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Serpico Fabio
Prof.: E. Puxeddu
TIROIDE
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Particolarmente importante è il NIS (Simporto Na+/I-), che garantisce alla cellula
follicolare l’intake di ioduro, sfruttando il gradiente elettro-chimico del Sodio, più
concentrato all’esterno della cellula e meno concentrato all’interno. Grazie anche
alla Na+/K- ATPasi è permessa la fuoriuscita di 3 Na+ e l’entrata di 2 K+. La sintesi
degli ormoni tiroidei avviene in prossimità dell’apice della cellula, in corrispondenza
dell’interfaccia cellula-colloide: partendo dalla iodinazione della tireoglobulina
sintetizzata nella cellula, si formano MIT e DIT, che si accoppiano a formare gli
ormoni tiroidei ancora attaccati alla tireoglobulina. All’occorrenza, la colloide è
introdotta nella cellula per micropinocitosi, le vescicole si fondono con i lisosomi, la
tireoglobulina viene clivata e vengono rilasciati gli ormoni tiroidei.
Alla base di tutto questo c’è il TSH, che ha un suo recettore sulla superficie baso-
laterale. L’attivazione di questo recettore innesca una cascata di trasduzione del
segnale che regola l’espressione di vari enzimi, ATPasi, tireoperossidasi, ma stimola
anche la proliferazione cellulare (iperplasia). Fondamentale è poi l’asse ipotalamo-
ipofisi-tiroide con l’importante meccanismo a feedback finalizzato a far rimanere la
concentrazione di ormoni tiroidei in un range ben preciso e specifico.
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tessuti). Una volta raggiunti, devono entrarci dentro e lo fanno grazie a determinati
trasportatori. Anche alterazioni a carico di questi ultimi, o loro mancanze, possono
determinare patologie, seppur raramente. La T4 è un pro-ormone: una volta dentro
la cellula viene trasformata in T3 ad opera di enzimi, le desiodasi. Ne esistono 3: la
DIO1, DIO2 (trasformano T4 nella forma attiva T3) e DIO3 (entra in gioco
nell’inattivazione ormonale, trasformando la T4 in rT3 che non è in grado di legare i
recettori nucleari). La T3 è in grado di legare i recettori all’interno delle cellule e
regola l’espressione genica e il comportamento delle cellule.
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altri meccanismi di metabolizzazione a livello epatico (glucoronazione, solfatazione).
È importante inattivarli dove non servono per evitare che ci siano accumuli in
eccesso.
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Protein (UCP) che devia gli H+ che vengono pompati al di fuori della membrana
del mitocondrio e che servono alla sintesi di ATP. Così facendo riesce a produrre
calore. È particolarmente importante nel tessuto adiposo bruno, dove c’è
interazione anche con il sistema adrenergico che regola l’espressione di D2.
L’adrenalina dunque attiva la D2 che trasforma la T4 in T3 che stimola la sintesi di
UCP.
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• SVILUPPO FETALE: soprattutto del
SNC e lo sviluppo scheletrico.
Durante tutta la vita embrionale e
fetale, l’organismo è esposto a
ormoni tiroidei, che prima derivano
esclusivamente dal passaggio
placentare e poi, intorno alla 20a
settimana sono prodotti propriamente
dal feto. Sono fondamentali per lo
sviluppo del SNC. Se mancano gli
ormoni tiroidei della madre e/o del
figlio ci sono moltissimi difetti e
alterazioni. Si arriva alla nascita di un
bambino affetto da difetti neuro-
intellettivi, neuro-psichici e ritardo
mentale. Tutto questo è possibile
perché questi ormoni riescono a passare, grazie a trasportatori specifici,
attraverso la membrana emato-encefalica, e andare verso i bersagli che possono
essere neuroni o cellule gliali (soprattutto oligodendrociti). Nei neuroni regolano
vari aspetti tra cui maturazione, migrazione, formazione di dendriti, formazione di
mielina e sinapsi. Sono importanti per sviluppare varie abilità: attenzione visiva,
processazione di ciò che si vede, capacità motoria sia grossolana che fine,
distinzione dello spazio circostante, parlare, avere memoria, essere attenti, avere
un QI adeguato etc.
• SNC: Sono importanti anche nella vita adulta. Se mancano, un soggetto perde
memoria, è depresso, perde interesse nelle cose..
Gli ormoni tiroidei contengono Iodio e sono le uniche molecole del nostro
organismo a contenere nella loro struttura questi atomi, importanti anche nella
funzione. La tiroide quindi, proprio per questo, necessita di iodio e lo capta grazie al
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NIS precedentemente descritto. Se nel nostro
organismo abbiamo circa 9mg di iodio, 8 di
questi sono a livello tiroideo. Esiste un ciclo
dello iodio, più o meno complicato. Lo
introduciamo con la dieta, va nel sistema
gastrointestinale, viene assorbito ed entra in un
pool extracellulare. Gran parte di quello
introdotto è perso tramite urine e, in minor
percentuale, tramite le feci (attraverso la bile,
dopo essere passato per il fegato). Una parte
dello iodio è anche quella legata agli ormoni
tiroidei.
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La problematica dello iodio coinvolge in maniera diversa le varie zone del pianeta.
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Nel sistema endocrino abbiamo diversi tipi di malattie, ma in particolare possiamo
distinguere 3 classi:
IPOTIROIDISMO
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statunitense in Colorado che ha incluso 26.000 persone con più di 18 anni, andando
a valutare la funzionalità tiroidea, lo 0,3% della popolazione (3 persone su 1000) era
affetta dalla forma clinica, cioè grave, mentre addirittura il 9% (9 su 100) era
caratterizzato dalla forma subclinica. Questo vuol dire che ci sono moltissime
persone che soffrono di ipotiroidismo. In Umbria ad esempio, dove ci sono circa
800.000 abitanti, 80.000 persone soffrono di qualche tipo di ipotiroidismo. Tra le
patologie endocrine (acromegalia, Cushing, Addison etc.) sicuramente le patologie
tiroidee sono le più diffuse accanto al diabete mellito (5-10% della popolazione) che
ovviamente ha un impatto diverso.
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congenite (da agenesia o displasia tiroidea), grave carenza di iodio (tipico di
Zimbabwe, Himalaya dove la carenza è grave, ma non a Perugia), assunzione di
sostanze che possono inibire la funzione tiroidea (litio ad esempio) e alterazioni
congenite degli enzimi implicati nella sintesi degli ormoni tiroidei
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Quali sono gli effetti della carenza di ormone tiroideo?
Venendo a segni e sintomi non si può non citare il mixedema: in alcuni organi,
soprattutto a livello cutaneo, laringeo o cardiaco, c’è accumulo di
glicosamminoglicani, i quali richiamano acqua provocando un ispessimento a livello
di questi tessuti. A livello della cute si manifesta con la cosiddetta facies
mixedematosa (paffuta, gonfia), ridotta espressività, rima oculare che può essere
ristretta (accumulo a livello palpebrale), diradamento delle sopracciglia, labbra e
lingua ingrossate, cute secca, pallida e grigiastra (talvolta giallognola perché si
accumula carotene). Lo stesso fenomeno si ha anche su tutta la cute e si parla di
mixedema cutaneo, ispessimento del sottocutaneo con edema non improntabile
(sotto la cute c’è uno strato duro). Da questi segni prende il nome una forma di
ipotiroidismo grave, cioè proprio appunto il mixedema, in cui FT4 è vicina a 0 e il
TSH è vicino a 100 mmol/L.
C’è poi una fragilità dei tegumenti (capelli, unghie) per ridotto metabolismo e la voce
di questi pazienti di solito diventa rauca per accumulo di glicosamminoglicani a
livello laringeo. Ci sono effetti sull’apparato muscolare e sul SNC che si manifestano
con astenia, adinamia, facile affaticabilità dal punto di vista sia fisico che mentale,
sonnolenza, disturbi della memoria, talvolta perdita di interesse (anche verso i
familiari e la cura della persona). Altro sintomo è l’intolleranza al freddo, legata alla
riduzione della termogenesi. Può esserci lieve aumento ponderale, legato
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all’accumulo di liquidi e al ridotto metabolismo, però l’obesità è comunque legata
all’eccessiva alimentazione e al poco movimento, non primariamente
all’ipotiroidismo. Altro sintomo importante è la stipsi (normalmente abbiamo detto
che l’ormone tiroideo stimola la contrazione della muscolatura liscia
gastrointestinale; in questo caso manca e si ha stipsi).
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I sintomi appena descritti, se presi singolarmente, sono molto aspecifici. Ciò
significa che sulla base di un solo sintomo non si fa diagnosi di ipotiroidismo.
Possiamo sospettarlo quando c’è un insieme di questi sintomi. Ce ne sono alcuni
più frequenti e altri più rari.
Dobbiamo però ricordare che le forme più diffuse di ipotiroidismo sono quelle
subcliniche, che sono paucisintomatiche. Possono presentare possibile intolleranza
al freddo, possibile incapacità a mantenere il peso e rispondere alle diete, possibili
cute secca, stanchezza e difficoltà alla concentrazione.
La diagnosi può essere effettuata a vari livelli. Oggi, almeno una volta all’anno, viene
effettuato il dosaggio del TSH o, in generale, degli ormoni tiroidei. Quindi abbiamo
moltissimi riscontri incidentali che possono andare a smascherare le forme anche
nascoste di ipotiroidismo.
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tiroidei. Se la patologia è primitiva, misurare il TSH da solo può essere sufficiente:
se siamo in ipotiroidismo il TSH è elevato, se siamo in ipertiroidismo lo troviamo
basso. Oggi esistono TSH di terza generazione che ci danno una misura alla
microunità, quindi accuratissima e molto attendibile. Il TSH-reflex è in pratica un
algoritmo messo in atto nel laboratorio. Si valuta il TSH: se è normale non si fa
altro, se è elevato (sospetto ipotiroidismo) l’algoritmo mette in opera direttamente,
sempre sullo stesso campione di sangue, la misurazione del FT4. Così facendo
potremo identificare ipotiroidismo clinico e subclinico, in relazione ai valori
ottenuti. Possiamo però avere ipotiroidismi secondari, in cui il TSH sta ancora nel
range di normalità ma è troppo basso per quel soggetto, non stimola abbastanza
la tiroide e quindi non c’è comunque una corretta produzione di ormoni tiroidei. In
questi casi quindi il TSH-reflex potrebbe non essere un test valido. Però le
patologie secondarie sono piuttosto rare, per cui comunque il test è ottimo per
risparmiare.
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anche alla somministrazione di TRH, il TSH aumentava troppo poco. Oggi, con il
TSH di terza generazione, questo test serve solo se vogliamo verificare una
iperattivazione dell’asse (in presenza di adenomi dell’ipofisi, con resistenza
periferica agli ormoni tiroidei) o se sospettiamo ipopituitarismo. Con ipotiroidismo
primitivo, l’asse è iperattivato, con il TRH abbiamo una iper-risposta. In
ipotiroidismo ipotalamico o ipofisario avremo una risposta che risulta ridotta. Però
rimane comunque il discorso fatto sull’utilità del test.
Nel 1870 viene descritto per la prima volta il quadro del mixedema, nel 1880 sono
stati introdotti i primi interventi di tiroidectomia, senza pensare però che, così
facendo il paziente rimaneva senza tiroide e dunque senza ormoni tiroidei, con
conseguente mixedema. In seguito sono stati fatti tentatitivi di trapianto di tiroide
(usando tiroidi di maiali), venivano somministrati estratti o fettine di tiroide. Più
avanti, intorno agli anni ‘30 si somministrava tiroide essiccata, tireoglobulina, ma
sono stati prodotti anche i primi ormoni sintetici, tra cui la levotiroxina o
combinazioni di levotiroxina e T3 oppure la sola T3. Tutto questo è andato avanti per
parecchi anni, fino circa agli anni ‘70, in cui si sono susseguiti vari trial clinici. Nel
1970, oltre all’introduzione del test RIA (è da tener conto che prima ci si regolava
sulla valutazione del metabolismo basale), è stato scoperto che la T4 è un pro-
ormone e che effettivamente la T3 deriva dalla sua conversione periferica. I medici
continuavano a dare tiroide essiccata, tireoglobulina e T3 però capirono che
somministrare T4 era più che sufficiente.
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In effetti l’uso della T4 è razionale, perché, come detto
prima, la tiroide produce il 100% del pool di T4 e solo il
20% della T3 (la restante quota dipende dalla conversione
periferica). Dunque, somministrando T4,diamo qualcosa
che può essere convertito anche a livello periferico e
dunque può essere più che sufficiente. Ci sono anche
ragioni pratiche per cui si usa levotiroxina: è facilmente
sintetizzabile, è stabile, è identica alla T4 prodotta dalla
tiroide, si somministra per via orale, è sufficiente
assumere la dose una volta al giorno ed è anche sicura,
perché rappresenta un pro-ormone, non è pronto ad
essere utilizzato, ma richiede una conversione (che viene
modulata anche in relazione agli eccessi di T4).
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06/03/2018 Prof.: E. Puxeddu Francesca Tullio
Per quanto riguarda i valori degli ormoni tiroidei: FT3=1,64 pg/mL, FT4=0,13 ng/dL e TSH 114,000
uUI/ml.
L’ECG mostra cardiomiopatia mixedematosa, tratto QRS molto slargato quindi ha un blocco di
branca sinistra. Il cuore è dilatato, con accumulo di GAG nel miocardio e questo determina
un’alterazione della conduzione cardiaca.
Cosa si fa? Si inizia la terapia sostitutiva, si comincia in maniera graduale da levotiroxina (eutirox).
All’ecografia la tiroide mostra un volume normale, con ecogenicità ridotta e una ecostruttura
disomogenea.
Queste caratteristiche si osservano in pazienti con tiroidite di Hashimoto, dove le infiltrazioni della
tiroide da parte di cellule del sistema immunitario, soprattutto linfociti, determinano queste
caratteristiche di ecogenicità ridotta ed ecostruttura disomogenea.
La terapia varia in base all’età del soggetto:
- Se siamo di fronte ad un soggetto giovane, con un cuore sano, la terapia viene iniziata
subito con una dose piena per raggiungere subito una condizione di eutiroidismo.
- Se siamo di fronte ad un soggetto anziano, con una malattia cardiaca, la terapia viene
iniziata in maniera graduale, quindi si inizia con una dose piccola che poi progressivamente
viene aumentata fino ad arrivare al dosaggio che viene somministrato ai pazienti giovani.
In un paziente anziano di circa 60 kg con ipotiroidismo conclamato, il dosaggio è di 1,5 mcg/kg
quindi la dose totale è di circa 90 mcg. Si inizia con 25 µg, poi 50µg per un paio di mesi per dare il
tempo all’organismo di adattarsi all’aumento della concentrazione, per evitare che raggiunga
troppo velocemente l’eutiroidismo.
Alla signora è stato prescritto il dosaggio degli Ab anti-Tg e Ab anti-TPO, marcatori della Tiroidite di
Hashimoto.
TERAPIA DELL’IPOTIROIDISMO
Dose di L-tiroxina
- Soggetti sani <40 anni
Inizio: dose piena (1,5 mcg/kg/die)
Valutare adeguatezza della terapia dopo 2-3 mesi. Il TSH dovrà essere normale cioè 0,5-2
mlU/L.
- Soggetti sani 40-60 anni
Inizio: 50 µg/die
Aumenti: 25 µg ogni 2 settimane fino a dose piena
Valutare adeguatezza della terapia dopo 2-3 mesi (TSH=N)
- Soggetti sani >60 anni
Inizio: 25 µg/die
Aumenti: 25 µg ogni 4 settimane fino a dose piena
Valutare adeguatezza della terapia dopo 2-3 mesi (TSH=N)
- Pazienti cardiopatici
Inizio: 12,5-25 µg/die
Aumenti: 12,5-25 µg ogni 6-8 settimane
Ridurre se il paziente ha qualche fastidio o si presentano sintomi cardiaci nuovi o aggravati.
Gli ormoni tiroidei, andando a stimolare inotropismo e cronotropismo cardiaci, determinano un
aumento del consumo miocardico di ossigeno, perciò se un soggetto ha un difetto di perfusione
cardiaca (cioè di adeguato livello di ossigeno a livello miocardico) l’ipotiroidismo può essere
addirittura un quadro vantaggioso per un soggetto che soffre di una cardiopatia ischemica.
LIMITI DELLA TERAPIA SOSITUTIVA CON L-T4
Nel gruppo dei pazienti tireoprivi cioè quelli che hanno tolto la tiroide o hanno fatto il trattamento
con radioiodio che gli ha distrutto completamente la ghiandola, abbiamo un sottogruppo di
soggetti che, a fronte di valori di FT3, FT4 e TSH assolutamente normali, questi pazienti lamentano
alcuni sintomi o segni che fanno pensare che non sono sostituiti in maniera piena. Questi soggetti
possono mostrare:
- diminuzione del metabolismo basale del 10-20%
- valori di colesterolo che si mantengono superiori a 200 mg/dl (abbiamo già visto come gli
ormoni tiroidei influenzano la clearance del colesterolo a livello epatico attraverso le vie
biliari)
- sintomi residui dell’ipotiroidismo (aumento di peso, alterazioni dell’umore, stanchezza
fisica e neurocognitiva)
All’inizio si pensava che questi sintomi fossero dati da altri problemi, in realtà invece succede che
quando andiamo a calibrare la terapia sul TSH andiamo a trattare l’ipotiroidismo ipofisario, cioè
andiamo a normalizzare gli ormoni tiroidei a livello dell’ipofisi; abbiamo una serie di persone che,
una volta normalizzata la situazione ormonale ipofisaria, ha una corrispondenza a livello di tutti i
tessuti, ma abbiamo anche dei soggetti dove ciò non avviene perché ogni tessuto ha un suo modo
di gestire il metabolismo degli ormoni tiroidei per cui non è detto che a un eutiroidoisimo
ipofisario corrisponda un eutiroidismo in tutti i tessuti. Abbiamo una serie di polimorfismi, una
serie di geni che giocano un ruolo nel trasporto degli ormoni tiroidei nel loro metabolismo
cellulare che possono causare una variabilità tra tessuti.
La trasformazione della T4 in T3 a livello dei tessuti è svolto principalmente dalla desiodasi D2, e
un suo eventuale polimorfismo genetico può portare ad un fallimento terapeutico. Alcuni soggetti
vengono trattati sia con T4 che con T3.
IPOTIROIDISMO CONGENITO
Nelle aree iodiosufficienti non è una patologia frequentissima ma neanche rara, 1 caso ogni 3000-
4000 nuovi nati. Nelle aree iodiocarenti il problema è più grave perché la mancanza di iodio incide
nella mancata produzione di ormoni tiroidei.
Prima dell’avvento dello screening neonatale, che è in atto da 20-30 anni in tutte le neonatologie
dei paesi civilizzati, l’ipotiroidismo congenito diventava uno dei fattori più importanti nel rischio di
sviluppare un ritardo mentale.
Se l’ipotiroidismo congenito viene riconosciuto nell’immediato periodo dopo la nascita, il
problema può essere risolto e i danni possono non essere permanenti; se invece non viene
riconosciuto si sviluppano dei danni che persistono e diventano irreversibili. La finestra per curare
l’ipotiroidismo congenito è molto piccola, di qualche settimana; se si supera questa finestra il
problema diventa grave, ed è questo il motivo per cui è nato questo screening neonatale.
In Italia e nei paesi civilizzati non nasce bambino senza che il giorno dopo la nascita non venga
fatto un prelievo dal tallone che viene inviato in centri specifici per la misurazione del TSH per
definire lo stato tiroideo.
Le cause dell’ipotiroidismo congenito sono legati a difetti morfo-funzionali tiroidei:
- DISGENESIA
Atireosi: la tiroide non si forma
Ectopia: le cellule della tiroide non migrano in maniera corretta, essa si forma in
un’altra sede e quindi non è metabolicamente attiva e non può produrre ormoni
tiroidei
Ipoplasia: la tiroide è più piccola del normale e non funziona in maniera corretta
- DISORMONOGENESI con gozzo e non.
Ipotiroidismo congenito dipende dal fatto che qualcosa va storto nella ontogenesi della tiroide.
Come si sviluppa la tiroide? Intorno al 20°-24° giorno della vita embrionale, a partire dal
pavimento della faringe primitiva si forma un abbozzo di cellule che tende a migrare e scendere
verso il collo e poi abbiamo una proliferazione delle cellule e infine una differenziazione con la
formazione dei follicoli e l’inizio dell’ormonogenesi. Tutto questo processo è regolato da una serie
di fattori di trascrizione, dal TSH che attraverso il suo recettore regola la differenziazione delle
cellule e la produzione degli ormoni tiroidei. Possiamo avere difetti dei fattori di trascrizione nella
percentuale del 10% dei tiroidismi congeniti, oppure difetti come l’agenesia della tiroide per
mancata formazione dell’abbozzo, l’ectopia per mancata migrazione delle cellule o l’ipoplasia per
un’alterata proliferazione o sopravvivenza delle stesse. Se abbiamo un difetto nel recettore del
TSH queste cellule proliferano meno quindi non si differenziano e abbiamo generalmente un
ipotiroidismo congenito con ipoplasia tiroide; al contrario se abbiamo un difetto
nell’ormonogenesi abbiamo un ridotto feedback negativo sull’ipotalamo da parte dell’ipofisi,
aumenta il TSH che stimola le cellule a proliferare con iperplasia tiroidea e sviluppo del gozzo che
però è ipofunzionante perché mancando l’attività enzimatica non si può completare la sintesi degli
ormoni tiroidei.
Durante l’inizio della vita intrauterina il contributo degli ormoni tiroidei proviene dalla madre e poi
da metà gestazione, pur continuando il contributo materno quindi il passaggio degli ormoni
tiroidei attraverso la placenta, inizia anche il contributo del feto stesso dato che la tiroide si è
completamente sviluppata ed è in grado di produrre ormoni tiroidei. Il sistema è perfetto se
madre e feto hanno una tiroide che funziona normalmente.
Abbiamo un ipotiroidismo congenito risolvibile se c’è un problema nella tiroide del feto ma quella
materna funziona normalmente, manca quindi nella seconda metà della gravidanza il contributo
della tiroide del feto nella produzione di ormoni tiroidei.
Il problema grande si presenta se c’è un difetto nella tiroide materna perché viene a mancare un
contributo importante nella prima metà della gestazione, nella quale gli ormoni tiroidei assumono
un ruolo importante nello sviluppo dell’apparato muscolare scheletrico, del SNC.
Il quadro più grave è sicuramente quello dell’ipofunzione contemporanea della tiroide materna e
fetale dove avremo un ipotiroidismo con delle sequele perinatali non recuperabili. Sono casi molto
rari, più frequenti negli ambienti dove c’è carenza iodica che contribuisce a una ipofunzione
tiroidea materna e fetale.
I sintomi di ipotiroidismo neonatale sono:
- Eccessiva sonnolenza
- Ridotta interesse nella poppata
- Tono muscolare ridotto
- Pianto rauco per il mixedema laringeo
- Stipsi
- Ittero
- Bassa T° corporea
Nei casi più gravi con ipotiroidismo materno e fetale abbiamo difetti nello sviluppo scheletrico,
fontanella anteriore più larga, ernia ombelicale, macroglossia.
