencia entre las palabras.

37 Cfr. R. Spaemann, Personen: Versuche über den Unterschied zwischen etwas und jemand,
Klett-Cotta, Stuttgart 1996, 255.
38 Cfr. San Agustín, De bono con. I 1, CSEL 41,187.

502
Semina Verbi: una esperanza para la familia

En efecto, al igual que el cuerpo, también el lenguaje es un medio donde


habita el hombre. Ambos, cuerpo relacional y lenguaje, constituyen el
primer hábitat de la persona, necesarios para que esta se constituya como
tal. Además, el lenguaje, al igual que el cuerpo, es recibido de otros y
nos determina en lo más profundo de la identidad, pues nos da las he-
rramientas para explicar la propia vida, empezando por nuestro propio
nombre. Lenguaje y cuerpo son dos formas en que el ambiente externo,
relacional, nos plasma interiormente.
¿Cómo se relacionan entre sí estos dos hábitats, el del lenguaje y el
del cuerpo? Resulta que el lenguaje se aprende desde la relación afectiva
del niño con sus padres y educadores, es decir, desde una relación media-
da por la carne. Pues solo así puede el niño compartir un mismo punto
de vista sobre el mundo y comprender a qué se refieren las palabras. El
lenguaje, a su vez, ayuda a plasmar la afectividad, aclarando el sentido y
orden de los deseos, perfilando las relaciones en que nos sitúa el cuerpo.
Por eso, si faltase la pertenencia a otros mediada por el cuerpo, no podría
aprenderse la palabra; y, si faltase la palabra, las relaciones que se viven
en el cuerpo no tomarían forma ni podrían crecer y madurar a lo largo
de nuestro camino.
En resumen, en cuanto el lenguaje necesita de un ámbito corporal
para ser comunicado, las semillas del Verbo (semillas del lenguaje) han
de referirse a la estructura relacional originaria del cuerpo humano (su
sentido filial, fraterno, esponsal, generativo…). Lo dicho implica que las
semillas del Verbo se arraigan en la experiencia familiar, en cuanto allí se
define el entramado del lenguaje del cuerpo.
Digamos de pasada que, si las semillas del verbo son semillas del
lenguaje, es claro que no bastan “elementos de lenguaje” para poder
comunicarnos bien, sino que hace falta toda una estructura lingüística,
un orden o sistema, capaz de mediar sentido. Un lenguaje al que faltaran
elementos estructurantes no sería lenguaje, ni siquiera lenguaje imper-
fecto. Imaginemos, por ejemplo, un idioma donde la diferencia entre
afirmar o negar no estuviera clara. No sabríamos ya si este lenguaje dice
la verdad o la mentira, aunque contenga muchos elementos comunicati-
vos, como el vocabulario y las conjugaciones de los verbos.
De modo similar, los tipos de unión que no conservan la estructura
de los bienes enumerados por san Agustín, no consiguen comunicar la

503
José Granados

bondad radical de la existencia en la carne. Por ejemplo, una convivencia


prematrimonial, por no querer la estabilidad de la familia, deja siempre
en suspenso (sea para los amantes, sea para sus hijos) la bondad del ori-
gen último del amor y de su capacidad para sostenernos en el camino.
Es como un lenguaje con frases inacabadas, en el cual queda en duda el
valor afirmativo o negativo de las mismas.
Las semillas del Verbo, en esta imagen, son un lenguaje incipiente,
que se expresará en plenitud al encarnarse Cristo. Ahora bien, el Ver-
bo no siembra palabras sueltas, porque una palabra solo tiene sentido
en un conjunto lingüístico. Hay semillas del Verbo cuando se dan los
elementos para que el lenguaje sea capaz de comunicar, intentando de-
cir la totalidad de la vida y de las relaciones que la constituyen. En una
situación familiar no basada sobre el matrimonio, por el contrario, faltan
elementos esenciales para que se dé un lenguaje comunicativo del amor,
como si a un lenguaje le faltaran por ejemplo, la diferencia entre negar
y afirmar o la apertura al espacio social. Aquí no hay semillas del Verbo,
porque no hay lenguaje que comunique.

4. Semillas del Verbo y trama narrativa de la vida

La imagen de la semilla pone bien de relieve el orden dinámico que con-


tiene. Haber sido recibido en una red relacional permite al hombre, im-
plantado en esta red, crecer y madurar sobre ella. Lo que es ya dado y se
recibe filialmente contiene una orientación hacia un fin o télos, hacia un
fruto. Se abre desde aquí una visión narrativa de la vida personal. Coin-
cide esto con el hecho de que el lenguaje no solo es comunicativo sino
constitutivo de realidad (o performativo). El lenguaje que nos envuelve
nos inicia a una conversación abierta, que va generándose en el tiempo y
configurando la vida de quienes conversan y del mundo de ellos.
Por tanto, la idea de las semillas del Verbo y de su orden relacional
no es una idea rígida, que impida el camino, sino al contrario, gracias
a ella puede madurar la persona. Las semillas que están plantadas en la
creación tienen un télos, una meta o fin, hacia la que se dirigen. Según
hemos visto, los Padres de la Iglesia ven el télos al que apunta todo en
Cristo, y Cristo resucitado. El Decálogo, resumido en el mandamiento
del amor, se cumple en la Cruz gloriosa, que es cénit de la caridad y de la

504
Semina Verbi: una esperanza para la familia

unión entre Dios y los hombres. Y recordemos que este télos no es solo el
punto final de un recorrido, sino que está presente desde el principio, al
modo como el fruto está presente ya en las manos del labrador que aran
la tierra o como el hijo está presente en la unión conyugal.
Dado que la familia es, según acabamos de ver, un lugar originario
donde se fragua el lenguaje del cuerpo, será también ámbito originario
para observar el dinamismo de las semillas del Logos. Ya para san Agustín
el matrimonio, a lo largo del Antiguo Testamento, tenía como fin fo-
mentar la amistad entre los hombres39. Su meta última era, de hecho, la
generación del Mesías, en quien todos seríamos uno y que recapitularía
la historia40. De ahí que el matrimonio poseyera un sentido religioso
central en la vida del Pueblo de Israel y de la humanidad. Es verdad que,
según Agustín, una vez que los hombres se han multiplicado y que ha
llegado Cristo, el telos o fin del matrimonio parece haber pasado. Esta
visión se redimensiona, sin embargo, pues el Hiponate enseña que en el
matrimonio cristiano se generan hijos para Dios. Es decir, el matrimonio
se orienta desde sí al bautismo, y genera a los que conduce para que sean
regenerados. Su fin último o telos es la edificación de la Iglesia, a partir
del incremento de la misma ciudad humana41.
Santo Tomás introdujo esta perspectiva del fin ya en el matrimonio
creatural a partir de la herencia aristotélica42. Si el matrimonio, con su
orden concreto, es un bien recibido de Dios, resulta que este orden es
generativo, está abierto a la acción del hombre para, desde ella, dar más
de sí. El Aquinate señala sobre todo dos fines: la procreación y ayuda
mutua de los esposos. Se acoge así la doble dimensión generativa del
amor, que es promoción entre sí del marido y de la mujer y promoción
común de los hijos.
En primer lugar, el matrimonio se ordena a la generación, y en esto
el hombre se acomuna a los otros vivientes. Este rasgo natural se vive de
distinto modo en el ser humano, porque lo que él genera es una perso-
na, a la que hay que enseñar a hablar, es decir, a captar el sentido de la

39 Cfr. De bono con. IX 9, CSEL 41,200.


40 Cfr. De bono con. XIX 22, CSEL 41,216: “de suis nuptiis filios propter Christum
quaerebant”.
41 Cfr. De nup. et concup. IV 5, CSEL 41, 215.
42 Para lo que sigue, Cfr. J. Granados, “Bonaventure and Aquinas on Marriage: between
Creation and Redemption”, en Anthropotes 28 (2012) 339-359.

505
José Granados

totalidad y, por tanto, a referirse a su propio origen a la luz del origen


de todo. Desde aquí se entiende la necesidad de que el matrimonio sea
indisoluble, en cuanto tiene que fundar la capacidad del hijo para edifi-
car el tiempo entero de su vida. En segundo lugar, la ley natural se refiere
al hombre en lo que tiene de específico como animal racional, llamado
a vivir junto a otros hombres, con los que habla, es decir, con los que
puede compartir una visión del mundo y, especialmente, llamado a la
convivencia del hombre y de la mujer y de la ayuda mutua de ambos. La
indisolubilidad puede deducirse a partir del tipo de comunicación que se
instaura entre marido y mujer los cuales, por los bienes que comparten,
muestran querer compartir la totalidad de sentido de sus vidas.
Como vemos, también esta finalidad de la naturaleza, a la que la
tradición teológica se ha referido para tratar del matrimonio, puede de-
clinarse a partir del lenguaje del cuerpo y de su dinamismo. Como he-
mos notado antes, se supera así una visión cerrada de la naturaleza, que
consigue desde sí misma sus propios fines. Pues el cuerpo nos sitúa en
el tiempo, el cual nos proyecta siempre más allá de nosotros. En efecto,
la persona es ella misma solo en cuanto tiene un pasado, recordándolo
y, desde él, genera un futuro, que se vive anticipadamente. Ahora bien,
pasado y futuro, aun apropiados por el sujeto, conservan su diferencia del
presente en que la persona está. Así, quien teje su identidad en el tiempo
lo hace sobre una diferencia que atraviesa su mismo ser.
Pues bien, esta diferencia temporal abre al hombre a la alteridad del
prójimo. En efecto, solo en otros y con otros recordamos la totalidad de
la vida, solo desde otros podemos forjar la alianza que mantiene unidas
nuestras horas, solo junto a otros se puede generar un futuro nuevo, que
no sea solo proyección de las propias categorías. La condición narrativa
de la persona nos confirma que esta existe siempre en plural43.
La base de este entramado narrativo está inscrita en el matrimonio.
Solo en el matrimonio el recuerdo desemboca, siguiendo la vía de la
memoria, en un amor que nos ha precedido y agraciado, un amor que
es capaz, además, de sostener nuestros pasos por el tiempo, fundándolo
en la promesa esponsal. Por otro lado, solo en el matrimonio, el futuro,
lejos de centrarse en proyecto estéril de auto-realización, es prolonga-
ción de uno mismo, desde el amor, en la unión con el cónyuge y en su

43 Cfr. Spaemann, Personen…, cit., 144.

506
Semina Verbi: una esperanza para la familia

fruto, los hijos. Este enfoque narrativo permite comprender la pregunta


clásica por el orden de los fines del matrimonio a partir de la unidad de
la vida en el tiempo: promesa esponsal y futuro generativo se invocan
y refuerzan mutuamente, porque solo de este modo podemos trenzar
nuestra historia.
Las semillas del Logos, por tanto, contienen un entramado temporal,
un ritmo de vida en el tiempo, que el hombre recibe y con el que puede
crecer y madurar. Es según este ritmo, y solo según él, como actúa el
Espíritu sobre las semillas. Otros modos de vivir las relaciones que no
coincidan con el tiempo de las semillas del Verbo (como una conviven-
cia o un matrimonio meramente civil entre bautizados) adolecen de una
ruptura narrativa y son incapaces de ofrecer un relato unitario. Así, la
convivencia habita siempre relatos provisionales y fragmentados, cuya
estructura hay que abandonar si se quiere alcanzar la unidad de la vida.
Y lo mismo se diga del matrimonio civil, al consolidarse como unión
meramente humana, que excluye la referencia a Dios, único capaz de
mantener unida la totalidad de una historia. Estas situaciones pueden
compararse, de nuevo, a un lenguaje, esta vez un lenguaje que no distin-
gue si algo es presente, pasado o futuro, y al que no le es dado, por tanto,
narrar un relato. Tal lenguaje sería inservible, por mucho que tuviera
elementos positivos, como verbos o sintaxis.
Descrito el orden relacional y narrativo que contienen las semillas
del Verbo, nos preguntamos ahora por su fin último. ¿Cómo apuntan,
según enseñaban los Padres, a la vida de Jesús?

5. Plenitud de las semillas del Verbo en la economía sacramental

De los dos últimos apartados podemos concluir: a) Las semillas del Verbo
suponen un orden originario de las relaciones que permiten el desarrollo
de una vida plenamente humana. b) Las semillas del Verbo contienen un
ritmo temporal, un modo filial de referirse al origen, de mirar generati-
vamente al futuro, y de atravesar el camino entre ambos, unificado por
la promesa esponsal.
El orden dinámico de relaciones que hemos descrito ha sido plasma-
do por el Verbo en la creación y se contiene en el matrimonio, unión
entre un hombre y una mujer, por todos los días de su vida, abierto a

507
José Granados

la fecundidad. Y no se trata solo de un orden objetivo, que se opondría


en cierto modo al “sujeto”, sino que este orden constituye también la
interioridad de la persona. Y es que, como sujeto encarnado y afectivo,
la persona vive también fuera de sí, y se constituye según los vínculos
fundantes que la ligan al mundo y a los otros. De modo similar, el paisaje
y el clima de la región en que se ha nacido crean una suerte de paisaje y
clima de la personalidad: junto al landscape se habla del mindscape44.
Pues bien, como hemos dicho, este orden, plasmado según las se-
millas del Verbo que en él se encuentran, apunta hacia Cristo, el Ver-
bo encarnado en persona. El orden creatural se consuma, por tanto, en
otro orden, que se inaugura con la Encarnación y culmina en su cruz y
resurrección.
Recordemos que, cuando san Justino reconoce las semillas del Lo-
gos, lo hace a partir de la plena participación en Cristo por el don de
su Espíritu. La imagen del Logos sembrador es la de Jesús sembrando su
palabra al predicar el Evangelio, palabra llena de sabiduría y también de
fuerza, pues capaz de transformar los corazones de los hombres. Propio
de la palabra de Cristo es su capacidad para establecer un nuevo orden,
no tanto en cuanto que indica nuevos mandamientos, sino en cuanto
que resitúa al hombre en un espacio nuevo, un espacio de filiación, don-
de los mandamientos cobran un nuevo sentido. San Ireneo lo expresará
diciendo que, si antes obedecíamos como siervos en la viña, la obedien-
cia se acrecienta cuando somos, en la misma viña, hijos45.
Lo que ha ocurrido es que el Verbo se ha introducido en el entra-
mado de su propia creación; ha heredado, de Israel a través de María, el
orden dinámico impreso en la carne, y lo ha reconfigurado con su vida,
muerte y resurrección. La vida de Jesús se orientó siempre desde el Padre
y hacia el Padre, como vida filial; y se donó a los hombres como vida en
la comunión fraterna, esponsal y generativa. Por eso puede decirse que
Cristo inauguró una nueva medida del lenguaje del cuerpo.
Pues bien, el lugar donde se nos introduce en la red de relaciones
forjada por Jesús, y se nos comunica su nueva medida, son los sacramen-
tos. El espacio nuevo de filiación se da en el bautismo, donde nos adap-
tamos a las coordenadas del cuerpo y tiempo de Cristo. No extraña que

44 Cfr. V. Lingiardi, Mindscapes. Psiche nel paesaggio, Raffaello Cortina, Milano 2017.
45 Cfr. San Ireneo de Lyon, Adv. Haer. IV 13,2 SCh 100, 528.

508
Semina Verbi: una esperanza para la familia

se hable del bautismo como nuevo cuerpo o nueva naturaleza (cfr. Col
3,9-10) que permite participar de la lógica eucarística del cuerpo donado
para la vida del mundo.
Esto significa que las semillas del Verbo llegan a su plenitud en el
orden sacramental. El concepto de semillas del Logos es, así, una suerte
de pre-sacramento. Es decir, lo que las semillas del Logos realizan antici-
padamente mirando hacia Cristo, lo realiza, para quienes siguen a Cristo
tras su muerte y resurrección, la identificación sacramental a Jesús.
El orden de los sacramentos, por tanto, asume en sí las semillas del
Verbo, que a este orden tendían. Se trata de un orden existente y eficaz
en la Iglesia. Es inadecuado identificar este orden, ya recibido, con el
ideal cristiano, en el sentido de una meta última que solo se alcanza tras
largo camino. Este ideal será, más bien, la plenitud del edificio que sobre
este orden se alza, plenitud que llegará solo al cabo del tiempo. En todo
caso no se trata de un ideal como utopía, pues lo que aquí tenemos es el
lugar (topos) raíz sobre el que se edifica la vida.
Dado que entre los sacramentos se encuentra el matrimonio, asumi-
do según sus mismas coordenadas creaturales como amor entre un hom-
bre y una mujer, indisoluble y abierto a la vida, podemos reconocer en el
séptimo sacramento el espacio originario de semillas del Logos, presentes
desde el principio. Es decir, el Logos sembrador nos dona relaciones que
reflejan y contienen el orden filial, fraterno, esponsal y generativo del
amor, que Cristo vivirá en plenitud. Por el contrario, las formas de vivir
la sexualidad que, aun conteniendo elementos positivos, no dinamizan la
vida y el amor hacia su télos en el orden sacramental, no pueden corres-
ponder con las “semillas del Logos”.

6 Conclusión: las semillas del Verbo, esperanza para la familia

Hemos declinado el tema patrístico de las semillas del Verbo a partir de


dos categorías experienciales: el cuerpo y su lenguaje, por un lado; el
entramado narrativo de la vida, por otro. Las semillas, en esta visión, no
son solo una dotación interna de la persona, sino un orden concreto de
relaciones en el espacio y en el tiempo.
Así, más que mirar a la interioridad aislada del hombre, la clave se ha
descubierto en un tejido originario de relaciones, que ha sido sembrado

509
José Granados

por el Verbo y que apunta a su Encarnación ya desde el origen de lo


creado. El movimiento y germinación de las semillas es obra del Espíri-
tu, que guía todo hacia Cristo. La maduración de estas semillas, que se
alcanza en la vida de Jesús, se transmite a los cristianos en el orden sacra-
mental, el cual contiene dentro de sí la lógica del matrimonio.
La misión de la Iglesia pasa por reconocer estas semillas y ayudar
al hombre a vivir según ellas, para que su vida pueda madurar hacia el
Evangelio de Jesús. Se ve, desde aquí, cuán erradas andan algunas lecturas
de Amoris laetitia que dan la precedencia, en el acompañamiento pastoral,
al discernimiento de la culpabilidad subjetiva, y no al entramado relacio-
nal en que vive y ama la persona.
Este entramado, como hemos visto, no es algo solo objetivo y, por
tanto, impersonal, sino que sostiene dimensiones fundantes de la iden-
tidad de la persona, como la filiación o la fraternidad; en él se decide el
camino de la persona y de su vocación al amor. Este entramado, además,
se contiene precisamente en los sacramentos, por lo que admitir a ellos
a quien sigue otro orden y otro ritmo de vida, no solo dañaría al fiel
concreto, sino al bien común de la entera Iglesia, que se edifica sobre
este modo concreto de amar, el que vivió y nos enseñó Jesús. El camino
de la evangelización pasa, por tanto, por edificar (o reedificar) ambientes
sacramentales, que permitan a las semillas una plena maduración. Para
construirlos son precisas prácticas comunitarias que edifiquen estos am-
bientes. Y también ritos de paso que permitan ritmar, según la vida de
Jesús, el tiempo personal y comunitario.
Habla san Justino Mártir en su Apología de “la semilla de los cristia-
nos, recién arrojada al mundo, que Él sabe ser la causa de la conservación
de la naturaleza” (Apol. II 7[6],1). Esta nueva siembra, acaecida desde la
Encarnación, evoca aquella antigua de las semillas del Logos, sembradas
en toda la creación, y capaces de prestar cohesión al Universo. Ahora
la semilla son los fieles, y a ellos les corresponde dar cohesión al mun-
do46. De modo parecido se refiere la Epístola a Diogneto a los cristianos
que, como el alma en el mundo, mantienen unidas todas las cosas47.

46 Cfr. Ch. Munier, Justin martyr. Apologie pour les chrétiens. Introduction, traduction et
commentaire, Cerf, Paris 2006, 313-315.
47 Cfr. Epístola a Diogneto VI 6: “El alma está encerrada en el cuerpo, pero ella da cohesión
al cuerpo. Los cristianos están retenidos en el mundo como en una prisión, pero dan
cohesión al mundo” (cito según J. J. Ayán, Padres Apostólicos, cit., 562).

510
Semina Verbi: una esperanza para la familia

Se confirma así que el modo de vida de los cristianos (que la Epístola a


Diogneto vincula, sea con el culto, sea con el respeto del matrimonio)
contiene la medida para descubrir las semillas que el Verbo ya sembrara
al principio del mundo48.
La imagen dona esperanza. Los primeros cristianos, acosada minoría
en el mar del Imperio, eran conscientes de poseer la clave que mantenía
todas las cosas en cohesión y, de prestar, de este modo, un servicio a
todos los hombres. A la vez, se reconocían ellos mismos como semillas,
llenos de un dinamismo capaz de crecer hasta la siega. Decía san Justino
Mártir, en el contexto de las “semillas del Verbo”, que “cuanto de bue-
no está dicho en todos [los filósofos] nos pertenece a nosotros, los cris-
tianos, porque nosotros adoramos y amamos, después de Dios, al Ver-
bo”49. Hoy la Iglesia puede afirmar, con la misma audacia, que cuanto
de bueno se ha dicho sobre la persona y el amor humano nos pertenece a
nosotros, los cristianos, porque nosotros adoramos y amamos, después de
Dios, al Verbo, que ha asumido carne en una familia y se ha entregado
en el amor supremo de la Cruz.

48 Sobre el culto, Cfr. H. I. Marrou, A Diognète, Sources Chretiennes 33, Cerf, París 1951,
146-149; sobre el matrimonio, Cfr. Epístola a Diogneto V,6-7: “Se casan como todos, y
tienen hijos, pero no los abandonan. Comparten la mesa, pero no la cama” (traducción
de J. J. Ayán, Padres Apostólicos, cit., 561.
49 Cfr. San Justino Mártir, Apol. II 13,4: “cuanto de bueno está dicho en todos ellos
[los filósofos] nos pertenece a nosotros, los cristianos, porque nosotros adoramos y
amamos, después de Dios, al Verbo, que procede del mismo Dios ingénito e inefable”;
cfr. también Apol. II 10,1: “la nuestra aparece más sublime que toda enseñanza humana,
por la sencilla razón de que el Verbo entero, que es Cristo, aparecido por nosotros, se
hizo cuerpo y razón y alma”.

511
Anthropotes 33 (2017)

Eros, corps et Eucharistie

Emmanuel Falque*

SUMMARY: Christianity is a matter of culture, not just belief. The formu-


la “this is my body” structures the faith, but also thought. It is thus at the
edge of today’s culture, and insofar as Christianity is also “operative” and
“transformative” of culture, that we must think about the mystery of the body
and the Eucharist in our time. Descending to the depths of man met by God,
the hoc est corpus meum will thus find in the animality of man also assumed
by God its inheritance, in the body its content, in eros its modality, and in
dwelling or the act of abiding its finality. The mystery of the union of man
and woman thus illuminates the mystery of the union of man to God, not in
the delusion of an impossible fusion, but first of all because love is an act of
differentiation. “Love makes the body” rather than “the body makes love”.
Only a conception of love as “force” which seeks to incorporate itself will make
it possible to conceive for today the conversion of eros into agape.

« Heureux ceux qui sont appelés au festin des Noces de l’Agneau […]. Ré-
jouissons-nous, soyons dans l’allégresse et rendons lui gloire, car voici
les Noces de l’Agneau […] ; Son épouse s’est préparée, il lui a été donné
de se vêtir d’un lin resplendissant et pur […] ; Venez, rassemblez-vous
pour le grand festin de Dieu » (Ap 19, 9 ; 5, 6 ; 19, 7-8 ; 19, 17). L’ap-
pel de saint Jean dans l’Apocalypse suffit à l’invitation au Banquet. Un
« agneau » se tient là, immolé, prêt à être vu, adoré, comme aussi mangé.

* Doyen honoraire de la Faculté de Philosophie, Institut Catholique de Paris.

513
Emmanuel Falque

Les frères Eyck, en la cathédrale Saint Bavon à Gand, en ont tracé la


figure, sur un retable des Flandres aussi connu que contesté : le « retable
de l’agneau mystique » (1432). Là où les préréformateurs John Wicklif et
Jean Huss soutenaient, peu avant la réalisation de l’œuvre, que « le Christ
n’est pas identiquement et réellement dans le sacrement de l’autel en sa
propre personne corporelle » (J. Wicklif), les frères Eyck font preuve
de réalisme, voire de substantialisme, affichant ostensiblement le Christ
sur l’autel sous l’effigie de l’Agneau, dont la réalité de la présence a de
quoi surprendre comme aussi d’être aussi revendiquée. Une « présence
réelle » y attend l’homme, certes nouvellement interrogée, mais non
moins nécessaire et indubitable au cours des époques qu’elle a traversé.
On se souvient du discours d’ouverture du Pape Jean XXIII au
concile Vatican II (1962), attendant des penseurs catholiques qu’ils
exposent la doctrine « de la façon qui répond aux exigences de notre
époque », voire « en suivant les méthodes de recherche et la présentation
dont use la pensée moderne »1. Point n’est question ici, cela va sans dire,
de rejeter la tradition, bien au contraire. On ne trouvera du nouveau
qu’en s’appuyant sur l’ancien, renouvelant d’autant plus l’interprétation
qu’on se sera ici fondé sur le dogme et ses plus anciennes formulations.
Le hoc est corpus meum, ou le « ceci est mon corps », est certes et d’abord
une question de croyance, et donc d’adhésion personnelle. Mais il in-
dique aussi une « affaire de culture » (J.-L. Nancy), rendant d’autant plus
urgent l’énoncé d’un christianisme « crédible » et non pas uniquement
« croyable ». Le christianisme possède en lui-même les moyens culturels,
comme aussi conceptuels, pour atteindre le fond de l’humain et le trans-
former de l’intérieur. L’apologétique n’est pas de conversion d’abord,
ni même affaire de raison. Elle revient d’abord à « toucher le fond », à
reconnaitre que rien de l’homme ne sera ‘métamorphosé’ s’il n’est pas
d’abord par le Fils de l’homme endossé : « tout ce qui n’est pas assumé
n’est pas sauvé, rappelle Grégoire de Nazianze, et seul ce qui est uni à Dieu
est sauvé » (Lettre à Clédonium). De cet adage, il convient de prendre la
mesure, et d’interroger l’ensemble des expériences de l’homme qui, dans
l’eucharistie, sont engagées, pour en être aussi par Dieu transformées :

1 Jean XXIII, Discours d’ouverture au concile Vatican II, Avec l’ajout de la première version
en italien, citée, traduite et commentée dans B. Sesboüé et Ch. Theobald, La parole du
salut, Histoire des dogmes, t. 4, Desclée, Paris 1996, 479.

514
Eros, corps et Eucharistie

l’animalité (l’héritage eucharistique [la figure de l’agneau]), le corps (le


contenu eucharistique [ceci est mon corps]), l’éros (la modalité eucha-
ristique [un corps donné]), et enfin la manence (la finalité eucharistique
[demeurer en moi et moi en vous]).
L’acte de « manger, voire de mâcher, la chair », et de « boire, voire
d’ingurgiter, le sang » – « qui mange ma chair (trôgôn mou tên sarka) et boit
mon sang (pinôn mou to aima) » (Jn 6, 56) – fit certes scandale en son temps.
Encore faut-il, aujourd’hui aussi, ne pas l’oublier, y compris à l’heure de
s’avancer pour communier. Il y a « pire que d’avoir une âme perverse, rap-
pelle Charles Péguy, c’est d’avoir une âme habituée »2. Ni la philosophie,
ni la théologie, ni la phénoménologie, ni la sacramentaire, ne sont affaire
de mots seulement. Ils signifient une ‘expérience’ qui disparaitrait si elle ne
savait se dire (intuition sans concept), et se viderait si elle ne devait se vivre
(concept sans intuition). Ce qui vaut des autres modalités d’existence pour
traduire philosophiquement le vendredi saint ou le dimanche de Pâques (la
« souffrance » pour le Passeur de Gethsémani ou la « naissance » pour Méta-
morphose de la finitude), vaut plus encore pour le jeudi saint, en cela même
que le viatique, et donc la quotidienneté de notre être ici-bas, y est aussi
engagée (le « corps » pour Les noces de l’agneau). Au triptyque philosophique
– souffrance, naissance, corps – répond un triduum théologique : passion,
résurrection, eucharistie. C’est à tenir l’unité de l’humain que se traduit
aussi sa radicale assomption et transformation par le divin. L’expérience de
l’homme et le mystère de Dieu dans la figure de l’Homme-Dieu sont si
imbriqués, qu’on se leurrera à trop vouloir les séparer3.

1. La philosophie à la limite

Entrer dans le mystère théologique de l’eucharistie revient paradoxale-


ment à interroger les limites de la philosophie, ou plutôt d’une certaine
forme de la phénoménologie. Si les analyses de la souffrance (Lévinas)
ou de la mort (Heidegger) [Passeur de Gethsémani], comme aussi celle

2 Ch. Péguy, Note conjointe sur M. Descartes, Paris, Pléiade 1992, 1307.
3 Nous renvoyons ici à l’ensemble de notre triptyque : Le passeur de Gethsémani, Angoisse,
souffrance et mort, Lecture existentielle et phénoménologique, coll. « La nuit surveillée »,
Cerf, Paris 1999 ; Métamorphose de la finitude, Essai philosophique sur la naissance et la
résurrection, ibid., 2004 ; Les noces de l’agneau, Essai philosophique sur le corps et l’eucharistie,
ibid., 2011. Cfr. Triduum philosophique, Cerf, Paris 2015.

515
Emmanuel Falque

de la chair (Henry), du don (Marion), ou de la naissance (Romano)


[Métamorphose de la finitude], peuvent éclairer ce qu’il en est de la passion
ou de la résurrection, rien n’assure qu’elles suffisent, ou vaillent à elles
seules, pour dire ce qu’il en est du « corps » comme tel, et donc aussi de
l’eucharistie. Un ‘choc en retour’ se produit en effet, de la théologie vers
la phénoménologie cette fois, dès lors qu’il est question de « mystère eu-
charistique », et donc aussi de « corps organique ». La pratique phénomé-
nologique courante revient en effet à éclairer, d’un bel éclat d’ailleurs,
le donné du révélé (la prière [J.-L. Chrétien], l’incarnation [M. Henry],
le don [J.-L. Marion], la liturgie [J.-Y., Lacoste], etc.), sans remettre en
cause, ou peu s’en faut, l’efficacité de ces instruments pour dire ce qu’il
en est de la théologie – de sorte que la théologie en devient elle-même,
et parfois, intégralement phénoménologique.
On s’interrogera cependant, moins sur la pertinence de tels outils,
dont nous avons fait et continuerons de faire usage, que sur leur possibi-
lité à tout dire, ou plutôt à dire le tout de l’expérience humaine comme
aussi divine. La théologie elle-même fait voir à la phénoménologie ses
« limites », y compris dans la prétention hégémonique de cette dernière
rejetant à tort tout autre forme de pensée, en particulier ladite « mé-
taphysique ». Ainsi en va-t-il, et de façon exemplaire à nos yeux, de
l’interprétation authentique et anti-gnostique qu’il convient de faire de
Tertullien, disqualifiant toute tentative qui le rapporterait phénoméno-
logiquement à la « chair » ou au « vécu du corps » (Leib), plutôt qu’au
« corps » ou à la « matérialité de la chose étendue » (Körper). « Le Christ
n’eut pas d’autre raison d’être pris simplement pour un homme que de
montrer la réalité humaine d’un corps (humana substantia corporis), précise en
ce sens le Carthaginois […] : les muscles pareils aux mottes de glèbes,
les os semblables aux rochers et même autour des mamelons comme des
gravillons, les entrelacs de nerfs pareils aux surgeons des racines, les réseaux
ramifiés des veines comme des ruisseaux sinueux, les duvets semblables
aux mousses, la chevelure comme un gazon, et le trésor caché des moelles
comme le minerai de la chair »4. Qu’on se le dise donc. Le corps du Fils
incarné, loin de demeurer une simple ‘chair sans corps’ en particulier et

4 Tertullien, La chair du Christ (De carne Christi), Cerf, Paris 1975, SC n° 216, 1975,
IX, 4, 253 [la réalité humaine d’un corps], et IX, 3, 253 [muscles, os, nerfs, etc.]. Voir
sur ce point notre analyse et commentaire du De Carne Christi dans Dieu, la chair, et
l’autre, coll. « Epiméthée », PUF, Paris, ch. V, 251-288 : « La consistance de la chair »

516
Eros, corps et Eucharistie

surtout lorsqu’on se réfère à Tertullien ou Irénée (M. Henry), se donne


aussi comme ‘corps sans chair’, au sens cette fois d’une véritable humani-
té incarnée, ou mieux « in-corporée », prise dans l’horizon du « monde »
comme aussi de la « matérialité ». L’humain n’est pas fait de « chair »
d’abord (Leib), mais aussi de « corps » (Körper). Mieux, et selon une éton-
nante inversion des termes en allemand, le terme de « corps » en théolo-
gie sacramentaire cette fois – der Leib Christi. Amen (« Le corps du Christ.
Amen ») – dit moins le simple vécu d’une chair, qu’un Christ réellement
présent, donné à manger et à boire, nous y reviendrons, quand bien
même son organicité ne s’identifierait pas uniquement ici à sa simple
historicité (distinction du Jésus historique et du Christ ressuscité) 5.
Le choc en retour de la théologie sur la phénoménologie, soit du
poids de corps comme « incorporation » (Verkörperung) sur son vécu
comme « incarnation » (Verleiblichung), interroge donc la limite de la
philosophie. Une interrogation à partir de l’incarnation substantielle du
Christ qui remet en cause le choix du phénoménologue à privilégier le
« corps propre » (Leib) sur le « corps matière » (Körper), le vécu du corps
sur l’organicité du corps. On ne réduira pas cependant la substantialité
de tout homme dans sa corporéité à sa pure et simple matérialité. Entre
le « corps étendu » (Descartes) et le « corps vécu » (Husserl), se tient se-
lon nous le « corps épandu », dont la réalité organique ne le cède en rien
ni à l’étendue d’une matière en ‘longueur, largeur, profondeur’ (corps
objectif), ni au vécu d’une chair en mode d’autoaffection comme aussi
d’appropriation (corps subjectif). Fait aussi de « battements, de renifle-
ments et de gargouillements », comme le sont encore « la digestion, la
sécrétion, la cicatrisation ou la respiration » (l’inconscient du corps chez
Nietzsche), le « corps épandu » marque une sorte de zone frontalière, ou
de corps intermédiaire, entre le corps étendu d’une part (simple matériali-
té) et le corps vécu d’autre part (pure subjectivité).
Epandu sur un lit à l’aune de tomber dans le sommeil, épandu sur la
table d’opération à peine anesthésié, voire épandu sur la croix au point

(Tertullien) ; en particulier 269-286 : « ma sœur la chair » (§ 35) et « l’hypothèse d’une


chair pour la mort » (§ 36).
5 Cfr. L’hypothèse de lecture de M. Henry, Incarnation, Seuil, Paris 2000, § 24, 180-189
(« Les problématiques fondamentales d’Irénée et Tertullien »), et nos remarques dans
Le combat amoureux, Disputes phénoménologiques et théologiques, Hermann, Paris 2014, ch.
V, 197-238 : « Y a-t-il une chair sans corps ? ».

517
Emmanuel Falque

d’agoniser, ce corps là ne cesse pas d’être humain en cela qu’il signifie


toujours pour l’autre une altérité différenciée, voire possède des traits
qui font sa spécificité : bipédie, finesse de la peau, délicatesse du tou-
cher, sexualité en vis-à-vis, etc., qui en sont sinon la preuve, au moins
le « signe »6. Mais il possède en même temps une ‘part d’animalité’ que
jamais il ne saurait renier, ni même totalement s’en retirer : « rien ne
nous est donné comme réel sauf notre monde d’appétits et de passions
[…], préconise radicalement Nietzsche dans Par delà le Bien et le Mal,
comme une sorte de vie instinctive où toutes les fonctions organiques d’au-
torégulation, d’assimilation, de nutrition, d’élimination, d’échanges sont
encore synthétiquement liées ; comme une préforme de la vie ? »7. Suivant le
« fil conducteur du corps », et comme pour retrouver « le texte primitif,
le rude texte, de l’homme naturel » (Nietzche), nous rejoindrons ainsi,
et jusque dans l’eucharistie, l’Abîme de notre propre humanité, son Chaos
et son Tohu-Bohu jamais totalement surmontés, donnant par là un véri-
table contenu (charnel, humain, voire cosmique et animal) au « ceci est
mon corps » du christianisme. Car pour Nietzsche, comme pour nous
et peut-être aussi en mode chrétien s’entend, c’est d’abord « le corps qui
philosophe » – der Leib philosophirt8.

2. La pâques de l’animalité

Certes Dieu en s’incarnant ne s’est pas fait animal. Le Concile in Trullo


de Constantinople (692) requiert à juste titre qu’« on substitue l’image
humaine du sauveur à celle de l’agneau », ceci afin de départir le Verbe in-
carné du simple paganisme de l’animalité et du seul judaïsme de l’agneau
immolé9. Reste que Dieu lui-même ne peut rester indifférent, et même

6 Cfr. P. Ide, « L’homme et l’animal. Une altérité corporelle significative », dans


L’humain et la personne (collectif), Cerf, Paris 2009, 281-299 (traits cités p. 287).
7 F. Nietzsche, Par delà le Bien et le Mal, dans Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1971,
t. VII, § 36, 54-55.
8 F. Nietzsche, Fragments posthumes, [dans Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1976, t.
IX], respectivement 1884, 26 (374) [« le fil conducteur du corps], Par delà le Bien et
le Mal, cit. § 230, 150 [« le texte primitif de l’homme naturel »], et 1882, 5 (32) [« le
corps qui philosophe »].
9 Concile in Trullo, dit concile Quinixeste, tenu à Constantinople en 692, « sous la
coupole ». D’où le concile du palais dit de troulos, ou in trullo. Canon 82, in Acta
conciliorum, Typographie Royale, Paris 1714, t. III, can. 82, col. 1690-1691 : « nous

518
Eros, corps et Eucharistie

étranger, à ce chaos intérieur, cet abîme ou ce gouffre de nos passions et


pulsions, qu’une certaine forme de la phénoménologie contemporaine a
sinon renié, au moins en large part spiritualisé (Maurice Merleau-Ponty
excepté probablement). « Corps sans conscience », tel est ce qui définit
l’animal. Mais « conscience sans corps », telle est aussi la délimitation
de l’ange. Le second (l’angélisme) n’est pas davantage à envier que le
premier (l’animalité), loin s’en faut. Le mot de Pascal est suffisamment
connu pour qu’il suffise de le répéter : « l’homme n’est ni ange ni bête »
(L. 678 / B. 358), et c’est « être d’autant plus misérable qu’on est tombé
de plus haut » (L. 122 / B. 416).
Le silence sur l’animalité, en particulier lorsqu’il provient du théo-
logien qui semble parfois en avoir évacué la question (avec de notables
exceptions comme Jean Scot Erigène ou François d’Assise par exemple),
étonne le philosophe qui depuis plus d’un siècle n’a de cesse d’en traiter
(Husserl à partir de von Uexküll, puis Heidegger, Derrida, Deleuze,
Henry, etc.). Parler philosophiquement de l’« animalité » n’est pas traiter
des « animaux », cela va sans dire, ni même d’une simple différence entre
l’homme et l’animal. L’animalité trace plutôt les contours d’un « mode
d’accès » à notre propre corporéité, en cela que quelque chose de l’hu-
main se tient dans l’incarné que la philosophie, comme la théologie aus-
si, ont à retrouver. Peu importent les animaux, et seul compte ce chaos
de passions et de pulsions que Dieu lui-même vient aussi assumer, dans
un corps-à-corps eucharistique en attente de tout convertir, y compris
le « district de ce que l’on ne peut plus dire » (Heidegger à propos de
Nietzche), ou la « mêlée des sensations » absolument résistante à toute
subsomption (Kant)10.
La crainte de l’animalité provient en réalité, et le plus souvent, de
sa confusion avec la bestialité. Alors que le premier (l’animal) demeure

décidons […] que soit érigé à la place de l’agneau mystique, sur les icônes et selon son
aspect humain (kata anthropinon kharaktèra), celui qui a enlevé le péché du monde, le
Christ notre Dieu » [Christi Dei nostri humana forma characterem etiam in imaginus deinceps
pro veteri agno erigi ac depingi jubemus (col. 1691)].
10 Respectivement M. Heidegger, Nietzsche I, Gallimard Paris 1971, « Le concept de
Chaos », 438 ; et E. Kant, Critique de la raison pure, PUF, Paris 1980, « Déduction
transcendantale, Principe de la possibilité de l’expérience (recognition du concept) »,
124 [A. 111]. Traduction par « mêlée des sensations » (Heidegger [Klossowski],
Nietzsche I, « Le Chaos », 138), préférée ici à « foule de phénomènes » (PUF) ou
« masse de phénomènes » (G-F), reconduisant nécessairement à l’opération de la
« synthèse ».

519
Emmanuel Falque

toujours le soubassement de l’humain par quoi nous sommes aussi in-


carnés, ou mieux incorporés, la seconde (la bête) marque le possible
de l’homme en deçà même de son animalité, comme s’il revendiquait
à lui seul ce triste privilège de pouvoir choir là où l’animal lui-même
ne saurait aussi tomber (prostitution, pornographie, gloutonnerie, etc.).
La « bête tapie qui te convoite » au livre de la Genèse pour tenter Caïn
(Gn 4, 7), est bien celle aussi qui se lève pour une dernière fois sous le
titre de la « Bête écarlate couverte de titres blasphématoires » au livre de
l’Apocalypse (Ap 17, 3). Mais la bestialité, ou autrement dit la chute du
corps dans le péché, ne disqualifie en rien l’animalité, qu’il s’agisse du
monde animal (cosmologie) ou de notre propre animalité (anthropolo-
gie). S’incarnant ni dans l’animalité, et encore moins dans la bestialité,
Dieu lui-même n’a pas moins pris en charge le tout de « notre » huma-
nité. Puisque rien de ce qui est humain ne lui est étranger (Térence),
il vient tout assumer comme aussi tout sauver – notre animalité pour la
faire passer à l’humanité (salut par solidarité), et notre bestialité pour in-
tégralement la purifier (salut par rédemption). Voici l’« agneau de Dieu »
[tout court] souligne saint Jean, dans une seconde reprise, dans la bouche
de Jean le Baptiste (Jn 1, 36) ; et voici l’« agneau de Dieu qui enlève le
péché du monde », avait-il déjà annoncé dans une première relance (Jn
1, 29). L’animalité dans la figure de l’agneau, comme aussi la bestialité par
l’agneau immolé pour nos péchés, appartiennent intégralement à l’histoire
du salut, la première parce qu’elle assume tout de notre être incorporé
(passions, pulsions, chaos intérieur, etc.), et la seconde par là qu’elle re-
joint et convertit tout de notre être dévié (vices, péchés, luxure, etc.).
L’être incorporé désigne donc, et certes d’abord, l’homme incarné, mais
non pas indépendamment d’un organique dont il est aussi constitué,
jusqu’à l’animalité, voire la bestialité, dont il ne saurait si aisément se
débarrasser.
Ceci est mon corps – hoc est corpus meum – est donc d’abord une
formule capable de tout porter, l’humain certes, mais aussi « sa » part
d’animalité, comme aussi de bestialité. Mieux, l’eucharistie n’a pas seule-
ment pour but de nous diviniser, dans une participation au mystère de la
divinité certes essentielle, mais qui, à trop y insister, nous ferait franchir
à tort les limites de notre être créé. En même temps que de nous faire
passer de l’humanité à la divinité (divinisation), l’acte de communier

520
Eros, corps et Eucharistie

nous convoque d’abord à transiter de notre propre animalité à l’huma-


nité (humanisation), dans la filiation s’entend (Trinité). On ne trouvera
aucun « humanisme » dans une telle perspective, dont rien n’est plus à
craindre que les professions de foi comme les dérives politiques qui en
sont le plus souvent tirées. Seule l’intégration dans le mystère de la Tri-
nité saura nous sauver (Col 1, 16). Fils dans le fils, et non pas en guise de
quaternité (IVème concile du Latran, 1215), l’homme demeure homme
de bout en bout en son humanité, de son incarnation dans un corps
jusqu’à son accomplissement dans la gloire. Diviniser l’homme sans ja-
mais néanmoins le dépasser, tel est l’enjeu du l’eucharistie comme don
de l’organique à de l’organique, que les atermoiements de la chair ne
sauraient donc si aisément oublier : « si l’homme aspire à être seulement
esprit et qu’il veut refuser la chair comme étant un héritage simplement
animal, rappelle Benoît XVI dans son Encyclique Deus est caritas, alors le
corps et l’esprit perdent leur dignité »11.

3. Ceci est mon corps

La description phénoménologique de la « chair » (Leib) menait juste-


ment, et nécessairement, la réflexion sur la résurrection [Métamorphose
de la finitude]. Relevé en son vécu du corps, le Ressuscité fait voir la
manière d’être de son corps incarné, et s’y fait d’abord reconnaître. L’es-
prit qui n’a « ni chair ni os » ne signifie pas d’abord que des chairs et
des os caractérisent le corps du Ressuscité, mais plutôt que c’est bien lui
qui a souffert et qui est maintenant ressuscité : « C’est bien moi. Touchez
moi, regardez : un esprit n’a ni chair ni os, comme vous voyez que j’en
ai » (Lc 24, 39). Apparu au bord du lac, il est reconnu par ses disciples
à la manière de son « manger » (Jn 21, 1-14), déguisé en jardinier il est
identifié par Marie-Madelaine à la « voix » par laquelle il s’est exprimé
(Jn 20, 11-18), et traversant le Cénacle il fait voir à Thomas la plaie par
laquelle il fut blessé, laissant la foi en reconnaître le signe plutôt que la
raison en chercher la preuve (Jn 20, 24-29). « Sortis du tombeau » (Jn 5,
29), les corps se vantent moins de leur organicité, que de l’assomption de

11 Benoît XVI, Encyclique Deus est caritas (Dieu est amour), Ed. du Cerf, Paris 2006,
§ 5, 22.

521
Emmanuel Falque

la totalité de ce qu’ils furent avant même de ressusciter : « même si l’on


ne s’en sert pas, précise Thomas d’Aquin à la fin de son Contra Gentiles,
tous les organes de ce genre (membres, intestins, organes génitaux, etc.)
seront là pour restituer l’intégrité (integritatem) du corps naturel »12. Peu
importe les organes donc, mais plutôt ce qu’ils signifient – à savoir ce
vécu par lequel nous nous sommes exprimés.
Reste alors, la question essentielle – par quoi l’eucharistique rejoint
notre viatique et notre être-là in via [Noces de l’agneau]. Qu’en est-il de
la matérialité – du corps du Christ comme aussi du nôtre – dès lors que
la résurrection consacre d’abord son expressivité ? Dit autrement, à trop
privilégier l’autoaffectif de la chair en philosophie (Leib), ou l’expressivi-
té du vécu en théologie (symbolisme), n’a-t-on pas omis une dimension
fondamentale de l’organicité du corps en philosophie (Körper), ou de son
épaisseur et de son ‘réalisme’ en théologie ? Loin de nier le bien-fondé
du vécu du corps ou de la manifestation de la chair pour dire ce qu’il en
est du corps ressuscité – « autre est l’éclat du soleil, autre celui de la lune,
autre celui des étoiles […], il en est ainsi pour la résurrection des morts »
(1 Co 15, 41-42) –, comment cette autoaffectivité rejoindra-t-elle la
réalité, voire la substantialité, de ce corps incarné ? Le passage de la
mort à résurrection indique celui du « corps » (souffrant) à la « chair »
(ressuscitée), et le transfert de la résurrection à l’eucharistie celui de la
« chair » (ressuscitée) au « corps » (donné). Du « corps à la chair » (de la
passion orientée vers la résurrection), et de la « chair au corps » (de la
résurrection à la lumière de l’eucharistie), la conséquence est bonne. Né
dans un « corps » à Bethleem, le Fils de l’homme, comme tout homme,
est appelé à devenir « chair » dans sa résurrection ; mais en passant par
un « corps-à-corps » dans le double récit de la Cène et de la passion, qui
consacre la « chair » comme ce qui porte toujours les traces de ce que fut
son « corps » (stigmates). La souffrance et la mort disent le « corps » prêt
à se putréfier [Passeur de Gethsémani], la résurrection signifie la « chair »
ou la re-naissance de cela qui fut traversé [Métamorphose de la finitude],
et l’eucharistie assume l’« organicité » sans laquelle le Fils de l’homme
jamais ne se serait véritablement incarné [Noces de l’agneau].

12 Thomas d’Aquin, Somme contre les Gentils (Contra Gentiles), Garnier-Flammarion,


Paris, t. IV [La révélation], ch. 88 (« Le sexe et l’âge des ressuscités »), 401.

522
Eros, corps et Eucharistie

Le scandale du sacrement eucharistique naît ainsi, et précisément, de


l’incompréhension justifiée de ceux pour qui il fut d’abord destiné : « sur
quoi les juifs se mirent à discuter violemment entre eux : ‘comment ce-
lui-là peut-il nous donner sa chair à manger’ ? » (Jn 6, 56). Les stratégies
d’évitement pour s’« habituer » à l’inaccoutumé de la table eucharistique
ne manquent pas cependant d’être jouées, (a) tant du côté de l’exégé-
tique, (b) que du théologique, (c) voire du pastoral. (a) Du côté de l’exé-
gèse d’abord, on insiste avec raison sur la racine hébraïque de la « chair »
pour dire le « tout de l’homme », et sur le « sang » marquant notre parti-
cipation à la vie de Dieu (comme les fumets de l’agneau sacrifié s’élevant
jusqu’aux narines du divin). L’argument certes porte, mais ne fait pas
droit au premier étonnement des juifs eux-mêmes, ni à la nécessité de
lire aujourd’hui le sacrement eucharistique dans une tradition grecque
(soma) ou latine (corpus), et non pas originairement hébraïque (basar). On
ne lit pas l’écriture en dehors de sa traduction et de sa transmission dans
un tradition, en particulier dans le passage du sémitique à l’hellénique.
(b) Du point de vue théologique ensuite, on invoque souvent le « symbo-
lique » pour justifier le sacrement eucharistique. La fameuse image des
« tessères de bouteilles », du signifiant et du signifié, permet certes de
rapporter le sensible à l’intelligible, et de rattacher le pain à la nourriture,
ou le vin à la vie. Le symbolisme devient cependant le plus souvent un
argument pour justifier le saut, ou à tout le moins la conciliation, du
sensible et de l’intelligible, de l’humain et du divin, réduisant en quelque
sorte l’épaisseur brute de tout être créé. En philosophie pourtant, le
« symbole » n’est pas seulement ce qui unifie, mais ce qui rebute dans son
épaisseur sensible et nous renvoie à ce que nous sommes nous-mêmes –
ce que la théologie gagnerait aussi quant à elle à interroger : « le symbole
s’il est un mur, souligne Maurice Blanchot, c’est alors comme un mur
qui, loin de s’ouvrir, deviendrait non seulement plus opaque, mais d’une
densité, d’une épaisseur, d’une réalité si puissantes et si exorbitantes qu’il
nous modifie nous-mêmes »13. Le symbole eucharistique renvoie ainsi
d’abord à l’épaisseur du corps du Christ, voire à la question de son orga-
nicité comme aussi de la nôtre, plutôt que vers « l’embardée de la chair »
que la philosophie (phénoménologie contemporaine) et la théologie

13 M. Blanchot, « Le secret du Golem », dans Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959,


130-131 : « L’expérience symbolique ».

523
Emmanuel Falque

(sacramentaire symbolique) ont toujours tendance à accomplir. (c) Dans


le cadre de la pastorale enfin, la symbolique du « repas » demeure certes à
retrouver, permettant ainsi de reconnaitre que « nous sommes » aussi le
pain partagé. Reste que l’assemblée, en mode catholique s’entend, ne se
satisfait du seul peuple rassemblé, mais trouve aussi sur la table eucharis-
tique la présence « réelle » de cela même qui est à manger. Le repas ne
se satisfait pas uniquement des convives, mais aussi de ce qui s’y donne
à « boire », ou encore à « manger ». C’est à trop l’avoir oublié qu’on
se serait progressivement détourné de la raison centrale in via de notre
chrétienté : hoc est corpus meum – « ceci est mon corps ».
Relayé par toute une tradition patristique et médiévale, on ne ces-
sera donc pas, aujourd’hui encore, de s’étonner de ce « corps » offert sur
une table pour le banquet. Ce qui hier faisait scandale dans une culture
juive (Jn 6, 56), le demeure aussi dans le cadre latin, et saint Augustin
se fait fort de nous le rappeler : « il semblait que ce fût un délire (furor) et
une folie (insania) de donner aux hommes sa chair à manger et son sang à
boire, s’exclame à juste titre le Docteur d’Hippone dans ses Ennarrationes
in psalmos : […]. Est-ce qu’il ne semble pas qu’il y ait folie à dire : manger
la chair et buvez mon sang ? Et en disant : ‘Quiconque ne mangera pas
ma chair et ne boira pas mon sang, n’aura pas la vie en lui’ (Jn, 6, 54),
Jésus ne paraît-il pas délirer (quasi insanire videtur) ? »14. Une sorte de « que-
relle de la viande » innerve ainsi la philosophie eucharistique, du peintre
Francis Bacon voyant, non sans raison, « des crucifixions dans les bou-
cheries » (Logique de la sensation [Deleuze]), à la position du problème tel
qu’il fut posé par Charles le Chauve au IXème siècle pour être ensuite
solutionné : « ce que la bouche des fidèles reçoit dans l’Eglise, s’interroge
le monarque en son palais, est-ce en mystère ou en vérité» ? « En mystère »
(in mysterio), le corps du Christ sera immédiatement symbolisé, et telle
est ce qui fut la position de Ratramne comme aussi de Béranger. Seule
compte la disposition intérieure de celui qui vient au repas à partager,
mais non pas la consistance de cela qui est donné à manger. « En vérité »
(in veritate) , il est cette fois intégralement et totalement réifié, à l’instar
des décisions de Radbert de Corbie, voire de Lanfranc. Simples « voiles »
du corps et du sang du Christ, les espèces du pain et du vin demeurent

14 Saint Augustin, Enarrationes in Psalmos, I, 33, § 8, dans Œuvres complètes de Saint


Augustin, Vivès, Paris 1871, t. XVI.

524
Eros, corps et Eucharistie

en cela seulement que leur absence pourraient nous rebuter. C’est pour
« ne pas nous effrayer » en transformant le pain en corps ou le vin en
sang, et « afin de ne pas avoir l’air stupide auprès des païens », précise
dans cette veine Thomas d’Aquin en guise de réponse à des objections
dans la Somme théologique, que demeurent les espèces du pain et du vin
lorsqu’elles sont consacrées, et que ne sont pas immédiatement donnés à
contempler, ni à digérer, le corps (viande) et le sang (hémoglobine) du
Seigneur15.
On évoquera certes d’autres raisons, plus fondamentales bien sûr,
pour tenir la permanence des espèces, et en particulier l’épaisseur et la
médiation du créé. Reste que seule la distinction progressive du « corps
véritable » (corpus verus) et du « véritablement corps » (corpus vere) ré-
soudra ce que la querelle n’avait fait jusque là que soulever. Du « corps
véritable » (corpus verus) comme corps historique du Jésus crucifié on ne
saurait bien sûr manger, au risque de sombrer dans un cannibalisme aussi
stupide qu’impossible à supporter. Mais au « véritablement corps » (cor-
pus vere) du Christ ressuscité on doit cette fois communier, pour ne pas
perdre les marques ‘pathiques’ de ce que fut aussi son être incarné. Les
trois corps d’Amalaire de Metz mis a jour par Henri de Lubac dans Cor-
pus mysticum – le « corps immaculé joint au sang » (hostie dans le calice),
le « corps pérégrin ressuscité et mangé » (pain des fidèles), et le « corps
réssuscité et conservé » (réserve eucharistique, adoration, tabernacle) – se
joignent en un seul corps pour former le « Christum totum », dans une
solution de continuité qui ne se satisfait pas non plus de la dévoration
d’une chair dont l’anthropophagie aurait certes de quoi nous rebuter16.
Le symbolisme eucharistique attend donc, aujourd’hui comme hier,
son contrepoint dans le réalisme. A trop insister sur la conscience du
sujet allant communier, autre version du seul « repas partagé », on perd
probablement le sens et la consistance de ce qui est mangé, voire donné
aussi à adorer. Loin de rejeter la « transsubstantiation », ou de la rebapti-
ser de ses faux amis de ‘transsignification’ ou de ‘transfinalisation’, on lui
redonnera l’épaisseur pour laquelle elle fut initiée : « par la consécration
du pain et du vin s’opère le changement de toute la substance du pain et

15 Thomas d’Aquin, Somme théologique, IIIa q. 75, a. 5, resp. (« Les accidents du pain et
du vin subsistent-ils dans ce sacrement ? »), 577.
16 Cfr. H. de Lubac, Corpus mysticum, L’eucharistie dans l’Eglise au Moyen Age, Aubier,
Paris 1941, 305ss : « Le corps triforme d’Amalaire et ses destinées ».

525
Emmanuel Falque

du vin en la substance du corps du Christ notre Seigneur et de toute la


substance du vin en la substance de son sang ; ce changement, l’Eglise ca-
tholique l’a justement et exactement appelé ‘transsubstantiation’ »17.

4. La force du corps

Qu’en est-il alors de la « force du corps », ou plutôt de la possibilité pour


aujourd’hui aussi de dire ce ‘corps-à-corps’, du don de l’organique à de
l’organique d’une part, et de sa modalité érotique d’autre part ? Il ne
faut en effet n’avoir jamais vécu ni la « Cène eucharistique » ni la « scène
érotique », selon un jeu de mots qu’on se gardera cependant de trop
exemplifier, pour ne pas voir que la seconde (scène érotique) éclaire aussi
la première (Cène eucharistique), quand bien même cette dernière ne
s’y réduirait pas ni n’en dira le tout. Ni l’équivocité (Nygren) ni l’uni-
vocité (Marion) de l’éros et de l’agapê, nous y reviendrons, ne suffisent
selon nous à dire le tout d’un amour érotisé, s’il n’est pas en même temps
converti, voire « métamorphosé », dans la charité : « en réalité éros et agapê
– amour ascendant et amour descendant – ne se laissent jamais complè-
tement séparer, souligne l’encyclique Deus est caritas. C’est ainsi que le
moment de l’agapê s’insère en lui ; sinon l’éros déchoit et perd aussi sa nature
même (§ 7) ; mais en même temps, l’éros est ainsi purifié jusqu’à se fondre
avec l’agapê (§ 10) ». S’il y a transsubstantiation, celle-ci dira aussi la trans-
formation de l’humain dans le divin, en même temps qu’elle consacre
le pain pour en faire du « corps », et le vin pour le convertir en « sang ».
La « transsubstantiation » contient certes, la « substance », et avec elle
bien sûr, les fausses accusations de la présence (Heidegger, Derrida, etc.).
Mais à bien comprendre la substance, on saura cependant qu’elle renvoie
à l’« acte d’être » chez Thomas d’Aquin, et à la « force agissante » comme
au « lien substantiel » chez Leibniz18. Un renversement ainsi s’opère, qui
fait du « transsubstantier » non pas le résultat d’une opération qu’un corps

17 Concile de Latran IV (1215), repris par le concile de Trente (1551), « Décret sur le
sacrement de l’eucharistie », in G. Dumeige, La foi catholique, n° 739 (Dz 1642), ch.
IV, 407 : « La transsubstantiation ».
18 Respectivement, Thomas d’Aquin, Somme théologique, Ia, q. 3, a. 4, ad. 2 (être comme
« acte d’être » et comme « copule ») ; et G.W Leibniz, Principes de la nature et de la grâce
fondés en raison (1714), Garnier-Flammarion, Paris 1996, § 1 (La substance comme
« Etre capable d’action »).

526
Eros, corps et Eucharistie

aurait opéré, mais le principe d’une force à même de ‘corporer’. Au prin-


cipe naïf selon lequel « le corps donne la force », il convient de substituer
la découverte spinoziste par laquelle « la force produit le corps ». Le
conatus ou l’« effort pour persévérer dans son être » ne fait pas seulement
effort pour subsister, comme on le croit ordinairement à tort, mais aussi
et surtout pour se diversifier, s’adapter, voire même créer. Nous ne sa-
vons pas « ce que peut le corps » tant que nous n’avons pas laissé au corps
son « propre pouvoir » (Spinoza). La force de la vie fait le vivant, et non
pas l’inverse. L’herbivore le devient aussi à force de se nourrir d’herbe,
et le carnivore à force de se repaitre de sa proie. Loin de nier la nature
ou le monde créé, une telle vision fait voir au contraire combien notre
corps participe aussi à la « force agissante » de Celui qui nous a voulu,
comme aussi désiré19.
Si un ‘primat de la chair sur le corps’ fonde l’embardée de la philo-
sophie contemporaine, nous l’avons souligné, une autre primauté de la
‘faiblesse sur la force’ demeure donc aujourd’hui aussi non interrogée.
Certes l’accueil de l’autre, son visage et sa contre-intentionnalité, font
qu’on ne saurait plus tout maitriser, et laisser au Dasein authentique la
puissance de tout contrôler. Reste qu’à force de « passivité » on oublie
l’« activité », et qu’à trop insister sur les bienfaits de la faiblesse et de la
vulnérabilité, on a progressivement omis les vertus de l’activité comme
aussi de la puissance assumée. Loin du surhomme appelé à tout dépasser,
ou plutôt à se dépasser soi-même, le chrétien n’en demeure pas moins
« fort » de Celui qui vient vers lui se donner, et sa propre « force » à la
Pentecôte aussi lui conférer : « vous allez recevoir une puissance (duna-
mis), celle du Saint Esprit qui viendra sur vous, confie le Christ à ses dis-
ciples lors de sa dernière apparition, et vous serez alors mes témoins » (Ac
1, 7) ; et « avec lui vous avez été ressuscité puisque vous avez cru en la
force de Dieu (energeias tou theou) qui l’a ressuscité des morts », commente
saint Paul aux Colossiens (Col 2, 12).
Ce n’est pas « le corps qui fait l’amour », mais « l’amour qui fait
le corps ». Que ce soit dans l’éros ou dans l’agapê, cette “force” dite de
l’« amour » ou de l’« Esprit Saint » se cherche un corps – que ce soit le corps

19 Cfr. B. Spinoza, Ethique, Vrin, Paris 1983, Livre III, prop. VI, 261 [« L’effort pour
persévérer dans son être » (in suo esse persevare conatur)] ; ainsi que L. III, prop. II, scolie,
251 [« Personne, il est vrai, n’a jusqu’à présent déterminé ce peut le Corps »].

527
Emmanuel Falque

de l’autre (éros) ou le pain eucharistique (agapê) –, sinon pour être, au


moins pour se manifester et s’incorporer : « sanctifie pleinement cette
offrande par la puissance de ta bénédiction […], souligne l’Epiclèse la
première prière eucharistique. Qu’elle devienne pour nous le corps et le sang
de ton Fils bien-aimé, Jésus-Christ, notre Seigneur »20. Le corps à corps
du sacrement eucharistique ne demeure donc pas indifférent à un tel
« partage des forces », comme il en va aussi, nous y reviendrons, de l’éros
conjugal. L’union des corps n’est en effet et pas davantage fusion dans
l’érotique, qu’elle n’est simple unification dans l’eucharistique. L’impé-
ratif de faire « une seule chair » (Gn 2, 24) ne nie pas qu’on demeure
encore « deux corps », bien au contraire. L’amour ne nait pas de la dif-
férence pour ensuite la supprimer, il « est différenciation de deux êtres
qui pourtant ne sont pas absolument différents l’un pour l’autre »21. Dit
autrement, la force de l’un ne disparait pas dans et par la force de l’autre.
Au contraire, elle se ren-force, trouve dans la différence la dimension de
son altérité en même temps que la nécessité de son identité. L’union de
l’homme à la femme le « masculinise » dans la force qui lui est appropriée,
et celle de la femme à l’homme la « féminise » dans la résistance qu’elle
sait lui opposer. L’union des chairs ne se fait pas sans la différence des
corps. Mieux, elle la corrobore. Ce qui est vrai de l’altérité dans l’éros
charnel l’est plus encore de la différenciation dans l’agapê eucharistique :
Ego do corpus meum – Accipio : « je te donne mon corps – Je l’accepte »,
disait-on de façon remarquable en guise de rituel du mariage en Avignon
au XVème siècle, comme pour anticiper dans l’union érotique des corps
ce qu’il en est du hoc est corpus meum – ou du « ceci est mon corps » – du
sacrement eucharistique22.

5. L’éros eucharistié

On ne marquera jamais assez ce qui, en droit, devrait nous éton-


ner ; mais qui, en fait, n’est jamais, ou presque, signalé. Le Christ met

20 Missel Romain. Liturgie de la messe, Tardy, Paris 1976, Première prière eucharistique,
Epiclèse (invocation de l’Esprit Saint), 28.
21 F. Hegel, Leçons sur la philosophie de la religion, Vrin, Paris, III, 1 (« La religion absolue »)
77.
22 Cité et commenté X. Lacroix, « Connaître au sens biblique », in Christus, n° 213
(Janvier 2007).

528
Eros, corps et Eucharistie

paradoxalement le sixième jour au premier jour, transposant la « création de


l’homme et de la femme » en christianisme en lieu et place de la « créa-
tion du ciel et de la terre » en judaïsme. A la question des pharisiens
à Jésus pour le « mettre à l’épreuve » : « est-il permis à un homme de
répudier sa femme » selon « n’importe quel motif » (Mt 19, 3) ou « se-
lon ce qu’a prescrit la loi de Moïse » (Mt 10, 3-4) ?, le Christ répond :
« n’avez-vous pas lu que le Créateur, au commencement (ap’ archês), les fit
homme et femme » (Mt 19, 4), ou encore qu’« au commencement du monde
(apô de arkês ktiseôs), Dieu les fit homme et femme » (Mc 10, 6) ? Sauf
grave faute herméneutique, ce qui ne saurait être le cas sinon de façon
non intentionnelle, un véritable renversement s’opère donc du second
au premier Testament. Là où la Genèse dit qu’« au commencement
(beureshit) Dieu créa le ciel et la terre » (Gn 1, 1), et qu’au sixième jour
seulement il « créa l’homme à son image, à l’image de Dieu il le créa,
homme et femme il les créa » (Gn 1, 27), les synoptiques mettent « au
commencement » (en archê) la différence sexuelle, comme si le sixième
jour venait en christianisme constituer le premier jour, de sorte que « le
masculin et le féminin se révèlent comme faisant ontologiquement partie
de la création, et donc destinés à subsister par delà le temps présent, sous
une forme évidemment transfigurée »23.
Cette inversion, ou plutôt ce renversement dans le calendrier heb-
domadaire de l’Hexaëmeron si bien réglé des six jours de la création,
confère à la différence sexuelle, en christianisme s’entend, un rôle qu’on
ne saurait ignorer. La « différence à l’origine » se tient dès l’origine. Et
c’est à ne pas la marquer qu’on confond l’intention véritable de l’éros,
comme aussi de l’agapê. (a) Requérir le « sens de la limite » comme
dimension principale de notre être créé, (b) faire voir la « signification
humaine de la tension du désir », (c) et laisser à la parole le soin de se dire
dans les « failles de la chair », justifient précisément ce qu’il en est d’une
telle altérité sexuée – dans un sens de l’érotique qui ne sera pas, une fois
encore, sans conséquence pour l’agapê eucharistique.
(a) Dans la fusion des chairs, nous l’avons dit, se renforcent la dif-
férence des corps. Tout vient, et dépend en réalité, de la « limite » que
Dieu donne à Adam pour le circonscrire, voire aussi pour lui apprendre

23 J. Ratzinger, Lettre aux évêques de l’Eglise catholique sur la collaboration de l’homme et de


la femme dans l’Eglise (31 Mai 2004), § 12.

529
Emmanuel Falque

à s’aimer lui-même dans la différence – d’où la création d’Eve, et la dif-


férence sexuelle comme telle : « c’est dans le cadre de ces limites qu’Adam
avait la vie, souligne remarquablement Dietrich Bonhoeffer, mais il ne
lui était pas encore possible d’aimer cette vie dans son caractère limité
[…]. C’est ce qui amène Dieu à procurer à l’être humain l’aide qui de-
vait être à la fois la matérialisation de la limite d’Adam et l’objet de son
amour […]. L’autre constitue la limite que Dieu a établi pour moi, limite
que j’aime et que je ne franchirai pas, à cause de mon amour »24. Loin
de confondre la « limite » et l’« illimité », ce qui à proprement parler
constitue le péché [« vous serez comme des dieux » (Gn 3, 5)], la limite
constitue mon être créé et se doit donc d’être voulue comme aussi dé-
sirée, au risque à l’inverse de ne pas voir ni comprendre que rien n’est
plus à craindre que de franchir les bornes que Dieu lui-même a fixées.
L’homme aimera ainsi sa femme comme sa limite la plus propre et la plus
proche [celle-ci est l’os de mes os et la chair de ma chair » (Gn 2, 23)],
et la femme aussi son homme comme son engendré, et non seulement
l’origine par où elle a été tirée : « si la femme a été tirée de l’homme,
l’homme naît de la femme, et tout vient de Dieu » (1 Co 11, 12).
Ainsi en va-t-il aussi, et nous l’avons pour l’heure seulement sug-
géré, du sacrement eucharistique venu non pas fusionner, mais surtout
« unir en différenciant » – c’est-à-dire aimer. Un paradoxal ‘amour de
la limite’ nous invite en effet à communier. Et la parole du diacre se-
lon laquelle « cette eau se mêle au vin pour le sacrement de l’Alliance,
afin que nous puissions être unis à la divinité de celui qui a pris notre
humanité » (liturgie eucharistique, préparation des dons), ne vient ni dé-
passer ni oublier la commune condition de l’homme, bien au contraire.
Elle la renforce plutôt, et même l’assume, jusque dans le chaotique du
monde et de notre humanité, voire aussi de notre animalité. La « fini-
tude phénoménologique » rejoint ici ce qu’il en est de la « limite théo-
logique », chez l’Aquinate par exemple. Constatée d’un côté (la finitude
chez Heidegger), la limite est désirée de l’autre (la création de l’homme
comme être proportionné à son état chez Thomas d’Aquin) : « tout
ce qui est participé en quelque chose est en cette chose sur le mode de
ce qui participe (est in eo per modum participantis), faut-il rappeler selon

24 D. Bonhoeffer, Création et chute (cours de Berlin de 1932), Petite bibliothèque


protestante (reprise Bayard), Paris 1999, 78.

530
Eros, corps et Eucharistie

l’adage de la proportion limitée chez Thomas d’Aquin, parce que rien ne


peut se recevoir au-delà de sa mesure (quia nihil poteste recipere ultra mensuram
suam) »25.
Loin des perspectives du seul révélé, comme aussi de l’illimité, dont
la phénoménologie contemporaine use le plus souvent de façon non
interrogée, on verra donc dans l’amour de la limite ce à quoi nous ap-
pelle la conjugalité érotique, comme aussi l’agapê eucharistique. Nous
l’avons dit. L’homme est d’autant plus « homme » ou « masculinisé »
lorsqu’il rencontre sa femme, et la femme d’autant plus « femme » ou
« féminisée » lorsqu’elle s’unit à son homme. Ainsi en va-t-il, de manière
paradigmatique, mais en même façon, de la communion eucharistique.
Ceux qui s’approchent de la ‘Table du Seigneur’ habitent d’autant plus
leur humanité dans l’assomption de leur être créé, que Dieu creuse et
mesure l’écart de son être « illimité » à notre propre « limite », que pour
mieux nous y renvoyer. L’amour est différenciation, qui fait la ‘commu-
nion’, à tous les sens du termes (unité et manducation eucharistique).
On n’assimile pas Dieu en soi – avec toutes les fausses présomption d’un
récipient humain capable de le contenir comme aussi de l’enfermer –,
mais on est en quelque sorte ‘incorporé en lui’, à l’instar du prêtre en
guise d’« homme mangé » (l’Abbé Chatrier).
(b) Le « désir », dans l’approche de la Cène (scène), n’est pas alors
de « passion » seulement – au sens à tout le moins passif du ‘pathos’ de la
souffrance et de l’abandon à la mort (vendredi saint [Passeur de Gethséma-
ni]). Il est aussi et surtout « passion » au sens actif cette fois de la tension,
ou encore de la recherche de l’union, comme dans l’éros l’amant part en
quête de l’aimé que pour mieux s’y unifier comme aussi se différencier :
« j’ai désiré d’un grand désir manger cette Pâques avec vous avant de
souffrir » (Lc 22, 15). A la passive réception du ‘souffrir’ (vendredi saint)
précède chronologiquement l’active passion du ‘désir’ (jeudi saint). Un
redoublement du désir le rend ici « anthropogène », pour le dire avec
Hegel dans La phénoménologie de l’Esprit : « le désir est anthropogène (ou

25 Thomas d’Aquin, I Sent., d. 8, q. 1, a. 2, contra 2. Cfr. notre article : « Limite


théologique et finitude phénoménologique chez Thomas d’Aquin », in Revue des
sciences philosophiques et théologiques, Revue du Centenaire, Juil-Sept. (2008) 527-
536 (en particulier p. 549-551 : « L’adage de la proportion limitée »). Thèse dont
on trouvera les répercussions pour aujourd’hui dans Passer le Rubicon, Philosophie et
théologie : essai sur les frontières, Lessius, Paris 2013, § 20, 187-193 : « Le principe
proportionnel ».

531
Emmanuel Falque

générateur d’humanité) et diffère donc du ‘désir’ animal, souligne très


exactement le philosophe dûment commenté par A. Kojève, par le fait
qu’il porte non pas sur un objet réel, positif, donné, mais sur un autre
Désir. Ainsi, dans le rapport de l’homme et de la femme, par exemple, le Désir
n’est humain que si l’un désire non pas le corps mais le Désir de l’autre, s’il
veut ‘posséder’ ou ‘assimiler’ le Désir pris en tant que Désir […] : l’histoire
humaine est l’histoire des Désirs désirés »26.
Ce qui est vrai de la différenciation ‘homme – femme’ (désir du
désir de l’autre plutôt que besoin de le consommer comme aussi de le
détruire), l’est donc aussi, et plus encore, de l’écart et de la différence
‘homme – Dieu’. Le « Désir d’un grand désir » (redoublement du désir)
de manger la Pâques avec ses disciples au soir du jeudi saint fait voir, dans
le Christ et son agapê eucharistique, un désir en quelque sorte « théo-
gène » de se livrer à l’homme, comme se dit aussi dans l’éros un « désir
anthropogène » de se donner l’un à l’autre. Par le Désir bien compris,
tout un chacun devient soi-même : l’homme en tant qu’« homme » vis-
à-vis de sa « femme » (et vice-versa), et Dieu en tant que « Dieu » vis-
à-vis de la création en général (et vice-versa). De l’éros à l’agapê, la
structure n’est pas de parallélisme seulement, ni même d’analogie, mais
d’« incorporation » cette fois de l’amour humain dans l’amour divin.
Le surcroît du Désir dans la communion eucharistique ne transpose pas
l’érotique dans le liturgique, selon des transferts extatiques toujours pour
le moins sulfureux. Il l’entraine au contraire, et l’intègre en lui, en leurs
différences respectives, de sorte que les amants unis se tiennent, chré-
tiennement s’entend, dans « la main de Dieu », à l’instar de la sculpture
du même nom d’Auguste Rodin, où les « époux s’embrassent comme
contenus en Celui qui les enlace »27.

26 A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel (1947), Tel Gallimard, Paris 1993, 13.
Commentaire de G. W. F. Hegel, Phénoménologie de l’esprit, Aubier, Paris, t.
I, (B) « conscience de soi », début de la « dialectique du maître et de l’esclave »,
[« Indépendance et dépendance de la conscience de soi : domination et servitude »],
155-157 : « la conscience de soi est en soi et pour soi quand et parce qu’elle est en
soi et pour soi pour une autre conscience de soi ; c’est-à-dire qu’elle n’est qu’en tant
qu’être reconnu […]. Chaque extrême est à l’autre le moyen terme à l’aide duquel
il entre en rapport avec soi-même […]. Ils se reconnaissent comme se reconnaissant
réciproquement ».
27 Noces de l’agneau, respectivement, cit., 100 et 229 (Triduum philosophique, cit., 442 et
551).

532
Eros, corps et Eucharistie

(c) La parole ne sera alors pas exempte, et enfin, de l’acte éro-


tique comme aussi de l’acte eucharistique. Certes une « promesse » fixe
l’union des époux pour leur donner de s’unir conjugalement. Reste que
le contrat fixé (voire figé) dans le « serment » ne suffira pas selon nous à
nourrir la fidélité, s’il n’est en même temps rapporté à une « fidélité de
la chair » seule à même de le perpétuer. Au « mariage conclu » (matrimo-
nium ratum) correspond toujours le « mariage consommé » (matrimonium
consummatum) pour, dans l’Eglise à tout le moins, être validé. Ce qui est
vrai au jour de l’union des époux doit donc l’être aussi de l’ensemble des
jours, au risque à l’inverse de s’en tenir à un « oui » rapporté à sa seule
contractualité, mais non pas à son accomplissement dans la corporéité :
« la réalisation du mariage se distingue de sa consommation au point que,
en l’absence de cette consommation, souligne Jean-Paul II commentant le
Canon, le mariage n’a pas encore constitué sa pleine réalité. La constata-
tion qu’un mariage a été juridiquement contracté mais non consommé (ratum
– non consommatum) équivaut à la constatation qu’il n’a pas été constitué
pleinement comme mariage »28.
La parole ne se donne donc pas seulement avant l’acte érotique,
comme aussi l’agapê eucharistique. Certes, il est un performatif dont
le « oui parlé » des consentements scelle l’union des époux, comme le
« ceci est mon corps » de la consécration la conversion eucharistique
(théologie sacramentaire fondée sur la performativité du langagier). Mais
l’acte langagier joue aussi son plein rôle après, voir en même temps, que
l’acte de la corporéité, en cela que le parler permet aussi de « dire » ce
que l’éros sexué, ou l’agapê eucharistique, ne sait pas exprimer. S’il est
phénoménologiquement un « bienheureux échec de la chair » dans la
mesure où je ne pourrai jamais « sentir ce que l’autre sent, ou ce qu’il
ressent » (énigme du touchant-touché chez Husserl ou Merleau-Ponty),
dans cette « faille » précisément s’insère le sens du « parler » – soit la
nécessité de dire et d’exprimer à l’autre ce que mon corps, et le corps de
l’autre, ne sauraient à eux seuls signifier. Avoir en soi « les sentiments qui
sont ceux du Christ Jésus » (Ph 2, 5), ou « épouser les états du Christ au

28 Cfr. Jean-Paul II, Homme et femme il les créa, Une spiritualité du corps, Cerf, Paris 2004,
568 [allocution du 5 Janvier 1983]. Cfr. Code de droit canon, can. 1142 : « le mariage
non consommé entre baptisés, ou entre une partie baptisée et une partie non baptisée,
peut être dissous par le Pontife pour une juste cause, à la demande des deux parties ou
d’une seule, même contre le gré de l’autre ».

533
Emmanuel Falque

sacrement de l’autel dans l’eucharistie », revient précisément entrer dans


cette nouvelle dimension d’un langage directement uni à la corporéité,
qui fait que le parler n’est jamais déconnecté de notre être incarné, et de
son pathos qui lui est nécessairement lié29.

***

6. La manence

Une triple hypertrophie marque donc, et à nos propres yeux, les ten-
tatives de l’actuelle phénoménologie, de sorte que s’y prêter pour dire
l’eucharistie ne pouvait suffire à descendre au fonds de notre « abime »
cherchant ici à s’exprimer : le surcroît du « sens sur le non-sens » (en
raison du primat toujours présent de l’intentionnalité), la majoration de
« la chair sur le corps » (pour dire le vécu certes, mais sans mesurer le
poids de l’organicité [l’« inconscient du corps » nietzschéen]), et l’éloge
de « la faiblesse dans l’oubli de la force » (dérives de l’accueil de l’autre
tant systématisé qu’il en devient instrumentalisé). Rejoindre dans l’union
des corps, comme aussi dans la communion eucharistique, notre chaos in-
térieur fait de passions et de pulsions (héritage eucharistique [animalité]),
la puissance du corps à même de tout transformer (contenu eucharistique
[corporéité]), et la concorde des cœurs dans la mesure où ils peuvent se don-
ner (modalité eucharistique [éros]) – tels sont les trois traits du viatique
qu’il convenait de développer. Reste maintenant sa finalité, et probable-
ment ce qui lui donne sens en dernière instance : « qui mange ma chair,
et boit mon sang, demeure (meinein) en moi et moi en vous » (Jn 6, 56).
« Demeurer », la manence, ne le partage en rien avec la seule « perma-
nence », ou l’accusation du « présentifier ». La présence « réelle » ne l’est
pas en cela qu’elle est chosifiée, mais plutôt par là qu’elle est donnée et
attendue pour être consommée, ou mieux désirée. C’est dans la distance

29 Cfr. J.-J. Olier (reprenant Saint Jean Eudes), « Mémoires » (1642-1652), Traité des
Saints Ordres, 1984, t. IV, 123 : « notre Seigneur n’est pas seulement hostie au saint
Sacrement, mais il est aussi communion, en tant qu’il vient nous communiquer ses
sentiments religieux et respectueux qu’il porte à son Père […]. Comme notre Seigneur a
formé son Eglise par le saint Esprit et par l’esprit vivifiant, notre Seigneur maintenant
veut réformer son Eglise en prenant les qualités et les dispositions de l’esprit qui est son état
au très saint Sacrement de l’autel ».

534
Eros, corps et Eucharistie

du désiré, par Dieu lui-même, que le tabernacle prend sens, et l’attente


du corps eucharistique pour être adoré comme aussi mangé. L’« amour
fait le corps », plus que « le corps ne fait l’amour », nous l’avons dit en
raison de “la force qui se cherche un corps”. On attendra ainsi de l’aimé
qu’il nous désire toujours et qu’il nous guette. La manence ou l’acte de
« demeurer » vaut de la finalité eucharistique mais sert aussi de source à
la finalité érotique. La fidélité de la chair, nous l’avons indiqué, prend le
relais de la seule promesse du serment. On demeure en couple comme
on demeure dans l’Eglise – « demeurer en moi et moi en vous » – dans un
corps-à-corps tout autant désiré que fidèle. La « chair » devient « corps »,
ou le vécu de l’autre que je rencontre (chair [Leib]) se meut en simple
objet réifié (corps [Körper]), lorsque précisément je n’entretiens pas ou
plus cette “manence de la corporéité”, dans l’acte de substituer l’intime
à la seule nécessité de cohabiter. Point ne suffit en effet de (se) “parler”
ou de “dire qu’on s’aime” pour s’aimer, – que ce soit dans la liturgie
eucharistique ou dans la relation conjugale. Encore faut-il “consommer”
ce que l’on s’est promis, dans une double fidélité à l’éros comme aussi à
l’agapê : « dans le présent eucharistique », faut-il dire ici avec Jean-Luc Ma-
rion sans néanmoins le rapporter au sacrement du mariage, « tout le reste
y devient apparence pour un regard sans charité : les espèces sensibles, la
conception métaphysique du temps, la réduction à la conscience, tout se
ravale à une figure (ou caricature) de la charité »30.
M’apprendre à « habiter », le monde comme aussi moi-même par
autrui, telle est donc l’ambition de l’eucharistique, comme aussi de l’éro-
tique. Loin de fuir au-delà de mon humanité (angélisme) ou de choir en
deçà de sa limite imposée (bestialité), un « enthousiasme eucharistique »
innerve étymologiquement l’acte de communier, au sens où je suis inté-
gralement incorporé en Dieu (en theos) en qui prend sens, et se convertit
à la fois, mon animalité, ma corporéité, et comme aussi mon acte de
désirer. La « demeure » du corps l’homme est, chrétiennement s’entend,
celle du « corps de Dieu », au sens où, à l’ascension et selon Romano
Guardini, « le christianisme a osé placer le corps (humain) dans les pro-
fondeurs les plus cachées de Dieu »31. Ce qui est vrai de l’eschatologique,

30 J.- L. Marion, « Le présent et le don », dans Dieu sans l’être (1982), PUF, Quadrige
1991, 251-252.
31 R. Guardini, Le Seigneur, Ed. Alsatia, Paris 1954, t. II, 126.