L’ipotiroidismo congenito non riconosciuto può dare CRETINISMO, con ritardo mentale importante
oltre a:
- Naso grande e piatto
- Occhi molto distanziati
- Gonfiore periorbitario
- Macroglossia
- Capelli radi e fragilità tegumenti
- Collo corto
- Nanismo disarmonico, arti corti, difetti a livello dell’anca
- Addome protuberante
- Ernia ombelicale
- Grave ritardo mentale
- Mixedema cutaneo
- Cute ruvida
- Stipsi
- Voce rauca
Come viene trattato? Le dosi di L-tiroxina sono più alte rispetto all’adulto :
Inizio 8-15 μg/Kg/die
0-6 mesi 7-10 μg/Kg/die
6-12 mesi 5-8 μg/Kg/die
IPERTIROIDISMO
L’ipertiroidismo è una condizione clinica caratterizzata da un’eccessiva produzione o rilascio degli
ormoni tiroidei che determina accelerazione dell’attività metabolica di tutti i tessuti.
Anche nell’ambito dell’ipertiroidismo abbiamo delle forme cliniche e delle forme subcliniche.
o Forma primitiva, clinica o conclamata (FT3 aumentati, TSH diminuito)
Per quanto riguarda la forma clinica conclamata, nell’ambito dell’ipertiroidismo primitivo vediamo
un aumento di FT3 e FT4 (si misurano le frazioni libere e non gli ormoni totali perché non è un
valore accurato ma può essere influenzato da fattori che alterano le proteine di trasporto) e una
riduzione del TSH.
o Forma sublicnica o lieve (FT3 e FT4 invariati, TSH diminuito)
Epidemiologia dell’ipertiroidismo
Esso è meno frequente dell’ipotiroidismo, la forma clinica conclamata rappresenta lo 0,05% della
popolazione affetta da ipertiroidismo quindi 5/10.000. Mentre l’ipertiroidismo subclinico interessa
il 2% della popolazione. Sommando questi dati a quelli dell’ipotiroidismo abbiamo che circa il 10%
della popolazione è affetta da una disfunzione tiroidea. Prendendo come esempio l’Umbria, circa
16.000 persone sono affette.
Cause dell’ipertiroidismo:
- Morbo di Basedow
- Gozzo uninodulare o multinodulare tossico
- Fase tossica della tiroidite di Hashimoto (malattia infiammatoria causata da un’aggressione
della tiroide da parte del sistema immune) la fase iniziale di questo processo infiammatorio
può essere così forte da provocare distruzione del parenchima dei follicoli e quindi c’è
un’operazione in circolo degli ormoni tiroidei (non c’è una iperproduzione)
- Tiroidite sub-acuta
- Tiroidite silente
- Tiroidite post-partum
- Indotto da iodio (iodio, amidarone, mezzi di contrasto e altri farmaci contenenti iodio)
- Tireotossicosi factizia, dove i pazienti assumono ormoni tiroidei con lo scopo di perdere
peso
- Da assunzione di TRIAC (acido triiodiotiroacetico), analogo degli ormoni tiroidei, contenuto
in sostanze utilizzate per dimagrire
- Cause tumorali:
struma ovarii (è un teratoma, con presenza di tessuto tiroideo nell’ovaio che può
indurre produzione incontrollata degli ormoni tiroidei in sede ectopica)
mola idatiforme (neoplasia placentare che si sviluppa durante la gravidanza o in
seguito ad essa, se rimane un residuo di placenta a livello uterino. La placenta
produce la gonadotropina corionica, glicoproteina dimerica composta da due
subunità una α e una β, simile al TSH con il quale condivide la subunità α, mentre la
subunità β è quella che dà la specificità ormonale. Può esserci il fenomeno di
spillover, cioè a causa della similitudine tra TSH e gonadotropina, questa è in grado
di attivare i recettori del TSH causando iperproduzione di ormoni tiroidei)
carcinoma follicolare metastatico, dove ci sono delle forme che producono masse
enormi e sono formate da cellule così differenziate che sono ancora in grado di
produrre ormoni tiroidei con produzione eccessiva e incontrollata
- Inappropriata secrezione di TSH (con aumento della produzione di FT3, FT4 e TSH)
molto raro, può essere causato da:
resistenza ipofisaria agli ormoni tiroidei
adenoma ipofisario TSH-secernente, tumore dell’ipofisi che interessa le cellule
tireotrope con eccesso di produzione di TSH che va ad iperstimolare la tiroide
Nelle prime due cause abbiamo un’attivazione delle vie di sintesi degli ormoni tiroidei e quindi
un’iperproduzione degli stessi, mentre nelle altre cause riguardanti le tiroiditi abbiamo distruzione
del parenchima con liberazione e iperazione degli ormoni tiroidei.
Tra tutte le cause possiamo distinguere cause primitive e cause secondarie. Le cause primitive
sono tutte eccetto la mola idatiforme e l’inappropriata secrezione di TSH.
Si può fare un’ulteriore distinzione tra le cause in cui c’è tireotossicosi con ipertiroidismo o senza
ipertiroidismo. Tireotossicosi indica tutte le situazioni in cui abbiamo un eccesso di ormoni
tiroidei. Mentre l’ipertiroidismo indica un’eccessiva produzione di ormoni tiroidei.
Le tireotossicosi con ipertiroidismo sono il morbo di Basedow, il gozzo uninodulare o
multinodulare tossico, le forme indotte da iodio, le cause tumorali e l’inappropriata secrezione di
TSH.
Le tireotossicosi senza ipertiroidismo sono le restanti cause, con rilascio di ormoni tiroidei.
MORBO DI BASEDOW-GRAVES
è una malattia autoimmune, dove le IgG sono in grado di legare e attivare i recettori del TSH,
eventualmente espressi anche in altri tessuti come il tessuto retrorbitale e quindi la malattia può
essere caratterizzata, oltre al gozzo dovuto all’iperplasia della ghiandola, anche da una condizione
nota come oftalmopatia.
I tre elementi cardine della malattia di Graves sono:
- Tireotossicosi
- Gozzo diffuso
- Oftalmopatia
Un altro elemento, seppur molto raro, è il mixedema pretibiale, infatti nel nostro corpo i recettori
del TSH possono essere espressi anche in altre sedi come il sottocutaneo della superficie anteriore
della gamba. Il segno visibile è l’ispessimento del sottocutaneo con cute eritematosa e a buccia
d’arancia.
ADENOMA TOSSICO
L’adenoma tossico può essere caratterizzato da un gozzo uninodulare o plurinodulare tossico,
dove abbiamo un nodulo o più noduli (tumori benigni) che producono un eccesso di ormoni
tiroidei. In molti casi abbiamo mutazioni che interessano i recettori del TSH e che lo attivano in
maniera costituiva anche senza la presenza dell’ormone e attivano quelle vie di trasduzione che
stimolano la proliferazione cellulare e la produzione di ormoni. Queste cellule hanno anche
un’iperespressione del NIS (simporto sodio iodio) la quale viene sfruttata in ambito diagnostico
per effettuare le scintigrafie.
Abbiamo un paziente con un nodulo e per capire se è iperfunzionante oppure no, tramite la
scintigrafia gli somministriamo un tracciante radioattivo che contiene un alogeno radioattivo che
vien captato all’interno delle cellule follicolari grazie alla presenza del NIS che è overespresso e
quindi andiamo a verificare se questa sostanza radioattiva si è andata a piazzare a livello del
nodulo.
Nel gozzo multinodulare tossico, cioè nell’ambito di una tiroide con più noduli, ci possono essere
uno o più noduli iperfunzionanti accanto a noduli che non lo sono.
IPERTIROIDISMO FETALE-NEONATALE
Oltre ai rari casi di mutazioni congenite del recettore del TSH, può verificarsi se la madre è affetta
dal morbo di Basedow o tiroidite autoimmune e sono caratterizzate dalla presenza di Ab verso i
recettori del TSH che attraversano la placenta dando alla nascita delle manifestazioni di
tireotossicosi:
- Gozzo
- Esoftalmo
- Ipereccitabilità
- Magrezza
- Epato-splenomegalia
- Ittero
- Diarrea
- Craniosinostosi precoce, con accelerazione nella chiusura delle fontanelle, compressione
del cervello e relative conseguenze.
- Scompenso cardiaco
Si tratta di una tireotossicosi transitoria poiché dura il tempo di emivita degli Ab.
Nelle donne in gravidanza affette da morbo di Basedow o tiroidite autoimmune è necessario
eseguire un dosaggio Ab anti-recettore del TSH nell’ultimo trimestre.
DIAGNOSI DI IPERTIROIDISMO
Indagini di I livello
TSH reflex o FT3, FT4 e TSH
Indagini di II livello
Ab anti-recettore del TSH (ad esempio se si sospetta un morbo di Basedow)
Ab anti-tireoglobulina e antiperossidasi tiroidea (se si sospetta una tiroidite autoimmune)
Tireoscintigrafia con o senza curva di captazione dello iodio, la quale prima veniva utilizzata
in maniera indiscrimanata nei pazienti con patologia tiroidea mentre ora solo nei pazienti
con ipertiroidismo per capire quale ne è la causa. La scintigafia si basa sul fatto che le
cellule follicolari tiroidee esprimono il NIS che permette di immagazzinare gli alogeni
radioattivi, in particolare gli isotopi 131 e 123 dello iodio (124 utilizzato nella PET). Con lo
iodio 131 possiamo calcolare la curva di captazione per mappare i punti precisi dove si va a
piazzare la sostanza radioattiva.
Ecografia tiroidea, che ci permette di dire se siamo di fronte ad un gozzo diffuso del morbo
di Basedow o ad una patologia nodulare tiroidea.
Indagini di III livello
RMN della regione ipofisaria
FOTO A tiroide normale
FOTO B quadro di ipercapatazione tiroidea di iodio
FOTO C quadro di ipocaptazione tiroidea di iodio, le ghiandole salivari captano più della tiroide
FOTO D noduli caldi in un gozzo multinodulare tossico
FOTO E tiroide multinodulare
FOTO F tiroide normale con nodulo freddo che non esprime poco NIS e capta poco iodio
Se somministriamo lo iodio 131 possiamo calcolare la % di iodio 131 somministrato che si piazza
sulla tiroide che sarà diversa a seconda dello stato funzionale della ghiandola. Se abbiamo il morbo
di Basedow la captazione sarà aumentata.
La curva di captazione richiede più rilevazioni, a 6 e 24 ore dalla somministrazione del radioattivo.
Negli ipertiroidismi abbiamo un aumento della captazione di iodio e laddove c’è anche un rapido
turnover degli ormoni c’è prima un’elevata captazione e poi, attraverso la dismissione degli
ormoni tiroidei radioattivi, avviene rapidamente una riduzione della captazione.
Oftalmopatia di Graves
Si verifica perché ci sono i recettori del TSH a livello retrorbitario, dove ci sono alcuni progenitori di
origine midollare dei fibroblasti. Da un lato i
fattori genetici concorrono alla produzione
peculiare di anticorpi anti-recettore del TSH in
quantità superiori o comunque rilevanti. Anche i
fattori ambientali, in particolare il fumo di
sigaretta sembra essere un importante fattore
di rischio. Infine è implicata anche la cross-
reattività dovuta agli anticorpi contro il
recettore del TSH tra la tiroide e i recettori
espressi a livello dell’orbita. Il principale
bersaglio di questi anticorpi sono questi
progenitori di fibroblasti orbitari che esprimono
il recettore del TSH; comporta l’attivazione di
vie di trasduzione che
inducono la
differenziazione delle
cellule progenitrici in
adipociti, che si
accumulano a livello
retrorbitario. Inoltre
stimolano la sintesi di
acido ialuronico che,
richiamando acqua,
causa l’aumento di
volume. Poi
ovviamente segue la
produzione di citochine
e altri fattori
proinfiammatori, che
concorrono
all’infiltrazione di
cellule immuno-
infiammatorie. C’è coinvolgimento dei muscoli estrinseci dell’occhio (muscoli retto-laterale, retto-
mediale, ecc.) si ispessiscono, si infiammano e nel tempo possono andare incontro a fibrosi.
La slide confronta un’orbita
normale con una con
oftalmopatia di Graves.
Sussiste un problema
anatomico: l’orbita è una
cavità che possiede
un’apertura anteriore, ma
tutto il resto è
incomprimibile. L’accumulo
dei fattori sopracitati
genera un aumento di
pressione e l’occhio viene
spinto verso l’esterno. Si ha
così esoftalmo (l’occhio
sporge dall’orbita in
maniera importante), retrazione e infiammazione palpebrale. Ripetiamo ancora una volta che si
verifica un accumulo di tessuto adiposo retrorbitario e un aumento dello spessore muscolare. Tutti
questi fattori causano iperemia e edema dei tessuti molli dell’occhio (segni di infiammazione), che
possono rivelarsi particolarmente fastidiosi dando sensazione di bruciore e dolore.
Può esserci anche diplopia, quando i muscoli non riescono più a muoversi in modo coordinato
perché infiammati. L’ammiccamento è ridotto, le palpebre non coprono l’intero bulbo oculare e
questo può causare danno corneale che a sua volta causa un danno alla vista. Altrettanto
pericolosa è la compressione del nervo ottico, responsabile della neuropatia ottica.
Possiamo classificare l’oftalmopatia come lieve, moderata e grave. Le forme gravi comprendono le
neuropatie ottiche e le lesioni corneali, le severe la diplopia, mentre nelle forme lievi domina
l’iperemia e l’edema (anche solo queste possono essere talmente fastidiose da richiedere terapia).
Epidemiologia
Non tutti i Graves hanno
oftalmopatia, il 40% dei pz ha
sintomi oculari e, se escludiamo
quelli relativi alle palpebre, in
realtà solo 1 su 4 ha una vera e
propria oftalmopatia. L’incidenza
come per tutte le malattie tiroidee
è più alta nelle donne che negli
uomini. Le forme severe sono la
minoranza e la fascia di età più
colpita è tra la quinta e settima
decade di vita. Abbiamo diversi
gradi di oftalmopatia e notiamo
che le forme severe siano
distribuite egualmente tra i due
sessi, mentre le differenze legate al sesso si riscontrano maggiormente nelle forme lievi e
moderate.
L’oftalmopatia nella maggior parte dei casi insorge in concomitanza con la malattia. Tuttavia in
alcuni casi precede anche di parecchio tempo l’insorgenza dell’ipertiroidismo, mentre in altri può
insorgere o peggiorare anche dopo che l’ipertiroidismo è stato trattato.
Analizziamo ora alcuni segni che si possono
vedere, ricordiamo che l’esoftalmo non è certo
che ci sia quindi dobbiamo sempre controllare
anche queste componenti.
In foto si osserva l’edema a livello delle
palpebre.
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Tiroiditi
Le abbiamo accennate parlando sia di ipo che di ipertiroidismo. Definizione: infiammazione della
tiroide che può avere diverse eziologie e che può essere associata ad una funzionalità tiroidea
normale, elevata o depressa, e spesso con un evoluzione da una condizione all’altra. Solitamente
si osserva che l’iper precede l’ipotiroidismo perché in fase acuta possiamo avere quei fenomeni
distruttivi con dismissione degli ormoni tiroidei. Possono essere classificate in base a:
- dinamica del decorso, ovvero la rapidità con cui si sviluppano i sintomi;
- storia familiare;
- presenza o assenza di sintomi prodromici;
- dolore al collo;
[Questa è la classificazione proposta dagli American Family Physician, ma ne esistono altre]
Tra quelle senza dolore al collo abbiamo quella
di Hashimoto, malattia autoimmune a decorso
cronico. Poi abbiamo le post-partum che sono
autoimmuni e subacute. Cronico significa che
perdura nel tempo e di solito non si riesce a
debellare la malattia (es. diabete tipo I).
Subacuto significa che può dare tanti segni, ha
un decorso più lungo di un acuto ma poi si
risolve, tipicamente 3-6 mesi.
C’è anche una subacuta linfocitaria o silente,
sempre autoimmune e subacuta.
Ci sono poi quelle dipendenti da farmaci che
possono essere acute o tutte subacute, come
quella da amiodarone, da interferone (gli IFN
attivano risposte di tipo immuno-
infiammatorio, in questo caso non c’è una
risosta autoimmunitaria), IL-2 (anch’essa
coinvolta nel contesto infiammatorio) e il Litio
può dare una tiroidite con meccanismo
autoimmune con decorso acuto o subacuto.
Attualmente in oncologia si usano anticorpi per riattivare la risposta immunitaria, tra i collaterali
possiamo avere una serie di disordini endocrini, tra cui tiroiditi su base autoimmune con decorso
acuto o subacuto: basta sospendere il farmaco e di solito si ha remissione della tiroidite.
Infine vi è una forma particolare di tiroidite, quella di Riedel (pronuncia Ridol), peculiare perché
caratterizzata da una componente di fibrosi. Verosimilmente si tratta di una variante di una
tiroidite autoimmune, negli ultimi è stata associata ad una malattia da accumulo di IgG4; questa
patologia causa una risposta infiammatoria estesa che esita in fibrosi in diversi tessuti.
Tra le tiroiditi con dolore citiamo
invece la subacuta
granulomatosa/di De Quervain
(pronuncia de Chervèn)/virale, ha
numerosi sinonimi ma si tratta
sempre della stessa. In realtà non
è conseguenza di un’infezione
virale della tiroide, ma è connessa
alla risposta infiammatoria
attivata dall’infezione che
comporta un decorso subacuto
della malattia con numerosi
sintomi. E’ l’unica malattia
tiroidea associata ad una sintomatologia sistemica.
Anche le tiroiditi suppurative possono dare dolore, sono praticamente legate alla presenza di
ascessi (infezione batterica con decorso acuto o fungina con decorso acuto o subacuto) nella
tiroide. Solitamente si verificano solo quando si fa l’ago aspirato a livello tiroideo se non è stata
disinfettata la cute correttamente, situazioni molto rare. Si riconoscono piuttosto facilmente per la
presenza di edema e rossore a livello cutaneo e in questi casi viene prescritta un’immediata
terapia antibiotica per evitare l’espansione dell’infezione ed un’eventuale sepsi.
Vi sono poi quelle associate a radiazioni, ad es. l’uso di Iodio131 in alcuni pz può dare una sorta di
tiroidite attinica con andamento acuto, dolente (infatti nei primi giorni è consigliata la terapia con
cortisone per ridurre l’infiammazione e il dolore). Anche un trauma alla tiroide può causare dolore
e infiammazione.
Tiroidite di Hashimoto
[La descrizione della patologia è stata fatta dal medico giapponese Hashimoto in Germania, negli
anni ’20 c’era infatti l’asse Berlino-Tokyo.] Anche qui una serie di sinonimi: cronica linfocitaria,
cronica autoimmune. E’ la forma più comune di infiammazione della tiroide, con un decorso
cronico ed è tipicamente caratterizzata dalla presenza di anticorpi contro gli antigeni principali
delle cellule follicolari. Quindi ci sono anticorpi diretti contro la tireoperossidasi (anti-TPO Ab)
presenti nel 90-95% dei pz, contro la tireoglobulina (anti-Tg Ab) nel 20-50% dei pz, e meno
frequentemente contro il recettore del TSH (TRAb). Nel caso della tiroidite di Hashimoto non sono
sicuramente attivanti, altrimenti il quadro clinico virerebbe verso quello del morbo di Basedow. In
realtà in alcuni casi può transitoriamente presentare questi anticorpi attivanti e per questo in
passato si parlava di Hashitossicosi, se invece persistono si tratta di Morbo di Basedow. In effetti
tutte queste malattie autoimmuni della tiroide appartengono ad uno spettro continuo ai cui
estremi troviamo da un lato il morbo di Basedow (presenza di immunità umorale) dall’altro la
tiroidite di Hashimoto (non c’è dominanza dell’immunità umorale, gli anticorpi sono un
epifenomeno o possono avere al massimo un ruolo patogenetico minimo; la patogenesi in questo
caso è dovuta all’attivazione dell’immunità cellulo-mediata)
Reperti clinici
La funzione tiroidea può essere normale, può esserci un ipotiroidismo subclinico oppure un
ipotiroidismo primario franco, fino al mixedema che rappresenta il quadro estremo. Per
definizione la tiroidite di H. dovrebbe essere caratterizzata dal gozzo (nel 90% dei pz) che nel
tempo, a causa di fenomeni distruttivi, può evolvere verso un’atrofia (nel 10% dei pz). In realtà è
frequente vedere pz con tiroiditi croniche il cui volume tiroideo è normale.
Epidemiologia
La frequenza è alta, nel sesso femminile è molto più
rilevante come dimostrato dallo studio di Wickam.
Possiamo stimare che alla fine della vita quasi 1 su 3
donne presenti tiroidite di Hashimoto, con
conseguenze funzionali poco rilevanti o limitate ad
un ipotiroidismo subclinico.
Morbilità e mortalità dipendono dal trattamento. In
casi estremi si può arrivare al mixedema o al coma
mixedematoso.
Colpisce più il sesso femminile come tutte le malattie
tiroidee, probabilmente perché l’organo presenta
una maggiore suscettibilità al setting ormonale
estrogenico, infatti anche le gravidanze alterano il setting tiroideo. Abbiamo infatti un rapporto
femmina malato/maschio malato pari a 10-15/1.
Il picco d’incidenza è nelle femmine tra 30 e 50 anni, di solito dopo la menopausa, e nei maschi tra
40 e 65 anni. Più tempo persiste la tiroidite e più è probabile che persista l’ipotiroidismo per
distruzione del tessuto dell’organo e perdita di funzionalità tiroidea.
Patogenesi
Si ha un’attivazione immunitaria con produzione di anticorpi, importanti per confermare la
diagnosi. Misuriamo infatti gli anti-tireoperossidasi in primis e antitireoglobulina in secundis; in
realtà possiamo misurarli anche contemporaneamente, sapendo che nei casi conclamati sono
positivi soprattutto gli anti-tireoperossidasi, mentre nelle fasi iniziali i primi a positivizzarsi sono
quelli anti-tireoglobulina. Anche quelli che legano il recettore per il TSH si possono misurare.
Lo squilibrio nei meccanismi di riconoscimento del self porta all’attivazione di una risposta T
citotossica (cellulo-mediata) contro la tiroide con conseguente perdita di cellule follicolari,
sostituzione di tessuto tiroideo con tessuto cicatriziale. Vi è l’attivazione dei T CD4+ Th1 che
producono citochine, che attivano altre cellule dell’immunità naturale che contribuiscono al
danno. Gli anticorpi possono essere patogenetici nel caso in cui leghino i loro antigeni e attivino
una citotossicità anticorpo-dipendente cellulo-mediata. Inoltre le cellule NK hanno il recettore per
la porzione Fc degli anticorpi legati alla cellula e possono quindi liberare sostanze per uccidere
quella cellula, e questo rappresenta un ulteriore meccanismo di perdita del tessuto tiroideo.
Non entriamo ora nei meandri delle patologie autoimmuni, però come concetto generale
ricordiamo che l’attivazione di una malattia autoimmune organo specifica è caratterizzata dal fatto
che l’equilibrio tra meccanismi proinfiammatori e antiinfiammatori si sposta verso una situazione
proinfiammatoria e si verifica dunque una reazione immunitaria che non dovrebbe esserci verso
gli antigeni self.
Cosa predispone allo sviluppo della tiroidite di Hashimoto? Sono stati riconosciuti una serie di geni
che appartengono al sistema MHC, DR e DQ, e ci sono alcuni genotipi maggiormente associati a
questa patologia perché le APC e i macrofagi presentano gli antigeni processati con le molecole
MHC. Quindi alcuni polimorfismi possono predisporre a rendere immunogenici gli antigeni
presenti a livello tiroideo.