535
Emmanuel Falque

l’est aussi en forme de d’anticipation de l’eucharistique, préfiguré dans


l’union érotique des époux et pleinement accompli dans le viatique eu-
charistique : « frères, demandons à Dieu de bénir ces nouveaux époux
qui vont recevoir ensemble le corps et le sang du Seigneur, souligne magnifi-
quement la ‘bénédiction nuptiale’ au jour du mariage…, et pour qu’en se
donnant l’un à l’autre ils deviennent une seule chair et un seul esprit : donne
leur le corps de ton Fils par qui se réalisera leur unité »32.

32 « Rituel du mariage » (édition française), IVème bénédiction nuptiale, Manuel des


Paroisses, Ed. Tardy, 1992, 140.

536
Anthropotes 33 (2017)

Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

José Granados*

SUMMARY: What is the priest’s relationship with the family? The article
seeks to answer this question, not from the point of view of the priest’s pasto-
ral action, but as a key to understanding his identity. The priest is also, and
above all, a familiar man, whose identity is not found only in himself but in
the relationships in which he lives, in Christ and in the Church. The link
between Eucharist and priesthood will offer the biblical and theological basis for
defending this thesis. From the words of thanksgiving that the priest repeats
(“my body, my blood, for you”), the identity of the priest will be described
in time (narrative identity). He is the man of the most original filial memory,
of the covenant that gives unity to the days of life, of a fruitfulness and new
fatherhood in Christ. Only this “familial” vision of the priest, in turn, allows
us to understand the richness that families are for him and the great mission
that the Lord has entrusted to him with families and for families.

Nel film del regista tedesco Wim Wenders Il cielo sopra Berlino, si raccon-
ta la storia di un angelo che vive dedito all’aiuto della gente. Bisbiglia
buoni consigli all’orecchio delle persone perché siano capaci di amare,
perché dirigano la loro mente verso Dio, perché non perdano la speran-
za… Quest’angelo, si potrebbe pensare, è immagine della vita sacerdo-
tale: ecco uno che non vive per sé, ma per gli altri, che ha rinunciato ai

* Docente di Teologia Dogmatica e Vice Preside del Pontificio Istituto Teologico per
le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, Roma.

537
José Granados

rapporti affettivi della famiglia, per potersi mettere liberamente a dispo-


sizione delle persone.
E tuttavia il film ci fa vedere un problema. Una vita per gli altri, così
come la vive quest’angelo, non è possibile per un uomo, perché non
è appunto una vita umana. L’angelo scopre che qualcosa gli manca: il
corpo e gli affetti, il poter toccare le cose ed essere toccato da esse, la ca-
pacità di discernere i colori e i sapori del mondo; e anche il racconto che
ci associa alla vita di altri; l’incontro con il mondo e gli uomini nella loro
intimità. Nel film, l’angelo scambierà volentieri la sua immortalità per
una vulnerabilità e fragilità che gli consentono di amare1. Non è vero
che solo dal di dentro del tessuto umano è possibile capire la pienezza
delle persone, svegliare la chiamata a una comunione grande, aiutarli a
compiere la loro vocazione?
Se il sacerdote non è definito in contrapposizione alla vita concreta
nel corpo degli affetti e nel tempo della narratività, quale è allora la sua
specificità, quale il suo posto nella comunità degli uomini? È stata questa
una domanda frequente dopo il concilio Vaticano II, e si poneva nel
contesto della discussione sull’identità sacerdotale. La riflessione teolo-
gica ancora cerca la sintesi che permetta di dire al prete, con chiarezza,
chi egli è.
Questo modo di impostare il problema in termini di identità sacer-
dotale risulta ambiguo. In esso si prende il punto di vista della Moderni-
tà: chi sono io, quale è il mio nome, come posso capire me stesso. Ma in

1 Lo scrittore spagnolo dell’Ottocento Juan Valera ha descritto questa difficoltà in un


suo romanzo, in cui racconta l’innamoramento di un seminarista, Don Luis, e una
giovane vedova, Pepita Jiménez. Il seminarista vuole descrivere l’amore che muove
la sua vita, ma usa termini astratti che risultano troppo deboli davanti alla concretezza
dell’altro amore. Ecco un esempio del dialogo tra i due: “Don Luis: [Se mi unisco
a Lei, Pepita] lascio il Creatore per la creatura, distruggo l’opera della mia costante
volontà, rompo l’immagine di Cristo, che era nel mio petto, e l’uomo nuovo, che con
tanta fatica si era formato in me, sparisce perché rinasca l’uomo vecchio … Perché
non ci amiamo senza vergogna, ne peccato, ne macchia? Dio, con il fuoco purissimo
e rifulgente del suo amore, penetra le anime sante e le ripiena… / Pepita: Io neppure
capisco Lei senza di Lei. Per me Lei è la Sua bocca, i Suoi occhi, i Suoi capelli neri,
che voglio carezzare con le mie mani; la Sua dolce voce… tutta la Sua forma corporale
che m’innamora e seduce e attraverso la quale, e solo attraverso la quale, mi si mostra
lo spirito invisible e pieno di misteri… Io amo in Lei, non solo l’anima, ma il corpo,
e l’ombra del corpo, e il riflesso del corpo negli specchi e nel acqua, e il nome e il
cognome, e il sangue, e tutto ciò che lo determina come tale Don Luis de Vargas…
No, io non sono cristiana, io sono idolatra materialista” (J. Valera, Pepita Jiménez,
Madrid, Cátedra 1989).

538
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

quanto questa domanda rimane incentrata sul soggetto stesso, e siccome


il soggetto non possiede il segreto del suo essere, l’unica risposta possibile
è data in termini di funzionalità, magari nella forma di un aiuto dato agli
altri, che non tocca però il segreto centrale della persona.
L’impostazione quindi deve essere un’altra: l’uomo, nel capire se
stesso, è sempre preceduto da un altro, da una presenza e da un dono; è
ricevuto in un ambiente che lo accoglie e gli consente di dare frutto. Da-
vanti a questo dono, il dono di un amore che ci tocca e trasforma, sor-
ge la domanda: come farlo crescere, come può dare frutto abbondante,
come arricchisce la vita degli altri? La domanda sacerdotale è domanda,
come aveva intuito il beato Giovanni Paolo II, sul dono e il mistero, e
su come questo dono e mistero può fruttificare nella vita degli uomini2.
Questo modo di impostare la domanda la mette subito in rappor-
to con l’altro modo della vocazione all’amore, nel matrimonio. Non è
vero, infatti, che gli sposi non si pongono la domanda su se stessi, ma
piuttosto sull’amore che è stato loro dato, e su come questo amore può
mantenersi, crescere, dare frutto?
Come conclusione possiamo allora dire: il sacerdote non è sempli-
cemente un uomo per gli altri; questo eliminerebbe la sua umanità, lo
condurrebbe ad un’esistenza grigia, senza colori, lo definirebbe soltanto
in termini di una funzione. È dal di dentro di una comunione, dall’ap-
partenenza affettiva al mondo e agli altri, che si può capire la vita sacer-
dotale come dono di sé. Il sacerdote può diventare uomo per gli altri,
solo perché egli è uomo dagli altri e negli altri, dall’Altro e nell’Altro.
Il sacerdote comprende se stesso all’interno di una rete di relazioni,
nel capire il dono che gli è stato offerto, nel cercare il modo in cui que-
sto dono può rendersi fecondo. Siccome è nella famiglia che s’impara
la logica del dono, dove l’affettività svela un amore che ci accoglie e ci
promuove, possiamo allora dire: soltanto se s’illumina l’essere sacerdotale
a partire dal suo rapporto con la famiglia, può apparire con chiarezza il
senso del ministero sacerdotale.
La formazione su matrimonio e famiglia per il sacerdote, importan-
te per comprendere il suo essere sacerdote, aiuta anche a capire la sua
missione con le famiglie. Queste due dimensioni (l’essere familiare del
sacerdote stesso, il suo aiuto alle famiglie) sono inseparabili: solo se il

2 Cfr. Giovanni Paolo II, Dono e mistero. Diario di un sacerdote, LEV, Roma 2011.

539
José Granados

sacerdote ha a che fare nel suo centro con la vita familiare, solo così può
anche portare una luce per la famiglia, una luce che venga dal di den-
tro del suo vissuto sacerdotale. Altrimenti la sua parola sarà confrontata
sempre dall’obiezione: come può parlare di famiglia un uomo che non
ne ha? E invece, se egli è anche homo familiaris, porterà in sé per altri il
fuoco vivo dell’esperienza familiare3. La sua parola sarà parola nata dal
di dentro della sua esperienza, anche se in un modo nuovo, e potrà illu-
minare elementi diversi dell’esperienza degli sposi.
Per studiare la questione possiamo cominciare con diversi videtur
quod non, con difficoltà contrarie alla nostra proposta. a) La prima si rife-
risce ai fondamenti teologici e biblici. Non è esagerato dire che il sacer-
dozio, secondo la Bibbia e la tradizione, secondo le fonti della teologia,
ha una dimensione sponsale e paterna, ha una dimensione familiare?
Tanti studi biblici sul sacerdozio usano appena le categorie familiari per
descrivere il ministero. La tradizione ha preferito, per esempio, adope-
rare l’immagine del buon pastore4. Siamo allora davanti ad esagerazioni
teologiche la cui altezza non corrisponderebbe alle fondamenta dell’edi-
ficio? b) La seconda difficoltà riguarda il vissuto concreto di queste di-
mensioni familiari: paternità spirituale, sponsalità verso la Chiesa… non
è tutto questo in fin dei conti un’astrazione? Non sono parole belle che
non corrispondono con la realtà solitaria della vita sacerdotale? c) Pos-
siamo aggiungere, in terzo luogo, che questa connessione con la vita
familiare può non sembrare così essenziale. Non rischiamo di diminuire
l’ampiezza del sacerdozio usando delle categorie, come quelle familiari,
che non sono adatte per la vita pubblica di oggi, che tendono ad isolare
l’uomo nella sfera degli affetti?

3 Questo contributo versa sulla dimensione sponsale e generativa del ministero


presbiterale. Tuttavia, sarebbe necessario allargare il titolo per dire: dimensione
familiare del ministero presbiterale. In questo modo si includono le dimensioni filiale e
fraterna, senza di cui no si possono capire le altre. Solo nell’intreccio di questi rapporti
si chiarisce l’identità del sacerdote come homo familiaris.
4 Cfr. H.U. von Balthasar, „Der Priester im Neuen Testament“, in Geist und Leben
43 (1970) 39-45. In questo articolo Balthasar trova i fondamenti del sacerdozio
cristiano nel Nuovo Testamento tramite l’immagine del pastore, in continuità con
il sacerdozio dell’Antico Testamento. I termini cultuali in riferimento al sacerdozio,
secondo Balthasar, si applicano sempre prendendo distanza dall’Antico Testamento, e
non esprimono la distinzione tra il sacerdozio dei fedeli e il sacerdozio ministeriale.
L’immagine del pastore serve di connessione, invece, tra Antica e Nuova Alleanza, e
stabilisce la differenza tra il sacerdozio dei fedeli e quello ministeriale.

540
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

Malgrado queste difficoltà il recupero della dimensione familiare del


sacerdozio mi sembra urgente per capire e vivere in pienezza il mini-
stero5. Cercherò di mostrare come la nostra situazione culturale e il
nostro momento ecclesiale non diminuiscono la necessità di mettere in
rapporto vita sacerdotale e vita familiare, ma rendono più urgente questo
compito. È a questa situazione che voglio rivolgermi in primo luogo.
In seguito studierò in più profondità le radici bibliche che permettono
questa prospettiva e ne spiegherò il significato concreto, soffermandomi
successivamente, in chiave narrativa, sulla filiazione e fraternità, la spon-
salità, la paternità.

1. Identità sacerdotale dopo il Vaticano II

Il Vaticano II non conosce grandi discussioni sul tema del sacerdozio.


La crisi sull’identità sacerdotale è scoppiata soltanto dopo6. Durante il
Concilio il grande tema della discussione era la figura del vescovo. Si
pensava: la questione del presbitero è stata risolta a Trento; quella del
Papa al Vaticano I; tocca adesso chiarire il ruolo dell’episcopato. Sem-
brerebbe dunque che il tema del sacerdozio non era toccato dai lavori
conciliari. Invece, il post-concilio e la grande crisi nell’identità sacerdo-
tale che ha portato ci mostra che questo non era così. La vita sacerdo-
tale aveva bisogno di una riflessione singolare, ed è stata grandemente
influenzata dalla visione del Concilio. Possiamo dire che il Concilio ha
illuminato in modo indiretto la concezione del sacerdozio, nell’ illumi-
nare l’essere e la missione della Chiesa.
La questione principale del Concilio consisteva nel rapporto della
Chiesa con la Modernità. L’apertura della Chiesa era possibile anche
perché presupponeva l’autocritica che la Modernità aveva fatto di sé
stessa lungo l’ottocento e il novecento7. La risposta del Vaticano II non

5 Al riguardo cfr. A. Miralles, “La unidad esponsal entre Cristo y la Iglesia y su


proyección en los sacramentos del Bautismo, Orden y Matrimonio”, en P. Rodríguez
(ed.), Pueblo de Dios, cuerpo de Cristo, templo del Espíritu Santo (Implicaciones estructurales
y pastorales en la “communio”): XV Simposio Internacional de Teología de la Universidad
de Navarra, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1996,
387-396.
6 Cfr. G. Colombo, Teologia sacramentaria, Glossa, Milano 1977.
7 Cfr. Benedetto XVI, Discorso alla curia romana, 22 Dicembre 2005.

541
José Granados

è stata quella di capire il mondo come opposto alla Chiesa, per dire che
la Chiesa, fin adesso isolata, dovesse andargli incontro. Invece, la Chiesa
è entrata più profondamente nelle sue radici, nella comprensione del
mistero di Cristo, perché soltanto così era possibile un dialogo pieno con
il mondo, dato che Cristo, nella sua Incarnazione, ha abbracciato tutto
l’umano. A partire da Cristo il Concilio sviluppa un’antropologia che
supera l’individualismo della Modernità includendo le giuste aspirazioni
del tempo moderno; è un’antropologia relazionale fondata sull’amore
del Padre manifestato da Gesù.
Prima del Concilio il sacerdote aveva certezza della sua missione
all’interno della Chiesa capita come società perfetta. Questo gli permet-
teva di vivere la sua identità in modo sociale e relazionale. Tuttavia,
restava sempre senza collegarsi e confrontarsi con la visione del mondo
moderno; la mancanza di questa relazione impoveriva la sua missione e
la sua comprensione di sé8. Dopo il Concilio la Chiesa ha cercato di
impostare in altro modo il rapporto con il mondo moderno. Appunto
perché il sacerdote dipende dall’identità ecclesiale davanti al mondo, e
perché questo è stato il punto centrale trattato dal Concilio, era allora
normale che la posizione del sacerdote fosse messa in questione.
Il problema si è aggravato per la sua connessione con il problema
generale della crisi d’identità dell’uomo moderno. Il sacerdote doveva
impostare il suo problema come problema di identità in un mondo in
crisi di identità. C’era il rischio di capire il Vaticano II come un andare
verso il mondo, come adattamento ai tempi, senza criticare i principi
autonomi e isolati che derivano dalla modernità. Si cercava allora di
comunicare il contenuto cristiano con un linguaggio e una grammatica
che erano stati costruiti al margine della fede, mosse da una logica di au-
tonomia individualista. Questo tentativo, tuttavia, non poteva riuscire,
perché per comunicare la sua parola, il Vangelo ha bisogno di trasfor-
mare (approfondendo e illuminando) non solo il contenuto, ma anche il
linguaggio e la grammatica della nostra esperienza.
Nella misura in cui il sacerdote è definito radicalmente in modo
relazionale a partire da Gesù, il concetto moderno di libertà come

8 Questo è stato negativo per la società: privata del riferimento del sacerdote, si è perso
anche un immagine essenziale per dire la trascendenza della figura paterna. Al riguardo,
cfr. J. Granados, “Il sacerdozio: un sacramento del Padre”, in Communio 22 (2009)
20-36.

542
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

autonomia tocca più direttamente il centro della sua vita. Al sacerdote


manca il posto in un mondo di individui senza relazioni, perché lui è
definito totalmente a partire dalla sua relazione in Cristo e nella Chiesa
(in persona Christi, in persona Ecclesiae). Ecco perché la sua figura è stata
coinvolta con più forza nella crisi postconciliare.
È nella risposta complessiva del Vaticano II che si deve trovare la
chiave per la domanda sul sacerdozio. L’approccio dell’ecclesiologia di
comunione indica in questa direzione9. Il Concilio ha trovato nella
definizione della Chiesa come communio una chiave feconda di lettura. Il
cristiano vive in Cristo un rapporto nuovo che viene da Dio e che fon-
da l’amore tra gli uomini. Ogni vocazione è capita all’interno di questo
dono primigenio della communio. Dato che questa comunione non allon-
tana dal mondo, ma sveglia i rapporti originari dell’esistenza umana, si
può fare di essa anche il fondamento della proposta sociale della Chiesa.
Per approfondire il rapporto del sacerdote con questa communio possia-
mo seguire una strada concreta: considerare il vincolo del sacerdote con
l’Eucaristia, da dove nasce la comunione ecclesiale. L’ecclesiologia di
comunione è infatti un’ecclesiologia eucaristica10.

2. Radice sacerdotale: l’Eucaristia

Si propone di solito l’immagine del Buon Pastore per parlare del sacer-
dote. La perfezione della vita sacerdotale consiste infatti nella perfezione
della carità pastorale11. Secondo Hans Urs von Balthasar l’immagine del
pastore è quella migliore per descrivere il sacerdozio, perché assicura la

9 Cfr. Giovanni Paolo II, Es. Ap. Pastores Dabo Vobis, 12: “Non si può allora definire
la natura e la missione del sacerdozio ministeriale, se non in questa molteplice e
ricca trama di rapporti, che sgorgano dalla Santissima Trinità e si prolungano nella
comunione della Chiesa, come segno e strumento, in Cristo, dell’unione con Dio e
dell’unità di tutto il genere umano. In questo contesto l’ecclesiologia di comunione
diventa decisiva per cogliere l’identità del presbitero, la sua originale dignità, la sua
vocazione e missione nel Popolo di Dio e nel mondo”.
10 Cfr. J. Ratzinger, Kirche, Ökumene und Politik: neue Versuche zur Ekklesiologie, Johannes
Verlag, Einsiedeln 1987, capitolo I.
11 Cfr. Giovanni Paolo II, Es. Ap. Pastores Dabo Vobis, 23: “Il principio interiore, la
virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo
Capo e Pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù
Cristo: dono gratuito dello Spirito Santo, e nello stesso tempo compito e appello alla
risposta libera e responsabile del presbitero”.

543
José Granados

connessione tra l’Antico e il Nuovo Testamento, e anche stabilisce la


differenza tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio dei fedeli12. È vero
che nel Nuovo Testamento c’è anche una novità: appare il rapporto
affettivo del Pastore con le pecore; il dare la vita, il conoscere per voce
e per nome. In questa luce Sant’Agostino ha spiegato l’immagine del
Buon Pastore come amoris officium, l’officio dell’amore, che significa una
capacità di patire per le pecore (Commento al Vangelo di Giovanni 123,5).
Come ha scritto anche Giovanni Paolo II nella sua esortazione Pastores
Dabo Vobis, n. 23: “il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono
di sé, il totale dono di sé alla Chiesa, ad immagine e in condivisione con
il dono di Cristo”. La missione sacerdotale è definita allora per un tipo
concreto di amore; così si vede bene che la sua identità è relazionale. In
quanto quest’amore riceve gli altri come un dono del Padre e dona la
vita per essi, fa riferimento a esperienze basilari dell’amore che trovano
corrispondenza nei tipi di amore familiare (filiale, sponsale, generati-
vo…). Troviamo qui un primo elemento per collegare sacerdozio e vita
familiare.
Nuovi elementi sul significato di questo rapporto appaiono quando
consideriamo l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. Nel Nuo-
vo Testamento il sacerdozio ministeriale è descritto per primo, secondo
l’apostolo Paolo, come quello di far presente in tutti i momenti della
vita l’offerta di se stesso di Gesù al Padre e per gli uomini13. Il rapporto
del sacerdote con l’Eucaristia non appare ancora in primo piano negli
scritti del Nuovo Testamento14. Ci sono tuttavia elementi centrali che
collegano l’Eucaristia con un sacrificio sacerdotale. Si tratta singolarmente

12 Cfr. H.U. von Balthasar, „Der Priester im Neuen Testament“, cit.


13 Cfr. H. Schlier, „Grundelemente des priesterlichen Amtes im Neuen Testament“, in
Theologie und Philosophie 44 (1969) 161-180.
14 Cfr. H. Schlier, “Grundelemente des priesterlichen Amtes im Neuen Testament”,
cit., 175: „Einer freilich besagt dieser Befund: nach dem NT wird das Amt des
presbuteros und episkopos nicht erst dadurch ein priesterliches, dass es das Opfer Christi
speziell in der Eucharistie vergegenwärtigt. Primär besteht der priesterliche Dienst
darin, dass einer, der dazu beauftragt und dem die Verantwortung für die gesamte
Gemeinde übertragen ist, in allem seinem Tun den priesterlichen Dienst Jesu Christi,
seine Hingabe, vergegenwärtigt, das “Für uns” Christi in Wort, Zeichen und Existenz
begegnen lässt. Es brauchte eine Weile, bis sich die Eucharistie als die innerste und
objektivste Vergegenwärtigung des Opfers Christi und als das letzte Konstitutivem
für die Oikodome der Ekklesia erwies. Aber die Reduzierung auf diese Weise der
Vergegenwärtigung des priesterlichen Dienstes Christi ist nicht dem Gespräch mit
dem NT entsprungen“.

544
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

della parola di Gesù sul calice (la nuova alleanza nel mio sangue) e del-
la parole sul pane, perché il corpo si riferisce al sacrificio dell’agnello
pasquale15. Le parole di Gesù spiegano la sua morte come sacrificio e
come pienezza dei sacrifici dell’alleanza. È necessario allora capire in
profondità l’offerta eucaristica di Cristo, edificata sulla visione sacrificale
dell’Antico Testamento.
Or bene, il sacrificio dell’agnello è collegato in Isaia al Servo soffe-
rente, che offre la sua vita in espiazione per molti; in questo senso il cor-
po dell’agnello è identificato con il corpo del profeta, luogo dei rapporti
nuovi nel popolo e con Dio. La morte espiatoria significa la capacità di
morire per altri, di abbracciare e sostituire altri. L’Eucaristia presuppone
dunque la visione della personalità corporativa di Israele: le persone non
sono soggetti isolati, ma abitano in relazione, i loro destini si apparten-
gono mutuamente ed è possibile che uno porti su di sé il destino di altri.
Si noti che la personalità corporativa non è un’astrazione, ma poggia
sull’esperienza familiare di mutua appartenenza: i figli appartengono ai
genitori e portano avanti il loro destino, così come assumono la loro
eredità; e, come base di questa generazione, l’uomo e la donna appar-
tengono insieme alla stessa carne. Questo non significa in nessun modo
una dissoluzione dell’individuo: più si è in relazione, più uno diventa se
stesso, come membro del Popolo. Così si potrà dire che tutto il popolo
è stato tagliato, come una pietra, del cantiere che è Abramo, in unione
con Sara (cfr. Is 51,1-2).
Due sfondi appaiono per concretizzare il valore di quest’identifi-
cazione del corpo. Il primo è dato dal sacrificio di Abramo, secondo
la visione de l’aqédah nei Targumim. Isacco, legato dal padre, docile per
offrirsi al sacrificio, diventa capace di espiare per i peccati di tutto il Po-
polo16. Questa dimensione filiale e fraterna del sacerdozio appare dopo
nella lettera agli Ebrei, nella connessione di una stessa origine e anche di
una primogenitura capace di donare vita (cfr. Eb 2, 10-18)17.

15 Cfr. J. Jeremias, Die Abendmahlsworte Jesu, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen


1967.
16 Cfr. L. Sabourin, « Sacrifice », en Dictionnaire de la Bible. Supplément, Paris 1985, vol.
10, cc. 1508–1509.
17 Cfr. A. Vanhoye, “La novità del sacerdozio di Cristo”, in La Civiltà Cattolica 149
(1998) 16-27.

545
José Granados

Il secondo sfondo si collega alla sofferenza dei profeti, simbolizzata


nel rapporto sponsale, che rappresenta il dolore di Dio per i suoi. In
questa luce si promette la nuova alleanza nello Spirito; ecco lo sfondo
delle parole di Gesù sul calice. Efesini prende quest’immagine sponsale
quando parla della visione dell’eucaristia come un alimentare la propria
carne, quando il marito si prende cura della moglie (Ef 5,29)18. Il libro
dell’Apocalisse, nel parlare delle nozze dell’agnello (Ap 21,10) contiene
il legame tra il sacrificio di Gesù e il rapporto sponsale.
La personalità corporativa genera legami che danno struttura alla sto-
ria, di generazione in generazione. Anche l’Eucaristia, sacramento di un
corpo che si consegna “per noi”, è un sacramento che traversa il tempo. In
esso troviamo innanzitutto una memoria, che passa dai genitori a figli nel
contesto del rito. Israele ricorda ogni anno il primo rito, e così partecipa
alla stessa esperienza dei padri nella liberazione dall’Egitto. L’Eucarestia di-
venta allora promessa, alleanza che tiene insieme i tempi, e che nell’Antico
Testamento segue l’immagine profetica dell’alleanza nuziale. Per ultimo,
quest’alleanza si fa attesa di un futuro nuovo, della venuta definitiva del
regno del Messia, il figlio che Israele genera e attende come ultima bene-
dizione divina, come compimento escatologico del tempo.
Possiamo dire che l’Eucaristia, nell’assumere il linguaggio e il vissuto
dell’Antico Testamento, assume anche i diversi rapporti familiari, i modi
in cui l’altro si fa presente tramite un rapporto corporale e tramite il rac-
contarsi di una storia. Contemporaneamente, questo linguaggio è elevato
a una nuova misura, quella vissuta da Gesù e dei nuovi rapporti da lui
inaugurati19. Come Figlio, Gesù vive una piena memoria filiale, porta con
sé la definitiva promessa sponsale, e inaugura una fecondità che genera vita
eterna20. Tutti questi rapporti sono vissuti da Gesù ad un livello definitivo
e insuperabile, perché ci fanno entrare nel rapporto di Dio stesso.

18 Cfr. H. Schlier, „Grundelemente des priesterlichen Amtes im Neuen Testament“,


cit.
19 Sul rapporto Eucaristia – matrimonio, cfr. quanto indicato da Colombo, Teologia
sacramentaria, cit., 542: “Se infatti il matrimonio, in quanto sacramento è una funzione
del “Regno”, e se, d’altra parte, il “Regno” si compie per la presenza di Gesù Cristo,
la relazione fra il matrimonio e l’eucaristia appare necessaria ed evidente: l’eucaristia
è infatti per eccellenza il sacramento della presenza di Gesù Cristo. Con una formula
riassuntiva, si deve concludere che nell’economia cristiana il matrimonio è una
funzione dell’eucaristia”.
20 Notiamo che centrare la vita sacerdotale attorno all’Eucaristia non significa ridurla a un
momento isolato. Questo perché l’Eucaristia è il momento simbolico che sintetizza la

546
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

L’ordine sacerdotale è al servizio di questo nuovo ordo amoris istituito


da Gesù. Nella consegna corporale di sé, Gesù si trova, non solo insie-
me alla Chiesa davanti al Padre (analogia del corpo organico), ma anche
davanti alla Chiesa, nella differenza del corpo (analogia del corpo inter-
personale, secondo l’ordine dell’amore). Questo può applicarsi ai diversi
rapporti familiari assunti da Cristo: essendo Figlio con i figli, Gesù è
anche fratello primogenito con gli altri fratelli, sposo con la sposa, padre
con quelli generati per Dio in lui. È in quanto rappresenta a Cristo nello
stare di fronte alla Chiesa che trova il suo posto il sacerdozio ministeriale.
Capiamo così che l’ordine, nella Chiesa, non è soltanto l’ordine
che viene dall’alto in basso, un ordine che dall’anima scenda sul corpo.
L’ordine deriva piuttosto dal corpo di Cristo, è l’ordine iscritto nella sua
corporalità e storicità concreta, nei suoi rapporti; è l’ordine proprio del
suo amore incarnato. Non è semplicemente l’ordine dello Spirito che
si fa visibile nella carne, ma piuttosto l’ordine che permette alla carne
di aprirsi alla discesa piena dello Spirito. Si può vedere così un rapporto
tra il sacramento dell’ordine e l’ordine dell’amore di cui è testimone
la famiglia. È interessante quest’obiezione che si poneva la tradizione
medievale: l’ordine della Chiesa sarebbe contrario al vangelo, perché
supporrebbe un potere degli uni sugli altri. La risposta consisteva in un
riferimento ad un sottomettersi che è servizio, usando la stessa espressio-
ne adoperata da San Paolo quando si rivolge agli Efesini sul matrimonio:
siate sottomessi l’un l’altro nel timore di Cristo (Ef 5, 21)21.
Possiamo allora concludere: nella misura in cui il sacerdozio nasce
dall’Eucaristia e in cui l’Eucaristia ha coordinate familiare, sarà possibile
trovare anche una dinamica familiare nella vita del sacerdote, sempre
secondo l’esperienza familiare di Gesù22. Quale strada seguire per illu-

consegna di sé di Gesù nel tempo intero della sua vita. Lasciandoci l’Eucaristia, Gesù
ha lasciato il segreto della sua consegna, che solo poteva capirsi pienamente nella forma
di un rito. Se pensiamo anche che la Chiesa nasce dall’Eucaristia, la connessione del
sacerdote con quest’ultima, serve a trovare anche il suo posto giusto nella Chiesa. Sulla
connessione tra Eucarisita e tempo, Cfr. G. Angelini, Il tempo e il rito alla luce delle
Scritture, Cittadella, Assisi 2006.
21 Cfr. San Tommaso, In IV Sent., d. 24, q. 1, a. 1, sol. 1 (ed. Parma, 888).
22 Certo, è importante trovare un giusto paradigma familiare, che non sarà quello della
famiglia affettiva, o della famiglia slegata dal sociale, ma quello della famiglia che sa di
puntare al di là, verso un compito sociale ed ecclesiale, e di dover essere trasformata in
una pienezza. Appunto la connessione con il sacerdozio aiuterà la famiglia a compiere
questo passo.

547
José Granados

minare, a partire del rapporto tra Eucaristia e sacerdozio, la dimensione


familiare del ministero? La chiave è data dal modo concreto in cui l’Eu-
caristia si rapporta all’ordine del corpo e del tempo.
Si potrebbe pensare: il sacerdote è l’uomo dello spirito, non della
carne; è l’uomo dell’eternità, non del tempo; è l’uomo della solitudine,
non della comunione. Tuttavia, la prospettiva cambia quando guardia-
mo le cose dal punto di vista eucaristico. L’Eucaristia ci offre la misura
di un corpo e un tempo pieni, nell’apertura di Gesù al Padre e ai suoi.
Per questo, essendo l’uomo dell’Eucaristia, il sacerdote è l’uomo che, nel
corpo e nel tempo, trova un nuovo modo di vivere i rapporti. La con-
nessione con l’Eucaristia aiuta il sacerdote a capire la sua corporalità e la
sua storia concreta, intrecciata con la storia concreta degli uomini. Col
carattere del sacramento il sacerdote riceve una nuova corporalità, che lo
fa capace di rappresentare la presenza di Cristo come Capo nella Chiesa.
Nel suo romanzo Il potere e la gloria, Graham Greene ha raccontato
la storia di un sacerdote messicano, debole e peccatore che, malgrado
tutto, e a rischio della sua vita per la persecuzione rivoluzionaria, resta
fedele alla sua missione. Questo sacerdote indegno, chiamato da tanti Pa-
ter Whiskey per la sua affezione a bere, si rende conto che c’è un mistero
grande nella sua vita, ed è questo che lo fa continuare nel suo ministero.
Egli sa che esce da lui, tramite il suo sacerdozio, una forza capace di
toccare gli uomini e trasformarli. Resta chiaro allora che la sua vita non
è questione prima di tutto di eroicità personale nella generosa dedizione
per gli altri, ma di un essere preso da un potere che agisce attraverso il
suo corpo e la sua storia concreta, per trasformare il mondo e gli uomini
dal di dentro, toccando appunto le loro ferite. Nel suo dialogo con il
capo comunista che lo fa prigioniero, il sacerdote spiega che, appunto
per questa condizione incarnata del sacerdozio, la Chiesa è capace di
perdurare nel tempo, di accompagnare la storia degli uomini; mentre il
successo dell’ideologia dell’altro dipenderà solo della volontà di viverla
degli uomini più convinti, e sarà troppo fragile per costruire una storia
prolungata.
Il rapporto del sacerdote con il corpo e il tempo, offerto dall’Euca-
ristia, ci aiuterà a capire i vincoli interpersonali in cui egli vive alla luce
dell’amore familiare. Nelle parole dell’istituzione troviamo la chiave per
capire la storia del sacerdote nel corpo e, quindi, il suo modo di vivere

548
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

le relazioni. La narrativa fondamentale del sacerdote è la narrativa euca-


ristica, che immette il sacerdote nel ritmo vitale di Gesù23. “Prendete e
mangiatene tutti, questo è il mio corpo…” “Prendete e bevetene tutti,
questo è il calice del mio sangue, sangue dell’alleanza nuova ed eterna…”
“Fate questo in memoria di me…” Ecco perché la narratività sacerdotale
si può capire secondo le tre dimensioni essenziali del tempo eucaristico:
la memoria, che considera il passato; la promessa o alleanza, che allarga
e collega i momenti presenti; la fecondità, che aiuta a vedere con gioia e
speranza il futuro24. Queste tre dimensioni del tempo si possono collega-
re con tre dimensioni della vita familiare: memoria e filiazione, promessa
e sponsalità, paternità e fecondità.

3. Uomo di memoria: filiazione e fraternità

La prima dimensione narrativa del sacerdote è la sua memoria. Ricordia-


mo che la memoria è essenziale nella vita familiare. Gli sposi ricordano
continuamente l’inizio della loro strada alimentando così una memoria
comune. Inoltre, nella loro unione coniugale si apre un luogo alla me-
moria del Creatore, tramite i loro corpi che Dio ha donato loro, per
riceversi e affidarsi l’un l’altra. In fine, per il figlio, i genitori sono la me-
moria prima, memoria che rimane nel suo corpo, memoria che richiama
l’atto creatore di Dio.
Ecco che il sacerdote, tramite la sua unione all’eucarestia, memoriale
della morte e risurrezione di Gesù, appare come uomo di una memoria
profonda. Il sacerdote attua il memoriale della consegna di Gesù per noi
e diventa così testimone che all’origine della vita c’è una chiamata e un
dono, quello di Gesù per noi. In questo modo ricorda sempre agli sposi
l’amore che è fondamento della loro promessa sacramentale, l’amore che
permette di generare i figli per una vita eterna.
Questa memoria dell’amore di Gesù guida il sacerdote alla parteci-
pazione nella memoria che Gesù stesso ha avuto. Il Maestro coltivava una
memoria filiale, perché ricordava continuamente la sua origine in Dio

23 Cfr. R. Sokolowski, Eucharistic Presence. A Study in the Theology of Disclosure, Catholic


University of America, Washington, D.C. 1994, 15-16.
24 E. Sauser, „Die Auswahl und ‘das Ganze’ im Leben des Priesters“, in Erbe und Auftrag
64 (1988) 141-145.

549
José Granados

Padre. L’Eucarestia si descrive infatti come todá, sacrificio di azione di


grazie, in cui si loda Dio per un grande dono25. La novità del sacrificio di
Gesù riguardo l’Antico Testamento è che il dono per cui egli ringrazia
non è ancora arrivato, perché solo lo riceverà nella vita nuova della risur-
rezione. È come se Gesù dicesse: ti ringrazio per un dono così radicale,
che mi permette di sperare in fiducia qualsiasi altro dono; la mia è una
memoria così profonda che anticipa ogni futuro, anche quello più diffi-
cile e oscuro della morte. La memoria diventa garanzia di una vita amata
dal principio, capace di avere fiducia totale nell’avvenire. Ecco un senso
importante in cui si può parlare di sacerdote secondo il cuore di Gesù.
Nella Bibbia il cuore è il luogo della memoria, dove possiamo imparare
che la nostra esistenza è ricevuta da altri. È qui che comincia l’essere “pa-
store secondo il suo cuore” (cfr. Ger 3, 15) perché, come scriveva Paul
Valéry, alla fine della sua vita: “Il cuore consiste in dipendere”26.
Si capisce così che la memoria, prima di essere un atto nostro, è un
atto del Padre, è un essere collegati a Dio come Origine. È Dio che si
ricorda di noi, perché ci unisce continuamente alla nostra Origine in
Lui; e solo così possiamo noi anche ricordare Dio. La nostra memoria
è preservata in una memoria più grande, quella divina, che ci riassicura
contro la paura di dimenticare. Si trova in questo il fondamento della
preghiera costante che alimenta la vita del sacerdote, come ricordo di
Dio nell’essere ricordati da Lui.
La lettera agli Ebrei vede il sacerdozio di Cristo nella prospettiva della
filiazione, a cui quella complementaria della filiazione. Le categorie di
figlio e di fratello sono chiave nella visione del sacerdozio di Gesù, da cui
procede il sacerdozio di tutti i cristiani. L’Antico Testamento è testimo-
ne del rapporto tra la fraternità e l’incontro con Dio. Essere fratelli vuol
dire avere uno stesso rapporto con quell’Origine che ha generato la vita;
avere, dunque, una memoria comune. La chiave della fratellanza è vede-
re nel fratello, non un ostacolo per il mio rapporto con l’origine, ma un
altro modo in cui l’origine mi si dona, in cui mi arriva la sua benedizio-
ne. Il sacerdote è chiamato a testimoniare una fraternità che condivide
il bene essenziale di Dio, della sua memoria, un bene inesauribile che

25 Cfr. A. Vanhoye, Dio ha tanto amato il mondo. Lectio divina sul “sacrificio” di Cristo,
Paoline, Milano 2007.
26 Cfr. P. Valéry, Cahiers, XXIX, 908-909.

550
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

più si fa grande quanto più si mette in comunione. Ricordiamo a questo


riguardo come Giacobbe, che ha cercato il volto di Dio nella lotta con
lui, riconosce dopo, nel suo fratello, questo volto, nel momento della
riconciliazione: “ho visto il tuo volto benevolo ed era come vedere il
volto di Dio” (Gen 33,10)27.
Cristo si presenta come fratello maggiore secondo l’immagine ve-
terotestamentaria della benedizione che passa da lui agli altri: “eccomi e
i figli che Dio mi ha donato” (Eb 2, 12). Ogni fratello è diverso e, allo
stesso tempo, procede dalla stessa origine. Questa differenza all’interno
della fraternità segna il rapporto di Cristo con gli uomini. Nel ruolo
del primogenito, tramite cui arriva la benedizione agli altri, si colloca il
sacerdozio ministeriale nella sua particolare conformazione con Cristo
capo28.
La preghiera eucaristica del canone romano raccoglie questa dimen-
sione filiale e fraterna del sacerdozio quando parla dei doni di Abele, il
giusto (fraternità nuova in Gesù), il sacrificio di Abramo, nostro padre nel-
la fede (filiazione che si apre a una nuova paternità, come irradiazione
dell’origine ultimo di tutto in Dio), e l’oblazione pura e santa del tuo sommo
sacerdote Melchidesech (Eb 7, 3: “senza padre, senza madre, senza genealo-
gia”; perché la filiazione è trasformata e rinnovata in Gesù).
In questa luce il sacerdote appare anche come uomo del perdono,
perché è radicato in questa memoria che è più originaria di ogni colpa,
presente nell’atto di perdono di Gesù per noi. Ricordiamo che la fami-
glia è ambito del perdono, perché testimonia una bontà più radicale da
ogni offesa, sia pure quella più profonda. Ecco perché il perdono è radi-
cato in un appartenere mutuo che è scritto nel nostro corpo, in quanto
testimone del dono originario. Il sacerdote porta anche il perdono scritto
nel suo corpo, tramite il sacramento dell’ordine, che lo fa appartenere
a Cristo, e l’offerta eucaristica che vive ogni giorno. Egli diventa me-
moria continua di questa profondità radicale, più originaria di tutto, in
cui i legami umani sono radicati, e che riapre sempre la possibilità del
perdono29.

27 Cfr. L. Alonso Schökel, Dov’è tuo fratello? Pagine di fraternità nel libro della Genesi,
Paideia, Brescia 1987.
28 J. Ratzinger, Die christliche Brüderlichkeit, Kösel, München 1960.
29 Secondo Tommaso, i sacramenti guariscono gli affetti dell’uomo, In IV Sent., d. 1, q.
1, a. 2, sol. 1 (ed. Parma, 458): “Similiter quantum ad affectionem: quia eis quasi summis

551
José Granados

4. Uomo della promessa: dimensione sponsale del sacerdozio

L’amore filiale e fraterno con cui il sacerdote si configura a Cristo e agli


uomini, gli offre le fondamenta del suo racconto a partire dalla memoria
dell’Origine. Nell’identità narrativa del sacerdote è necessario conside-
rare adesso un altro passo che si riferisce direttamente alla dimensione
sponsale della sua vita: la promessa, la capacità di donare a un altro il
proprio tempo e, così, di vivere con e per l’altro.
È sempre nell’Eucaristia che si trovano le radici di questa visione.
Gesù parla della nuova alleanza nel suo sangue, facendo così riferimento
all’alleanza di Dio con il Popolo. Un immagine portante dell’alleanza è
quella sponsale, come più adatta a dire il senso storico della rivelazione
di Dio, perché fatta di unità dinamica nel rispetto della differenza30. Si
sviluppa così una storia di maturazione nell’unità, anche intrecciata del
perdono come ritorno all’inizio della promessa. È interessante notare che
alcuni teologi medievali prenderanno la frase dell’Esodo: “Tu sei per me
sposo di sangue”, applicata alla croce di Gesù, come fondamento dell’i-
stituzione del matrimonio31.
Quali sono le caratteristiche dell’amore sponsale in connessione con
l’alleanza? a) L’amore sponsale consente di formare un nuovo tempo, il

bonis inhaerebant, Deo postposito. Similiter etiam quantum ad actionem: quia homo eis
inordinate utebatur: necessarium ergo fuit ad curationem peccatorum ut homo ex
sensibilibus in spiritualia cognoscenda proficeret, et ut affectum quem circa ea habebat, in
Deum referret, et ut eis ordinate et secundum divinam institutionem uteretur; et ideo necessaria
fuit sacramentorum institutio, per quae homo ex sensibilibus de spiritualibus eruditur;
et haec est secunda causa quam Magister ponit: per quae etiam affectum, qui sensibilibus
subjicitur, in Dei reverentiam referret; et haec est prima causa: per quae etiam circa ea in
honorem Dei excetaretur; et haec est tertia causa”.
30 Cfr. A. Neher, « Le symbolisme conjugal: expression de l’histoire dans l’Ancien
Testament » in Revue d’histoire et de philosophie religieuses 34 (1954) 30-49, p. 34:
“Le symbolisme conjugal n’implique pas seulement une alliance, c’est-à-dire une
communication entre deux êtres, mais une véritable dialectique de l’alliance, puisque
celle-ci relie deux êtres qui restent nécessairement différents, en tant qu’individualités
sexuelles, et qui sont perpétuellement ressemblants par l’identité de l’amour qu’ils
éprouvent l’un pour l’autre. Dialectique complétée par celle d’une proximité et d’une
distance, d’une connaisance et d’une découverte, d’une habitude et d’un jaillissement,
qui déterminent la relation conjugale et la rattachent à un éternel mouvement. Ce
mouvement, ou, si l’on préfère, ce caractère dramatique du symbolisme conjugal,
me paraît décisif dans l’adoption du symbole par les prophètes. Ceux-ci y trouvaient
une ressource pour exprimer ce qui, dans leur conception générale du monte était
essentiellement mouvant et dramatique: l’histoire”.
31 Cfr. B. M. Perrin, “L’institution du mariage dans le Scriptum de Saint Thomas”, in
Revue Thomiste 108 (2008) 423-466; 599-646.

552
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

tempo dell’unità dei due, mantenendo la differenza; si tratta di un tempo


che essendo sempre mio e tuo, è anche nostro, perché porta un’unità di
origine e destino. Nell’amore s’impara a guardare le cose dal punto di
vista del noi. b) Il tempo sponsale viene determinato, per primo, dalla
novità di un’elezione: l’amato è scelto, a differenza di ciò che succede
con l’amore filiale verso i genitori o l’amore verso i figli. L’altro non era
lì dall’inizio, il mio tempo non è nato dal suo tempo, ma appare in un
incontro lungo la strada della vita. c) In secondo luogo, è proprio dell’a-
more sponsale scoprire l’unicità dell’altro, e per questo l’amore sponsale
è segnato dall’esclusività dell’amato per l’amante. Ecco perché quest’a-
more è singolarmente adatto per esprimere il monoteismo di Israele.
d) In fine, quest’unione è segnata dalla differenza e complementarietà
sessuale: la possibilità di diventare “una sola carne” richiede e segna il
“per sempre” dell’amore. Nella filiazione e la paternità, il nostro tempo
viene da un altro o si prolunga in un altro; solo nella sponsalità il tempo
diventa uno solo con il tempo dell’altro. In tutti questi modi, l’amore
sponsale è adatto per simbolizzare l’alleanza tra Dio e il Popolo.
Or bene, è molto importante notare che la copia non si vede qui
solo come segno del rapporto tra Dio e il Popolo, ma Dio stesso si fa
presente nell’esperienza concreta dell’uomo e della donna, che scoprono
nella loro unione un cammino da Dio e verso Dio. In altre parole, la loro
unione non è solo un esempio di come Dio trova il Popolo, ma è anche
il modo concreto in cui l’incontro si produce e la presenza divina si fa
viva. Questa connessione tra unione coniugale e Dio fa possibile l’espe-
rienza dell’amore sponsale vissuta dai profeti. In essa si conferma che la
manifestazione del corpo umano non solo ci invita a sollevare lo sguardo
verso l’amore tra Dio e il Popolo, ma è capace di contenere lo stesso
amore divino. Questo aspetto è stato testimoniato e vissuto dai profeti.
I profeti hanno sperimentato il modo in cui Dio possiede la loro vita
per dichiarare il rapporto con il Suo popolo. La Parola divina richiede
la loro corporalità, la loro affettività, la loro sessualità, per potersi dire
pienamente agli uomini. Si incarna in loro il profetismo del corpo, il
fatto che Dio parla in esso. Geremia ha vissuto quest’annuncio nel modo
sofferente di chi deve dire: “Io farò cessare nelle città di Giuda e nelle
vie di Gerusalemme le grida di gioia e la voce dell’allegria, la voce dello
sposo e della sposa, poiché il paese sarà ridotto un deserto” (Ger 7,34).

553
José Granados

Geremia non si sposa appunto per esprimere nel suo corpo quanto è
penosa per l’uomo questa mancanza di sponsalità con Dio.
Ecco che si apre così un cammino che arriva a pienezza in Gesù.
La grande differenza è che mentre i profeti vivono in negativo l’assenza
di matrimonio, Gesù lo fa in positivo. Egli è lo Sposo. Se i profeti an-
nunciavano un tempo rotto, Gesù porta la misura di un tempo pieno,
il tempo dell’alleanza compiuta. Per questo Gesù adopera anche la me-
tafora sponsale, come colui che è lo Sposo e ha la Sposa. Gesù non si è
sposato, non perché doveva esprimere l’assenza di Dio nel rapporto con
il Popolo, ma perché doveva manifestare la sua presenza insuperabile e
definitiva. È vero che Gesù ha sofferto anche la mancanza di amore del
Popolo, e in questo senso la sua verginità diventa anche segno di un ri-
fiuto; ma la parola finale, quella del Risorto, annuncia di nuovo un’unità
per sempre, la nascita della Chiesa, santa e immacolata (Ef 5,27). L’Alle-
anza nel sangue di Gesù può vedersi così come pienezza di un rapporto
sponsale, simbolo dell’amore compiuto di Dio per Israele. Il sacerdote,
che partecipa a quest’alleanza, sarà coinvolto anche in questo nuovo
modo di rappresentare il culmine del rapporto sponsale.
Gesù porta con sé, certamente, una novità all’amore sponsale. Tut-
tavia, questo non succede per negazione dell’esperienza corporale, ma
secondo una sua trasformazione. Adesso non si vive la differenza sessuale
a livello della genitalità. Si deve notare che l’amore sponsale non è qua-
lificato semplicemente in questa sfera, ma piuttosto nella sfera dell’affet-
tività, aperta al rapporto personale. L’affettività permette di riconoscere
l’unicità dell’altra persona e di costruire una vita per l’altro in cui la storia
non sia più storia isolata, ma storia intrecciata, con ricordi e prospettive
comuni. È nella sfera dell’affettività che può segnarsi il per sempre dell’a-
more, perché in essa si scopre l’unicità dell’altra persona e il suo rapporto
con l’eterno.
Come è possibile che l’affettività si trasformi abbracciando in essa
a tutti, senza per questo perdere il suo riferimento all’unicità e singola-
rità personali? Parlare di un amore sponsale per tutti gli uomini, non è
concepire questo amore in un modo troppo astratto? Non ci si espone
così all’obiezione di quel personaggio di Dostoevskij: “quanto più amo
l’umanità in generale, tanto meno amo gli uomini concreti”?

554
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

A questo punto si deve considerare la novità di Gesù, il suo essere


Figlio unico di Dio, capace di amare con un’affettività radicata nella
dimensione dell’eterno, capace per questo di consegnarsi, in modo spon-
sale, per tutti. Notiamo che non abbiamo qui un amore astratto verso
la collettività. Gesù non vede la Chiesa come una massa anonima. La
chiave di Gesù è la sua capacità di guardare ogni persona e amarla sempre
nella sua relazionalità, come membro di un corpo. Egli non vede mai la
persona isolata, ed è questo che gli permette di essere sposo della Chiesa
senza che questo diventi un’astrazione. Egli ci ama come membri della
Chiesa, e nel fare così ci ama di più nella nostra singolarità.
È di aiuto pensare ancora alla famiglia come chiesa domestica. La
famiglia, primo luogo dei rapporti costitutivi della persona, assicura che
la Chiesa non diventi astratta. Così il sacerdote è chiamato a vedere
tutte le persone come membri di una famiglia, in una rete relazionale.
E impara a non contare, nella sua parrocchia o diocesi, individui isolati,
ma comunità e famiglie. La famiglia aiuta a capire la concretezza della
Chiesa, mentre la Chiesa aiuta la famiglia ad allargare lo sguardo verso
una comunione più grande e piena.
Gesù, perché riconduce tutto all’origine e alla fine, al Padre da cui
viene e verso cui tende, è capace di cogliere l’unità del genere umano. Il
Maestro vive così la verità ultima del tempo sponsale, nella sua tensione
verso il compimento32. Ricordiamo, infatti che, l’incontro tra l’uomo
e la donna si realizza nell’orizzonte del mistero ultimo di Dio. La ses-
sualità è quello che ci spinge al di là, che mette in motto il tempo verso
l’Altro. Giovanni Paolo II, nella sua analisi del Cantico dei Cantici, ha
parlato di questa dimensione ultima a cui punta il rapporto sponsale33.
Anche il sacerdote è chiamato a vivere questa testimonianza dell’origine
e fine definitivo. Il suo tempo è testimone in Cristo dell’Origine e della
pienezza ultima.
D’altra parte, il maschile e il femminile sono due modi di vivere
questo viaggio nel tempo che si arricchiscono a vicenda. C’è il tempo
maschile, che è tempo della strada, testimonianza dell’origine e il destino

32 Cfr. B. Ognibeni, Il matrimonio alla luce del Nuovo Testamento, Lateran University Press,
Città del Vaticano 2007.
33 Cfr. Giovanni Paolo II, L’amore umano nel piano divino. La redenzione del corpo e la
sacramentalità del matrimonio nella catechesi del mercoledì (1979-1984), G. Marengo (ed.),
Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2009.

555
José Granados

lontano, immagine dell’eterno come fonte e compimento. E c’è il tem-


po femminile, tempo della presenza piena, immagine dell’eterno come
accoglienza. L’unirsi di questi due tempi è la sintesi di un tempo nuovo,
in cui si vive la fecondità. È questo che fa della promessa sponsale una
promessa unica, promessa nella carne, aperta al vincolo indissolubile34.
Si noti che la sponsalità propria del sacerdote è differente dagli altri
tipi di rapporti in cui vive. Il sacerdote può riconoscersi fratello di per-
sone concrete, e anche padre in Cristo di esse, come ha fatto Paolo. Al
contrario, l’immagine sponsale non si applica a una persona concreta, ma
all’intera Chiesa. Vedere la Chiesa sposa significa capire la relazionalità
delle persone, la loro dipendenza da Dio come origine e fine del cam-
mino ecclesiale, la loro unità. Significa anche vedere il mistero ultimo di
santità in cui vivono, a cui sono chiamate, malgrado i peccati e le miserie
del loro cammino.
Nel rapporto paterno il sacerdote soprattutto dona, mette da parte
per i figli, e non viceversa. Il rapporto sponsale è diverso, perché implica
donare e ricevere. Cristo ama la Chiesa, non solo generandola a nuova
vita, ma anche accettandola come sposa, colei che insieme a lui porta
a pienezza il piano di Dio sul mondo, edificando il Corpo del miste-
ro. Anche il sacerdote, in quanto rappresenta Cristo sposo, si dona alla
Chiesa e riceve da essa. Davanti alla Chiesa-sposa il sacerdote, in primo
luogo, è colui che riceve, che è accolto, che trova il posto in cui fiorire e
poter donare vita ad altri. Giovanni Paolo II aveva esperienza molto viva
di questo mistero. Egli ha scritto, infatti, a quelli che avevano sofferto le
conseguenze della guerra che l’avevano fatto al suo posto, che l’avevano
fatto per lui. Grato di questo dono, il sacerdote è uomo di Chiesa, che
vela per il suo onore, che ormai non può separarsi da essa, che se ne
prende cura, che la edifica nella missione e la propagazione del vangelo35.
La dimensione sponsale della promessa è anche, come quella fi-
liale della memoria, fondamento del perdono. Il sacerdote perdona in
primo luogo filialmente, perché ricorda l’origine. Ma perdona anche

34 Cfr. J. Marías, La mujer y su sombra, Alianza Editorial, Madrid 1987, 61-69.


35 Secondo B. Ognibeni, l’essere roccia di Pedro per edificare la Chiesa si riferisce
all’immagine sponsale: edificare la moglie vuol dire allargare la famiglia, donarle figli.
Il retroterra di Mt 16,18, sarebbe dato da Is 51,1 (Abramo come roccia da cui Israele
è costruito) e Ger 31,4 (“di nuovo ti costruirò, vergine di Israele, e sarai costruita”).
Cfr. B. Ognibeni, Il matrimonio alla luce del Nuovo Testamento, Lateran University Press,
Città del Vaticano 2007, 68-69.

556
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

sponsalmente, in quanto sperimenta la frattura del proprio tempo come


promessa tradita. Il sacerdote, in questo senso, si trova prima con la san-
tità della Chiesa, che accoglie lui, peccatore: il perdono è un perdono
che egli riceve nella Chiesa e che gli porta a riconoscersi, con San Paolo,
il più peccatore di tutti (1Tim 1,15). È dentro questa promessa offerta
di nuovo che egli custodisce il perdono, e che può offrire il perdono ai
peccatori.

5. Paternità e fecondità sacerdotale

Ho parlato del sacerdote, secondo la sua identità narrativa, come uomo


della memoria e della promessa. A partire da queste due dimensioni, si
vede il rapporto del sacerdote con il futuro in termini di fecondità.
È di nuovo il racconto eucaristico che ci offre la chiave per capire
la storia vitale di ogni sacerdote, che cammina secondo il ritmo delle
parole di Gesù. L’Eucaristia apre un tempo nuovo come tempo centrato
sullo sguardo verso la fine, tempo di proclamare la morte del Signore
finché venga (cfr. 1 Cor 11,26). Secondo Joachim Jeremias, le parole di
Gesù “fate questo in memoria di me” si devono interpretare come “fate
questo affinché il Padre si ricordi di me”. Si tratterebbe di una petizio-
ne a Dio perché faccia tornare Gesù dai morti, anticipando così la sua
parusia definitiva36. L’interpretazione si può accettare, sempre che non
la si prenda in modo che escluda la memoria che i cristiani conservano
dell’atto eucaristico. L’Eucaristia, inoltre, è cibo d’immortalità, il pane di
domani, che guarda alla generazione nuova di questo mondo.
Questa prospettiva verso il futuro è un’esperienza presente, viva, an-
ticipata nel corpo sacerdotale in quanto toccato dall’Eucaristia ed espres-
sa nelle parole di Gesù: il corpo per voi, il sangue versato. Queste parole
parlano di un corpo che genera vita nuova e aprono la dimensione pa-
terna del sacerdozio (cfr. Jn 6,51: “la mia carne per la vita del mondo”).
“Corpo per voi”. Le parole sono sacrificali, riferite all’agnello pa-
squale, ma toccano direttamente il corpo umano, come ormai il Canto
del Servo faceva capire: un corpo in espiazione permette di includere

36 L’interpretazione si può accettare, purché non si consideri come esclusiva. Cfr. a


questo riguardo J. Granados, Teología del tiempo. Ensayo sobre la memoria, la promesa y
la fecundidad, Sígueme, Salamanca 2012.

557
José Granados

altri in sé. In questo modo il corpo si edifica, arriva a pienezza. Anche


il sangue versato, con riferimento allo Spirito di vita, sottolinea questa
capacità generativa della consegna di sé di Gesù. Il tempo eucaristico, in
quanto tempo della carne nuova di Gesù, diventa tempo della fecondità.
L’esperienza del corpo che genera, insieme a quella dell’amore che dona
vita, è chiave per capire l’Eucaristia.
Il padre, quando genera un figlio, trova qualcuno che è fuori di sé,
distante di sé, ma che allo stesso tempo è se stesso, perché porta il suo
nome e destino. Egli deve evitare due rischi: il primo, voler fare del fi-
glio un altro sé, dimenticando la differenza; il secondo, abbandonare il
figlio, dimenticando l’unità di destino, l’appartenere mutuo, il fatto che
egli non soltanto ha un figlio, ma è padre. Questo rapporto padre - figlio
succede nella distanza, come cammino che deve percorrersi nel tempo,
diversamente a quanto succede nella madre, per cui il rapporto succede
per primo nella presenza, che poi deve differenziarsi, farsi cammino. Per
riuscire in questo compito paterno c’è bisogno di affidarsi a qualcosa di
più grande, a una paternità che possiede il segreto dell’intero cammino
dell’uomo, di cui si prende il senso di Origene e Destino, perché senza
sapere Origene e Destino il padre non può compiere la sua missione.
In quest’orizzonte appare la paternità di Gesù, che è cammino verso
il Padre e ci introduce così nell’Origine e Destino definitivi. Gesù an-
nuncia un modo nuovo di essere padre perché supera la connessione tra
generazione e morte, il fatto che il padre deve morire per lasciare posto
al figlio. Per questo Gesù è chiamato dal profeta “padre del secolo futu-
ro” (Is 9, 5). Il corpo eucaristico di Gesù è cibo di immortalità, presenza
che prepara in noi la vita eterna e definitiva.
È in questo contesto che si può parlare del sacerdote come padre,
uomo del futuro perché uomo di fecondità. San Paolo aveva ormai usato
quest’immagine (1Cor 4, 15; Gal 4, 19) nell’attesa che Cristo si formasse
nei cristiani. Questa paternità del sacerdote è legata al corpo, in quanto
è nel corpo che si genera un altro. Saint Exupéry ha scritto un testo, nel
suo Pilote de guerre, in cui parla dell’esperienza del corpo davanti al peri-
colo di morte:

Ci siamo occupati tanto del corpo! L’abbiamo vestito, lavato, curato, fatto
la barba, abbeverato, alimentato! … di esso diciamo: sono io. Ma pre-
sto l’illusione crolla… Il tuo figlio e chiuso in un incendio? Lo salverai!

558
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

Nessuno può fermarti! Bruci! Non te ne importa! Lasci quel resto di carne
a chi lo voglia, scopri che non t’interessa in assoluto ciò che t’interessava
così tanto. … Quando il corpo si disfa appare l’essenziale. L’uomo è solo
un nudo di rapporti. I rapporti sono l’unica cosa importante per l’uomo37.

Il corpo, visto come preoccupazione per se stesso, come cura dei bi-
sogni isolati, cambia di segno quando entriamo in azione, quando c’im-
mettiamo in un rapporto. È come se il corpo diventasse altro quando
lo cogliamo in relazione. E allora il suo messaggio non è quello della
sopravvivenza, di mantenerci in vita, ma quello di assicurare il rapporto,
di vivere per un altro, in modo che anche la paura della morte sparisce,
che la morte appare come modo di proteggere quella relazione.
I nostri genitori ci hanno generato per la vita eterna. Ecco perché
il loro ufficio è spirituale, come notava San Tommaso38. Per l’educa-
zione dei figli verso l’eternità i genitori li indirizzano verso l’Eucaristia,
educandoli a mangiare del cibo d’immortalità. È a questo punto che
appare necessaria la paternità del sacerdote, che svela l’origine e destino
definitivo, secondo un traguardo ultimo che il padre da se non è capace
di aprire al figlio.
Questa nuova paternità è immagine di quella propria di Dio Padre,
che supera la nostra visione di paternità perché, come diceva Gregorio
Nazianzeno, è Padre verginalmente (per la sua esuberante ricchezza non
ha bisogno dell’unione con altro), Padre che dona tutto ai figli (mentre
un padre di solito dona soltanto qualcosa al figlio, mai tutto), ed è per
questo Padre di un solo figlio (mentre noi generiamo tanti figli, perché
nessuna generazione è perfetta)39.
Chiave della fecondità sacerdotale è il riferimento alla Chiesa come
dimora in cui il figlio può nascere. Senza la Chiesa, senza introdurre
nel suo spazio di comunione, il sacerdote rimane incapace di generare,

37 Cfr. A. de Saint-Exupéry, Pilote de Guerre, Gallimard, Paris 1942, 170-171.


38 S.Th. III, q. 65, a.1: “Perficitur autem homo in ordine ad totam communitatem
dupliciter. Uno modo, per hoc quod accipit potestatem regendi multitudinem, et
exercendi actus publicos. Et loco huius in spirituali vita est sacramentum ordinis:
secundum illud Heb. 7, 27, quod sacerdotes hostias offerunt non solum pro se, sed
etiam pro populo. Secundo, quantum ad naturalem propagationem. Quod fit per
matrimonium, tam in corporali quam in spirituali vita: eo quod est non solum
sacramentum, sed naturae officium”.
39 Cfr. Gregorio Nazianzeno, Oratio 25, 16 (SC 284, 196).

559
José Granados

perché il mistero dell’origine si riflette sempre attraverso l’unione spon-


sale. Generare è dare al figlio una dimora e introdurlo in una tradizione
e una comunità di fratelli.
Il sacerdote, padre che genera per la pienezza dei tempi, con il suo
corpo e la sua parola, è l’uomo del futuro, che compie, come nota Hans
Urs von Balthasar, ciò che diceva Origene: “Non dichiarano cose vec-
chie secondo la lettera, ma per la grazia di Dio portano sempre cose
nuove e sempre trovano le realtà spirituali…. Perché il Signore non co-
mandò che si riservasse per il giorno dopo il pane che diede ai Discepoli
quando disse loro: ‘Prendete e mangiate’ ”40.

6. Conclusione

Per concludere possiamo aggiungere un accenno alla fragilità e la soffe-


renza dell’esperienza sacerdotale. Questa, possibile solo perché radicata
in Gesù, vive nell’attesa di un compimento ancora non pienamente pre-
sente. In questo modo si può avvicinare ad esperienze di fragilità della
vita familiare, che hanno ricevuto in Cristo una speranza nuova, secondo
le tre dimensioni della filiazione, la sponsalità, la paternità.
a) In un mondo in cui la filiazione si è persa, tra figli abbandonati
e figli desiderati fino al punto di diventare proiezione dei genitori41, il
sacerdote testimonia quella filiazione che non crolla e che si prende cura
dei fratelli.
b) L’esperienza sacerdotale assomiglia a quella di chi, abbandonato
dal coniuge, gli resta fedele; di coloro che, nella separazione, testimo-
niano la validità del vincolo. Egli sperimenta la fedeltà della Chiesa mal-
grado il suo abbandono e può così imparare una fedeltà che si mantiene
davanti a chi rifiuta l’amore di Cristo. Il sacerdote, possiamo dire, è
testimone del “per sempre”, malgrado tutto, dell’amore; testimone di
un vincolo vero ed efficace che si farà visibile soltanto nella pienezza
dell’amore definitivo dell’ultimo giorno.

40 Cfr. Origene, Hom. in Lev. V, 8, 3, citato da H.U. von Balthasar, “Esistenza


sacerdotale” in Sponsa Verbi, Morcelliana, Brescia 1969, 363-407, p. 407.
41 Cfr. M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero,
Miliano 2010.

560
Sacerdozio e famiglia: quale nesso?

c) Un esempio concreto del rapporto tra la paternità del sacerdote


e l’esperienza della famiglia ci viene offerto dalle famiglie che hanno un
problema di sterilità e devono trovare nuove forme di essere feconde.
Ecco in certo modo un punto di tangenza tra fecondità matrimoniale e
sacerdotale; ecco un generare nuovo nelle sofferenze e nel sacramento,
alla misura della fecondità di Gesù. E anche l’adozione e l’affido, l’ac-
coglienza del figlio nell’amore sponsale, può illuminare questa fecondità
del sacerdote, questa sua capacità per far scoprire la paternità nuova di
Dio agli uomini.
Nella gioia e nella sofferenza, l’identità del sacerdote è un’identità
familiare, trasformata alla misura della pienezza del tempo che porta Gesù.
In questo contributo l’ho descritta come identità narrativa, seguendo il
racconto eucaristico, che è la chiave per l’identità narrativa del sacerdote.
Nel suo corpo e tempo il sacerdote vive una memoria filiale e fraterna,
una sponsalità della promessa incrollabile di Dio nella sua Chiesa, una
fecondità del tempo definitivo.
Alla fine possiamo notare la fecondità di questa prospettiva. È l’e-
sperienza sacerdotale, con la sua totale unità in Cristo, che ci fa capaci
di approfondire fino in fondo l’esperienza familiare. Il sacerdozio, che
parla nella persona di Cristo, ci insegna la profondità dei legami familiari,
l’unità narrativa tra i membri della famiglia, il nuovo tempo che gli sposi
sono chiamati a vivere, la capacità di abitare totalmente l’altro. Il sacer-
dote così diventa testimone di una visione relazionale della persona, di
un corpo donato per amore, di un tempo teso dall’origine alla pienezza.

561
NOTA CRITICA
Anthropotes 33 (2017)

Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer, la


Veritatis splendor vista tras Amoris laetitia. Una respuesta a un
libro reciente de Alain Thomasset y Jean-Miguel Garrigues

Juan José Pérez-Soba*

SUMMARY: Professors Thomasset and Garrigues provide a new interpre-


tation of the relationship between Veritatis splendor and Amoris laetitia.
They indicate the importance of a reading in continuity, as an ecclesial and
magisterial necessity that cordially assumes the existence of intrinsically evil
acts and the existence of the subjective dimension of human action. All this
is true, but they do not see that proposal of John Paul II’s encyclical of the
Thomist theory of the moral object from the point of view of the acting person
overcomes the false dichotomies between the universality of the norm and the
concreteness of the case, and the objectivity of the act and subjectivity of the
person. Thus the road for developing a morality capable of seeing the continuity
between the two documents does not pass through the dichotomy between one
morality being flexible and the other rigid, but through a deep understanding
of the absolute contained in the moral experience.

“Llega de uno a otro confín con firmeza y dispone todo con suavi-
dad” (Sab 8,1). Así se ve la especificidad de la maravillosa comunicación
de la sabiduría que así muestra el Espíritu de Dios “amigo de los hom-
bres” (Sab 7,23, fila,nqrwpoj). Se aleja de toda violencia, pero cumple

* Profesor Ordinario de Teología Pastoral de Matrimonio y de la Familia en el Pontificio


Istituto Teologico Giovanni Paolo II, Roma.

565
Juan José Pérez-Soba

su misión de guiar a los hombres y evitarles la enfermedad de la nece-


dad. No deja de tener un sello divino como el aforismo ignaciano: “non
coerceri a maximo, sed contineri a minimo divinum est”1. Ambas indican una
presencia especial de lo divino que el hombre debe conocer para seguir
el camino de la sabiduría.
En su modo de actuar Dios une realidades que el hombre percibe de
modo enfrentado como es la firmeza y la suavidad. Esto es posible por-
que no son contradictorias y sirven para mostrar una disposición superior
que, en este caso, se amolda a la condición humana. Es una expresión
más de la sunkata,basij, la condescendencia divina en una acción que,
sin dejar de ser de Dios, se abaja a las disposiciones humanas. No se trata
de una mera adaptación sino de un modo de comunicarse, que eleva al
hombre para hacerlo capaz de unirse a Dios.
En cuanto forma propia de la providencia divina, se convierte en un
modelo para la acción pastoral de la Iglesia en su evangelización.

1. Una necesidad eclesial

Posiblemente la cuestión abierta más importante de la Iglesia en la actuali-


dad es la de la asunción de la exhortación apostólica Amoris laetitia, porque
sigue la celebración de dos sínodos consecutivos que han despertado mu-
chas expectativas y un debate teológico grande. Se comprende bien que
este sigue abierto después del documento por las distintas interpretaciones
que se han generado acerca de su redacción2. Precisamente la pluralidad
de las mismas, con posiciones contradictorias entre sí, hace surgir muchas
preguntas sobre cómo afrontar el camino que se abre. Alguno la ha califi-
cado de forma descriptiva como “tormenta” por las muchas tensiones que
existen en una situación que dista mucho de ser plácida3.
Este es el ámbito eclesial en el que se han presentado los dubia que
cuatro cardenales enviaron al papa en octubre de 2016. La oportunidad

1 Citado en: A. Spadaro, “Intervista a Papa Francesco”, en La Civiltà Cattolica 3918 (19
settembre 2013) 453, precisamente como fuente de discernimiento.
2 Sobre la diversidad de interpretaciones, una primera indicación es: J. Granados, “Tres
lecturas de Amoris laetitia, y una cuarta. Nota sobre el debate en torno a la Exhortación
apostólica”, en Anthropotes 33/1 (2017) 267-271.
3 Así: V. M. Fernández, “El capítulo VIII de Amoris laetitia: lo que queda después de la
tormenta”, en Medellín 108 (mayo-agosto 2017) 449-468.

566
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

de las preguntas formuladas, fuera de cuestiones de autoridad o procedi-


miento, se ha visto confirmada por la enorme repercusión que han teni-
do, pues no han dejado de estar presentes en las distintas interpretaciones
que se han hecho del documento pontificio. Se constata que el hecho
de hacerlas públicas ha sido positivo, porque tienen un valor eclesial en
sí mismo. En ellas se han individuado preguntas que muchas personas se
formulan y cuyas respuestas marcan posiciones que tocan la comprensión
de la Iglesia, los sacramentos y la moral. Es bueno que estén claros estos
temas, pues la falta de parresía no es buena. De hecho, algunos autores
han considerado conveniente responderlas según su opinión, esto es sin
duda una aportación a la reflexión que cuenta con su propio valor, pues
ayuda a matizar el contexto y el alcance de los interrogantes. En todo
caso, por su carácter de definición magisterial, la única respuesta válida
es la que puede dar el Papa o la Congregación de la Doctrina de la Fe,
más allá de la de los autores particulares.
Los dubia están insertos en un proceso ya en marcha, donde las pre-
siones mediáticas han sido muy grandes desde el principio. Vemos emer-
ger repetidas veces en este campo una nueva edición del planteamiento
marcionita entre progresistas y conservadores que recuerda mucho al
que se hizo en el Concilio, con el perverso resultado de dividir cada
vez más la comunidad eclesial4. Desde luego, no han sido los dubia los
que han generado la polémica, sino que su intención es concretarla en
algunas cuestiones fundamentales que permiten individuar bien lo que
está en juego y evitar discursos aparentes que olviden lo fundamental.
Por eso hay que agradecer a los cardenales el esfuerzo y capacidad de
síntesis, porque es necesario reconocer que en esas preguntas se contie-
ne lo que todos los autores tratan al comentar Amoris laetitia, aunque a
veces sin hacerlo explícito. Ayuda mucho tener claras las cuestiones para
comprender mejor la razón de las posturas más allá de aparentes clasifi-
caciones entre rigoristas y laxos.
Por eso, un año después, podemos entender mejor su auténtico con-
tenido. La razón interna de los dubia que condiciona su redacción y or-
den, es la relación existente entre Veritatis splendor y Amoris laetitia. Desde
el primer momento, y después de una forma cada vez más manifiesta, se
levantan voces que señalan una oposición entre los documentos, ya sea

4 Es el error del que avisó: Benedicto XVI, Discurso al clero romano, (14-II-2013).

567
Juan José Pérez-Soba

a favor o en contra de uno o de otro5. En los dubia se observa la inten-


ción expresa de aclarar algunos argumentos que en la exhortación están
abiertos a interpretaciones diferentes y ocasionan una lectura ambigua de
temas muy importantes. No estamos hablando solo de sensibilidades dis-
tintas ante un caso singular, sino tomas de posición opuestas y enfrentadas
que muestran el crecimiento de una división interna dentro de la Iglesia.
Se trata de una cuestión espinosa: la impresión de un magisterio
que entra en contradicción con otro magisterio, esto es, que aparece
en oposición consigo mismo. Es la situación paradójica en la que la sola
referencia a la autoridad, la propia del magisterio, deja de servir, porque
al mismo tiempo afirma y niega la misma cosa. Tampoco se resuelve a
partir del solo criterio evolucionista como si el último documento dis-
pensara de todos los anteriores. Esto es válido para los documentos lega-
les, nihil contrariis obstantibus, pero no para una enseñanza magisterial que
necesariamente se refiere al contenido enseñado y al modo de enseñarlo.
Por eso aquí no sirve solo la cuestión de la autoridad, sino del modo de
expresarla que tiene niveles muy diversos, y la intención de enseñar que
también es muy diferente según los documentos. Como es obvio, por
razón misma del magisterio una expresión poco clara no puede quitar
el valor a otra anterior expresada con nitidez; algo afirmado de pasada y
de forma secundaria, no pone en cuestión otra afirmación central de un
documento. De otro modo, la misma razón magisterial queda compro-
metida porque se convertiría en arbitrariedad sin relación al fin propio
de su misión que es enseñar el misterio que nos salva. No podemos caer
en una lógica del todo contraria a la fe y, por consiguiente, de la misión
de magisterial propia del ministerio petrino, de que basta sembrar una
duda para descalificar la firmeza de toda una enseñanza. Es la forma que
se usa, en especial en los ámbitos públicos, no para enseñar algo, sino
para corroer la fuerza de una convicción.
Más allá de estos criterios básicos de necesaria conciliación del
magisterio consigo mismo, lo fundamental es ir conociendo mejor las

5 Como extremos se podría señalar, por una parte: S. Goertz – C. Witting (a cura
di), Amoris laetitia. Un punto di svolta per la teologia morale?, San Paolo, Assisi 2017; por
el otro, la acusación de herejía formal por parte de algunos teólogos y pensadores
católicos. Para el primer documento: cfr. A. Frigerio, “Cambio di paradigma o déjà-
vu? L’impatto di Amoris laetitia sulla teologia morale”, en Anthropotes 33/1 (2017)
273-300.

568
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

razones de la enseñanza para comprender la relación entre ellas. La Iglesia


ha experimentado todo tipo de situaciones, ya sea de evolución rápida
con problemas de recepción de lo enseñado, como de momentos de
involución al haberse centrado por motivos coyunturales tanto en una
cuestión particular que se pierde en parte la referencia a la globalidad. Así
pasó en periodo entre el concilio de Éfeso (a. 431) y el de Calcedonia
(a. 451) donde la propuesta excesivamente unilateral del primero, exal-
tada por los que luego se convertirían en monofisitas, tuvo una reacción
rápida en la Iglesia que vio la necesidad dos años después de redactar
una Fórmula de unión (a. 433) entre Cirilo de Alejandría y las iglesias de
Antioquía6. Se trata de un documento que de hecho fue un preámbulo
del Concilio de Calcedonia que se convocó solo 20 años después del de
Éfeso. No se puede comprender el desarrollo tan rápido de este proceso,
simplemente desde la consideración de la autoridad magisterial; solo se
explica desde el contenido de la enseñanza que, en algunos casos pide
una explicación posterior. De hecho, la propuesta de Éfeso, aunque fue-
se la última y promulgada con toda la autoridad de un Concilio, dejaba
abiertas algunas cuestiones. En este caso, existía una razón fundamental
para llevar a cabo la aclaración. No se ponía en cuestión la unión en la
persona de Cristo manifestada en la maternidad divina de María que
se había expresado con claridad en la asamblea conciliar, a pesar de la
oposición de algunos que fundaron la comunidad nestoriana. El motivo
era la ambigüedad del término fu,sij tal como lo empleaba el Concilio
en alguna fórmula menos afortunada, era esto lo que pedía de por sí una
aclaración. Es un ejemplo claro de que la ambigüedad en las formulacio-
nes es un modo de expresión que en principio no cuadra con la misión
magisterial que, por su propia naturaleza, pide, dentro de sus límites, ser
lo más clara posible, por la necesidad misma de la Iglesia de vivir de la
verdad recibida de Cristo.
La complementariedad de los dos concilios más cercanos en toda la
historia de la Iglesia ha sido posible, no desde el mero posicionamiento
a favor o en contra de uno o de otro, sino por profundizar en sus con-
tenidos de un modo adecuado al misterio que se trataba, esencial para la
vida de la Iglesia: la unidad de la persona de Cristo en dos naturalezas.
La intervención del obispo Juan de Antioquía pidiendo la fórmula de

6 Cfr. DH, nn. 217-218.

569
Juan José Pérez-Soba

unión, no era de ningún modo una rebelión contra Éfeso, sino que evi-
denciaba la necesidad de una aclaración vivida por una parte importante
de la Iglesia que no podía ser olvidada. Entonces fue la misma Iglesia la
que vio la necesidad de redimensionar un documento que se interpre-
taba insuficientemente, que causaba una tensión muy grande dentro de
la relación entre las iglesias y que apuntaba ya por eso a una clarificación
posterior. No servía simplemente posicionarse sobre una autoridad que
era reconocida, sino a buscar las razones reales de una comprensión mejor
del misterio al que se refería.

2. Una hermenéutica de continuidad

La existencia de una aparente contradicción magisterial no se resuelve


con un sistema dialéctico que enfrenta los términos, para luego intentar
una síntesis conciliadora. La teología no es una mera cuestión de ideas
que ordenar, sino que ha de iluminar la verdad real de la presencia de
Cristo en la vida de las personas. En la diversidad de acentos y de apro-
ximaciones a un tema, se puede mostrar una visión más unitaria que
explique de hecho la unión profunda que existe en la fe de la Iglesia. Así se
ha realizado suficientemente en torno a la libertad religiosa que es uno
de los ejemplos en donde se pueden encontrar en el magisterio formula-
ciones claramente contrarias. Estas aparentes contradicciones se pueden
explicar desde el contexto de cada afirmación que es esencial para el
sentido real que tiene y permite integrar de forma complementaria las
afirmaciones7. La razón de la evolución parece clara y evita cualquier
interpretación unilateral. Las afirmaciones previas no han perdido el sig-
nificado, sino que se ven ahora como elementos parciales en un todo
mayor. Ha sido una cuestión central, pues fue el argumento que usaron
algunos para descalificar el Concilio, tildándolo de pastoral y no doctri-
nal y contrario a la tradición de la Iglesia. Más bien era la misma tradición
en cuanto viva la que explicaba el contenido real de la enseñanza eclesial
sobre la libertad religiosa.

7 Sigo para este punto el estudio detallado de: G. del Pozo Abejón, La Iglesia y libertad
religiosa, BAC, Madrid 2007.

570
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

En todo caso era necesaria esa aclaración y la asunción de una her-


menéutica de continuidad y no de ruptura. Así lo indicó Benedicto XVI
en su relectura del Concilio Vaticano II8. En primer lugar, constataba
un momento difícil en la Iglesia que no se podía ocultar tras la grandeza
del Concilio. Su recepción fue muy conflictiva, a pesar de la casi unani-
midad con la que fueron aceptados los documentos. No es algo extraño
en la historia eclesial. En su discurso, el Papa alemán hacía referencia a
cómo San Basilio vivió el tiempo posterior a Nicea: “El grito ronco de
los que por la discordia se alzan unos contra otros, las charlas incompren-
sibles, el ruido confuso de los gritos ininterrumpidos ha llenado ya casi
toda la Iglesia, tergiversando, por exceso o por defecto, la recta doctrina
de la fe”9.
Se entiende bien ahora la sabiduría en la elección de los términos.
Uno de los problemas que impidió una mejor recepción de la enseñanza
conciliar fue aceptar a priori una lógica de ruptura, motivada por el espí-
ritu revolucionario de los años 60 y 70, e impulsada por los medios de
comunicación que la alentaron con mucha fuerza10. Aceptar una ruptura
es contrario a la naturaleza de la Iglesia y la fragmenta en su autoridad y
su misión. Es cierto que ese modo rupturista de comprender los cambios
eclesiales es muy acorde a la sensibilidad postmoderna que gusta de la
flexibilidad líquida capaz de amoldarse a cualquier cosa11. Pero, como el
paso de tiempo ha comprobado, tiene efectos demoledores en la Iglesia.
Así pasó con los que propugnaron un espíritu del Concilio contra la letra
del mismo y pidieron ya el año 1973 un Concilio Vaticano III. Manifes-
taron su comprensión de la Asamblea conciliar de un modo revoluciona-
rio que rompía con la Iglesia del pasado. En ese punto coincidían con los
que consideraron el Concilio como una traición a la tradición eclesial.
En ambas posturas hay una mala comprensión eclesial en lo que corres-
ponde a su esencia y su misión. Como es natural, todo este argumento se
refiere a la enseñanza y no a las disposiciones pastorales o de disciplina en
la Iglesia, que se comprende que no siempre serán las más adecuadas y se

8 Como lo hace en el famoso: Benedicto XVI, Discurso a la Curia Romana, 22-XII-2005.


9 San Basilio, De Spiritu Sancto, 30, 77 (SC 17 bis,524).
10 Para ello no podemos sino referirnos a la reflexión que ofrece: Benedicto XVI,
Discurso al clero romano, 14-II-2013.
11 Cfr. Z. Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma - Bari
2006.

571
Juan José Pérez-Soba

pueden reconocer errores en su modo de aplicación. Así se ha hablado


en la forma de llevar a cabo la reforma litúrgica, al menos en el modo
como se comunicó a los fieles que, de hecho, no la comprendieron.
La hermenéutica de continuidad es más compleja de llevar a cabo
que la de ruptura; no es inmediata en los momentos primeros de con-
fusión que presentan de forma más clara la contradicción a resolver que
un camino de acuerdo. Es ese tiempo se producen de forma espontánea
bandos enfrentados que proceden de la identificación con posiciones en-
contradas. En la medida en que se justifican a sí mismos, no entran en la
búsqueda paciente de una razón, la única que puede dar unidad interna a
las afirmaciones. La continuidad exige una hermenéutica más profunda.
Desde luego, no basta leer lo antiguo a la luz de lo nuevo, un modo de
exégesis que ni siquiera sirve para el Nuevo Testamento que requiere la
complementariedad de ambos. Las afirmaciones nuevas tienen sentido
por la asunción real de las anteriores; en la novedad del contexto, pero
siempre desde el primado de la percepción más profunda de la realidad
en juego. Así se vio en el Concilio, por ejemplo, con la teología sacra-
mental12. A veces la asunción de una excesiva ambigüedad en los térmi-
nos, a partir de una pretendida “novedad conciliar”, estaba acompañada
de una excesiva precipitación en las conclusiones, que se vio de una gran
infecundidad en la evangelización. La ruptura tiende a la rapidez en jus-
tificar posiciones, mientras la continuidad enmarca las afirmaciones en
contextos diferentes que permiten comprender los matices y que se vea
más claramente lo que les une de verdad que es la realidad del misterio.
Una teología equilibrada que sabe valorar los procesos reales dentro de la
Iglesia, se expresa de una forma mucho más próxima a la experiencia de
las personas que entienden así el realismo de las afirmaciones del magiste-
rio. Se comprende de qué modo la hermenéutica rupturista no hace sino
agravar un grave mal de la Iglesia que mostraba el Concilio: “El divorcio
entre la fe y la vida diaria de muchos debe ser considerado como uno de
los más graves errores de nuestra época”13.

12 Cfr. J. Ratzinger, Zum Begriff des Sakramentes, Minerva Publikation, München 1979.
13 Concilio Vaticano II, Cons. Past. Gaudium et spes, n. 43.

572
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

3. Continuidad y realismo

Esta falta de realismo en los términos y la argumentación ocultadas en la


fascinación de un discurso que agrada pero que no forma, es la práctica
común en la actualidad en lo que corresponde a la moral. La gran falta
en la vida moral de las personas ahora no es la idea de una ley demasiado
severa, dado el laxismo tan grande en el que vive una gran cantidad de
personas, sino la gran ambigüedad de los términos que dejan de significar
y servir como brújula en el camino de crecimiento de las personas. Las
personas no saben lo que significan las palabras básicas de la ética como
conciencia, libertad, felicidad, por lo que cualquier discurso bien orde-
nado que agrade a las personas sirve como cebo. Es la hipótesis inquietante
con la que comienza Alasdair MacIntyre su famoso libro After virtue14. La
ambigüedad enorme de la terminología ética, sobre todo por un cambio
de significación emotivista, debilita dramáticamente a las personas en su
vida concreta, pues se ven incapaces de construirla. El influjo de las ideo-
logías en lo que el Papa Francisco denomina una “colonización”15, es un
gran cortocircuito en lo que corresponde a la recepción magisterial. Uno
de los medios más propios de su expansión es favorecer el uso ambiguo
de términos porque, de este modo, es fácil deformarlos por la presión
constante que ejerce por otros medios. Precisamente por ello, hace refe-
rencia a la necesidad de un cierto conjunto de significados que configuran
una tradición que actúan como verificadores del contenido real de los
términos. Esta realidad se refiere, no a la forma sociológica de entender
los comportamientos humanos, sino a la experiencia moral en cuanto tal
en la medida en que guía internamente la vida. Esto le permitía al ético
escocés no confundir realismo ético con el criterio de plausibilidad tan
presente en la ética anglosajona teleologista.
En definitiva, en los temas morales no se puede plantear una visión
en continuidad como una mera coincidencia terminológica, sino que
debe conducir a una mayor profundidad en los principios sin perder nada
de lo dicho anteriormente. El modo de expresarlo ha de ser su enrai-
zamiento en la experiencia moral básica. A los teólogos esto nos obliga
a evitar en todo momento una forma de argumentación justificativa de

14 Cfr. A. MacIntyre, After virtue. A Study in Moral Theory, c. 1: “A Disquieting


Suggestion”, Duckworth, London 19852, 1-5.
15 Cfr. Francisco, Discurso en el encuentro con las familias, Manila, 16-I-2015.

573
Juan José Pérez-Soba

posiciones ya tomadas. Una postura así, suele partir de la descalificación


a priori de los demás, fácil de hacer atribuyéndoles una “posición” desde
la cual se considera que no se comprende el problema y así no tratar de
verdad las cuestiones a profundizar. En tiempos de crisis eclesial este tipo
de justificaciones ha estado siempre presente; pero se hace evidente la
esterilidad de este procedimiento.
Sin duda, hay que evitar cualquier ideologización en las posiciones,
algo difícil cuando la presión de los medios en todo el proceso sinodal
ha sido muy grande. Esto, sin duda, ha provocado un malestar por las
manipulaciones mediáticas que se han llevado a cabo en el desarrollo de
los sínodos, incluso dentro de los ambientes internos a la Iglesia. Precisa-
mente, una de las tareas eclesiales de un teólogo es el evitar la confusión
que estas maniobras causan en los fieles, es necesario hablar de los temas
difíciles que las posturas ideológicas suelen ocultar como si no existiesen.

4. La necesidad eclesial de una lectura en continuidad de Veri-


tatis splendor y Amoris laetitia

Por eso es significativo el libro recién aparecido de Alain Thomasset y


Jean-Miguel Garrigues, Una morale souple mais non sans boussole, Répondre
aux dubia des quatre cardinaux à propos d’Amoris laetitia, Du Cerf, Paris
2017, cuyo prefacio (pp. 9-15) es del cardenal Christoph Schönborn
que sin duda es el que ha coordinado la edición. Se trata de dos autores
dispares que se unen en una misma perspectiva que se puede resumir en
dos propuestas centrales bien articuladas.
1. Es importante responder a los dubia porque apuntan a cuestiones
centrales que merecen respuesta.
2. Hay que leer de modo complementario los documentos Veritatis
splendor y Amoris laetitia porque de este modo se hallan las respuestas.
Ambas tesis se expresan con gran claridad y articulan internamente
este pequeño pero interesante libro. Ya lo dice con seguridad el cardenal
que ha inspirado la línea básica que se desarrolla: “Estoy convencido
de que sus dubia merecen respuesta. Porque sus dubia ponen cuestiones
a las que se puede dar una respuesta y tal respuesta que puede apor-
tar la paz en un debate que corre el riesgo de envenenarse (…) Los
dos autores han mostrado, cada uno con su aproximación personal, la

574
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

complementariedad entre la encíclica de san Juan Pablo II Veritatis splen-


dor y la exhortación apostólica Amoris laetitia. Que no hay contradicción
entre los dos documentos del magisterio, es la respuesta principal que los
dos autores dan a los dubia de los cuatro cardenales” (p. 12)16.
Es una tesis en verdad valiente, clara y que empeña a los autores y
tiene una repercusión eclesial grande: el modo de recibir los documentos
magisteriales tiene que saber articular la continuidad en el magisterio y, si
ésta parece comprometida, es necesario resolverla como un bien para la
Iglesia. No se puede ocultar que existe una cuestión grave y no aclarada
en torno a la interpretación de Amoris laetitia. La clave de la misma es leer
en continuidad los dos documentos. Esto es más urgente en la medida
en que han surgido tantas interpretaciones diversas entre sí, con razones
heterogéneas. La contradicción entre estas posturas, todas las cuales rei-
vindican una fundamentación en la Amoris laetitia, es un modo de soca-
var indirectamente su valor magisterial. La consecuencia que se sacaría
del martilleo de este pluralismo radical es que el Papa Francisco ha hecho
una exhortación en términos generales, pero no ha querido enseñar y por
eso se pueden tener las posiciones que se quieran. El inicial pluralismo
del que habla el documento, sería precisamente una ausencia de magis-
terio que la autoridad de la Iglesia consideraría válido.
Es cierto que la exhortación comienza diciendo que hay: “diferentes
maneras de interpretar algunos aspectos de la doctrina o algunas conse-
cuencias que se derivan de ella. (…) Además, en cada país o región se
pueden buscar soluciones más inculturadas, atentas a las tradiciones y a
los desafíos locales” (AL 3). Pero eso se hace desde un presupuesto: “es
necesaria una unidad de doctrina y de praxis” (ib.). Esto es, la misma
continuidad de la enseñanza magisterial es siempre un criterio necesario
de interpretación. Simplemente: “no todas las discusiones doctrinales,
morales o pastorales deben ser resueltas con intervenciones magisteriales”

16 “Mais que leur dubia méritent réponse, de cela je suis convaincu. Car leurs dubia
posent des questions auxquelles on peut donner une réponse, et une telle réponse
peut apporter la paix dans un débat qui risque de s’envenimer. (…) Les deux auteurs
ont montré, chacun avec son approche personnelle, la complementarieté entre
l’encyclique de saint Jean Paul II Veritatis splendor et l’exhortation apostolique Amoris
laetitia. Qu’il n’y a pas contradiction entre les deux documents du magistère, est la
principale réponse que les deux auteurs donnent aux dubia des quatre cardinaux”.

575
Juan José Pérez-Soba

(ib.)17. Esto quiere decir, que algunas sí se han resuelto, y en ellas no cabe
el mismo modo de discutir. El hecho que tras la Amoris laetitia se hayan
abierto cuestiones que parecían estar superadas, no quiere decir que todas
las cuestiones estén abiertas.
Como es lógico, una ambigüedad en la exposición sirve para que
aquellos que no han aceptado el magisterio precedente, sin tener en
cuenta su verdadero valor magisterial, se consideren dispensados de él y
lo pongan directamente en cuestión. Pretender que Amoris laetitia estaba
dirigida a ello, sería socavarla en su misma intención magisterial, porque
sería decir que ha intentado enseñar magisterialmente que no es necesa-
rio seguir el magisterio. Esto es, se habría negado a sí mismo. No se trata
del magisterio “de un” un Papa o “de otro” Papa, sino el de la Iglesia, al
que todos los papas sirven.
Entonces, para la lectura en continuidad, se ha de aceptar una afir-
mación básica, sin la cual cualquier intento de establecer esa continuidad
estaría destinado al fracaso: “Está claro que Amoris laetitia no ha cambiado
la norma canónica de la Iglesia. Está en vigor, es válida. La enseñanza de
la Iglesia no ha cambiado” (p. 13)18. No debería extrañarnos esta afir-
mación, porque se hizo muchas veces a lo largo del proceso de los dos
sínodos. En cambio, tiene su importancia, porque son muchas voces las
que, a priori, dan por supuesto lo contrario y que incluso públicamente
exponen que el matrimonio rato y consumado no es totalmente indi-
soluble, o plantean soluciones pastorales poniendo entre paréntesis esta
indisolubilidad. El cardenal es bien consciente de que se trata de poner
en duda esto mismo19. Por la gravedad de estas posiciones que afectan
a puntos esenciales de la unidad de la fe en la Iglesia, es muy bueno
afirmar con toda claridad, como hace el Schönborn, que es una postura
equivocada.

17 Estas dos frases que dejan abierta siempre el modo práctico de llevar a cabo
las indicaciones genéricas de Amoris laetitia, son fundamentales para evitar una
interpretación exagerada y rígida de la carta del Papa Francisco al delegado de la región
pastoral de Buenos Aires: cfr. AAS 108 (2016) 1071-1074; ya que se ofrecen: “sin
perjuicio de la autoridad que cada Obispo tiene en su propia Diócesis para precisarlos,
completarlos o acotarlos” (ibid., 1072).
18 “Il est donc clair qu’Amoris laetitia n’a pas changé la norme canonique de l’Église. Elle
est en vigueur, et elle est valable, L’enseignement de l’Église n’a pas changé”.
19 Por lo que constantemente declara: A. Spadaro, “Conversazione con il Cardinale
Schönborn sull’Amoris laetitia”, en La Civiltà Cattolica, 3986 (23 luglio 2016) 144: “Sul
piano dei principi, la dottrina del matrimonio e dei sacramenti è chiara”.

576
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

Es grande la perplejidad de muchas personas ante el silencio genera-


lizado ante estas posturas, directamente contrarias a afirmaciones explí-
citas del magisterio. Esto ha conducido algunos a pensar que, sin decirlo
de un modo claro, la exhortación de hecho contendría las bases para esta
erosión tan grave de la doctrina y la disciplina de la Iglesia. Por eso, sería
conveniente contradecir con fuerza a los malos intérpretes que van, no
solo contra la exhortación del Papa, sino contra la “unidad de doctrina
y de praxis” que el Papa Francisco pone como base de cualquier inter-
pretación, más importante en momentos de una tensión creciente en su
seno.
La clarificación del cardenal simplemente constata que entonces si-
guen vigentes las disposiciones legislativas tal como se explica en la de-
claración del Pontificio Consejo para los Textos Legislativos20, que se
encuentra citado como fuente en Amoris laetitia y que, por ello, tiene un
sentido interpretativo para la misma21. Tampoco se ha cambiado el Ca-
tecismo de la Iglesia Católica, que también es una fuente importante para los
puntos que más discusiones han despertado acerca de la exhortación. Son
puntos esenciales que iluminan el intento de interpretación continua de
los documentos, para evitar la serie de aplicaciones contradictorias que se
vuelcan constantemente sobre la exhortación apostólica (p. 115).
Los autores dejan claro el modo de realizarlo que sigue el criterio
magisterial que hemos señalado antes: “Como ocurre con toda enseñan-
za magisterial, debemos leeros uno a la luz del otro y en los dos sentidos”
(p. 29)22. No se puede aceptar el mero criterio cronológico sin tener en
cuenta los contenidos. La VS no está superada por la AL, sino que, en
concreto, obedecen a acentos distintos. Es manifiesta la diferencia de
estilos no solo en cuanto modo de escribir, sino en cuanto la intención
del documento. La encíclica es una aclaración de puntos debatidos de la
moral cristiana, la exhortación, indicaciones para la “conversión pasto-
ral” deseada y desarrollada por el Papa Francisco. No tienen el mismo
peso doctrinal.

20 Pontificio Consejo para los Textos Legislativos, Declaración sobre la admisibilidad


a la sagrada comunión de los divorciados que se han vuelto a casar, 24-VI-2000.
21 La cita en el n. 302, nota 345. En el mismo sentido ya lo interpretaba así: V. M.
Fernández, “Vida trinitaria, normas éticas y debilidad humana. Algunas precisiones”,
en Universitas 6 (2011) 61-71.
22 “Comme pour tout enseignement magistériel, nous devons les lire l’une à la lumière
de l’autre et dans les deux sens”.

577
Juan José Pérez-Soba

De aquí que esta lectura en continuidad ayude a afirmar que doctrina


y pastoral no se pueden separar porque son mutuamente dependientes. Es
algo que afirmó explícitamente el Papa en su discurso al Pontificio Ins-
tituto Juan Pablo II para los estudios del matrimonio y la familia23. Algo
que corresponde a la doble misión recibida por el Instituto de una pro-
fundización doctrinal y de una realización pastoral que ha llevado a cabo
desde su fundación como realidades inseparables. Si está claro el sentido
pastoral de la exhortación que destacan nuestros autores (pp. 51-57), su
continuidad en un contexto teológico más desarrollado como es el de la
encíclica sobre moral le da una consistencia y una fuerza que reafirma tal
intención: “la doctrina y la pastoral no se han de separar” (p. 58)24.

5. La clave de la continuidad

La necesidad eclesial de leerlos en continuidad, es una lectura posible. No


se puede dar por descontada, los mismos autores hablan a veces de “con-
ciliar” (p. 66) como algo que de por sí no está unido. Ha sorprendido a
muchos que en la larga exhortación no se haga mención, ni se cite nunca,
la conocida encíclica sobre moral. Sobre todo, cuando se trata de algunas
cuestiones que se hallan desarrolladas en el documento de Juan Pablo II.
Garrigues asegura que esto significa el deseo de expresar una novedad;
pero no es inmediato encontrar su significado que él considera “una in-
terpretación implícita de Veritatis splendor” (p. 149). En todo caso, es una
tarea teológica por hacer y que permanece abierta distintos caminos. El
profesor dominico lo presenta como “un desarrollo doctrinal implícito”
(p. 115) en el sentido que: “la resolución de casos concretos de orden
pastoral obliga a precisar el dominio de aplicación de los principios doc-
trinales anteriormente publicados” (p. 117)25. Es una perspectiva posible,
pero que se ha de tomar consciente de lo que significa: desde el principio

23 Cfr. Francisco, Discurso al Pontificio Instituto Juan Pablo II para los estudios del matrimonio
y la familia, 27-X-2016.
24 “Doctrine et pastorale ne sont pas à séparer”. En la línea expresada por: C. Schönbron,
“Matrimonio e conversione pastorale”, en G. Cottier – C. Schönborn – J.-M.
Garrigues, Verità e misericordia. Conversazioni con p. Antonio Spadaro, Ancora - La
Civiltà Cattolica, Milano 2015, 27-51.
25 “La résolution” de cas concrets d’ordre pastoral qui obligent à préciser le domaine
propre d’application de principes doctrinaux antérieurement dégagés.

578
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

se centra todo en la “aplicación” más que en la comprensión de las ra-


zones. Esta perspectiva tiende naturalmente a una visión más legalista
de aplicar principios que de guiarse por la comprensión profunda de la
acción que es lo que ofrece en gran medida la encíclica.
De modo “aplicativo” lo interpreta también Thomasset: “Sí, la en-
señanza de VS es siempre válida, pero lo que aclara AL es la imposi-
bilidad de leer y aplicar este texto de una manera intransigente, sino
tomar en cuenta la realidad y la singularidad de las situaciones siempre
complejas de las parejas (…) A la inversa AL debe ser leída a la luz de
VS para recordar que la vida moral tiene necesidad de normas objetivas
y que son por tanto referencias indispensables para la conciencia en el
momento de la decisión. VS ayuda igualmente a comprender la mirada
global de la moral cristiana donde se inscribe AL en lo que concierne a
la vida familiar” (pp. 29-30)26.
El intento de lectura de la obra es entonces el siguiente: “Esta pers-
pectiva evita hacer una lectura tuciorista (rígida) de Veritatis splendor y
una lectura laxista de Amoris laetitia, como algunos sin duda desearían”
(p. 20)27. Es una posición que se asienta en la misma exhortación cuando
dice: “Los debates que se dan en los medios de comunicación o en pu-
blicaciones, y aun entre ministros de la Iglesia, van desde un deseo des-
enfrenado de cambiar todo sin suficiente reflexión o fundamentación, a
la actitud de pretender resolver todo aplicando normativas generales o
derivando conclusiones excesivas de algunas reflexiones teológicas” (AL
2). Una perspectiva que el Papa Francisco ha hecho explícita posterior-
mente: “ni con el laxismo, de manga ancha, ni con la rigidez”28. Queda
claro entonces, como un primer paso de los autores que la claridad no es

26 “Oui, l’enseignement de VS est toujours valable, mais ce qu’éclaire AL c’est


l’impossibilité de lire ce texte et de l’appliquer d’une manière intransigeante, sans
prise en compte de la réalité et de la singularité des situations toujours complexes des
couples (…) À l’inverse AL doit aussi être lue à la lumière de VS pour rappeler que
la vie morale a besoin de normes objectives qui sont autant de repères indispensables
pour la conscience au moment de la décision. VS aide également à comprendre la visée
globale de la morale chrétienne où s’inscrit AL en ce qui concerne la vie familiale”.
27 “Cette perspective évite de faire une lecture tutioriste (rigide) de Veritatis splendor et
une lecture laxiste d’Amoris laetitia, comme certains sans doute le souhaiteraient”.
28 Cfr. Francesco, Discorso all’apertura del convegno ecclesiale della diocesi di Roma, 16-VI-
2016: “né con il lassismo, di manica larga, né con la rigidità”, a lo cual añade: ibid.:
“non si può parlare della «rigidità», della «sicurezza», di essere matematico nella morale,
come la morale del Vangelo”.

579
Juan José Pérez-Soba

rigidez, ya que buscan una “claridad doctrinal de fondo” (p. 116)29 y es


por ello por lo que quieren responder los dubia.
Implícitamente, se piensa evitar en la obra la lectura laxista del do-
cumento por el hecho de aceptar la existencia de actos intrínsecamente
malos, tal como la define Veritatis splendor: con la aceptación real de la
teoría del objeto moral. El rigorismo, por su parte, consistiría en pensar
que estas dos afirmaciones contendrían toda la moral de forma que no
hiciera falta profundizar en las condiciones subjetivas de la acción, inclu-
so en los casos de debilidad.
Como es obvio, el justo medio, al modo de la virtud, no es un equi-
librio entre las posiciones, sino la percepción de una plenitud humana, que
en este caso es la experiencia moral. La remisión a esta experiencia, más
allá de elección entre contrarios, es la luz que permite dar continuidad a
los dos textos que tienden a fundamentarse en ella. Esta es la exigencia
necesaria que nunca hay que perder de vista. En este sentido, es como se
ha de comprender la última indicación de Thomasset sobre la encíclica
de Juan Pablo II, que aporta una “mirada global de la moral cristiana”
(p. 30). Para comprender la moral es necesario siempre una cierta pre-
comprensión de la integridad humana que es la que ofrece la Veritatis
splendor, y que el Papa Francisco no intenta hacer ni enseñar directamen-
te en Amoris laetitia. De este modo, se ve el error de aquellos que han
querido servirse de las afirmaciones sobre la conciencia de Amoris laetitia
como ocasión para rechazar la enseñanza clara y extensa que sobre la
misma hace la Veritatis splendor. Así de textos breves y sin mayor inten-
ción que expresar una aplicación pastoral, se pretende dar por superada
una enseñanza clara, articulada y bastante completa como la que se en-
cuentra en la encíclica. Podemos concluir, por tanto, que los autores del
libro que tratamos, se manifiestan contrarios a cualquier pretensión de
un “cambio de paradigma” de Amoris laetitia respecto a Veritatis splendor.

6. No a una lectura laxista de Amoris laetitia

Nuestros teólogos ponen el acento más en criticar la lectura tuciorista


de Veritatis splendor que la laxista de la Amoris laetitia. Respecto de esta

29 “Clarté doctrinale de fond”.

580
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

última a los autores les basta con aceptar los actos intrínsecamente ma-
los, sin reflexionar las razones actuales de este laxismo que son propias
de nuestro tiempo y que precisamente reciben en Amoris laetitia una
respuesta. Hubiera sido bueno explicitarlo más como parte de la contri-
bución que desean hacer a la Iglesia. Es cierto que se califican la postura
de los obispos de Malta y en cierto modo de la conferencia episcopal
alemana como excesivas (p. 115); pero faltaría una mejor explicación
acerca de qué distingue el laxismo de la flexibilidad que propugnan, para
ayudar a una buena interpretación del camino a seguir.
En primer lugar, es necesario comprender que el laxismo actual tiene
sus propias características, es distinto del de hace cincuenta años. Su pun-
to esencial es la emotivización de la conciencia, por lo que todo apoyo en ella
tiene ahora una especial complejidad. Se trata del fenómeno del emoti-
vismo que aparece refutado en la exhortación de modo explícito, en la
que es una de sus afirmaciones más novedosas y que se mueve en conti-
nuidad con la encíclica. Hubiera sido un argumento muy propio para ser
incluido en el libro. La frase principal del Papa Francisco es: “Creer que
somos buenos sólo porque «sentimos cosas» es un tremendo engaño” (AL
145). Está inserta en el análisis afectivo de la exhortación (AL 143-146)
que es una de las grandes novedades del documento en la que casi nadie
repara y que, sin duda, ayuda a complementar una dimensión esencial
de la moralidad que no está tratada en Veritatis splendor. Entender que el
acceso a los afectos no es laxista y que evita toda rigidez, hubiera sido una
aportación muy importante al tema en sus distintos ámbitos.
La gradualidad es el segundo punto en el que algunos encuentran
confirmada una posición laxista en la exhortación. Es importante pararse
en esta cuestión, ya los partidarios de la ruptura, la toman como base para
señalar una ambigüedad abierta de la exhortación hacia la gradualidad de
la ley30. Insiste en el tema Jean-Miguel Garrigues pues lo cita con fre-
cuencia (pp. 138, 141, 148). La exposición de la exhortación parte de
las palabras explícitas de San Juan Pablo II, por lo que es un principio
de distinción entre una postura laxista y otra que no lo es: “Por ello la
llamada «ley de gradualidad» o camino gradual no puede identificarse

30 Es lo que dice: D. Bogner, “Un cenno di cambiamento. L’ambivalenza della


«gradualità» in Amoris laetitia”, en S. Goertz – C. Witting (a cura di), Amoris laetitia.
Un punto di svolta per la teologia morale?, San Paolo, Assisi 2017, 163-180.

581
Juan José Pérez-Soba

con la «gradualidad de la ley», como si hubiera varios grados o formas


de precepto en la ley divina para los diversos hombres y situaciones”
(FC 34)31. Se excluye así explícitamente la adaptación de la ley tanto a la
condición subjetiva del hombre con sus capacidades, como a la situación
particular en la que vive. Al mencionar aquí su valor de “precepto” se
señala su fuerza de obligación que no se puede pasar por alto. La ley obli-
ga a todos, aunque a alguno le sea penoso su cumplimiento por no estar
bien dispuesto hacia la acción mandada. La ley en sí misma no es rígida ni
flexible, estas son categorías que no le corresponden, sino que tienen que
ver con quien aplica la ley. La mención posterior de San Juan Pablo II
que explica la distinción es muy concluyente: “es propio de la pedagogía
de la Iglesia que los esposos reconozcan ante todo claramente la doctrina
de la Humanae vitae como normativa para el ejercicio de su sexualidad
y se comprometan sinceramente a poner las condiciones necesarias para
observar tal norma” (FC 34). Una lectura en continuidad debe partir
entonces de la asunción real de esta visión, precisamente para dejar clara
su superación del laxismo.
De un modo convincente el profesor Garrigues comprende el valor
teológico de la gradualidad (cfr. 141) desde el número 9 de Familiaris con-
sortio que tiene que ver con la conversión: “Se pide una conversión conti-
nua, permanente, que, aunque exija el alejamiento interior de todo mal
y la adhesión al bien en su plenitud, se actúa sin embargo concretamente
con pasos que conducen cada vez más lejos. Se desarrolla así un proceso
dinámico, que avanza gradualmente con la progresiva integración de los
dones de Dios y de las exigencias de su amor definitivo y absoluto en
toda la vida personal y social del hombre” (FC 9).
La conversión habla aquí de la radicalidad de la respuesta subjetiva a
la llamada de Dios. Por eso, ya el Concilio de Trento distingue entre la
conversión radical que no admite grados, pues es el paso de la muerte del
pecado a la vida de la gracia, del camino gradual de conversión que tiende
a una santidad. La disposición a la conversión que tiene sus tiempos está
movida por la gracia preveniente y es distinta de la recepción de la gra-
cia santificante: “A esta disposición o preparación, síguese la justificación
misma que no es solo remisión de los pecados. Sino también santificación

31 Es una cita (nota 95) de: Juan Pablo II, Homilía para la clausura del VI Sínodo de los
Obispos, 25-X-1980, 8.

582
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

y renovación del hombre interior, por la voluntaria recepción de la gracia


y los dones, de donde el hombre se convierte de injusto en justo y de
enemigo en amigo”32. Se evidencia el salto (conversión no gradual) que
existe de una a otra, necesario para entender la verdadera gratuidad del don
de Dios: “nada de aquello que precede a la justificación, sea la fe, sean las
obras, merece la gracia misma de la justificación «porque si es gracia, ya
no es por las obras; de otro modo (como dice el mismo Apóstol) la gracia
ya no es gracia»”33. La no gradualidad de la ley es de por sí un requisito
de conversión. En definitiva, la gradualidad de la ley es un nuevo tipo de
pelagianismo que quiere medir la fuerza de la gracia por la apreciación
subjetiva de las propias fuerzas, un grave error psicologista.
Para dar realidad a la afirmación, el mismo Concilio de Trento señala
un límite siempre a tener en cuenta en la acción de la gracia, en el sentido
mismo que dice Amoris laetitia, precisamente como condición de gra-
dualidad: “la ley es también don de Dios que indica el camino, don para
todos sin excepción que se puede vivir con la fuerza de la gracia” (AL
295). Ese don que se puede vivir ha de interpretarse necesariamente como
que: “Nadie puede considerarse desligado de la observancia de los man-
damientos, por muy justificado que esté; nadie puede apoyarse en aquel
dicho temerario y condenado por los Padres: que los mandamientos de
Dios son imposibles de cumplir por el hombre justificado. «Porque Dios
no manda cosas imposibles, sino que, al mandar lo que manda, te invita
a hacer lo que puedas y pedir lo que no puedas» y te ayuda para que
puedas. «Sus mandamientos no son pesados» (1 Jn 5,3), «su yugo es suave
y su carga ligera» (Mt 11,30)”34. Esta comprensión, profundamente teo-
lógica, de cómo la gracia actúa en el hombre justo, señala un contenido
necesario para la continuidad necesaria del magisterio.
Es un punto en el que la Veritatis splendor ayuda a comprender me-
jor Amoris laetitia, porque en esta casi no hay referencias a la conversión
personal35. Se trata de la exigente invitación inicial de Jesús que es parte

32 Concilio de Trento, Ses. VI, Decreto sobre la justificación, cap. 7 (DH 1528). Sobre el
movimiento dispositivo para la conversión: cfr. ibidem, cap. 5-6 (DH 1526-1527).
33 Concilio de Trento, Ses. VI, Decreto sobre la justificación, cap. 8 (DH 1532). La cita es
Rom 11,6.
34 Concilio de Trento, Ses. VI, Decreto sobre la justificación, cap. 11 (DH 1536), citado
en VS 102. La cita interna es: San Agustín, De natura et gratia, 43, 50 (CSEL 60,270).
35 Las referencias son Amoris laetitia, 18, 78, 297, en donde la conversión aparece como
una referencia obligada.

583
Juan José Pérez-Soba

esencial del kerygma cristiano: “convertíos y creed en el Evangelio” (Mc


1,15). Así dice el Papa Wojtyła: “En las palabras de Jesús antes mencio-
nadas, encontramos también la llamada a formar la conciencia, a hacerla
objeto de continua conversión a la verdad y al bien” (VS 64). Es muy
iluminadora la posición del cardenal Lustiger en este tema. El parte de
la lógica de la pedagogía divina contenida en la Biblia, como ejemplo
fundamental de gradualidad. Así argumenta que es precisamente la no
gradualidad de la ley de un Dios que ante un pueblo mal dispuesto no
rebaja la exigencia de la ley adaptándola al mismo, la que sostiene la ló-
gica de la ley de la gradualidad que le permite crecer y caminar, y la abre
a la ley nueva de la gracia36.
En definitiva, parece que una lectura de la exhortación que, contra
el parecer explícito del Papa Francisco37, juzgue todo desde el capítulo
VIII, difícilmente evitará el laxismo y fácilmente caerá en una interpre-
tación en ruptura con Veritatis splendor. Al centrarlo todo en la aplicación
de una norma al caso, fuera de otro contexto, y constantemente invitado
a una cierta visión misericordiosa, el lector puede perder el conjunto de
la perspectiva moral que nunca se reduce a tal aplicación. Es necesario
recordar esa visión más amplia, que el mismo Papa Francisco a expuesto
en otro lugar como “inteligencia de amor”38 y que en la exhortación
aparece repetidas veces como la exigencia propia del “amor verdadero”.

7. Una lectura rigorista de la Veritatis splendor

Encontramos en el libro frases duras respecto de una lectura rigorista de


Veritatis splendor que sería la que superaría de modo definitivo Amoris lae-
titia. En este punto es el profesor Garrigues el que insiste más con datos

36 Cfr. J.-M. Lustiger, “Gradualità e conversione”, en Aa.Vv., La Familiaris consortio,


LEV, Città del Vaticano 1982, 31-57.
37 Es él el que ha llamado la atención de no verlo todo desde el capítulo VIII: cfr.
Conferenza stampa nel volo di ritorno dall’Azerbaijan, 2-X-2016: “Sì, se prendi una parte
sola non va! L’Amoris laetitia – questo voglio dire –: tutti vanno al capitolo ottavo. No,
no. Si deve leggere dall’inizio alla fine. E qual è il centro? Ma… dipende da ognuno.
Per me il centro, il nocciolo dell’Amoris laetitia è il capitolo quarto, che serve per tutta
la vita. Ma si deve leggerla tutta e rileggerla tutta e discuterla tutta, è tutto un insieme”.
38 Para profundizar un poco en el tema hemos realizado todo un congreso titulado:
Intelligenza d’amore. Una nuova epistemologia morale oltre la dialettica tra norma e caso, XVII
Colloquio di Teologia Morale, Roma 17-18 novembre 2017.

584
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

precisos sobre la redacción de la encíclica en el punto que titula “una


extensión desorbitada del campo de aplicación de Veritatis splendor” (pp.
135-139)39. Allí narra la presión de algunos autores para que el texto
contuviese una afirmación dogmática concerniente a algún acto intrín-
secamente malo. Se ve aquí la fijación del tema moral en un no a deter-
minadas acciones. Gracias a Dios esto no se llevó a cabo, lo que prueba
una vez más que la encíclica puede leerse rígidamente, pero que no lo es.
En la exposición del libro este rigorismo se puede caracterizar en
dos puntos.
1. El contenido real de la encíclica se circunscribiría al capítulo se-
gundo, los otros dos no aportarían un contenido verdadero a su enseñan-
za, serían solo una contextualización teológica secundaria.
2. El capítulo segundo contendría la totalidad de la moral cristiana,
para lo cual bastaría la afirmación de la existencia de actos intrínsecamen-
te malos.
Es cierto que se encuentran autores que se expresan en esos térmi-
nos; pero también hay que decir que es una minoría poco significativa.
La recepción real de la encíclica, que de hecho encontró muy poca opo-
sición explícita entre los teólogos, ha sido en claves mucho más abiertas.
De hecho, muy pronto se realiza todo un congreso centrado exclusiva-
mente en el capítulo primero para mostrar que sin él la encíclica no se
comprende40.
Quien piense que con la comprensión de los actos intrínsecamente
malos la moral está ya definida, está en contradicción con la misma en-
cíclica en cuanto dice: “El amor y la vida según el Evangelio no pueden
proponerse ante todo bajo la categoría de precepto” (VS 23). De otro
modo, la gracia se presenta como extrínseca a la moral y no se com-
prende el origen mismo de la acción humana como respuesta a la previa
acción gratuita de Dios.
Por consiguiente, con un sencillo análisis de la encíclica se puede
llegar a formular precisamente que incluye dos claves que responden de
forma directa y superan las característica anteriores de su comprensión

39 “Une extension exorbitée du champ d’application de Veritatis splendor”.


40 Editado como: G. Borgonovo (ed.), Gesù Cristo, legge vivente e personale della Santa
Chiesa. Atti del IX Colloquio Internazionale di Teologia di Lugano sul primo capitolo
dell’enciclica “Veritatis splendor”. Lugano 15-17 giugno 1995, Facoltà di Teologia di
Lugano, Piemme, Casale Monferrato 1996.

585
Juan José Pérez-Soba

rigorista: “Se trata más bien de entender tanto que los nudos éticos del
segundo capítulo pueden encontrar su inteligencia plena y su solución
definitiva solo en la luz de las perspectivas teológicas del primer y tercer
capítulos, como que el dinamismo teologal implica necesariamente una
adecuada integración y encarnación del dinamismo humano”41.
Los profesores de la Sede Central del Pontificio Instituto Juan Pablo
II, hemos sufrido la crítica directa por parte de esta posición rigorista. Así
se nos ha acusado de no comprender bien la encíclica y de enseñar en
términos excesivamente abiertos a una interpretación diversa de la sola
centrada en los actos intrínsecamente malos y, por ello, defenderíamos
una posición cercana al subjetivismo, por no haber fundado bien tales
actos42. No nos extrañó esta reacción de rechazo tan fuerte, éramos
conscientes de la novedad del planteamiento que habíamos hecho de
una moral fundada en el amor, que esta corriente no puede sino juzgar
como demasiado atrevida. Está claro que es bueno superar estas posturas
porque encierran la teología en un inmovilismo estéril que no admite
ningún progreso y que juzga desde posiciones muy cerradas cualquier
otra postura como errónea sin entenderla.
Con acierto Thomasset enfrenta esta postura con el modo como la
Comisión Teológica Internacional trata la ley natural y Garrigues hace
uso de la aportación de Jacques Maritain que, sin duda, es diversa y mu-
cho más dinámica que la que se encuentra en los que siguen esa interpre-
tación tan reductiva de la encíclica y de la moral cristiana.
No podemos entrar en un estudio adecuado de un documento tan
complejo como el de la Comisión Teológica Internacional sobre la
ley natural43. La exhortación Amoris laetitia (n. 305) cita su número 59:

41 L. Melina – J. Noriega, “Note introduttive: prospettive di rinnovamento della


teologia morale a dieci anni da Veritatis splendor”, en L. Melina – J. Noriega (a
cura di), “Camminare nella Luce”. Prospettive della teologia morale a partire da Veritatis
splendor, Lateran University Press, Roma 2004, 13: “Si tratta piuttosto di capire sia
che i nodi etici del secondo capitolo possono trovare la loro intelligenza compiuta e
la loro soluzione definitiva solo nella luce delle prospettive teologiche del primo e
terzo capitolo, sia che il dinamismo teologale necessariamente implica un’adeguata
integrazione e incarnazione nel dinamismo umano”.
42 Cfr. J. A. Sayés, “L. Melina – J. Noriega – J.J. Pérez-Soba ¿mantienen la Veritatis
Splendor?”, en Revista Agustiniana 48 (2007) 843-868; Id., “J.J. Pérez-Soba. Un amor
sin criterios objetivos”, en Revista Agustiniana 50 (2009) 655-675; Id., “J. J. Pérez-
Soba: Ley natural y subjetivismo”, en Revista Agustiniana 52 (2011) 451-466.
43 Cfr. Commission Théologique Internationale, À la recherche d’une éthique universelle.
Nouveau regard sur la loi naturelle, ed. par B. De Malherbe, Éditions des Bernardins,
Parole et Silence, Paris 2011.

586
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

“La ley natural no debería ser presentada como un conjunto ya consti-


tuido de reglas que se imponen a priori al sujeto moral, sino que es más
bien una fuente de inspiración objetiva para su proceso, eminentemente
personal, de toma de decisión”.
Tal afirmación es inseparable de su contexto, que es evitar la in-
terpretación racionalista de la ley natural que se hizo en la modernidad
y que ha sido causa de su rechazo por parte de muchos, debido a lo
inadecuado de su concepción: “El modelo racionalista moderno de la
ley natural se caracteriza por: 1) creencia esencialista en una naturaleza
humana inmutable y a-histórica, respecto a la cual la razón puede perfec-
tamente captar la definición y las propiedades esenciales; 2) se pone entre
paréntesis la situación concreta de las personas humanas y la historia de
la salvación, marcada por el pecado y la gracia, cuya influencia sobre el
conocimiento y la práctica de la ley natural son, sin embargo, determi-
nantes; 3) la idea de que es posible que la razón deduzca a priori los pre-
ceptos de la ley natural a partir de la definición de la esencia del, hombre;
4) la extensión máxima de los preceptos deducidos así, de modo que la
ley natural aparece como un código de leyes completas que regula casi
todos los comportamientos”44.
Como bien afirma el documento, es una interpretación “moderna”
que nace en el siglo XVII y que es contraria al modo como la concibe
Santo Tomás que sintetiza en su hermosa homilía sobre los diez man-
damientos que la encíclica cita en lugares precisos que dan el contexto
adecuado para su interpretación45. Una lectura atenta del documento
sobre moral fundamental en verdad no deja entonces margen para esa
interpretación rigorista. Esta asunción en continuidad ayuda a desterrar
este modo erróneo de ver la moral. Los autores citados en el libro: Ser-
vais Pinckaers y Jean-Louis Bruguès lo hacen esta línea abierta desde una
aceptación total y clara de la encíclica46. Nuestros autores por eso dicen

44 Comisión Teológica Internacional, En busca de una ética universal, n. 33.


45 Se trata de: Santo Tomás de Aquino, Collationes in decem preceptis, en J.-P. Torrell,
“Les Collationes in decem preceptis’ de saint Thomas d’Aquin. Édition critique avec
introduction et notes”, en Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 69 (1985) 5-40.
227-263, citado en VS nn. 12, 40, 78, Con las notas 19, 71, y 128 respectivamente, en
los tres casos son citas textuales.
46 A estos autores se le podría añadir el concienzudo estudio de: M. Rhonheimer,
Natur als Grundlage der Moral, Tyrolia-Verlag, Innsbruck-Wien 1987 y otros muchos
posteriores.

587
Juan José Pérez-Soba

de esta postura estrecha: “la opinión teológica común, la más segura hoy,
no la hace suya” (p. 150)47.
Desde luego, es necesario reconocer a Maritain el esfuerzo grande
una concepción dinámica y no racionalista de la ley natural, precisa-
mente en el contexto que él impulsó de la declaración universal de los
derechos humanos48. La encíclica se haya en perfecta coherencia con él
y se le puede considerar un precedente de la misma. Como es natural,
el documento pontificio añade el papel de la experiencia personal y en
ella el valor del cristocentrismo objetivo es fundamental. Es cierto que,
para ello, hay que comprender la encíclica en la totalidad de su redacción
(una lectura sincrónica de los tres capítulos), con una especial atención a
los lugares claves de la encíclica en donde se hace alusión al “principio”
en sentido a la vez, cristológico y experiencial49.
La ley natural, tal como la comprende la Veritatis splendor, siguiendo
a Santo Tomás, no es un concepto centrado en la norma cuanto en la
luz, sin la cual no se puede caminar (cfr. Jn 12,35-36)50. Es la razón más
profunda de la unidad analógica entre ley natural y la ley nueva. De aquí
que pueda definir esta como “la gracia del Espíritu Santo que se nos da
por la fe de Cristo”51. Por ello, la ley natural es una guía que permite la
reformulación de las normas siempre más adecuadas a esa luz. Esto no
tiene nada de relativista, porque la objetividad de la luz está clara. Preci-
samente, la universalidad y la inmutabilidad de la ley natural, afirmadas
fuertemente tanto en la encíclica como en el Catecismo, vienen con
ella. Eso no significa, como la Comisión Teológica y Maritain destacan,

47 “l’opinion théologique commune la plus sûre aujourd’hui ne la fait pas sienne”.


48 En especial: cfr. J. Maritain, Neuf leçons sur les notions premières de la philosophie morale,
en Jacques et Raïssa Maritain. Œuvres Complètes, IX, Éd. Universitaires Fribourg Suisse
-Éd. Saint-Paul Paris, Fribourg -Paris 1990, 739-939.
49 Para este argumento de un valor teológico tan grande: cfr. F. Simón Rueda, Una luz
en el camino. Dimensión teológica de la ley natural a partir de la encíclica Veritatis splendor,
Facultad de Teología San Dámaso, Madrid 2011, que incluye un estudio detallado de
todos los debates conciliares sobre la ley natural. Estudia la remisión al “principio” en
pp. 147-288.
50 Cfr. ibid., 442-447.
51 Santo Tomás de Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 106, a. 1. En nuestro libro p.
37 y 43. Cfr. F. Simón Rueda, Una luz en el camino, cit., 447: “Los textos donde
Santo Tomás expone la unidad entre la luz natural y la luz sobrenatural, revelan dos
dimensiones fundamentales. Por un lado, el carácter de perfeccionamiento de luz de
la gracia que indica una inherencia en la dirección propia de la luz natural, no para
anularla, sino para trascenderla y dirigirla al fin al que no puede llegar por sí misma. Y,
en segundo lugar, la unidad con el dinamismo apetitivo del hombre”.

588
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

negar que exista una evolución en su mejor formulación, este proceso es


posible precisamente por la inmutabilidad de su contenido.
La conclusión es que, la verdadera doctrina sobre la ley natural de
Veritatis splendor es mucho más rica y no se deja encerrar en los prejui-
cios racionalistas de esa denominada interpretación rigorista que, gracias a
Dios, siempre fue minoritaria. La misma personalidad de San Juan Pablo
II ayudaba a un modo de interpretación muy diferente, mucho más per-
sonalista y cercano a lo concreto. Tanto por la importancia decisiva de
la misericordia en su pensamiento y modo de obrar, como la fuerza enor-
me de la experiencia en sus Catequesis sobre el amor humano que son una
fuente de gran importancia en la exhortación Amoris laetitia, pues las cita
25 veces. Si se busca en verdad una lectura en continuidad es apropiado
evitar las fáciles dialécticas que oponen ideas y ver el fundamento real en
donde emerge el valor evangélico de la enseñanza.
La posición rigorista y minoritaria no comprende la verdadera no-
vedad de Veritatis splendor que sintetizaba muy bien Josef Ratzinger en la
presentación del documento: “la colaboración de las acciones humana y
divina en la plena realización del hombre”52. En esto no entran los actos
intrínsecamente malos sino como un modo concreto de acción humana
en su posibilidad de ruptura con el plan de Dios. En esa perspectiva, no
son nunca el aspecto esencial de la moral, ni sirven para el conocimiento
suficiente de la vida cristiana. Es así como se lee la encíclica en su totali-
dad y no solo el capítulo segundo, y se abre a la necesidad de desarrollar
principios teológicos y éticos que simplemente están esbozados en ella.
Cualquiera que lea con ojos abiertos la encíclica moral de Juan Pablo
II, sacará esa impresión y comprenderá que es un texto que abre caminos
y que permite incorporar a su enseñanza pensamientos muy diversos. “De
hecho la Encíclica ha intentado ser nos solo un punto de llegada, con cuyas
precisiones doctrinales debe confrontarse toda reflexión moral, sino sobre
todo punto de partida para un verdadero camino de renovación”53. La

52 J. Ratzinger, “La fe como camino: Introducción a la encíclica «Veritatis splendor»


sobre los fundamentos de la moral”, en Id., La fe como camino, EIUNSA, Barcelona
1997, 64.
53 L. Melina – J. Noriega, “Prefazione”, en L. Melina – J. Noriega (a cura di),
“Camminare nella luce”. Prospettive della teologia morale a partire da Veritatis splendor,
cit., 5: “Infatti l’Enciclica ha inteso essere non soltanto un punto di arrivo, con le
cui precisazione dottrinali ogni riflessione morale deve confrontarsi, ma anche e
soprattutto un punto di partenza per un vero cammino di rinnovamento”. En este
volumen dialogan a partir de la encíclica autores de diversas escuelas teológicas.

589
Juan José Pérez-Soba

aceptación leal de su enseñanza, de ningún modo conlleva una mentalidad


estrecha e inmovilista que no obedece a su forma de tratar los temas.
Es evidente que cualquier mención a la objetividad y la existencia de
actos intrínsecamente malos se puede interpretar rígidamente, pero esto no
se debe ni a la intención, ni a la redacción de la encíclica. Eso sí, la apertura
grande que ha aportado este documento no puede ser valorada suficien-
temente ni por el texto sobre la ley natural de la Comisión Teológica In-
ternacional que simplemente establece un status quaestionis y no incluye lo
más novedoso de los estudios tras la encíclica, y menos desde Maritain que,
por ser un primer acercamiento al tema, no conocía lo más genuino de la
renovación de la teoría de la razón práctica que nunca comprendió sufi-
cientemente. En todo caso, no ayuda al diálogo eclesial exagerar el peligro
de rigorismo, teniendo en cuenta que vivimos el influjo preeminente de
una cultura laxista. En este sentido alguna de las afirmaciones del profesor
Garrigues es del todo excesiva en sus calificaciones54.

8. Las fuentes: Santo Tomás de Aquino y el Catecismo de la


Iglesia Católica

El Papa Francisco ha invitado a leer la exhortación desde su fuente to-


mista55, pues es notorio el que se apoya en el Doctor Angélico en mo-
mentos centrales de su argumentación. Esto requiere sin duda un análisis

54 Así Garrigues se lamenta de la rigidez de una determinada escuela teológica –identificada


con los profesores del Instituto Juan Pablo II- y pone como ejemplo el coloquio “Fides
– foedus”, al que él mismo fue invitado (p. 154). Según él, le sorprendió ver cómo
casi todas las relaciones se cerraban a considerar la pertinencia pastoral y doctrinal
de revisar la relación entre la fe de los contrayentes y la validez del sacramento, una
cuestión suscitada por Benedicto XVI. Cualquiera que lea las actas del coloquio (A.
Diriart – S. Salucci (a cura di), Fides-foedus. La fede e il sacramento del matrimonio,
Cantagalli, Siena 2014) puede constatar otra cosa. El artículo del prof. José Granados
propone la necesidad de la fe para la validez del matrimonio, entendiendo esta fe como
voluntad de pertenencia a la Iglesia (p. 35). La profesora Diriart explora la posibilidad
de “elementos de sacramentalidad” en algunas uniones no sacramentales (p. 210). Y
el obispo Juan Antonio Reig-Pla hace una reflexión pastoral innovadora, que asocia
anuncio evangélico y preparación al matrimonio. Además, las actas incluyen una amplia
bibliografía sobre el tema como contribución científica inestimable en vista de favorecer
una investigación abierta. Todo ello dentro del ámbito de diálogo en el que se desarrolló
el Coloquio que contó con la intervención cualificada del profesor Garrigues.
55 Cfr. Francesco, Discorso all’apertura del convegno ecclesiale della diocesi di Roma, 16-VI-
2016: “riprendo le parole di un grande teologo (…), il cardinale Schönborn, che l’ha
presentata –tutto è tomista, dall’inizio alla fine”.

590
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

riguroso. Ya en los debates posconciliares sobre la autonomía moral,


muchos autores intentaron fundar en Santo Tomás su idea de autonomía
de un modo meramente formal. Querían hacer decir al Angélico lo que
ellos pensaban, de forma, que una vez sentada su afirmación, dejaban
de acudir a él y no aparecía más en su desarrollo. Esta advertencia hi-
stórica nos obliga a evitar el peligro de: “una tentación, también del todo
«política», de usar paradójicamente esta autoridad [de Santo Tomás] en
orden a engañar a los demás en su lectura discontinua de las enseñanzas
pontificias. Al poner aparentes «novedades» bajo el patrocinio de tal mo-
delo de ortodoxia, S. Tomás, piensan que pueden protegerse a sí mismos
contra el reproche de promover una hermenéutica de ruptura”56.
Es necesario tomar las fuentes en su rigor, para comprender en ver-
dad el alcance de sus argumentos, solo así se asegura una continuidad
verdadera y no se cae en un fácil concordismo. No es suficiente ver que
se tratan algunos temas comunes, sino que es muy importante percibir
en ellos la fuerza que les da unidad.
Junto con Santo Tomás, está el Catecismo de la Iglesia Católica, pre-
sente en puntos muy sensibles de la exhortación y que los autores citan
con frecuencia en su libro. Es notorio que no se podía elegir unas fuentes
más tradicionales. En la medida en que la argumentación de la exhorta-
ción se basa en ellas hay que comprenderlas en su propio valor, evitando
forzar su significado para no sacar de ellas algo que en verdad no dicen.

9. El Catecismo y los atenuantes57

“La Iglesia posee una sólida reflexión acerca de los condicionamientos y


circunstancias atenuantes” (AL 301). Este es el modo de introducir un

56 S.-T. Bonino, “St. Thomas in Amoris laetitia”, en The Thomist 80 (2016) 501: “a
temptation, also entirely «political,» of paradoxically using this authority in order
to fool others about their discontinuous reading of pontifical teachings. In placing
apparent «novelties» under the patronage of that paragon of orthodoxy, St. Thomas,
they think that they can protect themselves against the reproach of promoting a
hermeneutic of rupture”.
57 Si nos fijamos en un texto anterior muy semejante sobre los atenuantes constatamos
que es profundamente ambiguo y muy difícil de comprender dentro de la acción
humana; no ayuda casi nada a nuestro propósito de claridad: cfr. V. M. Fernández,
“La dimensión trinitaria de la moral. II. Profundización del aspecto ético a la luz de
«Deus caritas est»”, en Teología 43 nº 89 (abril 2006) 133-163.

591
Juan José Pérez-Soba

número complejo de Amoris laetitia donde se dan muchas afirmaciones


seguidas que proceden de distinta fuente. La atención por los atenuantes
sí que es una novedad respecto de Veritatis splendor que solo hace una
alusión genérica a los mismos.
Llama la atención que la invocación de la “sólida reflexión” que
insinúa una tradición anterior asentada, se halla mezclada con muchas
indicaciones que no se habían desprendido nunca de ella. Se da al mismo
tiempo una llamada a un pensamiento tradicional junto con una apli-
cación del todo novedosa. Para ello no se aducen razones, sino que se
presenta casi a modo de conclusión. Este salto lógico, entonces, pide una
profundización real del valor moral y la importancia de los atenuantes,
para poder comprender mejor el alcance de la afirmación magisterial.
Nos hallamos por cierto ante una cuestión ante todo humana, cuya de-
terminación obedece en gran medida primero a la psicología, esencial
para medir el valor real de esas afirmaciones. Es una dirección que indica
el Papa, que ha de verificarse con un conocimiento más profundo dentro
de la acción humana. Sin duda, es un campo abierto a la investigación
en el sentido de que “la reflexión de los pastores y teólogos, si es fiel
a la Iglesia, honesta, realista y creativa, nos ayudará a encontrar mayor
claridad” (AL 2). No se puede hacer con precipitación, sino con una
reflexión serena como servicio eclesial.
La frase principal es (CCE 1735): “La imputabilidad y la responsabi-
lidad de una acción pueden quedar disminuidas e incluso suprimidas a
causa de la ignorancia, la inadvertencia, la violencia, el temor, los hábi-
tos, los afectos desordenados y otros factores psíquicos o sociales”. Está
enmarcada, cómo no, en la sección que trata de la libertad. Es una afir-
mación cierta que se ha de comprender por la inmediatamente anterior
(CCE 1734): “La libertad hace al hombre responsable de sus actos en la
medida en que estos son voluntarios. El progreso en la virtud, el conoci-
miento del bien, y la ascesis acrecientan el dominio de la voluntad sobre
los propios actos”. Existe un crecimiento de la libertad por obrar en el
bien y un debilitamiento de la misma por el mal. Son caminos contra-
puestos, la no imputabilidad pide entonces un cambio fuerte por encon-
trarse el hombre en un camino mal dirigido que le daña con su malicia.
Evidentemente, esto se realiza en grados. Los atenuantes hacen la ac-
ción menos libre. Por consiguiente, cuando se dice que esos condicionantes

592
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

“suprimen” del todo la imputabilidad, el Catecismo se refiere, al caso


máximo de que la acción no es de ningún modo libre. No se puede pensar
una situación más penosa para un hombre encerrado en una terrible es-
clavitud interior. Solo se puede atribuir esta realidad tan miserable con
mucho cuidado, porque es ofensivo hacerlo cuando no es cierto.
Los atenuantes se refieren a la libertad no a la conciencia que juzga
de otro modo. Aquellos que son esclavos de sus pasiones son normal-
mente los menos conscientes de ello, necesitan una ayuda para salir de
esa ceguera tan grande. Lo describe muy bien la exhortación cuando
dice: “Es lo que sucede con un adicto compulsivo a la droga. Cuando la
quiere lo hace con todas sus ganas, pero está tan condicionado que por
el momento no es capaz de tomar otra decisión. Por lo tanto, su deci-
sión es voluntaria, pero no es libre. No tiene sentido «dejar que elija con
libertad», ya que de hecho no puede elegir, y exponerlo a la droga sólo
aumenta la dependencia. Necesita la ayuda de los demás y un camino
educativo” (AL 273).
Como bien explica el Papa Francisco, no necesita tanto un discerni-
miento del grado de culpabilidad, sino una ayuda y un camino para salir
de esa triste situación. El discernimiento adecuado sería el de cómo acom-
pañar mejor a esa persona para que, cuanto antes, salga de su postración.
Simplemente pensar que por no ser culpable se le puede dejar en la mis-
ma, sería un pensamiento terrible. De hecho, el primer acompañamiento
que necesita es salir del contexto que le condiciona tan gravemente y
que, muchas veces, conforma todo un modo de vida. Es muy difícil de
superar y nunca se puede hacer solo, pues está muy por encima de sus
mermadas capacidades.
Se constata entonces que la alusión a la conciencia perpleja nunca ha
entrado directamente entre los atenuantes, porque se comprende siem-
pre una cuestión muy particular que, al no obedecer a ningún criterio
objetivo, no puede permanecer en el tiempo, sino que pide una reso-
lución lo más pronto posible58. Hemos de evitar decididamente la fácil
tentación de un posibilismo en este campo como si bastase cualquier tipo
de atenuante o de imperfección para concluir que no hay culpabilidad
alguna, todavía menos si se confunden con la ceguera ante los valores

58 Extrañamente es a la que al final reconduce su pensamiento: B. Valuet, “Amoris


Laetitia: Le chapitre VIII est-il une révolution”, en Revue Thomiste 116 (2016) 585-618.

593
Juan José Pérez-Soba

que tiene un dinamismo mucho más complejo. El posibilismo en todas sus


manifestaciones es un claro ejemplo de laxismo.
Extraña por eso la insistencia de Thomasset en el conflicto de valo-
res, mediante una alusión tan antigua como la de los obispos franceses
sobre la Humanae vitae (p. 92) en términos que Juan Pablo II negó ex-
plícitamente: “Hablar de «conflic­to de valores o de bienes» y de la con-
siguiente necesidad de lograr una especie de «equilibrio» de los mismos,
eligiendo uno y rechazando el otro, no es moralmente correcto y sólo
produce confusión en la conciencia de los esposos”59. Se trata de un
camino equivocado como reconocen los principales pensadores sobre la
ética de los valores, ya que estos nunca se eligen, sino que son el motivo
de la elección. “Cualquier intento de explicar el comportamiento mo-
ralmente incorrecto como la preferencia de un bien que posee un valor
inferior sobre otro bien dotado de un valor superior, está condenada al
fracaso”60.

10. La universalidad de las normas y la concreción de las


acciones

La mención fundamental de Santo Tomás que se haya en Amoris laetitia


es la que distingue en el conocimiento moral la certeza propia de los
principios, de aquella que se puede obtener en los actos concretos.
“Aunque en los principios generales haya necesidad, cuanto más se
afrontan las cosas particulares, tanta más indeterminación hay (…) En el
ámbito de la acción, la verdad o la rectitud práctica no son lo mismo en
todas las aplicaciones particulares, sino solamente en los principios ge-
nerales; y en aquellos para los cuales la rectitud es idéntica en las propias
acciones, esta no es igualmente conocida por todos (…) Cuanto más se
desciende a lo particular, tanto más aumenta la indeterminación” (I-II,
q. 94, a. 4, citado en AL 304).

Es un principio de máxima importancia para Santo Tomás cuya


comprensión de la razón práctica no parte desde la aplicación de normas,

59 Juan Pablo II, Discurso al IV Congreso Int. de la Familia de África y Europa, 14-III-86, n. 1.
60 D. von Hildebrand, Ética, Encuentro, Madrid 1983, 51.

594
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

sino desde la atracción de bien, es decir, desde lo concreto de un bien


que motiva al hombre a su acción, por medio de sus afectos. Sí lo tiene en
cuenta Thomasset como principio (p. 82); pero no lo acaba de integrar
posteriormente desde las razones de actuar y la atracción del bien.
De aquí que la afirmación anterior no debe entenderse como si la
ley no llegase a considerar lo concreto de la acción, pues en cuanto
orden interno que guía la realización del bien, está presente en toda
acción concreta. Lo que significa es que no sirve para obrar bien solo el
conocimiento de la norma, a modo de principio o fórmula, sino que son
necesarias las disposiciones subjetivas del agente. Si se pueden formular
principios universalmente válidos, estos no contienen toda la verdad de
la acción que está envuelta en una multitud de bienes concretos que la
definen. Esta es la preocupación que ya tuvo Aristóteles: de qué modo
podía haber una ciencia de algo tan contingente como es la acción hu-
mana. Para ello había que entender cómo obraba la razón en el interior de
la acción concreta, pero siempre desde la atracción del bien en su objeti-
vidad, lo que asegura su correlación con la norma universal que expresa
precisamente la razón de bondad de la acción. Existe pues siempre una
tensión entre la ciencia moral y sus afirmaciones y el saber moral de las
personas al dirigir su vida. Esto llevó a Santo Tomás a decir: “El fin de
esta doctrina no es el conocimiento de la verdad, sino que lleguemos a
ser buenos”61. La dinámica se sostiene desde la objetividad del bien que
perfecciona al sujeto que actúa, y no como una indeterminación a llenar
subjetivamente. Por eso se define la verdad de la acción como “confor-
midad con el apetito recto”62 para ver que no se trata de una razón ajena
al movimiento concreto de los afectos en el sujeto. Es distinta de la razón
teórica que no es adecuada para esta ciencia práctica. La referencia a los
afectos como fundamento de toda verdad práctica es la razón de tocar lo
concreto, por lo que: “la razón universal no mueve sin lo particular”63.
El signo mayor de una posición rigorista, claramente no de acuerdo con

61 Santo Tomás de Aquino, Sententia libri ethicorum, l. 2, lec. 11, 4-5.


62 Santo Tomás de Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 57, a. 5, ad 3: “Verum autem
intellectus practici accipitur per conformitatem ad appetitum rectum”. Se refiere a:
Aristóteles, Ética a Nicómaco, l. 6, c. 2 (1139a 30-31).
63 Santo Tomás de Aquino, Sententia libri ethicorum, l. 6, lec. 2 (139-140): “ratio
universalis non movet sine particulari”.

595
Juan José Pérez-Soba

Santo Tomás, es olvidar lo concreto del movimiento de la afectividad


que ilumina la razón recta.
Se ve lo propio de la racionalidad práctica que aporta un nuevo con-
cepto de aplicación, a modo de luz y no de mera obligación ya establecida.
La luz permite ver la razón de bondad o malicia del acto del acto singular
en la dinámica de la persona que genera su acción64 y no simplemente
a modo de caso particular de una ley general que no considera lo con-
creto de la actuación del agente. Así lo reconoce la encíclica de modo
expreso: “La enseñanza del Concilio subraya, por un lado, la actividad de
la razón humana cuando determina la aplicación de la ley moral: la vida
moral exige la creatividad y la ingeniosidad propias de la persona, origen
y causa de sus actos deliberados” (VS, n. 40). Esto aclara mucho que la
auténtica “aplicación” de la Veritatis splendor es muy distinta de la pre-
tendida por la “interpretación rígida”, pero que tampoco se corresponde
con la que describe Garrigues (pp. 118-128) que lo presenta siempre
como si tratase de una norma general al caso concreto.
Quien realmente conoce la acción es la persona que actúa, no quien
observa desde fuera (perspectiva de la tercera persona) sino desde su
intencionalidad respecto del bien. Precisamente es el agente al que más
le interesa obrar bien –“que llegue a ser bueno”- que es a lo que ayuda
la enseñanza moral. La existencia de la indeterminación en lo concreto,
pide a la ciencia moral cuidar, no solo la formulación de normas, sino
además la formación del sujeto moral. Esto es lo esencial de la ética de la
virtud invocada por los autores (especialmente pp. 37. 90. 150), que no
pierde nada de la objetividad, sino que la refuerza. Es precisamente el
bien en cuanto atrae el que va conformando interiormente al sujeto en
su forma de disponerse a la acción en una disposición permanente que
se llama virtud.
Esta es la dimensión propia de la moral, formar el sujeto. La encíclica
Veritatis splendor tiende a ella, pero no la desarrolla, y su necesidad queda
puesta de relieve en la exhortación Amoris laetitia. Hemos de considerarla
la base necesaria para comprender mejor sus afirmaciones y evitar una
errónea interpretación laxista de la misma.

64 Cfr. L. Melina, La conoscenza morale. Linee di riflessione sul Commento di san Tommaso
all’Etica Nicomachea, Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica, Milano 20052, 211.

596
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

La prudencia es la virtud del conocimiento del bien y la que permite


salvar ese salto entre lo universal y lo concreto, pero que nunca se mueve
en una dialéctica entre lo objetivo y lo subjetivo. Lo propio de la pru-
dencia es ver el “bien en sí” perfectivo en el juicio concreto de la acción
como criterio fundamental de todo discernimiento, frente a la atracción
del bien aparente que engaña. Para ello la prudencia ilumina la rectitud
del afecto: “para el pecado se requiere una deliberación [collatio] entre
lo que tiene una bondad aparente y lo que es naturalmente bien de por
sí”65. De aquí que se pueda concluir: “Poner el precepto prudencial tras
la elección lleva en cambio a subrayar una primacía objetiva de la virtud
de la prudencia, la cual, teniendo en vista la ejecución concreta, no se
puede preocupar solo de la rectitud subjetiva, sino también de la verdad
objetiva de la acción”66. Esta es la visión prudencial tomista a la que se
refieren los autores (pp. 14. 45. 76. 80. 146) que actúa de modo muy
diferente a la conciencia lo cual no tienen en cuenta (cfr. p. 80).
De aquí que la indicación de la existencia de actos intrínsecamente
malos ayuda al agente a reconocer mejor en concreto las razones de maldad
posibles en su acción, de forma que, reconocidas en ella, la prudencia le
conduce a variar el modo de actuar. Cualquier concreción posterior en
esa dirección no hace variar la malicia: “Porque hay ciertas pasiones y ac-
ciones que en su mismo nombre implican malicia, como en las pasiones
el gozo en el mal, la desvergüenza y la envidia, en las obras el adulterio,
el robo y el homicidio; todas estas cosas y sus similares, son por sí mis-
mas malas, y no solo su exageración o defecto, de donde sobre estas no
ocurre que alguien se disponga rectamente para obrar cualquiera de ellas,
sino que siempre el que obra estas cosas peca. Para explicar esto basta que
el bien o no bien no sucede en ellas del hecho que alguien obre alguna
de ellas, pensemos en el adulterio, como se debe, o cuando es debido
para que se haga bien, y mal cuando se obra no como es debido, sino
que simplemente, siempre que se haga una de estas cosas, es pecado; pues

65 Santo Tomás de Aquino, In III Sententiarum, d. 18, q. 1, a. 3, ad 4: “requiritur ad


peccatum collatio ejus quod habet apparentem bonitatem ad id quod est per se bonum
naturaliter desideratum”.
66 L. Melina, La conoscenza morale, cit., 209: “Collocare il precetto prudenziale dopo
l’elezione porta invece a sottolineare una primazia oggettiva della virtù della prudenza,
la quale, avendo di mira l’esecuzione concreta, non si può preoccuppare solo della
rettitudine soggettiva, ma anche della verità oggettiva dell’azione”.

597
Juan José Pérez-Soba

todas estas implican en sí mismas algo que repugna a lo que se debe”67. Es


como el Aquinate comprende el conocimiento moral concreto a la luz
de los actos intrínsecamente malos: no se debe nunca a la comparación
con un ideal de forma que no llegando él permanece una cierta bondad
en la acción, sino en la dirección real del acto que al ser desviado daña la
persona, la perjudica en su enfermedad moral. El discernimiento genui-
namente moral tiene como centro la especificación real en concreto del
objeto de la acción68, se realiza mediante sus razones morales que tienen
un principio de inmutabilidad69.
Es lo que no se ve en Thomasset que sigue un concepto neoes-
colástico de norma como ajena al caso. Por tanto, en su análisis toma
el sentido de “aplicar” a modo de las normas humanas que ven en lo
concreto razones diversas de la que especifica la norma. Esto desfigura
el discernimiento, porque así las disposiciones subjetivas se separan en su
dinamismo de la especificación objetiva. En el Aquinate, como hemos
visto, al entrelazarse ambas dimensiones en la acción, no se pueden tratar
como si fuesen esferas independientes. Las disposiciones subjetivas que
conducen a una persona a mentir sin remordimientos de conciencia, no
son las mismas por las que otra decide entrar en una asociación mafiosa.
Cada una de ellas manifiesta “objetivamente” una carencia “subjetiva”
distinta. La realidad objetiva de la acción pide también una implicación
subjetiva que no es separable de la misma y que califica al sujeto.

67 Santo Tomás de Aquino, Sententia libri ethicorum, l. 2, lec. 7 (147-163): “Quia


quaedam tam passiones quam actiones in ipso suo nomine implicant malitiam, sicut
in passionibus gaudium de malo et inverecundia et invidia, in operationibus autem
adulterium, furtum, homicidium; omnia enim ista et similia, secundum se sunt mala
et non solum superabundantia ipsorum vel defectus; unde circa haec non contingit
aliquem recte se habere qualitercumque haec operetur, sed semper haec faciens peccat.
Et ad hoc exponendum subdit, quod bene vel non bene non contingit in talibus ex eo
quod aliquis faciat aliquod horum, puta adulterium, sicut oportet vel quando oportet,
ut sic fiat bene, male autem quando secundum quod non oportet, sed simpliciter,
qualitercumque aliquod horum fiat, est peccatum; in se enim quodlibet horum
importat aliquid repugnans ad id quod oportet”.
68 Cfr. J. Costa Bou, El discernimiento del actuar humano. Contribución a la comprensión del
objeto moral, EUNSA, Pamplona 2003.
69 Cfr. Santo Tomás de Aquino, Sententia libri ethicorum, l. 5, lec. 12 (197-204): “quia
rationes etiam mutabilium sunt immutabiles, si quid est nobis naturale quasi pertinens
ad ipsam hominis rationem, nullo modo mutatur, puta hominem esse animal. Quae
autem consequuntur naturam, puta dispositiones, actiones et motus mutantur ut in
paucioribus; et similiter etiam illa quae pertinent ad ipsam iustitiae rationem nullo
modo possunt mutari”.

598
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

Esta forma excesiva de prestar toda la atención en “aplicar” normas


también está presente en Garrigues cuya preocupación cuando salió la
encíclica Veritatis splendor fue según sus palabras preguntarse por su modo
de aplicación: “yo había elevado, al mismo tiempo que Jean Vanier y sin
duda que también otros, la cuestión de los límites de la esfera de aplica-
ción de los principios morales incontestables formulados por la encícli-
ca” (p. 118)70.
Esta visión parcial se evidencia en la forma que tienen de com-
prender la encíclica. Desde la visión de la razón práctica son del todo
irrelevantes algunos de sus argumentos: ya sea insistir en que no hay una
lista completa de actos intrínsecamente malos (pp. 69-70, 83, 120-121),
como referirse a los actos que, no bien especificados en su objeto, cam-
bian de valoración moral (pp. 70, 72-73, 123-126). La Veritatis splendor
insiste en la especificación en la perspectiva “de la persona que actúa” y
no se pone en la posición del moralista preocupado en la formulación
de normas y la aplicación de la mismas. Es un modo de ver que la com-
prensión real del texto de la encíclica es más compleja de lo que muchos
piensan y que, por ello, es de por sí una referencia próxima para la re-
cepción adecuada de la Amoris laetitia.

11. La dinámica de la acción: entre lo objetivo y lo subjetivo, la


luz del “objeto moral”

La tensión que existe entre la norma y el caso se suele proyectar entre lo


objetivo (norma universal) y lo subjetivo de los condicionamientos del
sujeto (que actúa en lo concreto). Es precisamente lo que la racionali-
dad práctica desarrollada por Santo Tomás quiere superar. No son dos
polos opuestos, sino dos dimensiones coincidentes en la acción que se
inicia siempre por una llamada objetiva que recibe el sujeto. Lo com-
prendió bien Paul Ricoeur que corrige algunas posiciones suyas sobre la
acción del hombre tras la lectura de Intention de Elisabeth Anscombe y
lo que esto significa para la identidad narrativa por la incorporación de la

70 “J’avais soulevé, en même temps que Jean Vanier et que d’autres aussi sans doute, la
question des limites de la sphère d’application des principes moraux incontestables
formulés par l’encyclique”. Hace referencia al artículo de J. Vanier en Le Figaro,
18-X-1993.

599
Juan José Pérez-Soba

pregunta “¿por qué?”. Esta califica la intencionalidad para actuar que es


esencial para dar razón de la unidad identitativa de las acciones. Esta no
es nunca simplemente subjetiva, sino que se ha de ver en un contexto de
comunicación intersubjetiva con su propia objetividad71.
De aquí lo que se denomina moral de primera persona72 esencial para
comprender la enseñanza sobre el “objeto moral” que propone la Ve-
ritatis splendor. Por eso, afirma con toda fuerza: “para poder aprehender
el objeto de un acto, que lo especifica moralmente, hay que situarse
en la perspectiva de la persona que actúa” (VS 78). Es decir, no lo puede
comprender sino el sujeto que actúa, al que le es propio una dimensión
de concreción y de integración de las dimensiones subjetivas que no son
ajenas al objeto moral.
Al definir el objeto de un modo intencional, nunca lo considera
algo exterior que se imponga al sujeto, sino la especificación de la ac-
ción que el sujeto construye. En este sentido es mucho más apropiada la
aproximación al mismo que hace el profesor Garrigues que la de Tho-
masset que la toma desde la formulación de las fuentes de la moralidad de
modo clásico73 que, al estar expresadas desde la perspectiva de la tercera
persona propia de la tradición manualística, no permiten comprender
adecuadamente el objeto moral tal como lo presenta la Veritatis splendor74.

71 Así en: P. Ricoeur, Du texte à l’action. Essais d’herméneutique, II, Seuil, Paris 1986,
203: “Comme de nombreux philosophes dans le domaine nouveau de la théorie de
l’action l’ont montré, le caractère intentionnel d’une action est pleinement reconnu
quand la réponse à la question quoi? est expliquée en fonction d’une réponse à la
question pourquoi? Je comprends ce que vous avez eu l’intention de faire si vous êtes
capable de m’expliquer pourquoi vous avez fait telle ou telle action. Or quelles sortes
de réponses à la question quoi? sont porteuses de sens? Seulement les réponses qui
énoncent un motif compris comme raison de, et non pas seulement comme cause”.
Cfr. G.E.M. Anscombe, Intention, Basil Blackwell, Oxford 19662, 9, nota 5: “What
distinguishes actions which are intentional from those which are not? The answer
that I shall suggest is that they are the actions to which a certain sense of the question
‘Why?’ is given application; the sense is of course that in which the answer, if positive,
gives a reason for acting”.
72 Es una expresión de: G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù, LAS, Roma 1989.
73 Recordemos que la fuente de su visión del acto humano de Santo Tomás es Louis
Janssens: cfr. A. Thomasset, Interpréter et agir. Jalons pour une éthique chrétienne, Cerf,
Paris 2011, 241-242; en el cual se percibe el influjo de la errónea interpretación de las
fuentes de la moralidad que propugnó: P. Knauer, “La détermination du bien et du
mal moral par le principe du double effet”, en Nouvelle Revue Théologique 87 (1965)
356-376.
74 Compárese con dos estudios básicos como son: A. Rodríguez Luño, “El acto moral
y la existencia de una moralidad intrínseca absoluta”, en G. del Pozo Abejón (ed.),

600
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

Lo comprobamos al ver sus dos preguntas insistentes para mostrar los


límites de la objetividad: “La intencionalidad no es exterior (…) es in-
herente a la misma acción, le es intrínseca” (p. 75)75; “para juzgar un
acto importa estar atento a una descripción más precisa de la acción, la
cual incluirá necesariamente ciertas circunstancias que puede cambiar
su naturaleza” (p. 76)76. No percibe que ambas están directamente asu-
midas en la definición de la encíclica del objeto moral. En este sentido,
estas observaciones no añaden nada a su enseñanza, aunque sirven para
mostrar el modo impropio de una lectura racionalista del objeto, que lo
considera no intencional ni especificado dentro de lo concreto de la ac-
ción, precisamente, lo propio de una interpretación rigorista. En esto la
Amoris laetitia no añade una nueva consideración, simplemente requiere
una comprensión más profunda en la línea de lo que ha dicho Veritatis
splendor. La referencia al objeto moral es más necesaria en los casos con-
cretos, la necesita para cualquier discernimiento.
La reflexión de Garrigues tiene que ver con el modo de construir el
acto humano, que no solo ha de ver la especificación de la acción, sino
su realización (ejecución). Es la correlación que establece Santo Tomás
entre la inteligencia y la voluntad en la que se ve una evolución de su
pensamiento que ha dado lugar a una amplia literatura77. Es un sentido
justo que está en continuidad con la Veritatis splendor que hace mención
expresa de la teoría de la acción tomista (VS 126), pero que no desarrolla

Comentarios a la “Veritatis splendor”, BAC, Madrid 1994, 693-712; M. Rhonheimer,


“La prospettiva della persona agente e la natura della ragione pratica. L’«oggetto
dell’atto umano» nell’antropologia tomistica dell’azione”, en L. Melina – J. Noriega
(a cura di), “Camminare nella Luce”, cit., 169-224. Respecto de las fuentes de la
moralidad y la necesidad de superar el modo escolástico de entenderlas: G. Stanke,
Die Lehre von den “Quellen der Moralität”. Darstellung und Diskussion der neuscholatischen
Aussagen und neuerer Ansätze, Friedrich Pustet, Regensburg 1984.
75 “L’intentionnalité n’est pas extérieure (…) elle est inhérente à l’action elle-même, elle
lui est intrinsèque”. Esto es esencial en las acciones de doble efecto a las que alude el
libro (pp. 74. 123).
76 “pour juger l’acte il importa d’être attentif à une description plus précise de l’action,
laquelle inclura nécessairement certaines circonstances pouvant en changer la nature”.
En este sentido de concreción es como cita a: V. M. Fernández, “El capítulo VIII de
Amoris laetitia: lo que queda después de la tormenta”, en Medellín 43, nº 168 (2017)
449-468.
77 Destacada por: C. Fabro, “Orizzontalità e verticalità della libertà”, en Angelicum 48
(1971) 302-354 y K. Riesenhuber, Die Transzendenz der Freiheit zum Guten. Der Wille
in der Anthropologie und Metaphysik des Thomas von Aquin, Berchmanskolleg Verlag,
München 1971.

601
Juan José Pérez-Soba

suficientemente. Ya se pueden rastrear las raíces de esta visión en San


Máximo el Confesor y su visión tan profunda del acto humano, que está
en la base del análisis de Santo Tomás78, sobre todo por la aceptación
de un nuevo concepto de voluntad espiritual (qe,lhsij) que no está en
Aristóteles79 y que muchos tomistas no tienen en cuenta. Con esta vo-
luntad fuerte y espiritual se destaca la posición de la persona ante Dios y
le necesidad de entrar en concordia de voluntades con Él, algo que no
tiene nunca presente el Estagirita.
En verdad, un análisis más cuidadoso de los textos tomistas80, muestra
sobre todo la correlación entre ambos, no como momentos sucesivos,
sino implicados mutuamente en la acción dentro del concepto de rectitud que
necesita los dos. Solo una comprensión conjunta da razón de su papel de
construcción de la acción. Así lo especifica Santo Tomás con su caracterís-
tico equilibrio y en la perspectiva de la virtud de la prudencia y la verdad
propia de la razón práctica: “Pues como en la elección concurren la razón
y el apetito, si la elección debe ser buena, lo que se requiere para la razón
de la virtud moral, es necesario que la razón sea verdadera y el apetito
recto, de modo que lo mismo que la razón dice, esto es afirma, lo siga el
apetito; para que haya perfección en el acto, es preciso que ninguno de
estos principios sea imperfecto. Sino que esta mente, esto es la razón que
así concuerda con el apetito recto y su verdad es práctica”81.
La ejecución del acto no pierde la rectitud objetiva, sino que la tiene
presente y la sigue. No basta con analizar la implicación de la persona en su
acción que se realiza siempre en dependencia del objeto del acto. No pide

78 Cfr. R.-A. Gauthier, “Saint Maxime le Confesseur et la psychologie de l’acte


humain”, en Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale 21 (1954) 51-100.
79 Cfr. J. D. Madden, “The Authenticity of Early Definitions of Will (thelêsis)”, en F.
Heinzer – Ch. Schönborn (eds.), Maximus Confessor. Actes du Symposium sur Maxime
le Confesseur Fribourg, 2-5 septembre 1980, Éditions Universitaires Fribourg Suisse,
Fribourg Suisse 1982, 61-79.
80 Lo estudia: D. Westberg, “Did Aquinas Change His Mind about the Will?”, en The
Thomist 58 (1994) 41-60; que luego desarrolla en: D. Westberg, Right Practical Reason.
Aristotle, Action and Prudence in Aquinas, Clarendon Press, Oxford 1994.
81 Santo Tomás de Aquino, Sententia libri ethicorum, l. 6, lec. 2 (83-92): “quia igitur ad
electionem concurrit et ratio et appetitus, si electio debeat esse bona, quod requiritur
ad rationem virtutis moralis, oportet quod et ratio sit vera, et appetitus sit rectus, ita
scilicet quod eadem quae ratio dicit, id est affirmat, appetitus prosequatur; ad hoc enim
quod sit perfectio in actu, oportet quod nullum principiorum eius sit imperfectum.
Sed haec mens, scilicet ratio quae sic concordat appetitui recto, et veritas eius est
practica”.

602
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

lo mismo contraer matrimonio que comprar una lata en un mercado, el


objeto mismo indica una trascendencia en el bien que realiza objetivamen-
te la persona82. Todo ello ha sido estudiado de modo particular por Karol
Wojtyła83, por lo que, aunque no se encuentre desarrollado en Veritatis
splendor, es una dimensión tenida muy en cuenta en todo su magisterio. El
aspecto personal y concreto del actuar humano no se pierden en la objeti-
vidad propia del acto en cuanto construcción del sujeto personal. Es más,
se ve la especificidad de la persona y su dignidad sostenida y defendida por
dicha objetividad. El acertado resumen que hace Thomasset del análisis
de la acción de Paul Ricoeur (pp. 87-90) se integra entonces muy bien
en esta “intervención intencional” (p. 88) que está especificada de modo
concreto por el objeto moral tal como lo concibe la encíclica.
El valor específico de la persona, que no puede ser nunca expresado
del todo por categorías meramente objetivantes84, abre el campo a un
discernimiento de amor como luz en la moral. Volver a una inteligen-
cia de amor que pueda exponer de verdad el “amor verdadero” es una
clave de lectura de la Amoris laetitia que complementa algo no desarro-
llado en Veritatis splendor y que se ha de proponer como una auténtica
contribución a la misma85. Esto obedecería, en palabras del mismo Papa
Francisco a leer el cap. VIII no de forma aislada, sino en el conjunto de
la exhortación; pero que es algo que todavía está por hacer y que los
comentadores del texto apenas si han puesto en práctica. Se trata de una
lectura coherente del texto que puede ayudar a desarrollar puntos que
solo están apuntados y no suficientemente desarrollados.
Es una perspectiva en profunda continuidad con la enseñanza magis-
terial anterior, tanto de Juan Pablo II como de Benedicto XVI que han

82 Es el argumento principal de: I. Murdoch, The Sovereignty of Good, Routledge,


London-New York 1989.
83 En especial en: K. Wojtyła, Persona y acción, Palabra, Madrid 2011, y en los artículos
posteriores recogidos en: Id., El hombre y su destino, Palabra, Madrid 1998.
84 Es un principio personalista básico: cfr. P.-L. Landsberg, Problèmes du Personnalisme,
Éditions du Seuil, Paris 1952, 16 : “Sans doute, tous les penseurs personnalistes de tous
les temps semblent être d’accord sur le fait que le noyau d’une personnalité concrète
n’est accessible à la connaissance que d’une manière spécifiquement non objectivante
et n’est jamais dénissable sans être faussé, ni exprimable d’une façon adéquate”.
85 Cfr. Francisco, Discurso al Pontificio Instituto Juan Pablo II para los estudios del matrimonio
y la familia, 27-X-2016.