CTLA-4 è un corepressore
nell’attivazione linfocitaria, quindi
polimorfismi a questo livello possono
indurre un’iperattivazione della risposta
immunitaria.
PTPN22 è una fosfatasi presente nei
linfociti.
Il gene della tireoglobulina presenta
diversi polimorfismi, che comporta la
comparsa di epitopi diversi e possono
predisporre anche alla tiroidite di
Hashimoto.
Lo sviluppo della malattia potrebbe essere
riassunta da questo schema a formaggio, una
serie di eventi concatenati che concorrono alla
patogenesi. Tra i fattori predisponenti abbiamo
appunto i geni del sistema MHC, che secondo
alcune teorie modificabili con splicing
alternativo o meccanismi epigenetici. Abbiamo
poi geni che regolano l’immunoregolazione,
come AIRE nelle poliendocrinopatie
autoimmuni di tipo I e che sarebbe coinvolto
nella selezione timica dei linfociti e FOXP3
espresso nelle T regolatorie (responsabile anche
della sindrome di Ipex). Altrettanto importanti
sono i geni tiroido-specifici, come ad es quello
per la tireoglobulina. Inoltre sicuramente
importanti sono anche i fattori ambientali, infezioni virali e batteriche, che possono stimolare una
risposta immunitaria. Infine ci sono i fattori esistenziali come il sesso, ad es. il sesso femminile è
più colpito.
Se abbiamo questa serie di eventi in fila si sviluppa la patologia, considerando che alcuni sono
latenti mentre altri partecipano proprio in maniera attiva.
La tiroidite autoimmune è veramente la patologia autoimmune più comune, tanto che alcuni
autori la definiscono “the tallest tree in the forest of polyautoimmunity”.
Istologia
Vediamo i centri germinativi in cui si organizzano
i linfociti, infiltrano l’organo e che poi concorrono
al danno. Si perde l’organizzazione dei follicoli e si
può giungere a metaplasia eosinofila da cellula
follicolare a cellula di Huerthle (pronuncia Urtel)
o Askanazy
Diagnosi
Sospettiamo una tiroidite di Hashimoto quando
troviamo un pz con ipotiroidismo clinico o
subclinico, se la vogliamo confermare misuriamo
anticorpi anti-tireoperossidasi o anti-
tireoglobulina. Anche l’imaging può
essere una risorsa importante, infatti
l’ecografia risulta molto utile per
vedere caratteristiche della ghiandola
che possono cambiare in situazioni
infiammatorie: il tessuto tiroideo è
più bianco dei muscoli che stanno
davanti. Nell’immagine osserviamo
una sezione trasversale: al centro c’è
la trachea e davanti ad essa la tiroide,
a sx la carotide comune di dx (nel
fascio vascolo-nervoso) e viceversa
perché nell’ecografia le immagini
sono invertite. Quindi riusciamo a
distinguere il tessuto ghiandolare da
quello muscolare e notiamo che la
tiroide è omogenea. In questa immagine notiamo invece che non ci sono differenze rilevanti nel
colore (la cosiddetta ecogenicità) tra i muscoli e la tiroide, la ghiandola è ipoecogena (meno
bianca) e disomogenea. Queste sono le 2 tipiche caratteristiche ecografiche che si riscontrano in
una tiroidite di Hashimoto. Tipicamente la diagnosi si può fare molte volte anche accidentalmente:
pz ha mal di gola, gli facciamo l’ecografia e troviamo la ghiandola ipoecogena e disomogenea. In
questo caso si procede poi al controllo degli ormoni tiroidei e degli anticorpi.
La scintigrafia non va fatta, o solo se il pz è nella fase iniziale in cui si può avere una transitoria
tireotossicosi sena ipertiroidismo dovuta ai fenomeni distruttivi e quindi al rilascio di ormoni
preformate. Facendo l’esame in quel momento si può riscontrare un ipertiroidismo solitamente
lieve. Se il dosaggio ormonale è normale o tendente all’ipotiroidismo non c’è necessità di fare la
scintigrafia. Ad ogni modo la scintigrafia della tiroidite di Hashimoto è diversa da quella del morbo
di Basedow: osserviamo una ipocaptazione tiroidea, diciamo che
è bassa perché sovrapponibile a quella delle ghiandole salivari. In
condizioni normali a livello della tiroide dovrebbe esserci una
captazione più alta.
Istologia
Si formano dei granulomi, con area di necrosi centrale
e una palizzata di cellule e la presenza di cellule giganti
polinucleate. Quindi l’infezione virale attiva una
risposta immunoinfiammatoria che colpisce l’organo e
si evidenzia questa caratteristica. Vi è un abbondante
rilascio di citochine, responsabili dei sintomi sistemici
(febbre, ecc.).
Diagnosi
Condizione necessaria per la diagnosi è l’aumento degli indici di flogosi (VES, PCR). Se questi non ci
sono non può essere questa malattia. Possiamo revertire in 24-48h la sintomatologia con
cortisonici e in pochi giorni si ha la normalizzazione di tutti gli indici di flogosi. In particolare nella
prima fase possiamo avere un’elevazione del TSH ed un’elevazione più di T4 che di T3, perché la
tiroide produce più T4 (la rottura dei follicoli libera T4 e un po’ di T3). Nell’ipertiroidismo ci
sarebbe un eccesso di T3.
Gli anticorpi anti-tireoperossidasi o anti-tireoglobulina sono di solito negativi o a basso titolo
perché questa patologia non c’entra niente con fenomeni di autoimmunità. La captazione tiroidea
è bassa.
Immaginate un pz che arriva con dolore collo, febbre da
alcuni giorni, porta gli esami che mostrano una
tireotossicosi non particolarmente accentuata. La prima
cosa che facciamo è un’ecografia e possiamo vedere dei
segni patognomonici: una tiroide grossa, dolente e molto
ipoecogena, molto disomogenea, con aree che sembrano
dei noduli infiammatori (a volte ecografisti non esperti gli
scambiano con neoplasie a rapido accrescimento, in realtà
si riconoscono con facilità) chiamate pseudonoduli. In
verità è patognomonica la scintigrafia, che sarà bianca
perché la captazione è azzerata.
Terapia
Molto utili sono gli antiinfiammatori per risolvere la sintomatologia più lieve, laddove sia
necessario si possono usare anche cortisonici (Prednisone 0,5 mg/Kg/die).
I beta-bloccanti vengono usati per controllare i sintomi della tireotossicosi.
Non bisogna assolutamente usare antitiroidei (metimazolo, propiltiouracile), perché in questi non
c’è un’iperproduzione di ormoni ma solo il loro rilascio.
A volte questa patologia può anche recidivare
Tiroidite silente
E’ la stessa cosa della post partum, ma non correlata alla gravidanza (anche nei maschi). Si tratta di
una tiroidite acuta senza dolore, ha lo stesso andamento distruttivo con fasi di tireotossi,
ipotiroidismo e recupero. E’ legata alla presenza di anticorpi anti-tireoperossidasi, quindi è una
condizione latente ed è caratterizzata da una fase subacuta che poi rientra in latenza. Nel tempo
può poi avere un decorso come quello della tiroidite di Hashimoto.
DIAGNOSTICA MOLECOLARE 13.3 Arianna Mondaini
Prof. E. Puxeddu
EPIDEMIOLOGIA
- patologie nodulari, insieme a ipofunzioni tiroidee e tiroiditi, sono estremamente frequenti
- iperfunzioni meno frequenti
A proposito delle patologie nodulari, da un punto di vista epidemiologico c’è enorme differenza nel
numero di nuove diagnosi tra oggi e il tempo in cui in i noduli venivano individuati con la sola
palpazione della tiroide.
Attraverso la palpazione si individuano solo i noduli più grandi che improntano la superficie della
ghiandola, senza poter rilevare i possibili noduli di minori dimensioni.
Si può comunque evidenziare che il 5% della popolazione sia portatrice di noduli apprezzabili con
palpazione (con una maggiore prevalenza tra i pazienti anziani).
Oggi la presenza di noduli tiroidei non viene tanto determinata mediante palpazione, quanto
mediante ecografia che ha una sensibilità così elevata che si può assimilare a quella di un esame
autoptico.
Se l’analisi viene eseguita con l’ecografia (in luogo della palpazione) la prevalenza dei noduli arriva
a valori notevolmente superiori: in alcune zone la prevalenza può arrivare anche al 60-70%.
3) un altro aspetto importante è l’impatto che genera sulla popolazione: alla diagnosi di un nodulo,
anche non pericoloso, ci sono pazienti che si sottopongono a intervento chirurgico anche se non
necessario
Da un punto di vista pratico, tutto questo si traduce in lunghe liste d’attesa nei laboratori di
endocrinologia e per eseguire ecografie della tiroide.
ANALISI DIFFERENZIALI
Tuttavia noduli palpati nella loggia tiroidea possono essere anche legati anche a condizioni non
tiroidee:
- disordini infiltrativi che risultano in pseudonodulazioni della ghiandola (esempio: emocromatosi)
- metastasi
- cisti paratiroidee
- lipomi
- paragangliomi (un paraganglioma del glomo carotideo, per la vicinanza della carotide potrebbe
simulare un nodulo esofitico che si trova sulla superficie della ghiandola tiroidea)
Nella 95% dei casi si tratta di noduli tiroidei benigni, che possono essere legati a:
- iperplasia nodulare (gozzo)
- tumori benigni che possono essere normo-funzionanti o adenomi tossici (causa di tireotossicosi
associate alla produzione di ormone tiroideo)
Che cos’è il gozzo?
Il gozzo semplice rappresenta un ingrandimento della tiroide non associato a iperfunzione né a
patologie neoplastiche o infiammatorie
NB: questa è la definizione più precisa anche se nel linguaggio comune, solitamente si parla di
gozzo ogni volta che si intende un ingrandimento della tiroide.
Si distinguono:
- gozzi endemici
riguardano una percentuale significativa di popolazione di un territorio, per cui l’insorgenza essere
correlata in qualche modo a un fattore locale
- gozzi sporadici
eventi che si trovano sporadicamente in un territorio, che interessano i singoli individui o una
famiglia
GOZZO ENDEMICO
Una carenza iodica potrebbe essere causa anche di problemi più importanti:
- ipotiroidismi congeniti
- alterazioni nello sviluppo neurointellettivo dei soggetti esposti a carenza già nella vita intrauterina
In linea di massima, nelle zone dove la presenza di iodio è lieve-moderata (anche nella stessa
Umbria), le conseguenze sono principalmente legate a:
- possibile crescita di gozzi semplici o nodulari
- minima alterazione nella sintesi degli ormoni tiroioidei: una riduzione di T4 rispetto a T3;
l’alterazione del rapporto T3/T4 viene recepita a livello dell’asse ipotalamo-ipofisi, perché
nell’effettivo è T4 che svolge l’effetto di feedback negativo: il rapporto alterato comporta un
alterato aumento cronico di TSH (seppure tendenzialmente rimanga entro range di normalità).
Il TSH stimola a sua volta iperplasia diffusa nella ghiandola e nel tempo si possono sviluppare i
noduli.
In realtà lo sviluppo di gozzo è caratteristica della sola parte di popolazione che presenta una
predisposizione genetica qualora esposta a carenza iodica lieve-moderata.
Il gozzo si sviluppa in questo caso per una maggiore difficoltà nella gestione della carenza iodica.
C’è una fetta della popolazione che riesce a gestire la mancanza di iodio eventualmente andando
incontro a ipertrofia.
Nel processo di iperplasia per stimolazione da TSH la eterogeneità dei cloni cellulari tiroidei è
documentata da studi di autoradiografia: prelevando una porzione di tiroide e valutando la
captazione dello iodio in vitro si potranno vedere cellule che captano maggiori quantità di iodio e
cellule che ne captano quantità minori.
GOZZO SPORADICO
Il gozzo sporadico può essere anche legato a conseguenze alimentari, ad esempio l’assunzione
eccessiva di tiocianati (da fumo o da consumo eccessivo di cavoli).
In questo caso il tiocianato compete con lo ioduro sul NIS, bloccando la captazione dello iodio.
Gozzi di queste dimensioni ad oggi sono molto rari da vedere; un gozzo di questa entità è
caratterizzato da una alterazione funzionale, associata a:
- ipotiroidismo e tiroidite di Hashimoto sovrapposta
- ipertiroidismo (molto più frequente) associato a noduli tossici multifunzionali (tireotossicosi
ipertiroidismo)
Un gozzo di queste dimensioni pone un altro problema: essendo collocato all’imbocco del
mediastino può determinare una sindrome compressiva mediastinica.
Qualsiasi massa che si sviluppa a livello del torace può determinare una sindrome compressiva
mediastinica con compressione di:
- vena cava,
- vene giugulari,
- esofago disfagia da compressione esofagea
- trachea dispnea da compressione tracheale
- nervi ricorrenti disfonia da compressione dei nervi ricorrenti (che si staccano dal vago e
innervano le corde vocali a livello laringeo); per compressione di uno o di
entrambi i nervi possiamo avere paralisi delle corde vocali con modificazione
della voce e disfonia.
Ad oggi il problema clinico più importante non è tanto rappresentato dai gozzi, quanto da patologie
tumorali (che presentano rischio di malignità).
Di fronte alla presenza dei noduli la domanda spontanea rivolta dal paziente è proprio se il nodulo
rappresenti una massa benigna o maligna.
Il 95% dei noduli sono benigni e controllabili, il vero problema è riuscire a distinguere, il 95% dei
noduli benigni dalla quota del 5% che rappresenta neoplasie tiroidee maligne o più raramente
metastasi (di carcinoma renale, del colon e della mammella).
La quota di 5% dei noduli maligni è rilevata attraverso esami più approfonditi o a posteriori con
autopsia.
Di questa parte i carcinomi più clinicamente significativi, cioè quelli che mettono a rischio la
sopravvivenza del paziente o che compromettono le funzionalità respiratorie e digestive
rappresentano lo 0.5%.
Questi dati esprimono un aspetto importante:
dall’ecografia 9/10 noduli rilevati non hanno un impatto rilevante per il paziente, quindi molto più il
rischio principale è rappresentato dalla sovradiagnosi.
La sovradiagnosi ha grandi conseguenze sulla vita dei pazienti: anche soggetti che presentano
carcinomi della tiroide di piccole dimensioni, controllabili e che non andranno incontro a crescita,
sono indotti a rimuoverli chirurgicamente.
La rimozione comporta sviluppo di ipotiroidismo a vita, e notevoli ripercussioni economiche e
sociali dalle spese chirurgiche a quelle per le terapie.
L’aspetto della sovradiagnosi ha un impatto considerevole sulla società, a maggior ragione nel
nostro paese dove l’ecografia è uno strumento accessibile a tutti: possiamo dire di essere di fronte a
un’“epidemia da noduli tiroidei”.
Anche per questa ragione, oggi si stanno elaborando nuove strategie che permettano di approcciare
al problema in modo più razionale per evitare il più possibile le sovradiagnosi, per offrire cure a chi
veramente ne ha bisogno e per cercare anche di risparmiare risorse di fronte a questa ‘epidemia’ che
include per lo più noduli insignificanti.
Tutti questi elementi seppur importanti hanno una accuratezza diagnostica piuttosto limitata: una
paralisi delle corde vocali potrebbe essere anche causata da una infezione virale che coinvolge i
nervi ricorrenti; l’esame obiettivo è importante ma deve essere comunque preso in maniera critica.
LABORATORIO
Tutti i pazienti che hanno un nodulo devono sottoporsi alla misurazione del TSH che può essere:
- normale, maggior parte dei casi
- elevato, in questo caso l’aumento non è causato dal nodulo, ma tiroidite autoimmune cronica
associata
- soppresso, nodulo iperfunzionante (adenoma di Plummer)
Il dosaggio del TSH è fondamentale, perché soprattutto se il TSH è soppresso dobbiamo verificare
se il nodulo è iperfunzionante o no.
Si può anche seguire la misurazione della calcitonina: se la calcitonina è elevata, la probabilità che
il nodulo possa essere un carcinoma midollare sia più alta.
La calcitonina viene prodotta solo dalle cellule C della tiroide e se i valori sono sopra la norma vuol
dire che c’è un processo neoplastico che interessa le cellule C.
NB: la calcitonina può essere prodotta anche da altri tumori neuroendocrini in altre zone
dell’organismo (anche se è un evento molto raro).
La calcitonina quindi può essere molto utile per identificare la natura o per dare una maggiore
definizione del nodulo.
I carcinomi della midollare sono in realtà estremamente rari per cui vengono investite
proporzionalmente molte più risorse per effettuare il test alla calcitonina di quanto non siano
nell’effettivo i test positivi.
Anche in questo caso è necessario verificare se nel rapporto costo-beneficio si trae un reale
vantaggio.
Anticorpi anti tireossidasi si fanno solo per TSH aumentato e se sospettiamo la presenza di una
tiroidite cornica autoimmune.
La misurazione routinaria in questi casi non è indicata.
SCINTIGRAFIA
Una volta era l’unico esame che si poteva fare e che veniva eseguito di seguito alla misurazione del
metabolismo basale.
Oggi ha un'unica indicazione, cioè si esegue su pazienti con sospetto ipertiroidismo (casi in cui i
test di laboratorio danno un TSH soppresso o meno aumento di FT3 o FT4).
In tutti i casi di ipertiroidismo clinico o subclinico c’è una indicazione a fare scintigrafia.
In realtà i noduli tiroidei sono caldi e iperfunzionanti solo nel 10%, nel 90% dei casi sono freddi,
per questo si fa solo se il TSH è soppresso.
I noduli freddi possono essere causa di diverse patologie e rappresentare anche il 5-10% dei noduli
maligni (cioè il totale di tutti i noduli maligni).
Se ci sono indicazioni in questo caso va eseguito un ago aspirato.
Una scintigrafia con tecnezio 99 o iodio 123 per valutare l’uptake del nodulo:
- può essere utile per confermare una autonomia funzionale.
- è indicata quando i livelli di TSH sono soppressi
- se il nodulo è caldo possiamo evitare di fare ago aspirato perché la probabilità che si tratti di un
nodulo maligno è trascurabile.
ECOGRAFIA
Esame estremamente importante, permette di verificare la condizione iniziale per poi continuare il
follow up del nodulo (rappresenta il “tempo 0”, per misurare il nodulo e valutarne le
caratteristiche).
Permette:
- identificazione di noduli aggiuntivi
- di definire una situazione non di gozzo uninodulare, ma di gozzo multinodulare.
- di dare caratterizzazione del nodulo
- di valutare la situazione dei linfonodi lobo-regionali per vedere se sono normali o patologici.
Ci sono una serie di elementi ecografici che ci permettono di fare sospettare la malignità del nodulo.
L’ecografia rappresenta un passaggio fondamentale per guidarci allo step diagnostico successivo,
esecuzione dell’ago aspirato del nodulo (gold standard).
i noduli neoplastici:
- tendono a crescere in maniera concentrica
- possono avere il diametro anteroposteriore maggiore o equivalente al diametro anterolaterale.
MARGINI IRREGOLARI
MICROCALCIFICAZIONI
altro elemento significativo per la malignità
Questi parametri oggi hanno trovato una applicazione clinica; tempo fa ogni volta che ci si trovava
di fronte a un nodulo si eseguiva un ago aspirato a prescindere, oggi questo dispendio di risorse è
improponibile (dal punto di vista dell’impegno economico e di forza lavoro).
Oggi tutte le società scientifiche che si occupano di ecografia (quelle degli endocrinologi, radiologi,
oncologi) hanno sviluppato dei sistemi di triage basandosi sulle caratteristiche appena descritte per
ricavare le linee guida per l’applicazione dell’ago aspirato in base al rischio di malignità dei noduli.
AGO ASPIRATO
ago biopsia:
è un prelievo istologico di una porzione di tessuto; permette il campionamento di una ‘carotina’ di
tessuto per eseguire un esame istologico, quindi la reale natura del tessuto.
L’agobiopsia non ha una esecuzione facile essendo la tiroide notevolmente vascolarizzata (può
causare ematomi e sanguinamenti).
Inoltre l’agobiopsia è una tecnica time-consuming dispendioso: i noduli sono numerosi, quindi
bisognerebbe eseguire più prelievi e allestire più preparati istologici.
È quindi preferibile l’ago aspirato che si esegue con aghi di 23-25- 27 gauge.
Si preleva piccola quantità di materiale, si posiziona su vetrino, viene colorato spesso con
papanicolau.
Solitamente sono raccomandati più passaggi sia per prelevare maggiore quota di materiali sia per
raggiungere più punti del nodulo.
Perché quindi non si bucano i noduli di dimensioni inferiori a 10 mm (se non in presenza di
linfadenopatia associata)?
Perché 9/10 noduli rappresentano patologia subclinica senza impatto: se la patologia c’è (fosse
anche un tumore) se ha dimensioni inferiori a 10 mm non ha conseguenze importanti.
Oggi come cut-off viene indicata la grandezza di 10mm e vengono bucati tutti i noduli sia con
sospetto alto, sia noduli con sospetto ecografico intermedio.
Se il sospetto è molto basso (noduli misti) è a discrezione del medico eseguire o meno ago aspirato
(non si esegue se il nodulo è cistico orche benigno).
La citologia tiroidea permette appunto la stratificazione dei noduli in base al loro rischio e una
classificazione italiana divide i noduli in 7 categorie principali distinti con acronimo TIR
Le categorie hanno delle corrispondenze in altre classificazioni e ciascuna categoria ha uno
specifico rischio di malignità (a parte TIR 1, dove c’è un problema di subdiagnosi).
In funzione del rischio di malignità le categorie guidano nel management del nodulo e della
gestione del paziente.
TIR 1
Preparati inadeguati o non rappresentativi.
- inadeguati: problema determinato da imprecisione nella colorazione o nella fissazione
- non rappresentativi: campioni che non presentano un campione numerico sufficiente di cellule
Perché un campione sia rappresentativo è necessario un cluster di almeno 6 cellule, ciascuno
comporto da almeno 10 cellule ben conservate
In caso di TIR1 bisogna ripetere il prelievo.
TIR1C
Noduli cistici, che in teoria non devono essere ago bioaspirati.
Spesso nell’aspirato di un nodulo cistico non si trovano cellule tiroidee, ma altri tipi di cellule come
sangue e macrofagi
Complessivamente TIR 1 e TIRC rappresentano meno del 20% degli esami citologici.
TIR2
preparati non neoplastici, il rischio di malignità è < 3%.
Il valore predittivo negativo di TIR2 è superiore al 97%: il tasso di falsi negativi è estremamente
basso.
Complessivamente TIR2 rappresenta il 60-70% degli esami citologici e il materiale che si ottiene si
riferisce ai gozzi colloido-cistici, a tiroiditi o a tiroiditi granulomatose (situazioni appunto in cui si
possono sviluppare noduli).
In caso di TIR2: se il nodulo non ha dimensioni grandi al punto da creare fenomeni compressivi, si
eseguono monitoraggi successivi tramite ecografia per verificare se il nodulo cresce o no.
TIR4
sospetto di malignità.
Il valore predittivo positivo di avere una lesione neoplastica è del 60-80%: in realtà è alto il rischio
di falsi positivi (dal 20-40%).