603
Juan José Pérez-Soba

prestado un gran interés a la verdad del amor86. En ambos se presenta como


modo de superación de una inadecuada dialéctica sujeto-objeto que no ayu-
da a comprender ni la identidad personal ni el crecimiento de las personas
en su camino moral. La insistencia enorme del Papa Francisco sobre la mi-
sericordia se ha de asentar en esta teología del amor que está en su base87.
Como ya señalaba Juan Pablo II, la intelección del amor que es ana-
lógica88, se sostiene en una hermenéutica del don que es esencial para
comprender la estructura misma del acto humano. “Se revela en esto
el perfil subjetivo de ese amor, del que además se puede decir que «es
objetivo» hasta el fondo, en cuanto se nutre de la misma «objetividad»
recíproca del don”89. La recepción subjetiva del don, nunca es ajena a la
voluntad del donante por su intención de comunicar un bien objetivo.
De aquí nace una lógica que supera siempre el enfrentamiento entre las
dos dimensiones. Así se ve de un modo particular en la parábola de la
semilla (Mt 13,1-23; Mc 4,1-20; Lc 8,5-15) en donde las disposiciones
subjetivas son muy importantes para el fruto y piden el trabajo paciente
del que siembra, pero siempre centrado en la vitalidad propia de la se-
milla que es capaz de superar los obstáculos. La existencia de límites y la
imperfección en la recepción nunca excusan de la verdad de la conver-
sión que es la que permite dar el fruto que Cristo jamás deja de exigir
(cfr. Jn 15,1-11).
Esta especificidad personal incluida en el juicio moral explica bien
la hermosa cita del comentario a los salmos de Santo Tomás que propo-
ne Garrigues (p. 131) y que es bueno presentarla en su integridad para
comprenderla mejor: “Hay un doble juicio, es decir, de severidad y de
misericordia o equidad. El primero, es cuando se considera solo la cosa

86 Cfr. L. Melina, Imparare ad amare. Alla scuola di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI,
Cantagalli, Siena 2009.
87 Podría decirse que esta es la conclusión principal del congreso: J.J. Pérez-Soba – A.
Frigerio (a cura di), Misericordia: pensieri, parole, opere e omissioni, Cantagalli, Siena
2017; en continuidad con: J.J. Pérez-Soba (a cura di), Misericordia, verità pastorale,
Cantagalli, Siena 2014.
88 Siempre fundamentada por al referencia a un “amor originario” al que se refiere:
Francisco, C.Enc. Lumen fidei, n. 51.
89 Giovanni Paolo II, L’amore umano nel piano divino. La redenzione del corpo e la sacramentalità
del matrimonio nelle catechesi del mercoledì (1979-1984), a cura di G. Marengo, Cat. 19 (20-
II-1980), 1, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, 159: “Si rivela in ciò
il profilo soggettivo di quell’amore, di cui peraltro si può dire che «è oggettivo» fino in
fondo, in quanto si nutre della stessa reciproca «oggettività del dono»”.

604
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

y no la condición; y esto se ha de temer. De lo cual dice el Salmo 142:


‘no entres en juicio’ etc. porque nuestra justicia no es nada en presen-
cia de Dios, como dice Is. 64. Y este juicio es sin misericordia, como
dice Sant. 2. El segundo es cuando se considera no solo la naturaleza de
la cosa, cuando la condición de la persona. Sal 102: ‘se compadece el
Señor de los que le temen, porque conoce nuestro barro’. Y es el que
pide”90.
Se comprende que se trata del juicio divino y no humano, que no
elige entre dos modos de juzgar, sino que ayuda a que el hombre pida
en su plegaria ser reconocido por la misericordia divina. El efecto de la
oración queda expresado entonces en un segundo juicio que aclara me-
jor el primero: “hay un doble juicio: es decir de discusión, cuando se
discuten los méritos: y no pide este, porque la discusión debe ser temida
(Job 9): ‘tenía miedo de todas mis obras, sabiendo que tu no perdonas
al que delinque’. Otro es el juicio de discreción, esto es de separación
del mal: y es el que pide ‘discierne mi causa’”91. Se trata de la realidad
personal de saberse necesitado el perdón de Dios y de su gracia para
poderse separar del mal, evitando la perniciosa tentación de acudir solo
a las propias fuerzas y capacidades por las que es imposible ser justo ante
Dios. La objetividad de la separación del mal es, entonces, claramente
parte del juicio de misericordia en su realidad plenamente personal. El
juicio completo del amor que mira la persona en sus condiciones sub-
jetivas, es inclusivo y no dialéctico, no solo mira la falta o la culpa, sino
sobre todo el modo de apartar al hombre con la gracia divina del mal
que le daña. Sin duda se ha de leer así Amoris laetitia como profundiza-
ción de Veritatis splendor.

90 Santo Tomás de Aquino, In Psalmos, 42, 1: “duplex judicium: scilicet severitatis, et


misericordiae seu aequitatis. Primum est, quando attenditur solum res et non conditio;
et hoc est timendum. De hoc dicit Psal. CXLII: ‘non intres in judicium,’ etc. quia
justitiae nostrae nihil sunt in conspectu Dei, ut dicitur Isa. LXIV. Et hoc judicium
est sine misericordia, ut dicitur Jacob. II. Secundum est, quando consideratur non
solum natura rei, sed conditio personae. Psal. CII: ‘misertus est dominus timentibus
se, quoniam ipse cognovit figmentum nostrum’. Et hoc petit”. Por desgracia el autor
la cita solo fragmentadamente, sin indicar la parte que ha quitado, por lo que su
verdadero sentido se hace poco reconocible, sobre todo al perder el contexto que es
el juicio de Dios y no del hombre.
91 Ibid.: “Est duplex judicium: scilicet discussionis, cum merita discutiuntur: et hoc non
petit hic, quia discussio est timenda Job IX: ‘verebar omnia opera mea, sciens quod
non parces delinquenti’. Aliud est discretionis, scilicet separationis a malis: et hoc petit;
et ideo subdit, ‘et discerne causam meam’”.

605
Juan José Pérez-Soba

12. La respuesta a los dubia

El libro tiene como fin responder a los dubia de los cardenales, los autores
lo hacen honestamente y, por ello, lo hace cada uno de modo personal.
No son respuestas iguales y son importantes los matices que cada autor
propone. El modo de respuesta es ya significativo. Thomasset (pp. 93-
100) lo hace como conclusión de su explicación anterior (pp. 24-93) tras
la respuesta solo le queda un breve exordio final de carácter pastoral (pp.
101-109). Garrigues lo hace en la mitad de su discurso (pp. 139-149),
después de haber explicado la impropiedad de la interpretación rigorista
de la Veritatis splendor (pp. 115-139), y como introducción a lo que sería
la interpretación implícita de la encíclica por parte de Amoris laetitia y sus
conclusiones eclesiales y pastorales (p. 149-168).
Así también se ve en la forma de responder las dudas: Thomasset
dedica todo su razonamiento a la primera (pp. 93-100), y las demás están
respondidas en ella. Garrigues pasa a responder una a una con detalle.
Se comprende bien que los cuatro dubia finales directamente se refieren
a la continuidad magisterial para aclarar la situación surgida por las nume-
rosas interpretaciones que dicen lo contrario. En cambio, la primera es
diferente porque propone un juicio moral sobre un acto concreto y es
allí donde se asienta el punto fundamental. Es curioso ver que el sí de
Thomasset después de muchas explicaciones (p. 97), resulta un inicial
“no” con matices en Garrigues (p. 140). Es cierto que en su forma prác-
tica tienden a ser lo mismo, pero se ve la diferencia en la aproximación
del tema: Thomasset lo aborda directamente desde la responsabilidad
personal, Garrigues distingue entre la norma que permanece como FC
84 señala, y la implicación personal en la acción.
Queda claro entonces que para ellos la novedad es la dimensión de
implicación personal del agente en su acción que la Veritatis splendor no
ha abordado y que daría una solución diferente al tema de la comunión
de los divorciados en una nueva unión, implícitamente contenida en
Familiaris consortio 84 cuando invita a “discernir bien las situaciones”.
Es aquí donde las reflexiones que nos han acompañado hasta ahora
nos conducen a una conclusión bien distinta. Desde luego que la no-
vedad de las disposiciones subjetivas es una aportación de Amoris laetitia
que todavía está por desarrollar, pero una visión auténticamente tomista
de ella, tal como propugna el mismo Papa Francisco, parte de una forma

606
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

distinta de comprensión, precisamente porque se basa en un discerni-


miento prudencial que unifica siempre la dimensión objetiva y subjetiva
en la perspectiva de la construcción del sujeto moral. La prudencia está
muy atenta al modo como el sujeto se construye en sus acciones que es
una consideración siempre basada en la objetividad del bien y asegurada
intencionalmente por los fines de las virtudes. Además, si no hay un
cambio disciplinar, queda vigente la indicación de que el discernimiento
no se debe al estado de gracia que la Iglesia no juzga y, por ello, tampoco
directamente la culpabilidad, sino: “el pecado grave, entendido objeti-
vamente”92. Lo cual indica, como es lógico, que no se discierne solo el
sentido moral del agente, sino el sacramental que es de orden diverso y
que no tiene que ver con los atenuantes.
La profunda visión de las virtudes que presenta el Aquinate presu-
pone una valoración específica de los actos intrínsecamente malos en
el proceso de discernimiento que resulta clara: “no puede ocurrir que
alguien se halle rectamente dispuesto para obrarlos, sino que quien los
haga, siempre peca”93. Es lo que es tradición sólida de los atenuantes
en la Iglesia siempre ha considerado, que la implicación personal tiene
que ver mucho con el objeto de la acción que se realiza pues se trata de
una unidad intencional y no de una dialéctica de fuerzas. Es el requisito
primero que señalaba San Ignacio de Loyola al tratar del discernimiento:
“es necesario que todas las cosas de las cuales queremos hacer elección
sean indiferentes o buenas en sí, y que militen dentro de la santa madre
Iglesia jerárquica”94. La cuestión no es cómo aplicar una norma, sino
como se construye o destruye el sujeto al obrar, lo principal no es la
culpabilidad, sino la realización de la persona.

13. La experiencia moral como criterio, más allá de flexibilidad


y rigor

Hemos visto como afirmar la continuidad entre ambos documentos re-


quiere reflexionar sobre el sentido real de la evolución del magisterio,

92 Pontificio Consejo para los Textos Legislativos, Declaración sobre la admisibilidad


a la sagrada comunión de los divorciados que se han vuelto a casar, 24-VI-2000.
93 Santo Tomás de Aquino, Sententia libri ethicorum, l. 2, lec. 7 (154-155). Cfr. L.
Melina, La conoscenza morale, cit., 121-125.
94 San Ignacio de Loyola, Ejercicios Espirituales, n. 170.

607
Juan José Pérez-Soba

que no es nunca ni un inmovilismo ni una ruptura; la relación entre


doctrina y pastoral es de mutua ayuda y no de contradicción dialécti-
ca y la comprensión real del papel de los actos intrínsecamente malos,
formulados universalmente por las normas, dentro de lo concreto de la
acción personal se realiza como una luz en el camino y no es solo una
aplicación exterior sobre un acto particular, pues depende sobre todo de
la especificación del objeto moral.
Este último contiene el sentido moral fundamental que puede ex-
plicar la continuidad magisterial que buscamos y que hemos analizado
desde la relación en el acto humano de sus dimensiones objetivas y sub-
jetivas. Un acercamiento al tema nos ha hecho ver que su articulación
es diversa al de la flexibilidad y rigor95. Lo fundamental es la experiencia
moral de la persona que actúa; la pretendida elección entre ser flexible o
rígido, en cambio, está centrada, en cambio, en las disposiciones subjeti-
vas de quien tiene que aplicar la ley.
Compartimos con los autores su esfuerzo por una lectura en conti-
nuidad evitado la interpretación rigorista de Veritatis splendor y la laxista
de Amoris laetitia y también la necesidad eclesial de responder a los dubia
en un ambiente de grave confusión por la proliferación de interpreta-
ciones contradictorias de la exhortación. Todos experimentamos la ur-
gencia de afrontar en un diálogo sereno y dar razones de las acciones
pastorales en una cuestión muy delicada que afecta a la sacramentalidad
misma de la Iglesia.
Sí que se observa en el libro la estrechez de miras de haber enmar-
cado el tema de la continuidad en una lectura flexible de Veritatis splendor
que superaría una interpretación rígida y que podría establecer la conti-
nuidad entre ambos documentos. Con ello, pone todo el acento en la
aplicación de una norma universal en los actos concretos, de un modo
diverso al que la fuente tomista a la que se refiere la exhortación. Santo
Tomás lo inserta desde la experiencia moral de la acción desde la razón
práctica que parte de la rectitud del apetito. Tal fijación de los autores,
tal vez se deba a centrar la atención excesivamente al capítulo VIII, pues

95 Tiene en cuenta esta distinción: T. Michelet, “Amoris laetitia: Note de théologie


sacramentaire sur la communion des divorcés remariés”, en Revue Thomiste 116 (2016)
619-645.

608
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

no se ve en su argumentación un apoyo en otros muchos elementos de


novedad de la exhortación que iluminan la acción moral.
Por una parte, hemos de lamentar que se trata de una visión parcial
que no toma sino un aspecto y no el esencial de la problemática. Por
otra, esta elección complica todavía más la solución, porque pone el acen-
to en la dialéctica entre lo objetivo y lo subjetivo que es precisamente el
camino contrario que sigue Santo Tomás para su iluminación y que hace
suyo la Veritatis splendor con su doctrina del objeto moral. No porque se
ignore esta polaridad, sino porque se afronta desde una concepción más
desarrollada de la razón práctica. Esto se evidencia al final en los autores,
pero también en tantos otros casos por retomar una terminología y un
contexto del todo semejantes a los sistemas morales que son la expresión
más clara de la pérdida de esta visión integradora tomista. Es una ver-
dadera casuística precisamente en el sentido que el Concilio Vaticano II
rechazó porque, en vez de mostrar la grandeza de la vocación humana
en Cristo y el valor salvador de los actos humanos, se pierde en conside-
raciones mínimas de la disposición subjetiva del que tiene que aconsejar.
La proliferación de interpretaciones posibilistas de Amoris laetitia que se
empeñan en abrir una posibilidad para concluir que se puede obrar libre-
mente, creo que es una constatación de lo equivocado del camino. Se
puede afirmar que conduce a disputas sin fin por dar vueltas una y otra
vez a la subjetividad de un modo que se le separa de cualquier criterio
objetivo.
Tal vez por ello el libro no toma en cuenta el porqué de la interpre-
tación laxista de la Amoris laetitia y los males que de ella se desprenden.
Esta no se debe sólo a la negación de los actos intrínsecamente malos,
sino en primer lugar a un modo de interpretar la experiencia moral de
forma que excluye en ella el valor de absoluto. Esto se evidencia sobre
todo en el juicio moral, que se reduce a parámetros siempre relativos que
ocultan que es la identidad moral de la persona lo que está en juego. No
basta con tener una buena brújula para superar el laxismo, no basta con
saber a dónde ir en un “camino de crecimiento” (p. 62), sino que con-
cierne también en cómo dar los pasos, entender la rectitud de lo que dirige
al fin, so pena de desorientarse en las acciones concretas y reales. Se trata
entonces de un elemento intrínseco a la persona, que no se identifica
con la norma ni su aplicación. Esta unión entre experiencia y absoluto,

609
Juan José Pérez-Soba

se puede ver en Søren Kierkegaard y toda la corriente existencialista96,


como reacción contra el sistema dialéctico hegeliano que subordinaba de
hecho la persona al absoluto del “todo ideal”, por lo que el personalismo
incorporó este principio como defensa de la persona97. La reivindica-
ción de la singularidad personal de la acción proviene fundamentalmente
de esta fuente que, sacada de la dialéctica de la idea, se puede integrar en
la acción mediante la verdad del amor.
Sobre todo, lo que se desprende de la lectura del libro es la excesi-
va fijación contra la rigidez, casi en términos de considerarla el mayor
mal en la Iglesia. Es por ello por lo que insisten en la necesidad de una
moral flexible que evite la excesiva severidad. En verdad, cuando se ven
pastoralmente la multitud de temas que surgen en la vida de las familias,
se constata que en la situación actual el problema principal que viven
las personas, no es la rigidez de la postura de la Iglesia, sino la dificultad
seria que experimentan al intentar construir la propia vida, por la enorme
debilidad que experimentan. La gran carencia es no saber reconocer en
el Evangelio la fuerza y la inteligencia del amor verdadero que es la luz
que ilumina la existencia. Una posible actitud rígida es muy secundaria
respecto de esta dificultad fundamental.
Extrañamente en el libro no se cita el n. 294 de la AL que es clave
para el capítulo VIII y que ilumina la cuestión de otro modo: “Es lo que
hizo Jesús con la samaritana (cfr. Jn 4,1-26): dirigió una palabra a su de-
seo de amor verdadero, para liberarla de todo lo que oscurecía su vida y
conducirla a la alegría plena del Evangelio” (AL 294). Se ve el modo de
abordar un caso límite, fuera de cualquier norma y con una singularidad
excepcional. Jesucristo no lo afronta ni con rigidez, ni con flexibilidad.
Podría parecer rígida su apelación a “no tienes marido” (cfr. Jn 4,17),
pero resulta esencial para la conversión de la mujer; podría parecer flexi-
ble su invocación a una adoración espiritual que parece desviar la mirada
y no ayudar a su situación actual, pero apunta al centro de sus anhelos.
Ambas se unen en la verdad, la verdad especial de “su deseo de amor
verdadero”. Es aquí donde está la clave más profunda que une VS y AL
más allá de la flexibilidad o rigidez. Los autores hablan de “el amor en

96 Sobre todo, por su análisis de la correlación experiencia-sujeto, como presenta por vez
primera en: S. Kierkegaard, Temor y temblor, Tecnos, Madrid 20004 (del año 1843).
97 Especialmente en: E. Mounier, Traité du caractère, Éditions du Seuil, Paris 19472.

610
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

camino” (p. 63), pero no se encuentra en su estudio una aportación real


y concreta de lo que significa en la dinámica de la acción y la valoración
real de los actos concretos.
Ya Paul Ricoeur supo determinar muy bien el valor personal úni-
co de la experiencia moral, sobre todo en un tiempo de crisis donde se
pierden los referentes: “yo no sé más cual es mi lugar en el universo, yo
no sé más la jerarquía estable de los valores que puede guiar mis pre-
ferencias, yo ya no distingo claramente mis amigos de mis adversarios,
pero existe para mí lo intolerable. En la crisis, experimento el límite de mi
tolerancia”98. El valor absoluto contenido en la experiencia moral supe-
ra los parámetros de flexibilidad y rigidez y revela la auténtica dignidad
de la persona que se pone en juego en las acciones y de la que los actos
intrínsecamente malos son un testimonio. Esta insistencia en la dignidad
que se expresa en los actos humanos es el corazón mismo de la moral
propuesta en el Catecismo de la Iglesia Católica y un punto esencial de
continuidad entre los dos documentos99, precisamente porque evita el
emotivismo de hacer de la propia emoción la medida de la vida100.
El laxismo actual no se funda como ocurría en el s. XVIII en el
modo de aplicación de una norma, sino en la emotivización de la con-
ciencia que pierde el sentido real de dicho absoluto, por la imposición de
un amor líquido101. La sola mención de la flexibilidad no es el punto clave,
aún en el caso de contar con una buena brújula. Más bien, se comprende
que al centrar de nuevo la cuestión en las disposiciones subjetivas que se
interpretan inmediatamente de modo emotivista, se hace más difícil la
verdadera iluminación del problema que es la capacidad de la persona,

98 P. Ricoeur, “Meurt le personnalisme, revient la personne”, en Esprit 51 (1983) I,


116-117: “je ne sais plus quelle est ma place dans l’univers, je ne sais plus quelle
hiérarchie stable de valeurs peut guider mes préférences, je ne distingue pas clairement
mes amis de mes adversaires, mais il y a pour moi de l’intolérable. Dans la crise, j’éprouve
la limite de ma tolérance”.
99 Cfr. C. Schönborn, Scegli la vita. La morale cristiana secondo il Catechismo della Chiesa
Cattolica, Jaca Book, Milano 2000, 14: “«Dignità dell’uomo»: questa espressione
torna oggi continuamente, come una sorta di Leitmotiv, tutte le volte che si parla di
moralità, etica, morale”. Es un tema de gran fuerza en el Concilio Vaticano II: cfr. A.
Thomasset, La morale de Vatican II, Médiaspaul, Paris 2013, 53-72.
100 Como afirma en relación al modo de vivir la sexualidad: C. Schönborn, Scegli la vita,
cit., 135: “Questa immagine ideale di una vita costruita sulla propria norma e a propria
misura va però sempre più in crisi”.
101 Cfr. Z. Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma - Bari
2006.

611
Juan José Pérez-Soba

no tanto de cumplir una norma, cuando de ser capaz de vivir plenamen-


te el plan de Dios. Por la gracia, este plan no es un ideal inalcanzable,
sino una fuerza real y concreta operante de forma eficaz en todas las
acciones. Querer hacer la medida de la gracia las capacidades humanas es
un nuevo modo de pelagianismo. Es el contenido real de la exposición
sobre los salmos del Aquinate que hemos citado, cuyo sentido no es dife-
renciar juicios morales sino destacar la fuerza de la “oración para realizar
el deseo”102 verdadero de la salvación.
No se pueden retomar las dimensiones objetivo-subjetivas de la mo-
ral ignorando la racionalidad práctica que retoma la Veritatis splendor y
que no ha comprendido esa interpretación rígida de la que hablan los
autores. Esta es la gran aportación de la encíclica de San Juan Pablo II
que necesita la Amoris laetitia para evitar ser interpretada de modo laxista.
Fue la manualística del s. XVII con su racionalismo que alejaba los afec-
tos de la experiencia moral, la que deformó esas categorías al enfrentarlas
dialécticamente. En consecuencia, todas las cuestiones morales pasaron
a verse como el equilibrio en la aplicación de la norma al caso concreto.
De aquí las disputas interminables de los sistemas morales que San Alfonso
María de Ligorio pacificó, pero no resolvió en sus fundamentos. Esto
es lo que Servais Pinckaers, tantas veces citado en nuestro libro, cuidó
mucho en mostrar, que son modos muy diversos de concebir la moral103.
Pretender asemejarlos sin más, no hace sino extender un modo ambiguo
de discernimiento que será muy inadecuado para un ámbito tan delicado
como el matrimonial.
No ayudaríamos de verdad a la moral que ahora necesita la Iglesia,
si volvemos a ese modelo, y mucho menos si no se evita con claridad
una forma posibilista de leerlo. Es un error claro decir que si existe alguna
posibilidad para actuar en favor del sujeto ya basta para no aplicarle la ley
dura. Todavía más si se confunde la misericordia que cura con la tole-
rancia que deja hacer.

102 Santo Tomás de Aquino, In Psalmos 42, 1: “orationem ad implendum desiderium”.


103 De modo especial en: S. Pinckaers, Les sources de la morale chrétienne: sa méthode, son
contenu, son histoire, Éditions Universitaires Fribourg –Éditions du Cerf, Fribourg Suisse
–Paris 1985 (citado en p. 39); con una preocupación especial en la existencia de actos
intrínsecamente malos: S. Pinckaers, Ce qu’on ne peut jamais faire. La question des actes
intrinsèquement mauvais. Histoire et discussion, Éditions Universitaires Fribourg –Éditions
du Cerf, Fribourg Suisse –Paris 1986, citado en el libro (pp. 73, 90, 119, 122).

612
Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer

Se entiende muy bien como Charles Péguy, envuelto en una moral


de sistemas morales clamase por una flexibilidad, donde no veía más que
leyes impersonales ajenas a sus deseos104. Pero, precisamente por la gran-
deza de su alma, quería custodiar con toda fuerza el valor de absoluto que
encierra la experiencia moral, porque en ella es donde el hombre custo-
dia la conciencia de su propia dignidad. El autor francés admiraba a Juana
de Arco105 porque fue consciente de esa dignidad que no se puede perder
ni siquiera en las peores presiones. Concebía la misión de la santa una
obra de verdadera caridad por ser testimonio de rechazo de lo que dañaba
tal dignidad. El poeta no deja de repasar una y otra vez ese motor de la
acción de la mártir como expresión de máxima caridad: “Solo digo: no
hubiéramos aguantado eso. No habríamos soportado eso. No habríamos
dejado hacer eso”106. En un tiempo de confusión, la Santa Juanita tiene
la claridad de la verdad que devuelve la dignidad a la persona para salir
de su situación deplorable.
La Iglesia en la difícil situación de ser un “hospital de campo”107
debe tener muy clara la enfermedad que debe de curar. De otro modo
puede emplearse en muchos cuidados que tengan el triste resultado de
una extensión mayor de la epidemia. Serán muy bienintencionados y
realizados con mucha solicitud, pero carentes de esa capacidad curativa
que sana la persona. La enfermedad no consiste en la culpa a medir, sino
en la presencia de una debilidad del deseo que es precisamente la cau-
sante de esos atenuantes que, entonces son signos de la necesidad de un

104 En la frase que inicia el libro (p. 7) de C. Péguy, “Note conjointe sur M. Descartes
précédée de la note sur M. Bergson”, en Œuvres posthumes, t. IX, Gallimard, Paris
1924, 54-55, y que luego se cita con frecuencia en él (pp. 14 s., 19. 104 s., 163 s.)
105 A la que dedica dos obras poéticas largas y relacionadas entre sí: Le mystère de la charité
de Jeanne d’Arc y Le mystère de la vocation de Jeanne d’Arc.
106 C. Péguy, Le mystère de la charité de Jeanne d’Arc, en Id., Œuvres poétiques complètes,
Introduction de François Porche, notes par Marcel Péguy, «Bibliothèque de la Pléiade»,
Gallimard, Paris 1967, 513: “Je dis seulement : Nous n’aurions pas enduré ça. Nous
n’aurions pas supporté ça. Nous n’aurions pas laissé faire ça”. Con la fuerza de poder
decir: ibid., 419: “Complice, complice, c’est comme auteur. Nous en sommes les
complices, nous en sommes les auteurs. Complice, complice, c’est autant dire auteur.
/ Celui qui laisse faire est comme celui qui fait faire. C’est tout un. Ça va ensemble.
… / Et quand on le laisse faire, il y a le même crime ; c’est le même crime ; et il y
a la lâcheté par-dessus. Il y a la lâcheté en plus. / Il y a partout une lâcheté infinie. /
Complice, complice, c’est pire qu’auteur, infiniment pire”. Que se comprende desde
la perspectiva de la disolución de la experiencia moral.
107 A. Spadaro, “Intervista a Papa Francesco”, en La Civiltà Cattolica 3918 (19 settembre
2013) 462.

613
Juan José Pérez-Soba

profundo cambio para devolver cuanto antes la auténtica responsabilidad


y libertad de la persona tan gravemente enferma. Es la clave de la con-
tinuidad entre los dos documentos, la formación real del sujeto cristiano
capaz por la gracia de vivir la llamada de Dios. Así percibimos lo esencial
en esa terapia del deseo108 en un momento en el que a veces hasta hablar de
deseo resulta excesivo para el hombre emotivo109. El Evangelio es capaz
de salvar el deseo humano con la fuerza del amor verdadero110 y, como
en el caso de la Samaritana, más allá de toda rigidez o flexibilidad, con la
firmeza y suavidad de la sabiduría, puede quitar todo lo que oscurece la
vida para poder vivir la plena alegría del Evangelio.

108 Cfr. M. C. Nussbaum, The Therapy of Desire. Theory and Practice in Hellenistic Ethics,
Princeton University Press, Princeton, New Jersey 1994.
109 Cfr. Z. Bauman, Amore liquido, cit., 17: “Forse parlare di «desiderio» è eccessivo (…)
il tempo occorrente per ottenere il ritorno sull’inmestimento della coltivazione del
desiderio appare sempre più lungo, lo si avverte esasperante e insoportabile”.
110 Pues de otro modo, entran en contradicción y corrompen el sujeto: cfr. ibidem, 16:
“Desiderio e amore agiscono con finalità contrapposte. L’amore è una rete gettata
sull’eternità, il desiderio è uno stratagemma per risparmiarsi l’onere di tessere la rete.
Fedele alla propria natura l’amore si sforza di perpetuare il desiderio. Il desiderio, per
contro, sfugge alle manette dell’amore”.

614
QUAESTIONES DISPUTATAE
Introducción a la rubrica Quaestiones disputatae

El ojo del teólogo en el medioevo aprendía a enfocar a través de diversos


métodos. Uno de ellos era la quaestio disputata, en la que dos teólogos
debían explicar las razones de su interpretación y confrontarse con otras
razones. Una interpretación vale lo que valen sus argumentos, pues son
ellos “los que convencen la mente”. Anthropotes ha querido formular las
quaestiones hoy relevantes y ofrecer un espacio a los teólogos para que
muestren sus argumentos. En esta rúbrica, Quaestiones disputatae, el lec-
tor podrá apreciar posiciones en contraste y así valorar los argumentos
que se ofrecen. El ojo del lector podrá así enfocar con más precisión las
cuestiones que se proponen.
La quaestio que afronta este volumen es la siguiente: “si la propuesta
de una nueva disciplina en la que se dé la comunión a divorciados en
nueva unión que no viven en continencia está o no en continuidad con
la tradición”. O lo que es lo mismo, “si esta propuesta puede verse como
un desarrollo de la tradición”.
La pregunta se ha hecho a dos conocidos teólogos: el profesor Jean-
François Chiron, de la Faculté de Théologie de la Université Catholique de
Lyon, y el profesor Michael G. Sirilla, de la Franciscan University of Steu-
benville. Ambos han tenido a bien ofrecer los argumentos de su interpre-
tación en un breve escrito, y a ambos se les ha dado la oportunidad de
responder en el siguiente número de la revista.
En el volumen anterior de la revista se propuso la primera quaestio:
“si la exhortación apostólica Amoris laetitia es tomística”. Los profesores
Eberhard Schockenhoff y Basil Cole publicaron sus intervenciones en el
número 1 de este año, y a ambos profesores se les ha dado la oportunidad
de responder en el presente número. A esta invitación ha respondido el
profesor B. Cole, con una intervención que se publica a continuación.
JN

616
Quaestio disputata 2:

Comunione ai divorziati risposati:


continuità o rottura con la Tradizione?
Anthropotes 33 (2017)

L’Exhortation apostolique Amoris laetitia a-t-elle introduit


une rupture dans la tradition?

Jean-François Chiron*

SUMMARY: As to knowing whether Amoris laetitia has introduced a rup-


ture in the tradition of the Church, two levels must be taken into consideration.
At the level of the theology of the magisterium, a presumption of continuity
must be posited. At the level of moral theology, the exhortation does not break
with any of the principles received by the tradition of the Church; it invites a
precise definition of the morality of the act and thus the evaluation of its sinful
character.

Nous proposons ici, non pas un développement approfondi, mais, dans


l’esprit de la disputatio proposée par cette revue, un certain nombre de
« thèses », qu’il conviendrait évidemment d’approfondir et d’étayer.
Premier rappel introductif : il est question ici de l’accès aux sacre-
ments des personnes ayant contracté un mariage civil alors que leur ma-
riage religieux reste valide. Amoris laetitia a un objectif bien plus large,
sans la prise en compte duquel la question litigieuse ne peut être plei-
nement saisie. L’instruction doit être lue dans le contexte et l’objectif
qui sont les siens, ceux d’une promotion de l’enseignement intégral de
l’Église catholique sur le mariage.

* Faculté de Théologie, Université Catholique de Lyon.

619
Jean-François Chiron

Second rappel introductif : le pape Jean-Paul II avait déjà opéré un


déplacement significatif de la question, reconnaissant que des personnes
se trouvant dans cette situation pouvaient accéder aux sacrements, dès
lors qu’elles observaient la continence : la question relève donc de la
morale. Il y a là une logique : l’Église catholique ne reconnaît pas de
mariage civil, considérant seulement en lui la dimension sexuelle qu’il
implique normalement. L’acte problématique consiste non pas en un
« mariage », mais en des relations sexuelles, de fait hors mariage.

1. Sur la théologie du magistère

Toute conception visant à un « positivisme magistériel » doit être


récusée. Ceci admis, on peut et doit poser, pour commencer, qu’il existe
une présomption de continuité dans l’enseignement du magistère.
‒ Certes, cette présomption de continuité, et donc de vérité, est
« simple », et non pas « irréfragable », comme ce serait le cas si l’ensei-
gnement se présentait comme « définitif ».
‒ Il s’agit en effet de l’exercice d’un magistère simplement authen-
tique (cfr. LG 25, troisième niveau de la profession de foi de 1989). Ce
qui a été confirmé par la publication aux Acta Apostolicae Sedis en octobre
2016 de l’échange entre le pape et des évêques argentins.
‒ Ce magistère n’est pas diminué en ce qu’il est exercé dans le cadre
d’une exhortation apostolique, et non d’une encyclique. Au contraire, il
peut se prévaloir d’être dans la continuité de l’enseignement d’un synode
des évêques.
‒ Une possibilité de désaccord est donc envisageable, mais limité
dans l’expression, et devant être sérieusement fondé ; pour le moins,
l’enseignement magistériel en question doit être pris en considération
attentive par les fidèles et les théologiens.
‒ Si l’enseignement d’Amoris laetitia constituait une rupture dans la
tradition de l’Église, la chose serait néanmoins grave. L’objet de l’ensei-
gnement, comme on va le rappeler, relève d’un registre fondamental,
car pouvant être considéré comme touchant au salut des fidèles (salus
animarum).
‒ Il y a, certes, dans l’enseignement ici envisagé, une dimension
d’implicite. On aurait pu aussi souhaiter que l’enseignement pontifical

620
Amoris laetitia a-t-elle introduit une rupture dans la tradition?

soit formulé autrement que dans une simple note de bas de page, même
si le magistère n’a pas, lui-même, à justifier la continuité qui est la sienne
avec l’enseignement antérieur.
On fera valoir, d’autre part, que la réception ecclésiale d’Amoris laeti-
tia est, quoi qu’on ait pu dire au vu d’une agitation médiatique organisée,
relativement pacifique, sinon unanime ; les réactions négatives ou inter-
rogatives bien connues doivent être situées à leur juste place et dans un
contexte plus large : elles n’ont été le fait que d’une infime minorité des
200 cardinaux, des 5000 évêques, et des théologiens de rang universi-
taire de l’Église catholique. Si la réception par la communauté ecclésiale
ne crée pas l’autorité d’un document, elle dit néanmoins quelque chose
de sa conformité avec la tradition et la foi de l’Église (sensus fidei fidelium).
D’une façon générale, on devra rester prudent devant les accusations
d’erreurs portées à l’égard d’enseignements magistériels (hier, c’était le
fait de théologiens « progressistes », dont un Hans Küng représente un
exemple extrême, dans le but de disqualifier le concept d’infaillibilité ;
aujourd’hui, une pareille accusation provient, paradoxalement, de théo-
logiens (peu nombreux) d’un bord opposé).
On dira plutôt qu’on a affaire, dans le temps, à des points de vue
différents portés, légitimement, sur une même question ou des questions
voisines, mais dans des contextes autres. Ce point mériterait évidemment
d’être amplement développé. Disons que le Mystère ne saurait être envi-
sagé, même par l’Église, d’un seul regard ; il ne peut l’être que selon des
points de vue toujours partiels – pas pour autant erronés (cfr. la Déclara-
tion Mysterium Ecclesiae, 1973). La chose est encore plus manifeste dans
le domaine moral, où, à la dimension de révélation, s’ajoute la nécessaire
prise en compte de l’infinie diversité des situations – diversité qui, on va
le rappeler, n’empêche en rien la légitimité d’énoncés généraux valant
semper et ubique, mais interdisant la réduction de l’investigation du champ
moral à l’application pure et simple de ces énoncés.
On pourra d’ailleurs se demander si, s’agissant de l’enseignement
d’Amoris laetitia, ce n’est pas la dimension d’inerrance de l’Église (plutôt
que d’infaillibilité au sens strict) qui est en cause. Comme on l’a dit,
l’objet de l’enseignement touche au salut des fidèles, et le pape s’adresse
à toute l’Église. Dieu permettrait-il que, le salut des âmes étant ainsi en
cause, il soit menacé par une prise de position du Pasteur suprême de

621
Jean-François Chiron

l’Église – même si, encore une fois, celle-ci n’engage pas l’infaillibilité
stricto sensu ? Cette question peut au moins être soulevée.
S’agissant de l’autorité du magistère, tel qu’elle est engagée dans
Amoris laetitia, on pourra se référer au canon 7 sur le mariage du concile
de Trente, telle qu’une interprétation autorisée la comprend : l’Église
catholique ne se trompe pas quand elle interdit le remariage de bapti-
sés validement mariés. On dira que, de même, l’Église catholique ne
se trompe pas en autorisant dorénavant, dans certaines circonstances et
moyennant un discernement rigoureux, l’accès aux sacrements à des ca-
tholiques ayant contracté un mariage civil après un mariage religieux
toujours valide.

2. Sur le fond de la question

On peut évoquer en quoi il y aurait eu rupture dans la tradition


catholique :
‒ En cas de reconnaissance de la légitimité d’un deuxième mariage,
sacramentel ou non.
‒ En cas d’affirmation du caractère moralement neutre, voire positif,
des relations sexuelles hors mariage et donc en cas d’abandon de la qua-
lification des relations sexuelles hors mariage comme relevant du péché.
‒ En cas d’abandon de la catégorie des actes intrinsèquement mau-
vais, telle que rappelée par Jean-Paul II dans Veritatis splendor.
‒ En cas d’option pour une conception de la conscience créatrice
des normes et des valeurs.
‒ En cas d’enseignement contraire à un enseignement « définitif » de
l’Église, ou contraire au magistère ordinaire et universel.
‒ Bien évidemment, en cas d’enseignement contraire à l’Écriture.
Or on peut considérer comme pouvant être solidement fondées les
assertions suivantes (dont certaines seront reprises ci-dessous) :
‒ La légitimité d’une seconde union légitime n’est pas reconnue
par Amoris laetitia ; il n’est donc pas porté atteinte à l’indissolubilité du
mariage.
‒ Le document continue à considérer comme moralement problé-
matiques les relations sexuelles hors mariage, quelle que soit la situation.

622
Amoris laetitia a-t-elle introduit une rupture dans la tradition?

‒ La catégorie des actes intrinsèquement mauvais n’est en rien


récusée.
‒ Amoris laetitia ne saurait passer pour promouvoir une conception
de la conscience autonome et créatrice des normes et valeurs morales.
‒ On ne voit donc pas de contradiction avec un enseignement défi-
nitif, ou même simplement « authentique » du magistère.
‒ On n’en voit pas non plus avec l’Écriture, à savoir ce que prohibe
le Christ (l’adultère), et ce qu’il promeut (l’engagement définitif dans le
mariage). Le Christ n’a pas, expressément, exclu des sacrements toutes
les personnes divorcées remariées civilement. On peut faire valoir que,
entre l’interdit évangélique (interdit d’adultère, visant à protéger ce que
la tradition appelle l’indissolubilité du mariage) et l’interdit ecclésial de
l’accès aux sacrements de la part des personnes ayant contracté un se-
cond mariage civil, il y a non pas une identité, mais un raisonnement,
une déduction, un processus, qui relèvent de l’autorité de l’Église en sa
tradition et en son magistère. En d’autres termes, la prise en compte de
la parole du Christ clairement fondée dans les évangiles n’interdit pas
l’ouverture indiquée par Amoris laetitia (rappelons que, de l’avis unanime
des exégètes, les incises matthéennes constituent déjà l’expression d’une
interprétation ecclésiale, que l’on retrouve en 1 Co 7).
Positivement, l’Exhortation opère un certain nombre de choix
qu’on peut et doit considérer comme légitimes :
‒ De façon explicite, Amoris laetitia promeut la prise en compte des
« circonstances atténuantes », d’ordre subjectif (touchant les personnes),
mais constituant un élément objectif, c’est-à-dire s’imposant objective-
ment à toute évaluation de la moralité de l’acte dans son objet.
‒ De façon plus implicite, l’Exhortation invite à l’intégration des
circonstances « objectives » à la définition de l’acte. La question est certes
complexe (rappelons par exemple la différence entre euthanasie et refus
de l’acharnement thérapeutique : un discernement fin est requis pour
qualifier différemment des actes apparemment proches, et donc porter
un jugement moral approprié). On peut au moins affirmer que le docu-
ment ne tombe pas pour autant dans la morale de situation ni dans une
forme quelconque de proportionnalisme, mais vise à une qualification
précise des actes humains, dans leur singularité, en référence aux normes
morales objectives.

623
Jean-François Chiron

‒ La prise en compte de ces éléments, traditionnelle en théologie


morale (sous peine de verser dans une conception « objectiviste » de
l’éthique), fait qu’il est non moins traditionnellement affirmé qu’un
comportement, qui pourrait être considéré comme un péché mortel, ne
constitue en fait qu’un péché véniel (réciproquement, un péché véniel
peut devenir mortel).
‒ Le résultat est qu’on ne peut plus qualifier systématiquement
d’« adultères » les actes relevant de certaines situations. Il faut oser dire
que toute relation sexuelle entre personnes non mariées de sexes dif-
férents ne représente pas un « adultère », même si cette relation reste
objectivement de l’ordre du péché. Les situations envisagées par Amoris
laetitia sont subjectivement, et objectivement, différentes, tout en res-
tant dans la catégorie du moralement problématique. Mais, on doit le
répéter, intrinsèquement mauvais/déshonnête ne signifie pas toujours
gravement (et intrinsèquement) mauvais/déshonnête (et donc constitutif
d’un péché grave ou mortel).
‒ Certes, la théologie morale n’était pas allée, semble-t-il, jusqu’à
tirer de telles conclusions ; mais les prémices en étaient posées, y compris
par la tradition thomiste, comme cela a été montré et comme le suggère
l’Exhortation elle-même. On a affaire à un prolongement de principes
déjà posés, et non à un renversement.
‒ Évidemment, il faut prendre du recul par rapport à l’opinion selon
laquelle tout ce qui touche le de sexto est toujours matière grave – au sens
où le péché en cette matière serait toujours mortel ; ce qui a pu conduire
à mettre sur le même plan de gravité des actes objectivement qualifiables
différemment, et empêchait prendre en compte les caractéristiques ob-
jectives. Étant entendu que ne pas qualifier un comportement de péché
mortel ne signifie pas, on l’a dit, le légitimer.

3. Considérations subsidiaires et conclusion

Analogiquement, on rappelle que, de Casti connubii (1930) à Humanae


vitae (1968), une évolution a pu constituer un précédent : un acte défini
par Pie XI comme péché grave, empêchant la réception des sacrements, a
cessé d’être qualifié comme tel par Paul VI : le recours à la contraception
« artificielle » n’est plus considérée par le magistère comme constituant

624
Amoris laetitia a-t-elle introduit une rupture dans la tradition?

un péché grave justifiant un interdit sacramentel. Ce qui compte est la


formation des consciences et leur progrès. Ce à quoi un Jean-Paul II
a voulu contribuer, explicitant les fondements anthropologiques de la
position catholique sur le recours aux moyens contraceptifs « artificiels ».
De façon subsidiaire, on pourrait sans doute faire valoir la diffé-
rence d’écoles théologiques, légitime (bien sûr jusqu’à un certain point)
en théologie, et notamment en théologie morale. Les exemples ne
manquent pas dans le passé, sachant que le magistère a, traditionnelle-
ment, et par exemple pour les condamnations portées au XVIIe siècle,
cherché à tracer des bornes plutôt qu’à indiquer des voies qui s’impose-
raient. On pourra ainsi estimer que, s’agissant des relations entre loi et
conscience, l’Exhortation opte pour une école qui n’est pas celle qui a
pu « parasiter » la réflexion en théologie morale depuis la fin du Moyen-
Âge (et dérivée du nominalisme), revenant notamment à une perspec-
tive plus fidèle à l’enseignement de saint Thomas.
En conclusion, on semble fondé à parler de développement magisté-
riel. En se référant au discours du pape Benoît XVI le 22 décembre 2005,
on dira qu’on a affaire à « un ensemble de continuité et de discontinuité
à divers niveaux », à un « processus de nouveauté dans la continuité ».
Dans le domaine moral, il s’agit notamment de prendre en compte de
nouveaux éléments (il en alla ainsi pour la condamnation du prêt à in-
térêt, ou la liberté religieuse). On doit aussi sortir d’une mentalité qui
cherche et dénonce l’erreur, soit celle du magistère antérieur, soit celle
du magistère contemporain : on a affaire, non pas à des erreurs, mais à
des différences de points de vue, fondées sur une prise en compte d’élé-
ments objectifs rendue possible par un discernement plus affiné, sous la
motion de l’Esprit Saint. Faut-il dire que des papes auraient condamné
ce qu’ont dit leurs successeurs ? Ou plutôt que, placés dans les mêmes
circonstances historiques, ces papes auraient tenu le discours de leurs
successeurs ? On doit plaider pour une vision historique des énoncés
doctrinaux, excluant pour autant toute vision relativisante.

625
Anthropotes 33 (2017)

Whether the Proposal to Give Communion to Divorced


and Remarried Catholics Living in More Uxorio Is a
Development of Doctrine in Continuity with Tradition?

Michael G. Sirilla*

SUMMARY: The recent proposal to admit divorced and remarried Catholics


living in more uxorio to the sacraments of Penance and Communion pre-
sents itself as a merciful solution to a very painful situation. But this pastoral
course of action would be harmful to the faithful and is not viable since it con-
stitutes a corruption, rather than an organic development, of Church doctrine
and praxis. This becomes clear by scrutinizing the proposal in light of Christ’s
and the Church’s teaching on this matter as found in Scripture, the writings
of the Fathers, the decrees of the early councils, up through the pontificate of
John Paul II. A theological analysis shows that this proposal fails to meet each
one of the seven sound criteria developed by John Henry Newman in his essay
on the development of doctrine. Pastoral regard for the context and culpabil-
ity of the acting moral subject is essential, as highlighted by professor Rocco
Buttiglione; yet this must not entail affirming persons in their moral error to
their detriment. Rather, such subjective situations require pastors to inform and
encourage the faithful about life in Christ in matters of marriage, divorce and
remarriage, and the fruitful reception of Penance and Communion, in organic
continuity with what the Church has always taught.

It has recently been proposed that some divorced and remarried Catho-
lics who are not committed to living continently ought to be admitted
on a case-by-case basis to the sacraments of Penance and Communion.
* Professor of Theology at the Franciscan University of Steubenville, Ohio.

627
Michael G. Sirilla

This proposal is troubling as it represents a corruption of the Church’s


consistent praxis and, as such, is not available as a viable course of pas-
toral ministry. The Church’s doctrine on this matter is ancient and con-
stant and the contrary proposal fails to meet all seven criteria given by
John Henry Newman for the development of doctrine in his seminal
essay on the same1.
In his post-synodal apostolic exhortation, Familiaris Consortio, given
after the 1980 synod of bishops on the family, Pope John Paul II bears
witness to the Church’s traditional practice of not admitting such per-
sons to Communion:

The Church reaffirms her practice, which is based upon Sacred Scripture,
of not admitting to Eucharistic Communion divorced persons who have
remarried. They are unable to be admitted thereto from the fact that
their state and condition of life objectively contradict that union of love
between Christ and the Church which is signified and effected by the
Eucharist….
Reconciliation in the sacrament of Penance which would open the way
to the Eucharist, can only be granted to those who, repenting of having
broken the sign of the Covenant and of fidelity to Christ, are sincerely
ready to undertake a way of life that is no longer in contradiction to the
indissolubility of marriage….
With firm confidence she believes that those who have rejected the Lord’s
command and are still living in this state will be able to obtain from God
the grace of conversion and salvation, provided that they have persevered
in prayer, penance and charity.2

Remarking on this passage in a 2017 article published by La Stampa,


philosopher Rocco Buttiglione argues that in affirming this rule, John
Paul did not exclude exceptions to it.3 This is true; yet while John Paul
II does not explicitly exclude proportionate reasons that would excuse
persons from this rule, he did approve and order the promulgation of the

1 All citations from Newman in this essay are drawn from An Essay on the Development
of Christian Doctrine, fourteenth impression: Longmans, Green, & Co., London 1909.
2 John Paul II, Familiaris Consortio, 1981, a. 84.
3 He writes, “La Familiaris Consortio, del resto, nel momento in cui formula la regola, non
ci dice che essa non tolleri eccezioni per una ragione proporzionata” (“L’Approccio
Antropologico di San Giovanni Paolo II e quello Pastorale di Papa Francesco”, 25).

628
Whether the Proposal to Give Communion to the Divorced is in Continuity with Tradition?

1994 letter of the Congregation of the Doctrine of the Faith in which


this rule is not only reaffirmed but clarification is added, namely, that it
is to be held without exception:

The faithful who persist in such a situation may receive Holy Commun-
ion only after obtaining sacramental absolution, which may be given only
“to those who, repenting of having broken the sign of the Covenant and
of fidelity to Christ, are sincerely ready to undertake a way of life that is
no longer in contradiction to the indissolubility of marriage. This means,
in practice, that when for serious reasons, for example, for the children’s
upbringing, a man and a woman cannot satisfy the obligation to separate,
they ‘take on themselves the duty to live in complete continence, that is,
by abstinence from the acts proper to married couples’”4.

In his essay, Buttiglione provides ample reflections on John Paul’s


affirmation of the moral horizons of the acting subject and highlights
how persons in an objective state of adultery may be subjectively in-
culpable and therefore, be in a state of grace and able to receive the
sacraments of Penance and Communion. However, in their letter the
Congregation affirms the traditional practice of the Church that in such
situations pastors and confessors,

given the gravity of the matter and the spiritual good of these persons [cit-
ing 1 Corinthians 11:27-29] as well as the common good of the Church,
have the serious duty to admonish them that such a judgment of con-
science openly contradicts the Church’s teaching [citing CIC, 978 §2].
Pastors in their teaching must also remind the faithful entrusted to their
care of this doctrine.5

Properly understood, this strict rule is not a matter of discrimina-


tion, but “only of absolute fidelity to the will of Christ who has restored

4 Congregation for the Doctrine of the Faith, “Letter to the Bishops of the
Catholic Church Concerning the Reception of Holy Communion by the Divorced
and Remarried Members of the Faithful”, a. 4. The passage cited quotes directly
from Familiaris consortio, a. 84. The Pontiff’s personal approval of this letter is stated at
the end, “During an audience granted to the Cardinal Prefect, the Supreme Pontiff
John Paul II gave his approval to this letter, drawn up in the ordinary session of this
Congregation, and ordered its publication”.
5 Ibid., a. 6.

629
Michael G. Sirilla

and entrusted to us anew the indissolubility of marriage as a gift of the


Creator.”6
And in a study published by the Congregation for the Doctrine of
the Faith (CDF) in 1998, Cardinal Ratzinger notes that,

In the Church at the time of the Fathers, divorced and remarried mem-
bers of the faithful were never officially admitted to Holy Communion
after a time of penance…. In the West, on account of the Gregorian
reform, the original concept of the Church Fathers was recovered. This
development came to its conclusion at the Council of Trent and was
once again expressed as a doctrine of the Church at the Second Vatican
Council…. If the prior marriage of two divorced and remarried members
of the faithful was valid, under no circumstances can their new union be
considered lawful and therefore reception of the sacraments is intrinsically
impossible. The conscience of the individual is bound to this norm with-
out exception.7

Both John Paul II and the CDF refer to the scriptural basis of this
long-standing practice of the Church. We find it in Christ’s teaching
on the indissolubility of marriage (for example, Mark 10:2-12) and St.
Paul’s teaching that Communion must be received by those who are
properly disposed. Receiving Communion in a state of unrepentant
mortal sin is a gravely immoral act of sacrilege and scandal and, thus,
persons in this state may not present themselves for Communion. To
receive the Eucharist fruitfully the recipient must be in a state of grace
since the Eucharist is a sign of the spiritual union in faith and charity
that already exists between the recipient and Christ. When this spiritual
union is lacking, one must refrain from receiving Communion. In 1
Corinthians 11:27-30, St. Paul warns of the serious harm resulting from
unworthy reception:

Whoever, therefore, eats the bread or drinks the cup of the Lord in an
unworthy manner will be guilty of profaning the body and blood of the
Lord. Let a man examine himself, and so eat of the bread and drink of the

6 Ibid, a. 10.
7 Congregation for the Doctrine of the Faith, Concerning Some Objections to the
Church’s Teaching on the Reception of Holy Communion by Divorced and Remarried Members
of the Faithful, 1998.

630
Whether the Proposal to Give Communion to the Divorced is in Continuity with Tradition?

cup. For anyone who eats and drinks without discerning the body eats
and drinks judgment upon himself. That is why many of you are weak
and ill, and some have died.

Inasmuch as reception of this Sacrament is a sign of metaphysical and


supernatural union between Christ and the recipient in faith and charity,
worthy reception requires that the recipient assent to the full teaching
of Christ as expressed by the Church and that the he love Christ with
supernatural charity. A Catholic who fails to repent of acts of divorce,
illicit remarriage, or adultery and yet receives Communion outwardly
professes himself to be a lover of Christ (and he may inwardly think this
as well), but in fact he has rejected the love of Christ by failing to love
properly his true spouse, his current paramour, and his very self. His act
of reception is thus contradicted by his ongoing choice to remain di-
vorced to his true spouse and to pursue adulterous sexual relations with
another. Objectively speaking, he commits both a performative lie (in
which his external actions contradict his true interior dispositions) and
an act of profound irreverence toward Christ.
For the good of souls the Church has always prohibited such acts8.
This teaching is affirmed in the Catechism: “Anyone who desires to
receive Christ in Eucharistic communion must be in the state of grace.
Anyone aware of having sinned mortally must not receive communion
without having received absolution in the sacrament of penance”9. Yet

8 For example, Council of Trent’s “Decree Concerning the Most Holy Sacrament
of the Eucharist,” chapter 7: “The more the holiness and divinity of this heavenly
sacrament are understood by a Christian, the more diligently ought he to give heed
that he approach not to receive it but with great reverence and holiness, especially as
we read in the Apostle those words full of terror; He that eats and drinks unworthily,
eats and drinks judgment to himself…. Ecclesiastical usage declares that necessary
proof to be, that no one, conscious to himself of mortal sin, howsoever contrite he
may seem to himself, ought to approach to the sacred Eucharist without previous
sacramental confession”.
See also canon 11 of the same session: “If any one says that faith alone is a sufficient
preparation for receiving the sacrament of the most holy Eucharist; let him be ana-
thema. And for fear lest so great a sacrament may be received unworthily, and so
unto death and condemnation, this holy Synod ordains and declares, that sacramental
confession, when a confessor may be had, is of necessity to be made beforehand, by
those whose conscience is burdened with mortal sin, howsoever contrite they may
think themselves”.
9 Catechism of the Catholic Church, para. 1415. Earlier, in para. 1385, we read,
“To respond to this invitation we must prepare ourselves for so great and so holy a

631
Michael G. Sirilla

this is not a recent teaching; it is what the Church has required from
the very beginning. The fathers of the Church and the early Church
councils are unanimous in prohibiting those in an objective states of
mortal sin – including adultery – from receiving Communion10. This
robust consensus signifies that this praxis is at least of apostolic and per-
haps of dominical origin indicating that the teaching is likely definitive.
Regarding those whose subjective culpability is diminished or ab-
sent, as the CDF noted in the citation above, priests must instruct the

moment. St. Paul urges us to examine our conscience: ‘Whoever, therefore, eats the
bread or drinks the cup of the Lord in an unworthy manner will be guilty of profaning
the body and blood of the Lord. Let a man examine himself, and so eat of the bread
and drink of the cup. For anyone who eats and drinks without discerning the body
eats and drinks judgment upon himself’ (1 Cor 11:29). Anyone conscious of a grave
sin must receive the sacrament of Reconciliation before coming to communion”.
10 In a forthcoming article, theologian Christian Washburn meticulously demonstrates this
strong consensus. Among the fathers and ecclesiastical writers explicitly referring to this
pastoral practice, Washburn identifies Tertullian, Apologeticum 39.4 and De Pudicitia,
1.10 and 4; Cyprian, De dominica oratione 18, Letter 55.26.1 and Letter 51.27; Gregory
of Nyssa, Epistula canonica (Gregory of Nyssa: the Letters, ed. Anna Silvas [Leiden: Brill,
2007]); Basil in his three canonical letters (188, 199, and 217) the history of which is
summarized by Wilfried Hartman and Kenneth Pennington, The History of Byzan-
tine and Eastern Canon Law to 1500 (Washington, DC: CUA Press, 2012), 99; Ambrose,
De paenitentia 1.13.60 and 2.11.104; Augustine, De fide et operibus 19.34, Contra Cresco-
nium grammaticum partis Donati 2.28.35, Enarrationes in Psalmos 129.4-5, Sermon 392.2-3
and 5, Sermon 393.1, Letter 153.3.6 and 153.21; Chrysostom, Homiliae in Isaiam, 6.3
(PG 56.139); and Leo the Great, Letter 167.19 and the study by P. J. Riga, “Penance
in Saint Leo the Great”, in Église Et Théologie 5 (1974) 5-32.
Washburn also shows a consensus among early conciliar decrees denying Commu-
nion to unrepentant grave sinners: Council of Ancyra, canon 20 (Mansi 2:521-28);
Council of Neocaesarea, canons 1, 2, and 8 (Mansi 2:539-44); Council of Elvira,
canons 7-10 (Mansi 2:7) and the study by S. Laeuchli, Sexuality and Power: The Emer-
gence of Canon Law at the Synod of Elvira, Temple University Press, Philadelphia 1972;
Council of Gangra, canon 14 (Mansi 2:1099-1104 and Hefele 2:325-39); and The
Council of Carthage in 419AD, canon 102 (Munier, Concilia Africae a. 345 – a. 525
in CCL, 149 Brepols, Turnholt 1974).
Washburn also shows that the mistaken claim that canon 8 of the Council of Nicea
admits divorced and remarried Catholics to Communion has been refuted by H.
Crouzel in three studies: L’Eglise primitive face au divorce, Beauchesne, Paris 1971;
“Un nouvel essai pour prouver l’acceptation des secondes noces après dans l’Eglise
primitive,” in Augustinianum 17 (1977), 555-66; and “Les ‘digamoi’ visés par le concile
de Nicee dans son canon 8”, in Augustinianum 18 (1978) 533-46. Cardinal Walter
Kasper’s recent revival of this error has been redressed in the following studies: J. Cor-
bett et al., “Recent Proposals for the Pastoral Care of the Divorced and Remarried:
A Theological Assessment”, in Nova et Vetera 12 (2014) 610-11; J. M. Rist, “Divorce
and Remarriage in the Early Church: Some Historical and Cultural Reflections” in
R. Dodaro, Remaining in the Truth of Christ: Marriage and Communion in the Catholic
Church, Ignatius Press, San Francisco 2014, 87-91; and W. Brandmüller, “Divorziati
risposati, così nella Chiesa primitiva”, in Avvenire 5 April 2014.

632
Whether the Proposal to Give Communion to the Divorced is in Continuity with Tradition?

faithful of this doctrine. And even though personal ignorance diminish-


es or altogether removes moral culpability11, it would be a significant
failure of charity for a priest not to instruct the ignorant person of the
gravity of his sins12. Thus, the Church requires priests to instruct the
faithful, especially when they display ignorance about the gravity of a
moral act. In Amoris laetitia, Pope Francis reaffirms this in article 300,
“Priests have the duty to ‘accompany [the divorced and remarried] in
helping them to understand their situation according to the teaching of
the Church’”13. Though it may seem counterintuitive in our current
cultural context, it is essential in cases like these for pastors to realize that
judgments of conscience are not always to be followed. A personal judg-
ment of conscience is either subjectively certain or doubtful, but it is also
either objectively correct or erroneous so that even a subjectively certain
conscience may be in error. And while a person may not be culpable for
acts the gravity of which he is innocently unaware, nevertheless he and
others will suffer from the effects of those acts since all sin is contrary to
human nature and does violence to it14. Thus, true mercy and, indeed,
the very duties of his sacerdotal office compel the priest to instruct such
persons, even when doing so may not be well received at first – he must
preach the Gospel “in season and out of season”, 2 Timothy 4:2. The
solution to this painful situation is not to admit persons to the sacraments
without reforming their lives, but to help them resolve their ignorance
and commit to live chastely.
It has been argued that, even though some divorced and remarried
Catholics have full knowledge of the moral gravity of their ongoing
adultery, they may be unable to live continently. Certain divorced and
remarried persons, it is claimed, cannot live chastely without committing
or at least occasioning further sin, such as when the refusal of sex rouses
the ire of an abusive spouse or when one’s commitment to continence
somehow causes the children to suffer. Despite their adultery, such per-
sons may be in a state of grace because their consent is diminished by the

11 An exception to this is found when the person is responsible for his own ignorance,
such as when he knows of his ignorance and that he can take reasonable steps to
overcome it, but refuses to do so.
12 Instructing the ignorant is one of the classical spiritual works of mercy; see Catechism
of the Catholic Church, para. 2447.
13 He cites a. 85 of the Relatio Finalis from the 2015 Synod of Bishops on the Family.
14 Thomas Aquinas, Summa Theologiae, I-II q. 71, a. 2.

633
Michael G. Sirilla

threat of violence or grave harm. Thus, they qualify to be readmitted to


the sacraments without committing to live continently.
In response, it must be noted that John Paul II reaffirmed the
Church’s constant teaching that the negative precepts of the divine law
admit of no exceptions:

The negative precepts of the natural law are universally valid. They oblige
each and every individual, always and in every circumstance. It is a mat-
ter of prohibitions which forbid a given action semper et pro semper,
without exception, because the choice of this kind of behaviour is in no
case compatible with the goodness of the will of the acting person, with
his vocation to life with God and to communion with his neighbour. It
is prohibited — to everyone and in every case — to violate these precepts.
They oblige everyone, regardless of the cost, never to offend in anyone,
beginning with oneself, the personal dignity common to all15.

This includes the prohibition of adultery. By analogy, we may con-


sider those in the early Church who were threatened with violence or
death for failing to offer incense to idols. Fear perhaps reduced their
personal culpability to the venial level, but that cannot be the basis for an
exception to the absolute prohibition of idolatry. Reduced culpability
does not eliminate the demands of the law. The same applies to adul-
tery committed under duress. A special grace of fortitude is needed for
persons to remain faithful to Christ in terrible situations like these; but
Christ has promised this grace. Paul teaches, “No temptation has over-
taken you that is not common to man. God is faithful, and he will not let
you be tempted beyond your strength, but with the temptation will also
provide the way of escape, that you may be able to endure it” (1 Corin-
thians 10:13). Trent solemnly confirmed that no divine commandment
impossible to fulfill16. Because people in these situations often suffer an
acedia of despair thinking that they cannot obey Christ’s law of love, all
the more must their pastors exhort them to trust that Christ will surely
help them to become faithful to him and to their loved ones. Accompa-
nying them in their suffering, the good pastor encourages them to trust
that Christ will take care of their civil spouse and children and that their

15 John Paul II, Enc. Lett. Veritatis splendor, a. 52.


16 Session 6, chap. 11 and canon 18.

634
Whether the Proposal to Give Communion to the Divorced is in Continuity with Tradition?

family will have the opportunity to be edified and encouraged by the


witness of their chastity at so great a cost. Far from permanently damag-
ing them, their fidelity will work for their healing and salvation.
Turning now to Newman’s criteria for distinguishing development
of doctrine from its corruption, it appears that this proposal is not a
legitimate development of doctrine or praxis17. For Newman, “Cor-
ruption…is the breaking up of life, preparatory to its termination” and
it is “the reversal and undoing of what went before”18. The proposal in
question does precisely this – it corrodes Christian worship and harms
the life of souls. He summarizes his seven criteria as follows, “There is
no corruption if it retains one and the same type, the same principles, the
same organization; if its beginnings anticipate its subsequent phases, and
its later phenomena protect and subserve its earlier; if it has a power of
assimilation and revival, and a vigorous action from first to last”19.
1. “Preservation of Type”: By this Newman means the preserva-
tion of a doctrine’s “substantial identity.” Accidental changes surely oc-
cur, but the thing (or “office” or “calling”) “remains identically what it
was”20. In the proposal, the doctrines on marriage, divorce, and remar-
riage remain the same; but the Church’s prohibition of Communion is
substantially corrupted. The Eucharist can be understood in part as me-
dicine for the spiritually sick; but it is not spiritual sustenance for those
who are spiritually dead. The proposal also corrupts the praxis regarding
the sacrament of Penance by directing pastors to absolve those who have
not repented from or committed to cease the grave sin of adultery. And
it substantially corrupts the Church’s constant practice respecting tho-
se who, through ignorance or other mitigating circumstances, are not
subjectively culpable. Such persons must be instructed on the nature of
marriage, divorce, and the proper dispositions to receive the sacraments
and encouraged to commit to continence and attend the sacrament of
Confession. The practical effect of the proposal would bring this practice
to an end.

17 In his essay, Newman speaks explicitly of the development of “beliefs, opinions, and
usages” the latter signifying disciplinary practices. Newman, cit., 170.
18 Ibid., 170-71.
19 Ibid., 171.
20 Ibid., 172 and 178.

635
Michael G. Sirilla

2. “Continuity of Principles”: For Newman a principle is an abstract


law:

The life of doctrines may be said to consist in the law or principle which
they embody. Principles are abstract and general, doctrines relate to facts;
doctrines develope [sic], and principles at first sight do not; doctrines
grow and are enlarged, principles are permanent; doctrines are intellec-
tual, and principles are more immediately ethical and practical… A de-
velopment, to be faithful, must retain both the doctrine and the principle
with which it started…. A principle without its corresponding doctrine
may be considered as the state of religious minds in the heathen world21.

If this proposal seeks to preserve the principle in question, namely,


that one should not receive Communion without repenting of grave
sin, then it constitutes a change in “doctrine” in Newman’s sense here
– namely, it would be the retaining of a religious principle, but practi-
cally promoting that the faithful live as the heathen do. In another and
stronger sense, the proposal is in discontinuity with another principle,
namely, that the Church’s public judgment (as opposed to the private
judgment of individuals) is the standard for praxis. In the proposal, the
individuals involved (the couple, the priest) make a private judgment for
Communion. This is in sharp discontinuity with the principle that the
Church’s public judgment ought to be the standard in cases like these.
And for Newman, “the destruction of the special laws or principles of a
development is its corruption”22.
3. “Power of Assimilation”: here Newman treats of “the unitive pow-
er of faithful developments” in which “external materials” are taken into
the very substance of the Church’s tradition, transforming those ele-
ments into itself.23 But the proposal fails this test, since it is tantamount
to taking the world’s acceptance of divorce and remarriage, seen perhaps
as a tragic but inevitable fact of contemporary life, into the practice of
Church worship. Assimilating it would utterly transform and, hence,
destroy the Church’s doctrine on the indissolubility of marriage and the
true nature of Penance and Eucharistic Communion.

21 Ibid., 178-181.
22 Ibid., 185.
23 Ibid., 189.

636
Whether the Proposal to Give Communion to the Divorced is in Continuity with Tradition?

4. “Logical Sequence”: Believers, when challenged on an issue of


faith or practice, must think through their reasons and argue for the
soundness of their doctrines and develop a more self-conscious, log-
ical sequence of thought. For Newman, a doctrine or praxis is a true
development and not a corruption “in proportion as it seems to be the
logical issue of its original teaching”24. Yet the proposal fails to respect
the proper sequence of logic: if Christian sacramental marriage is always
indissoluble and Communion must be received worthily, then allowing
divorced and remarried Catholics living in more uxorio to receive Com-
munion necessarily entails either that marriage is dissoluble (at least in
some cases) or that Communion may be received by those who have not
repented of grave sin.
5. “Anticipation of Its Future”: By this, Newman indicates that in
their original form, doctrines contain the seeds for further development.
Thus, legitimate developments are anticipated by the ideas to which
they originally belong. Yet the proposal fails this test as well, since the
ideas embedded in the Church’s teaching and praxis on marriage and
Communion do not contain the seeds of their own destruction. A pro-
posal which fundamentally violates the original doctrines (or “ideas,” as
Newman puts it) as does this proposal, is in fact a corruption.
6. “Conservative Action Upon its Past”: Legitimate developments,
according to Newman, conserve or preserve the legitimate develop-
ments in the past. New practices that “reverse the course of doctrine
which has been developed before them, and out of which they spring,
are certainly corrupt; for a corruption is a development in that very stage
in which it ceases to illustrate, and begins to disturb, the acquisitions
gained in its previous history”25. In this sense, the proposal is “liberal”
and not “conservative” insofar as it constitutes a reversal of prior praxis.
7. “Chronic Vigor”: Newman contends that since corruption or-
dinarily proceeds rapidly, the long duration of a doctrine or praxis, that
is, its “chronic vigor,” is an indication of an authentic development:
“Corruption cannot, therefore, be of long standing; and thus duration
is another test of a faithful development”26. And while decay may be

24 Ibid., 195.
25 Ibid., 199.
26 Ibid., 203.

637
Michael G. Sirilla

very slow and corruption itself may be very vigorous, corruption itself
is decidedly marked by a “transitory character”27. By all accounts, the
proposal at hand is promoted vigorously in some quarters, but its vigor
is not “chronic”: it has no history, no length of duration; it is a radical
novelty.
In the final analysis, the proposal constitutes a corruption of the
Gospel principle that pastors must strengthen and encourage those who
are weak to rely on Christ’s grace in order to cease sinning. It would
overturn the pastoral practice of the Church from her very beginnings.
And it is a corruption not only of disciplinary norms but also of the
Church’s unchanging moral doctrine on the duties of the faithful to re-
frain from Communion when in a state of grave sin and of their pastors
to instruct and form them in Christ.
Though the Church’s traditional practice barring persons from re-
ceiving Communion until they resolve to sin no more in sacramental
Confession may be derided as a pastoral practice of “exclusion,” it is in
fact based on a more fundamental call from Christ to be included as a
member of His flock. The proposal at hand would lead people away from
Christ, from His grace, and from eternal life. Christ offers genuine mercy
to all by the grace of His cross through the sacraments of His Church
applied to us when we obey his command, “Repent and believe in the
Good News” (Mark 1:15). Wise pastoral practice cleaves to these funda-
mental truths of the Gospel, it does not direct people away from them.

27 Ibid., 205.

638
Quaestio disputata 1:

È tomistica Amoris laetitia?


Anthropotes 33 (2017)

The Hurdles of St. Thomas Aquinas to Overcome


in Amoris laetitia. In response to Prof. Eberhard
Schockenhoff

Basil Cole*

SUMMARY: The problem of reconciling St. Thomas Aquinas with portions


of chapter eight in Amoris laetitia is daunting. The Common Doctor is
neither idealistic (optimistic) nor over-pessimistic about the morality of conju-
gal intercourse. The virtue of chastity is only obtained after many battles in
adolescence, and many even in their adult years many do not seem to have the
quasi-virtue of continence due to the capital vice of lust, a disposition for sin.
We are all unique but with a common human nature and fulfillment comes
about from cooperation with grace and acquiring virtue. The commandments
are only the beginnings of virtue. Now, if a sacramental marriage can be re-
duced to a “legal fiction” or a “spiritual torso” whose continuing existence is
only nominal and of no practical consequence, then we do not have a homoge-
neous evolution but a heterogeneous corruption of doctrine.

In his short essay, Professor Eberhard Schockenhoff argues that Amoris


laetitia has rediscovered Thomistic virtue ethics, effectively overcoming
what he calls a “neo-scholastic act morality” 1. According to his reading
of St. Thomas’s position, it is not permissible to pass a final judgment

* Professor (Ordinarius) of Moral and Spiritual Theology at the Pontifical Faculty of the
Immaculate Conception Dominican House of Studies, Washington D.C.
1 See Eb. Schockenhoff, “Thomas von Aquin und die moraltheologische Perspektive
von Amoris Laetitia”, in Anthropotes 33 (2017) 303-311.

641
Basil Cole

on the moral quality of an action exclusively on the basis of its exter-


nal, material object. Rather, for Schockenhoff, the moral object of an
action cannot be finally determined until reason has verified which cir-
cumstances are relevant to reason. One of such relevant circumstances
would be the fact that a person’s marriage is no longer a lived reality, but
has rather been reduced to what he calls a “legal fiction” or a “spiritual
torso”. To his mind then, acts of sexual intimacy between partners of a
new union could then no longer be called acts of adultery. Though the
partners would remain nominally married to someone else, practically
they have ceased to be so. Though they would nominally not be mar-
ried to each other, they are practically living as if they were. Given these
circumstances relevant to reason, their acts of sexual union would have
to be considered as legitimate physical expressions of love.
This, he claims is the real insight of Pope Francis’s use of St. Thom-
as. But this claim contradicts Aquinas’ understanding of the develop-
ment of any sacred doctrine.
Pope Francis has recently said: “… I want to repeat clearly that the
morality of Amoris laetitia is Thomist, the morality of the great Thom-
as”2. However, claiming that Amoris laetitia is a Thomistic document
retrieving a more ancient tradition beyond the cold Neo-Scholasticism
that reigned after the sixteenth century, then it necessarily follows that
any Thomistic document should include or reference many of Aqui-
nas’s principles and arguments. Amoris laetitia does not sufficiently do
this. However, moral objects are more than what they appear to be on
the surface. Further, this new moral breakthrough concerning second
unions, while a first marriage still exists objectively, is an evolution or,
indeed, a departure from Thomas’s theology. But a reasoned proof must
show, starting from Thomas’ teaching, how the second union is not a
state of adultery. If Amoris laetitia is genuinely Thomistic, then it must
take into account not only sixteen occasional statements that it makes
about Thomas, but speak from his whole moral framework, which is not
a commandment or rule driven casuistry pace Schockenhoff but does
not deny them either.

2 Francis, “To Jesuits of Columbia”, in La Civiltà Cattolica, Sept. 10, 2017.

642
The Hurdles of St. Thomas Aquinas to Overcome in Amoris laetitia

1. An Apparent Development in the Sacramental Order

In the sacramental order, a development of praxis seems quite easy to


defend from the point of view of pure reason. For example, using barley
bread or rice bread seems more reasonable as matter for the Eucharist
in certain countries where wheat is not available. Likewise, using other
alcoholic beverages instead of wine where grapes do not grow seems
reasonable. Both Eucharistic elements are given to humankind from the
earth, and one element is the fruit of the vine such as juice from berries.
So other elements from the earth should be acceptable. It is merely a
question of an accidental not a substantial problem of the matter of the
Eucharist, for any of these possibilities (rice or other alcoholic beverag-
es) can become food and drink, the general matter of Holy Commun-
ion. However, reason alone cannot come to this conclusion due to the
teaching of general and particular councils of the Church as well as the
papal magisterium.
Changing the matter for the Eucharist prima facie by will of a pope is
not so simple even though the decrees on this question are disciplinary
and dogmatic. So, if that kind of an evolutionary change cannot occur
here, why not in moral teaching? Can racism, genocide and paedophilia,
slavery, homosexuality, adultery, fornication, masturbation, and usury
no longer be sins given special circumstances and intentions of the per-
son, whether ignorant or not of divine commandments and precepts or
counsels? Thomas would not agree.

2. St. Paul and Vatican II an Exception?

Did St. Paul really mean it in all cases when he said “the immoral, idol-
aters, adulterers, sexual perverts, thieves, the greedy, drunkards, revilers,
robbers” are excluded from the Kingdom of God (cfr. 1 Cor 6:9)3.
Common sense knows that the prohibitions against thievery and robbery
may, under desperate conditions, not be morally binding on someone. It is
also clear that the Church began to teach later in her history that buying and
selling human beings is contrary to the natural law. Similarly, as money’s

3 See St. Thomas Aquinas, Commentaries on I Cor 6.9, Mt. 19:17-18, Eph 4;15. and
Rom. 3.8.

643
Basil Cole

nature began to be understood more deeply than as something merely fruit-


less in itself, charging interest on a loan became morally good under certain
conditions so that today excessive interest taking is considered usurious but
investing in an industrial bond for its interest is not.
Further, the Second Vatican Council lists some very serious morally
evil acts, which clear show the intrinsic links of Catholic faith, the moral
life and sacramental life:

Whatever is hostile to life itself, such as any kind of homicide, genocide,


abortion, euthanasia and voluntary suicide; whatever violates the integri-
ty of the human person, such as mutilation, physical and mental torture
and attempts to coerce the spirit; whatever is offensive to human dignity,
such as subhuman living conditions, arbitrary imprisonment, deportation,
slavery, prostitution and trafficking in women and children; degrading
conditions of work which treat laborers as mere instruments of profit, and
not as free responsible persons: all these and the like are a disgrace, and so
long as they infect human civilization they contaminate those who inflict
them more than those who suffer injustice, and they are a negation of the
honor due to the Creator4.

Can there be a change of these species of actions by circumstances


and intention? Someone can erroneously intend a good end in all of
these above acts in ignorance but often it is supine ignorance, not igno-
rance simply speaking, given the insights common to all by the natural
law. Rather, the matter or behavior of these actions is clearly wrong
from the perspective of reason and faith. No circumstance or intention
can change the moral evil in these material objects, which are not merely
reference points of general truth but have the inherent meaning of dis-
order based on an immutable set of meanings.

3. Summary of Thomistic Virtue Theory of Moral Acts

What is Aquinas’s virtue teaching about? It begins with fallen and thereby a
weakened moral human nature, yet a nature common to all human beings
capable of good moral actions. At the same time, each person is unique.
Everyone is in possession of key concepts for guiding his life even though

4 Second Vatican Council, Past. Cons. Gaudium et Spes, 27.

644
The Hurdles of St. Thomas Aquinas to Overcome in Amoris laetitia

some are known only to the wise5. The natural law embedded in the hu-
man person includes a threefold degree of principles the last being know-
able only to the wise. Fallen human beings can acquire natural virtues of
prudence, justice, fortitude, and temperance imperfectly, albeit with many
falls because feelings based on imagination and faulty memory of the prin-
ciples of morality can trump right reason, which in turn can persuade the
will to choose apparent goods instead of true goods that fulfill oneself and
others. At the same time, human nature by itself cannot forgive its own sins
or heal its blinded mind and weakened will. Further, natural law has been
supplemented by the divine laws found in the Old Testament, specifically
the ten commandments and other precepts and counsels.
With the coming of Christ, there is a new law, the Holy Spirit dwell-
ing in the soul, and graces to aid in accomplishing God’s plan for one’s life.
Secondarily, the law is written down in Sacred Scripture and Tradition, lest
conflicts occur among people regarding what is asked of Christians by the
Holy Spirit. The new law frees one from the burden of the old law because
it enables anyone who accepts Christ, prays, and receives the sacraments,
to live the precepts and commandments of virtue and, on occasion fulfill
the counsels of Christ by the help of assisting or actual grace. Furthermore,
conscience, which judges actions before and after they are done, is enlight-
ened by Sacred Scripture, Sacred Tradition and the official teachings of
the sacred magisterium of the bishops and pope. All these strengthen each
follower of Christ to stand against false moral principles and persuasions of
unruly passion as well as the world’s media prompting people to choose un-
true or apparent goods. No one has to be a theologian to become a follower
of Christ. Only a few followers make this love of theology their vocation.
It is also quite clear in Dei Verbum 10 that all three “enlightenments” are
closely united that one of them “cannot stand without the other”.
The cardinal or hinge virtues have within each of them many other
species, or potential parts. Putting practical truth in the intellect so that
one can wisely choose how to act is called prudence, the charioteer of the
virtues. The unformed emotions can move prudence away from truth to
error if they are not put into synchronization by reason and faith. So, the
aggressive emotions of hope for great things and anger against evil threats
need to be kept in check until circumstances are ripe for their expression.

5 St. Thomas Aquinas, Summa Theologiae (from here on STh), I-II q. 91, a. 2; q. 93,
a.2; q. 94, a. 3 & 6.

645
Basil Cole

These are called acts of courage which either sustains or attacks evil when
prudence decides what is truly the best course of action. The soft passions
of love, desire, and pleasure need to be flooded by reason so that they do
not lead the human person away from what is a right course of action in
the bodily sphere. As Thomas puts it, “The devil is said to rejoice chiefly
in the sin of lust, because it is of the greatest adhesion, and man can with
difficulty be withdrawn from it. ‘For the desire of pleasure is insatiable’, as
the Philosopher states”6.
Finally, the will needs to honor the dignity of others by refraining from
harming anyone and by fulfilling one’s responsibilities to the common good
of one’s family, work place, the country, and ultimately God. The intellect
tries to persuade the will to do this, but the will can reject reason based
on the overwhelming thrust or overtures of the emotions. This is why St.
Paul speaks of the spiritual life as a battle or a wrestling match that includes
temptations also from the devil.
However, to achieve the virtuous life in its many ramifications, the
commandments were given as the way to begin acquiring virtue. They are
not imposed by God but are rather indicators of human flourishing beneath
the surface of the human person as a bodily spirit. That is why Thomas
develops his understanding of the commandments after he has analyzed
each virtue. He teaches very clearly “a man ought not to commit adultery
for any expediency… cannot become good, no matter how, or when, or
where, they are done, because of their very nature they are connected with
an evil end”7. Likewise, some actions of themselves have the moral evil of
guilt inherent in them, and no intention or circumstance can change them8.
These are called per se or intrinsically evil or better intrinsically shameful,
morally flawed, or essentially ignoble.
Radical situation ethics contradicts Aquinas’s firm affirmation that
there are some moral norms that always hold for everyone. The reason
for these exceptionless norms is that human nature does not change (even
though each person is unique), nor does the Gospel change. If these norms
are exceptionless, then calling any change away from them an “evolution”
would be imprecise. We would rather be dealing with a heterogeneous
corruption. However, there are more norms that do admit of exceptions.

6 STh, I-II, q. 73, a. 5 ad 2.


7 St. Thomas Aquinas, De Malo, 15, 1 ad 5.
8 Cfr. St. Thomas Aquinas, Quaestiones quodlibetales, 9, 7 ad 2.

646
The Hurdles of St. Thomas Aquinas to Overcome in Amoris laetitia

While the passions of themselves are neither morally good or evil,


they can enhance virtue. On the other hand, they can also pull the will
away from virtue by leading reason away from true fulfillment. Thereby,
the human person chooses to sin and often feelings strengthen a vice.
The seven capital vices together with their queen, pride, are also upsurg-
es of various passions that are disordered, but that under the guidance of
reason and faith can be set aside. Traditionally they are named vainglory,
avarice, envy, anger, gluttony, lust and acedia, all under the queen of
pride. When consented to, they are the instigators of forty-two other
sins (called daughters of the vices). When the vices emerge in conscious-
ness but are not consented to and are set aside by reason and the will,
they are the stuff that can be the occasion of virtue. Thomas calls their
first unconsented movements venial sins but they are only analogous
sins due to the disorder introduced by original sin. This is important for
understanding Thomas’s idea of authentic conjugal intercourse as distin-
guished from wrongful conjugal intercourse.

4. St. Thomas’s Realism about Conjugal Acts

However to assert that Thomas has only a positive idea of marital in-
tercourse is not quite exact. What makes for holy and unholy conjugal
intercourse for Aquinas? He begins with a very pertinent objection:

It would seem that the marriage act cannot be altogether entirely without
sin by the aforesaid goods of marriage9. For whoever allows himself to
lose a greater good for the sake of a lesser good sins because he allows it
inordinately. Now the good of reason which is prejudiced in the marriage
act is greater than the three marriage goods. Therefore the aforesaid goods
do not suffice to excuse marital intercourse10.

Objection three offers another hurdle to overcome in order to ap-


preciate his treatment of marital chastity:

9 Here understood as openness to offspring, intentional fidelity until death, and


sacrament.
10 St. Thomas Aquinas, STh. Suppl. q. 49, a. 4.

647
Basil Cole

Further, wherever there is immoderate passion there is moral vice. Now


the marriage goods cannot prevent the pleasure in that act from being
immoderate. Therefore they cannot excuse it from being a sin.

The reply is a lesson in fundamental moral theology for Thomas


clearly teaches what the properties or ideals of marriage do in a conjugal
act:

…Now a human act is said to be good in two ways. In one way by


goodness of virtue, and thus an act derives its goodness from those things
which place it in the mean. This is what “fidelity” and “offspring” do in
the marriage act… In another way, by goodness of the “sacrament”, in
which way an act is said to be not only good, but also holy, and the mar-
riage act derives this goodness from indissolubility of the union, in respect
of which it signifies union of Christ with the Church. Thus it is clear that
the aforesaid goods suffice to render the marriage act innocent.