A Perugia tendenzialmente il TIR4 ha un valore predittivo positivo maggiore al 90% (sono molti
meno quindi i falsi positivi), ma in altre realtà ci possono essere dei falsi positivi.
I TIR4 rappresentano una minoranza degli esami citologici: è un preparato con cellule sospette di
malignità, ma mancano caratteristiche per confermare con certezza che siamo di fronte a un nodulo
maligno.
Ci sono agglomerati con tante di cellule anche diverse.
TIR5
Caso estremo, valore predittivo positivo >95%.
Se abbiamo questo ci troviamo con grande probabilità di fronte a lesione maligna.
Rappresenta il 10-15% dei risultati citologici che si ottengono.
In questo caso dall’esame citologico possiamo determinare che si tratta di:
- carcinoma midollare
- carcinoma papillare
- linfoma
-…
TIR3A
Include campioni che non possono essere definiti di citologia benigna, ma che non possono neanche
essere con certezza definiti di citologia tumorale.
C’è rischio di sviluppo di malignità del 5-15%, un livello basso che consente mettere il paziente in
follow up.
La raccomandazione è di ripetere ago aspirato entro sei mesi e se si riconferma TIR3A di continuare
il follow up.
TIR3B
Include tutte le citologie che fanno pensare a un tumore, benigno o maligno che sia.
Il rischio di malignità è più significativo, 15-30% (il professore sottolinea che nel distretto di
Perugia il rischio stimato è del 30-50%), e l’intervento chirurgico viene raccomandato con maggiore
tranquillità.
ANALISI GENOMICA
Ci sono due test genetici, ampiamente eseguiti in America: la percezione è quella che migliorando
l’accuratezza dell’ago aspirato si possa ridurre il numero di interventi chirurgici con una certa
sicurezza e con buon vantaggio dal punto di vista economico.
Oltre oceano le assicurazioni preferiscono sostenere le spese legate a questi test opzionali piuttosto
che inviare i pazienti direttamente agli interventi.
Uno di questi test, Thyroseq v.3, sviluppato da un collega e amico del professore
(anatomopatologo): è un approccio che si basa su analisi genetica delle cellule prelevate attraverso
ago aspirato.
Ad oggi si conoscono gran parte delle alterazioni genetiche che caratterizzano i tumori della tiroide,
e sfruttando le tecniche di next generation sequencing (sequenziamento massivo di 112 geni) la
presenza/assenza di mutazioni su questi geni permette di distinguere con buona approssimazione se
siamo di fronte a nodulo maligno o a nodulo benigno.
L’assenza di certe mutazioni è legata a noduli benigni, la presenza di tali mutazioni induce a
pensare a malignità.
A proposito della performance del test nelle diverse situazioni:
il valore predittivo negativo di un test TIR3A o TIR3B negativo corrisponde al valore predittivo
negativo di un test TIR2;
- se il test è negativo con ottima approssimazione siamo di fronte a una citologia benigna,
- se il test dà un valore positivo dobbiamo considerare la presenza di tumore
Un altro test che può essere applicato è il GEC (gene expression classifer), sviluppato dalla
compagnia Verasite.
Ha un approccio diverso, perché mentre nel Thyrosec vengono analizzate le mutazioni a livello di
DNA e RNA attraverso il sequenziamento, qui si valuta l’espressione genica di un pannello di
cellule.
È un test che si basa sull’RNA che viene estratto dalle cellule, viene fatta una comparazione tra il
risultato ottenuto nell’espressione genica dell’apparato citologico con quelli che sono i risultati di
riferimento dei noduli benigni.
- se c’è coincidenza tra i pattern di espressione genica del preparato citologico e quelli di
riferimento benigni, allora il nodulo è benigno.
- se c’è un discostamento tra i pattern di espressione genica del preparato citologico e quelli di
riferimento il nodulo è considerato sospetto.
È un test molto sensibile con un valore predittivo negativo dichiarato del 95% (ha ottima
accuratezza, ma comunque sembra che il Thyroseq sia meglio).
Anche qui l’algoritmo di comportamento di GEC:
Se c’è coincidenza tra pattern di espressione genica del preparato con quello di riferimento, si
considera nodulo benigno con rischio di malignità del 5% (simile a quello di TIR2)
il paziente viene messo in osservazione
Se c’è discostamento tra i due pattern di espressione genica si considera il nodulo sospetto con un
40% di rischio di malignità.
In Italia, l’estensione di questo test non è sostenibile da un punto di vista economico: in realtà
servirebbe una ripianificazione della gestione delle risorse, perché risparmiare sulle chirurgie e sugli
effetti della chirurgia a lungo termine, può essere compensato dalle spese di questi test.
ALGORITMO
Nodulo tiroideo:
anamnesi, esame obiettivo, misurazione del TSH, ecografia
- se TSH è soppresso
scintigrafia, se il nodulo è caldo deve essere trattato
chirurgia, iodio 121, alcolizzaizone del nodulo
Per quelli benigni una volta si eseguiva la terapia soppressiva di TSH per mettere a riposo la tiroide
e non fare crescere il nodulo, nella convinzione che il TSH fosse un fattore importante per la
crescita dei noduli.
Il prezzo che il paziente pagava era il fatto era quello di essere iatrogenicamente condannato a
ipertiroidismo subclinico, talvolta anche con conseguenze importanti per la salute.
Oggi c’è anche la possibilità di eseguire trattamenti con radiofrequenze iodinate, trattamenti
definiti ‘termo ablativi’.
La maggior parte dei noduli maligni che troviamo alla tiroide è rappresentata da carcinomi
differenziati della tiroide (88%) che includono i carcinomi papillari della tiroide e i carcinomi
follicolari della tiroide.
Bisogna sottolineare che negli ultimi 10-20 anni si è affermata un’impennata in generale
dell’incidenza dei tumori della tiroide e, in particolare, dei carcinomi papillari della tiroide, poco
aggressivi, che hanno una mortalità bassa e costante.
Per quale motivo si apprezza un aumento dell’incidenza?
Probabilmente è il frutto della sovradiagnosi:
oggi si fa diagnosi di un serbatoio di patologia subclinica che è sempre esistito, che tempo fa, con la
sola palpazione, non veniva identificato e che oggi si diagnostica attraverso ecografia e ago aspirato
(forse anche utilizzati in maniera indiscriminata).
Le patologie della tiroide sono un problema prevalentemente femminile (forse anche perché le
donne vanno più spesso dal medico), la mortalità è la stessa in entrambi i sessi.
L’incidenza delle neoplasie è salita da 5 nuovi casi/ 100.000 abitanti /anno a 14 nuovi casi/ 100.000
abitanti /anno per la diagnosi di carcinomi papillari (in Italia).
I carcinomi papillari sono neoplasie che determinano un aumento di incidenza ogni anno.
Alcune neoplasie stanno presentando un trend al ribasso altre un trend al rialzo; la prova scientifica
che l’aumento dell’incidenza sia legato a una sovradiagnosi proviene da dati prodotti in Corea.
In Corea a partire dalla fine degli anni ‘90 è stato effettuato uno screening massivo delle neoplasie e
per la tiroide c’è stato un incremento vertiginoso dell’incidenza: 70 nuovi casi/ 100.000 abitanti
/anno.
Lo studio coreano afferma che più le neoplasie si cercano più si trovano; è stata dimostrata
scientificamente la correlazione tra l’intensità dello screening il tasso di incidenza: a seconda
dell’intensità con la quale si cercano i tumori si ha un diverso tasso di incidenza.
A riprova nel 2014-2015 è stato pubblicato un ulteriore studio: nel momento in cui il piano di
screening è stato interrotto, anche l’incidenza dei tumori (di tiroide ma non solo) si è
progressivamente ridotta insieme al numero degli interventi.
Il cancro alla tiroide, in passato considerato un cancro raro, è in nona posizione per frequenza (4%
delle neoplasie).
Nel 2014 negli USA erano attesi 62.000 casi di tumore della tiroide con mortalità prevista di 2000
casi.
Il collega del professore (quello a cui si deve l’invenzione del Thyroseq) al tempo esercitava la
professione di anatomopatologo a Misnk, vicino Chernobyl.
A riprova del fatto che la popolazione non fosse stata avvisata del disastro, il professore racconta
che il fratello del collega fosse un fisico e che nel dipartimento di fisica qualcuno accese
casualmente un contatore geiger (misuratore di radioattività) che prese fuoco per il forte aumento
della radioattività.
Per diversi giorni la popolazione è stata esposta in maniera massiva alle radiazioni e i danni
principali sono stati riportati dai bambini.
Dopo il disastro l’intera comunità internazionale si mise in allerta; già dai fatti di Hiroshima e
Nagasaki era noto il rapporto tra radiazioni e tumori della tiroide, ma non era chiara la correlazione
tra esposizione e tempo di insorgenza del tumore.
Già a partire da 3-4 anni dopo l’incidente nucleare ci fu un incremento sensibile dell’incidenza dei
carcinomi papillari della tiroide nella popolazione pediatrica che era stata esposta alla radioattività e
chi pagò il prezzo più alto furono proprio i bambini, perché le tiroidi in formazione sono le più
suscettibili.
Il professore aggiunge che il suo collega, deluso dalle istituzioni dell’URSS, si trasferì in America
con i reperti bioptici di tiroidi infantili e che da questo sviluppò l’interesse per il tumore della
tiroide fino alla scoperta del Thyroseq.
18/03/19 Elena Giglioni Prof. Paolo Sportoletti
La lezione è stata tenuta dall’ematologo Paolo Sportoletti per mostrare alcune applicazioni
pratiche della diagnostica molecolare, metodo attuale e futuro della diagnosi.
Il dogma della medicina molecolare afferma che ogni messaggio che viene costruito all’interno
della cellula da parte del DNA, viene trasformato nel ribosoma in una proteina, con natura
fisiologica o patologica, a seconda se il messaggio sia corretto o meno.
PCR
Tutta la medicina molecolare si può legare alla PCR, poiché tutte le indagini di RNA e DNA non
possono prescindere da questa tecnica, indipendentemente dal campione prelevato. La PCR è un
metodica che permette di studiare precise sequenze di DNA, piccoli frammneti a doppio filamento,
che vengono amplificati affinchè il loro peso possa essere adeguato ad uno studio. Si inizia con un
piccolo frammneto fino a generare miliardi di copie. Necessitiamo di:
materiale da amplificare
primers(oligonucleotidi complementari alla regioni di DNA di interesse che si andranno ad
attacare e permettere la duplicazione del filamento)
Tamponi magnesio per la polimerasi
Taq polimerasi
desossinucleotidi.
Per una corretta esecuzione della PCR è importante generare oligonucleotidi non troppo lunghi
che si attacchino in maniera specifica al DNA da amplificare per evitare la comparsa di bande
aspecifiche in fase di analisi, che genererebbero false positività o peggio ancora impossiblità di
fare analisi. Tutto ciò è evitato dalla corretta progettazione dei primers, che segue alcuni principi:
Tanto più sarà lungo e preciso il frammento, tanto meno saranno le possibilità di
appaiamneto erroneo
Ogni primers ha una temperatura di appaiamneto propria che dipende dalle sue
caratterististiche fisiche e delle basi di cui è composto
La sequenza interna non deve contenere sequenze omologhe per evitare la chiusura ad
anello del primers, impedendo così l’apaiamento al filamento
Tutto ciò ora è semplificato da browser che contengono banche dati di sequenze genomiche
bersaglio della PCR; una volta ottenuta la sequenza si usano software (motori di ricerca) che
sovraimpongono tutte le caratteristiche necessarie ad un primer quando si deve amplificare una
determinata sequenza. Si possono ottenere dal software diverse opzioni a seconda della prova di
indagine da effettuare. La PCR, come ogni altra indagine, deve sempre avere un controllo negativo
e uno positivo per evitare falsi
negativi e falsi positivi.
Elettroforesi
La Real-time PCR trasforma in numero le mutazioni che stiamo studiando. L’innovazione è stata
l’introduzione di un sistema di reporter fluorescenti in combinazione con gli enzimi e primers, che
identificano la quantità in base all’emissione luminosa emessa da queste sonde reporter.
Il processo è del tutto uguale alla PCR normale, ma nella fase di annealing, tra i due primers sono
inseriti frammenti marcati con sonde fluorescenti che se interagiscono con la Taq polimerasi che
ne libera frammenti, sono in grado di emetter luminescenza quantificabile. La sonda è costituita
da un reporter che emette fluorescenza e un quencher in grado di inibire l’emissione del reporter
finché essi non sono separati dalla Taq polimerasi. Importanti nella Real-time PcR sono la soglia e
CT. La soglia (Threshold) indica se la quantità di fluorescenza emessa ha un valore, oppure
appartiene a un background di disturbo. Sotto questo determinato valore di soglia, che viene
espresso in numero di cicli, l’emissione non ha
significato.
Il monitoraggio della risposta terapeutica può essere effettuato in tre modi, con diversa profondità
di indagine. Se ci si fermassimo alla sola risposta ematologica, non sarebbero rilevate cellule con il
cromosoma bcr-abl mantenuto nel
cariotipo, ma con morfologia normale.
Le curve di sopravvivenza alla leucemia mieloide cronica sono molto positive dopo l’avvento del
farmaco, soprattutto con una risposta in tempi brevi che fa calare la possibilità di ricadute. Il
dogma di questa terapia fino a qualche anno fa era di
assumerla ad vitam, ma in tempi recenti abbiamo
individuato una sottopopolazione di pazienti, che
possono sospendere la terapia senza il rischio di
recidiva molecolare. Il 40% dello 0,1% (pazienti con
risposta ottimale sotto i 12 mesi) poteva sospendere la
terapia tranquillamente.
SEQUENZIAMENTO GENICO CON METODO
SANGER
Si cerca una sequenza che possa rendere una buona analisi. Il sequenziamento pone le sue basi
nella PCR. Dobbiamo amplificare il campione per poi
passare al sequenziamento, prima si deve però
purificare il campione dagli altri elementi della PCR
avanzati (magnesio, dntps, elementi della soluzione
tampone…). Si ripulisce il prodotto grazie ad un filtro
apposito o aspiratori che selezionano solo i frammenti di
DNA che rimangono ancora alla membrana di filtro,
grazie ad una soluzione tampone vengono staccati. Si
verifica la presenza della banda di interesse per il sequenziamento.
Per sequenziare si usa la PCR con il template, primers, dntps (desossiribonucleotidi) e ddntps
(didesossiribonucleotidi) marcati. Quando la polimerasi espleta la sua funzione può usare i ddntps
che non avendo l’estremità 3’ libera fanno terminare il processo: si otterranno frammenti
differenti in lunghezza, che se messi in ordine di lunghezza possiamo ricostruire la sequenza,
facendoli correre in un’elettroforesi capillare che li seleziona in base alla grandezza.
Ora le basi terminatrici (ddntps) sono marcati con fluorocromi che il sequenziatore elabora
nell’elettroferogramma, ogni base emette il suo colore rispettivo che il sequenziatore legge come
sequenza di picchi di differente lunghezza d’onda. Si riscontrano così le variazioni della sequenza
nucleotidica a causa di mutazioni puntiformi. È utile visualizzare l’elettroferogramma poiché legge
entrambi i filamenti, quindi qualora si presentino basi non corrette in eterozigosi, abbiamo la
registrazione contemporanea di due picchi differenti (nella slide solo su un filamento è sostituita la
timina con una guanina). Si passa poi a cercare la sequenza alterata in banche dati per ricercare la
mutazione (Blasting).
Diagnostica Molecolare
Lezione del 20-03-19 Sandro Zaffini
SI inizia da dove è finita la lezione precedente, cioè elencando gli istotipi del carcinoma follicolare
tiroideo.
Al microscopio ci possiamo trovare di fronte a 4 istotipi:
Le differenze tra questi istotipi si basano sull’espressione o meno di diverse molecole che saranno
poi utili per l’approccio terapeutico.
Nel Carcinoma differenziato, le cellule follicolari sono uguali a quelle normali e presentano dunque
il NIS, la TPO, il TSH-R e la Tg (tireoglobulina)
Nel Carcinoma poco differenziato, le cellule follicolari hanno bassa espressione di queste molecole
mentre nel Carcinoma anaplastico sono totalmente assenti, in quanto c’è una totale perdita di
differenziazione. Visto che questi ultimi tumori sono estremamente aggressivi ed esistono ben
poche terapie disponibili, è una fortuna che siano estremamente rari, anche perché si manifestano in
stadi già avanzati.
Terapia
3. Terapia con TSH- soppressivo ( nei carcinomi in cui è presente il recettore per il TSH)
APPROCCIO CHIRURGICO
Ha come obiettivo principale la radicalizzazione della neoplasia sia nel tessuto tiroideo sia nei
linfonodi locoregionali.
Prima ogni paziente con carcinoma follicolare subiva una tiroidectomia totale; adesso l’approccio
chirurgico è calibrato e varia a seconda delle dimensioni e dell’estensione del tumore. Si analizza
ora l’approccio per i carcinomi differenziati e poco differenziati ( per quelli anaplastici non verrà
detto altro)
-Per i carcinomi piccoli (<1cm) si fa una lobectomia
-Per i carcinomi di medie dimensioni (1-4cm) che non presentano metastasi, si esegue una
tiroidectomia totale
-Per i carcinomi grandi (>5cm) che presentano metastasi linfonodali si procede con tiroidectomia
totale associata a linfadenectomia locoregionale.
L’obiettivo che si pone questo approccio terapeutico è sia adiuvante, cioè permette, dopo la
chirurgia, di rimuovere eventuali residui di tessuto neoplastico, sotto forma di micrometastasi, che
potrebbero essere sfuggite al chirurgo, riducendo così drasticamente il rischio di recidive. Il
secondo obiettivo è certamente terapeutico, vista l’azione diretta del radioiodio sul tumore.
Altri obiettivi, di non minore importanza, sono quelli di permettere una stadiazone del tumore,
grazie alla scintigrafia post- radioiodio, e quello di rimuovere, dopo tiroidectomia totale, anche
residui di tessuto sano (o patologico) che potrebbero interferire con le successive analisi di
laboratorio previste per il follow-up.
Così come per la chirurgia, anche la terapia con radioiodio non viene applicata in tutti i casi di
carcinomi follicolari tiroidei.
-Per i carcinomi <1cm (T1a) non è consigliabile la terapia con radioiodio
-Per i carcinomi gradni >5cm è obbligatoria, dopo la chirurgia.
-Per quelli intermedi si usa in modo selettivo in base allo stadio e alla presenza di metastasi
linfonodali locoregionali.
Per l’uso di questa terapia esiste però un limite: la possiamo fare SOLO se è presente io NIS che ad
esempio nei carcinomi poco differenziati può esserci in concentrazioni così basse da non avere
rilevanza terapeutica. Per superare questo ostacolo dovremmo aumentare l’espressione di NIS; a
questo scopo possiamo sfruttare il TSH-R che se stimolato aumenta l’espressione di NIS .
Fondamentalmente dobbiamo far aumentare le concentrazioni di TSH prima di fare una terapia/
screening con radioiodio.
Come?
Il paziente classico che risente di questa problematica è quello che ha subito tiroidectomia totale ed
è sotto trattamento sostitutivo. In un paziente del genere basterebbe interrompere la terapia con
ormoni tiroidei così da far aumentare il TSH sfruttando il feedback.
Questa metodica fa, però, insorgere delle problematiche: se interrompo la terapia nel paziente
questo andrà in ipotiroidismo, inoltre, affinché il TSH salga si deve consumare anche quel pool di
riserva di ormoni tiroidei legati alle proteine plasmatiche, quindi dovrei interrompere la terapia
sostitutiva per almeno 4-6 settimane e costringere il paziente ad un periodo prolungato di
ipotiroidismo.
Fortunatamente questo approccio non è più consigliato, in quanto circa 15-20 anni fa si è riusciti a
sintetizzare in laboratorio il TSH umano ricombinante (rhTSH). Non bisogna sottovalutare gli sforzi
che sono stati fatti per riuscire a produrre questa glicoproteina dimerica estremamente complessa.
Però in questo modo si può evitare un periodo di ipotiroidismo pre radioiodio semplicemente
somministrando 0.9 mg di Tyrogen® (nome commerciale del rhTSH) per 2gg consecutivi con
iniezione intramuscolo. Dopo questa terapia si può fare il radioiodio e poi dopo 2-7 gg si può
procedere con la scintigrafia
TERAPIA TSH-SOPPRESSIVA
Sappiamo che il TSH è un fattore di crescita per le cellule tiroidee così come per quelle tumorali
che presentano un recettore per il TSH ( Carcinomi differenziati e poco differenziati).
L’obiettivo di questo approccio terapeutico è quello di sopprimere il TSH ,mantenendo però i livelli
di FT3 e FT4 normali.
Come?
Aumento la dose della terapia sostitutiva così da far scendere il TSH sotto il limite inferiore del
range di normalità (ricordiamo che il range è 0.5-2) quindi al di sotto di 0.5 ( di solito si porta a 0.1)
NB. Non bisogna mai annullare i livelli di TSH per non mandare il pz. in ipertiroidismo clinico ma
mantenerlo in uno stato di ipertiroidismo subclinico.
A lvl. osseo, invece, si assiste ad una riduzione della massa ossea, di particolare rilievo nelle donne
in post- menopausa, a cui si aggiunge alla deplezione ossea fisiologica, anche questa componente
causata dall’ipertiroidismo subclinico.
Anche in questo caso si rende necessario un bilanciamento della terapia basato sul rischio di
cancro tiroideo:
Per i pz ad alto rischio è raccomandata una soppressione del TSH sotto 0.1mU/L
Per i pz a rischio intermedio è raccomandata una soppressione tra 0.1 e 0.5 mU/L
Per i pz a basso rischio non viene raccomandata soppressione del TSH
Outcome dei pz con Carcinoma differenziato (DTC)
T: dimensione
N: metastasi locoregionali
M:metastasi a distanza
In realtà questo sistema non è molto utile, almeno per i carcinomi tiroidei, in quanto stratifica non
tanto il rischio di recidive/ persistenza della malattia, bensì il rischio di morte, che in linea di
massima è intuibile anche senza questa classificazione,basandosi sulle analisi e sull’imaging.
Per concludere la parentesi sulla classificazione TNM si dice solamente che viene divisa in fasce di
età: sotto i 55anni esistono solo due stadi, sopra i 55 ne esistono ben 5.
Ci sono altri sistemi estremamente complessi di stratificazione del rischio che tengono conto
dell’istotipo, dell’invasione vascolare e dell’efficacia del trattamento iniziale.
In questa sede verrà solo detto che grazie a questa stratificazione si è arrivati a distinguere categorie
a basso(<5%), medio (5-20%) e alto rischio (>20%); ognuna con le sue sottocategorie (molto
complesso non va fatto)
Problema!
Questo sistema di stratificazione
non è preciso:
Per questo motivo, per evitare casi simili, si è aggiunta alla stratificazione del rischio anche l’analisi
genetica, in particolar modo dei geni BRAF e TERT.
La mutazione di BRAF (V600E, Valina sostituita in posizione 600 da una Acido Glutammico) si
associa, secondo uno studio, ad un outcome peggiore.
La mutazione del promotore del gene TERT si associa ad un drastico aumento della mortalità e ad
una drastica riduzione della sopravvivenza libera da malattia.
Adesso nelle valutazioni del rischio coesistono fattori clinici e fattori genetici.
FOLLOW-UP
Tg e Ab-antiTg
Vengono misurati per verificare l’efficacia del trattamento. (dopo circa 1 anno...dipende dal rischio)
Il dosaggio della tireoglobulina può essere fatta in condizioni basali ( ha però bassa sensibilità)
oppure dopo stimolazione con TSH ( in quanto lo stimolo del TSH dovrebbe far aumentare la
sintesi di Tg) che può essere eseguito o inducendo ipotiridismo oppure più semplicemente con
rhTSH (0.9mg di Tyrogen x 2gg) questa metodica di dosaggio ha una sensibilità che si avvicina
molto al 100%.
NB Durante il follow-up le dosi di tracciante sono basse, se la scintigrafia mi vine positiva, userò
dosi di tracciante terapeutiche!
Imaging
Il carcinoma midollare della tiroide è un tumore delle cellule parafollicolari secernenti calcitonina.
Anche le cellule tumorali condividono con le cellule C la proprietà di poter produrre questo ormone,
che in questi casi funge come marker di malattia.
Questo particolare tipo di carcinoma è in realtà poco frequente, in quanto costituisce solo il 5% dei
tumori tiroidei. Peculiare in questa tipologia è la presenza di una componente ereditaria nel 25% dei
casi, che rientra nella Sindrome MEN2 ( Neoplasia Endocrina Multipla di tipo 2). L’incidenza di
questa sindrome è piuttosto bassa ( crica 2.5 famiglie su 100.000----in Umbria ci sono 20 famiglie
con MEN2).
La forma familiare di MTC è provocata da una mutazione del proto-oncogene RET, situato sul
braccio lungo del cromosoma 10, lungo 60 kbasi, contenente 21 esoni, che codifica per una proteina
di 1100 amminoacidi.
Questa proteina altro non è che un recettore tirosinchinasico (TK) che nella sua forma completa
comprende anche 4 ligandi e 4 co-recettori.
Questo recettore è fisiologicamente presente durante lo
sviluppo embrionale, nel foglietto ectodermico ed è quindi
coinvolto nella genesi dei reni e del sistema nervoso
enterico. Una mutazione a questo livello che sopprime la
funzione di RET provoca la cosiddetta aganglionosi
intestinale ( meglio conosciuta come “Morbo di
Hirschprung” o “Megacolon congenito”), che provoca un allargamento del colon con conseguenze
piuttosto gravi, risolvibili però con la chirurgia.
Struttura di RET
( Gli altri fenotipi non sono rilevanti per la trattazione che stiamo facendo e non vanno saputi!)
A prescindere dal fenotipo il momento comune a tutte le sindromi MEN2, è la mutazione attivante
di RET, che provoca sulle cellule parafollicolari una iperplasia delle cellule C, con conseguente
“carcinoma midollare multifocale”.
FMTC è “familiare” se ci sono almeno 4 membri all’interno di un nucleo familiare con MTC.
Bisogna però considerare che questa mutazione ha penetranza variabile!
MEN2A c’è presenza di MTC in praticamente tutti i soggetti affetti, il Feocromocitoma è meno
frequente ( 30-50%) così come gli adenomi o iperplasia paratiroideee (10-30%)
MEN2B c’è presenza di MTC in tutti i soggetti con insorgenza particolarmente aggressiva già in
età pediatrica, assistiamo alla presenza di neuromi sulle mucose orali, intestinali, palpebrali etc…
che ci fanno subito ipotizzare una sindrome del genere visto che sono presenti nel 100% dei pz,
comuni sono i Feocromocitomi, così come le anomalie scheletriche e l’Habitus Marfanoide → →
Il pattern ereditario della malattia segue un modello tipico di una patologia autosomica
dominante. Vengono colpiti indiscriminatamente si maschi che femmine con casi in ogni grado di
parentela.
Si eredita di solito un allele mutato, ma si è visto che potrebbe non bastare per provocare il fenotipo
della malattia. Vige quindi la teoria del doppio colpo in cui il primo, rappresentato dall’allele
mutato in eterozigosi non è sufficiente. Interviene perciò il secondo colpo che fa, in qualche modo,
sviluppare una “dominanza” all’allele mutato su quello sano, Questo secondo colpo è classicamente
o una trisomia o una amplificazione o una perdita dell’allele sano.
Si fa come solito da campione di sangue periferico. Estraggo il DNA dai globuli bianchi ed
amplifico tramite PCR gli esoni che mi interessano ( 5-8-10-11-13-14-15-16). Faccio poi una
elettroforesi su gel di agarosio per poi sequenziare gli esoni in maniera diretta per vedere se ci sono
eventuali mutazioni, confrontando la sequenza amminoacidica con la sequenza di riferimento.
Va categoricamente eseguito su tutti i pazienti che hanno ricevuto una diagnosi di MTC (nel 25%
dei casi è ereditaria) e nei familiari di primo grado di una paziente con MEN2.
In questo modo posso: distinguere quelli che hanno MEN2 o semplicemente un MTC e, sui
familiari di primo grado, posso distinguere i sani dai portatori della mutazione, così da fare una
diagnosi precoce( già in infanzia) prima che si sviluppi effettivamente la neoplasia.
Genotipo-Fenotipo
Per quanto riguarda la MEN2A l’85% dei pazienti presentano una mutazione del codone 634
dell’esone 11
Per quanto riguarda la MEN2B il 95% dei pazienti presentano una mutazione de codone 918
dell’esone 16.
Peculiarità delle mutazioni che provocano MEN2B è che sono spesso “de novo”, cioè interessano i
gameti, e provocano una malattia talmente grave che fino a poco tempo fa non si era a conoscenza
di nuclei familiari MEN2B visto che morivano prima di poter generare prole.
STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO
In base alle diverse tipologie di mutazione di RET si divide dal riscio maggiore a quello minore i 4
livelli:
Livello D ( altissimo rischio) si associa alle mutazione dei codoni 918 e 833 associate alla MEN2B.
C’è un altissimo rischio di MTC estremamente aggressivi che si possono manifestare in età infantile
con elevato tasso di mortalità dovuto all’alto rischio di metastatizzazione.
Livello C ( alto rischio) si associa alla mutazione del codone 634, associata ad un rischio più basso,
ma comunque elevato, di MTC aggressivo.
Livello B (medio rischio) si associa ad altre mutazioni sugli esoni codificanti per i domini ricchi in
cisteina, con rischio minore di MTC aggressivo
Livello A (basso rischio) si associa a mutazioni segli esoni che codificano per il dominio TK. Si
tratta del livello a più basso rischio associato a bassi livelli di calitonina sierica e ad un più elevato
successo terapeutico.
Lo stato di portatore è definito dalla presenza della mutazione germinale. Conoscere chi è o non è
portatore ci pone di fronte a due vie: o facciamo un monitoraggio periodico o facciamo la cosiddetta
“prevenzione preclinica”: visto che è un tumore molto maligno in alcuni casi è utile poter fare una
tiroidectomia profilattica per poi proseguire con i monitoraggi. Queste scelte si fanno in base alla
stratificazioni del rischio che vengono eseguite direttamente da bambini per evitare l’evitabile.
>Portatori di mutazioni di livello C: Tiroidectomia totale prfilattica prima dei 5 anni di età e CCL
dopo i 10 anni di età
>Portatori di mutazioni di livello B: PTT prima dei 5 anni dii età e CCL dopo i 20
>Portatori di mutazioni di livello A : PTT dopo i 5 anni( a Perugia, almeno per questo livello, non si
fa tiroidectomia totale finché non ci sono manifestazioni cliniche della malattia, riscontrabili da
monitoraggi annuali)
Screening
Per quanto riguarda la MEN2A si inizia a fare il monitoraggio quando il paziente ha 1 anno.
Per quanto riguarda la FMTC si può aspettare fino a 3-5 anni
Per quanto riguarda il Feocromocitoma si iniziano gli screening a 5-7 anni
Per quanto riguarda l’iperparatiroidismo si inizioano a 10 anni
-Per FMTC e MEN2A si fanno i dosaggi della calcitonina plasmatica in condizioni basali e dopo
stimolazione con Ca++, sfruttando le proprietà ipocalcemizzanti dell’ormone stesso, che viene
indotto alla produzione quando aumentano i livelli sierici di calcio. Il dosaggio della calcitonina
dopo Ca++ si può fare solo in centri altamente specializzati in quanto vengono somministrate
grandi dosi di calcio ( 25mg/kg che corrispondono a circa 2 g di calcio in bolo che possono
potenzialmente portare ad un arresto cardiaco).
Ogni anno si fa una Ecografia della tiroide come test di imaging
-Per il Feocromocitoma si fanno i dosaggi delle metanefrine urinarie o plasmatiche, i dosaggi delle
catecolamine urinarie o plasmatiche o i VMA urinario. Per il Feocromocitoma non si fanno test di
imaging se prima i test biochimica non danno un sospetto,
-Per l’iperparatiroidismo si fanno semplicemente i dosaggi del Ca++e del PTH. Così come per il
Feo, non si fanno test di imaging.
FOLLOW-UP
Si basa su test relativamente semplici come la misurazione della calcitonina (basale e/o dopo Ca+
+), la misurazione del CEA che è un prodotto dele cellule C neoplastiche, l’ecografia del collo e
altre tecniche di imaging classiche come TC, PET e RMN
SBOB.:ALESSIA LANCIANESE
REV.:GIULIA LATINI
5/03/2019-1° ora
IPOGLICEMIE
Sindromi ipoglicemiche
L’argomento ipoglicemia è molto rilevante nei soggetti che sono affetti da diabete mellito e fanno
uso di farmaci che possono determinare ipoglicemia, ovvero abbassamento dei valori glicemici.
Questo vale per la terapia insulinica o per la terapia con farmaci orali, le sulfaniluree.
Oggi parleremo però dell’ipoglicemia nelle persone che non hanno il diabete e che quindi
presentano altre cause, tra le quali l’uso di insulina ma in maniera del tutto autonoma.
Nei soggetti sani, il range è il frutto dell’azione di ormoni quali insulina (unico ormone
ipoglicemizzante) e ormoni contro regolatori, ovvero iperglicemizzanti, che sono glucagone,
adrenalina, cortisolo e ormone della crescita (GH). Il soggetto sano non va mai in ipoglicemia:
quando egli è in una situazione di digiuno e la glicemia si abbassa anche a 55mg/dl, entrano in
gioco glucagone ed adrenalina che tendono a far risalire la glicemia.
Tra questi ormoni contro regolatori sicuramente il glucagone è l’ormone più importante poiché è
quello che agisce per primo quando la glicemia tende ad abbassarsi (ad esempio in condizioni di
digiuno o in seguito a studi sperimentali). Quindi man mano che la glicemia si abbassa il glucagone
viene rilasciato ed esso agisce a livello epatico, stimolando la produzione di glucosio attraverso
glicogenolisi. Anche l’adrenalina fa la stessa cosa, tanto che questi ormoni vengono detti essere ad
azione rapida, contrastano velocemente l’azione dell’insulina e tendono a far rialzare la glicemia.
Se il digiuno si protrae entrano in gioco anche gli altri ormoni, che sono il cortisolo e il GH. Anche
questi ormoni agiscono a livello epatico sulla glicogenolisi e sulla gluconeogenesi, ma adrenalina e
cortisolo, in parte anche GH agiscono anche a livello periferico, quindi muscolare: essi fanno sì che
i muscoli utilizzino meno glucosio. Da un lato questi ormoni inducono il fegato a produrre glucosio,
dall’altro vanno ad inibire l’utilizzo di glucosio a livello muscolare. In questo modo il glucosio
rimane in circolo e può essere metabolizzato da altri tessuti, in particolare dal tessuto nervoso, che è
del tutto glucosio-dipendente.
Il glucosio che entra nelle cellule attraverso l’azione dell’insulina che facilita il reclutamento dei
trasportatori di glucosio, viene poi ossidato attraverso la glicolisi oppure va incontro al metabolismo
non ossidativo, e quindi viene immagazzinato sotto forma di glicogeno.
Nell’ambito della fisiopatologia dell’ipoglicemia un aspetto importante è svolto proprio dal tessuto
cerebrale, che nonostante rappresenti solo il 2% del peso totale del nostro organismo, utilizza una
quantità di glucosio che può anche essere del 50% perché il metabolismo è strettamente glucosio
dipendente.
Il glucosio arriva a livello cerebrale tramite dei trasportatori localizzati a livello della barriera
ematoencefalica, struttura che impedisce l’accesso a livello cerebrale di tante molecole. Una volta
che il glucosio è stato trasportato al cervello viene metabolizzato per ottenere ATP, quindi energia
mediante la quale il cervello può svolgere le proprie funzioni. A livello cerebrale i GLUT1 e i
GLUT3 sono i trasportatori più importanti. I GLUT1 sono localizzati nelle cellule endoteliali e
facilitano il passaggio di glucosio a livello degli astrociti, i GLUT3 a livello neuronale. Oggi è
evidente che gli astrociti, cellule metabolicamente molto attive, sono a supporto dei neuroni. Gli
astrociti trasformano glucosio in lattato che viene fornito ai neuroni che poi continuano il
metabolismo, con formazione di ATP. Ci sono circa 12/13 GLUT , ma i GLUT1 e 3 sono
traportatori con una bassa Km (costante di Michaelis-Menten) e quindi con un’elevata affinità per il
glucosio: questo è un vantaggio soprattutto in condizioni di digiuno prolungato o di ipoglicemia.
Sono in grado di trasportare glucosio anche in situazioni di assenza.
Il sistema autonomico genererà anche dei sintomi tipici dell’ipoglicemia, noti proprio come sintomi
autonomici o sintomi adrenergici.
Abbiamo però anche dei sintomi chiamati neuroglicopenici, connessi alla riduzione della glicemia
a livello cerebrale.
Con l’attivazione del sistema autonomico avremo anche delle modificazioni emodinamiche:
aumenta il flusso cerebrale di glucosio e si riduce negli altri distretti, ad esempio a livello del
cutaneo.
• Sintomi neurologici:
parestesie,coma, tremori…
• Attenzione
• Coordinazione visuo-motoria
• Tempi di reazione (tendono ad aumentare)
• Flessibilità mentale
• Memoria a breve termine
L’alterazione di una o più funzioni cognitive può avere effetti gravi, basta pensare al soggetto che
guida l’auto con dei tempi di reazione rallentati. Ci sono ad esempio storie di pazienti, trovati in
auto in stato di incoscienza (ipoglicemia grave, che richiede assistenza da parte di altre persone), in
seguito, riferiscono di essersi messi in macchina ed essere partiti da un punto x, ma non ricordano
altro. Queste funzioni cognitive che tendono ad essere compromesse durante l’ipoglicemia, una
volta che questa viene corretta, non si normalizzano subito ma richiedono del tempo (anche 2 ore).
Anche questo aspetto ha una rilevanza pratica, il soggetto non può subito mettersi alla guida ad
esempio.
Ci sono anche i substrati amminoacidici che sicuramente vengono utilizzati a livello cerebrale.
Amminoacidi assunti per OS determinano delle variazioni in senso positivo di alcuni aspetti
cognitivi; probabilmente non lo fanno come amminoacidi ma come precursori di neurotrasmettitori.
Il cervello ha dunque questa plasticità di utilizzare più substrati, ma l’ipoglicemia necessita di
glucosio per essere corretta.
Una condizione interessante è
l’ipoglicemia silente, condizione in cui
c’è ipoglicemia ma assenza di sintomi.
Una condizione di questo tipo espone al
rischio di ipoglicemia grave. Le
ipoglicemie anche moderate ma che
ricorrono nel tempo (più volte a
settimana) rappresentano un fattore di
rischio per questa condizione. In
ipoglicemia grave non si può
somministrare nulla per via orale perché nel soggetto in stato di incoscienza c’è rischio di polmoniti
ab ingestis. Posso infondere glucosio in vena o glucagone (iniezione intramuscolare). Il glucagone è
in grado di far salire la glicemia di 50-60 mg, quanto basta per far riprendere al soggetto lo stato di
coscienza. Situazione molto comune in diabetici di tipo I e tipo II ma soprattutto nel primo caso in
cui i pazienti possono fare solo terapia insulinica la quale espone a rischio di ipoglicemia. Nel tipo
II la terapia è basata prevalentemente su farmaci orali e farmaci iniettivi quindi il rischio di
ipoglicemia è più basso.
Sbobina 5 Marzo 2019
2° ora
Maria Teresa Baffa
Docente: Prof. Carmine Fanelli
IPOGLICEMIA SILENTE
Viene chiamata anche ipoglicemia inavvertita o ipoglicemia singolare.
Si tratta di una serie di ipoglicemie, anche moderate e prive di sintomi autonomici, ma che si
protraggono nel tempo.
L’ipoglicemia silente è un fattore di rischio per l’Ipoglicemia grave, la quale richiede l’assistenza
di altre persone che, in questo caso, devono agire dando glucosio endovena, o dando glucagone
come iniezione intramuscolo.
L’iniezione di glucagone intramuscolo è in grado di innalzare i valori di glicemia anche di 50-60
mg/dL, tanto quanto basta per ripristinare le funzioni cognitive.
RICORDA: Il soggetto con uno stato di coscienza alterato, non deve assolutamente assumere
sostanze per via orale, in quanto si ha il rischio di inalazione a livello polmonare con conseguente
polmonite per abingestis.
E’ una condizione che si presenta nel soggetto affetto da diabete di tipo 1 e 2 (prevalentemente nel
diabete di tipo 1).
L’ipoglicemia silente può essere data anche da disfunzioni che non interessano il sovradosaggio
dell’insulina.
Tali problemi possono essere:
• INSULINOMA
• ANORESSIA NERVOSA
• IPOGLICEMIA POST-CHIRURGIA BARIATRICA
• IPOGLICEMIA REATTIVA AL PASTO (DOPO 4-5 ORE)
Abbiamo precedentemente detto che l’ipoglicemia silente può essere data da un protrarsi di
ipoglicemie ricorrenti, che utilizzano come meccanismo d’azione principale un aumento della
captazione del glucosio.
IPOGLICEMIA RICORRENTE
Adattamento nervoso all’ipoglicemia ricorrente mediato dai trasportatori GLUT 1 e GLUT 3
che fanno sì che la stessa quantità di glucosio possa essere trasportata anche in condizione di
ipoglicemia
IMPORTANTE
Quando si abbassano i livelli di glicemia ci sono delle attivazioni di alcune aree cerebrali, tra cui
quella dell’amigdala.
L’amigdala è una struttura che gestisce alcuni aspetti emotivi tra cui l’ansia e la paura.
L’ attivazione dell’amigdala determina uno stato di preoccupazione, allarme e paura che in questo
caso è appunto lo stato di ipoglicemia.
Generalmente, l’ipoglicemia a digiuno sottende una patologia organica, per esempio un insulinoma,
o altre condizioni, come l’insufficienza epatica.
La forma post-prandiale è una condizione funzionale o reattiva, che nella maggior parte dei casi può
essere trattata mediante una correzione della dieta.
La condizione pre-diabetica può verificarsi in quei soggetti in cui ancora non è stato diagnosticato
diabete di tipo 1 o di tipo 2.
Nel diabete di tipo 2, in particolare, vi è un deficit nella prima fase di secrezione dell’insulina,
quindi succede che, dopo il pasto, in mancanza della risposta iniziale dell’insulina, ho una
condizione di iperglicemia che causa un’ ulteriore stimolazione delle cellule beta del pancreas
che daranno una iperinsulinemia tardiva, a distanza di circa 6 ore dal pasto, con ulteriore
abbassamento della glicemia.
FARMACI
Vi sono soggetti che possono autoindursi l’ipoglicemia con iniezione di insulina, ma perché?
Spesso succede a scopo autoillustrativo, o per problemi psicologici e in questo caso la diagnosi è
difficile perché il soggetto nega di aver utilizzato insulina.
Al contrario, qualora il soggetto utilizzi sulfaniluree, la diagnosi è più semplice poiché i metaboliti
vengono ritrovati nelle urine.
ALCOL
Può indurre ipoglicemia in quanto inibisce la secrezione degli ormoni controregolatori e inibisce la
gluconeogenesi soprattutto nei soggetti malnutriti o a digiuno.
Se un soggetto ha scorte di glicogeno, l’alcol non ha effetto, ma in condizioni di digiuno può essere
molto pericoloso in quanto dà ipoglicemia, anche grave.
INSUFFICIENZE D’ORGANO
Ricordiamo che il fegato è l’organo principale che rilascia glucosio in circolo mediante
gluconeogenesi, ma anche il rene, con una quota del 20%, è adibito al rilascio di glucosio e ha
pertanto un’importante funzione nel mantenimento della glicemia.
DEFICIT ORMONALI
Si tratta di disfunzioni ormonali date da patologie che coinvolgono la secrezione degli ormoni
controregolatori, ad esempio la malattia di Addison che provoca un ipocortisolismo.
Nel deficit del glucagone, però, l’approccio è particolare: nei pazienti con diabete di tipo 1, dopo
uno o due anni di malattia, si osserva un iniziale deficit che tende a peggiorare con gli anni.
Quindi i pazienti con diabete di tipo 1 sono a rischio di ipoglicemia non solo perché fanno uso
di insulina, ma anche perché hanno questo malfunzionamento del glucagone.
N.B.La distinzione a digiuno-postprandiale è valida fino a un certo punto, infatti bisogna tenere
conto che ci sono delle eccezioni, ad esempio l’insulinoma, che può dare ipoglicemia in entrambi i
casi.
ALTRE CLASSIFICAZIONI:
E’ una classificazione che mette a confronto due categorie di soggetti:
Persone affette da malattie concomitanti e persone che godono apparentemente di buona salute.
Vi sono delle condizioni che favoriscono l’ipoglicemia quando si utilizzano questi farmaci, ad
esempio l’età avanzata, l’insufficienza renale, un ridotto entroito calorico, processi infettivi,
neoplasie ecc ecc… in condizioni come queste, questi tipi di farmaci non dovrebbero essere
utilizzati.
Tra i farmaci vi possono essere anche antibiotici che favoriscono l’ipoglicemia, qualora vengano
associati alle sulfaniluree sopra citate, inoltre anche i betabloccanti e gli ACE-inibitori possono
determinare una condizione di ipoglicemia andando a sensibilizzare i tessuti all’insulina.
Parlando circa i tumori, questi non solo possono determinare ipoglicemia, dato il grosso utilizzo di
glucosio, ma vi sono diverse neoplasie in grado di produrre IGF 2 (fattore di crescita insulino-
simile)
Questi composti hanno un’affinità di struttura con l’insulina e possono andare a interagire con il
recettore dell’insulina in diversi tessuti.
Per permettere una interazione IGF2-RECETTORE INSULINA abbiamo bisogno di elevate
concentrazioni di questi composti ma succede che alcune neoplasie producono dei composti
contenuti IGF2 atipici, che vanno a interagire in maniera più specifica e diretta con il recettore
dell’insulina.
Concentrandoci sui farmaci, dobbiamo porre attenzione al Metimazolo che è un farmaco che viene
utilizzato nell’ipertiroidismo, per esempio nella Malattia di Basedow. La particolarità di questo
farmaco è può dare luogo ad anticorpi anti insulina.
La formazione di anticorpi anti.insulina può essere correlata anche all’utilizzo di acido lipoico,
utilizzato attualmente come integratore.
Generalmente, nel tempo, l’ipoglicemia tende a migliorare, ma è necessaria una terapia che molto
spesso può essere immunosoppressiva, steroidea, oppure si può agire mediante l’eliminazione fisica
di anticorpi.