The answer (ad 1) to the objection that a marriage act is less per-
fect than a better moral act and should be avoided is easily quashed by
observing that “generically better actions are sometimes interrupted for
some lesser good act”. It is referenced by the same idea mentioned in a
earlier article that one can and does lay aside the act of contemplation for
other actions or good deeds such as eating and sleeping. But the reply to
the third objection is more poignant:

The excess of passion that amounts to a sin does not refer to the passion’s
quantitative intensity, but to its proportion to reason; wherefore it is only
when a passion goes beyond the bounds of reason that it is reckoned to
be immoderate. Now the pleasure attaching to the marriage act while it
is more intense in point of quantity, does not go beyond the limits previ-
ously appointed by reason before the commencement of the act, although
reason is unable to regulate those limits during the pleasure itself.

5. What Is an Inauthentic Act of Conjugal Intercourse?

When speaking about the effects of original sin, the Supplementum clearly
teaches that one effect, which is a punishment of original sin, is that the

648
The Hurdles of St. Thomas Aquinas to Overcome in Amoris laetitia

lower powers and members of the body do not of themselves follow rea-
son without some difficulty. This is a penalty from within not imposed
from without. Yet it has led Thomas and others thinkers to pose a ques-
tion: can someone have the moral good of marital intercourse with one’s
spouse and still have the intention not of a marriage good but merely of
pleasure? The issue revolves around the word “merely” or even “exclu-
sively.” The reply merits being quoted fully:

Some say that whenever pleasure is the chief motive for the marriage act
it is a mortal sin; that when it is an indirect motive it is a venial sin and
that when it spurns the pleasure altogether and is displeasing, it is wholly
void of venial sin; so it would be a mortal sin to seek pleasure in this act,
a venial sin to take the pleasure when offered, but that perfection requires
one to detest it. But this cannot be so, since according to the Philosopher
(Ethic.x, 3, 4) the same judgment applies to pleasure as to action, because
pleasure in a good action is good, and in an evil action evil; wherefore, as
the marriage act is not evil in itself, neither will it be always a mortal sin
to seek pleasure therein11.

Here Thomas very clearly sees the goodness of the pleasure of mar-
ital intercourse but not always. For he continues:

Consequently the right answer to this question is that if pleasure be sought


in such a way beyond the integrity (honestum) of marriage, so that, to wit,
it is not as a wife but as a woman that a man treats his wife, it is a mortal
sin; wherefore such a man is said to be too ardent a lover of his wife, be-
cause his ardor carries him away from the goods of marriage. If, however,
he seek pleasure within the bounds of marriage, so that it would not be
sought in another than his wife, it is a venial sin.

Here his reasoning argues brilliantly in favor of accepting pleasure in


an authentic marital act but if it is an act motivated exclusively for pleasure
against the goods of marriage, then such pleasure is not virtuous pleasure
but “wanton” pleasure without any reference to the goods of marriage. If a
husband does not have to have a virtual intention to give the glory to God
while engaged in the action of marital love, his love for his wife is a venial

11 STh Supplementum, q. 49, a. 6.

649
Basil Cole

sin. However, he need not have an actual intention to the precise goods of
marriage either, so long as they are already present in a virtual intention.
Such is the idea behind the answer to the third objection12.
It is true that in pastoral experience, it is not always clear what is going
on in a person’s life. However, Thomas says this does not mean overturning
a commandment as AL would seem to suggest:

Practical reason deals with contingent things, upon which human activ-
ity bears, and so although there is necessity in the general principles, the
more we descend to matters of detail, the more frequently we encounter
defects … In matters of action, truth or practical rectitude is not the same
for all, as to matters of detail, but only as to the general principles13

If a priest discerns correctly, he may only see the general principle or


law being violated in a person’s life, but he may also see more deeply cer-
tain goodness in the details of a person’s life that diminish guilt. It does not
follow that “it is preferable that it be the knowledge of the particular reali-
ty, which is closer to the act”14. The context here is not about morals but
about eating foods. A doctor may know from experience that certain foods
aid health but he may not know the reasons why. Likewise certain virtues
can imperfectly coexist with sins against other virtues even though a priest
may not know all the underlying details. However, some sins of themselves
already indicate disordered choices.
So, Aquinas’ definition of adultery15 is very concrete: “adultery is ac-
cess to another’s marriage-bed”, or engaging in sexual intercourse despite
the fact that at least one of the acting persons is married to someone else.
Whether intentions or circumstances change this moral object is the major
dispute or issue surrounding whether or not a successful second union after
a previous “dead” marital union can allow one to receive the sacraments,
because one holds that the couple is no longer in the state of sin. Thomas

12 Thomas will abandon the Augustinian way of speaking in his later works: “Although
he does not actually refer the pleasure to God, he does not place his will’s last end
therein; otherwise he would seek it anywhere indifferently. Hence it does not follow
that he enjoys a creature (an Augustinian way of saying, “making it an end in itself); but he
uses (again an Augustinian work of saying that he does not make it the end in itself) a creature
actually for his own sake, and himself, habitually, though not actually, for God’s sake”
(STh. Supplementum q. 49, a. 6 ad 3).
13 STh, I-II 94, 4.
14 St. Thomas Aquinas, Commentary on the Nicomachean Ethics, Bk 6, lect. 6, section 11.
15 STh, II-II, q. 154, a. 8c.

650
The Hurdles of St. Thomas Aquinas to Overcome in Amoris laetitia

would clearly say no. He might have called it today a modern form of
Gnosticism16.

6. The Fonts of Moral Action

The Catechism of the Catholic Church following St. Thomas17 enumerates the
sources of morality18: “The morality of human acts depends on: the object
chosen; the end in view or the intention; the circumstances of the action. The
object, the intention, and the circumstances make up the “sources”, or consti-
tutive elements, of the morality of human acts”.
It is true that the moral theologian does not simply look at the material
object of an action and conclude that he knows what is right and wrong
subjectively in a person. He cannot know if someone is in the state of sin
or not but he can judge morally good or evil acts or a particular state of
one’s life (a pirate, for example) exist from discussion with a penitent as he
describes certain behaviors.
Some moral objects are indifferent like picking up a needle, while oth-
ers have built within them disorders against the good of a person like delib-
erately killing an innocent person. So, “an evil action cannot be justified by
reference to a good intention”19. Likewise, there is the question of motive
or the general overall intent of a human act. Some circumstances can be
merely accidental (wearing white shoes), while others are properties of an
action (raping someone’s wife, which has the note of injustice as well as
lust). Ignorance of a moral precept renders an action a material sin, which
does not destroy sanctifying grace in the soul. However, once the truth of
the matter is known, then virtue is not easily accomplished and often harms
have already been done not only to oneself but to the common good as
well.
When it comes to positive precepts, moral actions do not oblige always
and in every circumstance, but negative ones oblige always without excep-
tion20. Often when recovering from a repented sinful life, one can possess
some virtues in one way, but not necessarily in all ways. That a convert or

16 Cfr. http://www.apatheticagnostic.com/index.html or http://www.apostolicgnosis.


org/gnostic-church.html
17 STh, I-II, q. 18, a. 4 ad 3.
18 Catechism of the Catholic Church, n. 1750.
19 Dec. praec. 6.
20 STh, II-II, q. 33, a. 2; Super Rom. C.13, lect 2 (11520); Super Gal c.6, lect. 1 (343).

651
Basil Cole

revert may not be able to exercise some virtues well is not a sin21. From
this principle, one cannot conclude that someone living in an immoral state
of life (in the mafia, for example) can be in the state of grace simply because
he or she can exercise particular virtues while not possessing other virtues
such as chastity due to a second bond simulating marriage.

7. Dogma of Marriage

Together with St. Thomas the universal Church teaches, based on Gn


2:23–24, Mt 19:6, and Mk 10:9 that valid marriage, sacramental or not,
is itself permanent and indissoluble until death with the exception of the
Petrine or Pauline privilege for dissolving non-sacramental marriages2216. If
the marriage bond is established by God23, it is not possible for an individ-
ual to abolish it or for God to withdraw it himself, the Pauline and Petrine
privileges being the exception. As Dr. Grisez explains, “In marriage, the
man and woman are fulfilled in three ways: by faithful love, by becoming
parents, and by constituting a bond of communion with one another which
both represents and realizes the communion which Christ establishes in
the Eucharist”24. Marriage should express and realize the ideal of love as
self-giving and not a mere taking. However, disordered self-love a “daugh-
ter of lust” often emerges and is not opposed in first valid marriages that
end in divorce. This selfish love is the basis of all sin, which can “kill” in
the psychological order a marriage25. For Aquinas, lust is also related to the
queen of the vices, pride, which refuses to accept the limits God has placed
within human nature nor desires to follow the plan God has created in and
for human nature26. Lust is a kind of lieutenant of this queen of vices27.
Therefore to say that Veritatis splendor nn. 78-80 needs revision or
updating (though it can always be deepened), one has to prove that such
updating does not contradict its teaching but is in conformity with it. As
Pope Pius XII once wrote:

21 STh III, q. 65, a. 3 ad 2; De Malo 2, 2.


22 DS 1797-99; cfr. Pius IX, DS 2967; Pius XI, DS 3711.
23 Cfr. Second Vatican Council, Gaudium et Spes, 48.
24 G. Grisez, The Way of the Lord Jesus, General Moral Principles, Franciscan Herald Press,
Chicago 1983, 802; cfr. Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum,1327.
25 STh, I-II, q. 77, a. 4.
26 STh, I-II, q. 84, a. 2 ad 2.
27 STh, II-II, q. 162, a. 8.

652
The Hurdles of St. Thomas Aquinas to Overcome in Amoris laetitia

Nor should one think that the things proposed in Encyclical Letters do
not of themselves call for assent on the plea that in them the Popes do not
exercise the supreme power of their Magisterium. For these things are
taught by the Ordinary Magisterium, to which this also applies: ‘He who
hears you hears me’… But if the Popes in their acta deliberately pass judg-
ment on a matter controverted up to then, it is clear to all that according
to the mind and will of the same Pontiffs, the question can no longer be
considered open to free discussion among theologians28.

There is a profound distinction then between homogeneous evolu-


tion of doctrine and heterogeneous evolution. Calling new moral asser-
tions “Thomistic evolution” is not sufficient if they contradict previous
Thomistic teaching and do not truly deepen the same meaning. Otherwise
the concern of the moral theologian and confessor is simply to please the
sinner, if not excuse him or her. In other words, the lens of Amoris laetitia
is not the means of interpreting Thomas, rather Thomas is the lens to view
Amoris laetitia.

28 Cfr. Pius XII, Enc. Lett. Humani generis, in Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion


Symbolorum,3885.

653
TESTIMONIANZA

CARLO CAFFARRA:
IL PROFILO DI UN PASTORE TEOLOGO
Introducción a la rubrica Testimonianza Carlo Caffarra

En ocasión de la muerte del Cardenal Carlo Caffarra el pasado 6 de sep-


tiembre 2017, Anthropotes ha querido publicar una serie de testimonios
que recogiesen el perfil de quien ha sido el primer presidente de nuestro
Istituto. Para ello, ha invitado a algunos colegas suyos, a alumnos de la
primera hora, a personal no docente, a sucesores en la cátedra episcopal
o en la presidencia del Instituto a delinear en un modo personal los tra-
zos de su perfil como pastor teólogo. Porque en estas dos dimensiones
se reúnen lo que constituía la vida de don Carlo: la enseñanza de la
teología y el ministerio episcopal. Los testimonios muestran la riqueza
de una amistad, cuyo punto central era la participación en la pasión por
la verdad del hombre y su comunicación a otros, una amistad que así se
hacía relevante en la vida de quien entraba en contacto con él. Hubié-
ramos querido poder ofrecer más testimonios: algunos de ellos han sido
recogidos ya en el número anterior (Anthropotes 1/2017), como el del
Cardenal Scola. Basten los que aquí ofrecemos para mostrar el don que
don Carlo ha supuesto para el Istituto y para la Iglesia.

JN

656
Anthropotes 33 (2017)

Discorso del Preside in occasione del primo atto accade-


mico dell’Istituto alla presenza di Papa Giovanni Paolo II
(1981)

Carlo Caffarra*

È questo il primo “atto accademico”, potremmo dire, del nuovo Istituto


Giovanni Paolo II di Studi su Matrimonio e Famiglia: l’inizio della sua
attività. Che essa cominci davanti a Vostra Santità è un fatto pieno di
significato: sta ad indicare quanto stia a cuore a Lei questo settore della
vita e della cura pastorale della Chiesa.
Vorrei ora, brevemente, esporre alcuni orientamenti fondamentali
cui il nostro insegnamento intende ispirarsi e gli obiettivi che ci propo-
niamo di raggiungere.
1. Innanzitutto gli orientamenti. Esiste un progetto di Dio sul Ma-
trimonio e sulla Famiglia, un progetto che Dio ha rivelato “dal princi-
pio”, progressivamente manifestato nella rivelazione vetero-testamenta-
ria e definitivamente svelato con e in Cristo. Questo progetto costituisce
la verità della famiglia e del Matrimonio: una verità che è affidata alla
libertà e responsabilità dell’uomo e della donna che si sposano. La gran-
dezza e la felicità di essi sta nella fedeltà a questa verità dalle inesauribili
ricchezze. Con i nostri studi, con l’impegno della nostra ricerca rigorosa,
con il nostro insegnamento è questa verità che ci proponiamo di scoprire
sempre più profondamente e di comunicare agli studenti. Sicuri come

* Primo Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II (1981-1995). Il discorso è stato
tenuto davanti al Santo Padre Giovanni Paolo II.

657
Carlo Caffarra

siamo che il primo servizio che il nostro Istituto è chiamato a rendere


agli sposi ed alla Chiesa tutta intera è il servizio alla verità.
Il progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia non è qualcosa di
estrinseco, di esteriore alla persona dell’uomo e della donna che si sposa-
no. E inscritto nel loro essere stesso, cosa che, quando l’uomo è attento
alle esigenze più profonde della sua persona, già con la sola sua ragione
può scoprirne alcune linee essenziali. È per questo che nel nostro inse-
gnamento si è fatto spazio anche alla riflessione filosofica ed alle cosid-
dette scienze umane. La prima è volta alla elaborazione di una antro-
pologia che, partendo soprattutto dalla esperienza etica, mostri la verità
della persona umana nella sua dignità e contro ogni tentativo di riduzioni
o impoverimento. Le seconde alla descrizione attenta della situazione
storica in cui l’uomo e la donna sono chiamati a vivere il loro matrimo-
nio e la loro famiglia.
Questa pluralità di discipline rischierebbe di nuocere alla unità pro-
fonda dell’insegnamento, condizione fondamentale per la formazione
dei nostri studenti, se non tenessimo continuamente presente che deve
essere la “spina dorsale” di tutta la ricerca nel nostro Istituto: la verità ri-
velataci da Dio ed insegnataci autenticamente dal Magistero della Chiesa.
È innegabile, d’altronde, che in questi anni, nella vasta produzione
teologica e non sui temi attinenti al matrimonio e alla famiglia, non
tutto è stato vero e buono. È accaduto, anzi, che la coscienza morale
degli sposi è stata turbata, resa incerta anche su questioni di essenziale
importanza nella dottrina cristiana del matrimonio. La situazione è stata
spesso denunciata anche da semplici fedeli che, ammaestrati solo da quel-
la Unzione che è data ad ogni credente, hanno espresso la loro esigenza,
il loro diritto alla verità. Di conseguenza, il nostro Istituto è chiamato a
svolgere, al riguardo, un servizio che non è più prorogabile.
In particolare. Sarà nostro impegno scientifico ed educativo la ri-
flessione e l’insegnamento della dottrina della Enciclica Humanae vitae,
ciascuno secondo la propria specifica competenza. Questa dottrina è in-
teramente accettata nel nostro Istituto, né su di essa ci dovranno essere
ambiguità o incertezze, ma, anzi, uno degli orientamenti fondamentali
sarà l’approfondimento continuo dei suoi fondamenti antropologici e
teologici e la messa in atto anche di tutta una strumentazione scientifica
per la sua applicazione. Pensiamo, in questo modo, di operare perché

658
Discorso del Preside in occasione del primo atto accademico dell’Istituto

questa Enciclica penetri sempre più profondamente nella coscienza e nel


cuore della Chiesa e nella coscienza dei fedeli.
Ugualmente su due altri temi, l’Istituto dovrà distinguersi per la fer-
mezza e la nettezza della sua fedeltà al Magistero della Chiesa: sul tema
dell’aborto e sul tema dell’indissolubilità coniugale. Quanto al primo, noi
tutti sappiamo come esso metta in questione radicalmente i fondamenti
stessi di ogni convivenza civile, giustificando l’omicidio di un innocente.
Quanto al secondo, noi tutti sappiamo che il divorzio, sotto qualunque
forma e per qualunque ragione venga ammesso, inevitabilmente diventa
sempre più facile e viene accettato come un fatto normale, siamo tutti al
corrente che, sia in tema di aborto che in tema di divorzio, sono sorte
incertezze nell’ambito delle comunità ecclesiali. La fedeltà del nostro
Istituto al Magistero, al riguardo, è quindi un servizio di valore incalco-
labile per tutta la Chiesa.
2. Ed ora una parola sugli obiettivi che l’Istituto si propone di rag-
giungere. Da quanto ho detto deriva che lo scopo fondamentale di que-
sto Istituto è la conoscenza, scientificamente elaborata, della verità sul
matrimonio e sulla famiglia: è questo l’apporto specifico che siamo chia-
mati a dare per l’edificazione della Chiesa. D’altra parte, è una proprietà
essenziale della verità cristiana quella di essere una verità da mettere in
opera, una veritas facienda. È per questo che il nostro Istituto è chiamato
a sostenere l’impegno pastorale della Chiesa, teso ad aiutare l’uomo e la
donna sposati a vivere il loro matrimonio e la loro famiglia secondo il
progetto di Dio. Questo sostegno è tale da essere conforme alla natura
propria di un Istituto di studi. È questo un obiettivo assai impegnativo
per tutti noi. La cura pastorale, infatti, deve essere continuamente radi-
cata in una solida dottrina ed ogni separazione tra pastorale e dottrina è
dannosa. La Chiesa esercita la sua maternità (Ecclesia Mater) innanzitutto
insegnando la verità (Ecclesia Magistra).
Nel contesto di questi obiettivi fondamentali, si inserisce la forma-
zione di teologi, di operatori pastorali in tutti i campi, che sappiano poi
svolgere opera o di ricerca scientifica o di insegnamento, o impegnarsi
in attività pastorali. Sarà, per questo necessario, che si dia ampio spa-
zio, nell’ambito pastorale, alla presentazione delle varie esperienze che si
vanno facendo in tutto il mondo.

659
Carlo Caffarra

Santità, l’annuncio della creazione del nuovo Istituto doveva esse-


re dato proprio il 13 maggio, durante l’udienza. La Vostra Persona fu
colpita.
L’intercessione di Maria, di cui proprio in quel giorno veniva ricor-
data l’apparizione a Fatima, e la Vostra sofferenza, sopportata con tanta
edificazione per tutta la Chiesa, ottengano dal Signore un lavoro frut-
tuoso per tutta la comunità cristiana.

660
Anthropotes 33 (2017)

Testimonianza su Carlo Caffarra

Massimo Camisasca*

La notizia della scomparsa del cardinale Carlo Caffarra mi ha raggiunto


in modo totalmente inatteso. Ci eravamo infatti sentiti al telefono da
poco tempo e avevamo già deciso che ci saremmo incontrati a Bologna
di lì a pochi giorni. Dio ha voluto diversamente. Lo ha preso con sé
quando nessuno poteva presagirlo. In me e in tutti i suoi amici è rimasto
assieme a un grande vuoto, un bisogno di silenzio, di preghiera, di rifles-
sione su ciò che conta veramente nelle ore terrene.
Le nostre due persone si erano legate nel tempo in un affetto molto
profondo. Don Carlo esprimeva la sua amicizia con mille attenzioni,
consigli, risate, sguardi, lezioni di vita, parole. Ci siamo conosciuti negli
ormai lontanissimi anni Settanta, all’Università Cattolica di Milano. Io,
appena laureato, frequentavo i corsi del Dipartimento di Scienze Re-
ligiose, che era stato da poco inaugurato. Don Pino Colombo, padre
Lyonnet, padre Cantalamessa erano alcuni dei maestri di quell’istituto. E
tra loro c’era Caffarra, giovane ma già affermato insegnante di Teologia
morale. Ho ancora le fotocopie delle sue dispense scritte interamen-
te a mano. Cosa ricordo di quei mesi? La profonda struttura razionale
delle sue lezioni. Aveva assimilato l’insegnamento di San Tommaso e
lo presentava a noi studenti senza ripeterlo pedissequamente, come un
dogma che piovesse dall’esterno. Nelle sue parole si coglieva un amore

* Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla. Già Vice Preside della Sede Centrale del
Pontificio Istituto Giovanni Paolo II e già Superiore generale della Fraternità
sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo.

661
Massimo Camisasca

profondo per la verità, ricercata nella grande Tradizione dei Padri e della
Scolastica, in dialogo con le domande poste dalla filosofia moderna e
contemporanea.
Avrei ritrovato questo stesso amore per la ragione in un infinito
numero di sue lezioni nei quasi cinquant’anni della nostra vicinanza.
Amore per la ragione, per quella verità che veniva sempre più dimenti-
cata e addirittura osteggiata dal pensiero debole, dal nichilismo e dal rela-
tivismo successivo. Già si vedeva in lui quella che sarebbe stata, decenni
dopo, la grande battaglia di Benedetto XVI.
Le nostre strade hanno preso poi indirizzi geografici diversi. La di-
stanza tra noi però era solo apparentemente. Io andavo a Roma, Caffarra
restava a Milano, dove continuava il suo insegnamento alla Facoltà teo-
logica e pubblicava articoli scientifici che lo ponevano all’attenzione del
mondo della teologia. Nel 1981 usciva Viventi in Cristo, che Giacomo
Biffi ha definito «il più riuscito tentativo di presentare un’etica davvero
cristiana»1.
Nello stesso anno la chiamata di Giovanni Paolo II lo portava a
Roma per essere il padre del nuovo Istituto di studi sul matrimonio
e la famiglia. Era il 13 maggio. Lo stesso giorno nasceva il Pontificio
Consiglio per la Famiglia e il Papa veniva gravemente ferito in Piazza
San Pietro. Era anche il giorno della Madonna di Fatima. Caffarra volle
a lavorare con sé Angelo Scola, Stanisław Grygiel, Livio Melina. Altri
nel tempo si sarebbero aggiunti. Tra tutti vorrei ricordare Marc Ouellet.
In quegli anni romani ci vedevamo spesso. Breve era il percorso tra
l’Università del Laterano e le Cappellette di San Luigi, dove abitavo con
Scola e dove presto sarebbe nata la Fraternità San Carlo.
Nel 1990 mi ha chiamato a insegnare metafisica e gnoseologia nella
sua Università. La comunione di vita e di pensiero è naturalmente au-
mentata. Dal ’93 al ’95 sono stato suo vice-preside. L’Istituto è stato il
suo capolavoro: una vera communitas di studi nella fede. Una fucina di
giovani insegnati, operatori pastorali, ma soprattutto una famiglia dove
era sempre acceso il fuoco della ricerca comune.
Nel 1995 il Papa lo ha chiamato all’episcopato. Giovanni Paolo II ha
voluto che il suo pensiero fecondasse tutta la Chiesa attraverso un nuovo
profilo di responsabilità. Ho avuto la sorte e il privilegio di passare ore

1 G. Biffi, Lettere a una carmelitana scalza (1960-2013), Itaca, Castel Bolognese 2017.

662
Testimonianza su Carlo Caffarra

e ore con lui per accompagnarlo e convincerlo a quel passo. Era uno
strappo troppo grande? Carlo lo ha sofferto come una lacerazione.
Da vescovo, sia da Ferrara che da Bologna veniva spesso a Roma,
soprattutto per la Conferenza episcopale. Il suo segretario mi avvisava e
cenavamo assieme. Parlavamo della Chiesa italiana e di quella universale,
delle sue diocesi, della Fraternità san Carlo, di letteratura, musica, poesia,
sport, di don Giussani, di don Divo Barsotti. Vedeva in loro due grandi
maestri. Il secondo era per lui un padre spirituale.
Non parlava mai delle sue malattie, talvolta molto visibili sul suo
volto. Invece mi parlava spesso delle sue sofferenze spirituali. Si è speso
per le Chiese di Ferrara e Bologna interamente, senza risparmio, innan-
zitutto nell’intercessione tra Cielo e terra, nella preghiera per i poveri e
i sofferenti di cui è ricca la giornata di un vescovo, nello studio e nella
predicazione, nella passione per la verità di Cristo. Non è mai sceso a
patti con la mentalità mondana. Lo incontravo anche a Ferrara e a Bo-
logna, dove mi ha chiamato a parlare ai suoi preti e dove ho visto la
sobrietà assoluta della sua persona, delle sue abitazioni, delle sue giornate.
Mi ha consacrato vescovo. Ho scelto Caffarra perché Presidente
della Conferenza Episcopale regionale. Avrei scelto chiunque occu-
passe quel posto, ma ero felice che fosse lui. Poi abbiamo vissuto as-
sieme per tre anni l’avventura bella e appassionante dell’episcopato in
Emilia-Romagna.
Pro veritate adversa diligere: penso che la frase di Gregorio Magno scel-
ta come proprio motto dal Cardinale Martini ben si potrebbe attribuire
anche al caro Cardinal Caffarra. La sua vita è stata luminosa.

663
Anthropotes 33 (2017)

L’integrum: dovere etico e proposta educativa


in Carlo Caffara

Maria Luisa Di Pietro*

1. La parcellizzazione dell’essere umano e del suo agire

1985-2017: sono passati oltre trenta anni da quando, appena laureata in


Medicina e Chirurgia e specializzanda in Endocrinologia, ho frequen-
tato le lezioni di Carlo Caffarra. Un modo di argomentare, una capa-
cità di comunicazione, una tipologia di linguaggio, del tutto nuovi per
chi - come me - aveva dedicato i suoi anni e i suoi studi alle scienze
sperimentali, ma che mi hanno consentito di guardare alla realtà in una
prospettiva del tutto nuova.
Antropologia, teologia, etica: un modo diverso di approcciarsi all’es-
sere umano. Nuove “chiavi di lettura”, come le definiva Carlo Caffarra,
che vanno oltre ciò che è empiricamente dimostrabile e che può dare
solo risposte di tipo quantitativo (chiave sperimentale), alimentando la lo-
gica del dominio e della manipolazione (chiave tecnologica). Nuove chiavi
di lettura, che consentono di spaziare con lo sguardo a 360 gradi e di
lasciarsi interrogare dal valore e dalla dignità dell’essere umano (chia-
ve filosofica), anche con l’ausilio della lente di ingrandimento della fede
(chiave teologica). Nuove chiavi di lettura per trovare risposte alle tante
domande che il progresso scientifico e tecnologico ponevano in quegli
anni e continuano a porre. Con una fondamentale differenza: la vivacità
* Docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore e al Pontificio Istituto Teologico
Giovanni Paolo II, Roma.

665
Maria Luisa Di Pietro

del dibattito degli anni ’80-’90 rimane, purtroppo, un lontano ricordo


rispetto all’attuale assordante silenzio dell’assuefazione. In quegli anni, le
riflessioni sul procreare e generare umano, sullo statuto dell’embrione
umano, sulle proposte di programmi di educazione della sessualità anche
nelle scuole, sulle questioni di fine vita, sulle problematiche del vivere
quotidiano, erano al centro dell’attenzione a fronte di una crescente ten-
denza alla parcellizzazione dell’essere umano. Con due conseguenze: il
riduzionismo antropologico (l’essere umano nella sola dimensione fisi-
ca); il riduzionismo biologico (l’essere umano equiparato alle altre specie
viventi, anche delle classi più basse). Una parcellizzazione, conseguenza
di quel processo di separazione su cui Carlo Caffarra ha più volte insisti-
to, distinguendone tre livelli.
1) La separazione del corpo dalla persona. Il corpo, separato dalla
persona, viene inteso come proprietà della persona e in tal modo rei-
ficato, oggettivizzato, spersonalizzato e ridotto - infine - a mera natura
biologica. Una tale visione del corpo porta con sé due conseguenze:
1. la natura biologica viene intesa come forza da assecondare, per cui
l’agire umano si limita ad essere risposta ad un istinto (prospettiva dell’i-
stintivismo naturalista); 2. la natura biologica è una realtà indifferente da
utilizzare secondo il proprio desiderio (prospettiva del permissivismo).
In entrambi i casi l’uomo viene espropriato di ciò che lo caratterizza in
quanto tale, la corporeità. Fino a cancellarne anche l’esistenza. È quanto
avviene nella cosiddetta “teoria del genere”: dopo aver separato il sesso
biologico dal genere, si giunge a negare l’esistenza stessa di una realtà
corporea maschile e femminile. D’altra parte, è proprio il processo di
de-costruzione della realtà umana il punto di partenza della prospettiva
del genere, che lo considera solo come un costrutto sociale e culturale
impresso sulla superficie della “materia-sesso”. Laddove decade il discor-
so di senso e di verità della realtà umana, viene meno - però - anche la
possibilità di rintracciare un bene intelligibile da perseguire e anche la
libertà (la stessa libertà che più volte viene rivendicata come unico crite-
rio di scelta) finisce per divenire - come già detto - spontaneità o soddi-
sfacimento di un istinto. E una libertà, che si limita ad essere risposta ad
un istinto, non è più libera.
2) La separazione dell’eros dall’agape. L’amore nella sua dimensio-
ne passionale, centripeta (eros) e l’amore nella sua dimensione oblativa,

666
L’integrum: dovere etico e proposta educativa in Carlo Caffara

centrifuga (agape), non sono in competizione ma anzi costituiscono l’im-


palcatura stessa dell’amore. Essi non si lasciano mai separare l’uno dall’al-
tro. La contemporaneità ha, però, isolato ed esaltato soprattutto l’aspetto
erotico dell’amore, contribuendo all’emergere di atteggiamenti edonisti-
ci, utilitaristici e libertari. Questi ultimi non sono da sottovalutare nelle
complesse dinamiche affettive, ma se vengono assolutizzati negano la
verità propria dell’Amore e ne cancellano la dimensione personale. E,
rendono inutile qualsiasi intervento di educazione dell’affettività e della
sessualità. D’altra parte, se la sessualità non viene considerata più una
dimensione strutturale della persona ma solo una mera funzione, per
quale ragione si deve educare il sentimento morale? Sarebbe sufficiente
insegnare norme igieniche al fine di evitare la trasmissione di malattie
sessualmente trasmesse e insistere sulla “prevenzione” delle gravidanze
con l’uso di contraccettivi e/o abortivi.
3) La separazione tra le due dimensioni (logos) insiste nella relazio-
ne coniugale: unitiva e procreativa. È oggi possibile disgiungere i due
significati (unitivo e procreativo) insiti nella relazione sessuale-genitale:
da un lato, la coniugalità senza la procreazione (contraccezione), dall’al-
tro la procreazione senza coniugalità (fecondazione artificiale). Una tale
separazione - possibile solo sul piano tecnico - viola una “necessità” o
inseparabilità di altro tipo, di ordine non scientifico, ma antropologico
e ontologico.
Separazione, parcellizzazione, riduzione: gli esempi potrebbero
continuare. Rimane, però, una domanda di fondo: è questa la verità
dell’Uomo?

2. La visione dell’unità sostanziale

Cos’è l’uomo? È questa una delle magnae questiones degli esseri umani di
ogni tempo. È compito della riflessione antropologica scoprire i proble-
mi che si nascondono dietro alla domanda “chi sono?”, assumerli, esami-
narli in modo critico e tentare di dare risposte che possano illuminare le
problematiche concrete dell’esistenza. Da dove cominciare?
Il punto di partenza è, senz’altro, l’esperienza che mette in evidenza
come l’essere umano abbia una caratteristica che lo distingue da qualsiasi
altro essere vivente: la sua profonda unità, pur nella molteplicità delle

667
Maria Luisa Di Pietro

sue manifestazioni. Con riferimento a Tommaso D’Aquino, è sempre


lo stesso uomo che mangia, rifugge il freddo, corre (attività corporee) e
pensa, sceglie, entra in relazione (attività spirituali). L’uomo può essere,
allora, concepito come una unitotalità corporeo-spirituale. L’uomo “è”
un corpo nel senso che la dimensione corporea è sostanziale e non può
essere considerata un accidente (ossia qualcosa di “aggiunto” ad un sog-
getto pre-esistente) o dotata di “dignità inferiore”. Ma l’uomo è anche
“più” di una semplice corporeità dal momento che le attività (pensiero,
amore, emozione, volontà, libertà, ecc.), di cui è capace, presuppongo-
no una dimensione di natura spirituale.
La tesi dell’unità sostanziale della persona umana ha - come mette
in evidenza Carlo Caffarra - conseguenze rilevanti per la conoscenza
del senso del dimorfismo sessuale. La persona umana è persona uma-
na-donna e persona umana-uomo. La femminilità/mascolinità struttura-
no e configurano la persona umana. È l’unità che esiste fra il segno e il
significato. Il corpo esprime la persona: in questo consiste il significato
specificamente umano del corpo. Il corpo è segno della persona; la per-
sona è significata dal e nel corpo.
Sono, allora, deducibili le conseguenze sul piano ontologico ed etico
di questa “verità” antropologica quale risposta ai diversi tentativi di sepa-
razione. Il corpo non è una proprietà o una merce, ma una dimensione
dell’uomo stesso (è l’essere umano nella sua dimensione fisica) da rispet-
tare e tutelare in quanto tale; il corpo è primo principio di individuazio-
ne (l’essere umano è quel che è anzitutto a partire dalla sua corporeità) e
differenziazione (fin dai caratteri fisici l’essere umano si differenzia dagli
altri individui della sua stessa specie); il corpo è mezzo affinché la persona
si esprima ed entri in comunicazione e in comunione con l’altro; il corpo
è linguaggio, principio di strumentalità e anche limite (la sofferenza e la
morte sono due realtà “inseparabili” dalla persona proprio perché scritte
nella dimensione finita e corruttibile della corporeità). Dall’altro canto
l’esistenza personale, pur realizzandosi nella corporeità, non si esaurisce
completamente in essa proprio a motivo della dimensione spirituale che
va a “formare” il corpo e quindi anche a “significarlo”. Il significato
umano del corpo deriva proprio dall’informazione spirituale che lo con-
traddistingue. Nella spiritualità è possibile rintracciare la “trascendenza”
(ontologica ed assiologica) propria dell’humanum.

668
L’integrum: dovere etico e proposta educativa in Carlo Caffara

3. Dall’unità come condizione ontologica all’unità come dovere


etico

L’essere unità sostanziale di corpo e spirito come si traduce sul piano


dell’agire? Il dato esperienziale alimenta la consapevolezza che nell’essere
umano coesistono tre forze centripete, che Carlo Caffarra chiama “di-
namismi”. Il dinamismo somatico, il dinamismo psichico, il dinamismo
spirituale: di fronte ad ogni situazione, in cui si è chiamati a scegliere,
queste tre forze mettono a dura prova la volontà umana.
Carlo Caffarra applica la teoria tre dinamismi in modo particolare
al discorso sulla relazione uomo-donna e all’unica possibilità di vivere la
relazione coniugale, quella del dono di sé all’altro. L’inclinazione reci-
proca della mascolinità e della femminilità, se considerata esclusivamente
dal punto di vista biologico e/o psicologico, non è orientata al dono di
sé. In senso biologico, essa ha come fine quello di porre le condizioni
del concepimento di un nuovo individuo della specie umana; in senso
psicologico, essa ha come fine quello di giungere al soddisfacimento di
un bisogno. Bisogna, allora, concludere che il significato della relazione
coniugale (realizzazione della persona come dono di sé) è imposto in modo
estrinseco alla dimensione biologica e psicologica della sessualità umana,
ovvero dal dinamismo spirituale.
E se, continua Carlo Caffarra, è facile delineare la differenza tra il
dinamismo somatico e dinamismo spirituale, è più difficile intuire la vera
natura del dinamismo psichico, che si potrebbe definire come una cer-
niera tra lo spirito e il corpo biologico. Questa distinzione non deve fare,
però, dimenticare che la persona umana è unica ed unico è il soggetto
di questi tre dinamismi, che sono tra di loro armonizzati e gerarchizzati.
Come si realizza questa unicità? La persona non è riducibile a cia-
scuna delle sue tre dimensioni, non è il risultato della loro somma, ma le
trascende. Questa possibilità di trascendenza è data all’uomo dalla pre-
senza dello spirito, che informa, contiene, unifica e dirige il corpo. Che
consente, soprattutto, di integrare i due poli da cui si scatena la tensione
che è propria dell’agire della persona umana: il polo della distinzione dei
dinamismi operativi (somatico e psichico) e il polo dell’unità (lo spirito).
In questa continua tensione si colloca il compito etico dell’uomo, ovve-
ro il processo di integrazione della persona umana.

669
Maria Luisa Di Pietro

Il compito, il dovere, etico dell’essere umano è proprio questo: cer-


care di unificare queste tre dimensioni che, continuamente in lotta e in
disaccordo tra di loro, lo porterebbero ad un comportamento non uni-
forme. La realizzazione di una realtà integra (integrum) nasce dal rapporto
ordinato delle varie parti, ordinate in un complesso unitario e progetta-
to. “Ordine” significa ridurre la molteplicità ad unità e reciprocamente
il dispiegarsi dell’unità nella molteplicità. L’ordine suppone e integra una
gerarchia oggettiva di essere e, quindi, anche di valori. Si può quindi
definire l’integrum, chiarisce Carlo Caffarra, come una totalità unificata
che esiste in una molteplicità di parti gerarchicamente ordinate. L’inte-
grazione è precisamente quel processo attraverso il quale questa totali-
tà unificata esiste in una molteplicità di parti gerarchicamente ordinata.
L’opposto dell’integrazione è la concupiscenza, ovvero il disordine della
persona in forza della quale essa non è più soggetto in grado di trascen-
dere e dominare le proprie molteplici tendenze.
Nell’ambito della relazione uomo-donna nella comunione coniuga-
le, la capacità (habitus) di realizzare l’integrum è la virtù della castità, che si
nutre dell’amore maturo, dell’amore trasparente, che in ogni atto che lo
manifesta lascia intravedere il riconoscimento del valore della persona, di
un rapporto interpersonale. Un rapporto, nel quale la persona dell’altro è
voluta in sé stessa e per se stessa, semplicemente per il valore intrinseco,
per la dignità di questa persona. Una dignità che le fa meritare di essere
voluta in questo modo, nella sua preziosità singolare. Una dignità, che
non può essere mai né calpestata né tradita, come è costume frequente
oggi.
Perché si possa vivere la castità sono necessarie - secondo Carlo Caf-
farra - almeno tre condizioni. Innanzitutto, l’autodominio, che l’essere
umano può esercitare proprio per quella dimensione che lo trascende e
consente di decidere come realizzare la sua storicità e quali delle sue fa-
coltà tradurre in atti. Si comprende così la teoria tomista secondo la qua-
le la virtù della castità è subordinata alla virtù della temperanza. Infatti,
come la virtù della temperanza aiuta l’uomo a vivere secondo la ragione
e a raggiungere - quindi - la perfezione propria della natura umana,
così la virtù della castità rende la volontà in grado di temperare i moti
dei sensi e quelli della concupiscenza, che nascono come reazioni della
sensualità (dimensione somatica) e dell’affettività (dimensione psichica).

670
L’integrum: dovere etico e proposta educativa in Carlo Caffara

La seconda condizione è l’autoposesso: nessuno può donare ciò che


non possiede. Questo autopossesso deve, poi, tradursi sul piano opera-
tivo: chi è in sé, deve agire da sé. È questa la definizione di libertà. È
mediante la libertà che la persona possiede operativamente se stessa: non
è di altri in senso completo.
La terza condizione è l’esistenza di un vero Amore per l’altro,
quell’amore che riconosce il valore della persona e che consente all’uno
di volere il bene dell’altro in quanto bene dell’altro. Un amore, che non
subordini la disposizione ad amare in tutte le circostanze al desiderio di
godere.

4. L’integrum come progetto educativo

In merito all’educazione, Carlo Caffarra sottolinea come Socrate abbia


avuto l’incomparabile merito di aver radicato l’azione educativa nell’an-
tropologia, cioè nella visione della verità sull’uomo. Infatti, a differen-
za dei sofisti che muovevano dal presupposto che non si desse verità
sull’uomo se non quella della convenzione sociale, Socrate optava per
l’educazione come sforzo di insegnare ad aver cura di se stessi e lasciava
intravedere una sorta di bene (cioè di verità) che l’uomo doveva per-
seguire per la propria realizzazione, non identificabile certamente con
il solo consenso sociale. In tal senso l’educatore o il formatore, lungi
dall’essere un semplice insegnante di strategie di azione (la prospettiva
sofistica), poteva essere paragonato ad un’ostetrica, che aiuta l’uomo a
“prendere dimestichezza, confidenza” con se stesso e a partorire la pie-
nezza della sua realtà umana.
La verità sull’uomo: perché, se non si innesta e radica in una verità
integrale della persona, la libertà può condurre l’uomo stesso a compor-
tamenti e scelte riduttive, o diventare strumento di prevaricazione e di
puro arbitrio, o portare ad atteggiamenti di rassegnazione e pericoloso
scetticismo.
Quale verità e quale bene sull’uomo? Problema complesso, eppure
decisivo. Perché solo se si individuano le caratteristiche proprie dell’uo-
mo, ciò che determina la sua natura e - di conseguenza - la sua digni-
tà, siamo in grado di indirizzare gli sforzi educativi. Educare e formare
sono parole che, etimologicamente, rimandano ad una meta (il primo)

671
Maria Luisa Di Pietro

e ad una forma (il secondo). L’uomo ha scritte entrambe dentro di sé


e il cammino che deve percorrere, soprattutto nei primi anni della sua
esistenza (ma il processo potrebbe non avere mai fine), non può non
conformarsi ad esse. Rinunciare alla pretesa di alcune verità sull’uomo
significa rinunciare ad educare.
L’educatore deve, allora, condurre la persona a realizzare se stessa
secondo questa verità al fine di rispondere al bisogno dell’essere umano:
il bisogno di essere un vero Uomo; il bisogno di vivere una vita buona;
il bisogno di vivere felicemente. In tal modo, l’educazione diviene guida
della persona, aiuto dato alla persona perché cresca al punto da essere
essa stessa capace di vivere, di conoscere e godere della verità conosciuta.
Il dramma attuale dell’educazione, oggi, è proprio questo: non si
ammette l’esistenza di una tale verità sull’uomo; non si trasmette un
progetto di vita ritenuto buono e vero. La povertà educativa è, in realtà,
una “povertà antropologica”. E la negazione di una verità sull’uomo pe-
nalizza - ricorda Carlo Caffarra - l’essenza stessa della libertà. La libertà
umana, che è libertà di scelta, presuppone sempre un giudizio circa la
bontà di ciò che sto scegliendo, implicando quindi il riferimento alla ve-
rità. Ogni scelta è radicata in un desiderio naturale che la precede, perché
ne è la condizione di possibilità: il desiderio di una pienezza di essere. E
non di solo desiderio.
La libertà, nel senso più profondo, è la capacità che ha l’Io di di-
sporre di se stesso in ordine a quel bene o valore che ritiene essere il più
importante. La vita si decide nella risposta che la libertà sceglie di dare
alla verità ultima circa se stesso, circa la realtà nella sua interezza. Il rifiu-
to da parte dell’educatore nel proporre una visione, un’immagine viva
dell’uomo nella sua integralità, impedisce alla persona di attingere alla
vera ricchezza della sua umanità: il suo Io.
Quale libertà? La scelta della libertà - scrive Carlo Caffarra - nasce
dal confronto tra la proposta di vita (che si fonda su una visione del mon-
do e dell’uomo fatta dall’educatore) e la soggettività della persona che si
sta sviluppando, che si deve educare. L’atto educativo non fa nascere un
Io libero perché non propone nulla, ma perché propone in modo che
chi riceve abbia un terreno su cui porsi e un referente con cui confron-
tarsi, un’ipotesi interpretativa della realtà da verificare. La radice ultima
della questione è la fiducia nella ragione. Se si parte dal presupposto che

672
L’integrum: dovere etico e proposta educativa in Carlo Caffara

non esista una verità circa il bene della persona, che non esista nell’uomo
un desiderio innato di sapere come stanno le cose, che ogni proposta
di vita sia un’opinione non razionalmente condivisibile perché si vuole
solo di cercare il proprio bene privato e individuale, che diritto avreb-
be l’educatore di proporre all’educando la propria visione del mondo e
dell’Uomo?
L’educazione non è, quindi, solo istruzione. Lo sarebbe se venisse
negata l’esistenza della libertà, riducendo l’essere umano ad una realtà
governata solo dalle leggi della biologia. L’educazione si deve avvalere
della testimonianza, che tocca intimamente la persona e muove l’Io ver-
so la sorgente profonda da cui la testimonianza sgorga. Con quella verità
che raggiunge in modo delicato ma abbondante i destinatari di tale veri-
tà, sorprendendo per la sua bellezza e per la sua freschezza.

5. Testimoniare la verità

1985-2017: sono passati oltre trenta anni, ma non ho dimenticato nulla


dell’insegnamento di Carlo Caffarra sia nella mia professione sia nella
mia vita. Ho avuto modo di ascoltarlo e di leggere i suoi scritti anche
negli anni successivi e di apprezzare in ogni momento la sua capacità di
testimoniare la verità.
Testimone di verità, giorno dopo giorno e per tutta la sua vita in
modo - sempre - limpido e coerente. Limpidezza e coerenza: virtù sem-
pre più rare oggi. Più che le note bibliografiche, che avrebbero sminuito
questo testo, credo che valga il ricordo indelebile di un Uomo, che con
la forza dello sguardo e delle parole ha consentito a quanti lo hanno co-
nosciuto e ascoltato di scoprire la bellezza dell’essere umano e l’Amore
di quel Dio che ci ha amati per primo e che ci consente di scoprire e
vivere l’Amore.

673
Anthropotes 33 (2017)

Un esempio indimenticabile per i suoi alunni e per tutti i


teologi moralisti

Willem Jacobus Eijk*

Il Beato Paolo VI sembrava essere più apprezzato al momento della sua


beatificazione, il 19 ottobre 2014, che durante il suo pontificato. Nes-
suno che abbia vissuto questo pontificato, dimenticherà il modo in cui
questo grande Papa fu avversato non solo fuori ma soprattutto dentro la
Chiesa in seguito alla pubblicazione della sua Enciclica Humanae vitae. La
ragione di tale rifiuto è da ricercare nel fatto che egli mantenne salda la
dottrina, che considera la contraccezione diretta un atto intrinsecamente
illecito, in continuità con l’insegnamento del Magistero e con la tradi-
zione della Chiesa.
Paolo VI ha incontrato una profonda incomprensione. A parte tanti
altri fattori legati al rapidissimo aumento della prosperità in Occidente1,
fra i quali la nascita e la rapida diffusione sia della mentalità della conte-
stazione sia della cultura iper-individualista secolare, con cui la pubblica-
zione dell’enciclica (il 25 luglio 1968) coincise, tuttavia la causa più pro-
fonda di tale incomprensione fu l’assoluta mancanza a quel tempo di una
visione filosofica e teologica del matrimonio, da cui risulta chiaramente
l’illiceità intrinseca della contraccezione diretta. Solo negli anni ’70 e ’80

* Cardinale, Arcivescovo di Utrecht, Olanda.


1 Questa cultura è descritta da Charles Taylor come la “cultura dell’individualismo
espressivo,” si veda: Ch. Taylor, Varieties of Religion Today: William James Revisited,
Harvard University Press, Cambridge/London 2002, 79-107; cfr. W.J. Eijk,
“Esperienze di discontinuità”, in Sacrum Ministerium 16 (2010) n. 1-2, 114-118.

675
Willem Jacobus Eijk

alcuni pensatori hanno sviluppato un’analisi e una visione filosofica e


teologica universale del matrimonio e della sessualità umana, da cui deri-
vano argomenti convincenti per la norma che riguarda la contraccezione
diretta. I protagonisti in questo ambito di ricerca furono Papa Giovanni
Paolo II, che si è concentrato sul tema dal punto di vista teologico me-
diante la sua teologia del corpo, e il Monsignore, più tardi Cardinale,
Caffarra, il cui contributo era soprattutto di carattere filosofico.
Ho incontrato Mons. Caffarra per la prima volta all’inizio di ottobre
nel lontano 1987, nel periodo in cui era Preside del Pontificio Istituto
Giovanni Paolo II, che si trovava nella Pontificia Università Lateranense,
e più tardi anche di tutti gli altri Istituti con lo stesso nome in altri paesi
e continenti. Mons. Caffarra era un uomo abbastanza piccolo, un po’
nervoso e molto vivace, che era solito passarsi le mani sui capelli, mentre
presentava un ragionamento profondo durante le sue lezioni.
Il vescovo della diocesi di Roermond, nella quale ero incardinato,
mi aveva mandato a Roma per conseguire la Licenza ed il Dottorato in
Filosofia alla Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (l’Angelicum).
In questo periodo, un amico che studiava all’Istituto Giovanni Paolo II
mi aveva entusiasmato con i suoi racconti molto positivi sull’alto livello
e sul contenuto dei corsi che vi venivano offerti. Questo amico mi con-
vinse ad intraprendere un altro ciclo di Licenza, contemporaneamente ai
miei studi all’Angelicum. Con l’accordo del mio Vescovo, che chiese per
me una dispensa da parte della Congregazione per l’Educazione Catto-
lica per fare due licenze nello stesso tempo, sono divenuto uno studente
anche dell’Istituto Giovanni Paolo II.
Non mi sono mai pentito di questa scelta, che mi ha permesso di
frequentare dei corsi ottimi: ho seguito il corso di Teologia dogmatica
sul matrimonio tenuto dal futuro Cardinale Angelo Scola, che adesso
è Arcivescovo emerito di Milano, il corso di Teologia Morale fonda-
mentale di Mons. Ramón García di Haro, e quello di Teologia Morale
speciale di Mons. Angel Rodríguez Luño. Il corso però che ha segnato
maggiormente i miei studi all’Istituto Giovanni Paolo II è stato quello di
Mons. Caffarra sull’Etica generale della sessualità, il cui contenuto è stato
successivamente pubblicato sotto lo stesso titolo2.

2 C. Caffarra, Etica generale della sessualità, Edizioni Ares, Milano 1992.

676
Un esempio indimenticabile per i suoi alunni e per tutti i teologi moralisti

Mons. Caffarra insegnava con una passione ed un amore visibili per


la dottrina della Chiesa riguardante il matrimonio e la sessualità, e nello
stesso tempo in modo molto sistematico e strutturato. Iniziava di soli-
to con alcune premesse, successivamente sviluppava un ragionamento
strutturato al livello di un trattato scolastico, terminava poi con alcuni
corollaria. Non gli interessava mettere in mostra la propria conoscenza o
intelligenza, o esprimere argomentando le proprie opinioni, ma il vero
ed unico obiettivo del suo insegnamento era quello di comprendere la
verità oggettiva. Cominciava con le premesse di antropologia metafisica
e di morale fondamentale, per spiegare, attraverso un ragionamento den-
so e conciso, i principi dell’etica sessuale e la loro applicazione.
Prendendo come punto di partenza l’antropologia aristotelica-to-
mista, ci ha insegnato il fondamento dell’etica sessuale (ma anche quello
dell’etica medica), cioè che la persona umana è una unità sostanziale, in
base alla tesi che tanto più intenso è l’atto di essere, quanto più questo
è comunicativo di sé. L’essere delle realtà spirituali, che sono incorrut-
tibili, è di una suprema intensità e quindi comunicativo al massimo.
L’atto di essere del soggetto spirituale umano (l’anima) è comunicato al
corpo, per cui la persona umana è una unità sostanziale, costituita sia da
una dimensione spirituale che da una materiale. La base del suo corso
era la definizione del matrimonio come il mutuo dono totale degli sposi
l’uno all’altro, che deriva dalla Costituzione pastorale del Concilio Va-
ticano Secondo Gaudium et spes: “mutuum sui ipsius donum” (n. 49)3.
Prendendo questa definizione come punto di partenza arrivava alla con-
clusione che la contraccezione diretta implica che si renda incompleto
il dono di sé al livello della dimensione materiale e perciò anche il dono
totale di sé stesso, visto che l’essere umano è una unità sostanziale di spi-
rito e corpo. Per la prima volta qualcuno mi aveva dato un argomento
filosofico convincente sul perché l’uomo non possa rompere di sua ini-
ziativa la connessione inscindibile fra il significato unitivo e il significato
procreativo dell’atto coniugale (Humanae vitae, n. 12).
Mons. Caffarra era un uomo coraggioso. Mi ricordo che durante un
congresso alla Pontificia Università Lateranense (una delle poche occa-
sioni avute di tenervi una conferenza), gli venne affidato, o forse scelse

3 Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, (7 dicembre 1965),


AAS (1966), 1025-1115, p.1070.

677
Willem Jacobus Eijk

lui stesso, un tema che riguardava la contraccezione. Tra i molti profes-


sori presenti durante la sua conferenza, cresceva una resistenza sempre
più manifesta per il contenuto della sua relazione. Nella discussione che
seguì, egli venne attaccato quasi da tutti coloro che prendevano la paro-
la, ma reagiva difendendo la sua posizione, come sempre conforme alla
dottrina della Chiesa, anche se i suoi interlocutori rifiutavano di ascoltare
seriamente le sue argomentazioni. Alcuni mass media - anche all’estero,
compresa l’Olanda - hanno estrapolato un argomento non centrale dalla
sua relazione e, citandolo fuori contesto, hanno rappresentato Mons.
Caffarra come un teologo conservatore medievale. Si è tentato di minare
la sua fama in modo ignobile. Quello stesso amico che mi aveva consi-
gliato di iscrivermi all’Istituto Giovanni Paolo II, visitando Mons. Caf-
farra il giorno successivo, lo trovò triste a causa di ciò che era accaduto
al congresso: era un uomo coraggioso, ma rimaneva un essere umano…
I suoi avversari e talvolta anche i mass media hanno tentato di rap-
presentare Mons. Caffarra come un uomo rigido, chiuso agli argomenti
ed ai pensieri altrui. Coloro che come me l’hanno conosciuto personal-
mente sanno che era esattamente l’opposto: una persona calda, con un
cuore aperto per i suoi studenti. Sebbene fosse un uomo molto occupato
come Preside dell’Istituto e professore con molti altri incarichi, riservava
sempre volentieri del tempo per ricevere e parlare con i suoi studenti.
È stato un uomo tutt’altro che chiuso e rigorista. Come essere umano e
come cristiano si impegnava sinceramente a trovare argomenti validi per
esporre la dottrina della Chiesa e aiutare così i suoi contemporanei nel
trovare l’unica verità, che è in una sola Persona, in Cristo. I suoi inse-
gnamenti e la sua ricerca avevano in fin dei conti uno scopo pastorale.
Si diceva che quando Mons. Caffarra teneva una conferenza sull’eti-
ca sessuale e soprattutto sulla contraccezione, la gente si arrabbiava, men-
tre questo non capitava ad altri relatori, che affermavano le stesse tesi. Se
questo è vero, penso che tale avversione nei suoi confronti fosse dovuta
alla forza del suo argomentare, per cui le sue conclusioni, sempre in con-
formità con la Tradizione e la Dottrina della Chiesa, risultavano alla fine
inevitabili, e coloro che non accettavano le sue tesi, rendendosi conto
di non poterle semplicemente negare, si arrabbiavano per la loro stessa
incapacità di ribattere i suoi argomenti ed il suo ragionamento lucido.

678
Un esempio indimenticabile per i suoi alunni e per tutti i teologi moralisti

Ho incontrato di nuovo Sua Eminenza Caffarra, nel frattempo di-


ventato arcivescovo di Bologna e cardinale, in occasione del concistoro
di febbraio 2012, in cui io stesso fui creato cardinale da Papa Benedetto
XVI, ed ho trovato la stessa persona amichevole e accessibile dei tempi
in cui presiedeva l’Istituto Giovanni Paolo II, ma non più nervoso. Da
quel momento ci siamo incontrati regolarmente nei concistori del Col-
legio Cardinalizio e poi nel conclave del 2013. Alla fine del secondo
Sinodo dei vescovi nel 2015 il Cardinale Caffarra, facendo riferimento
all’enciclica Veritatis splendor, ha messo in guardia tutti i partecipanti circa
il pericolo che correva la dottrina riguardante l’esistenza di norme asso-
lute anche per gli atti umani concreti. Per un momento mi sono sentito
di nuovo nell’aula dell’Istituto Giovani Poalo II, dove avevo seguito i
suoi corsi quasi trent’anni prima.
“Eminenza, caro amico, quando Lei avrà raggiunto il cielo – e credo
che questo sia il caso vista la Sua fedeltà esemplare a Cristo – preghi il
Signore con l’intercessione della Madonna, tanto venerata da Lei, che
doni qualcosa della forza e del coraggio, concessi a Lei tanto abbondan-
temente, anche a noi. Noi che stiamo tentando di testimoniare la verità
in Cristo riguardo la morale matrimoniale e quella sessuale nelle circo-
stanze difficili di un mondo sempre più secolarizzato. In breve, affinché
noi, i Suoi alunni gratissimi siamo in grado di seguire sempre e ovunque
il Suo esempio indimenticabile”.

679
Anthropotes 33 (2017)

Carlo Caffarra e il dibattito sulla coscienza morale

Hermann Geissler*

SUMMARY: Carlo Caffarra always committed himself to value the dignity


of the moral conscience, highlighting in particular its irreplaceable role in the re-
alization of the human and Christian person, and denouncing, in the footsteps
of Newman, the limits of a merely subjectivist approach. As a professor and
pastor, he farsightedly indicated a dynamic way for the formation of conscience,
which leads man to the personalization of the truth of Christ within the ecclesial
community.

L’attenzione dedicata alla coscienza morale ha giocato un ruolo cruciale nel


servizio teologico e nella cura pastorale del compianto cardinale Carlo Caf-
farra. In questo breve contributo non è possibile presentare tutta la ricchezza,
chiarezza e profondità della sua riflessione su questa complessa tematica. Ci
si limita a mostrare le linee fondamentali del suo pensiero, partendo dal suo
compendio Viventi in Cristo1, considerando alcuni interventi recenti2 e te-
nendo conto anche dell’esperienza personale di una lunga e bella amicizia3.

* Direttore dell’International Centre of Newman Friends.


1 C. Caffarra, Viventi in Cristo. Compendio della morale cristiana, nuova edizione rivista
e corretta, Edizioni Cantagalli, Siena 2006.
2 C. Caffarra, J.H. Newman: una proposta educativa per la comunicazione oggi, conferenza
pronunciata il 21 gennaio 2011; Id., Metti Gesù nella tua vita, e vivrai una vita vera.
La responsabilità di se stessi, catechesi tenuta il 30 ottobre 2013; Id., Ricostruzione
dell’umano, relazione pubblicata l’11 settembre 2017; Id., L’educazione della coscienza
morale secondo Newman, lezione apparsa il 21 settembre 2017. Tutti questi contributi
sono stati pubblicati on-line.
3 Ho frequentato il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II dal 1988 al 1991, scrivendo una
tesi di dottorato, sotto la guida di Carlo Caffarra, sul tema Gewissen und Wahrheit bei
John Henry Kardinal Newman, seconda edizione, Peter Lang, Frankfurt am Main 1995.

681
Hermann Geissler

Chi ha potuto frequentare le lezioni di Caffarra, si è subito accorto


della sua rinnovata visione della morale, non più legata alle discussioni
spesso sterili della casuistica. Accogliendo pienamente il desiderio del
Concilio Vaticano II, il suo punto di partenza nell’elaborare la teologia
morale è l’incontro con Cristo, che ci introduce nella verità sul bene e
ci guida, nella forza dello Spirito Santo, su una via verso la vita piena
nella carità, il cui anelito è iscritto dal Creatore nel cuore di ogni uomo4.
Tutta la sua riflessione morale è cristocentrica, orientata verso un cam-
mino di conversione, di fede e di realizzazione della propria umanità, in
conformità con il piano di Dio, nella fiducia della grazia che ci dà forza.

***

Questa visione dinamica della teologia morale si riflette anche nel


pensiero di Caffarra sulla coscienza morale. Egli parte dalla distinzio-
ne fra la conoscenza delle norme morali, che “riguarda le esigenze della
realizzazione della persona umana come tale, cioè in conformità con
l’universo dei valori etici”, e la coscienza morale, che “è pur sempre un
atto di conoscenza, ma il suo oggetto è l’azione che sto per compiere io,
in questo momento, in questa situazione, in quanto essa è rapportata alle
norme morali”5. La coscienza morale, quindi, che mette in relazione
l’atto che sto per compiere con il valore morale al fine di vagliarne la
sua bontà o malizia, costituisce la personalizzazione del valore morale:
essa rende possibile alla persona umana “di realizzarsi nella sua singolare
irripetibilità secondo la verità del valore e della norma morale”6. Nella
coscienza il valore morale si personalizza (dall’universale al singolare) e
la persona umana si realizza nell’universo dei valori etici (dal singolare
all’universale). Seguendo (o non seguendo) liberamente la propria co-
scienza, la persona umana forma se stessa, diventa buona (o cattiva). In
questo senso ciascuno di noi, attraverso i suoi atti liberi, è padre e madre
di se stesso, come hanno insegnato i Padri della Chiesa7.

4 Cfr. Concilio Vaticano II, Decreto Optatam totius, n. 16.


5 Caffarra, Viventi in Cristo, cit., 106.
6 Ibid., 107.
7 Cfr. Caffarra, Metti Gesù nella tua vita, e vivrai una vita vera. La responsabilità di se stessi, 1.

682
Carlo Caffarra e il dibattito sulla coscienza morale

Ciò significa per coloro che vivono in Cristo: “Mediante la coscien-


za morale le esigenze del nostro essere e vivere in Cristo si personaliz-
zano. È la singolarità di ogni credente che si realizza mediante il giudizio
della coscienza e per ciò stesso si costituisce la comunione veramente in-
terpersonale in Cristo (dal singolare all’universale). È l’accoglienza, l’a-
prirsi della singola esistenza del credente alla stessa e identica Vita del
Cristo, di cui si è eucaristicamente partecipi, che ci si realizza mediante
il giudizio della coscienza e per ciò stesso si costituisce la vera singola-
rità del cristiano (dall’universale al singolare)”8. Il luogo dell’incontro
con Cristo per ogni credente è la coscienza morale, che in Cristo viene
rinnovata, illuminata e fortificata per poter giudicare in ogni situazione
della vita in conformità alla verità del Vangelo.
Riflettendo sul cammino e sulla dottrina di John Henry Newman,
Caffarra mette in evidenza il rapporto naturale che esiste fra la coscienza
morale e Dio Creatore. La coscienza morale, quindi, è “la capacità di
giudicare e dire al soggetto ciò che è bene/male, alla luce di una Verità
che le è superiore”9 e che la illumina dall’interno. La coscienza morale,
essendo, secondo Newman, la coniugazione tra “senso morale” e “sen-
so del dovere”, può essere descritta come “un atto mentale mediante il
quale di fronte ad un atto da compiere o già compiuto, proviamo in noi
approvazione o riprovazione e di conseguenza lo giudichiamo giusto o
sbagliato. È sulla base di questa esperienza interiore … che noi abbia-
mo un’apprensione reale di un Sovrano e Giudice divino”10. Caffarra
conclude: “Newman si trova nella linea di pensiero che da Agostino
attraverso Pascal giunge all’antropologia adeguata di Karol Wojtyła –
Giovanni Paolo II… La coscienza morale è il luogo dove il Mistero
si fa originariamente presente; è l’originaria Rivelazione di Dio, come
guida dell’uomo”11. Oppure con le parole dello stesso Newman: “La
coscienza è l’originario vicario di Cristo, profetica nelle sue parole, so-
vrana nella sua perentorietà, sacerdotale nelle sue benedizioni e nei suoi
anatemi; e se mai potesse venir meno nella Chiesa l’eterno sacerdozio,

8 Ibid., 108.
9 Caffarra, L’educazione della coscienza morale secondo Newman, 1.
10 Ibid., 2.
11 Ibid.

683
Hermann Geissler

nella coscienza rimarrebbe il principio sacerdotale ed essa ne avrebbe il


dominio”12.
Da queste considerazioni segue che l’uomo è sempre obbligato a se-
guire la propria coscienza, anche se fosse invincibilmente erronea. Agire
contro il giudizio certo della propria coscienza, infatti, significa peccare.
Occorre, tuttavia, comprendere bene il fondamento di questa sovrana
dignità della coscienza morale. In ultima analisi, non è il giudizio della
coscienza a costituire il valore di un atto, ma l’ordine dei valori morali,
cioè “la Sapienza creatrice cui la persona umana partecipa, quando usa
rettamente della sua ragione”13. La legge morale disposta da Dio è la
regola suprema delle azioni umane (norma remota della moralità). La co-
scienza morale è sovrana in quanto è l’organo di apprensione della legge
divina (norma prossima della moralità). Con altre parole: “La coscienza è
sovrana perché è suddita; o, come scrive Newman: ‘La coscienza ha dei
diritti perché ha dei doveri’”14.
La distinzione fra norma prossima e norma remota della moralità ri-
veste una fondamentale importanza per l’etica cristiana e “difende il con-
cetto di coscienza morale da ogni insidia di soggettivismo, di riduzione
cioè della interiorità personale ad una pura auto-coscienza in se stessa
conchiusa. Riduzione che solo apparentemente esalta la singolarità della
persona, ma che in realtà la distrugge”15. Il fatto che la concezione clas-
sica di coscienza è da tempo combattuta intellettualmente, e nella realtà
rifiutata dalla maggioranza delle persone costituisce, secondo Caffarra, la
radice di tanti problemi che si pongono ai nostri giorni.

***

Oggi, infatti, il concetto di coscienza è divenuto ambiguo e impre-


ciso e si è costruita sempre di più un’opposizione dialettica tra libertà e
norma, tra autonomia e eteronomia, tra soggettività e oggettività.

12 J.H. Newman, Lettera al Duca di Norfolk. Coscienza e libertà, Jaca Book, Milano 1999,
220.
13 Caffarra, Viventi in Cristo, cit., 110.
14 Id., L’educazione della coscienza morale secondo Newman, 3. Caffarra cita un passo famoso
dalla Lettera al Duca di Norfolk, cit., 221.
15 Caffarra, Viventi in Cristo, cit., 110.

684
Carlo Caffarra e il dibattito sulla coscienza morale

Con questa costatazione non si intende che la coscienza morale non


può trovarsi nel dubbio o cadere nell’errore, come invece dimostra l’e-
sperienza di sempre. La coscienza morale, infatti, non è infallibile e viene
spesso deformata, oggi in particolare dal conformismo a ciò che si fa, dai
modelli cattivi, dai peccati contro la castità, come afferma Caffarra in
una catechesi con la concretezza a lui consueta16. Anche se la coscienza
invincibilmente erronea obbliga, colui che segue questa coscienza, pur
non peccando, non cresce nel bene e non personalizza il valore morale.
Occorre, quindi, cercare di superare l’errore, formando la coscienza mo-
rale secondo le esigenze del bene e del vero.
L’opposizione sopramenzionata non riguarda neanche l’ipotesi reale
di un conflitto tra coscienza e Magistero. Questo conflitto consiste nel
fatto che “il singolo ritiene che nella sua situazione concreta non è obbliga-
to a seguire la norma del Magistero, norma che egli ben conosce e della
cui verità oggettiva non dubita”. Ora, come già detto, l’uomo “deve
sempre seguire il giudizio della sua coscienza. Dio solo potrà giudicar-
lo”. Ma “non si può né si deve esigere che il Magistero riconosca come
universalmente e oggettivamente vero il giudizio della coscienza del sin-
golo, quando questo si pone in contrasto colla norma insegnata”17. Poi-
ché l’uomo non può crescere nel bene se non vive nella verità, occorre
impegnarsi per superare questo conflitto, magari anche con l’aiuto di
una buona direzione spirituale, mediante la frequenza della confessione
sacramentale e soprattutto con il sostegno dell’amore di Cristo eucaristi-
camente partecipato18.
La problematica, davvero grave, sta nel fatto che oggi esiste una
corrente di pensiero secondo la quale l’uomo non sarebbe capace di
riconoscere una verità oggettiva nelle questioni religiose e morali, nelle
quali potrebbe ultimamente decidere soltanto il soggetto. Con la parola
“coscienza” si afferma appunto che in tali questioni potrebbe decidere
solo il singolo, l’individuo con le sue intuizioni ed esperienze. Nelle
questioni circa la religione e la morale, quindi, non esisterebbe una verità
oggettiva, ma solo opinioni soggettive19. Questa visione riduttiva della

16 Cfr. Caffarra, Metti Gesù nella tua vita, e vivrai una vita vera. La responsabilità di se stessi, 2.
17 Caffarra, Viventi in Cristo, cit., 120-121.
18 Cfr. ibid., 122-124.
19 Cfr. Benedetto XVI, Discorso per la presentazione degli auguri natalizi, 20 dicembre
2010.

685
Hermann Geissler

coscienza, che slega l’uomo da Dio e dalla verità, ha un altro effetto de-
vastante: non avendo più un punto sicuro di riferimento per il proprio
agire, di fatto la persona diventa dipendente dalle idee dominanti nella
società. La riduzione dell’uomo alla sua mera sensibilità soggettiva non
lo rende libero, ma limitato dal proprio sentimento ed esposto al peso
influente dell’opinione pubblica.
Denunciando quest’interpretazione riduttiva della coscienza, Caffar-
ra cita talvolta un famoso testo di John Henry Newman che conviene ri-
chiamare: “Quando gli uomini si appellano ai diritti della coscienza, non
intendono assolutamente i diritti del Creatore, né il dovere che, tanto
nel pensiero come nell’azione, la creatura ha verso di Lui. Essi intendono
il diritto di pensare, parlare, scrivere e agire secondo il proprio giudizio
e il proprio umore senza darsi alcun pensiero di Dio… La coscienza ha
dei diritti perché ha dei doveri; ma al giorno d’oggi, per una buona parte
della gente, il diritto e la libertà di coscienza consistono proprio nello
sbarazzarsi della coscienza, nell’ignorare il Legislatore e Giudice, nell’es-
sere indipendente da obblighi che non si vedono. Consiste nella libertà
di abbracciare o meno una religione… La coscienza è una severa consi-
gliera, ma in questo secolo è stata rimpiazzata da una contraffazione, di
cui i diciotto secoli passati non avevano mai sentito parlare o dalla quale,
se ne avessero sentito, non si sarebbero mai lasciati ingannare: è il diritto
ad agire a proprio piacimento”20. Caffarra è convinto che “la contraffa-
zione della coscienza morale è fattore distruttivo, ed altamente distrutti-
vo, dell’umano, perché distrugge alla sorgente l’originario rapporto della
persona umana con Dio Creatore. Oscura lo splendore dell’originaria
parola che Dio Creatore rivolge all’uomo, come sua guida”21.

***

Per superare questa contraffazione della coscienza, si deve anzitutto


chiarire il concetto di libertà di coscienza. Ciò non significa fare della
propria coscienza “il fondamento ultimo della Verità morale ed essere
perciò indifferente ed evasivo di fronte ad ogni impegno di ricercare la

20 Newman, Lettera al Duca di Norfolk, cit., 222.


21 Caffarra, Ricostruzione dell’umano.

686
Carlo Caffarra e il dibattito sulla coscienza morale

verità. La libertà di coscienza, insomma, non è da confondersi con l’at-


teggiamento di chi si giudica padrone assoluto di decidere ciò che è bene
e ciò che è male”22. Secondo Caffarra, libertà di coscienza “significa es-
senzialmente e prima di tutto che la persona umana ha sempre il dovere
di seguire la propria coscienza e di comportarsi di conseguenza. Da ciò
consegue il secondo significato, fondato sul primo: la persona umana
ha il diritto di non essere forzata, in alcuna maniera, ad agire contro il
dettato della propria coscienza”23. Questo dovere-diritto si fonda sulla
natura della coscienza e quindi sulla natura della persona umana. Non si
può non mettere al centro la libertà dell’uomo. Tramite gli atti di libertà,
infatti, l’uomo forma se stesso.
Occorre poi riaffermare il rapporto costitutivo tra libertà e verità.
Coscienza non significa autodeterminazione del soggetto contro le esi-
genze della verità, ma la presenza percepibile ed imperativa della voce
della verità nel soggetto stesso. La coscienza, in quanto è la capacità
dell’uomo di riconoscere la verità negli ambiti decisivi della vita (reli-
gione e morale), gli impone, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi
verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra.
Analizzando l’esperienza della propria coscienza, Caffarra giunge alla se-
guente conclusione: “poiché l’uomo è obbligato solo mediante il giu-
dizio della propria coscienza (= auto-nomia); poiché il giudizio della
propria coscienza obbliga perché fa conoscere la verità, dunque l’uomo
è autonomo quando è sottomesso alla verità. La propria autonomia con-
siste nella propria subordinazione alla verità”24.
Proprio qui si comprende l’importanza della formazione della co-
scienza morale, compito sempre necessario e urgente. Perciò Caffarra
ha sempre affermato che non basta invitare le persone a seguire sempre
la propria coscienza, senza aggiungere subito di amare e cercare la verità
circa il bene. La ricostruzione dell’umano, così afferma, deve comincia-
re al punto “dove si incrociano verità e libertà”25, cioè nella coscienza
morale. Per il cristiano ciò significa soprattutto riconoscersi “ingiusto”

22 Caffarra, Viventi in Cristo, cit., 113-114.


23 Ibid., 113.
24 Caffarra, Ricostruzione dell’umano.
25 Ibid.

687
Hermann Geissler

davanti a Dio e bisognoso della grazia di Cristo, che ci viene offerta nei
sacramenti della fede. L’uomo è chiamato a rinascere in Cristo26.
Significa aprirsi al dono dello Spirito Santo che rende presente nella
coscienza del credente la verità di Cristo, che non è altro che il mistero
della sua vita filiale. Mediante l’azione dello Spirito la verità di Cristo
viene personalizzata nella coscienza del singolo cristiano. “Lo Spirito
introduce in noi la Verità di Cristo e noi nella Verità di Cristo”27. Lo
Spirito personalizza la verità di Cristo nel credente e lo guida nell’elabo-
razione del giudizio di coscienza perché esso sia vero e faccia realmente
passare nella vita concreta le esigenze della verità di Cristo, soprattutto
quelle della carità.
Poiché lo stesso Spirito garantisce il permanere della Chiesa nella
verità di Cristo, la coscienza morale del credente si forma nella Chiesa e
dalla Chiesa. Fra coscienza morale e trasmissione ecclesiale della verità,
quindi, “non c’è né giustapposizione né, tanto meno, contrapposizio-
ne”28. La trasmissione della verità nella Chiesa non si compie “fino a
quando essa non raggiunge la vita quotidiana del credente, non penetra
dentro alle scelte personali di questi…, fino a quando non diventa luce
e criterio della coscienza personale di ogni battezzato”29. Nell’uomo pie-
namente rinnovato dallo Spirito questa personalizzazione della verità di
Cristo nel santuario della propria coscienza si realizza in modo perfetto,
così da diventare “modello” per tutta la Chiesa.
In questo ampio contesto del rapporto tra coscienza morale e tra-
smissione ecclesiale della verità di Cristo si colloca anche la riflessione
sul rapporto fra coscienza morale e Magistero. In quanto il Magistero
è garante della trasmissione della verità di Cristo, la proposizione delle
norme morali da parte del Magistero “è obbligante per la coscienza mo-
rale”30. Il Magistero, ovviamente, “non si sostituisce alla coscienza mo-
rale nel compito proprio ed esclusivo di essa, quello di interiorizzare, fare
propria, mediare nelle situazioni concrete e personali la Verità di Cristo
e le Sue esigenze. Anzi, il Magistero suppone questo compito ineludibile
e si rivolge alla coscienza morale del singolo come a suo interlocutore

26 Cfr. Gv 3,5.
27 Caffarra, Viventi in Cristo, cit., 115.
28 Ibid., 117.
29 Ibid.
30 Ibid., 119.

688
Carlo Caffarra e il dibattito sulla coscienza morale

ultimo”31. Il Magistero, quindi, è al servizio della coscienza morale e la


coscienza morale del credente è orientata al Magistero perché ordinata
alla verità. Seguendo il pensiero di Newman, Caffarra riassume: la co-
scienza morale, pur essendo l’originaria memoria del bene e del vero, ha
bisogno “di un aiuto esterno per diventare capace di esercitarsi”. Questo
aiuto viene offerto, tra l’altro, dal Magistero della Chiesa: “esso, sul pia-
no morale, non impone nulla dall’esterno. Impedisce che l’uomo cada
nella peggiore amnesia, quella del bene del male; che la naturale capacità
si indebolisca; opera perché diventi sempre più capace di funzionare”32.
Pur ribadendo il ruolo cruciale dell’incontro con Cristo nella forma-
zione della coscienza, o ragione pratica, del credente, Caffarra sottolinea
sempre anche l’importanza della ragione speculativa. “Non basta una
fede esclamata ma non interrogata, una fede detta ma non pensata. Ciò
che ho chiamato ‘trasposizione del rapporto reale di Cristo col mondo
nella prassi del discepolo’ è in gran parte una fatica della retta ragione.
Anche su questo i Padri della Chiesa sono esemplari”33. Occorre essere
pronti, infatti, a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza
che è in noi34.

***

Carlo Caffarra si è sempre impegnato per valorizzare la dignità inso-


stituibile della coscienza morale, evidenziando il suo ruolo fondamentale
nella realizzazione della persona umana e cristiana, denunciando i gra-
vi limiti di un’impostazione meramente soggettivistica e indicando un
cammino dinamico di formazione della coscienza che conduce l’uomo
alla personalizzazione della verità di Cristo all’interno della comunità
ecclesiale. In questo processo l’autorità soggettiva e quella oggettiva ri-
mangono dipendenti l’una dall’altra: il Magistero dalla coscienza e la
coscienza dal Magistero, perché ambedue stanno al servizio della verità,
che – in ultima analisi – è lo stesso Signore Gesù35.

31 Ibid., 120.
32 Caffarra, L’educazione della coscienza morale secondo Newman, 3.
33 Caffarra, Ricostruzione dell’umano.
34 Cfr. 1 Pt 3,15.
35 Cfr. Gv 14,6.

689
Anthropotes 33 (2017)

Itinerario hacia el misterio: matrimonio y familia según


Carlo Caffarra

José Granados*

SUMMARY: The article delves into the thought of Cardinal Carlo Caffarra
about the mystery of marriage and the family. Starting from the concept of
mystery as the experience of an original love which precedes and founds the dig-
nity of the person, three central elements are developed to understand marriage
and the family: the mystery of the person in his body, the mystery of conjugal
love, and the mystery of the redemption of love in Christ and his Church.
These foundations are crucial for the Church in her mission of evangelizing
society today, for they permit her to affirm both the divine design for marriage
and the family and the fact that it is possible to live up to this gift of God.

La enseñanza de Carlo Caffarra sobre el matrimonio y la familia se inspira


en el magisterio de san Juan Pablo II para ahondar en él. El papa pola-
co dirigió una vez al cardenal una frase que le sería de inspiración: “la
gente no ama el amor conyugal”1. Y Caffarra dedicó buena parte de su

* Vice-presidente y profesor de Teología dogmatica en el Pontificio Instituto Teológico


Juan Pablo II para las Ciencias del Matrimonio y la Familia, Roma.
1 C. Caffarra, Scritti su etica, famiglia e vita (2009-2017), 2 vol., Cantagalli, Siena
2017, (en imprenta); Para referirme a algunos escritos de nuestro autor usaré estas
abreviaturas: AI = C. Caffarra, “Non è bene che l’uomo sia solo”: l’amore, il matrimonio,
la famiglia nella prospettiva cristiana, vol. 2: L’amore insidiato, Cantagalli, Siena 2006; CA
= C. Caffarra, “Non è bene che l’uomo sia solo”: l’amore, il matrimonio, la famiglia nella
prospettiva cristiana, vol. 1: Creati per amare, Cantagalli, Siena 2006; SE = C. Caffarra,
Scritti su etica, famiglia e vita (2009-2017), 2 vol., Cantagalli, Siena 2017, (en imprenta);

691
José Granados

reflexión como teólogo y de su oficio pastoral a despertar de nuevo el


aprecio por el amor conyugal.
Si queremos un término clave que unifica sus reflexiones, este puede
ser “misterio”. El amor humano es un misterio, porque se nos da como
experiencia originaria que funda nuestro ser personal y porque apunta
hacia la manifestación encarnada del amor de Cristo por su Iglesia.
“Misterio” no quiere decir aquí algo impenetrable u oscuro, ni tam-
poco una realidad inabarcable por nosotros, sino más bien algo que nos
abarca, y que se nos revela y se nos dona desde el fundamento de nuestra
misma identidad, como luz que ilumina toda la vida. Por eso al misterio
no se arriba como a un resultado final de nuestro raciocinio esforzado,
sino que el misterio aparece como origen que nos precede y al que se nos
abre acceso desde la memoria más profunda de nosotros mismos. Entrar
en el misterio es entender que el amor está en el origen de nuestra vida
y ahondar en la experiencia del amor hasta encontrar sus raíces últimas.
Si falta la experiencia de este misterio, toda reflexión sobre él será
inútil. Pero esta experiencia es accesible a todos, pues se contiene en el
mismo modo de venir al mundo a partir de la unión del hombre y de la
mujer. Por eso el matrimonio y la familia podrán describirse, según ve-
remos a continuación, como lugar de acceso al misterio (AI 76). En ellos
se desvela el principio más originario, en el amor del Creador. Este prin-
cipio no lo es solo en sentido temporal (lo más antiguo), sino en sentido
radical, como lo que sigue cimentando todo (AI 333). “Misterio significa
que dentro de un evento humano, y por tanto con toda la pobreza y
la fragilidad propia de lo humano, habitan el Ser y el Amor absolutos”
(CA 4). Se abre así el itinerarium mentis in amorem (CA 1), expresión que,
evocando la obra de san Buenaventura, hace intuir la relación del amor
con su fuente última en Dios.
Notemos de pasada que, en la búsqueda de este misterio encontraba
Caffarra la razón de ser del Pontificio Instituto Juan Pablo II, del que
fuera el primer presidente: “El santo Pontífice ha querido este Instituto
para que fuese posible crear un lugar donde, en la comunión de profeso-
res y alumnos, se abriese la senda hacia el ‘Principio’: una senda que no
se interrumpiese” (SE, vol. II, cap. 6). Vamos a describir en tres pasos

UD = C. Caffarra, “Introduzione”, en Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò.


Catechesi sull’amore umano, Città Nuova – LEV, Roma 1985, 5-24.

692
Itinerario hacia el misterio: matrimonio y familia según Carlo Caffarra

el acceso al misterio: la persona, el amor, la revelación de Cristo en su


Iglesia.

1. El misterio de la persona, en el amor y en el cuerpo

Para presentar el misterio gusta Caffarra de comenzar afirmando la digni-


dad única de la persona. La persona, insiste nuestro autor, es en sí única,
inconmensurable. Y arguye que, cuando se pregunta si un número es
grande, es necesario un término de comparación: ¿grande o pequeño
con respecto a qué otro número? Pero esto no es así si se trata de perso-
nas. No se puede decir que tres personas tengan poco valor con respecto
a tres mil. “No deis nunca por supuesta esta gran afirmación sobre el
hombre, que el texto conciliar [Gaudium et Spes 24] indica con la ex-
presión ‘querido por sí misma’” (CA 179). Caffarra cita a Santo Tomás,
cuando este afirma que los conceptos de “persona” y de “parte” son
incompatibles entre sí (In III Sent. V,2,1 ad 2) (AI 4). Por eso “ninguna
persona forma parte de una serie, es, literalmente, un fuera de serie” (CA
155).
Pues bien, esta unicidad de la persona la ilumina Caffarra, no desde
la convicción del pensamiento aislado del individuo, sino desde la expe-
riencia originaria de ser amados y capaces de amar: “amor ergo sum” (AI
97). Es este amor el que nos asegura que cada persona es única e irrepeti-
ble. Así, ninguna madre aceptaría que se sustituyera a su hijo por otro de
características parecidas. En este contexto cita Caffarra a Virgilio: Incipe,
parve puer, risu cognoscere matrem (Bucoliche, Ecloga IV, v.60): “comienza,
pequeño, a reconocer a tu madre por el modo en que te sonríe”. Y es
que la presencia de la madre transmite al niño el gusto por la bondad de
la vida. Más precisamente, el lugar donde se salvaguarda la dignidad de
la persona es el amor conyugal. En efecto, “es cuando la concepción de
una nueva persona humana sucede en el amor conyugal cuando la nueva
persona humana resulta reconocida en su unicidad e irrepetibilidad” (CA
182).
Descubrimos aquí el camino que lleva al “misterio”. Para descubrir
la dignidad de la persona es preciso ahondar en su origen, en su sustrato
familiar. Y desde el origen familiar la mirada de Caffarra se prolonga al
origen de la persona en el Creador. En efecto, la unicidad de la persona,

693
José Granados

el hecho de que tenga un nombre distinguible entre infinitos nombres,


solo puede justificarse desde la relación de la persona con Dios (CA 153).
Por eso la paternidad humana es un reflejo de la paternidad de Dios (AI
9-19). A su vez, desde este amor originario nace la capacidad de amar,
que está inscrita en el centro de nuestro ser personal.
Resulta, así, que nuestra relación con el misterio no es algo que esta-
blecemos desde una libre elección, sino que en esta relación nos encon-
tramos ya desde el principio de la existencia: “la persona humana no está
en relación con otras porque ha decidido estarlo (=contrato). Antes de
decidir si relacionarse o no, ya está en relación” (SE, vol. II, cap. 7). Para
descubrir el fundamento de esta sentencia hay que seguir la reflexión de
Caffarra sobre el vínculo entre la persona y su propio cuerpo.
El cuerpo es el símbolo real de la persona, donde ella se expresa (CA
9). Hoy resulta difícil entender la dignidad del cuerpo, señala Caffarra,
porque reflexionamos sobre él a partir del conflicto entre cuerpo y li-
bertad, entendiendo ésta como independencia de toda condición previa,
con lo que el cuerpo es uno de los límites de los que hay que liberarse
(CA 14-15). Ahora bien, prosigue nuestro autor, la libertad no consiste
en liberarnos del cuerpo, sino en situarnos correctamente ante el cuer-
po como elemento integrante de la propia identidad. La aceptación del
cuerpo como dimensión esencial de la persona es un acto de la libertad
que lleva consigo un modo de comprender esa misma libertad. Es decir,
quien acepta el cuerpo como parte integrante de la persona acepta una
visión de la libertad que es siempre relacional y que se cumple, última-
mente, en el amor (libertad para el don de sí).
Frente a distintos enfoques reductivos (el cuerpo como objeto de
estudio científico, el cuerpo visto desde la técnica que le busca utilidad)
solo hace justicia a la totalidad del cuerpo considerarlo desde la dignidad
de la persona. “La libertad lleva en sí la posibilidad de integrar al cuerpo
en la persona o, mejor, de custodiar la unidad de la persona” (CA 25).
Notemos que no se trata de conquistar la unidad de la persona, sino de
custodiarla, lo que implica que esta unidad nos ha sido ya dada. El cuerpo
atestigua el don originario que está en el origen de la persona, don que
precede nuestra libertad y la convoca.
Esto significa que el lugar adecuado para entender el cuerpo es la
relación interpersonal (CA 26). Y es que, “la mediación de este contacto

694
Itinerario hacia el misterio: matrimonio y familia según Carlo Caffarra

originario cognoscitivo yo-tú la cumple el cuerpo” (AI 118). Lo cual se


confirma si consideramos que en el cuerpo se encuentra inscrita la dife-
rencia sexual. “El dimorfismo sexual es el símbolo real de la llamada de la
persona a la comunión interpersonal que consiste en la unidad dual entre
el hombre y la mujer” (CA 9-10). Este “dimorfismo sexual” revela, se-
gún Caffarra, “el carácter relacional de la persona y, al mismo tiempo, hace
la persona-hombre capaz de ponerse en relación con la persona-mujer.
La sexualidad es el ‘performative language’ de la relación entre las per-
sonas” (CA 100).
Se aclara así cuál es el simbolismo propio del cuerpo sexuado. Pues
en el cuerpo se aprende que

el humanum no coincide enteramente ni con la masculinidad ni con la


feminidad; no coincide con la reducción que homologa los dos. Sino que
consiste en la afirmación de lo que es propio de cada uno de los dos, den-
tro de una relación que, en un plano de igual dignidad, orienta al hombre
y a la mujer a la plenitud de su humanidad común (SE, vol. II, cap. 3).

De este modo, el cuerpo se hace lenguaje de la persona, manifestan-


do el significado esponsal de ella, que se realiza virginal o conyugalmente
(CA 27). Nuestro autor llega a decir que en esta nueva visión del cuerpo
se encuentra un claro avance del magisterio contemporáneo (CA 37), en
cuanto se afirma que el lenguaje de la persona es el lenguaje del cuerpo.
Una tal visión del cuerpo sexuado permite hablar de una “originaria sa-
cramentalidad del matrimonio” (CA 37).

2. El amor conyugal abierto a la vida y su fundamento en el


Creador

Se ve entonces que, según Caffarra, el matrimonio y la familia son el lu-


gar donde la persona puede entender el significado del cuerpo y vivirlo
plenamente como respuesta al amor. Aquí se fraguan las experiencias
originarias donde se desvela el misterio de ese amor que nos llama a una
plenitud de vida. Se explica desde aquí el interés que el Magisterio de la
Iglesia ha mostrado por el matrimonio, en cuanto que en él se custodia
la verdad sobre lo humano. Caffarra resume la gran intuición de san Juan

695
José Granados

Pablo II en el descubrimiento del nexo entre antropología y matrimo-


nio: en el matrimonio se descubre la verdad del hombre (AI 309).
Y es que en las nupcias nace, como ya enseñara san Agustín, el pri-
mer elemento social de la vida de la persona (prima societas in coniungio).
Aquí se da una verdadera unidad del hombre y la mujer que, por otro
lado, no es una mera fusión en que los dos pierdan su individualidad. “La
comunión interpersonal hombre-mujer no implica la desaparición de
los dos: entre el hombre y la mujer no existe complementariedad, sino
reciprocidad. Y esta subsiste mientras que existen los dos en su dualidad.
Es decir: la unidad deja subsistir a la alteridad, a la dualidad” (CA 101).
Desde la unidad del matrimonio se entiende también qué es la li-
bertad y como ésta se fundamenta en la comunión entre los hombres.
Para donarse, es necesario poseerse a sí mismo, y en esta posesión está el
rasgo originario de la libertad que es, por tanto, libertad para el don de
sí. Por eso van unidas pertenencia y libertad. Y puede concluirse: “no es
posible, in humanis, una pertenencia mayor que la conyugal. No existe
un acto de libertad mayor que el acto con el que dos esposos se donan:
acaso no es posible, in humanis, ser más libre” (CA 146).
El único modelo que respeta esta lógica del amor personal es el ma-
trimonio. Caffarra ve en otros modelos de unión (como la convivencia
o las parejas de hecho) una estructura opuesta a la que descubrimos en el
matrimonio, en cuanto que están basados sobre el uso del otro (CA 93)
o sobre el contrato mutuo de dos libertades aisladas (CA 94), es decir,
sobre visiones individualistas de la persona.
La apertura de la dualidad hombre – mujer a una comunión más
grande se muestra en el misterio de la venida del hijo. “¿Existe entonces
una imposibilidad radical de los dos de construir una unidad completa?
Existe: esta unidad es el hijo” (CA 101). En el nacimiento del hijo se
pone en juego, de nuevo, la unidad entre la persona y su cuerpo. Tam-
bién en este caso la lógica del cuerpo lleva en sí el lenguaje del don, por-
que marido y mujer se donan mutuamente la capacidad de convertirse
en padre y madre: “La fertilidad de la esposa es la capacidad que ella tiene
de donar la paternidad a su esposo; la fertilidad del esposo es la capacidad
que él tiene de donar la maternidad a su esposa” (CA 131). El acto de
los esposos al recibir la vida se prolonga después en la educación. “La
genealogía de la persona es la genealogía de su libertad, es decir, de su

696
Itinerario hacia el misterio: matrimonio y familia según Carlo Caffarra

capacidad de amar, es decir, de donarse a sí mismo al otro” (CA 141).


Por eso puede recoger Caffarra la imagen tomista de la familia como
“útero espiritual” (CA 143).
Sea gracias a la estrecha unión que permite entre marido y mujer,
sea por su apertura para transmitir la vida, el amor conyugal nos habla
de algo recibido, previo. Se suscita aquí la pregunta por la presencia del
Creador en el matrimonio. Caffarra cita, a este respecto, los versos del
poeta italiano Ugo Foscolo: “Desde que boda, tribunal y altares / la bes-
tia humana hicieron ser piadosa / de sí misma y de otros…” (Dei sepolcri,
91-93) (CA 161). E insiste sobre el matrimonio y la familia, no como
“invenciones humanas”, sino como “don y responsabilidad”: algo reci-
bido, de lo que somos responsables (CA 97). La presencia del Creador
se hace patente en modo singular en el nacimiento del hijo: “considerad
la dulce condescendencia del Señor. No ha querido tener cooperadores
cuando creó el universo. Cuando crea la criatura más preciosa, la persona
humana, Él pide la cooperación del hombre y de la mujer” (CS 65).
Caffarra puede fundamentar así que el matrimonio pertenece a la
naturaleza humana (AI 40-41). Lo natural es, por una parte, lo biológico,
de donde se deduce la orientación a la unión de los sexos, masculino y
femenino, para la procreación. Ahora bien, esto biológico, por sí solo,
no nos dice todo lo humano. La naturaleza del hombre se descubre solo
cuando se considera la dignidad única de la persona, digna de respeto y
llamada al don de sí misma en el amor. Ocurre que en el matrimonio
lo biológico es integrado en esta dimensión espiritual de la persona, la
cual es un sujeto llamado a realizarse en el don de sí. Es claro, por una
parte, que este don de sí no se deduce desde la mera realidad biológica;
es verdad, por otra, que tampoco se le impone desde fuera, porque en el
cuerpo están ya presentes los signos originarios de este don (CA 168). El
matrimonio es el modo en que el hombre está llamado a vivir el lenguaje
inscrito en su cuerpo. “La ‘naturalidad’ del matrimonio consiste en esto:
en su ser el fin debido (finis debitus) de la recíproca inclinación – atrac-
ción entre la persona humana – hombre y la persona humana – mujer”
(CA 169).
En el fondo de esta mirada se encuentra la confesión cristiana de fe
en el Creador. De él viene el amor originario que ha plasmado al hom-
bre y a la mujer y les ha hecho capaces de transmitir la vida, ya desde

697
José Granados

la misma realidad corpórea de ellos. Hablando del anuncio de la verdad


sobre la persona y la sexualidad, dice Caffarra:

¿Qué sería una Iglesia en la que no se defendiesen ya los ‘derechos de


Dios de ser reconocido como Dios’? ¿Una Iglesia que se contentase con
confesar con palabras a Dios Padre-Creador –como sucede en el primer
artículo de la fe– y luego, en la realidad, olvidase lo que ha confesado?
La respuesta sería trágicamente simple: sería una Iglesia que traiciona su
misión […] Porque lo que está en juego es esto. Dios es nuestro creador,
Dios es nuestro Padre y la capacidad de suscitar nuevas vidas humanas,
inscrita en la sexualidad humana, es la capacidad de cooperar con su amor
creativo (UD 23).

Así resume Caffarra esta presencia de Dios en el misterio del amor


humano, de modo que nos abre ya a considerar el sacramento del matri-
monio como sacramento de la redención en Cristo:

Dios celebra la liturgia de su amor redentor mediante el ministerio de los


sacerdotes. Celebra la liturgia de su amor creativo mediante el ministerio
de los esposos. En la biología de la generación está inscrita la genealogía de
la persona. En la paternidad y maternidad humanas el mismo Dios creador
está presente (SE, vol. II, cap. 10).

3. Misterio del amor en Cristo, el matrimonio

El misterio del amor conyugal se confirma cuando se mira a la luz de


Cristo. Y a Cristo pertenece este amor conyugal en cuanto Él domina
la esfera de la creación. Por eso no pueden separarse las dimensiones
creatural y sacramental del matrimonio cristiano (AI 56). Caffarra defen-
dió esta unidad escribiendo para la Comisión Teológica Internacional2. Allí
ahondaba en el fundamento de la doctrina clásica sobre la inseparabili-
dad, en el matrimonio, de contrato y sacramento, doctrina reafirmada de
reciente en Amoris laetitia 75. Si contrato y sacramento no pueden escin-
dirse es porque no puede escindirse Cristo de la creación, es porque no
puede escindirse la pertenencia a Él de la pertenencia al plan originario

2 C. Caffarra, “Création et Rédemption”, en Commission Théologique Inter​


nationale, Problèmes doctrinaux du mariage chrétien, Louvain 1979, 218-293.

698
Itinerario hacia el misterio: matrimonio y familia según Carlo Caffarra

sobre el matrimonio y la familia. Aquí encuentra Caffarra la base para ha-


blar de “vocación” respecto al matrimonio, en cuanto que toda vocación
debe suceder en Cristo (CA 119)3. Por eso puede decir nuestro autor:
“El matrimonio es el único sacramento que coincide con una realidad
creada. Es el mismo sacramento ‘natural’ el que resulta transfigurado en
el sacramento” (SE, vol. II, cap. 8).
No extraña, entonces, que el magisterio de la Iglesia se preocupe
tanto sobre el matrimonio y la familia. De este modo se sirve al bien de
la persona, que Cristo ha llevado a plenitud. Es que “los sacramentos, y
por tanto el sacramento del matrimonio, son el ‘lugar’ donde la gracia
que salva encuentra al hombre, lo sana y lo inserta en Cristo. Pero, ¿a
qué hombre encuentra el sacramento del matrimonio, precisamente? Al
hombre llamado, en cuanto hombre y mujer, a realizarse en el amor que
dona la vida” (CA 33).
Caffarra explica la sacramentalidad del matrimonio a partir del con-
cepto general de sacramento como símbolo real, que posee capacidad
performativa (AI 254-255). Ya hemos indicado cómo el cuerpo, y el
cuerpo en su bimorfismo sexual, es símbolo real de la persona y de
su vocación al amor. Caffarra añade, a esta luz, que en el sacramento,
símbolo real, se da una pertenencia física al Señor (CA 55). La cosa se
percibe en su máxima claridad en la Eucaristía: “Es a través de la Euca-
ristía como nos ha sido dado tocar físicamente la persona del Señor que
se dona en sacrificio” (CA 60). De hecho, “para que al hombre y a la
mujer les sea dada una ‘vía de acceso’ a este evento, ha sido inventado el
matrimonio por Dios Creador” (CA 39).
¿Qué tipo de participación se da entre el amor de Cristo a la Iglesia
y el amor de los esposos, participación en la que hay un “gran misterio”
(Ef 5,32)? Un texto de la Exhortación Apostólica de Papa Francisco
Amoris laetitia habla de una “analogía imperfecta” entre el matrimonio y
el amor de Cristo y la Iglesia (Amoris laetitia 73). ¿De qué imperfección
se trata? ¿Cómo respondería a esta pregunta el cardenal Caffarra?
Para verlo digamos, en primer lugar, que la clave de la analogía entre
matrimonio y Cristo no está en la acción solitaria de los esposos.

3 “El hombre es creado en Cristo y en vista de Cristo y, por lo tanto, ya el matrimonio “al
principio” sucedía en su gracia. En este sentido se puede ya hablar de un “sacramento
primordial” en el matrimonio” (UD 22).

699
José Granados

No se debe interpretar [esta participación] en el modo siguiente: Cristo es


el modelo y yo, esposo / esposa, debo imitarlo. No es de esto de lo que
hablamos. El sacramento del matrimonio no es en primer lugar un es-
fuerzo del hombre: es un don del Señor. No eres tú que te debes esforzar
copiando un modelo: no eres capaz. Es el Señor quien te hace don de su
capacidad de amar (CA 58).

Y es que, a la luz de la acción de Cristo, tal como sucede en los de-


más sacramentos, se da en el matrimonio una participación real. Es decir,
el nexo no es solo de una exhortación moral, sino que se trata de una
relación ontológica:

Decir ‘participación’ significa que el nexo de analogía instituido en esta


página neo-testamentaria [Ef 5] entre el matrimonio y el amor con el que
Dios ha amado al hombre en el don que Cristo hace de sí sobre la cruz,
no es solo motivo de exhortación moral. Esta analogía tiene una valencia
ontológica: este amor está realmente presente en el amor nupcial de los
bautizados (UD 21).

El vínculo, en su natura íntima, es “una configuración del ser de la


persona de los cónyuges” (CA 120). Desde este punto de vista Caffarra
puede comparar, según la tradición teológica, el vínculo conyugal y el
carácter sacramental (CA 120). El vínculo, por tanto, permite una par-
ticipación real, tanto como la que se da en el bautismo. De hecho, si el
consenso de los esposos produce el sacramento, es en virtud de la fuerza
del bautismo que recibieron y vive en ellos (AI 56).
Ahora bien, ¿existe una distancia entre el amor esponsal y el de Cris-
to y la Iglesia? ¿Y cómo puede medirse? En un sentido obvio, la distancia
la marca la creaturalidad misma de los esposos o de su imperfección mo-
ral (SE, vol. II, cap. 4). Esto implica que todo matrimonio tiene ante sí
un camino de crecimiento que comienza en la misma boda. “El vínculo
conyugal, por su misma naturaleza, pide penetrar profundamente en la
mente, en el corazón, en la libertad y la psique de los esposos: en toda su
persona” (SE, vol. II, cap. 8).
Ahora bien, hay otro elemento aún en que se muestra el límite de la
participación de los esposos en la relación Cristo-Iglesia. La participación
es limitada en el sentido de que la entrega total de Cristo se refleja en los

700
Itinerario hacia el misterio: matrimonio y familia según Carlo Caffarra

distintos estados de vida de la Iglesia, y no se agota en las nupcias. El ma-


trimonio recoge una parte de esa riqueza, en cuanto que vive el misterio
de la creación (SE, vol. II, cap. 10).

La pregunta vierte sobre la conyugalidad como limitación de la partici-


pación en el amor que ha movido a Cristo a donarse a sí mismo en la
Cruz […] Mi idea es que la conyugalidad es limitativa, no en el sentido
de que sea extraña, extrínseca al amor de Cristo, sino en el sentido de que
es capaz de expresar solo una dimensión de este amor. Todos los colores
del arco iris están presentes en la luz, pero es necesario un espectro para
verlos. Todas las formas del amor, del Don de sí, están presentes en la
autodonación de Cristo en la Cruz. Pero la riqueza total tiene necesidad
del fragmento para hacerse conocer. Sin embargo, al mismo tiempo, el
fragmento nos reenvía siempre al todo: el amor conyugal nos reenvía más
allá de sí mismo, hacia una plenitud de ser que él no es capaz de contener
ni de realizar (cfr. 1Cor 7,29) (SE, vol. II, cap. 4).

Es decir, se trata de un límite ligado a la presencia de distintos estados


de vida en la Iglesia. Al matrimonio toca reflejar un aspecto del amor de
Cristo, que contiene todos los modos en que se vive el amor en la Igle-
sia. Se pone así de relieve que la participación viene del mismo Cristo y
que, en cuanto se considera el “molde” conyugal, esta participación es
total. Por eso conserva, esta vez con el solo límite de la muerte de uno
de los cónyuges, la misma indisolubilidad de Cristo y la Iglesia.

¿Qué significa esto? Que el vínculo conyugal es “producido” por el mis-


mo Cristo; los dos esposos consienten a que Cristo les vincule según la
modalidad sacramental. Hablando del bautismo, san Agustín dice: no es
Pedro, Pablo, Juan, quien bautiza, sino Cristo que bautiza mediante Pe-
dro… Esto vale también en el matrimonio. Es Cristo quien os ha despo-
sado, quien os ha “vinculado” uno a otro (“lo que Dios ha unido…”) He
aquí por qué ninguna autoridad, incluida la del Papa, puede romper un
vínculo conyugal que ha alcanzado su perfección sacramental (SE, vol. II,
cap. 8).

Notemos que esta participación ontológica necesita, para ser viva,


la caridad que Cristo comunica a los esposos. Para mostrarlo insiste Ca-
ffarra en que la comparación no equipara Cristo al esposo y la Iglesia al

701
José Granados

esposo, sino que se refiere al amor mutuo. “Atención: ‘si digo (cfr. Ef
5) Cristo:Iglesia = esposo:esposa’, no se debe entender Cristo=esposo /
Iglesia=esposa, sino que se debe entender que la relación que existe entre
Cristo y la Iglesia se expresa sacramentalmente en la relación entre el es-
poso y la esposa” (CA 113).
Aquí sitúa Caffarra el papel del Espíritu Santo en el matrimonio. El
Espíritu hace a los esposos ser “persona – don” en clave conyugal. Por
eso puede decirse que el matrimonio fue instituido en la Cruz, entendida
ésta como Cruz gloriosa, lugar de la efusión del Espíritu (CA 114). Es el
Espíritu y su obra en el corazón de los cónyuges, derramando la caridad
conyugal, el que hace real en la vida la analogía sacramental: “La caridad
conyugal que el vínculo exige tiene las mismas características del amor
de Cristo por la Iglesia: es un amor exclusivo, total, fiel, fecundo” (CA
121).
Este elemento sacramental del matrimonio se deja sentir también
en la dimensión generativa del amor esponsal. Caffarra constata que,
según la tradición de la Iglesia “no se puede administrar el bautismo a
un niño contra la voluntad de sus padres”. Y descubre, tras este hecho,
una verdad profunda: “el encuentro de la generación humana con la ge-
neración divina de la persona” (CA 34). La educación en la fe compete
de modo originario e inderogable a los padres. Se da así un intercambio:
“los padres piden a la Iglesia el bautismo; la Iglesia pide a los padres que
eduquen en la fe” (CA 34). A través del matrimonio “la Iglesia se inte-
gra, generación tras generación, en la humanidad” (CA 35). Se refleja
de tal modo el gran misterio de nuestra paternidad, que proviene de la
gran paternidad de Dios, según afirma la carta a los Efesios (Ef 3,14-15:
cfr. CA 11).
Resumiendo, Carlo Caffarra encuentra tres estratos en el matrimo-
nio. En el primer estrato está el intercambio del consentimiento; en el
segundo, la constitución del vínculo como realidad no visible; en el ter-
cero, la caridad conyugal, don del mismo Espíritu de Cristo que inspiró
su entrega en la Cruz (SE, vol. II, cap. 8). El matrimonio, de este modo,
posee su misión propia en la Iglesia. Caffarra usa, para explicarlo, la ima-
gen de la luz que atraviesa el cristal y adquiere su color (CA 122). La
gracia del sacramento resulta filtrada por el vínculo, y se hace una gracia
con rasgos conyugales, para ayudar a los esposos en su camino concreto.

702
Itinerario hacia el misterio: matrimonio y familia según Carlo Caffarra

4. Conclusión: el misterio, un amor verdadero y practicable

Evaluando la situación de la familia a los cuarenta años de Familiaris


Consortio, descubría nuestro autor una evolución. Mientras, en 1981,
la sociedad pensaba que la doctrina de la Iglesia, aun verdadera, “no es
practicable”, hoy se dice que “no es verdadera” (AI 307; SE, vol. II,
cap. 4). La visión de Caffarra sobre el misterio del amor conyugal intenta
responder a ambos desafíos, porque están íntimamente trabados. Por un
lado, es necesario proclamar la verdad del amor y sus razones; por otro,
es preciso a la vez insistir en que esta verdad es practicable, porque brota
del don originario de Dios en su designio creador y en el sacramento del
matrimonio. Se trata de la verdad de una vida, la cual no se sitúa solo
como etapa final de un largo camino, sino que es una realidad fundante,
que nos precede, que se descubre siempre como trasfondo último de
nuestra identidad.
La Iglesia se encuentra, por tanto, ante un desafío a la razón, para
conocer la verdad; un desafío a la libertad, para acoger esta verdad co-
nocida; un desafío a nuestra capacidad de educar, es decir, de conducir a
los jóvenes a la plenitud de su humanidad (CA 106). Y la esperanza que
mueve a la Iglesia ante estos retos yace, según Caffarra, en esta cercanía
del misterio al corazón del hombre y de la mujer. Pues cuando la Igle-
sia espera que se desaten en su favor las fuerzas del bien, que combaten
por el matrimonio y la familia, sabe bien que estas no son refuerzos que
llegan desde fuera: las fuerzas del bien son el vigor mismo del amor hu-
mano y del sacramento del matrimonio, que habitan ya entre nosotros
(AI 104-111).
Ante la doctrina de la Iglesia sobre el amor humano pueden encon-
trarse varias respuestas. Puede decirse: “esto no es verdad”. Y a ello hay
que responder explicando las razones del amor. Puede decirse, entonces:
“esto es verdad, pero no es practicable”. Ante esto es preciso convencer,
mediante el testimonio de la vida cristiana, y el acompañamiento de la
comunidad (red de familias), de que es posible vivir así. De este modo
se dará el paso, desde “esto es verdad, pero no es practicable”, a: “esto
es verdad, es difícil para mí solo (para mí solo es imposible), pero desde
Cristo y en la Iglesia me es dado realizar esta verdad que me plenifica en
el amor”. Así lo resume el cardenal Caffarra:

703
José Granados

No sé que impresión os habrá causado cuanto os he dicho. De lo que es-


toy seguro es de que al menos os ha pasado por la cabeza: “hermoso, pero
demasiado difícil; pero imposible”. Es verdad. Entonces, ¿qué es lo que
os he contado, una bella fábula? ¿Bella, pero fábula? De ninguna manera.
¿Os he indicado un ideal hacia el que caminar? De ninguna manera. ¿Os
he enunciado algunos mandamientos? Todavía menos. ¿Entonces, qué?
Os he dicho la verdad sobre el amor humano, inscrita en vuestra persona.
Pero la libertad tiene que ser educada para hacer la verdad: podemos ser
verdaderamente libres solo si somos libremente verdaderos. Pero pode-
mos ser también libremente falsos. La educación al misterio del amor
es imprescindible. Nacemos curvados sobre nosotros mismos (=pecado
original). Cristo nos ha liberado de esta fea curvatura. Se trata de hacer
nuestro este don (SE, vol. II, cap. 7).

704
Anthropotes 33 (2017)

Servus veritatis et amoris

Stanisław Grygiel*

Uno dei più grandi doni che Dio mi ha offerto è la presenza del Car-
dinale Carlo Caffarra nella mia vita. Nella bellezza della sua amichevole
persona si svela per me – ora, dopo la sua morte, con una forza raddop-
piata – la verità dell’uomo, alla cui chiamata ognuno deve rispondere
con l’amore e con il lavoro. Oso dire che il Cardinale si è incatenato a
questa verità come a una roccia: non riusciva a vivere che nella e della
verità. L’amore con cui edificava la propria dimora sulla verità lo rende-
va uomo libero. Induceva ammirazione negli uomini desiderosi di tale
libertà. Suscitava vergogna nei pusillanimi, a volte faceva insorgere in
loro ire nascoste. Per tutti provava un cordiale amore. Lo rifiutavano sol-
tanto quelli che si vergognavano di se stessi. Per giustificarsi tacciavano
di fanatismo il suo coraggio evangelico, grazie al quale il suo parlare era
sempre “sì – sì” oppure “no – no”. Opponendosi alla sua testimonianza,
rivelavano la propria miseria morale e la propria apatia intellettuale di
fronte alla circostante realtà. Con un umile coraggio il Cardinale affron-
tava le sfide della modernità che mette al bando la difficile bellezza della
verità dalla vita delle persone e della società.
Io lo conobbi a Roma nel 1979 in occasione di un congresso de-
dicato alla catechesi, al quale ero stato invitato dal Cardinale Ugo Po-
letti, allora Vicario della diocesi del Papa. Il giovane sacerdote Caffarra

* Docente emerito di Antropologia Filosofica presso il Pontificio Istituto Teologico


Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, Roma.

705
StanisŁaw Grygiel

impressionò; ebbi modo di ammirare il coraggio e la fervida convinzione


con cui condusse un intervento assai critico nei confronti del catechismo
recentemente pubblicato dall’Episcopato italiano. La sua profonda fede
in Dio, l’affidamento allo Spirito d’Amore trinitario e la visione della
Chiesa si accordavano con quanto io avevo visto e vissuto nell’Uomo
che appena qualche mese prima era venuto a Roma “da un pasese lonta-
no”. Durante una pausa tra le sessioni, in un nostro breve dialogo, accad-
de in noi qualcosa che continua ad accadere e che fa sì che l’amicizia con
Carlo Caffarra solo ora, quando la coscienza della sua partenza comincia
a far male, mi dice chi sia l’uomo quando davvero è uomo.
Un anno dopo, nel 1980, san Giovanni Paolo II lo chiamò a Roma
perché realizzasse il suo progetto di un Istituto dedicato agli studi filo-
sofici e teologici antropologicamente orientati sul matrimonio e sulla
famiglia. Il Papa era giunto a Roma da Cracovia già formato dall’amore
vissuto nei e con i giovani da lui preparati alla vita nel matrimonio oppu-
re nel celibato, che anticipa nel tempo il matrimonio dell’uomo con Dio
nell’eternità. Don Carlo Caffarra era stato formato dalla medesima espe-
rienza ed era perciò proprio lui il perfetto esecutore della volontà di san
Giovanni Paolo II. L’incontro di questi due grandi sacerdoti diede inizio
alla loro imperitura amicizia e lasciò nella vita della Chiesa tracce inde-
lebili che nessuna forza riuscirà a distruggere poiché sono state impresse
non solo sulla carta ma soprattutto nei cuori e nelle menti degli uomini.
I tempi in cui l’Istituto venne fondato erano improntati dalla man-
canza di riflessione antropologica sui problemi fondamentali della vita
nel matrimonio e nella famiglia, cosa che si ripercuoteva negativamente
nella pastorale. San Giovanni Paolo II ben sapeva come non bastasse co-
noscere soltanto la tecnica del fare per poter essere un pastore. La presen-
za del pastore in mezzo agli uomini affidati al suo lavoro deve essere una
pratica epifania della verità dell’uomo, verità che è Cristo. Egli, Cristo,
e non il sacerdote, compie ciò che nel più profondo senso del termine
si chiama praxis pastorale. Il santo Papa aveva voluto che l’Istituto da lui
fondato sviluppasse la primordiale idea dell’università come comunione
dei professori e degli studenti che insieme pregano e lavorano, insieme
gioscono e insieme sono in pena. Egli aveva voluto che, senza trascurare
il rigore accademico, questo Istituto avesse il carattere di una comunità
famigliare, riunita nella comune domanda sulla verità dell’amore e della

706
Servus veritatis et amoris

libertà e nella comune ricerca di questa verità. Don Carlo Caffarra riuscì
a realizzare il desiderio di Giovanni Paolo II in modo tale che ancora
oggi i professori, gli studenti e gli addetti si sentono nell’Istituto come
nella loro casa famigliare. Per l’esperienza vissuta a Cracovia il santo Papa
ben sapeva che la presenza nel mondo di pastori formati in un tale Isti-
tuto avrebbe portato frutti abbondanti.
Don Carlo Caffarra aveva compreso senza difficoltà l’idea di san
Giovanni Paolo II, poiché entrambi erano preoccupati per il futuro della
pastorale delle famiglie in un’epoca di miseria provocata dalle moder-
ne ideologie che eliminano la verità dalla società e con essa eliminano
anche la libertà, l’amore e la giustizia. Questi due santi sacerdoti erano
tormentati dalla sempre attuale domanda di come preparare i cristiani ad
una presenza nel mondo tale da renderli epifanie della verità che, parte-
cipando dell’eternità, vince il tempo, senza mai cessare di essere attuale.
Entrambi sapevano che le emozioni, la compassione sentimentale e, per
quanto si dica, la misericordiosa indulgenza nei confronti della miseria in
cui il peccato trascina l’uomo, non sostituiranno mai la verità. L’afferma-
zione della verità e del bene, e la condanna della menzogna e del male,
che sono la loro negazione, hanno reso il Cardinale Carlo Caffarra un
uomo assolutamente inabile al compromesso col peccato. Egli amava gli
uomini, tuttavia il suo amore della verità, cioè la libertà, era così grande
da obbligarlo a dire loro la verità sul loro comportamento senza riguardi
per le conseguenze. Il Cardinale, come anche san Giovanni Paolo II, ha
amato gli uomini nella verità ed ha amato l’amore umano.
Mai fu condizionato dalla paura di perdere qualcosa. Egli non si
lasciava guidare che dal timor Dei. La sua libertà, la cui sorgente scatu-
riva dall’amore della verità, rendeva il suo pensiero chiaro e addirittura
trasparente. Perciò le sue parole tracciavano un percorso logico e senza
interruzioni che portava i suoi uditori e lettori a ciò che trascende i pen-
sieri e le parole. Egli parlava in modo chiaro e umile soprattutto di ciò di
cui parla la docta ignorantia. La sua docta ignorantia era clara et distincta. Essa
seguiva la regola che la negazione di qualche affermazione non si iden-
tifica con il suo sviluppo. Caffarra ricordava come il teologo che ritenga
che per poter fare un progresso nella comprensione della natura della
persona umana occorre mettere in dubbio per esempio ciò che Cristo e
la Genesi dicono del matrimonio, susciti il caos nella vita della Chiesa.

707
StanisŁaw Grygiel

Alla fine della vita la grande tristezza e dolore provocati dalla teologica e
pastorale confusione martirizzavano il Cardinale. Essi non hanno tuttavia
alterato il suo stare fedelmente nell’attaccamento alla verità e il suo porre
la speranza nella vittoria finale. Fino all’ultimo giorno è stato presente
per gli altri, fino alla fine della vita ha fatto piani per il futuro. Prima delle
ultime vacanze avevamo stabilito cosa fare nell’autunno per il prossimo
anno. Sono convinto che tutto procederà secondo il nostro progetto,
solo che in un diverso modo.
La fede mi infonde la fiducia che il Cardinale ci aiuterà ad amare e
a lavorare meglio, cioè ci aiuterà a vivere meglio. Dimorando con Dio,
rimarrà con noi per darci la mano nel nostro prepararci alla piena unione
con la verità eterna. Immagino l’incontro di Carlo Caffarra con Giovan-
ni Paolo II. Cerco di ascoltare il loro dialogo ed anche – e perché no?
– la loro preghiera. Infatti le domande che costituivano l’essenza stessa
dei colloqui con Giovanni Paolo II e col Cardinale risultavano domande
di preghiera per ricevere da Dio ciò che ci manca (cfr. Lc 10, 42) e che
calma il mare tempestoso sul quale navighiamo (cfr. Mc 4, 35 e s.). La
loro fedeltà al “dono di Dio” (cfr. Gv 4, 10), cioè alla verità dell’uomo
creato maschio e femmina orientati nel loro reciproco amore a Dio,
si esprimeva nella cura pastorale degli uomini che soffrivano di un’an-
tiumana poiché antidivina comprensione dell’amore dovuto all’uomo.
Coloro che hanno dimenticato cosa sia ciò che mancha all’uomo, hanno
accusato Giovanni Paolo II e il Cardinale Carlo Caffarra di un idealismo
fanatico.
La loro saggezza si rivelava nel loro saper soffrire. Nei primi anni
dell’esistenza dell’Istituto fondato da Giovanni Paolo II le critiche e le
accuse ricadevano soprattutto sulle spalle di don Caffarra. Giovanni Pa-
olo II sapeva peró bene contro chi fossero puntate. “So” - mi disse un
giorno - “che le batoste che prende adesso Caffarra sono destinate a me.
Dio gliene darà ricompensa. Intanto Egli fa vedere come questo Istituto
sia necessario per la Chiesa”. Il primo Direttore dell’Istituto e suo Co-
fondatore riceveva queste batoste con fede serena, con grande speranza
e con fervido amore. È in quel tempo che ebbi modo di toccare la sua
saggezza e la sua libertà, e quindi la sua santità.
Non posso “perdonarlo” soltanto di una cosa. Egli, grande amatore
e intenditore della musica di Mozart, un giorno dopo aver ascoltato con

708
Servus veritatis et amoris

me una delle sue opere, alla mia domanda se avesse nella discoteca qual-
cosa di Chopin, mi rispose con malizia ma con un sorriso amichevole:
“Ne ho, ma non molto. Stashiù, dicono, che era grande compositore”.
Oggi, dopo più di trenta anni da questo “scontro”, spero che il mio
Amico ascolti in Dio anche la musica di Chopin e l’apprezzi. Quella
sera mi aveva procurato quel dolore che solo può sorgere tra amici: il
mio Amico non sapeva godere come me, polacco, del genio del polacco
Chopin.

709
Anthropotes 33 (2017)

Carlo Caffarra: maestro e testimone della verità


dell’amore

Livio Melina*

SUMMARY: The intervention illustrates the dramatic and testimonial char-


acteristics of the most recent theology of Cardinal Caffarra, proceeding in three
stages, which also correspond to fundamental theses of his thought. First, the
question of the truth about the good is apprehended as decisive for the huma-
num. Second, the pericoresis between the anthropological question and the
question of marriage and family is documented. Thirdly, the theological ques-
tion of redemption is placed at the foundation of Christian morality. Around
these points is articulated his testimony and his extremely heartfelt appeal to
the Church to be faithful to her mission.

Per il Cardinal Carlo Caffarra la teologia non era un’occupazione mera-


mente accademica: si radicava invece intimamente nella sua testimonian-
za di fede e d’amore a Cristo e all’uomo. Per questo era intessuta di vita
e immersa nella lotta per la verità, che per lui era sempre anche lotta per
la dignità della persona umana.
Possiamo capire meglio questa dimensione qualificante del suo pen-
siero illuminando tale osservazione iniziale con una tesi del grande te-
ologo svizzero, Hans Urs von Balthasar, suo amico e collega per anni
alla Commissione Teologica Internazionale. Nel secondo volume della

* Ordinario di Teologia Morale fondamentale presso il Pontificio Istituto Teologico


Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, Roma.

711
Livio Melina

Teo-Drammatica1, egli spiega che esistono tre forme di teologia: c’è la


teologia “epica” o oggettiva, che parla su Dio, considerandolo come un
oggetto di conoscenza tra gli altri; c’è la teologia “lirica”, o soggettiva,
che parla a Dio come effusione di sentimenti. E infine c’è la teologia
“drammatica”, che essendone la forma propriamente cristiana, non si
svolge e non può svolgersi mai fuori del dramma, che anzi è parte del
dramma della storia della salvezza. Essa è sempre nello stesso tempo litur-
gia adorante e combattimento. È risposta alla prassi di Dio ed ha la forma
insuperabile di una testimonianza nella fede e di un gesto cristiano della
carità, con cui si edifica la Chiesa.
Il tratto agonico della riflessione teologica di Caffarra fa vibrare di
passione per l’uomo e per Cristo ogni suo intervento, soprattutto i più
recenti, che hanno il pathos dell’urgenza di una battaglia estrema ingag-
giata per la salvezza dell’uomo2. Alcune venature apocalittiche sono
certamente ispirate alle misteriose parole profetiche scrittegli da suor Lu-
cia di Fatima quando egli, su suggerimento di San Giovanni Paolo II,
le rivolse una richiesta di preghiera per il Pontificio Istituto per Studi su
Matrimonio e Famiglia. Ecco come il Cardinale le riporta: «Esse diceva-
no: “verrà un tempo in cui lo scontro decisivo tra Satana e il Regno di
Cristo accadrà nel matrimonio e nella famiglia; chi difenderà il matrimo-
nio e la famiglia avrà grandi persecuzioni; ma non abbia paura: Nostra
Signora gli ha già schiacciato la testa”. Furono per me e per noi tutti,
parole di grande consolazione»3.
Per ricordare i momenti salienti del magistero teologico più recente
del Cardinal Caffarra4 procederò in tre punti, che sono anche tre tesi
fondanti del suo pensiero. In primo luogo: la questione della verità
come decisiva per l’humanum. In secondo luogo: l’identità della questio-
ne del matrimonio e della famiglia con quella antropologica. E infine:

1 H. U. von Balthasar, Le persone del dramma: l’uomo in Dio, vol. II di Teo-Drammatica,


trad. it. di G. Sommavilla, Jaca Book, Milano 1982, 58-65.
2 Si veda, solo come esempio, l’intervento del 29 novembre 2014 all’Istituto Veritatis
splendor di Bologna: «La condizione in cui versa oggi l’humanum è di urgenza, poiché
si è consegnato ad una potenza – una libertà senza verità – che lo sta devastando. Un
suicidio ritenuto un’autocreazione».
3 C. Caffarra, “Testimonianza. La Vergine di Fatima e il Pontificio Istituto Giovanni
Paolo II”, in Anthropotes XXXIII/1 (2017) 13-14.
4 Molti dei testi più recenti del card. Caffarra a cui faccio riferimento stanno per essere
raccolti e pubblicati in due volumi postumi di Scritti su Etica, Famiglia e Vita (2009-
2017), presso l’Editore Cantagalli di Siena.

712
Carlo Caffarra: maestro e testimone della verità dell’amore

la questione teologica della redenzione come fondamento della morale


cristiana. Concluderò con alcune considerazioni circa la missione della
Chiesa, che gli stavano a cuore nel momento storico che stiamo vivendo.

1. Questione della verità e destino dell’uomo

La storia umana è interpretata dal Cardinale di Bologna come uno scon-


tro tra la forza di attrazione della verità, che ha la sua sorgente nel Cuore
del Crocifisso-Risorto, e il potere di Satana, che edifica una cultura
della menzogna5. Il destino dell’uomo si gioca per lui soprattutto sulla
questione della verità. Egli si ispira a Sant’Agostino, che scrisse: «nessuno
può essere amico dell’uomo se non è innanzitutto amico della verità»6,
e a Karol Wojtyla, che disse: «L’uomo è se stesso attraverso la verità. La
sua relazione colla verità decide della sua umanità e costituisce la dignità
della persona»7.
Non si tratta qui tanto di una verità di carattere speculativo, quanto
piuttosto della verità pratica sul bene, sul fine ultimo che rende una vita
umana veramente buona8. La menzogna che si è imposta nella cultura
dell’epoca moderna e contemporanea nega la possibilità di conoscere
una verità sul bene, che guidi l’agire e che formi le regole di “una gram-
matica morale comune”, capace di assicurare la pace e il bene comune
della società. Percorriamo con Caffarra i tratti di questa deriva di un’etica
senza verità e senza bene, prima di risalire con lui la china che permette
di attingere a un orizzonte antropologico adeguato.
La ragione pratica infatti è stata umiliata e ridotta a ragione utilitaria,
incapace di cogliere una verità universale sul bene e sul male, e serva
degli interessi dell’individuo. Essa ha un valore puramente strumentale,
dovendo calcolare i mezzi più adatti, ma senza poter giudicare sui fini
dell’agire, che vengono lasciati all’arbitrio dei gusti soggettivi. Il relativi-
smo etico non può che cercare un qualche rimedio nel contrattualismo
sociale di regole convenzionali, stabilite per assicurare la convivenza, ma

5 Cfr. Intervento al Rome Life Forum del 19 maggio 2017.


6 Sant’Agostino, Lettera 155, 1.
7 K. Wojtyła, Segno di contraddizione, Vita e pensiero, Milano 1977, 133, citata nella
relazione “Ricostruzione dell’umano”, che era prevista per il 10 settembre 2017 e non
fu svolta a causa della morte avvenuta quattro giorni prima.
8 “La crisi dell’etica in Occidente”, Roma, 26 maggio 2009.

713
Livio Melina

senza che vi sia la possibilità di uscire dall’aporia per cui nessuna regola
può impormi di rispettare le regole. Il soggetto utilitario vive «nell’oriz-
zonte antropologico costituito dai suoi bisogni ed interessi (…) il cui cri-
terio di soddisfazione è paralizzato dalla psicologia centripeta dell’amor
proprio»9. Nel clima della post-modernità, esso è catturato dall’ancor più
fragile contesto dell’emotivismo, che rende impossibili legami stabili per
l’esistenza.
La libertà, rompendo il legame costitutivo con la verità sul bene,
diventa “infondata”, priva di contenuti e arbitraria: è quella libertà di
indifferenza, teorizzata dal nominalismo tardo-medioevale, per cui le
norme morali non hanno nessun riferimento veritativo al bene, ma solo
un potere coercitivo nello stabilire estrinsecamente il giusto legale.
In questo contesto la coscienza perde il suo carattere originario di
testimonianza della verità sul bene e diventa semplice opinione persona-
le che nessuno avrebbe l’autorità di giudicare. È quella “contraffazione
della coscienza”, contro cui il beato Card. John Henri Newman com-
batté, identificando il fattore di mistificazione in quello che lui chiamava
“principio liberale”, che nega ogni riferimento veritativo superiore al
soggetto. Il Card. Caffarra, in un intervento inedito, che avrebbe dovuto
tenere il 21 ottobre 2017, denunciò la straordinaria attualità della teolo-
gia newmaniana della coscienza, per la quale il sense of duty acquista tutta
la sua autorità e il suo valore positivo, solo quando si associa nell’intimo
della coscienza al moral sense, che sa riconoscere la sua dipendenza dalla
verità, da Dio e dalla Chiesa10. Altrimenti, l’esaltazione dell’autonomia
senza ricerca e subordinazione alla verità, si trasforma nell’inconscia di-
pendenza alla mentalità dominante o nella schiavitù dei propri interessi
e desideri.
E tuttavia proprio nell’intimo della coscienza brilla irriducibile quel-
la che Caffarra chiama: “l’originaria memoria del bene e del vero”11, una
luce dove il Mistero si fa originariamente presente, in una rivelazione pri-
mitiva che guida l’uomo. Egli colloca a questo livello alcune “intuizioni

9 Lezione “Comparazione tra matrici etiche: etica della terza ed etica della prima
persona”, 8 marzo 2012, con riferimento interno a F. Botturi, La generazione del bene,
Vita e pensiero, Milano 2009, 275.
10 Relazione “L’educazione della coscienza morale secondo Newman”, prevista a
Londra, al John Henry Newman Cultural Centre, per il 21 ottobre 2017.
11 Idem.

714
Carlo Caffarra: maestro e testimone della verità dell’amore

spirituali, percezioni di realtà, esperienze vissute”12, che formano la strut-


tura fondamentale di un’antropologia adeguata e i riferimenti guida per
la verità sul bene. Innanzitutto l’irripetibile unicità di ogni persona, che
vale per se stessa e merita l’omaggio della mia libertà; poi il valore del
corpo, come segno visibile della persona, che appartiene al suo essere e
non solo all’avere, in quanto l’essere umano è unità sostanziale di corpo
e anima; il di-morfismo sessuale, come simbolo originale della chiamata
della persona a vivere in relazione con gli altri.
Sulla scorta della riflessione tomista, il Cardinale emiliano reinter-
preta in chiave personalista le inclinazioni naturali verso i beni umani
fondamentali della vita, della sessualità e della socialità13. Egli parla di
“reciproca inabitazione delle inclinazioni naturali nella ragione pratica
e della ragione pratica nelle inclinazioni naturali, del bios nel logos e del
logos nel bios”. Se le aspirazioni ai beni umani particolari offrono alla ra-
gione il contenuto, è nel riferimento ermeneutico al bene della persona
che esse acquisiscono la forma propriamente etica della virtù.
Per concludere questo primo punto, notiamo i due presupposti fon-
damenti della visione di Caffarra che stabiliscono il nesso tra verità e
destino dell’uomo; essi sono: da un lato l’antropologia adeguata che sa
integrare anche la corporeità e i suoi dinamismi nella persona e dall’altro
l’assunzione della prospettiva pratica di prima persona, per cui il soggetto
ricerca, mediante la prassi, la sua realizzazione. È questa concezione re-
alista che può opporsi alla frammentazione dell’essere umano e alla con-
cezione utilitarista ed emotivista del suo agire.

2. Questione familiare e questione antropologica

Perché la Chiesa ha tutto questo interesse per la famiglia? A questa


cruciale domanda Caffarra risponde in maniera molto netta: perché è
proprio la famiglia il luogo dove è assicurata una vera genealogia della
persona14. Questa è la missione specifica della famiglia: la generazione

12 In “Mistero e dinamiche dell’amore umano”, Santuario di San Luca, 24 ottobre 2014.


13 Relazione “Natura, ragione pratica, matrimonio secondo San Tommaso”, Roma,
Pontificia Accademia San Tommaso, 25 giugno 2016.
14 Relazione “Perché tanto interesse della Chiesa per la famiglia?”, Correggio, 12
febbraio 2017.

715
Livio Melina

e l’educazione della persona, affermava in una straordinaria conferenza


tenuta a Valencia il 18 settembre 2015.
Tra questione familiare e questione antropologica si dà un’intima
connessione e quasi una pericòresi. Solo la famiglia, che nasce dal ma-
trimonio tra un uomo e una donna, garantisce alla persona di essere
“voluta per se stessa”, come una persona da accogliere e non come una
cosa da possedere. Solo la famiglia permette alla persona di formarsi nella
logica del dono e di imparare a donarsi. Dal punto di vista teologico,
solo nel contesto del matrimonio e della famiglia non viene oscurata
la dignità dell’immagine e somiglianza divina, con un’anima immortale
voluta direttamente e immediatamente da Dio, per cui si tratta davvero
di pro-creazione e non di riproduzione di un esemplare di una specie.
Ma la logica del dono e dell’amore, l’unica adeguata alla dignità della
persona, è oggi insidiata e contraffatta. Il Cardinale di Bologna afferma
che è avvenuta una “decostruzione” del matrimonio e della famiglia:
cioè non tanto una distruzione, ma uno smontaggio dei singoli pezzi,
quali il dimorfismo sessuale, le categorie di paternità, maternità e filia-
zione; esse sono state letteralmente “fatte a pezzi”, sconnesse tra loro e
ridefinite15. E la chiave della ridefinizione è la “de-biologizzazione” del
matrimonio. Esso cioè è stato sradicato dalla dimensione biologica della
persona umana in quanto maschio e femmina.
Questa decostruzione è l’esito di lunghi e profondi processi cultu-
rali, che hanno portato alla perdita del significato finalistico della natura,
alla separazione del corpo dalla persona, al distacco dell’esercizio della
sessualità dalla procreazione, con la riduzione del sesso a pura fonte di
piacere individuale.
Così il matrimonio è stato privatizzato, cioè non più riconosciu-
to come istituzione di diritto pubblico, in quanto fattore di origine di
una famiglia stabile e quindi elemento del bene comune della società16.
Esso è diventato istituzione di diritto privato, di carattere meramente
convenzionale, espressione di desideri individuali, diventati improvvi-
samente diritti, su cui lo Stato non dovrebbe che garantire uguaglianza
e possibilità di esercizio indisturbato. Continuano a sussistere staccati

15 Relazione “Natura, ragione pratica, matrimonio secondo San Tommaso”, cit.


16 Cfr. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società
moderne, Il Mulino, Bologna 1995.

716
Carlo Caffarra: maestro e testimone della verità dell’amore

l’uno dall’altro dei pezzi di quello che prima era l’edificio “matrimonio”
o l’edificio “famiglia”, ma l’edificio come tale non sussiste più. Ormai si
tratta solo di una delle tante aggregazioni costituite per affetti e interessi
privati. L’affetto non genera più legami oppure i legami, una volta ge-
nerati, tendono a diventare insopportabili. Caffarra arriva così a dire che
nella società attuale il matrimonio cristiano risulta non solo “impraticabi-
le” dal punto di vista esistenziale e morale, ma addirittura “impensabile”
dal punto di vista teorico17.
La decostruzione del matrimonio provoca però, contestualmente
anche la perdita del bene comune della società, che si concepisce sempre
più come un agglomerato di individui uniti da motivazioni utilitaristiche
e da vincoli puramente contrattualistici. Difendendo la famiglia, fondata
sul matrimonio tra un uomo e una donna, la Chiesa non sostiene quindi
una sua visione ideologica di parte, ma tutela piuttosto il fondamento
comune del legame sociale, poiché, come sapeva già Cicerone, “familia
seminarium societatis”.
L’antropologia adeguata, che riconosce il carattere personalistico
della differenza sessuale iscritta nel corpo maschile e femminile, è anche
nello stesso tempo antropologia del dono di sé. “Persona-dono e corpo
sessuato sono simultanei”, afferma icasticamente Caffarra18.
Per questo la via per una ricostruzione della famiglia, all’altezza della
sfida culturale e pastorale posta dal momento attuale, non può essere
quella di una casistica al modo dei farisei. È invece la via del “ritorno al
Principio”, come quella indicata da Gesù nella sua risposta alla questione
sulle cause legittime del divorzio (cfr. Mc 10, 6-9)19. I farisei, in effetti,
non erano affatto rigidi sul tema – come talvolta si sente dire-, erano anzi
estremamente flessibili e apparentemente comprensivi e umani: consi-
deravano il matrimonio alla luce delle presunte possibilità umane, alla
luce di ciò che accadeva nella cronaca quotidiana e che sembrava im-
porre loro il realismo di rinunciare a visioni troppo ideali, concedendo

17 Relazione “L’istituzione matrimoniale. Ragioni di una crisi; proposte di una


soluzione”, Incontro Lions, Bologna 21 marzo 2011.
18 Intervento del 20 marzo 2014 al Seminario di Studi su Giovanni Paolo II, a Roma, presso
il Pontificio Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia.
19 Cfr. Relazione “Famiglia, sinodo, modernità: Amoris laetitia”, Pavia, 20 maggio 2016.
Giovanni Paolo II dedicò tutta la prima parte delle sue Catechesi sull’amore umano
a spiegare questo rimando del Signore, che anche papa Francesco riprende nella
esortazione ai nn. 61-66.

717
Livio Melina

eccezioni alla debolezza umana. Invece Gesù, che agli occhi loro e per-
sino dei discepoli sembrava rigido e disumano, chiede di esaminare il
matrimonio nella luce del progetto originario di Dio e delle forze che
Dio concede sempre, in Cristo, a chi gliele chiede con fiducia.
È questa operazione di “ortottica”, che il cardinale Caffarra chiede di
realizzare: vedere tutto nella luce del Principio, che è allo stesso tempo il
disegno creativo originale e quello redentivo di Cristo, che non è venuto
per accusare il cuore dell’uomo o per imporgli pesi insopportabili, ma piut-
tosto per permettergli di vivere l’amore all’altezza della vocazione divina.

3. Verità della redenzione e fondamento della morale cristiana

Siamo così già entrati nel terzo momento della schematica esposizione
del pensiero di Carlo Caffarra, quello più schiettamente teologico. Egli
lo introduce affrontando la sfida di un fattore teorico, che a suo avviso si
colloca alla radice della situazione attuale: si tratta della progressiva separa-
zione della sacramentalità del matrimonio dalla sua costituzione naturale20.
Il riferimento specifico è alla teologia del matrimonio elaborata dal
gesuita Gabriel Vasquez (1548-1604), che insegnò alla fine del XVI se-
colo ad Alcalá de Henares, e che finì per imporsi nella manualistica cat-
tolica. Sulla base di un estrinsecismo tra realtà naturale del contratto
matrimoniale e intervento della grazia sacramentale, intesa come mero
aiuto per osservarne gli obblighi, il teologo complutense interpretava il
capitolo quinto della lettera agli Efesini escludendo che il vincolo co-
niugale fosse di natura soprannaturale: l’analogia tra vincolo coniugale e
unione tra Cristo e la Chiesa si limitava per lui ad una somiglianza, senza
che ci fosse una trasformazione del vincolo medesimo in forza della gra-
zia. Veniva così ad oscurarsi fino ad essere negata la realtà sacramentale
permanente del vincolo matrimoniale, in contrasto con quanto sostenu-
to invece da San Roberto Bellarmino e poi magisterialmente insegnato
e definito da papa Pio XI nell’enciclica Casti Connubii21.

20 Intervento al Convegno Internazionale “Permanere nella verità di Cristo”, Angelicum,


Roma, 30 settembre 2015.
21 San Roberto Bellarmino, De Controversiis III, De matr. Controv. II, cap. VI: Pio XI,
Lett. Enc. Casti Connubii, AAS 22 (1930) 583. In merito, J. Granados, Una sola carne
in un solo Spirito: teologia del matrimonio, Cantagalli, Siena 2014, 244-250.

718
Carlo Caffarra: maestro e testimone della verità dell’amore

Caffarra fa notare come questa visione impoverita del sacramento


abbia conseguenze determinanti anche per le questioni attuali. Se in-
fatti si riduce il dono della grazia sacramentale ad un semplice aiuto per
osservare una promessa umana, il problema dei cosiddetti “divorziati
risposati” diventa di facile soluzione: hanno mancato ad una promessa,
basta che si pentano, perché del primo matrimonio non resta nulla. Tolta
l’ontologia sacramentale, l’indissolubilità resta un fatto di natura morale.
Qualora si associ a questo primo fattore anche una visione nominalistica
della legge, che – come abbiamo visto – non rifletterebbe una verità sul
bene, ma solo la disposizione positiva di un legislatore, allora si può ben
capire come la teologia manualistica moderna si trovi sprovvista rispetto
alle problematiche attuali.
La proposta teologica del Cardinal Caffarra, di impronta decisamen-
te cristocentrica, è in grado di spiegare adeguatamente il realismo del
“grande mistero” di Efesini 5 e quindi la partecipazione sacramentale
ontologica dell’unione coniugale dell’uomo e della donna alla unione
tra Cristo e la Chiesa. Se si trattasse solo di un riferimento morale, si po-
trebbe sostenere che viene proposto un ideale troppo elevato per le for-
ze umane e che quindi occorrerebbe fare realisticamente i conti con le
limitate possibilità umane, segnate dal peccato. Invece, per Caffarra, così
come per la dottrina cattolica, l’indissolubilità del vincolo matrimoniale
non è una questione di natura principalmente morale, ma una realtà on-
tologica della grazia. Come la stessa esortazione Amoris laetitia conferma,
non può esserci valido contratto matrimoniale tra battezzati che non sia
anche sacramento (n. 75), e quindi l’eventuale imperfezione analogica
non riguarda il dono della grazia, ma solo la sempre limitata realizzazione
che una creatura può operare del mistero nuziale divino (n. 73).
Ecco la vera natura della proposta cristiana, con le parole del Cardi-
nale di Busseto: «Non è un ideale, ma è la verità circa il matrimonio e la
famiglia. Non è una legge, ma è una grazia che viene donata»22. La mo-
rale è per il teologo cristiano sempre una parola seconda rispetto al dono
della grazia. Il vero pelagianesimo è quello che pensando che la realtà
cristiana sia un ideale da raggiungere con le nostre forze, finisce poi con
ridurre la mèta a misura delle limitate capacità di un uomo e di una donna
dopo il peccato. Ma la vera dimensione dell’humanum è nell’orizzonte

22 Cfr. Intervento al Convegno Internazionale “Permanere nella verità di Cristo”, cit.

719
Livio Melina

della redenzione, “ut non evacuetur Crux Christi” (I Cor 1, 17). Affinché
non sia resa vana la Croce, afferma San Giovanni Paolo II nell’enciclica
Veritatis splendor, è «solo nel mistero della Redenzione di Cristo (che)
stanno le concrete possibilità dell’uomo» (n. 103) e sarebbe un “errore
gravissimo” pensare che la norma insegnata dalla Chiesa sia solo un “ide-
ale”, che va poi adattato, proporzionato o graduato. Ciò significherebbe
in ultima analisi e nello stesso tempo negare la realtà della Redenzione ed
abbassare la grandezza della vocazione all’amore dell’uomo.

4. La missione della Chiesa

Negli ultimi tempi, la voce del Cardinale, si fece via via più vibrante di
appello accorato alla Chiesa, perché non abbandonasse la sua missione in
favore della verità e in favore della grandezza dell’amore umano. La sua
voce diventa sempre più coraggiosa e profetica. Chiede alla Chiesa di
uscire dal silenzio sul contenuto soprannaturale del suo messaggio: «È di
urgenza drammatica che la Chiesa ponga fine al silenzio circa il sopran-
naturale. Quanto più la mondanizzazione della Chiesa avanza, tanto più
si oscurano nella coscienza del popolo cristiano la verità del peccato ori-
ginale e la fede nella necessità della redenzione: i due cardini sui quali si
svolge tutta la proposta cristiana». Sono parole della relazione che aveva
preparato e che non poté leggere23.
Così egli concludeva una relazione del marzo 2014: «È rimasta solo
la Chiesa a farci sentire il respiro dell’eternità nell’Amore umano. E se
anche essa rinunciasse a farlo sentire?»24. L’ultimo suo intervento, che
non poté tenere a causa della morte improvvisa, evocava il tradimento di
Pietro (cfr. Mc 14, 66-76), che per paura, davanti a una serva, prevarica
la verità: «Sappiamo che Pietro ha tradito e piange. Egli è stato autore,
vittima e testimone della prevaricazione contro la verità»25.
Egli ammonisce che la strategia del venire a patti con l’ideologia del
mondo è perdente: «se ne accetti un frammento, introduci nella menta-
lità dei fedeli il tutto. Quelle condizioni di vita sono oggi infatti in tutto
e per tutto pensate secondo l’ideologia post-moderna: la verità come

23 Relazione “Ricostruzione dell’umano”, prevista per il 10 settembre 2017, cit.


24 Intervento del 20 marzo 2014 al Seminario di Studi su Giovanni Paolo II, cit.
25 Relazione “Ricostruzione dell’umano”, prevista per il 10 settembre 2017, cit.

720
Carlo Caffarra: maestro e testimone della verità dell’amore

opinione, l’amore come emozione, la libertà come semplice possibilità.


La Chiesa è chiamata ad accogliere con misericordia le persone, non
l’ideologia né a dialogare con essa»26. A questo proposito il Cardinale
mette in guardia da un equivoco: «Dire poi che i criteri del discernimen-
to devono essere desunti dalla misericordia, è falso e pericoloso. La mi-
sericordia infatti denota un’attitudine generale, che muove i vari gesti di
guarigione, i quali tuttavia hanno una loro consistenza propria a seconda
della malattia (…). È pericoloso, poiché la misericordia male intesa può
evitare di ricorrere a necessarie medicine amare»27.
Il coraggio della verità deve animare l’azione pastorale. Sono di-
ventate celebri le parole di un suo ammonimento: «Un grande lavoro
ci aspetta oggi. Non è svalutando la fatica del pensare in nome di una
supposta più intensa pastorale, che si risolvono i problemi inediti del
matrimonio. Una Chiesa meno ricca di pensiero non è una Chiesa più
pastorale; è semplicemente una Chiesa più ignorante. E quindi meno
immunizzata contro la mondanità del pensiero corrente»28.

5. Conclusione

«Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di


Dio. Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene
la fede. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e per sempre» (Ebr. 13, 7-8).
Facendo memoria del Card. Carlo Caffarra abbiamo obbedito ad un
insegnamento della Sacra Scrittura. Egli amava intensamente la Chiesa,
amava intensamente il Papa e per questo ha avuto il coraggio di essere
non solo Maestro, ma anche Testimone della verità sull’amore. Testi-
mone si dice in greco “martire”: certo Egli ha dato la vita per la Chiesa.
Quanto abbia sofferto interiormente non possiamo saperlo: di certo sap-
piamo che ora ci incoraggia e sostiene nella lotta, una lotta difficile che
continua, ma nella quale sappiamo che – come egli ci diceva - Cristo ha
già vinto e vincerà ancora.

26 Intervento al Convegno Internazionale “Permanere nella verità di Cristo”, cit.


27 Idem.
28 Relazione “Natura, ragione pratica, matrimonio secondo San Tommaso”, cit.

721
Anthropotes 33 (2017)

Don Carlo: un padre

Nando Menestò*

Ho conosciuto il cardinale Carlo Caffarra nel 1983, quando ho iniziato


a lavorare presso l’Istituto Giovanni Paolo II. I 13 anni trascorsi al suo
fianco sono per me indimenticabili e hanno segnato la mia vita.
Prima di incontrarlo, avevo già sentito parlare di questo giovane
monsignore che il Papa Giovanni Paolo II aveva chiamato a fondare e
dirigere l’Istituto collocato all’interno della Pontificia Università Latera-
nense. Fin dalla prima volta, sono rimasto colpito dalla sua affabilità e dai
modi gentili che caratterizzavano il suo rapportarsi con le persone. Col
passare del tempo, ho gradatamente imparato a conoscere gli altri tratti
del suo carattere che lo hanno reso speciale ai miei occhi: la sua sensibi-
lità, il rispetto profondo per ogni persona, la dolcezza del suo cuore. Più
che un preside o un datore di lavoro, è sempre stato per me e per i miei
colleghi un padre ed un esempio di fede.
Grazie a lui, l’Istituto di quegli anni era prima di tutto una “fami-
glia” per noi che ci lavoravamo, un luogo dove ci sentivamo accolti,
compresi, amati, sostenuti da quel sacerdote dal cuore buono.
La sua presenza in Istituto era costante: al mattino arrivava molto
presto e celebrava la Santa Messa nella piccola cappella. Poi, dopo un
caffè e una sigaretta (con il tempo dovette però smettere di fumare), ini-
ziava la sua giornata di lavoro - piena di incontri, studio, lezioni, riunioni
- che si concludeva spesso a pomeriggio inoltrato. L’attività didattica era

* Addetto all’Archivio e Servizi Generali del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II.

723
Nando Menestò

quella che lo appassionava più di tutte e gli studenti erano entusiasti delle
sue lezioni: rimanevano affascinati dal suo modo di esporre, così chiaro
e logico, e dalla profondità delle sue riflessioni.
Nonostante i tanti impegni che riempivano le sue giornate, non
dimenticava mai di chiedere quotidianamente notizie dei nostri cari, di
interessarsi alle nostre vicissitudini personali, di piangere o gioire con
noi, di consolarci o spronarci quando ce n’era bisogno. E di commentare
- con me in particolare, ma anche con il suo amico don Agostino Sever-
gnini - i risultati delle partite di calcio al lunedì mattina (era tifosissimo
del Milan!).
Grazie alla sua personalità, l’Istituto di quegli anni era una comunità
di studio e di fede. Questa unità dei suoi membri non era scontata, se
si considera che la maggioranza degli studenti veniva dall’estero. Eppu-
re persone così diverse per provenienza, cultura, lingua e abitudini si
amalgamavano quasi subito, perché in lui trovavano un padre che sapeva
come accoglierle e che si faceva in quattro per aiutarle. Quanti volti
e quante storie sono passate dall’Istituto e dal suo ufficio! Fra gli altri,
ricordo con affetto le tante coppie di sposi che, con coraggio invidia-
bile, lasciavano casa, lavoro e affetti per venire a studiare all’Istituto: in
particolare voglio citare due sposi cileni, Benito e Lorena Baranda, che
ancora oggi sono rimasti legati all’Istituto anche per motivi professionali.
Ricordo tantissimi sacerdoti provenienti dai cinque continenti, ognuno
con la sua storia e il suo bagaglio di esperienze, molti dei quali sono poi
diventati vescovi o hanno fondato famiglie religiose: qui vorrei ricordare
in particolare il sacerdote rwandese Jean-Bosco Yilirwahandi – uno dei
primi a usufruire di una borsa di studio – la cui fine tragica dopo il ri-
entro in patria spezzò il cuore di tutti noi. Ricordo alcune ragazze che,
dopo gli studi in Istituto, sono entrate in convento: una delle prime fu
Ursula Renz, una ragazza tedesca divenuta poi monaca di clausura. Ri-
cordo tante religiose, anche esse provenienti da tutte le parti del mondo,
come le due suore indiane, pure loro borsiste, che durante la permanen-
za a Roma vissero a Vitinia, nella stessa casa religiosa dove abitava anche
il cardinale Caffarra che così ebbe l’opportunità di seguirle in modo
speciale non solo per gli aspetti accademici.
Accanto ai volti degli studenti, nei miei ricordi ci sono naturalmente
anche quelli dei docenti, un gruppo coeso di maestri di vita ancor prima

724
Don Carlo: un padre

che delle loro rispettive materie, la maggior parte chiamati personalmen-


te dal Santo Padre Giovanni Paolo II a partecipare a quest’opera educa-
tiva. Tanti di loro oggi purtroppo non ci sono più - penso alla carissima
dottoressa Anna Cappella, al padre Louis Ligier s.j., al padre Tadeusz
Styczen, al padre José Castaño o.p., a don Ramon Garcia de Haro -,
tanti altri, dopo alcuni anni, sono stati destinati a nuovi incarichi, come
il cardinale Angelo Scola o il vescovo Massimo Camisasca; alcuni di loro
non erano italiani, ma pur di collaborare con l’Istituto trovavano il modo
ogni anno di venire ad insegnare all’Istituto per qualche settimana, come
i proff. Josef Seifert, John Crosby, Lorenzo Albacete, Carl Anderson. Mi
ricordo anche del giovane studente Livio Melina, primo dottorato all’I-
stituto, poi diventato Preside. Tutti loro sono stati per il cardinale Caf-
farra degli amici preziosi e dei collaboratori fidati ed insieme a lui hanno
contribuito a creare quell’aria “speciale” che si respirava in Istituto.
Oltre alla vita accademica, che il cardinale Caffarra seguiva con cura
attenta e profonda, l’Istituto iniziò da subito anche una intensa attività
scientifica: tanti furono i seminari e i congressi organizzati su temi par-
ticolarmente urgenti in quegli anni, riguardanti i temi della vita e della
procreazione umana. Mi sono rimasti impressi in particolare i week-end
di studio sui temi della bioetica, rivolti a medici e biologi italiani: erano
gli anni in cui si iniziava a parlare di fecondazione assistita e il primo cor-
so di bioetica fu frequentato da molti ginecologi. Il cardinale ci raccontò
in seguito che in particolare uno di loro rimase profondamente colpito
dalle riflessioni che vennero proposte in quei giorni, tanto da abbando-
nare la strada della FIVET. Negli anni rimase sempre in contatto con il
cardinale e spesso lo veniva a trovare a Roma.
In qualche occasione, i partecipanti ai Congressi con respiro più in-
ternazionale sono stati ricevuti dal Santo Padre. Il cardinale non mancava
mai di invitare anche me e i miei colleghi a quelle udienze: in questo
modo, grazie a lui, abbiamo avuto la gioia e l’onore di incontrare tante
volte Giovanni Paolo II, sempre con un’emozione indescrivibile. Grazie
a questi gesti, ricevevamo conferma – se mai ce ne fosse stato bisogno –
dell’affetto e dell’attenzione che il cardinale prestava alle nostre persone
e al nostro lavoro.
Nel 1985 venne fondata la Rivista Anthropotes e furono iniziate
le prime collane di libri: il cardinale era molto fiero di questa attività,

725
Nando Menestò

soprattutto per i nomi prestigiosi dei tanti studiosi di tutto il mondo che
con entusiasmo accettarono subito la sua proposta di collaborazione.
Ma la vita dell’Istituto era scandita anche da alcuni appuntamenti
speciali, dedicati alla preghiera. Uno di questi era il pellegrinaggio del
13 maggio, che ogni anno il cardinale organizzava per celebrare l’anni-
versario della fondazione dell’Istituto, una tradizione che ancora oggi
viene rispettata. La meta era quasi sempre un santuario mariano e al
pellegrinaggio aderivamo tutti, docenti, studenti e personale. Ricordo
in particolare quello al Santuario della Mentorella (dove Giovanni Paolo
II si recò in preghiera prima di entrare nel Conclave dove poi fu eletto
papa) e quello al Santuario di Pompei. In quelle occasioni ho avuto il
privilegio di ascoltare le sue riflessioni, dalle quali emergevano in modo
chiaro la grande passione per la Chiesa e la testimonianza di una fede
profonda. Ma ricordo, con altrettanto piacere, i momenti conviviali con
lui, che quelle giornate permettevano: c’era spazio per poter parlare un
po’ di tutto (non solo di lavoro), per ridere e cantare insieme, per confi-
dargli i nostri problemi o le nostre preoccupazioni.
Nel 1988 venne fondata la prima sezione extra-urbana dell’Istitu-
to, a Washington D.C. Per il cardinale fu una grande gioia, anche se
naturalmente comportò tanto lavoro in più. Ricordo che volle subito
attrezzare il suo ufficio con un fax (il primo ad essere installato nell’Uni-
versità Lateranense) per poter comunicare più facilmente con i responsa-
bili dell’Istituto statunitense. In seguito vennero aperte anche la sezione
messicana e quella spagnola. Il cardinale era entusiasta e iniziò a viaggiare
sempre di più. Tornava da ogni viaggio con mille racconti che condivi-
deva con noi, facendoci così sentire coinvolti nella missione dell’Istituto
che si espandeva sempre di più.
Sempre nel 1988 ho vissuto l’emozione e l’onore più grande: il car-
dinale accettò di celebrare il mio matrimonio e di questo io e mia moglie
Marilena gli saremo eternamente grati. Negli anni seguenti è sempre
stato presente nella vita della mia famiglia con grande affetto e partecipa-
zione e ha benedetto la nascita dei miei figli.
Quando l’8 settembre 1995 arrivò la notizia della sua elezione a
Arcivescovo di Ferrara, per me e i miei colleghi fu un duro colpo. Natu-
ralmente l’affetto e la riconoscenza che provavamo non sono mai venuti

726
Don Carlo: un padre

meno, così come i contatti con lui, ma fin da subito la sua presenza pa-
terna e affettuosa ci è mancata tantissimo.
Ora che il Signore lo ha chiamato a sé, continuo a sentire la sua
mano sulla mia testa, in quella carezza così leggera, ma insieme così cari-
ca di amore, che per anni ha voluto regalarmi quasi ogni giorno.
Grazie, Eminenza, per tutto quello che mi ha insegnato.

727
Anthropotes 33 (2017)

Le Cardinal Caffarra, témoin de la vérité

Jean-Marie Meyer*

« Dépourvu de vérité, l’amour bascule dans le sentimentalisme. L’amour


devient une coque vide susceptible d’être arbitrairement remplie. C’est
le risque mortifère qu’affronte l’amour dans une culture sans vérité »
(Benoit XVI, Caritas in veritate, n°3). Ces quelques mots du Pape Benoit
XVI peuvent sans doute nous aider à présenter ce que fut la mission et
la passion du Cardinal Caffarra : enseigner à temps et à contre temps,
mais toujours avec profondeur et charité, la vérité de l’homme en la
contemplant dans sa source c’est-à-dire dans le projet même que Dieu
a sur l’homme, projet qui s’accomplit dans et par le Christ. Ce projet
éclaire jusqu’au fond l’être et l’histoire de l’homme, de chaque homme,
appelé pour la gloire du Père à devenir fils dans le Fils en vivant dans le
Christ grâce à l’Esprit Saint. Si cette histoire ne s’accomplit ultimement
que dans l’éternité elle doit commencer en cette vie. Le Cardinal Caffar-
ra, à la suite de saint Jean-Paul II, s’est donc mis au service de l’homme,
en lui dévoilant la Vérité qui sauve, le Christ Jésus, ainsi que la vérité de
son être même.
Dans les lignes qui suivent je me propose de montrer que c’est dans
et à partir de la notion de vérité qu’il convient d’éclairer plusieurs thèmes
essentiels de la pensée et de l’enseignement de Carlo Caffarra. La pré-
sentation de ces quelques thèmes d’anthropologie théologique permet
d’indiquer comment le Cardinal Caffarra demeure un témoin privilégié

* Professeur agrégé de Philosophie, Paris.

729
Jean-Marie Meyer

de la vérité qui sauve ainsi qu’un prophète pour l’Eglise d’aujourd’hui et


peut-être encore davantage de demain.
Le bien fondamental de l’intelligence est la vérité. En elle, c’est de
l’être réel et intelligible qu’il s’agit et pas simplement d’un aspect frag-
mentaire ou apparent de notre rapport au monde. Comme tout penseur
authentique Carlo Caffarra demande donc à la vérité d’être l’objet de sa
quête et à l’intelligence d’être actualisée par ce qui est, c’est-à-dire d’ac-
céder à ce que la tradition philosophique dénomme essence et existence.
Cette manière de considérer la vérité révèle corrélativement la voca-
tion de l’intelligence humaine comprise comme ouverture sur l’infini
de l’être et, à terme, sur Dieu. Cette compréhension de l’homme, prin-
cipe d’une anthropologie pleinement réaliste et chrétienne, constitue la
condition première pour entendre dans leur profondeur les paroles de la
Révélation qui nous permettent de nous enfoncer dans la contemplation
du mystère de Dieu et de celui de l’homme.
Un texte de présentation des Catéchèses de Jean-Paul II, Vérité et
Ethos de l’amour conjugal1 développe avec bonheur deux aspects essentiels
de ce primat de la vérité et en indique la portée avec grande précision.
1) En s’appuyant sur un texte de saint Thomas d’Aquin2 Carlo Caf-
farra affirme que l’homme peut se connaitre lui-même de deux ma-
nières : en premier lieu, au travers d’une connaissance de soi singulière
qui me permet de percevoir « que » je suis. Dans ce cas, « en présence de
moi-même », je prends conscience de mon acte et de moi-même qui le
pose. Mais je peux également m’interroger –et c’est la deuxième manière
de se connaitre- sur la nature de cet acte, sur les facultés intellectuelles
et psychiques qui le rendent possible, voire sur la nature de la personne
qui le pose. Dans ce cas se produit un prolongement de la première
connaissance, prolongement qui mène à un approfondissement : c’est
bien toujours de moi qu’il s’agit, du sujet existant et agissant, mais ce
sujet se connait et se découvre selon son essence comme un être humain,
connaissant et se connaissant sous le rapport de son être. On observe

1 Ce texte « Vérité et Ethos de l’amour conjugal, Réflexion philosophico-théologique


sur la première série des catéchèses de Jean-Paul II (1979-1983) » a d’abord été publié
par la Rivista del Clero italiano en septembre 1983, p. 693 et suiv., puis traduit et publié
par la revue Esprit et Vie, n°17 dans sa livraison du 24 avril 1984. C’est à ce dernier
texte que nous référons ainsi qu’à sa pagination.
2 Saint Thomas d’Aquin, Somme Théologique, Ia pars, q. 87, a. 1.

730
Le Cardinal Caffarra, témoin de la vérité

ici que l’expérience première du je existant s’enrichit d’une nouvelle


connaissance de soi et ne disparait pas. La dimension concrète, singulière
et existentielle du point de départ n’est pas niée ou oubliée dans la mise
en évidence des caractéristiques universelles de l’humain. En effet, l’être
sur lequel portait cette première connaissance contenait déjà ces carac-
téristiques mais l’intelligence devait les dégager. Parler de vérité dans la
connaissance de soi c’est donc souligner la capacité de l’intelligence à
connaitre l’être de l’homme et à l’exprimer dans un jugement qui af-
firme de cet être existant – et connu comme tel- des propriétés qui ap-
partiennent à son essence. Au total, l’injonction delphique : « Connais-
toi toi-même » suppose et appelle une dimension d’expérience de soi par
la conscience et de connaissance de soi par l’intelligence. Carlo Caffarra
montre donc ce que le personnalisme de Jean-Paul II présuppose quant
à la capacité ontologique de l’intelligence humaine mais aussi et surtout
ce que chacun de nous est en droit d’attendre de la vérité de l’expérience
de soi.
Carlo Caffarra souligne ainsi l’aspect fondateur pour l’homme et
pour l’Eglise de cette expérience et de ce rapport à soi. Ainsi qu’il l’écrit
dans ce même texte : « L’homme dont parle l’Eglise n’est pas différent
de l’homme qu’est chacun de nous : c’est l’homme concret. Et ainsi,
l’Eglise-lorsqu’elle parle de l’homme- peut et doit faire appel à l’ex-
périence essentiellement humaine que chaque homme a de lui-même,
parce que toute activité magistérielle a pour but d’enseigner la vérité qui
sauve l’homme. L’Eglise « doit » faire appel à l’expérience essentielle-
ment humaine : pour deux motifs connexes. D’abord, parce que la rai-
son est une lumière qui vient de Dieu : elle est participation à la Sagesse
créatrice de Dieu ; la mépriser c’est rompre cette alliance originelle.
Ensuite, parce que « le mystère de l’homme » – ainsi que l’enseigne Va-
tican – II « ne s’éclaire vraiment que dans le mystère du Verbe incarné »3.
Ce plein réalisme de la parole de l’Eglise est décisif. C’est précisé-
ment ce qui permet au message authentique de l’Eglise d’obéir à une
double obligation : révéler l’homme à lui-même et le faire en référence
à Celui qui seul sait parfaitement « ce qu’il y a dans l’homme »4.

3 Esprit et Vie, 26 avril 1984, 246.


4 Evangile selon Saint Jean II, 25.

731
Jean-Marie Meyer

2 ) Cette référence à la vérité de l’être humain possède également


une importance particulière pour l’Eglise lorsque le Pasteur se demande
comment il doit parler à ses brebis. Isaïe déjà affirmait : « Parlez au cœur
de Jérusalem ! » (Isaïe, 40,2). Cette perspective biblique et pastorale, ne
contredit pas mais présuppose le fait que l’homme, grâce à son intelli-
gence, ait la capacité de connaitre, de se connaitre et de vouloir obéir à
ce que Dieu lui demande dans son cœur et au travers de sa conscience
bien formée. Ici, la notion de vérité de l’homme nous introduit dans
la contemplation de ce que Dieu veut pour l’homme depuis l’origine
et elle nous permet aussi de mesurer les multiples manières selon les-
quelles l’homme ne parvient pas à correspondre à ce projet. Toutefois, il
convient d’insister sur le fait que, comme l’écrit C. Caffarra dans ce même
texte, « l’homme a conservé dans les profondeurs de sa personne, la force
originaire de cette même « origine ». « De l’origine » l’homme a hérité
un patrimoine de vérité plus profond que l’état de péché héréditaire »5.
Ce « patrimoine de vérité »est en quelque sorte notre héritage on-
tologique, la marque d’une dignité filiale que le péché altère, « blesse »,
mais ne peut totalement détruire et qui reste le gage d’un retour possible
à la maison paternelle. C’est cette capacité de connaitre la vérité de notre
être qui nous permet tout d’abord de juger les erreurs et les fautes, c’est-
à-dire le mal qui ne correspond pas à ce que nous sommes selon le plan
et le commandement de Dieu. Par le fait même, cette vérité connue
ouvre une brèche dans le mal puisqu’elle nous dévoile une autre manière
de vivre conforme à ce que nous sommes d’après la Sagesse créatrice de
Dieu, fondement de notre être, depuis « l’origine ».
Ce texte trace donc, avec un grand bonheur d’expression, la manière
permanente selon laquelle l’Eglise rend service à l’homme. En l’éclairant
sur le fait qu’il est bénéficiaire de l’acte créateur et de l’acte rédempteur
de Dieu, elle donne à l’homme toute la vérité sur celui qu’il est et sur ce-
lui qu’il est appelé à devenir. C’est pourquoi, au terme de sa présentation
des Catéchèses le Cardinal Caffarra rendait hommage au Pape Jean-Paul
II de la manière suivante : « Le pape est habité par la « passion » pastorale
de dire à l’homme toute la vérité sur l’homme ».
Cette notion de vérité entendue dans toute sa profondeur ontolo-
gique et sotériologique dans le domaine de l’anthropologie théologique

5 Esprit et Vie, 26 avril 1984, 250.

732
Le Cardinal Caffarra, témoin de la vérité

joue également un rôle essentiel lorsqu’il est question de la conscience.