Gli anticorpi anti insulina si legano all’insulina, mascherandola e impendendo la sua iniziale
risposta. Dopo il pasto si avrà dunque una condizione di iperglicemia. Dopodiché il sistema
anticorpo-ligando si scinde e l’insulina può esplicare la sua funzione cosi si avrà una ipoglicemia
dopo circa 3-4 ore dal pasto.
Riferendoci alla slide sovrastante, vi sono delle condizioni in cui possono crearsi degli anticorpi che
vanno ad agire direttamente sul recettore dell’insulina stimolandolo continuamente con una over
secrezione di quest’ultima che darà quindi una condizione di ipoglicemia.
DIAGNOSI
Viene utilizzata la Triade di Whipple, che ritrovate in tutti i testi:
1. Sintomi e /o segni clinici dell’ipoglicemia
2. Glicemia ridotta
3. Risoluzione dei sintomi o dei segni clinici dopo ripristino della normoglicemia
Essa è molto valida ma dobbiamo tenere conto che vi sono le dovute eccezioni:
Ad esempio, nei soggetti con ipoglicemia inavvertita, i sintomi sono assenti anche per valori di
glicemia molto bassi.
Per quanto riguarda le pratiche di laboratorio, la diagnosi si basa sulla misurazione della
concentrazione dell’insulina, del peptide C e della glicemia.
L’insulina e il peptide C vengono secreti in maniera equimolare dal pancreas, cioè alla stessa
concentrazione, ma, a livello epatico, l’insulina viene poi catabolizzata per circa il 50%, quindi a
livello periferico in corrispondenza della vena epatica si registra un valore di insulinemia più basso
rispetto a quello che si registra a livello portale.
Il peptide C non subisce questo tipo di degradazione, pertanto le concentrazioni, a livello portale e
delle vene epatiche, sono le stesse.
TEST AL DIGIUNO
Esso si basa sul presupposto che, se manteniamo un soggetto a digiuno, la glicemia tendenzialmente
tende ad abbassarsi ma lo fa di poco, rimanendo comunque entro dei livelli vicini alla norma (circa
70 mg/dL). Ciò che invece si abbassa in maniera importante sono i livelli di insulinemia e del
peptide C.
Quindi un soggetto normale in condizioni di digiuno deve dimostrare di avere una determinata
concentrazione di insulina e peptide C nell’ambito di determinanti range, con una glicemia che
rimane nell’ambito di un intervallo normale, quindi non si deve verificare ipoglicemia.
Si effettuano dei prelievi seriati, con un intervallo di circa due-tre ore e si controllano le varie
concentrazioni, dopopdichè, quando il paziente raggiunge dei valori di glicemia sotto i 50mg/dL e
manifesta i sintomi dell’ipoglicemia, il test viene sospeso.
Generalmente, l’80% dei soggetti che hanno una ipoglicemia organica, data per esempio da un
insulinoma, finiscono il test piuttosto presto, entro le prime 24 ore, alcuni addirittura devono
sospendere il test anche dopo 4 ore.
Nella slide sovrastante ritroviamo i criteri per diagnosticare una condizione di iperinsulinismo
organico:
Glicemia: <50mg/dL
Insulinemia: >3uU/ml
Peptide C: >0,6 ng/ml
Questo nella slide sovrastante, invece, è un esempio di test al digiuno condotto in un soggetto che
non manifestava sintomi di ipoglicemia e che quindi era adattato a questa condizione.
Si possono osservare i vari dati e le loro concentrazioni monitorate nei vari intervalli di tempo
durante i quali il test viene condotto.
Si può dedurre che la diagnosi di iperinsulinemia è biochimica, sulla base del test a digiuno.
INSULINOMI
Gli insulinomi sono neoplasie benigne poco comuni ma che sono la causa principale di
iperinsulinismo endogeno.
Attualmente si registrano circa 3-4 casi su un milione di abitanti.
Queste neoplasie sono per lo più localizzate a livello del pancreas e più raramente a livello
duodenale.
Si presentano come formazioni con dimensioni di circa 2 cm e raramente sono maligni, quindi non
metastatizzano.
Un aspetto molto importante, che si riscontra in quasi tutte le neoplasie endocrine, è che il tessuto
circostante è ipoplasico, ciò significa che, mentre l’insulina è un nodulo che produce insulina
autonomamente, il tessuto circostante tende ad essere ipoplasico e quindi ipofunzionante per un
atteggiamento di feedback negativo. Mentre l’insulinoma ha una secrezione autonoma, le cellule
circostanti sono in grado di regolare la secrezione di insulina in base alla concentrazione media
dell’ormone: se questa è aumentata le cellule ridurranno la secrezione.
Questo vuol dire che, quando il nodulo verrà eliminato mediante esportazione chirurgica, il tessuto
circostante avrà bisogno di qualche giorno per riadattarsi e ripristinare la sua attività.
PANORAMICA SULLA DIAGNOSI
Utilizzo di insulina
Volendo riassumere la diagnosi ipoglicemia a digiuno, se il soggetto ha utilizzato insulina e si è
autoindotto l’ipoglicemia, l’insulina esogena andrà ad esercitare un effetto a feedback negativo nei
confronti dell’insulina endogena, dunque riscontreremo una soppressione del peptide C.
In questo caso non si registrerà la presenza. Di anticorpi anti insulina, né metaboliti delle
sulafniluree
Insulinoma
Nel caso dell’insulina avremo un aumento dell’insulina ma anche del peptide C
Utilizzo di Sulfaniluree
Nella diagnosi si riscontra un aumento dell’insulina, del peptide C e avremo la presenza di
metaboliti a livello delle urine.
Anticorpi anti-insulina
Nel caso degli anticorpi anti insulina avremo una maggior concentrazione di insulina e di peptide C
e avremo la presenza di anticorpi che si possono misurare.
Quindi, qualora vi sia il sospetto di ipoglicemia, tra le varie indagini bisogna anche ricercare la
presenza di anticorpi.
DIAGNOSI STRUMENTALE
Le metodiche sopra riportate vengono messe in pratica nella ricerca di insulinomi, la quale risulta
molto spesso difficile.
Vi sono una serie di indagini, a partire da quelle meno invasive come l’ecografia addominale.
Quest’ultima infatti è quella che viene eseguita all’inizio dell’iter diagnostico perché risulta poco
invasiva ma nonostante ciò ha una sensibilità bassa.
La scintigrafia risulta poco utile come metodica d’indagine poiché l’insulinoma non presenta
recettori per la somatostatina.
L’ecografia endoscopica risulta invece molto utile e viene seguita nell’ambito dell’esame
gastroscopico; è molto utile perché riesce a mettere in evidenza noduli presenti nella testa e nel
corpo del pancreas.
Un altro test decisamente molto utile e moderatamente invasivo è l’arteriografia associata a
stimolazione con calcio e cateterismo della vena epatica.
Una delle ipotesi è che probabilmente non si tratta di un vero e proprio insulinoma ma si tratta di
una iperplasia o nesidioblastosi.
L’altra possibilità è che in realtà l’insulinoma c’è ma sfugge alle varie pratiche diagnostiche.
In questo caso l’arteriografia con la stimolazione al calcio risulta molto valida in quanto il tessuto
iperplastico o adenomatoso è molto sensibile al calcio, il quale provoca un aumento della secrezione
di insulina.
N.B. L’arteriografia con stimolazione al calcio funziona solo per il tessuto iperplastico e
adenomatoso e non per il tessuto normale. Questo test si basa sul fatto che il pancreas ha una
vascolarizzazione regionalizzata: ad esempio in processo uncinato è irrorato prevalentemente
dall’arteria mesenterica superiore, la testa del pancreas è irrorata dalla arteria gastro-duodenale
mentre corpo e coda del pancreas sono irrorati dall’arteria splenica.
Quindi se noi siamo in grado di stimolare selettivamente queste diverse arterie col calcio e poi
effettuato dei prelievi reflui dal distretto venoso, possiamo individuare le aree dove possa
essere presente l’adenoma o la zona iperplasica.
Il procedimento è un po’ invasivo perché dovremmo effettuare un doppio cateterismo.
CASO CLINICO
Questo è un caso clinico un po’ particolare a detta del professore, il Quale sottolinea come la
diagnosi sia stata effettuata dopo 3 anni dalla comparsa dei sintomi.
Nel test a digiuno si evidenziano elevati livelli di insulina anche dopo quasi 24 ore in cui
quest’ultima avrebbe dovuto avere una concentrazione nulla.
Il professore mostra in queste slide tutto l’iter clinico del paziente: test al digiuno, tac addominale,
intervento ed esame istologico estemporaneo.
In questo ultimo è importante il risultato in cui non viene diagnosticato un insulinoma ma un
glucagonoma non funzionante.
Questo soggetto, successivamente è stato sottoposto ad un’arteriografia con stimolazione al calcio,
test in cui la stimolazione dell’arteria splenica ha dato una notevole risposta di secrezione
insulinica, quindi in realtà questo soggetto aveva una iperplasia a livello del coda del pancreas.
TERAPIA
Il trattamento dell’insulina vede come terapia principale l’esportazione del nodulo.
Qualora l’intervento non venga effettuato subito, vi è una terapia che si somministra in fase di
preparazione all ‘intervento con Diazossido, un farmaco che viene utilizzato per via venosa nelle
crisi ipertensive, mentre per via orale inibisce la secrezione di insulina, quindi con un meccanismo
opposto rispetto alle sulfaniluree. L’enucleazione dell’adenoma è la forma auspicabile, qualora non
sia possibile si procede con la resezione.
CONDIZIONE POST-PRANDIALE
Quella riportata nella slide che segue è una situazione che si verifica a livello intestinale dopo
chirurgia bariatrica.
In questo tipo di intervento che è il bypass gastrico, si va a formare una piccola tasca a livello
gastrico dove viene posizionata l’ansa digiunale e vengono esclusi gran parte del corpo dello
stomaco e il duodeno.
Il contenuto a livello gastrico è notevolmente ridotto, perciò i soggetti sottoposti a questo tipo di
intervento si saziano subito.
Il fatto che gli alimenti passano più rapidamente a livello intestinale, fa sì che venga stimolato il
rilascio di ormoni a questo livello che sono il GIP e il GLP1, ormoni che sono in grado di
promuovere la secrezione di insulina.
Più ricco è il pasto in termini di carboidrati, maggiore è la secrezione di GIP e GLP1, maggiore è
l’effetto a livello delle cellule beta con una iperinsulinemia che dà un esito di ipoglicemia ad alcune
ore dal pasto.
Nell’ambito di questa condizione è importante fare diagnosi differenziale perché i soggetti che
vengono sottoposti a intervento di bypass gastrico possono sviluppare la cosiddetta dumping
syndrome, una condizione in cui l’arrivo del cibo innesca una risposta simpatica adrenergica che si
manifesta con sintomi come sudorazione e tremore ma senza ipoglicemia.
DIABETE
Ci sono degli organi insulino-indipendenti, altri invece che richiedono l’azione insulinica per
metabolizzare glucosio (muscolo, tessuto adiposo).
Quando l’insulina a livello di questi tessuti non funziona bene ( insulino-resistenza) allora parte del
glucosio non verrà utilizzato e resterà nel sangue, aumentando la glicemia.
• Mobilitazione
- Se la produzione epatica di glucosio è in eccesso, per esempio quando manca l’insulina o quando
non funziona bene, la glicemia si alza come nel diabete mellito.
- Se la produzione epatica si riduce perché c’è eccesso di insulina si tende ad avere una ipoglicemia.
L’ipoglicemia è condizione meno comune se non nei pazienti che fanno farmaci ipoglicemizzanti o
nei soggetti che hanno patologie particolari (insulinoma)
Diabete: malattia non trasmissibile cronica alla pari di altre patologie come la patologia
cardiovascolare, patologia respiratoria cronica, patologia oncologica. Queste hanno in comune i
fattori di rischio alcuni non modificabili(età, sesso, razza) , altri modificabili (obesità, sovrappeso,
inattività fisica, fumo di sigaretta, ipertensione, ecc...)
Nel 1980 l’Italia occupava il 9° posizione con 2000400 diabetici , in cima c’era la Cina, l’India , gli
stati Uniti,Russia.
Nel 2014 l’Italia è passata alla 16° posizione con
4000300 diabetici , in termini assoluti il numero
dei pazienti è aumentato, anche se in questi anni
altre nazioni (Indonesia , Pakistan,Messico ) sono
avanzati in graduatoria.
IGT: intolleranza ai carboidrati. Persone che hanno disturbo del metabolismo glucidico, non hanno
ancora il diabete ma lo svilupperanno (condizione di pre-diabete)-> 4-6%
-Dati per fasce d’età: la maggior parte dei pazienti diabetici sono le persone anziane >65 anni.
meno frequente in età giovanile , quel tipo di diabete sarebbe eventualmente diabete tipo 1.
-Distribuzione in Italia per quanto riguarda le aree geografiche c’è differenza fra regione e
regione, fra nord e sud, con aumento di prevalenza scendendo al sud
Dato di incidenza: 9 casi per anno, 10-12 % per diabete tipo1( in Sardegna i casi sono molti di più)
CRITERI DIAGNOSTICI
-Sintomi: calo ponderale nei mesi precedenti, poliuria(esigenza di urinare spesso), polidipsia(sete).
L’acuità della presentazione può variare nei soggetti con diabete di tipo 1 o con diabete di tipo 2 .
I paziente hanno glicemia elevata per molti mesi, nei diabetici tipo 2 anche per anni e si aggiungono
questi sintomi.
Il paziente può aver una glicemia più bassa di 126mg/dl ma più alta di 100mg/dl(intervallo
superiore massimo, quindi la glicemia non dovrebbe superare questo valore), quindi siamo in una
condizione di pre diabete, per esempio un’intolleranza ai carboidrati.
-Carico orale di glucosio(OGTT- Oral Glucose Tollerance Test) si fanno assumere al soggetto 75
mg di glucosio e alla 2° ora si misura la glicemia e si confronta con la basale, se la glicemia dopo
2h è > 140mg/dl allora si fa diagnosi di diabete.
-HbA1c (emoglobina glicata) normalmente si utilizza per seguire il controllo glicemico. L’Hb che
si lega alla quantità di zucchero nel sangue, maggiore è lo zucchero presente maggiore sarà questo
parametro. HbA1c> 6,5% permette di fare diagnosi di diabete. Può essere complementare alla
determinazione della glicemia venosa.
#Questo può essere utile quando, per esempio, abbiamo un paziente che si ricovera in chirurgia o in
cardiologia che, sottoposto ad accertamenti, mostra una glicemia elevata (170mg/dl); quel soggetto
ha un diabete oppure no? In realtà in queste condizioni la glicemia tende ad alzarsi a causa dello
stress, quindi i valori tornano normali dopo la fase acuta. Se allora vogliamo avere una valutazione
più precisa per quella glicemia misuriamo l’emoglobina glicata, se questa è > 6,5% allora quel
paziente ha un diabete, se invece è normale allora la glicemia alta potrebbe essere da stress oppure
un iniziale diabete che ancora non ha impattato sul valore dell’HbA1c .
>200mg/dl: diabete
Quando si parla di prediabete si includono queste due condizioni l’alterata glicemia a digiuno o
l’intolleranza ai carboidrati e queste vanno identificate con il carico orale di glucosio.
(Es. Se un paziente ha una glicemia a digiuno di 174mg/dl sarà diabetico. Se ha una glicemia di
110mg/dl è condizione di prediabete, quindi si fa la curva di carico di glucosio perché potrebbe
avere già un diabete oppure una ridotta tolleranza al glucosio, che comunque è una condizione
predisponente al diabete.)
Questo ci mostra come queste persone che hanno una IGT, un’intolleranza ai carboidrati oppure una
glicemia a digiuno alterata, hanno rischio aumentato di sviluppare diabete.(per i pazienti che hanno
intolleranza ai carboidrati di 20 volte maggiore)
Raccomandazioni per individuare quelle persone che sono a maggior rischio di diabete:
persone obese, popolazioni con particolari etnie (asiatici, americani), persone che hanno già un
quadro di intolleranza ai carboidrati, parenti di persone che hanno diabete, donne che hanno avuto
diabete in gravidanza, donne con ovaio policistico(condizione di insulino-resistenza), inattività
fisica, età.
-Popolazione italiana 60000000; 3700000 persone :diabete noto; 1500000 persone :diabete non
noto
Immigrati con diabete con caratteristiche diverse: diabete in età un po’ più anticipata rispetto a
quella italiana. Una percentuale di diabete tipo 1 maggiore.
CLASSIFICAZIONE
-Diabete tipo 1 :Progressiva distruzione delle β cellule, quindi mancherà la produzione di insulina.
Abbiamo il tipo autoimmune (1A)che è il più comune, e il tipo idiopatico (1B), di cui non si
conosce bene la causa che si trova soprattutto negli immigrati in particolare nelle persone di colore
e che si caratterizza in genere per un minor rischio di chetoacidosi e per un recupero più rapido
della funzione pancreatica dopo l’evento acuto.
LADA
Quado facciamo una diagnosi di diabete di tipo 2 anche nelle persone che
non sono obese o in sovrappeso, non sempre andiamo a ricercare gli
anticorpi, ma se questo viene fatto in maniera sistematica 5% delle
persone che noi etichettiamo come diabete di tipo 2 sono invece LADA.
- Diabete gestazionale
Nel Diabete di tipo 2 è importante la predisposizione , fattori genetici e ambientali( ridotta attività
fisica, obesità), si instaura una condizione di insulino-resistenza, di iperglicemia e glucotossicità e
lipotossicità( alterazione del metabolismo lipidico). Questo comporta una ridotta azione insulinica a
livello di questi tessuti, per esempio pazienti che hanno scompenso glicemico, hanno bisogno di
molte unità di insulina per riportare la glicemia a valori normali, ma, mano a mano che il controllo
migliora, i tessuti recuperano sensibilità, questo fenomeno è noto come glucotossicità. Si elimina
abbassando gradualmente la glicemia dando modo nel tempo ai tessuti di recuperare sensibilità.
Insulino-resistenza: è quella condizione in cui la risposta all’insulina è ridotta e questo significa che
i pazienti vanno trattati con dosi incrementali di insulina per ottenere effetto metabolico.
Nel soggetto con diabete di tipo 2 la βcellula cerca di superare l’insulino-resistenza aumentando la
secrezione di insulina. Quindi i soggetti sono anche iperinsulinemici in senso assoluto ma quei
livelli di insulina non sono sufficienti per abbattere e superare l’insulino-resistenza che, invece, va
ridotta o farmacologicamente oppure mettendo in atto quelle strategie che possono ridurre il peso.
Diabete 1:manca insulina, sintomatologia acuta (chetoacidosi), età giovanile, terapia insulinica
Sintomi
Si perde peso perché comincia a mancare l’insulina che è un ormone anabolizzante, allora i
metabolismi vanno incontro a catabolismo, si perde zucchero con le urine, c’è poliuria proprio
perché c’è glicosuria. Perdono allora molte energie e l’organismo fa riferimento ad altri
metabolismi per esempio alla gluconeogenesi, quindi aumenterà la degradazione delle proteine, dei
lipidi, il rischio poi è la chetoacidosi.
1-Complicanze Croniche: sono legate all’iperglicemia che nel tempo può favorire danni ad alcuni
organi, danni per esempio vascolari.
2-Complicanze Acute: chetoacidosi, sindrome iperosmolare, acidosi lattica( per uso di farmaci
come la metformina nel diabete tipo 2)
La mortalità nel diabete mellito è dovuta principalmente a malattie cardiovascolari ,circa il 50%
delle persone che hanno diabete vanno incontro ad un evento cardiovascolare. In questi pazienti si
sviluppa un aterosclerosi accelerata.
Macroangiopatia si manifesta anche in pazienti che non hanno diabete ma in questi pazienti
l’evoluzione è più rapida e contribuisce anche alla diagnosi; magari un ictus, un infarto ci fanno fare
poi diagnosi di diabete. Si possono riscontrare anche complicanze microvascolari (retinopatia,
vasculopia benigna.)
Queste condizioni hanno un impatto maggiore sula mortalità soprattutto nelle persone più anziane
e, se si interviene precocemente, si è in grado di ridurre di molto il manifestarsi di queste
complicazioni. Molto importante la prevenzione, la diagnosi precoce, un intervento precoce di
terapia.
Siamo abituati a sentire che il paziente con diabete è un paziente a rischio di patologia ischemica
alla pari di un paziente che non ha il diabete ma che abbia avuto un infarto del miocardio
precedentemente.
I pazienti che hanno avuto un infarto e che hanno il diabete sono quelli che hanno la peggior
prognosi.
Sbobina 19/03/2019 2° ora Mariapia Carafa rev:Eleonora Defendi
COMPLICANZE
La condizione di chetoacidosi è
caratterizzata da:
Iperglicemia
2. si ha riduzione del pH plasmatico che può essere moderata o grave a pH<7, valore per cui il
soggetto potrebbe avere aritmia cardiaca, arresto cardiaco;
3. i corpi chetonici vanno incontro ad aumento (analogamente alla glicemia, posso
quantificare i corpi chetonici nel sangue);
6. in relazione al grado di acidosi il soggetto può trovarsi in uno stato vigile o comatoso;
L’incidenza è di 4.6-8 episodi/1000 pazienti diabetici/anno. Per molti soggetti il quadro della
chetoacidosi è quello di insorgenza, ma ci sono casi in cui si determina condizione di acidosi in
soggetti ai quali era già stato diagnosticato il diabete; questi quindi vanno incontro a chetoacidosi
(non hanno adeguato controllo glicemico).
Nonostante una migliore possibilità di seguire i pazienti diabetici nel decorso della loro malattia, c’è
stata un’incidenza del 35% di episodi dal 1996 al 2006. La maggior parte dei pazienti (due terzi)
con DKA hanno diabete di tipo 1, ma si potrebbe presentare in misura minore (34%) nei pazienti
con diabete di tipo 2. Nella terapia al diabete di tipo 2 ci sono farmaci che favoriscono l’escrezione
di urina e aumentano la glicosuria, quindi abbassano la glicemia. Tali farmaci potrebbero aumentare
l’incidenza di chetoacidosi nel diabete di tipo 2.
È possibile associare alla chetoacidosi una condizione di mortalità (principale causa di mortalità in
bambini ed adolescenti con diabete di tipo 1).
È caratterizzata da:
iperosmolarità
disidratazione
assenza di acidosi
Colpisce principalmente i soggetti anziani, ad esempio coloro che fanno terapia diuretica
incrementando la condizione di disidratazione, non controbilanciata da adatta introduzione di
liquidi (gli anziani bevono poco). Questi pazienti potrebbero sviluppare in seguito un’insufficienza
renale acuta.
Rispetto alla condizione di chetoacidosi, questi casi sono maggiormente comuni e presentano
un’incidenza di 10-17 casi/anno/100000 abitanti.
PATOGENESI
Questo grafico mette a confronto la condizioni di chetoacidosi con quella di sindrome iperglicemica
iperosmolare, maggiormente presenti rispettivamente nel diabete di tipo 1 e nel diabete di tipo 2. La
secrezione di insulina è assente nel diabete di tipo 1 ed è scarsamente presente in quello di tipo 2
(anche se presenta insulino-resistenza, vi è una quota basale di insulina).