Le Professeur Caffarra n’a cessé de contempler, d’approfondir et d’en-
seigner cette notion dont dépend toute la morale et qui éclaire la sub-
jectivité humaine. En accord étroit avec ce que seront les pages les plus
lumineuses de l’Encyclique Veritatis Splendor, C. Caffarra resitue tout
d’abord le rapport entre l’obligation morale et la conscience : l’obliga-
tion morale est connue au travers de la conscience mais ne vient pas de la
conscience. L’obligation morale nous renvoie en fait à la vérité de ce que
nous sommes et au bien à accomplir pour correspondre à la dignité de
notre être. La conscience, pour sa part, nous rend donc manifeste cette
obligation ainsi que la vérité qu’elle contient, mais c’est la vérité qui est
constitutive de l’obligation. D’où le lien intrinsèque que fait notre Au-
teur entre l’obligation, la vérité et la source ultime de vérité à savoir la
Créateur de l’homme. Une phrase de saint Bonaventure exprime cela
avec beaucoup de netteté : « la conscience est comme le héraut et le
messager de Dieu ; ce qu’elle dit, elle ne le prescrit pas d’elle-même,
mais le prescrit comme venant de Dieu, à la manière d’un héraut lors-
qu’il proclame l’édit d’un roi. Il en résulte que la conscience a la pouvoir
d’obliger »6.
Comme l’explique avec une grande rigueur notre Auteur dans un
de ses ouvrages consacré à la vie dans le Christ :

L’expérience de « l’intériorité » et de la « singularité »comprise dans le


terme « conscience »n’enferme pas la personne en elle-même, seule avec
elle-même, mais la met en contact avec la Vérité la plus profonde de son
être, qui est Autre qu’elle-même, bien qu’étant plus intime à elle –même
qu’elle-même. Nous pourrions dire que c’est « l’intériorité objective ».
« L’intériorité objective » signifie qu’au travers du jugement de la conscience
la personne s’ouvre à la Vérité de son être manifestée dans la Valeur mo-
rale et c’est pour cette raison que cette vérité doit être accueillie7.

On remarquera ici que cette expression d’ « intériorité objective »


vise à souligner que la conscience morale, loin d’être indéterminée,

6 Saint Bonaventure, Librum Sentent., II, dist.39, a.1, q.3, concl. : Ad claras Aquas, II,
907b.
7 C. Caffarra, Viventi in Cristo. Compendio della morale cristiana, Cantagalli, Siena 2006,
110.

733
Jean-Marie Meyer

possède un contenu et que ce contenu nous oblige car il parle du bien


à accomplir, bien qui correspond à ce que nous sommes. Au travers de
notre conscience c’est donc la vérité qui nous éclaire sur notre être et
sur notre bien. Ou encore, c’est grâce à la conscience morale que cha-
cun de nous peut juger que telle action doit être accomplie parce que
dans cette action la personne humaine comme telle se réalise en vérité
et s’affirme. Faire connaitre à la conscience les exigences de l’action
qui correspondent à ce que nous sommes et lui indiquer ce qui ne cor-
respond en aucun cas à la dignité humaine, tel est le grand service de
l’enseignement moral de l’Eglise dont toute époque a besoin. La nôtre
ne fait pas exception. C’est pourquoi, expliquait encore récemment le
Cardinal Caffarra : « la loi morale bien qu’elle s’expose normalement en
termes prescriptifs dit en réalité la vérité au sujet du bien/ du mal de la
personne. Nous pouvons dire : la loi morale exprime la vérité de la per-
sonne confiée à la liberté ». Et il ajoutait en pensant aux souffrances de
tant de nos contemporains prisonniers de leurs échecs et incertains quant
aux repères existentiels : « si on nie le rapport intrinsèque de la liberté
avec la vérité on vit l’expérience d’une liberté comme un itinéraire privé
de but : un vagabondage et non un pèlerinage »8.
Cette dernière considération mérite d’être prise très au sérieux. En
effet, au travers d’une compréhension correcte de la conscience c’est
effectivement l’articulation entre la vérité et le bien qui est en cause.
Notre conscience nous pousse à agir droitement et comme l’enseigne le
Concile Vatican II : « notre dignité est de lui obéir » (Gaudium et Spes,
n°16). Mais cette impérativité de la conscience n’a rien d’arbitraire. En
effet, en elle c’est l’autorité du vrai bien qui commande et qui exprime
les exigences de la Sagesse créatrice de Dieu. C’est donc pour chacun
d’entre nous sur cette base qu’il nous est possible de vouloir correspondre
à la volonté de Dieu. Sans elle, nous ne pourrions savoir comment notre
liberté peut relier en vérité le projet de Dieu sur nous et notre réponse
personnelle à ce projet.
Compte tenu de ce qui précède, je dirai alors que le Cardinal Caffar-
ra nous a appris à ne pas confondre la vérité avec un idéal. Il me semble

8 Conférence donnée à Avila le 8 novembre 2016. Cette conférence peut être retrouvée
sur le site Caffarra.it, sous le titre “Matrimonio e libertà”, Avila (Spagna) à la date du
8 novembre 2016.

734
Le Cardinal Caffarra, témoin de la vérité

utile de préciser quelque peu ce qui est ici en cause. Nous avons vu plus
haut que la connaissance de soi est la base sur laquelle la Parole de Dieu
vient germer et pousser ses racines. L’accueil de cette Parole est vraiment
une bonne nouvelle parce qu’elle nous révèle la vérité ultime, naturelle
et surnaturelle quant à notre être. Mais cela présuppose que l’homme
recherche la vérité sur lui-même. L’indifférence à l’égard du vrai – ou la
superficialité entretenue en ce domaine – rend la rencontre avec Celui
qui est la Vérité peu significative…. Le désir du vrai est donc ce que
l’homme apporte dans sa quête de Dieu et ce à quoi Dieu répond, à la
mesure de son Être ! Ainsi, lorsque l’Eglise parle de Dieu et de l’homme
elle est dépositaire de paroles lumineuses qui assurent la possibilité de la
rencontre salutaire entre Dieu et l’homme. On ne saurait alors utiliser
la catégorie d’idéal pour comprendre ce qui se joue ici. Tout d’abord,
parce qu’on emploie communément le terme « idéal » comme opposé
au terme « réel ». Or, la Foi chrétienne nous parle de la vie la plus réelle
qui soit : elle est la rencontre de deux existants – Dieu et l’homme – et
la mesure de cette rencontre dépasse le cadre limité de toutes les autres
expériences humaines. Mais elle n’en est pas moins l’expérience de ce
qu’il y a de plus réel.
De plus, et par-delà les nuances prises par le sens du mot « idéal »
dans les écoles philosophiques, ce terme correspond ou prétend corres-
pondre au besoin de notre raison ; notre raison est donc pensée comme
le principe de l’idéal. Or, si la vérité est connaissable par notre raison et
exprimée par elle dans un jugement, c’est l’être même de la chose qui
est principe du vrai et que considère notre raison pour entrer dans la
vérité. C’est de cela qu’il est question dans la notion d’ « adéquation ».
La grandeur de notre raison renvoie donc tout d’abord à notre capacité
intellective d’accueillir la réalité et non de construire arbitrairement un
échafaudage intellectuel, même si celui-ci est censé viser un idéal.
Davantage, pour ce qui concerne la connaissance de soi l’homme
s’appuie, nous l’avons vu plus haut, sur la conscience qu’il a de lui-
même, conscience enrichie par une connaissance intellectuelle de la
nature humaine. L’enracinement de cette connaissance de soi dans ce
rapport existentiel au « je » du sujet connaissant ne relève pas non plus
de la catégorie d’idéal mais bien de l’expérience du sujet humain par
lui-même. Encore faut-il préciser que cette expérience est ouverte à

735
Jean-Marie Meyer

l’intelligence et nourrie par elle. Il s’agit ici d’autre chose que de vagues
impressions. C’est bien d’une expérience humaine qu’il s’agit. Et, pour
subjective qu’elle soit, cette expérience nous mène à la connaissance de
l’être du sujet. En ce sens elle est également objective.
Enfin, lorsqu’il est question de la vérité qui éclaire la conscience et
qui, par-là, permet à notre acte de mériter le qualificatif de « moral »,
cette vérité est aussi celle qui nous indique ce que doit être un acte hu-
main pour correspondre à la dignité de la personne humaine. Mais, pour
que cette vérité éclaire jusqu’au bout notre jugement moral il faut éga-
lement que nous cherchions à reconnaitre et à choisir dans la singularité
de l’agir, l’acte lui aussi singulier qui convient à ce que ma conscience
m’indique en fait d’acte bon. La vérité pratique se reconnait à ceci qu’en
elle l’exigence universelle de bien dérivée de la loi morale se retrouve
dans l’acte choisi comme étant le mien parce que dans cet acte je choisis
mon vrai bien, celui qui contient la vérité sur le bien de l’homme et que
je fais mien. Or, là encore, là surtout, la notion d’idéal ne rejoint pas la
vérité de ce qui est à penser.
La vérité de la loi morale exprime une vérité qui provient de la Sa-
gesse créatrice de Dieu. En Elle se trouve réellement la source de tous les
biens. Cette source est « Celui qui seul est bon » (Mt 19,17) et c’est pour
cette raison qu’en faisant ce qu’il nous commande nous sommes assurés
d’être en accord avec notre être. Nous savons que ce qu’il commande
est bon pour tout homme en tant qu’homme. Pour le dire en d’autres
termes, ce qui nous est commandé correspond à ce que nous sommes
vraiment et, dès lors, nous éclaire sur notre véritable finalité. En effet,
nous ne pouvons comprendre notre bien qu’en saisissant les exigences
profondes de notre être. Mais alors les actes qui correspondent à ce que
nous sommes nous indiquent également comment nous devons agir en
respectant la dignité de notre personne et en atteignant les buts qui tra-
duisent cette dignité. Ultimement, c’est parce que Dieu est la finalité
ultime de notre existence qu’à partir de ce but ultime tous les actes sus-
ceptibles d’être ordonnés à cette finalité sont des actes bons et désirables.
Dire que ces actes, et tout d’abord cette finalité ultime, ne s’atteignent
pas sans la grâce divine ne transforme pas ces buts en autant d’idéaux. Il
s’agit plutôt de buts élevés et accessibles qui correspondent à la vérité de
ce que nous sommes et que Dieu nous aide à atteindre.

736
Le Cardinal Caffarra, témoin de la vérité

Au total, la catégorie de l’idéal ne peut se substituer au terme « vé-


rité » dans le contexte de l’anthropologie théologique pour deux raisons
de fond en lesquelles se résume notre rapide analyse.
D’un point de vue théorétique, tout d’abord, la vérité exprime
l’intelligibilité de l’être. Qu’elle soit contemplée dans sa source – l’être
même de Dieu – ou dans l’adéquation dite par notre intelligence, la vé-
rité nous parle d’abord d’une propriété de l’être alors que l’idéal évoque
un besoin de la raison humaine. On ne saurait donc sans dommage in-
tellectuel grave substituer idéal à vérité.
Sous un autre rapport – celui qui éclaire directement l’agir humain
– les notions d’idéal et de vérité ne peuvent pas non plus être prises l’une
pour l’autre. L’idéal est présenté comme ce à quoi on aspire mais qui, par
définition, n’est pas réel et ne peut l’être ou le devenir. Or, qu’on envi-
sage la loi morale dans sa source – la Sagesse divine – ou dans la manière
dont elle met en lumière les exigences objectives et universelles du bien
moral, celle-ci est vraie, elle est toujours une lumière qui éclaire notre
conscience et lui permet de poser un choix dans les situations concrètes.
La loi morale nous indique en vérité où est le bien. De façon vigoureuse
et très précise, saint Thomas soulignait que le bien est « in re »9, ce qui
signifie qu’il convient de l’atteindre au-delà de nos concepts dans l’exis-
tence elle-même. C’est très exactement ce qui est en cause dans la VIE
morale.
Mais alors, jamais l’indication d’un idéal ne pourra nous permettre
de rejoindre le bien comme bien, puisque celui-ci nous attire ; telle est
sa causalité propre, connue non en tant qu’on se contente de le conce-
voir mais en tant qu’on désire le rejoindre, qu’on se laisse attirer par lui
« in re », c’est-à-dire dans l’existence. Faire l’expérience du bien comme
bien c’est goûter le bien existant et s’il s’agit d’un bien opérable, c’est
agir, et non chercher vainement à satisfaire un besoin de notre raison, en
pensant à l’idéal. C’est pourquoi, en morale, Il s’agit d’une vérité exi-
geante, engageante et qui porte sur des biens à accomplir dans des actes
concrets. L’enjeu de l’obligation morale n’est donc pas de se rapprocher
d’un terme inaccessible – un idéal – mais de poser notre meilleur acte
ici et maintenant.

9 Saint Thomas d’Aquin, De Veritate, qu.21, a.1 corp.

737
Jean-Marie Meyer

Dans une conférence récente10 le Cardinal Caffarra déplorait la


confusion actuelle concernant la conscience. Elle est, disait-il, « réduite
à une opinion alors qu’elle est le lieu où se produit la révélation origi-
naire de Dieu ». De plus, en banalisant l’appel à la conscience sans relier
la conscience à la loi morale on vide la liberté de sa signification pro-
fonde. Notre liberté est une propriété de notre être. Elle lui appartient
en tant que caractéristique essentielle de notre volonté. Mais cela impose
de toujours la resituer dans l’être de la personne faute de quoi elle est
comme ces plantes qui se développent « hors sol ». Dans le cas de la
liberté humaine, c’est dans la vie humaine et chrétienne qu’elle a voca-
tion à s’exercer et à être féconde. Par conséquent, libérer les personnes
des erreurs de perspective et tout d’abord de leur ignorance c’est offrir à
l’intelligence et au cœur de la personne des éléments nutritifs, donner à
la liberté l’occasion de s’exercer réellement. Ce dont on doit aujourd’hui
se méfier, me semble-t-il, c’est d’une revendication indistincte de liberté
qui oublie les conditions anthropologiques de son usage. C’est pourquoi
la prise en charge du bien de l’intelligence, sa formation dans l’éduca-
tion, constitue un vrai service de la liberté. Sans cette nourriture de l’in-
telligence, Carlo Caffarra voyait bien qu’une liberté sans « logos » était
littéralement rendue folle.
De plus, cette formation de la personne renvoie aussi à la connais-
sance de notre situation de pécheur. Éduquer au sens du péché est dans
cette perspective une exigence nécessaire pour que la conscience nous
mette devant la vérité qui sauve. Mais pour être sauvé, pour comprendre
la nécessité du salut, encore faut-il voir notre misère afin de saisir à quel
point nous avons besoin ultimement non de tolérance mais d’une au-
thentique miséricorde.
Je terminerai en indiquant un trait qui, depuis de nombreuses an-
nées, m’a toujours frappé dans la personnalité et la réflexion du Cardinal
Caffarra. Il a toujours été soucieux de comprendre en profondeur nos
contemporains afin de leur montrer que Jésus peut les rejoindre en les
éclairant et en les guérissant. Cela l’amenait à constamment interroger les
penseurs contemporains étrangers et parfois hostiles à la foi chrétienne.
Les difficultés de ces penseurs et plus généralement de nos contemporains

10 Conférence donnée à Bratislava le 24 février 2016, cfr. Caffarra.it à la date du 24


février 2016.

738
Le Cardinal Caffarra, témoin de la vérité

constituaient pour lui autant de défis à relever afin de respecter pleine-


ment l’intelligence de ceux qui lui proposaient leurs objections.
C’est cette manière de procéder du Cardinal que j’ai retrouvée mer-
veilleusement pratiquée dans conférence donnée en 2012 à Bologne :
concluant sa conférence consacrée à l’exhortation Familiaris Consortio,
il soulignait l’actualité de ce texte, assurant qu’il demeure aujourd’hui
la base de notre tâche d’évangélisation dans le domaine de la pastorale
familiale. Il montrait que dans ce texte prophétique de saint Jean-Paul II
« l’exigence de la réflexion anthropologique comme dimension essen-
tielle de la proposition chrétienne du mariage n’a cessé d’avoir un carac-
tère croissant d’urgence, même et avant tout du point de vue théorétique.
Ici est nécessaire la reconstruction d’une vision de l’homme fondée sur la
foi et qui puisse répondre vraiment aux questions que l’homme se pose
sur lui-même et sur son destin. Toutefois pour que cette reconstruction
puisse avoir lieu la pensée chrétienne doit se confronter – et apporter des
réponses – à trois défis fondamentaux que le monde contemporain lui
lance : le défi du nihilisme métaphysique, le défi du cynisme moral, le
défi de l’individualisme asocial »11.
Pour terminer cet hommage au Cardinal Caffarra je voudrais briè-
vement revenir sur les commentaires qu’il fait de ces trois défis et sur les
pistes de réflexion qu’il indique en répondant à ces défis. Par leur justesse
et leur pertinence ces réflexions me semblent constituer un legs à faire
fructifier.
- Le nihilisme (et le défi qu’il nous lance) considère la réalité comme
une illusion ou comme un jeu d’apparences. Ce qui nous permet de re-
lever le défi c’est le réalisme de la Foi, nous dit le Cardinal. Ce réalisme
de la Foi me semble faire écho à un autre texte prophétique, à savoir ce-
lui de Fides et Ratio. Au paragraphe 83, saint Jean-Paul II souligne l’im-
portance cruciale d’une philosophie de l’être qui permette d’entendre
la parole de Dieu selon sa vraie profondeur. Dans cette perspective,
Jean-Paul II affirme : « La parole de Dieu se rapporte continuellement
à ce qui dépasse l’expérience, et même la pensée de l’homme ; mais
ce ‘mystère’ ne pourrait pas être révélé, ni la théologie en donner une
certaine intelligence, si la connaissance humaine était rigoureusement

11 “La Familiaris Consortio trent’anni dopo”, Bologna, Associazione AMBER, 22 gennaio


2012.

739
Jean-Marie Meyer

limitée au monde de l’expérience sensible. La métaphysique se présente


donc comme une médiation privilégiée dans la recherche théologique.
Une théologie dépourvue de perspective métaphysique ne pourrait aller
au-delà de l’analyse de l’expérience religieuse, et elle ne permettrait pas
à l’intellectus fidei d’exprimer de manière cohérente la valeur universelle
et transcendante de la vérité révélée ».
- Le Cardinal Caffarra relevait ensuite le défi du cynisme qui dissout
l’opposition réelle du bien et du mal et rend impensable la compénétra-
tion du choix et du vrai. Ici disparait de l’horizon l’idée même d’un vrai
bien choisi en tant que tel. Tous les choix se valent et, par conséquent,
aucun n’a plus d’importance que l’autre. Dans ces conditions, poursuit
le Cardinal, c’est du réalisme de l’Espérance qu’il nous faut vivre et té-
moigner. En effet, grâce à l’Espérance il est possible d’ancrer notre vie
dans le Bien absolu qu’est Dieu. Ce choix et cette remise de notre per-
sonne – ce don de soi – à Dieu orientent et donnent sens à toute notre
vie. Se savoir enfant de Dieu assure l’unité de notre existence et jette
une lumière d’éternité sur les événements quotidiens de notre histoire.
- Enfin, le Cardinal Caffarra voit dans l’individualisme le dernier
défi à relever. Dans cette situation d’individualisme radical n’existe que
des individus sans liens entre eux. La vie collective n’est plus qu’une
coexistence réglementée prenant en compte les égoïsmes fermés et
opposés. Faute d’un véritable « commun » partagé par les individus la
communauté n’est guère plus qu’une illusion. Par voie de conséquence
l’idée même d’un « prochain » a disparu de l’horizon anthropologique et
éthique. Le réalisme de la charité est la réponse à cette situation de crise
et doit permettre de redécouvrir la beauté et la bonté des liens au travers
desquels les hommes s’ouvrent à la vérité de chaque personne. Cette
vérité c’est que chacune est précieuse et doit être aimée en tant même
que personne. Dans ce contexte, la valeur de la personne est goûtée pour
ce qu’elle est et les communautés auxquelles appartiennent les personnes
sont comprises comme des lieux protecteurs dans lesquels le don et l’ac-
cueil d’autrui constituent les principes des relations interpersonnelles.
On aura remarqué que ces trois défis lancés par le monde contem-
porain trouvent leur réponse, selon l’esprit et le cœur de Carlo Caffarra,
d’abord dans la Sagesse divine à laquelle il nous faut demander les ver-
tus théologales. Mais cette origine divine de ce qui devrait constituer

740
Le Cardinal Caffarra, témoin de la vérité

notre manière de penser et d’agir ne nous éloigne pas du réel. Tout au


contraire elle nous permet de le connaitre, de le corriger lorsqu’il ne
correspond pas aux exigences de la Sagesse et de l’aimer en vérité.

741
Anthropotes 33 (2017)

Memoria del Cardinal Carlo Caffarra

Luigi Negri*

La memoria evoca con infinita gratitudine la figura del Cardinale Carlo


Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna, amico fraterno e carissimo:
una delle personalità ecclesiali che hanno portato con maggiore forza,
con maggiore dignità e anche con eroico sacrificio il peso della fedeltà
alla santa Chiesa e di servizio all’uomo di questo nostro tempo. Nella
sua straordinaria normalità, nell’incontro con lui, si avvertiva che era
un prete, ma un prete della santa Chiesa di Dio, che aveva imparato la
fede sulle ginocchia di sua mamma, in quella sana tradizione popolare
cattolica dell’Emilia e della Lombardia. E a questa fede è rimasto fedele
ininterrottamente e senza un minimo di cedimento lungo tutto la sua
vita, interamente spesa per il servizio della santa Chiesa.
Innanzitutto una grande esperienza di cultura, una cultura che na-
sceva dalla fede e che intendeva – proprio in forza dell’origine della
fede – diventare giudizio vivo sulla realtà personale, familiare e sociale;
servizio effettivo al bene comune della società. Un insegnamento che lo
ha visto, oltre che insegnante nei seminari del nord Italia o in Università
Cattolica, alla direzione dell’allora Pontificio Istituto Giovanni Paolo II
per gli Studi su Matrimonio e Famiglia. Questa realtà fu pensata insieme
a Giovanni Paolo II come una profezia dei giorni contemporanei e di
cui si può dire che, il cardinale, fu effettivo creatore e artefice. Attraverso
questo glorioso Istituto la Chiesa si aprì con intensità di partecipazione,

* Arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio.

743
Luigi Negri

con forza di penetrazione, con intelligenza di comprensione alle vicende


della Famiglia, che già da tempo cominciava ad avvertire i segni di un at-
tacco frontale alla sua esistenza, alla sua identità e alla sua missione e che
gli ultimi anni hanno così dolorosamente radicalizzato con una violenza
inimmaginabile.
Difendere la Famiglia per difendere la Chiesa: riscoprire la sacralità
della Famiglia, per Caffarra, consisteva nel riscoprire compiutamente la
sacralità della Chiesa e l’amore incondizionato alla persona, alla sua vita,
alla sua dignità, alla sua libertà, all’intangibilità della vita in ogni mo-
mento della sua esistenza – senza nessun cedimento – dalla nascita al suo
ritorno nelle mani e nel cuore di Dio. Sui cardini dell’amore alla vita,
alla famiglia e alla Chiesa egli mosse la sua attività di moralista: forse uno
dei più grandi dell’ultimo secolo, nella Chiesa cattolica. Per quanto ri-
guarda la famiglia intuì con acutezza, non solo la profonda analogia fra la
famiglia e la Chiesa, continuatrice della missione di Cristo per la salvezza
dell’uomo e del mondo; ma intuì anche che la famiglia era l’unica possi-
bilità per avere una visione realistica della vita umana e dei rapporti che
l’uomo deve tendere a stabilire con le persone e con le cose. Difendere
e comprendere la famiglia e approfondirne sempre più il mistero, perché
nella sua radice profonda la famiglia è mistero, esattamente come mistero
è la Chiesa: e sono mistero perché sono espressioni, o irradiazioni, del
grande mistero della Trinità. Caffarra ha legato in maniera indisgiun-
gibile la famiglia alla Trinità, poiché la caratteristica determinante della
Famiglia Cristiana è appunto questo essere fatta, costituita, sullo schema
della Trinità. E proprio perché in quanto costituita sullo schema della
Trinità, è anche la rivelazione della natura profonda dell’uomo: Cristo
rivela ad ogni uomo la verità che è in lui. E questa novità l’ha declinata
assorbendo e rielaborando, accogliendo ed evolvendo il grande Magiste-
ro di San Giovanni Paolo II. Il suo insistente richiamo all’insegnamen-
to del Papa Santo, ha come intessuto il punto di riferimento, la trama
comune del suo insegnamento. La riscoperta, quindi, della intangibilità
della vita umana – nel mistero della famiglia come nel mistero della
Chiesa – ha ribadito la innegoziabilità che essa non è a disposizione di
nessuno, di nessuna autorità mondana: soprattutto di quella pervasiva
autorità che cominciava a presentarsi come portante tutti i diritti perché
avente tutti i poteri, ovvero la struttura tecno-scientifica che Benedetto

744
Memoria del Cardinal Carlo Caffarra

XVI indicò come il pericolo di una ritornante tentazione ideologica


della vita, nella società.
Messa a tema così la Famiglia, Caffarra ha enucleato, oltre a questa
identità misterica – che è la vera parte essenziale del mistero della Chiesa
e della sua missione – nei vari interventi che ci ha lasciato fino agli ulti-
mi giorni, in previsione degli incontri che avrebbe dovuto tenere e che
costituiscono in qualche modo il suo estremo testamento spirituale, l’in-
dicazione della responsabilità della paternità e della maternità: un punto
inderogabile della Famiglia Cristiana, chiamata a partecipare in maniera
diretta a quel compito di generazione di uomini nuovi nel mondo – di
cristiani nuovi – che è il compito, la responsabilità ultima, che Dio affida
alla famiglia.
Ma anche sull’educazione, il Cardinal Caffarra ha sempre avuto pa-
role di grande profondità e insieme di grande forza, nei confronti di una
società che andava, lentamente ma inesorabilmente, mettendo in crisi i
punti di responsabilità educativa: la famiglia, la scuola e, non meno gra-
vemente, la Chiesa. L’impostazione della ecclesiologia del Cardinal Caf-
farra, e la sua pastorale, hanno sottolineato fortemente la necessità che la
Chiesa riaprisse il compito educativo. Non era pensabile, per il Cardinal
Caffarra, una Chiesa che guardasse il fenomeno educativo, la responsa-
bilità educativa, come un aspetto opzionale, facoltativo: una Chiesa che
non vive questa attenzione all’aspetto educativo dei suoi figli e, al di là di
questo di tutti gli uomini che sono in questo mondo, è una Chiesa che
vive in modo ridotto la sua identità e ancor più che cerca di sottrarsi alla
sua responsabilità.
Nel suo grande, fulgido, episcopato bolognese, egli si dovette con-
frontare e assumere la responsabilità di maturare e di attualizzare la gran-
de lezione dei suoi predecessori, prima fra tutte quella del Cardinale
Giacomo Biffi. E poi dovette misurarsi, certamente in modo reale, con
quella volontà egemonica delle forze radicali, marxiste ed anche masso-
niche, sviluppando in questo confronto, nella sua umile imperturbabilità,
una forza grandiosa di dialogo e di paternità, non cedendo mai, davvero
mai, alle pressioni e forse anche ai tentativi di ricatto che venivano dalla
mentalità dominante. Questo si è rilevato bene dai messaggi di cordoglio
arrivati al momento della sua morte e, ancor prima, quando ha lasciato il
suo prestigioso incarico di arcivescovo di Bologna: tutti hanno avuto per

745
Luigi Negri

quest’uomo un grande rispetto. Anche gli avversari. Gli avversari non


hanno potuto non riconoscere che il suo modo di essere ed agire, il suo
insegnamento alto, limpido e appassionato, non cedeva mai alla polemi-
ca per la polemica, ma non accettava neppure mai l’intimidazione, alla
ricerca di chissà quale silenziosa presenza, che diventa connivenza con
il mondo. Per questo il Cardinal Caffarra ha sofferto, e molto, anche la
situazione della grande fatica della Chiesa. Sono rimaste lapidarie le sue
affermazioni. Quella a me più cara è: “soltanto un cieco può non vedere
la situazione di gravità della vita ecclesiale”. Egli portava questa fatica
quasi leggendovi una misteriosa chiamata a una forma di martirio nella
Chiesa e per la Chiesa, di cui non aveva neanche previsto la possibilità.
Nella sua incondizionata adesione alla Chiesa e al Magistero del Santo
Padre, la sua generazione – che è peraltro la mia – non poteva pensare
che nella vita della Chiesa si potessero determinare tensioni, debolezze,
collusioni, che rendessero ai cristiani che vogliono vivere la Fede più
faticoso il cammino. Caffarra si assunse fino in fondo il compito di stare
dentro a questa situazione faticosa e di parlare ancor più chiaramente che
in passato, o meglio ancora più decisamente, per investire la vita della
Chiesa e della società di progressivi interventi tesi a centrare continua-
mente il fulcro della questione: la grandezza della famiglia, la difesa della
persona e della sua libertà, l’incremento della partecipazione dei Cristiani
alla vita della società, attraverso la testimonianza della inesorabilità della
dottrina sociale della Chiesa.
L’ho visto fino agli ultimi giorni, ho avuto con lui un rapporto in-
tensissimo, continuativo: io ritengo che non sarei riuscito a sostenere il
peso di un attacco sistematico e assolutamente irrispettoso alla mia vita
e al mio servizio, se non avessi avuto accanto a me, con una capacità di
partecipazione gratuita al mio lavoro, il cardinale Carlo Caffarra, e ho
capito in tutti questi anni che cosa significa il vescovo Metropolita, che
vive la sua funzione metropolitana nei confronti delle diocesi che dipen-
dono dalla sua. Il Cardinal Caffarra mi è stato padre, assumendosi con me
la difficoltà dei passi che erano necessari, il lavoro che dovevo fare per
superare le tentazioni del cedimento, la necessità di rinvigorire le nostre
forze per questa battaglia quotidiana: implacabilmente sereno, ma impla-
cabile testimone di quel Dio che venendo sulla terra e diventando uomo
fra gli uomini, ha chiamato l’uomo a partecipare in maniera concreta,

746
Memoria del Cardinal Carlo Caffarra

già nella concretezza della storia, alla grandezza e alla definitività della
vita di Dio.
La sua improvvisa scomparsa nel momento del ridimensionamento
del Pontificio Istituto per gli Studi su Matrimonio e Famiglia, che era
stata la sua grande opera, la sua impresa, è accaduta quando è sembrato
che si facesse strada, in certi ambiti della vita ecclesiale e soprattutto te-
ologica e pastorale, una concezione drammaticamente pragmatica, una
contrapposizione assolutamente insostenibile fra dottrina e pastorale. Mi
ha sempre accompagnato e confortato in questi anni questa sua afferma-
zione: “la pastorale senza dottrina è un arbitrio”.
Il Card. Caffarra è stato implacabile assertore dei diritti di Dio e della
Chiesa, che si esprime con un servizio effettivo all’uomo e al suo destino
soprannaturale: questo l’ha fatto, sarei tentato di dire, nel candore della
sua presenza. Esso viene indicato nell’episodio della sua vita infantile.
Caffarra, sfuggendo alle cure della mamma con cui andava tutti i giorni
alla prima messa della mattina – mi pare alle 5 – sgattaiolò, si introdusse
nella fila di quanti andavano a fare la Comunione e, tanto era il desiderio
di fare la Comunione, che la fece in anticipo rispetto ai tempi prefissati:
fu così comunicato una mattina, in una messa comune, senza la prepara-
zione ordinaria. La madre, tra l’irritato e il desolato, trasmise al parroco il
suo disappunto per l’accaduto, ma lo stesso parroco le rispose: “Signora,
non ho mai dato in tutta la mia vita la comunione ad una persona che
ne fosse più degna”.
Questo è stato per me il Cardinal Caffarra, e vi ringrazio di avermi
offerto questa opportunità: ho voluto evocarlo nella sua straordinaria
capacità di essere, come si diceva una volta, un autentico Uomo di Dio
e della Chiesa; e quindi uomo per gli uomini e per il mondo, senza
soluzione di continuità contro questa rovinosa volontà di separare, che
intorpidisce la presenza Cristiana nel mondo e la rende tanto incom-
prensibile se non inutile.

747
Anthropotes 33 (2017)

La enseñanza de un maestro y un padre

Juan Antonio Reig-Pla*

Conocí a Carlo Caffarra en el año 1990 en Madrid (España), adonde


había acudido a pronunciar una conferencia. Yo iba con el encargo de
mi arzobispo de proponerle la apertura de una sección del Pontificio
Instituto Juan Pablo II en Valencia (España). Mi impresión al escucharlo
por primera vez la guardo intacta en mi memoria. Comprendí que estaba
delante de un hombre de Dios, de un maestro que unía la profundidad
de los análisis con la claridad de exposición y, a la vez, intuía la sencillez
de un alma atravesada por el don de la «infancia espiritual».
Al hablar con él, y después de muchos años de estar unidos en los
trabajos del Instituto Juan Pablo II, pude comprobar cuanto capté en la
primera impresión y lo descubrí como un verdadero padre. Lo he visto
muchas veces orar a solas en la capilla del Instituto, en la que destaca una
vidriera de las Bodas de Caná, y he deducido que toda su clarividencia y
sencillez brotaban del contacto íntimo con el Señor y de su amor espe-
cialísimo a la Santísima Virgen María. En cierta ocasión, paseando juntos
por la orilla del río Turia en Valencia, me confesó que su gran ilusión
hubiese sido dedicarse a la Mariología como clave para comprender el
misterio de la Iglesia y la misión de la teología. Esta confidencia me ha
ayudado mucho a intuir lo que guardaba en su corazón y que queda ex-
presado en el texto de A. von Speyr, La sierva del Señor.
* Obispo de la Diócesis de Alcalá de Henares y Vicepresidente del Pontificio Instituto
Teológico Juan Pablo II para las Ciencias del Matrimonio y la Familia (Sección
Española).

749
Juan Antonio Reig-Pla

Mi primera lectura de lo escrito por Carlo Caffarra fue su libro Vida


en Cristo. Recuerdo perfectamente que lo encontré en el estante de li-
bros recientes de la librería San Pablo de Valencia. Yo había concluido
mi doctorado en Moral en la Academia Alfonsiana de Roma y buscaba
con verdadero interés un manual de Moral fundamental para ofrecerlo
a los seminaristas y a los alumnos de la Facultad de Teología. Comencé
a leer el libro mientras acompañaba a mi madre enferma y a las puertas
de la agonía. En esa ocasión tan especial se entremezclaron en mí el
dolor por ver a mi madre agonizando y el consuelo de unas páginas que
respondían a lo que de verdad estaba buscando. Esta experiencia ha sido
muy importante en mi vida. Muchas veces he releído la Vida en Cristo
como un tesoro donde se unen la paternidad espiritual de Caffarra y el
consuelo que me alcanzó ante la muerte de mi madre. Curiosamente
entre los textos seleccionados en el libro la Vida en Cristo, Caffarra pro-
pone el siguiente de A. von Speyr: «en el asentimiento, María renuncia
a sí misma, se vacía de sí misma para dejar que sólo Dios obre en Ella»1.
Desde aquel primer encuentro siempre he leído y estudiado todo
lo escrito por el añorado Cardenal, especialmente su Ética general de la
sexualidad, constatando sus análisis agudos y su clarividencia. Ambos as-
pectos se han puesto de manifiesto en sus últimos textos sobre La con-
ciencia en Newman y sobre La reconstrucción de lo humano. Se ha hablado de
estos textos póstumos, que no llegó a pronunciar, como su testamento
espiritual. Lo que es evidente es que en ellos aparece de nuevo y de una
manera nítida toda su clarividencia y su espíritu profético. Siguiendo la
trayectoria de su vida podemos afirmar que nos encontramos ante un
gigante del espíritu, un hombre verdaderamente libre que se puso, sin
reservas, al servicio de la verdad. Recuerdo que cuando lo visité en su
pequeño apartamento en Roma me llamó la atención que en una de las
paredes colgaba un dibujo de Picasso que representaba a Don Quijote y
a Sancho Panza, personajes del inmortal Cervantes. Le pregunté por ello
y me dijo de manera apasionada que era un gran admirador del Quijote
cervantino y me recordó inmediatamente algunos pasajes, entre ellos la
batalla contra los molinos de viento, que citó varias veces en sus confe-
rencias. En el mismo Quijote leemos: «La libertad, Sancho, es uno de

1 A. von Speyr, La sierva del Señor, citado por C. Caffarra en Vida en Cristo, EUNSA,
Pamplona 1992, 182.

750
La enseñanza de un maestro y un padre

los más preciosos dones que a los hombres dieron los cielos, con ella no
pueden igualarse los tesoros que encierra la tierra ni el mar cubre; por
la libertad así como por la honra se puede y se debe aventurar la vida,
y por el contrario, el cautiverio es el mayor mal que puede venir a los
hombres» (Cervantes, El Quijote, 2ª parte, cap. LVIII).
Indiscutiblemente el Cardenal Caffarra tenía alma de Quijote, siem-
pre dispuesto a «desfacer entuertos y a socorrer a los huérfanos», los huér-
fanos provocados por una cultura nihilista que socava las raíces del alma y
nos hace perder el horizonte de la verdad y de la eternidad junto a Dios
nuestro Padre. Como el Quijote, Caffarra ha sido un hombre libre como
ha expresado en uno de los textos inéditos que iba a pronunciar en Lon-
dres sobre la conciencia moral. En él habla de «mi conciencia súbdita y
soberana». Súbdita de la verdad y soberana para ejercitarse en la verdad y
la justicia. Como no podía ser menos, también en el otro texto póstumo
que iba a pronunciar en el Centro Rosetum de Milán, Caffarra, después
de afirmar que «la voz la conciencia sitúa la libertad del hombre ante un
absoluto: un deber absoluto», habla de la posibilidad de falsear la con-
ciencia desde la propia subjetividad y con un acto suyo. Para ello pone el
ejemplo de Sancho Panza que reconoce que merece ser castigado, pero
¡pide darse él mismo los bastonazos! El Cardenal afirma a continuación:
«El gran Cervantes había comprendido a la perfección la falsificación de
la conciencia».

1. El contexto en el que comenzó a enseñar

Todavía es difícil hacerse cargo de lo que significó para la moral cristiana


el periodo posterior al Concilio Vaticano II, sobre todo, tras la promul-
gación de la encíclica del Papa Pablo VI, Humanae vitae (1968). A pesar
de los cincuenta años pasados desde su promulgación, todos los aconteci-
mientos que se vivieron entonces siguen presentes en cierta medida en la
vida eclesial e impiden una mirada con la suficiente distancia para poder
valorar su significado en la Historia de la Iglesia.
Aquellos que vivimos en esos años convulsos del posconcilio inmer-
sos en los estudios morales sentimos entonces, dentro del vértigo general,
la necesidad de una luz para poder orientar los pasos en momentos en
que se perdía el horizonte y se ignoraba hacia dónde ir. Mucho más al

751
Juan Antonio Reig-Pla

ser conscientes de la misión eclesial que en el fondo se nos confiaba y


que parecía muy difícil de afrontar. La coincidencia con la revolución
sexual y cultural de los años sesenta, no ayudaba precisamente a ello. La
asunción precipitada, por parte de muchos moralistas, de algunas pos-
turas éticas extremas vigentes en esos años, se explica por las presiones
enormes que existían en la vida universitaria y cultural dominadas por un
ambiente revolucionario, donde el afán por acabar con formas sociales
determinadas primaba sobre cualquier tipo de propuesta constructiva.
Eran cambios bruscos en muchos ámbitos cuyo alcance sólo se ha po-
dido ver mejor con el paso de los años. Todo ello repercutía con mu-
cha fuerza en la vida interna de la Iglesia que parecía mecerse al vaivén
de las olas sin tener claro el timón. Cosas impensables hace muy poco
tiempo se convertían en puntos de partida para un futuro imprevisible.
La invasión en el campo moral eclesial de la primacía efímera del teleo-
logismo, la tentación cercana de un análisis social de corte neo-marxista,
la presión de los sistemas éticos procedimentales, no se pueden entender
sino como la búsqueda excesivamente veloz de un sustitutivo del orden
moral anterior que se tenía por inválido en cuanto se entendía que había
sido rechazado en el Aula Conciliar2.
Como marco de comprensión de este modo revolucionario de ex-
poner la moral, aparecía el recurso constante a un “cambio de para-
digma”3. Esta innovación escondía, al fin y al cabo, una revolución
de pensamiento que, como en tantos casos, se trataba más bien de una
huida hacia delante que de una reflexión serena nacida de la sabiduría
cristiana. El paradigma moral, en casi todos los casos, vendría de la ética
secular del momento en el cual se situarían de una forma nueva las ca-
tegorías tradicionales de la enseñanza cristiana4. A pesar de las grandes
divergencias que existían entre los autores, el punto en común de lo que
se denominó pronto “nueva moral” era precisamente esa necesidad de
un cambio radical con la tradición precedente. Esto decantó el debate en

2 Por qué el documento denominado De ordine morali fue rechazado: cfr. ASCVII, II S.
praep., 22, 28-57.
3 Según la tesis sostenida por: T. S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolution, The
University of Chicago, Chicago 1970. Cfr. L. Melina, “Le sfide di Amoris laetitia per
un teologo della morale”, en Anthropotes 33 (2017) 233-247, especialmente: 240-244.
4 Es la tesis sostenida por: V. Gómez Mier, La refundación de la moral católica. El cambio de
matriz disciplinar después del Concilio Vaticano II, Verbo Divino, Estella 1996.

752
La enseñanza de un maestro y un padre

dos posiciones: la de la ética autónoma y la moral de la fe5. La primera


no se refería ya a la asunción del concepto de autonomía kantiano, sino
a considerar que la fe solo podía orientar la moral a nivel de actitudes
genéricas y no a nivel de acciones concretas cuya moralidad quedaba a
merced de la interpretación de cada momento histórico a partir de la
ética filosófica vigente, dentro del diálogo ético propio de la sociedad.
La importancia de los cambios se sufría en la enseñanza de teología,
en especial en los seminarios donde se carecía de manuales equilibrados
y se sucedían propuestas dispares a todos los niveles, pero coincidentes
en el rechazo de un patrimonio común que se consideraba pasado. Las
indicaciones preciosas, pero excesivamente generales del Decreto del
Concilio Vaticano II Optatam totius, no eran suficientes para ordenar los
estudios morales y se vivía con una urgencia inusitada la tarea de cambiar
la moral precedente. La exhortación conciliar “póngase especial cui­dado
en perfeccionar la teología moral”, se entendió como “póngase especial
prisa en cambiar la teología moral”. Eran síntomas de un rechazo interior
nacido de la aceptación de una ruptura, con la necesidad de encontrar
una nueva formulación, y se buscaba, no en la tradición de la Iglesia, sino
en el pensamiento contemporáneo como el que podía dar el contenido
que faltaba a una moral cristiana tenida por decadente.
Pablo VI, envuelto en tal vorágine, encargó a la Comisión Teoló-
gica Internacional estudiar el tema de la moral cristiana. Al final, dentro
de discusiones internas, la Comisión pudo proponer de modo genérico
las tesis de Balthasar y de Schürmann que, junto con el pensamiento
de Ratzinger sobre la tradición moral, daban una primera orientación
cristiana a la moral6. Se hablaba de forma nueva de una vida en Cristo
y de qué modo eso suponía una formulación, también renovada, de sus
categorías principales. Se respondía así a la necesidad de conservar la tra-
dición viva de la Iglesia en la convicción de la existencia de contenidos
concretos de conducta como forma necesaria de vida cristiana7. La cen-

5 Lo estudia detenidamente: T. Trigo, El debate sobre la especificidad de la moral cristiana,


EUNSA, Pamplona 2003.
6 Publicados en: J. Ratzinger – H. U. von Balthasar – H. Schürmann, Principios de
Moral Cristiana compendio, Edicep, Valencia 1999. El documento es de 1974.
7 Como lo recuerda: Pablo VI, Alocución a la Comisión Teológica Internacional, 16-XII-1974.

753
Juan Antonio Reig-Pla

tralidad de la cuestión moral se evidenció en los documentos emanados


por la Congregación para Doctrina de la Fe8.
Este es el contexto donde nace, se desarrolla y encuentra su misión
específica la obra y el pensamiento del cardenal Carlo Caffarra que per-
tenecía entonces a la Comisión Teológica y que vivió muy de cerca,
también por sus estudios en la Academia Alfonsiana, la turbulencia de
esos años en el mundo de la moral.

2. El criterio de un maestro

Acercarse a su figura supone en primer lugar reconocer en él al maestro


que quería indicar un camino que él previamente había recorrido. Cum-
pliendo la indicación de Pablo VI, fue maestro porque era testigo9. Su
figura emerge como una respuesta a nivel eclesial a la necesidad urgente
en la Iglesia de unos fundamentos sólidos donde construir la enseñan-
za moral de la Iglesia, para lo cual empeñó la vida, la fama y la salud
con una generosidad asombrosa. Es importante comprender esto para no
perder su auténtica dimensión. La obra escrita de Caffarra está referida
a su enseñanza directa donde se mostraba siempre como un testigo de
la fe y exponía de forma creíble las respuestas a las preguntas profundas
del hombre. Antes que un estudioso o un intelectual que comunica los
resultados de sus estudios, él en cualquier ocasión mostraba la riqueza de
la fe que hacía presente en sus palabras. Lo hacía centrando las preguntas
reales que latían detrás de los dilemas morales. Una vez determinada la
cuestión verdadera, es donde la respuesta resultaba clarificadora. Sabía
hacer preguntas porque sabía también la claridad de las respuestas. Esa era
su virtud más marcada, mostrar de qué modo la luz de la fe servía para
iluminar la vida concreta de las personas. De aquí es de donde nacía su
pensamiento siembre volcado a su comunicación de un modo generoso
y humano. Su deseo de claridad nacía de la conciencia de los males que

8 Como son: Congregación para la Doctrina de la Fe, Declaración De abortu


procurato, 18-XI-1974; Id., Declaración Persona humana sobre algunas cuestiones de
ética sexual (29-XII-1975); Id., Declaración De euthanasia, 5-V-1980; Id., Instrucción
Donum vitae sobre el respeto de la vida humana naciente y la dignidad de la procreación,
22-II-1987.
9 Cfr. Pablo VI, Ex.Ap. Evangelii nuntiandi, n. 41.

754
La enseñanza de un maestro y un padre

la confusión generaba en la Iglesia y más en el campo moral donde se


aboca a las personas a sufrir tanto en sus vidas.
El camino emprendido por Caffarra era la respuesta adecuada. La
deriva eclesial que hemos narrado antes se debe en gran medida a un
error en la fe que no se concibe como vida. Por eso se había desgajado de
la enseñanza bíblica y proyectaba una interpretación sacramental proble-
mática10. Era necesario profundizar en la vida de la fe para dar una orien-
tación, no se trata de aplicar normas recibidas por la fe, sino en descubrir
la fuente de vida que es la misma fe.

3. La vida en Cristo

Resulta natural que su obra central se llame Vida en Cristo11. No es en


él un título sin más, sino expresión exacta de su forma mentis. Compren-
der la moral directamente como la expresión natural de la vida cristiana
que nace del encuentro con Cristo y, por ello, algo que está presente en
todo cristiano por el bautismo, y que, de modo natural, conduce a una
reflexión que sirva para profundizar en sus principios y su ordenación.
El modo concreto de concebir el alcance de esta vida cristófora se
alimentaba de testigos singulares de la fe: Kierkegaard, Rosmini, New-
man. En ellos la vida personal y la enseñanza se hacen uno, de forma que
el mismo mensaje se vuelve creíble. Siempre bebió de estas fuentes con
el fin de introducirse mejor en el misterio que nos salva. Los tres pensa-
dores fueron especialmente conscientes del desafío que suponía para el
cristianismo un modo sociológico de entender la fe y la necesidad de una
respuesta que apuntara a la conciencia del cristiano que en sí misma se ha
de conformar a la de Cristo.
No se trataba simplemente de coordinar diversas aportaciones teoló-
gicas como el cristocentrismo objetivo y la conciencia y libertad filiales.
No consistía en ordenar ideas en un sistema más completo que ayude a
comprender una propuesta intelectual. Era más bien individuar siempre

10 Para comprender este periodo hasta la Veritatis splendor: cfr. J. Ratzinger, “Il
rinnovamento della teologia morale: prospettive del Vaticano II e di Veritatis splendor”,
en L. Melina –J. Noriega (a cura di), “Camminare nella Luce”. Prospettive della teologia
morale a partire da Veritatis splendor, Lateran University Press, Roma 2004, 35-45.
11 Cfr. C. Caffarra, Vida en Cristo, EUNSA, Pamplona 1988 (2ª ed. 1999, 3ª ed. 2010).
El original es: Id., Viventi in Cristo, Jaca Book, Milano 1986.

755
Juan Antonio Reig-Pla

la presencia real en la acción humana de Cristo salvador y la necesidad


radical de cada persona de un encuentro con Cristo para poder encontrar
su propia identidad.
Eso es lo que movía su pensamiento y se expresaba de forma natural
en su modo de comunicarlo en todo tipo de enseñanzas, como confe-
rencias, cursos, encuentros. En todos ellos se ofrecía a sí mismo en una
relación personal llena de amistad y confianza.

4. La experiencia moral como lugar de gracia

La gran fuerza de la propuesta de Caffarra era acercarse a la experiencia


moral del hombre que actúa y descubrir en ella la presencia de la gracia.
Este es el fundamento de cualquier metodología moral que no puede
ver la vida cristiana desde fuera, sino que se ha de insertar en ella12. De
esta forma se da unidad a lo específicamente humanum, que no puede ser
sustituido por una visión cientificista que pierde esta mirada unitaria13.
Esta correlación tenía en él una fuente kierkegaardiana sobre la que es-
tablecía, según la interpretación de Cornelio Fabro, una relación entre
el momento de la libertad humana y el don de Dios al hombre como
realización del existencial cristiano, en donde el hombre encuentra su
identidad.
Así presentaba la vida de Cristo como motor de libertad, y se alejaba
directamente ya sea de la concepción normativista de una obligación
exterior, como la meramente formal autonomista, vacía de contenidos.
La experiencia moral le permitía ver la moral como lo serio de la exis-
tencia, donde el hombre se juega su destino eterno ante Dios. Así como
la fe forma un todo incomparable que es recibido, la moral contiene la
recepción de la donación de Dios en Cristo en vista de la plenitud hu-
mana en el plan de salvación de Dios. Siempre impresionaba la fuerza de
la eternidad que latía en sus palabras como fuente que vivifica el corazón
del hombre. Esto caracterizaba su forma de abordar la Escritura donde

12 Cfr. C. Caffarra, “Appunti per un metodo in teologia morale”, en Teologia 1 (1976)


36-50.
13 Cfr. C. Caffarra, “Teologia morale e scienze positive”, en Studia Moralia 14 (1976)
121-133.

756
La enseñanza de un maestro y un padre

los textos se hacían vitales porque los leía desde la dramática interna del
hombre que responde a Dios.
Por ello, aborrecía cualquier modo de relativizar la experiencia de
absoluto contenida en tal experiencia o concebir la interioridad humana
a modo de un vacío. La presencia de Cristo en nuestras acciones concre-
tas era entonces el lugar natural de la moral donde resuena la voz de Dios
que nos guía en el camino donde descubrimos la plenitud de nuestra
existencia en Cristo. Un lugar habitado por la Iglesia en una comunión
primera ofrecida que el hombre recibe como un don y que, del mismo
modo que Newman, es la formación primera de la conciencia cristiana
que es dócil a la voz de Dios que escucha por la autoridad de la Iglesia.
Este es su planteamiento que expresa de forma muy testimonial en la
Vida en Cristo que quiere acercar al lector a las intuiciones fundamentales
que le permiten rastrear la verdad de esa acción del Espíritu, en donde
siempre impactan los testimonios de textos fundamentales de santos que
denomina Meditación de la Esposa, porque guían al reconocimiento de esa
acción de la gracia.
En él no se trataba de meras reflexiones, sino de una sabiduría del
hombre que toca lo más profundo de los deseos humanos y que se puede
rastrear en cada vida. Era la luz que le permitía mostrarlo en su enseñanza
donde las cuestiones que proponía atraían la atención de los que le escu-
chaban porque se sentían fuertemente identificados con ella.

5. El plan de Dios y las catequesis: la ética de la sexualidad

Es imposible referirnos al Cardenal Carlo Caffarra sin tener en cuenta un


acontecimiento que marca toda su existencia: el encuentro y la amistad
con San Juan Pablo II, concretado en la misión de fundar el Pontificio
Instituto Juan Pablo II para los estudios del matrimonio y la familia. Se
trata de una consecuencia de su intervención en el Sínodo de la Familia
de 1980. Admirado por sus conocimientos y por la profundidad de sus
análisis, San Juan Pablo II decidió elegirle para esta tarea. Su vínculo fue
tan estrecho que ambos hablaban de nuestro Instituto14.

14 Cfr. Juan Pablo II, Discurso a los profesores y alumnos del Pontificio Instituto Juan Pablo
II para los estudios del matrimonio y la familia, 31-V-2001, donde habla de “nuestro
Instituto”.

757
Juan Antonio Reig-Pla

No era una simple tarea sino una misión que ha caracterizado su vida
hasta su muerte señalada después de sus intervenciones en los dos síno-
dos sobre la familia de 2014 y 2015 y su formulación filial de los dubia
que siguen estando presentes en la vida de la Iglesia. Todo parte de una
tarea recibida de Juan Pablo II que el entonces profesor de teología se
ve llamado a desarrollar. En primer lugar, recibe una convicción con la
que habló largamente con el Papa polaco, de que el punto fundamental
era una pérdida de la identidad en referencia a Cristo. Es lo que narraba
Ramón García de Haro del primer encuentro de profesores del Instituto
con San Juan Pablo II: “la tragedia del hombre de hoy es que se ha olvidado de
quién es: ya no sabe más quién es”15. Además, le entregó en depósito una
primera herencia de un valor inmenso: las Catequesis sobre el amor humano
que iba pronunciando a lo largo de esos años y que Carlo Caffarra recibe
como encargo para el Instituto editar con estudios introductorios donde
él hace el prólogo general que marca la lectura de la obra y es un criterio
de interpretación de la misma16.
De aquí que, sin apartarse en ningún momento de la experiencia
moral fundamental, desciende a ver de qué modo la verdad de Cristo,
que ilumina la vida concreta de las personas, ilumina también la verdad
de la sexualidad humana. Si se vio envuelto de forma directa en los de-
bates sobre la Humanae vitae, su interés no era solo defender una norma
sino la verdad que está en juego en el sentido de que: “la gramática que
rige el lenguaje de la persona que es la sexualidad, es la gramática del don
de sí”17.

15 R. García de Haro, “In memoriam”, en Anthropotes 12 (1996) 8: “la tragedia dell’uomo


di oggi è che si è scordato chi è: non sa più chi è”.
16 En la edición que se ha hecho como “normativa” una vez fallecido San Juan Pablo
II, se ha conservado la introducción general como expresión de un texto permanente
al respecto: C. Caffarra, “Introduzione generale”, en Giovanni Paolo II, L’amore
umano nel piano divino. La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio nelle
catechesi del mercoledì (1979-1984), a cura di G. Marengo, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 2009, 77-99.
17 C. Caffarra, “Il messaggio dell’‘Humanae vitae’: aspetti teologico-dottrinali. Lectio
magistralis”, en E. Giacchi –S. Lanza (a cura di), Humanae Vitae: attualità e profezia
di un’Enciclica, Ricerche: Bioetica e Medicina, Vita e Pensiero, Milano 2011, 43: “la
grammatica che regge il lingguagio della persona che è la sessualità, è la grammatica
del dono di sé”. Ha tratado por extenso este tema en su magnífica: C. Caffarra, Ética
general de la sexualidad, EIUNSA, Barcelona 1995, cuyo original es: Etica generale della
sessualità, Ares, Milano 1992.

758
La enseñanza de un maestro y un padre

6. Un servicio a la Iglesia que permanece abierto

La tarea empeñada ha sido de un gran valor por lo que supuso al en-


tonces profesor Caffarra la misión de aglutinar una investigación moral
a nivel internacional centrándola en los puntos más fundamentales que
en él siempre giraron en torno a la persona y al amor esponsal. La pri-
mera materialización de eso fue el Congreso Internacional de Teología
Moral Persona, verità e morale, del año 198618. No solo reunió a un gran
número de moralistas sobre temas nuevos, sino que el discurso del Papa
Juan Pablo II fue un primer paso para la encíclica Veritatis splendor que
anunció en 198719. En este discurso el Papa ya adelantaba los dos puntos
principales del futuro texto pontificio: la existencia de actos intrínseca-
mente malos y la no creatividad de la conciencia respecto de la ley20.
Allí se defendía esa verdad del hombre contra algo que la deshace y que
el maestro comprendía como una amenaza terrible21.
La frescura de su pensamiento lo abría siempre a las nuevas cuestio-
nes que aparecían en el debate moral y cultural. Como pastor considera-
ba necesario iluminar a los fieles, también a los más sencillos que son los
más desvalidos. Es la tarea que desarrolló en su etapa de obispo, donde
nunca dejó de estar cercano a las personas, pero siempre como maestro
en la fe y padre de sus sacerdotes.
Hasta el final de su vida el Cardenal Caffarra se distinguió por la
valentía de buscar la verdad para servir a la Iglesia. Esta valentía está vin-
culada con la sabiduría de la alianza de Dios en el corazón del hombre

18 Cfr. Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia.


Università Lateranense –Centro Accademico Romano della Santa Croce.
Università di Navarra, Persona, verità e morale. Atti del Congresso Internazionale di
Teologia Morale (Roma, 7-12 aprile 1986), Città Nuova, Roma 1987. De Carlo Cafarra
es: “Il peccato e le sue forme”, en Ibid., 435-440.
19 La anuncia en: Juan Pablo II, C. Ap. Spiritus Domini, 1-VIII-1987.
20 Cfr. Juan Pablo II, Discurso a los participantes al Congreso Internacional de Teología moral,
10-IV-1986.
21 Cfr. C. Caffarra, “Humanae vitae: venti anni dopo”, en Pontificio Istituto
Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia. Università Lateranense
–Centro Accademico Romano della Santa Croce. Università di Navarra,
“Humanae vitae” 20 anni dopo. Atti del II Congresso Internazionale di Teologia Morale
(Roma, 9-12 novembre 1988), Ares, Milano 1989, 194: “il più grave che la storia
spirituale dell’umanità abbia conosciuto. Esso è costituito dall’affermazione della
creatività della coscienza. La coscienza non è più luogo dell’ascolto della voce divina, ma
è essa stessa la fonte che ultimamente decide ciò che nell’agire intra-mondano dell’uomo
è moralmente lecito o illecito”.

759
Juan Antonio Reig-Pla

por la creación. Esta alianza se hace plena y visible en Jesucristo, vida


nuestra que nos introduce en la comunión trinitaria. De aquí que su ma-
gisterio y su vida sean muestra del amor íntimo de Dios que es expresión
de misericordia. “La verdadera «compasión» hacia el hombre despojado
de la originalidad de su persona, nos recordaba Caffarra, es reconducir-
lo a sí mismo, a su verdad: no es ofrecerle pensamientos que son solo
profilácticos contra una infección mortal para su dignidad real”.22 Que
nuestro maestro e iniciador del Pontificio Instituto Juan Pablo II, por la
misericordia de Dios, descanse en paz.

22 C. Caffarra, “La verdad y fecundidad del don”, en L. Melina –S. Grygiel (dir.),
Amar el amor humano. El legado de Juan Pablo II sobre el Matrimonio y la Familia, Edicep,
Valencia 2008, 202.

760
Anthropotes 33 (2017)

Il Vangelo come Evento e Comandamento. Sull’episte-


mologia teologico-morale di Carlo Caffarra (1938-2017)

Pierangelo Sequeri*

SUMMARY: While teaching in Milan, Professor Carlo Caffarra presented


to the inaugural issue of the journal “Theology” (n. 1, January 1976) an
important essay on the fundamental epistemological structure of moral theolo-
gy. These notes highlight the key points and relevance of that approach, with
special reference to its integration with the fundamental theology of faith.

Nel gennaio del 1976, poco più di quarant’anni orsono, vedeva la luce
il primo numero della rivista “Teologia”, pubblicazione scientifica della
Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. In quel numero, inaugurale
e programmatico, condividevo l’onore della firma con Giuseppe Ange-
lini, Inos Biffi, Giuseppe Colombo. E con Carlo Caffarra, allora docente
di teologia morale in quella Facoltà. La rivista si proponeva – per altro
senza nessuna preclusione all’intero campo degli interessi teologici – di
focalizzare il suo asse principale di ricerca sulle questioni relative al “me-
todo”. In quella cornice programmatica, Carlo Caffarra offriva il suo
lucido contributo1.

* Preside del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del
Matrimonio e della Famiglia.
1 C. Caffarra, “Appunti per un metodo in teologia morale”, in Teologia 1 (1976) 36-
50, d’ora in avanti AM.

761
Pierangelo Sequeri

Nonostante il quasi mezzo secolo trascorso, percepisco la possibilità


di confrontarsi e di apprezzare l’illustrazione del modello di teologia
morale, qui descritto e argomentato, in termini che appaiono di intat-
ta capacità interlocutoria anche per l’orizzonte della contemporaneità.
Rileggendo il testo, devo dire che il carattere avanzato delle formule e
dell’impianto adottati da Caffarra, per la costruzione del suo modello, mi
comunicano un effetto di sorpresa, per la precisione delle loro formula-
zioni e l’originalità delle loro anticipazioni, che forse non mi aveva rag-
giunto con la stessa forza in quel tempo. Raramente, del resto – lo nota
giustamente Caffarra all’inizio del suo saggio – i teologi moralisti si erano
impegnati nella messa a punto del modello strutturale e non semplice-
mente organizzativo della teologia morale. Il rigore metodologico dell’e-
sercizio della teologia morale chiede che essa, dal suo interno, riprenda
per proprio conto la questione su “che cos’è” e “che cosa fa” la teologia
cristiana. Non basta che la teologia morale addotti estrinsecamente, come
presupposto, un modello generale della teologia come intellectus fidei,
che ne definisce la struttura cognitiva a prescindere dall’appello che la
rivelazione di Dio rivolge all’intenzionalità dell’agire. In quanto ha come
suo oggetto l’Evento salvifico fondamentale”, colto nella sua intrinse-
ca esigenza di “produrre mediante la prassi umana una storia salvifica”,
la teologia morale “comunica con tutte le altre discipline teologiche”.
In quanto “considera la valenza pratica” di questa istanza, assumendo
come tema proprio la dimensione in cui il Vangelo si presenta come
Comandamento, la teologia morale si distingue dalle altre articolazioni
disciplinari del sapere teologico (AM, 36). La densità di questa formu-
la, che costituisce il perno della riflessione metodologica (ma direi, più
profondamente, epistemologica) consegnata da Caffarra a quelle pagine,
suggerisce qualche sottolineatura di taglio propositivo anche per l’oggi.
In primo luogo, l’uso del sintagma “Evento salvifico fondamentale”,
per indicare la “Rivelazione di Dio in Cristo”, appare come un’anticipa-
zione categoriale la cui pertinenza, forse, è ancora più pregnante oggi, di
quanto non lo fosse al tempo della redazione di questo scritto. “Evento”,
nonostante l’incoraggiamento della Dei Verbum ad intendere la rivela-
zione nella stretta congiunzione di “fatti e parole intimamente connessi”
(ossia come “storia rivelatrice”, e fondamentalmente come storia rive-
latrice “di Gesù”), non era ancora di uso corrente nella stessa teologia

762
Il Vangelo come Evento e Comandamento

fondamentale, con la pregnanza sintetica (fenomenologica, ontologica e


teologica) con la quale appare qui.
La formula è ben calibrata: recepisce la sollecitazione, ormai condi-
visa dalla teologia e dal magistero, alla piena riabilitazione della dimen-
sione soteriologica, e non puramente ontica e cognitiva, dell’evento rive-
latore. La rivelazione storica, che si compie nell’evento di Gesù Cristo,
è costitutivamente una comunicazione di Dio nostrae salutis causa. La sua
realtà, la sua verità, il suo appello si lasciano compiutamente intendere
in rapporto alla nostra distanza storica dall’amore di Dio (il peccato del
mondo) e alla nostra destinazione ultima alla comunione con Lui (la
vita eterna). Il “Vangelo” di questo Evento assume, proprio a partire
dalla storia di Gesù, e in riferimento alla nostra, la forma di “Comanda-
mento”. L’efficacia di questa formulazione categoriale della correlazione
corrisponde perfettamente alla struttura della fede – richiesta e resa pos-
sibile – dall’effettività di un accadere salvifico che ha la forma di appello
all’azione dell’uomo nel momento stesso in cui si manifesta come irre-
vocabilità della dedizione di Dio. La fede stessa è obbedienza all’amore
di Dio, in quanto la rivelazione stessa è ingiunzione dell’amore di Dio.
Il fatto che questa correlazione del Vangelo e del Comandamento, come
logos e come nomos, si lasci iscrivere radicalmente nella forma dell’Evento
(cristologico), e non anzitutto in un apparato di enunciati e di norme
che le assicurerebbero estrinsecamente una pensabilità e una praticabilità
che altrimenti non potrebbe esprimere, è la ragione di intrinseca coerenza
della teologia dell’atto di fede con la teologia dell’atto morale2.

2 Mi fa piacere annotare qui il fatto che io stesso ho cercato di riabilitare questo intrinseco
rapporto, dal punto di vista della teologia fondamentale: sia collocando a mia volta il
principio rivelatore nella figura dell’Evento fondatore (coerente con il fatto che la sua
assolutezza ontologica si costituisce nella effettività dell’accadere), sia insistendo sulla
intrinseca connessione di verità e giustizia che ne definisce l’appello incondizionato
e – rispettivamente – la libera consegna della fede. Cfr. P. Sequeri, Il Dio affidabile,
Queriniana, Brescia 1996. Nell’intrinseca circolarità di Evento e Comandamento, qui
brillantemente delineata da C. Caffarra, colgo ancor meglio oggi la posta in gioco,
alla quale dedico l’impegno maggiore della mia ricerca attuale. Del resto, con ogni
evidenza, sembra proprio lo scioglimento di quella circolarità il fattore determinante
del processo che va estenuando congiuntamente la coscienza credente e l’esperienza
etica: incominciando proprio dal loro unitario rimando alla nominazione di Dio come
creatore e salvatore dell’umano.

763
Pierangelo Sequeri

La precisione del raccordo, formulato in questi termini, è di speciale


rilievo per l’attualità: dove spesso, per evitare l’estrinsecismo della ridu-
zione ideologica e normativa della rivelazione, si enfatizza a tal punto
l’irriducibilità della fede cristiana alla costituzione di un sistema morale,
da mettere in difficoltà anche l’intrinseca connessione dell’atto di fede (e
della sua verità) con l’ingiunzione dell’amore (e della sua giustizia).
L’integrazione proposta nella formula di Caffarra include invece il
dinamismo dell’attualizzazione dell’evento rivelatore nella struttura stessa
della sua attuazione. Non si tratta – interpreto – di far semplicemente
rivivere, o anche soltanto di mettere in pratica, una verità della rive-
lazione ormai consegnata alla memoria storica. Si tratta di metterla in
atto nella sua qualità – sempre aperta e mai saturabile storicamente – di
appello e ingiunzione. E proprio in questo modo, di darle il suo effetto
di rivelazione, mettendo in opera il suo senso compiuto. L’immanenza
della pratica etica all’esperienza di rivelazione, mediata dall’accoglienza
e dall’obbedienza della fede, consente di valorizzare la specificità irridu-
cibile della forma etica dell’esperienza: “È necessario perciò richiamare
il fatto che il problema etico in quanto problema teologico presuppone
almeno due verità. La prima consiste nel fatto che l’Evento salvifico
fondamentale possiede essenzialmente una valenza pratica, che esso non
è soltanto Parola e Fatto ma anche essenzialmente Comandamento. La
seconda consiste nel fatto che l’esperienza etica è un’esperienza umana
irriducibile a qualsiasi altra esperienza” (AM, 37). Il carattere originario
di questo intreccio, che esplicita una coerenza di lettura della storicità
della rivelazione enunciata da Dei Verbum (“fatti e parole intrinsecamente
connessi”), è tanto più suggestivo nel nostro contesto, dove il carattere
di interdetto e di ingiunzione del comandamento è sospettato di nuocere
alla originaria trasparenza positiva e propositiva della rivelazione. Questo
sospetto, in realtà dipende proprio dal difetto di elaborazione epistemo-
logica della teologia morale fondamentale, che troppo scarsamente ha ri-
flettuto sul legame strutturale dell’ingiunzione morale con l’obbedienza
teologale che caratterizza la fede (et quidem il sapere della fede).
L’esigenza culturale – storicamente giustificata – di disincagliare il
tema dell’ingiunzione morale dal sospetto di eteronomia dispotica e di
primato dell’interdetto, ha favorito anche l’inclinazione – certamente
problematica – a sottovalutare l’intrinseca affinità della libera obbedienza

764
Il Vangelo come Evento e Comandamento

che istituisce la fede con l’esperienza dell’adesione credente all’istanza


morale. Quella appunto che l’evento fondatore riassume nella pratica
della giustizia dell’amore, rispettivamente di Dio e del prossimo. L’inte-
grazione dell’intreccio originario (parola, fatto, comandamento) restituisce
l’evento rivelatore alla bellezza del suo ordinamento alla pratica della
giustizia e alla trasformazione della storia: precisamente in questo sta il
suo carattere positivo e propositivo.
Il dinamismo antropologico della recezione etica dell’evento fonda-
tore – che in verità è il dinamismo stesso della sua costituzione storica
– ne risulta più chiaramente intrinseco alla rivelazione medesima. Pro-
prio il rigore di questo impianto fondativo apre direttamente la strada al
suo esercizio ermeneutico. Non solo perché la declinazione antropo-
logica dell’ingiunzione non è estrinseca all’intelligenza teologica della
rivelazione, in quanto si offre con un unico atto alla libertà che istituisce
l’auto-determinazione cognitiva ed etica del soggetto umano. Ma so-
prattutto perché, chiamandola in causa, l’autorizza e la rende possibile
come atto teologale e come effetto salvifico. Di qui viene una impor-
tante conseguenza, di rilievo squisitamente antropologico. L’ingiunzio-
ne iscritta nella rivelazione (il Vangelo in quanto Comandamento, nel
lessico di Caffarra), restituisce e sigilla l’esperienza etica come struttura
originaria dell’accadere umano dell’uomo: non soltanto dell’idealità sog-
gettiva (la “coscienza”), ma anche, indissolubilmente, della prassi storica
(la “vita”)3. La “irriducibilità” dell’esperienza etica – che non è sem-
plicemente la coscienza, né semplicemente l’azione – rispetto a qualsiasi
altra esperienza, è infatti confermata dalla sua posizione interlocutoria
nei confronti dell’evento rivelatore, che precisamente ad essa fa appello.
Il Comandamento, spiega Caffarra, “in quanto veicolo di un operandum
si rivolge all’uomo in quanto soggetto etico presupponendone la etici-
tà, una dimensione che appartiene all’umano come tale. Senza questa
presupposizione l’Evento non potrebbe mai assumere per l’uomo la for-
ma di Comandamento e venir conosciuto come tale da nessuno” (AM,

3 Il tema dell’esperienza morale come struttura originaria della coscienza umana, in


quanto coscienza e in quanto umana - sostanzialmente disatteso, con poche eccezioni
(P. Ricoeur, E Levinas, H. G. Gadamer) – rimane istanza fondamentale anche
nell’elaborazione teologico-morale, pur diversamente argomentata, di G. Angelini,
“Teoria ed esperienza morale nel presente”, in Id., Teologia morale fondamentale, Glossa,
Milano 1999, 31-53.

765
Pierangelo Sequeri

38)4. Naturalmente, questa presupposizione viene all’altezza dell’istanza


etica soltanto attraverso l’illuminazione dell’atto creatore di Dio: che
pone l’uomo all’altezza di questa indeducibile disposizione ontologica
per la qualità morale dell’origine e della destinazione dell’umano. “Si
tratta allora di un’intelligenza dell’umano che, partendo dal presupposto
che l’uomo, in forza del gesto creativo di Dio, porta in se stesso inscritte
le direzioni ultime secondo le quali egli deve liberamente realizzarsi, in-
tende scoprire queste radicali indicazioni del suo cammino verso il suo
Bene supremo” (AM, 38). In questo movimento di ricerca e di scoperta
devono naturalmente essere assunti tutti i dati riguardanti l’esperienza
umana, per essere confrontati con l’intelligenza critica indirizzata all’ap-
prezzamento della loro rilevanza etica.
È da notare, in questa elaborazione del modello, la sorveglianza del
lessico, che indica già di per se il tracciato della corretta interpretazione
fenomenologica del fatto morale. Caffarra parla di “esperienza etica”
– non semplicemente di coscienza o di atto – come dato originario e
sintetico dell’instaurarsi del fatto morale.
L’esperienza etica, infatti, in quanto dato originario, indeducibile e
irriducibile del dover-essere morale, è più che l’idealità della coscienza
riflessiva o la soluzione del caso pratico. Essa è piuttosto l’effettività della
postura etica dell’umano, in cui si dispone già sempre l’attività della co-
scienza e la coscienza dell’azione. Effettività che rimanda ultimamente
alla sua connaturalità con l’incondizionato della giustizia dell’amore, me-
diata storicamente dall’esperienza della relazione inter-soggettiva e socia-
le. Poiché, d’altra parte, la naturale possibilità (come potentia oboedientialis)
della comprensione del Comandamento di Dio a riguardo della giustizia
dell’amore “non può avvenire che nella grazia e mediante la grazia” (e
dunque mediante la decisione della fede di affidarsi alla comunione del
Figlio con il Padre), il Comandamento di Dio in Cristo introduce una
correlazione asimmetrica fra l’eticità umana e l’obbedienza credente. La
conoscenza del Comandamento è resa possibile dalla disposizione cre-
aturale dell’eticità; però la conoscenza del Comandamento esercita la
sua signoria sull’eticità umana, incalzandola – pedagogicamente e anche
criticamente – verso la destinazione al compimento reso possibile dalla

4 Proprio come il fatto che una Rivelazione “non accolta da nessuno non sarebbe più
tale”, AM, 44.

766
Il Vangelo come Evento e Comandamento

grazia. La teologia morale si distingue dall’etica filosofica precisamente


in ragione del fatto che assume questa signoria – nella fede – come Legge
suprema (o anche, sempre sul filo dell’analogia esplicativa, Norma fonda-
mentale). “Da questa riflessione deriva – specifica il Nostro – un corol-
lario assai importante: esiste una distinzione fra Comandamento di Dio in
Cristo e norme morali o criteri”. Si tratta naturalmente di una distinzio-
ne, non di una separazione o contrapposizione. In ogni caso non c’è pura
e semplice sovrapposizione o identità. Questa distinzione “è fondata sul
fatto che la norma non è che la conoscenza elaborata teologicamente del
Comandamento: caso particolare della distinzione teologia-fede-Rivela-
zione” (AM, 46-47). L’elaborazione teologica della norma come ipotesi
di coerenza della determinazione etico-pratica corrispondente al Co-
mandamento fondamentale dà luogo a giudizi-proposizioni che “espri-
mono la conoscenza attuale che essa possiede del Comandamento di Dio
in Cristo”. È appunto il lavoro della teologia morale in quanto scienza
normativa5. “Questa conoscenza ha valore ipotetico sia nel senso che
essa è rivedibile e quindi superabile, (il superamento non è da concepirsi
come negazione del già acquisito), sia nel senso che essa esige che ogni
suo momento conoscitivo sia coerentemente integrato nel tutto unitario
che è la Rivelazione di Dio in Cristo […] sia perché l’azione dello Spiri-
to nella Chiesa la introduce ad una conoscenza sempre più profonda del
Comandamento, sia perché l’intelligenza dell’eticità avviene progressi-
vamente” (AM, 47).
L’argomentazione di questa correlazione, e della circolarità dei di-
versi momenti della sua elaborazione, è appunto il lavoro della teolo-
gia morale. Parafrasando un testo assai pregnante del De Veritate di San
Tommaso d’Aquino6, sintetizza Caffarra, “si potrebbe anche dire così:
il Comandamento di Dio in Cristo è unico e incommensurabile, è la
stessa Carità di Cristo (amatevi come io vi ho amato), ma l’intelligenza
umana (teologia morale) lo coglie sempre scomponendolo nelle sue va-
rie parti […]; e perciò assentendo a un giudizio-proposizione la teologia
tende verso la conoscenza piena del Comandamento” (AM, 48).

5 Carlo Caffarra assume dichiaratamente, come riferimento di senso, la definizione


formale di Husserl: “è normativa la scienza che elabora norme normalizzanti legate
alla norma fondamentale” (cfr. AM, 46 e nota 23).
6 San Tommaso d’Aquino, De veritate, q. 14, a. 8, ad 5m.

767
Pierangelo Sequeri

Naturalmente, la teologia morale non lavora in presa diretta e come


in uno spazio vuoto tra l’Evento-Comandamento e l’elaborazione della
sua articolazione in giudizi-proposizioni (norme, criteri) destinate all’o-
rientamento della decisione morale nell’ambito della problematica etica
di volta in volta emergente. La regola teologica inerente alla forma catto-
lica, implica l’assunzione di un contesto di scoperta di acquisizione della
Rivelazione (e quindi del Comandamento) istituito da una “costella-
zione comprendente tre grandezze, Scrittura – Tradizione – Magistero,
nel senso indicato dalla Dei Verbum” (AM, 39). A questo riguardo, mi
limito a citare due passaggi del testo, di esemplare chiarezza e rigore in
ordine alla visione cattolica della distinta operatività e della indissolubile
circolarità di questo ordine di referenza dell’intelligenza teologica della
Parola di Dio. Il primo passaggio descrive chiaramente il senso cattoli-
co del primato della sacra Scrittura. “La Chiesa ha sempre riconosciuto
come ‘suprema regola della fede’ la Scrittura (cfr. DV, 21), ma la stessa
Scrittura non diviene ‘viva voce del Vangelo’ se non è resa attuale dalla
vivente tradizione della Chiesa. La sola Scriptura non è sufficiente, in
quanto essa diventa viva nella vita-fede della Chiesa, così come la vi-
ta-fede della Chiesa è governata dalla Scrittura […] Per questo la Scrit-
tura è norma-non-normata e la Tradizione è norma-normata (dalla Scrittura)
della fede e della prassi del singolo fedele” (AM, 41-42). La progressiva
comprensione dell’Evento rivelatore, insomma, vive e vivifica la Chiesa di
ogni tempo proprio attraverso la circolarità di questa distinta e conver-
gente funzione normativa. Dall’altro lato, esiste anche un momento di
discernimento autorevole, interno alla forma ecclesiale di questo dinami-
smo della fedeltà creativa alla Parola di Dio, assicurata dalla correlazione
di Scrittura e Tradizione. “Sia la Tradizione che il Magistero trasmettono
lo stesso ‘Deposito’ e lo interpretano, ma in modo diverso. In quanto ‘il
compito di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o traman-
data è stato affidato al solo Magistero vivo della Chiesa’, e pertanto solo
nella funzione propria del Magistero la Tradizione si esprime in maniera
pienamente visibile e normativa […] Il Magistero morale della Chiesa
è per la teologia morale la fonte ultimamente normativa, attraverso la
quale essa conosce il Comandamento di Dio rivelato in Cristo, conse-
gnato alla Scrittura ed attualizzato fedelmente dalla Tradizione. In secon-
do luogo, poiché il Magistero morale è annuncio del Comandamento

768
Il Vangelo come Evento e Comandamento

all’uomo concreto, esso avviene sempre dentro un contesto storico e


pertanto per la individuazione dei principi metodologici occorre fare
una distinzione fra Magistero passato e Magistero presente. Nella lettura
dei documenti del primo, condotta ultimamente alla luce del Magistero
seguente, occorre discernere ciò che è legato alle condizioni del tempo
da ciò che viene affermato come valore essenziale e permanente. Nella
lettura del Magistero attuale il compito della teologia morale è quello di
integrare continuamente l’insegnamento globale, così che risulti nei suoi
significati più profondi” (AM, 42-43).
Nella sua densità, il saggio metodologico e programmatico elabora-
to da Carlo Caffarra per il fascicolo inaugurale della rivista “Teologia”,
contiene molti altri passaggi e costrutti di sorprendente ispirazione, an-
che per la contemporaneità della visione e del lavoro teologico: non solo
nel campo morale. La rilettura del testo sarà certamente motivo di rico-
noscente apprezzamento da parte dello studente e anche dello studioso
di oggi. I tratti sui quali ho desiderato richiamare l’attenzione, in ogni
caso, mi sono apparsi straordinarie anticipazioni di un compito – fon-
damentalmente, il rilancio dell’unità profonda tra teologia fondamentale
e teologia morale, nel contesto dell’odierna crisi dell’etica – che, nella
odierna koiné teologica, mi pare ancora abbastanza distante dalla lucida e
convinta elaborazione consegnata a quelle pagine7.

7 Per quanto riguarda lo sfondo della ricostruzione storica e della restituzione


ermeneutica dei passaggi che hanno segnato la scissione dell’esperienza etica e del
rimando teologale, aprendo una deriva culturale di rimozione su entrambi i fronti,
si consulteranno utilmente almeno due scritti esplicitamente dedicati: C. Caffarra,
“Ricerca storica”, in C. Caffarra – G. Piana, Principi di morale religiosa, Dehoniane,
Bologna 1972, 9-66; C. Caffarra, La prassi cristiana nella teologia del xx secolo, Cittadella,
Assisi 1976 (Il libro è dedicato Amicis Mediolanensibus: valga questo mio breve testo
come simbolica restituzione di amicizia commossa e grata).

769
VITA DELL’ISTITUTO
Anthropotes 33 (2017)

I. Situazione statistica degli studenti

Totale studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 3.680


1) Sede centrale
Studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 533
Dottorato in S. Teologia con specializzazione in Scienze
del Matrimonio e della Famiglia 83
Licenza in S. Teologia del Matrimonio e della Famiglia 94
Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia 24
Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia – ciclo speciale 56
Master in Bioetica e Formazione 15
Master in Fertilità e Sessualità Coniugale 48
Diploma in Pastorale familiare 158
Corso di Formazione permanente in Pastorale familiare per
sacerdoti 15
Studenti ospiti 40

2) Sezione statunitense (Washington, D.C.)


Studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 107
Licentiate in Sacred Theology of Marriage and Family 7
Doctorate in Sacred Theology of Marriage and Family 5
Master of Theological Studies in Marriage and Family 31
Studenti programma Ph.D. 25
Studenti ospiti 9
Continuing Education Series Students 30

3) Sezione messicana
Studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 1357
Licenciatura en Ciencias de la Familia 95
Maestría en Ciencias de la Familia 584
Diploma 678

773
Vita dell’Istituto

4) Sezione spagnola
Studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 793
Licenciatura en Teología del Matrimonio y la Familia 39
Master en Ciencias del Matrimonio y la Familia 227
Especialidad Universitaria en Pastoral Familiar 527

5) Sezione brasiliana
Studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 40

6) Sezione per l’Africa francofona (Cotonou, Benin)


Studenti iscritti nell’anno accademico 2016/2017 = 39
Licence d’Université en Sciences du Mariage et de la Famille 15
Licence Canonique en Théologie du Mariage et de la Famille 18
Master en Sciences du Mariage et de la Famille 6

7) Sezione indiana (Changanacherry, India)


Studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 57
Licentiate in S. Theology of Marriage and Family 23
Master in Family Studies 18
Diploma in Family Ministry 16

8) Centro Associato di Melbourne (Australia)


Studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 119
Graduate Certificate 71
Graduate Diploma 10
Master 23
Studenti programma Ph.D. 15

9) Centro Associato di Beirut (Libano)


Studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 81
Master 18
Diploma in Scienze del Matrimonio e Famiglia 9

774
Vita dell’Istituto

Diploma in Pastorale Familiare 24


Diploma in Mediazione Familiare 30

10) Centro Associato di Daejeon (Corea)


Studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 45

11) Centro Associato di Bacolod (Filippine)


Studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 63
Master of Education 30
Diploma in Family Ministry 33

12) Centro Associato di Bogotà (Colombia)


Studenti iscritti nell’Anno Accademico 2016/2017 = 446

II. Situazione dei titoli di studio

1) Sede centrale
Dottorato in Sacra Teologia
1. Dichiarati dottori in S. Teologia con specializzazione in Scienze del
Matrimonio e della Famiglia:
Alcalde-Morales David, The Problematic Theological Extrinsicism Inher-
ent in Modern Cosmology.
Barbini Luigi, Famiglia e Carcere. Pastorale familiare e cura dei legami affet-
tivi e genitoriali in regime di detenzione.
Cortes Blasco Francisco José, El esplendor del amor esponsal y la com-
munio personarum. La doctrina de la castidad en las Catequesis de San
Juan Pablo II sobre El Amor humano en el Plano Divino.
De Paolis Antonio, Kerygma, Fede e Speranza. Il rinnovamento dell’apolo-
getica cattolica nella riflessione di Gaetano Corti.