La presenza di insulina è la base per la differenza dei corpi chetonici: basse concentrazioni di
insulina sono in grado di sopprimere la lipolisi, prevenire la formazione di acidi grassi e di processi
ad essi correlati come la β-ossidazione, la chetogenesi,.. . Per questo motivo nei soggetti con diabete
di tipo 2 che presentano una minima quantità di insulina non ci sono corpi chetonici.
Nel diabete di tipo 1, mancando l’insulina, aumenta la glicemia e la lipolisi. Si ha chetogenesi con
formazione di corpi chetonici: acetone, acetoacetato e β-idrossibutirrato. L’acetone viene eliminato
con il respiro, mentre gli altri due non vengono espulsi ma contribuiscono ad abbassare il pH del
sangue, incrementando il grado di acidosi. Quindi sia l’aumento dei corpi chetonici che
l’abbassamento dei bicarbonati rendono il sangue acido. Tutto è correlato alla durata di assenza di
insulina, che determinerà un maggiore quadro di acidosi e una minore possibilità terapeutica.
Il soggetto sarà glicosurico, disidratato, a rischio di insufficienza renale acuta, con alterata pressione
sistemica e aumento dell’omolarità.
Tra le cause ricorre l’omissione della terapia: il soggetto riduce o interrompe in modo autonomo la
terapia, anche per alterazioni psicologiche. Nei giovani, infatti, in situazioni di ipoglicemia o
iperglicemia potrebbe verificarsi un disturbo del comportamento.
I fluidi totali al livello del compartimento intra ed extracellulare sono distribuiti in maniera
differente, con una maggiore presenza a livello intracellulare. Dal punto di vista osmotico, gli
osmoli effettivi sono sodio, glucosio, mannitolo (meno importante), mentre molecole come l’azoto
sono meno incidenti. L’osmolarità può essere infatti calcolata a partire dalla concentrazione di
questi elementi.
Questo è un aspetto fondamentale perché nella terapia, prima della somministrazione di insulina,
bisogna dare acqua. Inoltre, lo stato di vigilanza del soggetto è in relazione al grado di osmolarità:
maggiore è l’osmolarità, più basso è il pH, maggiore è la compromissione dello stato dell’individuo,
con risentimento cerebrale e rischio di coma.
Nel plasma, le cariche positive del sodio (Na⁺) e del potassio (K⁺), sono bilanciate da cloro (Cl⁻) e
bicarbonati (HCO₃⁻). La differenza tra i cationi e gli anioni si definisce “Anion Gap”. La
chetoacidosi è caratterizzata da un aumento dell’Anion Gap (è fattore diagnostico).
ES: emogasanalisi di un paziente ricoverata dove si legge un pH acido pari a 6.87, livelli di CO₂
pari a 9.1 (con il respiro di Kusmaul viene eliminata la CO₂, quindi si ha una condizione di
Il corpo chetonico che bisogna considerare è β-idrossibutirrato, utile per descrivere la risposta alla
terapia: il β-idrossibutirrato tende a ridursi per effetto della terapia, mentre l’Acetoacetato rimane
stabile (non fornisce un’indicazione precisa dell’evoluzione del diabete). È possibile, perciò,
misurare sia la glicemia capillare che i chetoni (l’Acetoacetato viene misurato nelle urine, mentre il
β-idrossibutirrato nel sangue). Se il paziente presenta febbre, infezione, glicemia alta deve misurare
i corpi chetonici attraverso degli stick.
Una condizione di chetoacidosi euglicemica si presenta con valori di glicemia non elevati (<250
mg/dl), quindi anche valori glicemici non eccessivamente elevati possono essere causa di
chetoacidosi.
TERAPIA
I pazienti sono disidratati perciò è necessario intervenire cercando di ripristinare il volume
plasmatico
Identificare e trattare gli eventi che hanno posto le basi per la chetoacidosi
All’inizio bisogna infondere una quantità abbondante di liquidi, variabile da paziente a paziente
(nell’anziano cardiopatico si usano infusioni minori che possono gradualmente variare).
Che liquidi si infondono? La soluzione maggiormente utilizzata è la soluzione salina 0.9%. Se il
soggetto presenta un valore di sodemia particolarmente alto si può intervenire con una soluzione
ipotonica o ricorrendo al sondino naso-gastrico.
L’avvio dell’idratazione nella terapia determina una riduzione della glicemia del 15-20%.
L’obiettivo della terapia insulinica è quello di sopprimere la chetogenesi e questo avviene in due
modi differenti:
1. Si somministra bolo insulinico (0.1 U/Kg)→ in una persona che pesa 70 kg si
somministrano 7 di bolo
Questi due approcci non presentano differenze sostanziali, se non il fatto che l’infusione continua
potrebbe minimizzare alterazioni elettrolitiche.
La distribuzione di insulina a livello tissutale e lo svolgimento delle sue funzioni è adeguata solo se
il paziente è stato precedentemente sottoposto ad idratazione.
Le somministrazioni variano caso per caso: nella sindrome iperosmolare si cerca un calo di
glicemia piuttosto lento per evitare sbalzi di glicemia e quindi causare edemi cerebrali.
L’insulina viene infusa per via venosa e generalmente si somministra insulina regolare (insulina
umana), anche se oggi si potrebbe ricorrere anche ad analoghi di insulina.
Per valori di potassemia bassi (<3.3 mEq/l), bisogna iniziare subito l’infusione di potassio e
tardare la somministrazione di insulina (determina comunque ipopotassemia, ponendo il
soggetto a rischio di aritmie cardiache soprattutto nel complesso di acidosi).
In ordine si procede quindi con: idratazione, controllo di elettroliti (se non sono presenti nelle giuste
concentrazioni vanno reintegrati), terapia insulinica (dopo circa 1h), uso di bicarbonato.
I bicarbonati in condizione di acidosi tendono ad abbassarsi. Le raccomandazioni indicano una
somministrazione di bicarbonato solo nel caso in cui il pH è inferiore a 7/6.9 (al di sopra di 7.1 non
viene dato). Le quantità somministrate non sono elevate perché potrebbe verificarsi una condizione
di alcalosi che potrebbe indurre danni a livello cerebrale. I livelli di bicarbonato desiderati sono 15
mg.
Oggi vediamo qualcosa in dettaglio: ci occuperemo della fisiologia del differenziamento sessuale e
dei disordini del differenziamento sessuale, come alterazioni che portano a conseguenze
patologiche.
Faremo una fisiologia rapida, poi alcune patologie.
È una cosa nuova, perciò per voi potrebbe essere l’unica occasione per approfondire questioni che
nella vostra vita professionale avranno un impatto terrificante.
DIFFERENZIAMENTO SESSUALE
Questa diapositiva ci mostra quello che è la vita embrionale e fetale in relazione agli eventi che ci
portano al suo stato sessuale.
La gonade incomincia a formarsi a livello della 4° settimana, a partire dal mesoderma, il quelle che
chiamiamo creste genitali, dove si vengono a formare diversi abbozzi:
- pronefro: origine della ghiandola surrenale
- mesonefro: origine della gonade bipotente
- metanefro: darà origine ai reni
In questa gonade primitiva, in 4 o 5 settimane ci
sarà una migrazione delle cellule germinali.
Da dove vengono le cellule germinali? Dal sacco
vitellino, in prossimità dell’allantoide, poi migrano
fino a localizzarsi nel mesonefro, la gonade in
formazione.
Cosa definisce poi il destino di questa gonade bipotenziale? La differenziazione sessuale è un
processo complicato, che perciò ha diversi punti di controllo nella formazione della gonade:
- il primo momento di controllo è quello del sesso cromosomico: i maschi
hanno un cariotipo 46 XY, mentre le femmine 46 XX, che giocherà un
ruolo determinante. Ma non sempre c’è corrispondenza tra il sesso
cromosomico e il sesso gonadico, perché ci possono essere delle
interferenze che intervengono sul sesso gonadico.
- Il secondo momento di controllo è quello del sesso gonadico: il sesso
gonadico è determinato dal tipo di gonade che si viene a sviluppare e che
avrà un impatto sull’apparato genitale. Ma anche qui c’è possibilità di
interferenza nel passaggio tra gonade e fenotipo che si manifesta
- Sesso fenotipico, generalmente legato al sesso gonadico, che a sua volta deriva dal sesso
cromosomico, ma che per interferenze può essere differente, a fronte di un sesso gonadico di
un certo tipo.
Il sesso gonadico è determinato dall’espressione di diversi fattori, che inviano lo sviluppo verso una
direzione o l’altra.
Il più importante gene è l’SRY, nel cromosoma Y, che se espresso, favorisce l’over espressione di
SOX9, che determina la produzione di una proteina importante, e in presenza di SOX9 e di altri
fattori di trascrizione che vengono attivati, il destino della gonade bipotente è quello di diventare
testicolo.
Se SOX9 invece è spento, perché SRY e anche altri fattori non sono espressi, o in una situazione di
spegnimento di SOX9 con altri meccanismi, abbiamo il differenziamento nella gonade femminile
(ovaio). Ci sono una serie di network che garantiscono questa differenziazione femminile, perché
spengono SOX9.
Quindi a livello testicolare abbiamo questa via biosintetica che produce diidro-testosterone, che in
realtà può essere prodotto in piccole quantità anche a livello della gonade femminile, anche
dall’androsterone, da cui deriva il testosterone o l’estrone, che possono entrambi dar vita poi
all’estradiolo (o 17β-estradiolo).
Le CELLULE DE SERTOLI producono il fattore antimulleriano, che lega sulle cellule dei
dotti di Muller un recettore proprio e questo induce una loro regressione nel maschio.
Perciò a partire dalla gonade indifferenziata, a seconda degli stimoli prodotti dalla gonade, abbiamo
la differenziazione femminile o maschile:
- se non intervengono ormoni, il dotto di Wolff
regredisce spontaneamente, mentre il dotto di
Muller si sviluppa con formazione delle tube
di Falloppio, le salpingi, l’utero e il terzo
superiore della vagina.
- Se invece c’è l’effetto ormonale della gonade,
il dotto di Muller regredisce e il dotto di
Wolff sopravvive, andando a stimolare lo
sviluppo della componente interna
dell’apparato genitale maschile in deferente,
epididimo, vescichette seminali. Questi
stimoli in parte contribuiscono anche allo
sviluppo prostatico.
Praticamente I GENITALI ESTERNI DERIVANO DAL SENO URO-GENITALE,
eventualmente dal tubercolo mulleriano, nello stadio indifferenziato, ma:
- nel maschio, in presenza del diidrotestosterone, avremo una differenziazione del seno uro-
genitale a formare l’uretra e il pene, avremo poi la regressione dei dotti di Muller e si
formerà la prostata col suo utricolo e i suoi lobi prostatici nel maschio.
- nella femmina invece, la mancanza di
diidrotestosterone, comporterà la regressione
dei dotti di Wolff, la trasformazione dei dotti
di Muller nel terzo superiore della vagina e
nell’utero e avremo uno spontaneo sviluppo
del seno uro-genitale per formare i 2/3
restanti della vagina e la parte esterna
dell’apparato genitale femminile.
Possiamo vedere ancora meglio qui che dal seno
uro-genitale si forma questo tubercolo genitale,
questa fessura uro-genitale, queste pieghe uro-
genitali, pieghe labio-scrotali, e a seconda della
presenza di testosterone avremo un
differenziamento verso il maschio, oppure in default
verso l’apparato genitale esterno femminile.
Il TESTOSTERONE è importante durante la vita embrionale e fetale, vediamo infatti che i livelli
di testosterone durante la gravidanza (nel periodo
embrionale-fetale) sono simili a quelli dell’adulto.
In fase neonatale poi c’è ancora un picco di
testosterone per completare lo sviluppo genitale
maschile, poi il sistema si spegne fino alla
pubertà.
Nella pubertà il sistema si riaccende, per il
differenziamento e maturazione sessuale maschile,
associato all’innesto della spermatogenesi, che si
mantiene per tutta la vita, attraverso il
mantenimento dei livelli di testosterone.
LH è una molecola molto simile al FSH, agisce sui recettori di membrana che hanno 7 domini
trans-membrana, associate a proteine G, sulle cellule del Leydig, dove stimolerà la secrezione del
testosterone.
L’FSH, agisce soprattutto a livello delle cellule del Sertoli, che hanno recettori molto simili a quelli
dell’LH, e andrà a stimolare il processo spermatogenetico.
Il testosterone, prodotto dalle cellule del Leydig, e l’Inibina B, prodotta dalle cellule del Sertoli,
determinano feedback negativo sull’asse:
agiscono sull’ipofisi e l’ipotalamo,
inibendo la sintesi di LH e FSH.
Il testosterone poi può essere trasformato
in diidtrotestosterone e in estrogeni: in
alcuni organi la produzione di estrogeni
è fondamentale, sicuramente nella
regolazione del feedback negativo e
negli effetti scheletrici del testosterone.
La conversione in 17β-estradiolo è
determinata dall’enzima aromatasi e una
sua mutazione può determinare
demineralizzazione ossea; perciò è un
ormone che viene prodotto anche nel
maschio attraverso questa
aromatizzazione, soprattutto a livello
(scheletrico?).
Nella femmina invece è l’ormone
principale.
Perciò nel maschio il testosterone e il diidrotestosterone hanno questo ruolo nello sviluppo sessuale
e delle cellule [?del leydig e de sertoli?], dello sviluppo cutaneo, dei capelli, della libido, della
funzione erettile, della spermatogenesi e nella pubertà della mineralizzazione delle ossa, dei
muscoli, del comportamento e della percezione del mondo e secrezione delle gonadotropine.
Abbiamo già detto che i recettori per gli ormoni steroidei sono a livello citoplasmatico o nucleare,
quelli per gli androgeni, in particolare, sono a livello nucleare e sono simili a quelli per i
glucocorticoidi, mineralcorticoidi e progesterone.
Il testosterone arriva, può essere trasformato ad opera del 5α-reduttasi in diidro-testosterone e lega il
recettore citoplasmatico di solito bloccato dal legame con le Hsp (heat shock proteins) e una volta
che si forma il complesso ormone-recettore, questo dimerizza, viene fosforilato, c’è uno shutting nel
nucleo e agendo nel nucleo a livello dei geni bersaglio (dove sono presenti caratteristici Androgen
Response Element), regola l’attività dei geni sessuali.
Nella femmina il processo che inizia nella pubertà è un processo diverso, in cui c’è un’integrazione
tra un ciclo a livello dell’ovaio, uno a livello dell’utero e tutto è regolato in maniera estremamente
articolata e complessa da una serie di eventi ormonali:
• nel ciclo ovarico
o durante la fase follicolare abbiamo la maturazione di una serie di follicoli,
o si forma il follicolo di Graaf
o ovulazione
o trasformazione del follicolo in corpo luteo
• nel ciclo uterino:
o durante la parte follicolare,
che inizia con la mestruazione
precedente, abbiamo uno
sfaldamento dell’endotelio,
perdendo l’endometrio, in
particolare:
▪ gli estrogeni, prodotti
in questa fase in
misura crescente,
determinano la
riproliferazione
dell’endotelio;
▪ abbiamo un picco
della produzione estrogenica a metà ciclo, che poi contribuisce al picco di
FHS e LH, che contribuiscono ad una modulazione
o Nella fase luteinica:
▪ il corpo luteo produce molto progesterone
▪ continua a produrre estrogeni
insieme permettono la transizione dell’endometrio da fase proliferativa a fase
secretiva, per l’impianto dello zigote, nel concepimento.
Abbiamo poi anche nella femmina un controllo dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio, con stesso
meccanismo del maschio:
- abbiamo un ormone gnRH,
che regola la secrezione di
FSH e LH,
- ci sono poi feedback brevi
che regolano la produzione
di FSH e LH in maniera
molto accurata; questi
agiscono sull’ovaio e
determinano, nelle varie fasi
del ciclo ovarico,
produzione di estrogeni e
progesterone, che a loro
volta hanno un effetto
sull’endometrio;
estrogeni e progesterone
hanno poi importanza nel feedback fine.
Per quanto riguarda gli estrogeni esistono dei meccanismi di feedback negativo (per la maggior
parte del ciclo ovarico), ma a metà del ciclo, questo picco di estrogeni non esercita più un effetto di
feedback negativo, ma di feedback positivo, andando a stimolare (invece di inibire) il picco di LH e
FSH a livello delle cellule gonadotrope.
Altri effetti degli estrogeni, oltre allo sviluppo degli organi genitali femminili, anche se
nell’embriogenesi, non hanno davvero un ruolo, però poi sono importanti nella pubertà per lo
sviluppo dell’apparato genitale femminile e dei caratteri secondari sessuali, nella fecondazione, sul
metabolismo osseo, sul metabolismo epatico e sul rallentamento dell’aterosclerosi.
Qui abbiamo un summary di tutto quello che abbiamo detto, sarebbe anche bastata, ma mi piaceva
approfondire un po’ di più l’argomento.
Qui ci sono i momenti chiave dello sviluppo sessuale:
- sesso cromosomico, l’effetto del cariotipo (46 XX o XY) nel maschio e nella femmina,
presente fin dal principio
- sesso gonadico, dipende dall’influenza sulla gonade bipotente dei fattori di trascrizione
SRY e SOX9 che, quando attivati determinano un sviluppo di tipo maschile della gonade,
atri fattori determinano lo sviluppo verso l’ovaio (generalmente l’assenza del SOX9).
- Sesso fenotipico, che nella femmina è un processo in default: in assenza di stimolo abbiamo
una regressione dei dotti di Wolff e una stimolazione dello sviluppo dei dotti di Muller in
tube di Falloppio, salpingi, utero e 3° superiore della vagina e differenziamento del seno
uro-genitale in genitali esterni di tipo femminile.
Nel maschio invece tutto è più complicato, intervengono molti fattori, tra cui il fattore
antimulleriano, che determina la degenerazione dei dotti di Muller e la produzione
androgenica, che porta alla stimolazione dei dotti di Wolff, con lo sviluppo delle vie genitali
interne e il diidrotestosterone, che deriva dal testosterone grazie alla 5α-reduttasi, che va a
stimolare il differenziamento del seno uro-genitale, verso i genitali esterni maschili.
Possiamo avere disturbi del differenziamento sessuale che possono dipendere da mutazioni nei
cromosomi, o in soggetti che hanno cariotipo perfettamente normale (femmine 46 XX e maschi 46
XY).
Cosa può determinare difetti di differenziamento nello sviluppo gonadico maschile:
- disordini nello sviluppo testicolare: disgenesie gonadiche o complete, per difetti dei fattori
di trascrizione della transizione della gonade bipotente in testicolo.
- formazione di un ovotestis
- regressione testicolare
Per quanto riguarda lo sviluppo fenotipico, questo è correlato con la secrezione o la ricezione
androgenica, fino all’insensibilità agli androgeni.
Nella femmina possiamo avere difetti dello sviluppo gonadico femminile per:
- difetti dello sviluppo ovarico: disegenesie gonadiche
- formazione di ovotestis
- sovvertimento della transizione della gonade bipolare, con formazione di testicoli, per
mutazioni a livello dei fattori che la regolano.
Difetti dello sviluppo fenotipico possono invece essere determinati dall’eccessiva secrezione degli
androgeni, a livello fetale per condizioni placentari o materne.
ERMAFRODITISMO: situazione di transizione tra soggetto perfettamente maschio o femmina,
per la coesistenza di tessuto testicolare e ovarico.
Possono derivare da chimerismi nel cariotipo:
- 45 X con 46 XY, con disgenesia gonadica mista (da una parte c’è un ovaio primordiale, da
una parte c’è un testicolo normale)
- 46 XX con 46 XY (chimerismo vero e proprio).
Talvolta non si determina ermafroditismo, ma un apparato genitale che non è perfettamente né
maschile né femminile:
- 47 XXY, la nota sindrome di Klinefelter
- 45 X0, con le sue varianti, della sindrome di Turner
Oppure ci possono essere situazioni di franco ermafroditismo, con coesistenza dei due tessuti
gonadici.
Questo per quanto riguarda difetti cromosomici.
Per quanto riguarda invece i disturbi dello sviluppo della gonade possiamo avere soggetti con
cariotipo normale, ma con OVOTESTIS (coesistenza tra tessuto ovarico femminile e maschile),
determinando una anomala produzione di testosterone e fattore antimulleriano nello sviluppo
gonadico, estrogeni e androgeni nella pubertà.
Invece, nel caso di alterazioni della sintesi o azione androgenica nel maschio, o di eccesso di sintesi
nella femmina, si può determinare un quadro sessuale intermedio in cui non parliamo di
ermafroditismo, ma di PSEUDOERMAFRODITISMO: qui la gonade è normale e rispetta il
corredo cromosomico, ma manca una corretta esposizione ormonale (eccesso androgenico
femminile o deficit androgenico maschile).
Questo è un cariotipo un soggetto con la sindrome di Klinefelter con due cromosomi X e uno Y (o
XXXY, XXYY…).
Sapete come si fa un cariotipo? Si studiano cellule del sangue, globuli bianchi, che, in metafase,
ovvero quando i cromosomi sono più espressi, vengono colorati i cromosomi, poi si fa una foto del
nucleo, poi si ritagliano le fotografie dei vari cromosomi e poi vengono distinti in base alle
bandeggiature, per vedere se ci sono difetti grossolani a livello cromosomico.
Ci sono quadri clinici tipici, tra cui possiamo vedere ipogonadismi ipergonadotropi, in cui già nel
periodo fetale si possono notare alterazioni dello sviluppo dei genitali esterni, dovute alla mancanza
di testosterone, mentre per le femmine la carenza di estrogeni si evidenzia nella pubertà, poiché
determina mancanza della maturazione.
Questo è un paziente con chimerismo, con 45 X + 46 XY, con testicoli e apparato genitale esterno
femminile.
Oppure nel caso dell’ovotestis, abbiamo ovai e tubuli seminiferi, quindi coesistenza dei tessuti
femminili e maschili.
Sbob: Davide Giorgi
Rev: Costanza Ercolani
21 Marzo-seconda ora
Proseguiamo ora parlando del caso in cui un maschio avente cariotipo normale 46 XY,
presenti un disordine nello sviluppo del sesso gonadico.
Tale quadro può derivare da varie situazioni, spesso sinergiche fra loro, come ad esempio una
perdita dei geni SRY e SOX9 che può causare disgenesia gonadica (mancato sviluppo del
testicolo), se il difetto è completo, o una condizione chiamata ovotestis , in cui abbiamo un
parziale sviluppo testicolare e un parziale sviluppo ovarico, se il difetto è incompleto.
Altra conseguenza può essere la formazione del testicolo, seguita poi da una sua regressione
causata dalla mancanza di importanti fattori di trascrizione per il suo sviluppo.
Entrambi i geni possono però subire anche delle mutazioni che inducono manifestazioni
intermedie con nel caso dell’ermafroditismo.
Riprendendo il concetto del disturbo del differenziamento sessuale in maschi con cariotipo
normale, abbiamo poi il caso in cui il problema sia a livello fenotipico, con
pseudoermafroditismi dovuti ad un’alterata produzione androgenica.
A tal proposito affronteremo solo il caso dell’alterata produzione androgenica dovuta ad un
deficit dell’enzima 5α-reduttasi di tipo 2, che causa nel maschio un alterato sviluppo dei
genitali esterni.
Il testosterone viene prodotto normalmente ed agisce normalmente ma a causa del deficit
enzimatico non avviene la sua conversione in diidrossitestosterone che porta alla mancata
virilizzazione esterna e la mancata maturazione sessuale durante la pubertà.