775
Vita dell’Istituto

De Prada Garcia Luis, La caridad conyugal, una amistad que construye una
vida. Estudio teológico-pastoral en Familiaris Consortio y Carta a las
Familias (Juan Pablo II).
De Roeck Antoine, Les époux Beltrame-Quattrocchi: deux vies au service du
bien commun. La dimension sociale de la sainteté conjugale à partire de la
vie des bienheureux Luigi et Maria Beltrame-Quattrocchi.
El Madi Mario, Eucaristia, martirio e carità a partire dal pensiero di Bene-
detto XVI.
Fu Wen Ling, Partecipation, Alienation, and the Common Good in the An-
thropological Vision of Karol Wojtyła and its Reflection in the Magisteri-
um of John Paul II.
Gałuszka Paweł Stanisław, “Il memoriale di Cracovia”. Il contributo del
Cardinale Karol Wojtyła e del gruppo di teologi e filosofi polacchi, nella
preparazione e nella ricezione dell’Enciclica Humanae vitae.
Kabala Florence Abala, Conscience and Relationship: The Role of Affec-
tion, Friendship and Family in the Moral Formation of Conscience in the
Light of John Henry Newman.
Meléndez Juárez José Isaias, La Iglesia como familia en el Vaticano II y su
recepción en el Magisterio postconciliar.
Mwanga Raphael Ferdinand, The Concept of the Church as Communion
according to the Thought of Avery Dulles and its Relevance to the Family
as a Community of Persons.
Okry Koutchoro Allelua Magloire, Le dynamisme de l’agir humain
chez Servais Pinckaers : pour une redécouverte du bonheur et de la finalité
a l’intérieur de la vie morale.
Ortiz Rozo Nelson Enrique, “Extasis est amoris”. La dinámica extática
de la Caridad según Santo Tomás de Aquino.
Rodrigues Lawrence Stanislaus, La pastorale familiare. Una necessità
per la Chiesa in Tanzania.
Rowland Tracey, Beyond Baroque Scholasticism. The Theological Signif-
icance of History in the Thought of Joseph Ratzinger / Benedict XVI.
Sserugga Joseph, The family as Teacher of Peace. A Study on Peace as an
Educational Mission of the Family in the Light of Africae Munus Theo-
logical and Pastoral Approach.

776
Vita dell’Istituto

Shayo Simon Sunguka, African Traditional Community as a Source for


Christian Education in Tanzania in Reference to Laurent Magesa and
Benézét Bujo.
Sweeney Conor Thomas, Sacramental Presence after Heidegger: Beyond
Louis-Marie Chauvet and Lieven Boeve.
Tchoungui Thomas Bienvenu, Culture et moralité dans le Magistére de
Jean Paul II.

2. Dichiarati degni del Dottorato in S. Teologia del Matrimonio e della


Famiglia:
Alcalde-Morales David, The Problematic Theological Extrinsicism Inher-
ent in Modern Cosmology.
Corby Simon James, The Hope and Despair of Human Bioenhancement:
A Virtual Dialogue Between the Oxford Transhumanists and Joseph
Ratzinger.
Cortes Blasco Francisco José, El esplendor del amor esponsal y la com-
munio personarum. La doctrina de la castidad en las Catequesis de San
Juan Pablo II sobre el amor humano en el Plano Divino.
De Prada García Luis, La caridad conyugal, una amistad que construye una
vida. Estudio teológico-pastoral en Familiaris Consortio y Carta a las
Familias (Juan Pablo II).
Fu Wen Ling, Partecipation, Alienation, and the Common Good in the An-
thropological Vision of Karol Wojtyła and its Reflection in the Magisteri-
um of John Paul II.
Josephkoil Pillai Joseph Arockia Jayakumar, Practice of Family Coun-
seling in the Context of Pastoral Care: A Study on the Problems and
Possibilities of Using Structural Family Therapy of Salvador Minuchin as
a Tool in Pastoral Care with Special Reference to Ministering Families
in India.
Kabala Florence Abala, Conscience and Relationship: The Role of Affec-
tion, Friendship and Family in the Moral Formation of Conscience in the
Light of John Henry Newman.
Nyuykongmo Gerald Jumbam, The Theological Education of the Laity in
John Henry Newman.

777
Vita dell’Istituto

Okry Koutchoro Allelua Magloire, Le dynamisme de l’agir humain


chez Servais Pinckaers : pour une redécouverte du bonheur et de la finalité
a l’intérieur de la vie morale.
Rodrigues Lawrence Stanislaus, La pastorale familiare. Una necessità
per la Chiesa in Tanzania.

Licenza in Sacra Teologia del Matrimonio e della Famiglia


Amaya García Edgar Fabian, El acompañamiento a la persona y a la fa-
milia en la realización de su vocación al amor. Una reflexión a la luz de
Familiaris Consortio y Amoris laetitia.
Amaladasan Johny, The Underlying Causes of Difficulties in Couple Rela-
tionships: A Psycho-Spiritual Quest for Their Solutions.
Bader Bashir Salman Issa, La pastorale dei fidanzati nel contesto del Pa-
triarcato Latino di Gerusalemme tra tradizioni e modernità.
Barakat Diab Jad Michel Marie, Cœurs sans repos. Le cas du célibat non
choisi des personnes jamais mariées.
Betancourt Rodriguez Juan Pablo, El sentido del sufrimiento cristiano
en la vida del Padre Luis Sebastian Mauricio Variara Bussa S.D.B.
Bonte Pietro Cristian, I personaggi biblici, apocrifi e cristiani nelle preghiere
sacerdotali come guide nelle mistagogie del Matrimonio di Rito Bizantino.
Cavagno Maria, Vernunft und Sinne in der Tugend. Ihr Verhältnis nach
Thomas von Aquin und Karol Wojtyła.
Chungan Aji Varghese, Family, the Protagonist of New Evangelization:
with a Special Reference to Familiaris Consortio.
Chretienne Vincent, Jesus au Temple. Paternité humaine et paternité divine
en Luc 2, 48-51.
Cruz Hurtado Daniel, Familia y nueva evangelización en los documentos
de Puebla, Santo Domingo y Aparecida.
De Borbón Savoya Aosta Alessandro Enrico, La maxima amicitia
come carità in San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae II-II
Q. 23 A. 1.
Deda Rita, Il rispetto e la dignità della vita umana alla luce congiunta di fede e
ragione. Una riflessione a partire dalla dichiarazione sull’aborto procurato.

778
Vita dell’Istituto

De Freitas Ferreira Douglas, Il sacramento del matrimonio secondo Achille


Maria Triacca “mysterium-actio-vita”.
Del Prete Elia, La famiglia come casa di Dio. La dimensione familiare e abi-
tativa nella chiesa antica.
Dion Michael Anthony, Gnosticism and Modernity in the Thought of Eric
Voegelin.
D’Souza Kim, The Analogy Between Baptism and Marriage in Saint Augu-
stine. The Fruitfulness of the Sacrament.
Emmatty Antony Lino Stephen, Catholic Doctrine on the Dignity of
Marriage and Life. A Comparative Analysis on the Basis of Humanae
Vitae (1968), Familiaris Consortio (1981), and Evangelium Vitae
(1995).
Hemkemeier Nelton, A família nos documentos da conferencia nacional dos
bispos do Brasil. Desafios e perspectivas.
Herrera Reyes Zaira Magaly Coyalxaugui, Cuerpo sacramental y re-
velación de la Trinidad en San Hilario de Poitiers.
João Manuel Casimiro, Evangelho da familia: ponto de partida para a
evangelização de Angola.
Johnson Franklin Raymond, An Experience of Treatment Given by the
Pastors. Cultural and Pratical Reflection on Alcohol and Alcoholism in
Tamil Nadu.
Kook Jae Ryang, Pastorale familiare nella cultura del pansessualismo che
chiama a conversione.
Kucinskas Dovydas, Amour et divinisation chez Vladimir Soloviev.
Lituañas Lopito Migue, Preimplantation Genetic Diagnosis: Background,
Techniques, Outcomes, Risks And Ethical & Moral Implications.
Lodi Lorenzo, La famiglia fonte di relazione e di vita.
Matar Elie, Accompagnare la coppia nella via della maturazione. Analisi
critica di metodi attualmente in uso e prospettive per la formazione della
coppia.
Masasi Deodatus John, Marriage Preparation: An Important Moment for a
Stable Family in Light of Familiaris Consortio n.66.
Orellana Castro Fernando Aristides, Propedeutica del matrimonio se-
condo Karol Wojtyła.

779
Vita dell’Istituto

Pit Daniel Catalin, Significato teologico della danza liturgica nei sacramenti
del Battesimo, del Matrimonio e dell’Ordine nella tradizione bizantina.
Popic Ivan, I coniugi-cooperatori dell’amore di Dio Creatore (FC, 28). Pro-
spettive teologiche e compito pastorale a partire da Familiaris consortio.
Potter Adam, Why is Contraception Wrong? The Response of St. John
Paul II Before and After Humanae Vitae.
Rosignoli Julio, L’associazionismo familiare applicato alla parrocchia. Una
via dell’agire umano nella prospettiva del bene comune.
Shim Sangeun, L’accompagnamento delle persone omosessuali secondo l’inse-
gnamento della Chiesa.
Signorelli Roberto, Padre, dove sei? La sfida di essere padre nel tempo della
postmodernità.
Simatupang Manuju, Realizzare una comunione vera. L’importanza del
perdono nella famiglia.
Skokovsky Karel, “Lacta, Mater, Cibum nostrum”. Maria lactans ed Eu-
caristia nella prospettiva della Teologia del corpo.
Thomas Binu, Emotion and Action: Karol Wojtyła’s Evaluation of Max
Scheler.
Tomaszycki David Mark, Fatherhood. In the Works of Fulton J. Sheen.
Usunobun Courage Omoruyi, The Dignity and Unity of Christian Mar-
riage in the Minds of the Fathers of the Second Vatican Council.
Zhao Honggang, La preghiera nella formazione familiare nell’esortazione
Apostolica Familiaris Consortio. Una realtà pastorale nella diocesi di
Kaifeng.

Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia


Abanador Maria Eloisa, Love and Sex: A Connection to be Discovered
by the Filipino Youth in the Perspective of Karol Wojtyla’s “Love and
Responsibility”.
Cavicchia Sergio, Il paradigma pedagogico ignaziano e la pastorale familiare.
Damatar Eogenia, Famiglia come esperienza di comunione nella prospettiva
di Familiaris Consortio.
Grandi Michela, Famiglia ed evangelizzazione alla luce dell’insegnamento
di Giovanni Paolo II.

780
Vita dell’Istituto

Grassi Scalvini Natale, Cristo-Sposo e Chiesa-Sposa. La comunità degli


Apostoli come segno della Chiesa-Sposa.
Estevez Pia Magdalena Sofia, La familia como escuela de humanidad.
Dialogo entre Karol Wojtyla y Zygmunt Bauman.
Macrì Arcangelo, Per la costruzione di un piano pastorale della famiglia
nella diocesi di Oppido Mamertina-Palmi.
Marulanda Toro Nilsa Ximena, Importancia de pertenecer a una familia
natural, en el desarrollo de la identidad personal.
Mosele Marta Maria, Consacrazione degli sposi e spiritualità del concreto
nella vita di coppia.
Ngalula Bilualuakunyi Cecile, L’éducation aux méthodes naturelles de
procréation pour une reprise de la pédagogie du Pape Jean-Paul II dans
l’Archidiocèse de Kananga/RDC.
Pedroni Luca, San Giuseppe nella Redemptoris custos di Giovanni
Paolo II.
Rubagotti Vittorio, Quale Padre? Riflessioni sulla parabola del Padre Mi-
sericordioso (Lc 15,11-32).
Siciliano Marcella, Comunicare la famiglia.
Sorbara Maria Rosa, Le catechesi sulla famiglia: da Giovanni Paolo II a
Papa Francesco.
Tropeano Anna Maria Rachele, L’amore trinitario nell’amore umano.

Master in Bioetica e Formazione


Bianconi Angelo Raquel, Il soggetto morale come principio di educazione
della persona per capire il senso della vita.
Borgna Silvia, Ethical Challenges of Next-Generation Sequencing in Geno-
mic Medecine.
Carian Simon, Introduction to Alasdair MacIntyre’s Philosophy of Depen-
dence: And an Application of it to Beginning-of-Life Bioethics.
Cerboni Elisabetta, Il medico di medicina generale come consulente nelle
questioni bioetiche di inizio vita, famiglia e fine vita.
Ceroni Giovanni, Le leggi ingiuste. La prospettiva italiana oggi.

781
Vita dell’Istituto

Colangelo Maria Luisa, Per il bene degli stakeholder. L’importanza del


domain etico nell’Health Technology Assessment.
Effa Ateba Victor Joseph Steve, La Caritas in veritate di Benedetto
XVI: un’antropologia del bene comune e le sue ripercussioni per la bioetica.
Favretto Angelo, Natura umana e legge naturale. Esiste un fine per l’uomo?
Figueroa Eguigurems Karla Marlene, Sofferenza, ricerca di senso e cura
della fragilità umana in famiglia.
Fiocca Marco, Accudire il dolore: atto medico o atto di redenzione?
Garreaud Indacochea Emilio Julio, La enfermedad, la muerte y la com-
pasión esperanzadora vista desde Betania.
Giovanardi Filippo, Personalized medicine in oncologia: una nuova sfida
etica in medicina.
Ong Kathryn-Daphne Masangkay, The doctor as a person: the importan-
ce of humanistic formation for medical professionals.
Pricoli Vilela Luciana, Il concetto di ordinario/straordinario (proporziona-
to/sproporzionato) applicato ai mezzi di sostegno vitale: gli atti morali di
conservazione della vita e le implicazioni per la bioetica clinica.
Reufels Beate Dorothea, Das Artz-Patienten-Verhaltnis: Chancen und
Perspektiven fur eine neue “Visiten” karte der Medizin.
Santinelli Sara, Anime felici? La sfida dell’enhancement psicologico.
Spola Roberta, L’eutanasia neonatale nell’era della tecnica.

Master in Fertilità e Sessualità coniugale


Frémont Cécile, La splendeur de la femiminité. Le corps de la femme, mer-
veuille au service de sa vocation.
Lallemand ep. Sans Florence, Pour les couples infertiles, un chemin de
retour aux origines de leur fécondité

Master in Consulenza Familiare


Bartolino Maria Emanuela, Famiglia ed economia del dono in J. Godbout
e A. Cailleè.

782
Vita dell’Istituto

Burlando Giampaolo, La famiglia Dis-connessa. Il difficile equilibrio tra


principi originari e sfide dell’era del web.
Cleri Anna Rita, “Famiglie a prescindere”. Possibilità di aiuto e sostegno
educativo alle famiglie con DSA.
Collina Emilia, La consulenza previa nell’introduzione della causa di nullità
matrimoniale nel contesto consulturiale.
Dolci Elisabetta, Il matrimonio: unione con fini o unione senza confini?
Frisulli Silvia, Fallimenti adottivi. La crisi di un sistema.
Introna Anna Lisa, Il lavoro che educa. Consulenza educativa e i percorsi di
istruzione e Formazione Professionale
Lo Presti Daniela, Famiglia e genitorialità. Proposta formativa per genitori
e figli.
Lotti Marina, Betania: un percorso per la famiglia.
Masini Lisa, L’attaccamento madre-bambino prenatale: teoria ed esperienze a
confronto.
Notarfonso Daniela, Lasciarsi “abitare” dall’altro. Differenza sessuale,
alleanza e reciprocità: dall’esperienza consultoriale uno sguardo oltre gli
steriotipi.
Ottonelli Maria Gabriella, Il bilancio sociale della fondazione per la Fa-
miglia Profumo di Betania ONLUS.
Pagani Laura, Promuovere la corresponsabilità educativa. Il colloquio didattico
come momento privilegiato.
Palazzini Chiara, Il sostegno alle famiglie in ospedale: analisi critica del pro-
getto “Speak up” all’ospedale pediatrico Bambino Gesù.
Piepoli Antonella, L’educazione del desiderio d’amore nei figli.
Pizzi Antonella, Il cammino del desiderio verso l’amore coniugale integro.
Porcu Stefania, I consultori familiari oggi. La co-costruzione di processi dia-
logici comunitari. La promozione alla salute e del dono come fenomeno
relazionale libero e gratuito.
Riccio Angela, “Patto segreto e patto esplicito” nella coppia: gli interventi a
sostegno della transizione della separazione e divorzio.
Sgroi Saverio, Il ruolo dell’empatia nella consulenza educativa.
Valentini Antonella Giuseppina, La consulenza con la donna arabo-mu-
sulmana: diritto alla salute, contraccezione e aborto. Questioni bioetiche
emergenti.

783
Vita dell’Istituto

Vallieri Laura Roberta, Il counselling a scuola.

2) Sezione Statunitense
Licentiate in Sacred Theology
Boelscher Eric, The Kenotic Principle in Marriage

3) Sezione Messicana
Maestría en Ciencias de la Familia para la Consultoría
Alvarez Schumann Ma. Catalina, Un modelo de intervención psicológica
para el proceso de inserción y adaptación en niñas de nuevo ingreso en
situación de protección y cuidado temporal: Hogar Montiel (San José de
Costa Rica).
Anaya Bourgoing Alma Eugenia, La dignidad de la persona humana, el
fenómeno migratorio y otros temas de antropología para la comprensión del
problema del migrante y su familia.
Benítez Espino Ana Lucía, Homeschooling católico como estilo de vida
dentro de la dinámica familiar.
Chagolla Arévalo Ma. Guadalupe, La práctica del amor en la pareja,
según Erich Fromm.
Cruz Sifuentes Leonel, Los Métodos Alternativos de Solución de Conflictos
(MASC) en el acompañamiento y la orientación familiar.
Madariaga Marín Ma. de la Luz Cristina, Familias Evangelizadoras:
la identidad cristiana de las familias influyendo en el ambiente social.
Monroy Vázquez Gloria Nichole, La importancia de la Terapia Fami-
liar Sistémica para el entendimiento de la familia en su contexto.
Pérez Oliveros Adriana, La experiencia del sufrimiento en Karol Wojtyla
como base de las enseñanzas de Juan Pablo II sobre el dolor humano.
Plascencia Díaz Elisa, Familias evangelizadoras: la identidad cristiana de
las familias influyendo en el ambiente social.
Rivera Espinosa Noemí, Perspectivas y urgencias de la Consultoría Familiar.
Salas Escamilla Elda Patricia, El artista, su arte una fuente inspiradora
de ayuda y amor al prójimo.

784
Vita dell’Istituto

Serrano Limón Luis Francisco, Los vínculos parentales como uno de los
mejores factores de protección contra las adicciones tempranas.
Tamez Larios Norma Olivia, El matrimonio como sacramento: misterio.
María del Carmen Silva Rosas, Integrando la espiritualidad carmelitana
desde la psicología personalista.

4) Sezione Spagnola
Licenciatura en Teologia del Matrimonio y la Familia
Alvarado Castillo Walter Floresmil, Presencia del personalismo en el
directorio de pastoral familiar en la Iglesia en España.
Bernabeu Mas José Ramón, La conyugalidad y la paternidad en el ser de
la persona.
Cuestas Dueñas Ricardo Enrique, Iglesia Doméstica y Sacramento de
tu amor.
Domenech Bardisa José Luis, Situación terminal de enfermedad: magisterio
y asistencia religiosa en la diócesis de Valencia.
Ekua Obama Laureano, Preparación al sacramento del matrimonio según la
Familiaris Consortio y Amoris Laetitia.
Moreno Quiñonez Arnulfo, El matrimonio, “imagen de Dios Amor” en
las catequesis de San Juan Pablo II.
Ochoa de Aranda Luis Fernando, Dignidad, Vocación y Misión de la
mujer a la luz de María. Una aproximación desde el magisterio de los
últimos papas: de Pablo VI a Francisco.
Pérez Chávez Juan Carlos, Situación actual de la familia respecto al cuida-
do de los enfermos en situación terminal .
Rizzo Giancarlo, Luce e amore nel mondo di J. Vermeer.
Talavera Mario José, La familia cristiana, como sujeto educativo y transmi-
sora de la Fe a los hijos, a la luz de Familiaris Consortio.

Master en Ciencias del Matrimonio y la Familia


Benlloch Máñez Vicente, Situación y evolución de los roles paternos y
maternos desarrollados durante el S. XXI.

785
Vita dell’Istituto

Benalcázar Renán Patricio, Acompañar a los padres en la educación del


corazón de los hijos, tarea indispensable en el mundo moderno.
Campos Amparo Antonaya, La rehabilitación de la castidad conyugal en el
magisterio del siglo XX. Aportaciones de la obra “Amor y responsabili-
dad” de Karol Wojtyla.
Fernández Jiménez Antonio, El valor de la cultura en San Juan Pablo II.
García Pérez Fernando, La moral en el acto educativo.
Garijo Cortés Ester, La visión del cuerpo en la danza contemporánea con-
trastada con la Teología del Cuerpo.
Ibáñez Rosello José, El IRPF y la familia. Un estudio sobre la visión antro-
pológica del impuesto y la carga tributaria de la familia en España.
Lazaro Borja Carmen, Atención relacional adecuada a la persona mayor.
Morales Junquero Clara, Análisis de la fidelidad, una respuesta al desafio
emotivista.
Navarro Rodríguez Mª Belén, La misión educativa de la familia Cristia-
na: la virtud de la caridad.
Novell Llopis Fabián, Nuevas Formas familiares en Europa y en España
en el S. XXI.
Ortiz Nogués Laura, La familia y la Resilencia.
Pérez Collado Clara, Seamos prudentes en Internet. Una aproximación
desde Sto. Tomás de Aquino.
Pérez Pérez Paloma, Mujer, la belleza del genio femenino.
Sales Triguero Gabriel, Los medios y su distorsión antropológica de la fa-
milia. Análisis de Modern Family.
Sales Triguero José, Seamos prudentes en Internet. Una aproximación desde
Sto. Tomás de Aquino.
Sales Triguero Isabel, Una aproximación al trastorno mental grave en la
familia: implicaciones, necesidades y riesgos futuros.
Solorzano Mercedes María, La idea de fraternidad en los escritos de Joseph
Ratzinger/Benedicto XVI.
Valcárcel Carbonell Ildefonso, Matrimonio en el Japón.
Vissani Agustina Gabriela, La complementariedad del varón y la mujer en
el matrimonio.

786
Vita dell’Istituto

Master en Pastoral familiar


Carrión Armero Venancio, El misterio de la fecundidad en el matrimonio
infértil.
Fabres Curiel Jordina, El misterio de la fecundidad en el matrimonio infértil.
Ramajo Ramajo Salvador, La promesa.
Máster en Psicología de la familia
Oliva Panta Katia Magaly, El sistema preventivo de Don Bosco y su
repercusión en la familia.

5) Sezione Africana
Licence Canonique en théologie du mariage et de la famille
Biakampa Dieudonné, Vie familiale en Afrique : une reconstruction par les
vertus mariales.
Iatamo Jean Marie, L’alliance du Christ et de l’Eglise comme fondement
du mariage chrétien. Perspectives pour une pastorale familiale au diocèse
d’Antsiranana.
Kabasubabo Godefroid, l’eucharistie comme source de communion familiale.
Pour une pastorale des familles dans l’Archidiocèse de Kananga en RDC.
Kanena Alungu Gerry, La pastorale de proximité dans l’évangélisation des
familles.
Kuenda Kubantu Louison, Jésus-Christ comme voie pour la famille afri-
caine dans la reconquête de son identité.
Macumi Théobald, La famille chrétienne au-delà de l’ethnocentrisme : cas
du Rwanda.
Mudimbe Vital, Vivre l’amour conjugal total.
Ndayambaje Isidore, Fondements anthropologiques de l’unité et l’indissolu-
bilité du mariage. Eléments pour une pastorale inculturée.
Ndongo Ferdinand, Le Sacrement de mariage dans la théologie du corps de
Jean-Paul II.
Nkeshimana Palémon, Evangélisation par des familles authentiquement
chrétiennes : gage d’une stabilité sociale au Burundi.
Tchanhoun Brice, De l’amour de la famille à l’expérience fructueuse de la
vie familiale : Pistes pour une pastorale familiale.

787
Vita dell’Istituto

Master en sciences du mariage et de la famille


Ahoga Jocelyne, La sexualité du couple à la lumière de la théologie du corps
de Jean-Paul II : Fécondité et défis.
Kazaku Robert, Le don de soi comme mission des époux chrétiens. Eléments
pour une pastorale familiale en Afrique.

Licence d’université en sciences du mariage et de la famille


Agbado Philippe, La gestion pédagogique de l’inappétence intellectuelle des
élèves : cas du Cours Secondaire Saint Augustin de Cotonou.
Gansehoun Didier, Nécessité de l’école maternelle dans le développement et
le cursus scolaire de l’enfant : cas de 77 écoliers dans l’arrondissement de
Godomey.
Kagene Ariane, Accompagnement et motivation des apprenants : Cas du col-
lège catholique Père Aupiais et du Cours Secondaire Notre Dame des
Apôtres de Cotonou.
Nshimirimana Emmanuella, Influence de la collaboration entre parents et
enseignants sur les résultats de l’apprenant : Cas du collège catholique Père
Aupiais de Cotonou.

Master en sciences de l’education


Zoumenou Etchiha Raîssa, Enjeux et perspectives de la formation des jeu-
nes femmes incarcérées en vue de leur insertion socio-professionnelle : cas de
la prison civile de Porto-Novo.

6) Centro Associato di Melbourne (Australia)


Master of Theological Studies (marriage and family)
Gourlay Thomas Vianney, The Catholic Academy and the Sanctified
Mind. The Implications of David L Schindler’s Critique of Liberal Met-
aphysics for the Ethos of Catholic Academies.

788
Vita dell’Istituto

Master of Arts (theology)


Ashley Simon Raymond, Adolescence and the Pre-marriage Catechumenate.

Doctor of Philosophy
Gaskin Gerard Michael, Foundations for Senior Leadership in Catholic
Education: Sacred or Secular?
Vyner Owen, The Encounter with the Father of Mercies: An Ecclesial An-
thropology of the Sacrament of Penance.
Lefsrud Sigurd Olaf, Kenosis in Theosis: An Exploration of Balthasar’s
Theology of Divinization.

III. Attività scientifiche

1) Sede centrale
All’inizio dell’Anno Accademico sono state proposte agli studenti
e ai docenti alcune attività di accoglienza e di introduzione allo spirito
dell’Istituto, tra le quali, in data 5 ottobre la visita tematica ai Musei
Vaticani sul tema “Un Corpo per la Gloria” guidata dalla Dott.ssa Eli-
zabeth Lev; il sabato 22 ottobre, il Pellegrinaggio al Santuario della
Mentorella seguendo il sentiero Karol Wojtyła; l’8 novembre, la Visita
alle Catacombe di San Sebastiano sulla Via Appia Antica; e, infine, il 23
novembre, la visita alla Cappella Pontificia Redemptoris Mater nel Palazzo
Apostolico Vaticano, guidata dalla Dott.ssa Natasa Govekar, del Cen-
tro Aletti.
Giovedì 27 ottobre 2016 si è tenuta l’udienza con il Santo Padre
Francesco in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico. Han-
no partecipato circa 400 persone tra Autorità del Consiglio Superiore,
del Consiglio Internazionale dell’Istituto, docenti della Sede Centra-
le, studenti dei vari programmi offerti dall’Istituto e anche i Docenti
del Master organizzati in collaborazione con altri enti universitari ed
ecclesiali.
I giorni 18-19 novembre 2016 si è tenuto il XVI Colloquio di Te-
ologia Morale “Misericordia: pensieri, parole, opere e omissioni”, or-
ganizzato dall’Area di Ricerca in Teologia Morale. Sono intervenuti i

789
Vita dell’Istituto

Proff. Pablo Requena (Pontificia Università della Santa Croce), Kle-


mens Stock (Pontificio Istituto Biblico), Riccardo Ferri (Pontificia
Università Lateranense), Giacomo Samek Lodovici (Università Cat-
tolica del Sacro Cuore, Milano), Donna Orsuto (Pontificio Istituto
Giovanni Paolo II), Amaury Begasse de Dhaem (Pontificia Università
Gregoriana), Stephan Kampowski (Pontificio Istituto Giovanni Paolo
II), Benedetto Carucci Viterbi (Collegio Rabbinico Italiano, Roma),
Nestor Bassunga (Pontificia Accademia Alfonsiana), Juan José Pérez-
Soba (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II), Peter Schallenberg
(Theologische Fakultät Paderborn), Aude Suramy (Institut Catholique
de Toulouse).
Nei giorni 5-7 dicembre 2016 ha avuto luogo il Seminario di Studio
Wojtyła Lectures (9° edizione), organizzato dalla Cattedra Karol Wojtyła
e che quest’anno ha trattato il tema “La situazione della famiglia nell’U-
nione Sovietica”. Il seminario è stato guidato dal Prof. Bogdan Prach,
Rettore dell’Università Cattolica Ucraina, Leopoli. Nell’ambito delle
Wojtyła Lectures, mercoledì 14 dicembre ha avuto luogo la Conferenza
pubblica tenuta da Sua Beatitudine Svjatoslav Ševčuk, Arcivescovo
Maggiore della Chiesa Greco-Cattolica Ucraina, sul tema “La difesa del-
la dignità della persona nei paesi post-comunisti”.
Dal 13 al 17 febbraio 2017 ha avuto luogo il Corso Visiting professors
“Splendore e ambiguità del sesso. È possibile educare?”, con gli inter-
venti dei Proff. Giuseppe Mari e Raffaella Iafrate (entrambi dell’U-
niversità Cattolica del Sacro Cuore, Milano) nonché del Preside, Prof.
Pierangelo Sequeri. Il coordinatore del corso è stato il Prof. José No-
riega. La conferenza pubblica ha avuto luogo giovedì 16 febbraio 2017.
Il Prof. Mario Binasco ha coordinato le due sedute del Seminario
di Studio “Il vino e l’olio sulle ferite. Cura pastorale delle piaghe dell’a-
borto e del divorzio”. Tali sedute hanno avuto luogo i giorni 15 e 30
marzo rispettivamente. Sono intervenuti, per la prima sessione, intito-
lata “L’esperienza dell’aborto”, i seguenti relatori: Mons. Pierangelo
Sequeri (Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II), Prof. Juan
José Pérez-Soba (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II), Dott.ssa Mo-
nika Rodman Montanaro (La Vigna di Rachele), Dott. Stefano Di
Battista (Associazione difendere la vita con Maria), Dott.ssa Valeria
D’Antonio (Fede e Terapia), Dott.ssa Gabriella Bertocchi (C.A.V.

790
Vita dell’Istituto

di Melzo, Milano), Don Fulvio Bertini (C.A.V di Melzo e Vicario


Parrocchiale della Parrocchia Sant’Ambrogio in Vignate, Milano), Prof.
Mario Binasco (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II). Nella seconda
sessione, dal titolo “L’esperienza delle rotture in famiglia”, sono inter-
venuti: il Preside dell’Istituto, Mons. Pierangelo Sequeri, don Dou-
glas De Freitas Ferreira (Parroco a Sao Paulo, Brasile, e dottorando
all’Istituto Giovanni Paolo II), Prof.ssa Costanza Marzotto (Univer-
sità Cattolica del Sacro Cuore, Milano), Don Mario della Giovanna
(Bergamo), Paola Menaglia, Luciana Sinisi e Giuseppe Capece (Fa-
miglie Separate Cristiane, Roma) e il Prof. Mario Binasco (Pontificio
Istituto Giovanni Paolo II).
Venerdì 28 aprile ha avuto luogo il IV Colloquio di Teologia Sacra-
mentaria, dedicato al tema “Vincolo coniugale e carattere sacramentale:
una nuova corporeità”. Al Colloquio, organizzato dall’Area Internazio-
nale di Ricerca in Teologia Sacramentaria, sono intervenuti i Proff. Pie-
rangelo Sequeri (Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II),
Alexandra Diriart (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II), José Gra-
nados (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II), Carmine di Martino
(Università degli Studi di Milano), Carlos José Errázuriz (Pontificia
Università della Santa Croce), Sr. Mary Melone (Rettore Magnifico
della Pontificia Università Antonianum), Philippe Vallin (Université de
Strasbourg), Luca Pedroli (Pontificio Istituto Biblico) e Monika Gry-
giel (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II).
Nel mese di maggio, in particolare dal 2 all’11 maggio, si è tenu-
to il Seminario di Studio “Impegno pastorale con famiglie povere ed
emarginate”, guidato dai coniugi Benito Baranda e Maria Lorena
Cornejo.
Giovedì 11 maggio, presso l’Auditorium dell’Istituto, ha avuto luo-
go la presentazione del libro del padre John Francis Harvey, Attrazione
per lo stesso sesso. Accompagnare la persona, edito dalle Edizioni Studio Do-
menicano. L’evento, organizzato insieme a Courage Italia e alla Casa Edi-
trice, ha visto gli interventi di Mons. Pierangelo Sequeri (Pontificio
Istituto Giovanni Paolo II), S.E.Mons. Giuseppe Marciante (Vescovo
ausiliare della Diocesi di Roma), Prof. Juan José Pérez-Soba (Pontifi-
cio Istituto Giovanni Paolo II), Prof. José Maria La Porte (Pontificia
Università della Santa Croce), Don Sean Kilcawley (Ufficio Pastorale

791
Vita dell’Istituto

Familiare della Diocesi di Lincoln, Nebraska, USA). L’evento è stato


presentato dalla giornalista Costanza Miriano.
Giovedì 25 maggio 2017 ha avuto luogo la Lectio inauguralis come
docente stabile della Prof.ssa Alexandra Diriart, intitolata “Un amore
salvato: la forma pasquale della vita coniugale”. Durante l’evento la pro-
fessoressa ha fatto la professione di fede e il giuramento di fedeltà al Som-
mo Pontefice, come dal Regolamento Generale della Curia Romana.
In tale atto sono stati consegnati i premi ai migliori studenti dell’Anno
Accademico 2015/2016.
Venerdì 23 giugno 2017 ha avuto luogo il Seminario di Studio
“Prendersi cura della famiglia”, con interventi di S.E. Mons. Vincenzo
Paglia (Gran Cancelliere dell’Istituto e Presidente della Pontificia Acca-
demica per la Vita), Prof. Riccardo Prandini (Università di Bologna),
nonché dei Proff. Livio Melina e Domenico Simeone, Direttori del
Master in Consulenza Familiare.
I giorni 27 e 28 giugno hanno avuto luogo le sessioni di lavoro del
Consiglio di Istituto, dedicate al tema “Famiglia e dimora: edificare,
generare, abitare”. Sono intervenuti i Proff. Giancarlo Consonni (Po-
litecnico di Milano), Antonio López (Sezione di Washington D.C.),
Prof. Sergio Belardinelli (Sede Centrale), José Granados (Sede Cen-
trale), Walid Abi-Zeid (Centro Associato di Beirut), S.E. Mons. Juan
Antonio Reig Pla (Sezione Spagnola).
Durante il secondo semestre si sono tenute le sedute del Semina-
rio dei Docenti, dedicato quest’anno al tema della “Antropologia della
gestazione”.
23/III/2017: Fenomenologia della gestazione (Prof. Pierangelo Sequeri)
6/IV/2017: Gestazione e generazione del soggetto (Prof. Mario Binasco)
4/V/2017: Sviluppo embrionale e linguaggio del corpo (Prof.ssa Maria Luisa
Di Pietro)
24/V/2017: Famiglia e Chiesa come utero spirituale (Prof. Livio Melina)

Visiting Professors
Nell’ambito del programma di Visiting Professors, le Autorità dell’I-
stituto e alcuni Professori della Sede Centrale dell’Istituto si sono recati
nelle Sezioni extra-urbane e nei Centri Associati per tenere i propri
corsi. Questo scambio di docenti tra le diverse sezioni è particolarmente

792
Vita dell’Istituto

importante per favorire quella “unità di visione nella ricerca e nell’insegna-


mento, pur nella diversità dei luoghi e delle sensibilità”, a cui pensava San
Giovanni Paolo II al momento della costituzione di questo Istituto,
concependolo come unica realtà presente con differenti sedi nei cinque
continenti.
In particolare, dal 2 al 8 febbraio 2017, il Gran Cancelliere, S.E.
Mons Vincenzo Paglia, e il Preside, Mons. Pierangelo Sequeri, si
sono recati negli Stati Uniti dove hanno avuto modo di incontrare la
comunità accademica della Sezione Statunitense dell’Istituto. Inoltre,
hanno partecipato a Dallas all’evento “40 Days for Life” e al 26th Work-
shop for Bishops National Catholic Bioethics Center. A New York, hanno
incontrato i responsabili di alcuni ONG che lavorano nell’ambito della
famiglia e della vita e che sono presenti presso l’ONU.
Il Prof. José Granados, dal 22 al 29 gennaio 2017 ha visitato la Se-
zione Messicana, ove ha tenuto un corso dal titolo “Sacramento del ma-
trimonio y pastoral de la conversión”. Inoltre, il professore ha avuto un
seminario con i docenti della Sezione, nonché un incontro con sacerdo-
ti, seminaristi e agenti di pastorale familiare dell’Arcidiocesi di Messico.
Il Prof. Jarosław Merecki, si è recato presso la Sezione Indiana
dell’Istituto in qualità di Visiting professor, tenendo il corso “The Philo-
sophical Anthropology of Karol Wojtyła”. Inoltre, il professore ha par-
tecipato al Simposio annuale con il Keynote Address “Interpretation of
the Apostolic Exhortation Familiaris consortio”.
Alla fine del mese di gennaio, la Prof.ssa Maria Luisa Di Pietro si
è recata nella Sezione Spagnola per tenere un corso sul tema “Antropo-
logía de la sexualidad e ideología de género”.
Dal 16 al 17 febbraio 2017 il Prof. Stephan Kampowski ha visitato
la Sezione Spagnola dove ha tenuto un seminario con i docenti dell’I-
stituto sulla recezione e le interpretazioni di Amoris laetitia. Inoltre, il
professore ha partecipato al Congresso “Responsabilidad, Amor e Identidad
Personal”, organizzato dalla Facoltà di Filosofia dell’Universidad Católica
de Valencia. L’intervento del professore era dedicato al tema: “Love, Fa-
mily, and Responsibility”.
La Prof.ssa Gabriella Gambino ha visitato la Sezione Brasiliana dal
22 aprile al 1 maggio, tenendo il corso dal titolo “Família, Bioética e
Biodireito”. Inoltre la professoressa ha tenuto 4 conferenze pubbliche

793
Vita dell’Istituto

legate alla biogiuridica. Durante la sua visita ha assistito all’inaugurazione


dei nuovi locali dell’Istituto Giovanni Paolo II all’interno dell’Università
Cattolica di Salvador.
Dal 21 al 24 maggio il prof. José Noriega ha visitato il Centro As-
sociato di Daejeon per intervenire in qualità di relatore principale alla
Settimana di studio pastorale, rivolta ai sacerdoti, religiosi e religiose,
agenti di pastorale familiare delle varie diocesi, studenti del Centro As-
sociato, nonché ai docenti dei seminari e delle case di formazione dei
Paesi vicini.
Dal 31 maggio al 7 giugno, la Prof.ssa Oana Gotia ha visitato il
Centro Associato di Beirut, ove ha tenuto un corso e una conferenza
pubblica sul tema “Educazione e terapia del desiderio”. Inoltre, è in-
tervenuta al Simposio “La verità salvifica del bene e la sua drammaticità
concreta e personale come risposta al nichilismo, pluralismo e relativi-
smo etico” con una relazione dedicata al tema “La novità dell’amore
portato da Cristo: a partire da San Tommaso e da Wojtyła”.

Cooperazione Interuniversitaria
Nel contesto del progetto di un Centro Associato per la Repubblica
Ceca e la Slovacchia, in data 11 gennaio 2017 è stata firmata la con-
venzione tra il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, rappresentato dal
Preside, Mons. Pierangelo Sequeri, e l’Accademia di Diritto Canonico
della Diocesi di Brno in Repubblica Ceca (rappresentata dal Vescovo di
Brno, Mons. Vojtech Cikrle, e dal Presidente dell’Accademia, Mons.
Karel Orlita) per offrire un Corso di Formazione Permanente in Pa-
storale Familiare. Il corso ha avuto in quest’Anno Accademico 52 iscritti,
tra cui laici, preti e religiosi. In Slovacchia, il corso è offerto insieme
all’Ufficio Famiglia della Conferenza Episcopale Slovacca, e ha visto 48
iscritti per l’Anno Accademico 2016/2017.
In data 27 gennaio 2017, il Preside dell’Istituto Giovanni Paolo
II, Mons. Pierangelo Sequeri, e il Preside dell’Istituto Universitario
Sophia, del Movimento dei Focolari, Mons. Pietro Francesco Coda,
hanno firmato un progetto di co-tutela per una tesi di Dottorato sul
tema: “La analogía trinitaria en la relación ‘varón-mujer’, en la mística de
Chiara Lubic. Perspectivas para vivir la communio personarum”, dello stu-
dente Dott. Juan Justo de la Torre, sotto la direzione dei Proff. José

794
Vita dell’Istituto

Granados (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II) e Pietro Francesco


Coda (Istituto Universitario Sophia).
In data 8 febbraio 2017, è stato firmato un accordo di cooperazione
accademica con l’Università di Warmia a Mazury a Olsztyn, in Polonia.

Area Internazionale di Ricerca in Teologia Morale


I giorni 18-19 novembre 2016 si è tenuto il XVI Colloquio di Te-
ologia Morale “Misericordia: pensieri, parole, opere e omissioni”, or-
ganizzato dall’Area di Ricerca in Teologia Morale. Sono intervenuti i
Proff. Pablo Requena (Pontificia Università della Santa Croce), Kle-
mens Stock (Pontificio Istituto Biblico), Riccardo Ferri (Pontificia
Università Lateranense), Giacomo Samek Lodovici (Università Cat-
tolica del Sacro Cuore, Milano), Donna Orsuto (Pontificio Istituto
Giovanni Paolo II), Amaury Begasse de Dhaem (Pontificia Università
Gregoriana), Stephan Kampowski (Pontificio Istituto Giovanni Paolo
II), Benedetto Carucci Viterbi (Collegio Rabbinico Italiano, Roma),
Nestor Bassunga (Pontificia Accademia Alfonsiana), Juan José Pérez-
Soba (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II), Peter Schallenberg
(Theologische Fakultät Paderborn) e Aude Suramy (Institut Catholique
de Toulouse).
Nel secondo semestre dell’Anno Accademico, l’Area di Ricerca ha
svolto il Seminario libero dedicato al tema “Intelligenza d’amore: una
nuova epistemologia morale oltre la dialettica tra norma e caso”, in pre-
parazione al XVII Colloquio di Teologia Morale previsto per i giorni
17-18 novembre 2017.
Frutto dei lavori dell’Area di Ricerca è stata la seguente pubblicazio-
ne: J.J. Pérez-Soba (a cura di), La famiglia: chiave del dialogo Chiesa-mondo
nel 50º della Gaudium et spes, Cantagalli, Siena 2016.

Cattedra Karol Wojtyła


Nei giorni 5-7 dicembre 2016 ha avuto luogo il Seminario di Stu-
dio Wojtyła Lectures (9° edizione), organizzato dalla Cattedra Karol
Wojtyła e che quest’anno ha trattato il tema “La situazione della famiglia
nell’Unione Sovietica”, Prof. Bogdan Prach, Rettore dell’Università
Cattolica Ucraina, Leopoli. Nell’ambito delle Wojtyła Lectures, merco-
ledì 14 dicembre ha avuto luogo la Conferenza pubblica tenuta da Sua

795
Vita dell’Istituto

Beatitudine Svjatoslav Ševčuk, Arcivescovo Maggiore della Chiesa


Greco-Cattolica Ucraina, sul tema “La difesa della dignità della persona
nei Paesi post-comunisti”.
Gli Atti dell’edizione precedente delle Wojtyła Lectures sono stati
pubblicati in: S. Grygiel - P. Kwiatkowski (a cura di), Il richiamo della
Bellezza. Pensieri ispirati all’eredità di San Giovanni Paolo II. Con un testo di
Benedetto XVI, Cantagalli, Siena 2016.

Area Internazionale di Ricerca in Teologia Sacramentaria


Venerdì 28 aprile ha avuto luogo il IV Colloquio di Teologia Sacra-
mentaria, dedicato al tema “Vincolo coniugale e carattere sacramentale:
una nuova corporeità”. Al Colloquio, organizzato dall’Area Internazio-
nale di Ricerca in Teologia Sacramentaria, sono intervenuti i Proff. Pie-
rangelo Sequeri (Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II),
Alexandra Diriart (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II), José Gra-
nados (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II), Carmine di Martino
(Università degli Studi di Milano), Carlos José Errázuriz (Pontificia
Università della Santa Croce), Sr. Mary Melone (Rettore Magnifico
della Pontificia Università Antonianum), Philippe Vallin (Université de
Strasbourg), Luca Pedroli (Pontificio Istituto Biblico) e Monika Gry-
giel (Pontificio Istituto Giovanni Paolo II).
L’Area di Ricerca ha pubblicato gli Atti del Colloquio dell’anno
precedente: A. Diriart – M. Gegaj (a cura di), Il matrimonio, cardine
dell’economia sacramentaria, Cantagalli, Siena 2017.

Biblioteca
La Biblioteca dell’Istituto, nata nel 2003, offre una qualificata e spe-
cialistica raccolta di volumi sul matrimonio e la famiglia, con particolare
riferimento alle scienze bibliche, all’antropologia teologica, alla teologia
morale, alla bioetica ed alla psicologia.
Dal gennaio 2008 partecipa alla rete Urbe (Unione Romana Bi-
blioteche Ecclesiastiche) ed in collaborazione con le altre Università ed
Istituti pontifici ha avviato un programma di riqualificazione catalogra-
fica, ritenendo l’adozione di standard e regole comuni nella descrizione
bibliografica dei singoli cataloghi punto di partenza imprescindibile per
la creazione di un futuro Opac virtuale che renda sempre più facile la

796
Vita dell’Istituto

ricerca da parte di un’utenza internazionale, quale è quella che caratte-


rizza i Pontifici Atenei Romani.
Inoltre, sempre in contesto Urbe, che ha raccolto in tal senso l’invito
dell’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici della CEI, par-
tecipa al gruppo di lavoro per lo sviluppo di un nuovo soggettario per i
termini di ambito religioso, a sua volta inserito nel più ampio progetto
del Nuovo Soggettario della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
La Biblioteca cura la spedizione delle tesi pubblicate dall’Istituto a 70
centri universitari in Italia e all’estero e l’invio delle altre pubblicazioni
dell’Istituto ad American Theological Library Association (ATLA), Catholic
Periodical and Literature Index (CPLI), Ephemerides Theologicae Lovanienses,
Intams Chair for the Study of Marriage & Spirituality, Centro Internazionale
Studi Famiglia (CISF) e Centro G.P. Dore di documentazione e promozione
familiare, affinché vengano inserite nelle relative rassegne bibliografiche
e banche dati.
Ricordiamo, infine, che il suo posseduto consta di 8349 volumi e 94
titoli di riviste correnti.

Premiazioni
Il Premio Sub Auspiciis, concesso alla tesi dottorale che si è maggior-
mente distinta nell’Anno Accademico 2015-2016, è stato attribuito dal
Consiglio della Sede Centrale riunitosi l’8 novembre 2016 allo studente
Paweł Stanisław Gałuszka, che ha difeso in data 9 giugno 2016 la tesi
dal titolo “Il memoriale di Cracovia”. Il contributo del cardinale Karol Wojtyła
e del gruppo di teologi e filosofi polacchi, nella preparazione e nella ricezione
dell’Enciclica Humanae vitae di Papa Paolo VI, sotto la direzione del Prof.
Livio Melina, con votazione e qualifica pari a 89,91/90 (Summa cum
laude).
In occasione della Lectio inauguralis della prof.ssa Alexandra Diriart,
sono stati conferiti i premi ai migliori studenti del Ciclo di Licenza per
l’Anno Accademico 2015-2016. In particolare si tratta di:
‒ 1° premio: Rev.do D. Alberto Frigerio - 30/30 (Summa cum lau-
de) – Titolo dissertazione: “Natura umana e razionalità pratica nella di-
scussione teologica circa Humanae Vitae” (Relatore: Prof. Livio Melina)

797
Vita dell’Istituto

‒ 2° premio: Rev. D. Roberto Signorelli - 30/30 (Summa cum


laude) – Titolo dissertazione: “Padre dove sei? La sfida di essere padre nel
tempo della postmodernità” (Relatore: Prof. Furio Pesci)
‒ 3° premio: Rev. D. Rodolphe Berthon – 29,96/30 (Summa
cum laude) – Titolo dissertazione: “La ‘forme eucharistique’ de l’exis-
tence chrétienne vécue dans le mariage” (Relatore: Prof. Alexandra
Diriart).
Per quanto riguarda il Master in Scienze del Matrimonio e della
Famiglia, la migliore studentessa per l’Anno Accademico 2015-2016 è
stata la Dott.ssa Verónica Fernández Espinosa - 30/30 (Summa cum
laude) – Titolo dissertazione: “Aprendiendo a amar el amor humano.
La educación al amor en el ámbito escolar” (Relatore: Prof. Juan José
Pérez-Soba).

Pubblicazioni
Collana “Amore umano - Strumenti”
P. Donati, Generare un figlio. Che cosa rende umana la generatività,
Cantagalli, Siena 2017.

Collana “Studi sulla Persona e la Famiglia”:


A. Diriart – M. Gegaj (a cura di), Il matrimonio, cardine dell’economia
sacramentaria, Studi sulla persona e la famiglia - Atti 37, Cantagalli,
Siena 2017.
S. Kampowski (a cura di), Pratiche di vita buona per una cultura della fami-
glia, Studi sulla persona e la famiglia - Atti 38, Cantagalli, Siena
2017.
S. Kampowski, La fecondità di una vita. Verso una antropologia del matrimo-
nio e della famiglia, Studi sulla persona e la famiglia - 39, Cantagalli,
Siena 2017.

- Tesi di Dottorato:
A. de Roeck, Les époux Beltrame-Quattrocchi: deux vies au service du bien
commun. La dimension sociale de la sainteté conjugale à partir de la vie des
bienheureux Luigi et Maria Beltrame-Quattrocchi, Studi sulla persona e
la famiglia - Tesi 34, Cantagalli, Siena 2017.

798
Vita dell’Istituto

Fuori Collana:
La Libreria Editrice Vaticana ha ristampato a gennaio 2017 il vo-
lume Giovanni Paolo II, L’amore umano nel piano divino. La redenzione
del corpo e la sacramentalità del matrimonio nelle catechesi del mercoledì (1979-
1984), a cura di Gilfredo Marengo.

2) Sezione Statunitense
Nell’Anno Accademico 2016/2017 il numero totale degli iscritti
è stato di 107 studenti: 10 sacerdoti, 1 diacono, 94 laici e 2 religiosi,
provenienti da 6 differenti paesi. Nel dettaglio, il corso di Master ha
visto la partecipazione di 31 studenti, quello di Licenza di 7 studenti, il
corso di Dottorato in S. Teologia di 5 studenti, 25 sono stati gli iscritti al
programma di Ph.D. e 9 studenti uditori. 30 sono gli studenti classificati
come Continuing Education Series students.
L’anno si è aperto il 15 settembre 2016 con la S. Messa nella Cappel-
la Redemptor Hominis del Saint John Paul II National Shrine. La cerimonia
è stata presieduta da S.Ecc.za Mons. Timothy Broglio, Arcivescovo
per i Servizi Militari degli Stati Uniti di America.
Il 26 settembre 2016 la Sezione ha ospitato il Prof. Jeff Shafer,
dell’Alliance Defending Freedom, per una conferenza sul tema “Evolving
Conceptions of Liberty: Prospects for Law and Religious Freedom in
the Obergefell Era”.
Il 2 novembre 2016 alcuni docenti della Sezione hanno partecipato
alla tavola rotonda organizzata dalla Conferenza dei Vescovi Cattoli-
ci Statunitensi per i nuovi direttori nazionali della pastorale familiare.
Hanno partecipato: Prof. Antonio López sul tema “Pastoral Accom-
paniment;” Prof. David Crawford sul tema “The Deconstruction of
Sexuality;” Prof. Nicholas Healy sul tema “What is at Stake with Mar-
riage and the Family Today? The Sacramentality of Marriage and the
Eucharist;” e la Prof.ssa Jeanne Schindler sul tema “Love, Work, and
Human Fulfilment.”
Il 2 dicembre ha avuto luogo la presentazione del volume del Prof.
Joseph Atkinson “Biblical and Theological Foundations of the Fami-
ly: The Domestic Church”. Sono intervenuti, oltre all’Autore, il Prof.

799
Vita dell’Istituto

Gregory Tatum, O.P., dell’École Biblique & Archéologique Française de


Jérusalem, e il Prof. Craig Bartholomew, della Redeemer University.
Il 3 febbraio 2017 hanno visitato la Sezione di Washington S. Ecc.
za Mons. Vincenzo Paglia e Mons. Pierangelo Sequeri, rispettiva-
mente Gran Cancelliere e Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo
II. Mons. Paglia e Mons. Sequeri hanno tenuto gli interventi ai docenti,
collaboratori, studenti e ex-alunni della Sezione sulla missione dell’Isti-
tuto. All’incontro sono stati presenti: S. Em.za Card. Donald Wuerl,
Vice Gran Cancelliere della Sezione, Prof. John Garvey, Presidente
della Catholic University of America, Mons. Brian Bransfield, Segretario
Generale della Conferenza dei Vescovi Statunitensi, Rev. Mark Moro-
zowich, Decano della School of Theology and Religious Studies presso la
Catholic University of America; e il Prof. John McCarthy, Decano della
School of Philosophy presso la Catholic University of America.
Il 17 febbraio 2017 la Prof.ssa Janelle Hallman ha tenuto una le-
zione sul tema “The Heart of Female Same-Sex Attraction”.
Il 22 marzo 2017, il Prof. Simon Oliver, Van Mildert Professor of
Divinity della Facoltà di Teologia e Religione della Durham University,
ha tenuto una lezione sul tema “Creation’s Ends: Teleology and the
Natural”.
Il 30 marzo 2017 la Sezione ha ospitato la presentazione dell’ultima
pubblicazione del Prof. Antonio López, Gift and the Unity of Being, alla
quale è intervenuto, oltre all’Autore, il Prof. John Milbank.
Il 31 marzo 2017 i docenti della Sezione hanno avuto un incontro
con il Prof. John Milbank per discutere il suo recente articolo “Mathesis
and Methexis: the Post-Nominalist Realism of Nicholas of Cusa.”
Il 9 maggio 2017 si è tenuta la consegna dei diplomi e in quella oc-
casione è stata celebrata la Santa Messa presso il Saint John Paul II National
Shrine. La Messa è stata presieduta da S.Ecc.za Mons. James Conley,
Vescovo della Diocesi di Lincoln, NE.
La rivista quadrimestrale Humanum: Issues in Family, Culture, and
Science, ha proseguito con la sua sesta edizione. Sono state pubblicate le
riflessioni sui seguenti temi:
1) Home and Family
2) Recovering Origins
3) Health and Medicine

800
Vita dell’Istituto

4) Education and Ecology


Per quanto riguarda le pubblicazioni più recenti della Sezione si
ricordano i seguenti titoli: D.L. Schindler, Freedom, Truth, and Hu-
man Dignity: What Did Dignitatis Humanae Affirm Regarding the Rights
to Religious Liberty?; Card. M. Ouellet, The Mistery and the Sacrament of
Love: a Theology of Marriage and the Family for the New Evangelization; M.
Harper McCarthy, Recovering Origins: Children of Divorced Parents; D.S.
Crawford, Beyond Heterosexuality: Marriage Debate and Public Reason.
La Sezione ha iniziato il lavoro per l’edizione critica in lingua inglese
dell’Opera Omnia di Karol Wojtyła / Giovanni Paolo II. I primi volumi
saranno pubblicati nel 2019. Sono pronte le traduzioni delle opere: The
Acting Person; The Lublin Lectures; The Complete Plays and Poetry.
Il 24 giugno 2016 la Sezione di Washington ha ricevuto l’accredita-
mento civile da parte della Middle States Commission on Higher Education
per altri otto anni.

3) Sezione Messicana
Presso la Sezione Messicana nell’anno 2016/2017 risultano iscritti
1357 studenti così suddivisi: 95 alla Licenciatura en ciencias de la familia,
584 al Maestría en ciencias de la familia, 678 ai vari corsi di Diploma.
Nell’ambito dei Visiting professors, dal 22 al 29 gennaio 2017 il Prof.
José Granados ha visitato la Sezione Messicana, e ha tenuto un cor-
so dal titolo “Sacramento del matrimonio y pastoral de la conversión”.
Inoltre, il professore ha avuto un seminario con i docenti della Sezione,
nonché un incontro con sacerdoti, seminaristi e agenti di pastorale fami-
liare dell’Arcidiocesi di Messico.
Nel mese di marzo la Sezione Messicana ha organizzato in città del
Messico la “Semana de la Familia”.
Il 17 aprile alcuni docenti della Sezione hanno diretto un dialogo
accademico su Amoris laetitia.
Per celebrare l’anniversario dell’Istituto, nel mese di maggio sono
stati realizzati i seguenti eventi: a Mérida ha avuto luogo la conferenza
su “La Teologìa del Cuerpo y la Eucaristìa”; inoltre, si è tenuta la pre-
sentazione del libro di J. Granados – S. Kampowski – J.J. Pérez-Soba,
Acompañar, discernir, integrar. Vademécum para una nueva pastoral familiar a

801
Vita dell’Istituto

partir de la Exhortación Amoris laetitia, che ha visto la partecipazione del


Prof. Juan José Pérez-Soba.
La Sezione Messicana ha pubblicato i seguenti volumi: M. A. Gra-
cia Triñaque, Persona y bioética. La defensa de la vida humana a la luz del
Magisterio de la Iglesia Católica; R. Lucas Lucas, Explícame la persona; J.
Granados – S. Kampowski – J.J. Pérez-Soba, Acompañar, discernir, in-
tegrar. Vademécum para una nueva pastoral familiar a partir de la Exhortación
Amoris laetitia.

4) Sezione Spagnola
Nell’Anno Accademico 2016/2017 il numero complessivo degli
iscritti alla Sezione Spagnola è stato di 793 studenti così suddivisi: 39
alla Licenciatura en Teologìa del Matrimonio y de la Familia, 227 al Máster en
Ciencias del Matrimonio y de la Familia, 527 alla Especialidad Universitaria en
Pastoral Familiar.
Il 7 novembre 2016 si è celebrata la Giornata Lateranense, presie-
duta dal Vice Gran Cancelliere della Sezione, S. Em.za Card. Antonio
Cañizares Llovera. Dopo la celebrazione eucaristica, concelebrata dal
Vice Preside della Sezione, S.Ecc.za Mons. Juan Antonio Reig Pla, il
Prof. José Manuel Hernández Castellón ha tenuto la lezione inau-
gurale sul tema “El concepto de fecundidad en la exhortación apostólica
Amoris laetitia: arrostrar la cosificación”.
Il 20 dicembre 2016, ha avuto luogo la presentazione del libro di
J. Granados – S. Kampowski – J.J. Pérez-Soba, Acompañar, discernir,
integrar. Vademécum para una nueva pastoral familiar a partir de la exhortación
Amoris Laetitia. Oltre ad uno degli Autori, il Prof. Juan José Pérez-
Soba, è intervenuto il Vice Gran Cancelliere della Sezione.
L’8 maggio 2017 il Vice Gran Cancelliere S. Em.za Card. Antonio
Cañizares Llovera ha celebrato la Santa Messa per la festività della
Madonna di Fatima; la S. Messa è stata concelebrata dal Vice-Preside
della Sezione, S.Ecc.za Mons. Juan Antonio Reig Pla, che ha tenuto
la lezione sul tema “Los nuevos retos de la pastoral familiar”.
La Sezione, in collaborazione con la Diocesi di Alcalá de Henares,
ha organizzato il Congresso “La familia cristiana y la escuela católica.
Minorías creativas para la renovación de la sociedad”, tenutosi nei giorni

802
Vita dell’Istituto

10-12 marzo 2017. Ha presieduto il Congresso S. Ecc.za Mons. Juan


Antonio Reig Pla, e sono intervenuti i Proff. José Granados (Sede
Centrale dell’Istituto), Eduardo Ortiz (Universidad Catòlica de Valencia),
José Noriega (Sede Centrale dell’Istituto), Nacho Calderòn (Instituto
de Neuropsicologia y pedagogìa aplicada, Madrid), i coniugi Federico Mu-
let e Isabel Cruz (Centro de Orientaciòn Familiar, Valencia), Elio Gal-
lego (Universidad CEU - San Pablo, Madrid).
L’8 maggio 2017 è stato firmato un Accordo di collaborazione tra la
Sezione Spagnola e l’Università Cattolica di Valencia.
Nell’ambito dei Visiting professors, il 30-31 gennaio 2017 la Prof.ssa
Maria Luisa Di Pietro ha tenuto il corso “Antropología de la sexua-
lidad”. Il Prof. Juan José Pérez-Soba della Sede Centrale ha tenuto il
seminario dei professori sul tema “La inteligencia del amor: una nueva
epistemología moral”. Altri corsi speciali sono stati organizzati dalla Se-
zione: il 23-24 gennaio il corso “El personalismo en Karol Wojtyła”, te-
nuto dalla Prof.ssa Pilar Ferrer Rodríguez; il 30-31 gennaio “Antro-
pología de la sexualidad”, tenuto dalla Prof.ssa Maria Luisa Di Pietro;
il 5-6 giugno “La subjetividad moral del cuerpo”, tenuto dal Prof. Juan
de Dios Larrú; e dal 12 al 13 giugno il corso “Una pastoral a partir de
Amoris laetitia”, tenuto dal Prof. Juan José Pérez Soba.
In merito alle pubblicazioni, si ricordano: J.D. Larrú Ramos, La
familia, escuela de la misericordia divina, BAC, Madrid 2016; J.D. Larrú
Ramos, El camino de la misericordia, Ediciones Universidad San Dámaso,
Madrid 2017; N. Sánchez García, Tributos locales. Comentarios y casos
prácticos 2017, Ediciones CEF, Madrid 2017.

5) Sezione Brasiliana
Prosegue l’iniziativa dei corsi di Specializzazione della durata com-
plessiva di 400 ore in un anno e mezzo di corso, frequentati da 40 stu-
denti per ogni corso.
Il Vice Gran Cancelliere della Sezione Brasiliana, S. Ecc.za Mons.
Murilo Sebastião Ramos Krieger ha riconfermato in data 20 marzo
2017 S. Ecc.za Mons. Giancarlo Petrini a Vice Preside della Sezio-
ne Brasiliana per un periodo di tre anni. Il Vice Gran Cancelliere della
Sezione Brasiliana ha nominato in data 12 maggio 2017 il Rev. Padre

803
Vita dell’Istituto

Rafael Cerqueira Fornasier a Decano della Sezione Brasiliana per un


triennio.
È stata inaugurata la nuova sede dell’Istituto presso l’Università Cat-
tolica di Salvador.
Nell’ambito del programma di Visiting professors, la Sezione nel mese
di aprile 2017 ha ospitato la Prof.ssa Gabriella Gambino, della Sede
Centrale, la quale ha tenuto un corso dal titolo “Família, Bioética e Bio-
direito”. Inoltre la professoressa ha tenuto quattro conferenze pubbliche
sul tema del biodiritto.
È in fase di elaborazione un Corso di Specializzazione Universitaria
(400 ore) in Teologia della Famiglia che sarà realizzato nel 2018, incor-
porando il core curriculum dell’Istituto. Tale corso sarà divulgato in tutto
Brasile, e sarà rivolto soprattutto ai sacerdoti e agli agenti di pastorale
familiare.

6) Sezione per l’Africa francofona


Nell’Anno Accademico 2016/2017 la Sezione per l’Africa francofo-
na ha registrato 39 iscritti da 9 Paesi diversi, così suddivisi: 15 studenti al
ciclo di Licence d’université en sciences du mariage et de la famille, 18 al ciclo
di Licence canonique en théologie du mariage et de la famille, 6 al ciclo di Ma-
ster en sciences du mariage et de la famille.
Il 6 ottobre 2016 il Vice-Preside della Sezione, Mons. Philippe Kin-
kpon, ha presieduto la Santa Messa dell’inizio dell’Anno Accademico.
L’anno accademico è terminato il 20 giugno 2017 con una cerimonia
conclusiva.
Il 3 novembre 2017 la Sezione per l’Africa Francofona ha cele-
brato il XX anniversario dalla sua fondazione. Il Gran Cancelliere S.
Ecc.za Mons. Vincenzo Paglia e il Preside, Mons. Pierangelo Seque-
ri, hanno visitato la Sezione dal 1 al 4 novembre e hanno partecipato
sia al Convegno organizzato in questa occasione che alla Santa Messa di
ringraziamento per i doni ricevuti negli anni di presenza dell’Istituto a
Cotonou.

804
Vita dell’Istituto

7) Sezione Indiana
Nell’Anno Accademico 2016/2017 il numero totale degli iscritti è
stato di 57 studenti così suddivisi: 23 al ciclo di Licentiate in S. Theology of
Marriage and Family (di cui 3 provenienti da Malawi), 18 al ciclo di Master
in Family Studies e di 16 al Diploma in Family Ministry.
L’inaugurazione dell’Anno Accademico è avvenuta il 21 settembre
2016 con la solenne Celebrazione Eucaristica presieduta da S. Ecc.za
Mons. Sebastian Edeyamtharethareth, Vescovo ausiliare dell’Arci-
diocesi di Ernakulam. Il Prof. Dominic Muriamkavunkal ha tenu-
to la lezione inaugurale dal titolo “Domestic Church: Principles and
Applications”.
Nello stesso giorno è stata inaugurata la Cattedra di S. Kuriakose
Elia Chavara. All’Inaugurazione è stato presente il Rev. Prof. Cyriac
Madathil CMI, Provinciale della Congregazione CMI di Trivandrum.
Il 24 settembre 2016 è stata celebrata la festa di San Giovanni Pao-
lo II, che ha visto la partecipazione di molti sacerdoti, religiosi e laici
provenienti dalle varie diocesi.
Il 9 novembre 2016 si è svolto il pellegrinaggio in occasione della
conclusione dell’Anno di Misericordia.
La Sezione, in collaborazione con il Theological Forum dell’Arcidio-
cesi di Changanacherry, ha organizzato il 10 dicembre 2016 un Semi-
nario sull’Esortazione Apostolica Apostolica Amoris laetitia. Oltre ai di-
scorsi sui diversi aspetti della vita familiare, sono state offerte al pubblico
testimonianze e riflessioni dei laici e di persone provenienti da diverse
confessioni cristiane.
Il Simposio annuale, dedicato a tema “Accompanying the Couples
and Families in the Light of Amoris laetitia”, si è svolto il 27 gennaio
2017. Il Prof. Jarosław Merecki, della Sede Centrale, ha tenuto il Key-
note address. Il Simposio si è concluso con la cerimonia di consegna dei
diplomi.
Dal 25 gennaio al 5 febbraio 2017, il Prof. Jarosław Merecki, ha
tenuto un corso Visiting professors sul tema: “The Philosophical Anthro-
pology of Karol Wojtyła”.

805
Vita dell’Istituto

8) Centro Associato di Melbourne (Australia)


Il numero degli iscritti ai diversi corsi offerti dal John Paul II Institute
for Marriage and Family, Centro Associato di Melbourne, nell’Anno Ac-
cademico 2016/2017 è stato di 119, di cui 71 per il Graduate Certificate,
10 per il Graduate Diploma, 23 per il Master e 15 per il PhD. Sono stati
creati due nuovi programmi: Graduate Certificate ed il Graduate Diplo-
ma in the Theology of Psychology.
Hanno avuto successo i corsi di Educazione Religiosa offerti dal
Centro Associato. La modalità on-line ha fatto sì che gli studenti prove-
nienti sia dal Victoria rurale che da altri Stati hanno potuto trarre van-
taggio da queste qualifiche.
Nel luglio dello scorso anno sono state implementate le nuove qua-
lifiche e i nuovi curricula approvati dalla TEQSA (Tertiary Education
Quality and Standards Agency) l’anno precedente. Ciò ha reso necessario
lo sviluppo di un’ampia gamma di materiali didattici.
La Prof.ssa Tracey Rowland ha pubblicato il suo libro “Catholic
Theology”, che offre ai seminari e alle Facoltà teologiche una ampia ras-
segna della teologia cattolica contemporanea.
Nel maggio 2017 i Proff. Adam Cooper e Joel Wallace hanno
condotto un ritiro di due settimane sulla Teologia del Corpo di Giovan-
ni Paolo II per sacerdoti a Madang e Papua Nuova Guinea.
Il Centro Associato ha creato una serie di video conferenze accom-
pagnate da un manuale sulla Teologia del Corpo di San Giovanni Paolo
II. Lo scopo di questo progetto è stato di rendere la teologia del corpo
accessibile ad un pubblico più ampio e promuovere uno degli aspetti
fondamentali del lavoro dell’Istituto.
Dal 16 al 18 settembre 2016 l’Istituto ha organizzato la terza edizio-
ne della National Fertility Conference. Alla conferenza hanno partecipa-
to 120 persone, tra cui medici, educatori, agenti di pastorale familiare,
provenienti da tutti gli stati dell’Australia, dal Giappone e dalla Nuova
Zelanda.
Il 30 maggio 2017 S. Ecc.za Mons. Peter Elliott ha presieduto la
cerimonia di chiusura dell’Anno Accademico.

806
Vita dell’Istituto

9) Centro Associato di Beirut (Libano)


Per l’Anno Accademico 2016/2017 l’Institut de la Famille de l’Univer-
sité La Sagesse, Centro Associato di Beirut, ha registrato 81 studenti: 18
per il Mastère en sciences ecclésiales – option études sur le mariage et la famille,
9 per il Diplôme en pastorale familiale, 30 studenti hanno partecipato al
programma biennale di Diplôme en médiation familiale, organizzato in col-
laborazione con la Commissione Patriarcale per la Famiglia a Bkerke e
24 studenti del Diplôme en pastorale familiale organizzato in collaborazione
con il Seminario St. Antoine de Padoue – Karm Saddé.
Il 28 giugno 2016, è stato rinnovato l’accordo tra il Pontificio Istitu-
to Giovanni Paolo II e il Centro Associato di Beirut, firmato dal Preside
Mons. Livio Melina e dal Cancelliere del Centro a Beirut, S. Ecc.za
Mons. Boulos Matar, Arcivescovo Maronita di Beirut.
Il 7 giugno 2017 il Centro Associato ha organizzato un Simposio
sul tema “La verità salvifica del bene e la sua drammaticità concreta e
personale come risposta al nichilismo, pluralismo e relativismo etico”.
Sono intervenuti in qualità di relatori i Proff. Khalil Chalfoun, Ta-
nios Khalil, Henri Cremona, Nadine Abbas, Pascale Tabet, Mi-
chel Sakr e Oana Goţia.
Dal 31 maggio al 7 giugno 2017, nell’ambito dei Visiting professor,
la Prof.ssa Oana Goţia, ha offerto un corso sul tema “Education et
thérapie du désir pour un lien stable”. La Prof.ssa Goţia, inoltre, ha
tenuto una conferenza pubblica per gli operatori pastorali della Diocesi
di Beirut.

10) Centro Associato di Daejeon (Corea)


Il Centro, con sede presso l’Università Cattolica di Daejeon conta
un totale di 60 studenti tra primo e secondo anno di corso provenien-
ti da 8 diocesi della Corea del Sud. Gli studenti sono laici, sacerdoti e
religiosi.
Il 28 novembre 2016 il Centro Associato ha organizzato il V Con-
vegno Nazionale sulla Teologia del Corpo, dedicato al tema “Dono
dell’amore: Teologia del corpo e la pastorale familiare”.
Il 22 maggio si è tenuto il VI Convegno Internazionale sul tema
“Letizia della famiglia e accompagnamento pastorale della Chiesa”,

807
Vita dell’Istituto

rivolto a sacerdoti, religiosi e religiose, agenti di pastorale familiare delle


varie diocesi, nonché studenti di Centro Associato del Pontificio Istituto
Giovanni Paolo II, docenti dei seminari e delle case di formazione dei
paesi circostanti.
Il Prof. José Noriega è intervenuto in qualità di relatore principale
al Convegno Internazionale e ha tenuto un corso Visiting professor sul
tema “Enigmi del piacere. Cibo, desiderio e sessualità”.
Per quanto riguarda le pubblicazioni è uscito il volume di Kim Sook
Hee “Matrimonio nella Sacra Scrittura”. Inoltre, è stato tradotto e pub-
blicato il volume di José Noriega, Enigmi del piacere. Cibo, desiderio e
sessualità.

11) Centro Associato di Bacolod (Filippine)


Il Pope John Paul II National Institute for Studies on Marriage and Fa-
mily nell’Anno Accademico 2016/2017, ha avuto complessivamente 63
studenti, dei quali 30 iscritti al Master of Education e 33 al Diploma on
Family Ministry, provenienti da diverse diocesi delle Filippine, da Cina
e Myanmar.
Nell’ambito del servizio ai vari Istituti diocesani di famiglia, dal 8 al
10 novembre 2016 il Direttore del Centro, Mons. Victorino Rivas e
il Prof. Ronaldo Quijano hanno tenuto una serie di lezioni sulla pa-
storale familiare presso la Diocesi di Baguio.
Inoltre, nel mese di novembre Mons. Victorino Rivas ha offerto
un seminario sul tema “Family Life Ministry and Canon Law” ai sacer-
doti e gli agenti della pastorale familiare della Diocesi di Tagum. Mons.
Rivas ha tenuto anche una conferenza su “Family Life Ministry” ai sa-
cerdoti della Diocesi di Ipil.
Nel mese di novembre i Proff. Sergio e Carme Tan, insieme con la
Prof.ssa Agnes Hechanova hanno tenuto un corso su “Pastoral Coun-
seling and Marriage Preparation” presso l’Institute on Marriage and Family
in Baguio, e un corso dallo stesso titolo ai sacerdoti dalla Diocesi di Ipil.
Il Prof. Ronaldo Quijano ha partecipato al primo Congresso Dio-
cesano, svoltosi dal 2 al 6 marzo 2017, e ha presentando una relazione
sul tema della famiglia.

808
Vita dell’Istituto

12) Centro Associato di Bogotà (Colombia)


Il Centro Associato di Bogotà ha avuto nell’Anno Accademico
2016/2017 un totale di 446 studenti. Il Centro offre Corsi di Pastorale
Familiare di durata bimestrale. In questo anno ha avuto anche inizio il
Corso di Diploma in Bioetica e Famiglia, in collaborazione con l’Univer-
sidad Católica de Colombia.
Dal 11 al 15 luglio 2016 il Centro ha offerto un corso su “Evange-
lización y pastoral familiar” presso il Seminario Mayor Nuestra Señora
del Carmen dell’Arcidiocesi di Villavicencio. Dal 28 al 29 luglio 2016 si
è tenuto il corso di “Actualización teológica” destinato ai sacerdoti della
Arcidiocesi di Villavicencio.

809
INDICE ANNATA 2017

Lettera del Cardinale Angelo Scola in occasione delle esequie del Cardinale Carlo
Caffarra 8
L. Melina, In memoria di Sua Eminenza il Card. Carlo Caffarra 9

Testimonianza

C. Caffarra, La Vergine di Fatima e il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II 13

Di quale fede vive la Chiesa? Le prospettive di Lumen fidei

J. Noriega, Editorial 17

Articoli

P. Sequeri, L’affidabilità dell’amore 25

J. Granados, La fe, “luz encarnada”, según Lumen fidei 45

K. H. Menke, Die Sakramentalität des christlichen Glaubens Ein zentrales


Anliegen der Enzyklika „Lumen fidei“ 63

W. Giertych, “Who touched me?”. When Faith Enables Us to Touch God 85

C. Granados, Lumen fidei: fragilidad y fuerza de una fe encarnada en la


historia 109

J. Spronck, Gnose et foi chrétienne. Réflexions théologiques à partir du


n0 47 de Lumen fidei 123

J. J. Pérez-Soba, Conocimiento y amor: la novedad de Lumen fidei 147

N. J. Healy, The Light of Faith and the Development of Doctrine 197

811
Indice annata 2017

In rilievo

S. Grygiel, Il maestro e l’allievo sono presenti l’uno all’altro 217

L. Melina, Le sfide di Amoris laetitia per un teologo della morale 233

Cronaca Teologica

J. J. Pérez-Soba, A. Frigerio, La misericordia, uno sguardo su un mistero


che genera vita: a proposito del Colloquio internazionale 251

Nota critica

J. Granados, Tres lecturas de Amoris laetitia, y una cuarta. Nota sobre el


debate en torno a la Exhortación apostólica 267

A. Frigerio, Cambio di paradigma o déjà-vu? L’impatto di Amoris laetitia


sulla teologia morale 273

Quaestio disputata: È tomistica Amoris laetitia?

E. Schockenhoff, Thomas von Aquin und die moraltheoligische Perspektive


von Amoris laetitia 303
B. Cole, Thomism, Moral Claim and Amoris laetitia 313

***

Francesco, Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio “Summa Familiae


Cura” 335

J. Noriega, Editorial 339

Famiglia e dimora: edificare, generare, abitare

Articoli

P. Sequeri, Famiglia e dimora: edificare, generale, abitare 347


G. Consonni, Intimità / esteriorità dell’abitare: la casa, la città 351

812
Indice annata 2017

A. López, The First Dwelling Place: Childhood and the Structure of Familial
Relationships 367

S. Belardinelli, Abitare la società dei non-luoghi: la famiglia sorgente di


spazio sociale 397

J. Granados, “Venne ad abitare in mezzo a noi”: teologia della carne e


dimora 407

W. Abi-Zeid, To Inhabit Time: Liturgical Rhythm and Family Life 433

J. A. Reig-Pla, Edificare la chiesa domestica: pratiche familiari per abitare


in Chiesa 459

In rilievo

J. Granados, Semina Verbi: una esperanza para la familia 485

E. Falque, Eros, corps et Eucharistie 513

J. Granados, Sacerdozio e famiglia: quale nesso? 537

Nota critica

J. J. Pérez-Soba, Con suavidad y firmeza: un camino eclesial a recorrer,


la Veritatis splendor vista tras Amoris laetitia. Una respuesta a un
libro reciente de Alain Thomasset y Jean-Miguel Garrigues 565

Quaestiones disputatae

Introducción a la rubrica Quaestiones disputatae 616

Quaestio disputata 2: Comunione ai divorziati risposati:


continuità o rottura con la Tradizione?
J.-F. Chiron, L’Exhortation apostolique Amoris laetitia a-t-elle
introduit une rupture dans la tradition ? 619

M. G. Sirilla, Whether the Proposal to Give Communion to Divorced and


Remarried Catholics Living in More Uxorio Is a Development of
Doctrine in Continuity with Tradition? 627

813
Indice annata 2017

Quaestio disputata 1: È tomistica Amoris laetitia?

B. Cole, The Hurdles of St. Thomas Aquinas to Overcome in Amoris


laetitia. In response to Prof. Eberhard Schockenhoff 641

Testimonianza
Carlo Caffarra: il profilo di un pastore teologo
Introducción a la rubrica Testimonianza Carlo Caffarra 656

C. Caffarra, Discorso del Preside in occasione del primo atto accademico


dell’Istituto alla presenza di Papa Giovanni Paolo II (1981) 657

M. Camisasca, Testimonianza su Carlo Caffarra 661

M.L. Di Pietro, L’integrum: dovere etico e proposta educativa in Carlo


Caffara 665

W.J. Eijk, Un esempio indimenticabile per i suoi alunni e per tutti


i teologi moralisti 675

H. Geissler, Carlo Caffarra e il dibattito sulla coscienza morale 681

J. Granados, Itinerario hacia el misterio: matrimonio y familia según


Carlo Caffarra 691

S. Grygiel, Servus veritatis et amoris 705

L. Melina, Carlo Caffarra: maestro e testimone della verità dell’amore 711

N. Menestò, Don Carlo: un padre 723

J.M. Meyer, Le Cardinal Caffarra, témoin de la vérité 729

L. Negri, Memoria del Cardinal Carlo Caffarra 743

J. A. Reig-Pla, La enseñanza de un maestro y un padre 749

P. Sequeri, Il Vangelo come Evento e Comandamento. Sull’epistemologia


teologico-morale di Carlo Caffarra (1938-2017) 761

Vita dell’Istituto 773

Indice annata 2017 811

814
Anthropotes 33 (2017)

Novità Editoriali 2017

P. Donati, Generare un figlio. Che cosa rende umana la generatività, (Collana


“Amore umano - Strumenti”- 12), Cantagalli, Siena 2017.
A. De Roeck, Les époux Beltrame-Quattrocchi: deux vies au service du bien
commun. La dimension sociale de la sainteté conjugale à partir de la vie
des bienheureux Luigi et Maria Beltrame-Quattrocchi, (Collana “Studi
sulla Persona e la Famiglia - Tesi” - 34), Cantagalli, Siena 2017.
A. Diriart – M. Gegaj (a cura di), Il Matrimonio, cardine dell’economia
sacramentaria, (Collana “Studi sulla Persona e la Famiglia - Atti” -
37), Cantagalli, Siena 2017.
S. Kampowski, La fecondità di una vita. Verso un’antropologia del matrimonio
e della famiglia, (Collana “Studi sulla Persona e la Famiglia - Atti”
- 38), Cantagalli, Siena 2017.
S. Kampowski (a cura di), Pratiche di vita buona per una cultura della fa-
miglia, (Collana “Studi sulla Persona e la Famiglia - Atti” - 39),
Cantagalli, Siena 2017.
G. Fiorentini, Quando l’Invisibile si fa visibile. L’opera di Dio in Maria Ver-
gine, sposa e madre nel De beatae Mariae virginitate di Ugo di San
Vittore, (Collana “Studi sulla Persona e la Famiglia - Tesi” - 40),
Cantagalli, Siena 2017.
J.J. Pérez-Soba – A. Frigerio (a cura di), Misericordia: pensieri, parole,
opere e omissioni, (Collana “Studi sulla Persona e la Famiglia -
Atti” - 41), Cantagalli, Siena 2017.
P. Gałuszka, Karol Wojtyła e Humanae vitae. Il contributo dell’Arcivescovo
di Cracovia e del gruppo di teologi polacchi all’enciclica di Paolo VI,
(Collana “Sentieri della Verità” - 14), Cantagalli, Siena 2017.

815
EDIZIONI CANTAGALLI
Via Massetana Romana, 12
53100 Siena
Tel. 0577 42102 Fax 0577 45363
www.edizionicantagalli.com
e-mail: cantagalli@edizionicantagalli.com

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