Anche nella femmina con cariotipo normale 46XX, possono verificarsi disordini dello
sviluppo ovarico come disgenesia gonadica completa o mutazioni che vadano a attivare
geni quali SRY o SOX9.
Tali mutazioni possono portare a condizioni di mancata formazione di ovaio, formazione
ovotestis o se producono attivazioni marcate dei due geni possono portare persino alla
formazione del testicolo nonostante il cariotipo femminile.
Una mutazione di questo tipo può avvenire ad esempio durante processi meiotici a livello
paterno, dove una traslocazione del gene SRY dal cromosoma Y al cromosoma X può
portare alla presenza del gene e ad una sua attivazione all’interno del genoma di una
femmina con cariotipo 46 XX.
Può però accadere anche il contrario, ovvero l’assenza del gene SRY all’interno del
genoma di un maschio 46 XY.
L’enzima 21-idrossilasi è coinvolto sia nella via dei mineralcorticoidi, sia nella via dei
glucocorticoidi, in particolare trasforma il 17-OH-Progesterone in 11-Deossicortisolo.
Il suo deficit porta ad un difetto della sintesi di cortisolo e aldosterone, e ad una
deviazione dei substrati verso la via biosintetica degli estrogeni.
Tale deficit è il più comune all’interno delle sindromi adrenogenitali congenite (95%) e si
presenta in due forme, una classica, più grave e una non classica.
Nelle forme classiche più gravi il difetto enzimatico è completo e ciò porta ad una
virilizzazione, chiaramente nelle femmine, e una perdita di sali; mentre nelle forme
classiche meno gravi abbiamo solo la virilizzazione.
Il quadro clinico delle forme meno gravi quindi presenta ipovolemia, ipotensione, (dovute
alla perdita di sali nei casi più gravi) pseudoermafroditismo femminile e precocità
sessuale nel maschio.
Le forme non classiche invece presentano un quadro più lieve e ad insorgenza tardiva,
essendo il deficit non completo, in cui possiamo avere in entrambi i sessi pseudopubertà
precoce.
La pubertà è il periodo in cui avviene la maturazione sessuale dell’individuo, scatenata
dal rilascio di LH e FSH che attivano varie vie ormonali; nella femmina avviene tra gli 8
e i 13 anni mentre nel maschio tra i 9 e i 14 anni.
Si parla di pubertà precoce vera se questa è caratterizzata dal rilascio anticipato di
gonadotropine (FSH e LH) dovuto ad esempio ad un tumore ipofisario; parliamo invece
di pseudo pubertà precoce quando non si ha un rilascio di gonadotropine ma bensì
un’anomala produzione di androgeni come nel caso del deficit della 21-idrossilasi.Nei
maschi avremo una crescita anticipata e abbondante della peluria ascellare e pubica,
crescita anticipata del pene e raggrinzimento scrotale, nella femmina invece, avremmo
irsutismo e alterazioni mestruali.
Tali sintomi nella femmina possono portare a confondimento con un caso di ovaio
policistico; infatti per la diagnosi di quest’ultimo, oltre a riscontrare cisti ovariche bisogna
prima escludere una sindrome adrenosurrenalica o una malattia di Cushing.
Il deficit della 20,22-desmolasi è il deficit con le conseguenze più gravi, poiché vengono
a mancare cortisolo, mineralcorticoidi e androgeni, caratterizzando quello che è un
quadro di iposurrenalismo grave.
• Segni:
− Neonati con ambiguità dei genitali (soggetti 46,XX con
− pseudoermafroditismo femminile)
− Neonati con perdita di sali, ipotensione e ipoglicemia
− Più tardi nell’infanzia in presenza di pseudopubertà precoce
− Dopo la pubertà in femmine con fenotipo simil-PCOS
Caso Clinico: Massimiliano, un uomo di 40 anni, nasce con un’ambiguità dei genitali e
con ipospadia ma viene assegnato comunque al genere maschile da neonatologo.
All’età di 18 mesi, viene portato all’ospedale Bambin Gesù di Roma da i genitori,
preoccupati per l’ambiguità genitale del figlio.
Qui viene effettuato il cariotipo che evidenzia il fatto che in realtà il bambino sia una
femmina 46XX e viene consigliato ai genitori di intraprendere un percorso chirurgico
correttivo e successiva riassegnazione al sesso femminile.
Tale opzione però viene respinta dai genitori, intimoriti dal fatto di poter mettere in
imbarazzo il figlio, ormai presentato al piccolo paese come Massimiliano.
Quindi viene presa la decisione di non riassegnare Massimiliano al genere femminile ma
di seguire una terapia cortisonica per bloccare quella che sarebbe stata una pseudopubertà
precoce.
Successivamente con l’arrivo della pubertà Massimiliano ha dovuto iniziare una terapia
con testosterone e intraprendere un percorso chirurgico per rimodellare i genitali,
asportare le ovaie e creare una sacca scrotale con protesi.
Oggi Massimiliano è sposato e ha adottato una figlia.
Grafico che correla i valori basali con i valori stimolati: nelle forme classiche abbiamo
valori altissimi di 17-idrossi-progesterone già in condizioni basali; nelle forme di
eterozigosi valori intermedi.
Una volta effettuato il test biochimico possiamo avere ulteriore conferma effettuando test
genetici, come l’analisi dei RFLP (polimorfismi della lunghezza dei frammenti ottenuti da
digestione con enzimi di restrizione), marcatura con oligonucleotidi allele-specifici PCR,
ligasi reaction o sequenziamento diretto del gene CYP21A2.
Tali test sono utili per la diagnosi ma soprattutto per rilevare eventuali portatori sani di
allele mutato e per la diagnosi prenatale.
Nel caso in cui un embrione risulti affetto dalla patologia, si può trattare la madre con
desametasone per bloccare nel feto l’aumento di ACTH e androgeni.
• Correlazione genotipo/fenotipo:
In base al livello di deficit enzimatico (21-idrossilasi) avremo delle conseguenze più o
meno gravi: in caso il deficit sia completo avremo sia perdita di sali sia virilizzazione, se
abbiamo un deficit parziale avremo solo la virilizzazione, se il deficit è lieve avremo
invece le forme non classiche e meno gravi.
• Principi di terapia:
-Glucocorticoidi per sostituire deficit cortisolo e sopprimere asse ipofisi-surrene
(bloccare produzione androgenica e iperplasia surrenalica), idrocortisone o
desametasone
-Mineralcorticoidi per sostituire deficit di aldosterone con Fludrocortisone. Questo nelle
forme classiche e non classiche più gravi (come pseudopubertà precoce).
-Estro-progestinici e anti-androgeni per coreggere amenorrea/oligomenorrea e irsutismo
nelle forme late-onset dove non è opportuno terapia steroidea, con Pillola o Ciproterone
acetato o spironolattone. (Nelle forme non classiche meno gravi nelle femmine)
-Glucocorticoidi nella donna gravida con feto femmina affetto da deficit di 21-idrossilasi,
con Desametasone (non inattivato a livello placentare).
SBOB.: PIETRO ARMADI
REV.: ALESSIO COLANTUONO
26/03/2019- 1°ora
la retinopatia diabetica;
La nefropatia diabetica:
La neuropatia diabetica.
La retinopatia è una complicanza piuttosto comune. La scorsa volta si è detto che pazienti con
diabete di tipo 2, che erano ignari della loro condizione di iperglicemia risalente a mesi, addirittura
anni prima del momento della diagnosi certa di diabete avevano già sviluppato questa complicanza.
La gravità della retinopatia può essere variabile; modelli di studio epidemiologici riportano la
retinopatia diabetica come la prima causa di cecità nel nostro paese in soggetti in età lavorativa
(quindi giovani), oppure causa di un danno che determina un ipovisione grave. La retinopatia
diabetica si divide sostanzialmente in due categorie: quella non proliferante e quella proliferante.
Questi sono gli aspetti salienti che caratterizzano la forma non proliferante, per cui quando si va a
valutare il fondo dell’occhio queste alterazioni dei piccoli vasi della retina sono piuttosto tipiche della
retinopatia diabetica. Il medico oculista sulla base di queste evidenze cliniche riesce a fare diagnosi
differenziale rispetto magari ad una retinopatia ipertensiva, anch’essa altrettanto frequente, i cui
danni però sono differenti. L’oculista è in grado quindi di differenziare semplicemente guardando i
vasi della retina. Quindi si formano degli aneurismi, delle piccole emorragie e delle zone di ischemia,
in parte si formano anche degli essudati e a questo punto l’oculista valuta se è il caso di intervenire
per limitare la progressione di questi danni vasali. Generalmente con la terapia laser è possibile agire
per limitare l’estensione di queste anomalie. Tuttavia è fondamentale mantenere un buon controllo
nel tempo di questa condizione patologica a carico della retina perché se ciò non avviene il danno
retinico tende a progredire e si passa alla forma più grave che è quella proliferante. I vasi lesionati
vanno incontro con meccanismi vari a fenomeni di neoangiogenesi; questi piccoli nuovi vasi hanno
l’obiettivo di vascolarizzare le zone precedentemente danneggiate, tuttavia sono molto fragili e
delicati e vanno incontro comunque a rottura. Ciò può portare alla deposizione di tessuto fibroso con
le varie conseguenze del caso fino al distacco di retina. Avremo retrazione del corpo vitreo, distacco
della retina e quindi grave danno visivo. L’obiettivo è quello di prevenire queste forme proliferanti
sia dal punto di vista strettamente oculistico e quindi non giungere allo stadio non proliferante della
patologia retinica diabetica sia dal punto di vista del diabetologo che ha invece il compito di tenere il
soggetto in buon controllo glicemico nel tempo che è l’unico modo per evitare la progressione della
malattia e ovviamente prevenire l’insorgenza della malattia in chi ancora non è stato affetto. In difesa
di questa tesi è importante lo screening che deve essere fatto alla diagnosi in soggetti con diabete di
tipo 2, poiché, secondo quanto detto prima, sono soggetti che potrebbero avere già una complicanza
del genere. Per quanto riguarda il diabete di tipo 1 non è necessaria una valutazione iniziale poiché
la complicanza si manifesta in maniera piuttosto rapida.
LA NEFROPATIA DIABETICA
Molto brevemente lo stesso vale anche per la
funzione renale, da cui la nefropatia diabetica
che altro non è che la complicanza del diabete
a carico del rene. Da qui si può vedere che il
primo segno di alterazione renale in
associazione con l’iperglicemia è la
microalbuminuria. Al di sotto di 30 mg/g per
quanto riguarda l’albuminuria generalmente
non vi è alterazione renale. Dal grafico si può
anche notare la funzione renale in relazione al
filtrato. In associazione all’entità della micro e
macroalbuminuria avremo un’alterazione
renale dovuta al diabete. In quest’ordine di idee la microalbuminuria indica un parametro di screening
in questi pazienti. Quindi quando si fa la diagnosi oltre a valutare la presenza di retinopatia ed
eventualmente quantificare il danno retinico si va a valutare anche la microalbuminuria. Se presente
bisogna tenere sempre in considerazione il controllo glicemico; ci sono di contro anche dei farmaci
che possono aiutare a limitare la progressione della patologia, come gli ACE-inibitori. Il medico deve
tuttavia porre gran parte della sua attenzione al momento della diagnosi ai parametri di screening per
quanto riguarda l’albuminuria, e di rivalutare questi indicatori della patologia diabetica renale a
distanza di 3/4 mesi in maniera tale da monitorare con costanza l’eventuale progredire della patologia
diabetica renale.
Dal Registro Italiano di Dialisi e Trapianto risulta che tra le varie cause primarie di insufficienza
renale terminale (ESRD, End Stage Renal Disease) incidente in Italia, il diabete ne rappresenta la
terza causa (quindi di dialisi). Queste complicanze legate al diabete provocano dei danni molto
importanti, che vanno dalla ipovisione, cecità ecc.. all’insufficienza renale cronica e dialisi e poi come
vedremo alla neuropatia.
LA NEUROPATIA DIABETICA
È una complicanza gravata da esiti molti importanti. Molte di queste forme di neuropatia si
manifestano con dolore, il quale risulta non facile da trattare anche perché non c’è una terapia
specifica per la neuropatia; si fa di solito ricorso ad antidolorifici generici o che vengono impiegati
in neurologia in altri tipi di condizioni. Il dolore ha un grande impatto poi sulla qualità di vita
(aspetto molto importante) e ciò vale sia per il diabete di tipo 1 che per quello di tipo 2. Ovviamente
queste complicanze possono determinare una disabilità, deficit e le ulcere.
Il piede diabetico è un piede neuropatico (non vascolare), principalmente; può esserci il danno
vascolare e normalmente c’è però in primis il piede diabetico si manifesta perché di fondo c’è una
neuropatia. Questa neuropatia si può manifestare con delle ulcere, soprattutto nelle aree di maggior
pressione del piede, queste ulcere possono poi infettarsi. Queste infezioni sono difficili da trattare,
richiedono terapia antibiotica a lungo termine e possono poi aggravarsi e raggiungere i tessuti più
profondi fino all’osso e provocare le osteomieliti. Si possono presentare anche altre alterazioni
come il piede di Charcot, che si caratterizza per un’alterazione dell’anatomia del piede con
frammentazioni ossee e perdita dei normali rapporti articolari, da cui poi si procede con
l’amputazione (atto molto disabilitante per il paziente). Alle nostre latitudini la neuropatia diabetica,
la vasculopatia rappresentano le cause principali di infezioni ed ulcere, seguite poi da quelle
traumatiche.
I sintomi sono molto vari. E’ ovvio che il dolore rappresenta per il paziente l’aspetto più grave e
soprattutto disabilitante e può essere di tipo lancinante, urente, costante… Si possono avere disturbi
della sensibilità come le parestesie (disturbi della sensibilità, sensazione di scosse elettriche),
bruciore, anestesia tattile, come il caso di alcuni pazienti che si sono bruciati i piedi vicino al
camino o con l’acqua calda perché non avevano sentito alcun dolore.
C’è anche una riduzione dei riflessi osteno-tendinei, ipostenia.
Segni e sintomi sono riassunti nella tabella sottostante.
Poi c’è la neuropatia autonomica che, nonostante rappresenti un aspetto meno comune rispetto
agli altri, ha poi dei risvolti altrettanto gravi e può manifestarsi con una sintomatologia differente in
relazione all’organo principalmente interessato. Ad esempio il cuore con alterazione della frequenza
cardiaca, il tratto gastro-intestinale con diarrea cronica (notevole influenza sulla qualità di vita e nei
rapporti con le altre persone), ipotensione ortostatica (riduzione della pressione sistolica di 15-20
mmHg) con vertigini, sensazione di svenimento.
Nel caso del piede di Charcot invece l’articolazione delle ossa del piede si disarticola e si riduce anche
l’arco plantare e il soggetto è esposto ad ulteriori danni e traumi, per cui è necessario fare particolare
attenzione alle calzature.
Il piede diabetico è sempre suscettibile in futuro di ulteriori danni di tipo infettivo; spesso il
percorso patologico origina da una piccola lesione che viene curata e poi recidiva, ritorna nella
stessa sede o in un’altra, progredisce, si cura, ritorna e poi dopo anni si rende necessaria
l’amputazione della gamba.
Ci occuperemo prevalentemente della terapia del diabete di tipo 2 perché per il tipo 1 la terapia è
unica e prevede la somministrazione dell’insulina. Ci sono si modalità diverse di somministrazione
con le iniezioni, con il microinfusore ecc.. però sostanzialmente la terapia è una sola, quella
insulinica.
Per quel che riguarda il diabete di tipo 2 la terapia con insulina può darsi che non funzioni (si può
usare, ad esempio, nello scompenso glicemico). Le possibilità terapeutiche sono diverse; oggi sono
parecchie rispetto a 40/50 anni fa dove sostanzialmente c’erano due farmaci: le sulfaniluree e la
metformina. Il diabete di tipo 2 è frutto di un’alterazione della secrezione dell’insulina, c’è un
difetto della cellula β soprattutto nella prima fase di secrezione e c’è un’insulino-resistenza. In
realtà studi più mirati di fisiopatologia hanno messo in luce che ci sono anche altri difetti che
concorrono a determinare l’iperglicemia. Tra questi ritroviamo la difettosa secrezione insulinica,
l’insulino-resistenza, cioè la ridotta captazione di glucosio dal tessuto muscolare e adiposo. C’è
anche chi dice che per esempio si può verificare un lieve aumento della secrezione basale di
glucagone, una ridotta attività incretinica (quindi si fa riferimento ad ormoni gastrointesinali),
alterazioni a livello dei neurotrasmettitori, il fatto che il rene è in grado di assorbire più glucosio,
un’aumentata lipolisi ecc… Fatto sta che oggi abbiamo dei farmaci che ci possono aiutare a trattare
in maniera più specifica l’iperglicemia dovuta a diabete di tipo 2. Alcuni di questi possono agire a
livello renale e quindi ridurre il riassorbimento di glucosio e permettere una maggiore eliminazione
renale di glucosio con riduzione della glicemia. Altri che migliorano l’insulino-sensibilità, farmaci
che vanno in qualche modo a compensare la ridotta attività incretinica... La diapositiva qui sotto
fornisce un quadro generale per quanto riguarda la fisiopatologia del diabete di tipo 2.
Nel diabete di tipo 2, come del resto nel tipo 1, l’evidenza scientifica è importante affinché si
dimostri che trattare un soggetto abbassandone la glicemia determini poi una efficace riduzione
delle complicanze e della mortalità.
Allora ci viene in soccorso uno studio (UKPDS) anch’esso condotto negli anni ’80 da cui ne risulta
che trattare il diabete mellito, quindi controllare la glicemia, determina una riduzione importante
delle complicanze micro-vascolari, di quelle macro-vascolari e dell’infarto del miocardio.
E’ chiaro che se un farmaco è applicato in una certa terapia, in questo caso quella del diabete,
questo deve soddisfare una serie di requisiti prima che possa poi essere somministrato ai pazienti in
cura. Esso deve essere perciò efficace, ovvero mantenere la glicemia a valori soddisfacenti e dove
l’ emoglobina glicata sia almeno sotto il 7%. Al giorno d’oggi le linee guida considerano come
soglia massima di Hb glicata il 7% tale per cui a questi valori si ha un buon controllo glicemico, ciò
non toglie però che nei prossimi anni questa soglia si possa abbassare poiché potranno essere
utilizzate tecnologie innovative che migliorano il controllo glicemico senza provocare il rischio di
ipoglicemia. Quest’aspetto costituisce l’altra faccia della medaglia perché nonostante
l’abbassamento della glicemia sia un effetto comune a tutti i farmaci impiegati nella terapia del
diabete alcuni di essi espongono al rischio di ipoglicemia abbassando la glicemia in maniera
eccessiva. Se un domani riuscissimo a fabbricare farmaci che abbassano si la glicemia ma che non
provocano ipoglicemia sarebbe un ottimo traguardo, mimando il controllo glicemico di soggetti non
diabetici.
Oltre all’ipoglicemia un altro parametro da tenere sotto osservazione è il peso poiché nel trattare
una persona il farmaco non dovrebbe incidere sul peso, poiché se dovesse aumentare costituirebbe
un fattore di rischio cardiovascolare. Perciò questi farmaci dovrebbero essere almeno neutrali sotto
quest’aspetto. Ovviamente devono avere una buona tollerabilità: va da sé che un farmaco non deve
avere effetti collaterali altrimenti non può essere assunto, specialmente a lungo termine. I farmaci
poi non devono peggiorare il rischio cardiovascolare, un aspetto che dovrebbe essere scontato ma
non lo è più di tanto perché in passato sono stati impiegati alcuni farmaci come il Rosiglitazone il
quale, in seguito a trials clinici, è venuto fuori che aumentava il rischio di infarto. Successe che
l’FDA (ente che si occupa della regolamentazione dei medicinali) ha voluto che per tutti i nuovi
farmaci in arrivo per la cura del diabete ed altre patologie venisse dimostrato che non avevano
complicanze cardiovascolari. Quindi oggi per tutti i farmaci che vengono registrati per la cura del
diabete devono avere degli studi di sicurezza cardiovascolare. Inoltre questi medicinali devono
avere la possibilità di essere utilizzati in combinazione con altri farmaci.
Fino agli anni ’50 avevamo solo l’insulina (che era peraltro di estrazione animale), poi per il diabete
di tipo 2 vennero successivamente utilizzate le sulfaniluree e la metformina che sono in commercio
tutt’oggi. Per passare all’acarbose, i glitazoni, le glinidi, gli analoghi del GLP-1(deralglutide,
iralglutide) poi gli inibitori del DPP-4 (glitine) e poi dapaglifozina, cioè inibitori del recettore del
SGLT2 a livello renale.
Metformina
Parliamo quindi della metformina: appartiene alla classe delle biguanidi, è un farmaco molto molto
utilizzato che migliora la sensibilità insulinica e riduce la produzione epatica di glucosio (è il
fenomeno più importante di iperglicemia, soprattutto al mattino, nel diabete di tipo 2). Viene quindi
considerato un farmaco insulino-sensibilizzante e, ad oggi, tutte le linee guida consigliano di dare la
metformina come primo farmaco a tutti, a meno che non ci siano delle controindicazioni, come
l'insufficienza renale, oppure che non sia tollerato dal punto di vista gastrointestinale: quindi si dà
come primo farmaco la metformina singolarmente o in associazione con altri farmaci. L’azione della
metformina è quella di abbassare di 1 punto in percentuale l'emoglobina glicata, come anche altri
farmaci.
Quando si parla di efficacia si fa riferimento all’emoglobina glicata, e l’obiettivo è 7: quanto più alta
è la glicemia, tanto maggiore sarà l'emoglobina glicata. NB: 6.5 è il valore per la diagnosi di diabete.
La metformina ha dimostrato, inoltre, di avere vantaggi in termini di riduzione del rischio
cardiovascolare: la sua efficacia, quindi, non è solo l’impatto che ha sulla glicemia, ma anche il fatto
che riduce del 30-35% i rischi cardiovascolari. Come unica controindicazione ha che può influire
sulla funzione renale, riducendola. Il farmaco non andrebbe dato per concentrazioni di nitrato al di
sotto di 45 mg per millilitro, anche se oggi nuovi studi dicono che potrebbe essere usato fino a 30
mg.
Chiaramente al soggetto viene diagnosticata la funzione renale ridotta solo nel caso in cui faccia
controlli frequenti: ma, di norma, i controlli, vengono effettuati una o due volte l'anno, quindi la
patologia renale potrebbe esserci e peggiorare e la metformina potrebbe favorire l’acidosi lattica
(come complicanza della insufficienza o disfunzione renale). L'acidosi lattica può essere una
condizione molto grave: si caratterizza sia per il quadro dell'acidosi che per un aumento dell’anion
gap. Essendo la ridotta funzione renale alla base di questa condizione, i soggetti dovranno essere
trattati in maniera specifica: generalmente vengono dializzati, per riportare la funzione renale sotto
controllo. Possono manifestarsi dei disturbi gastrointestinali, come meteorismo, sensazione di
gonfiore, e per alcuni anche diarrea; generalmente si verifica se si inizia somministrando quantità
elevate (il massimo che si può assumere è di 2-2.5 g nelle 24 ore, di solito, distribuiti in tre dosi). Se
si inizia con un dosaggio basso, come 500 mg al giorno e poi si aumenta, di solito questi disturbi non
ci sono. Per chi presenta questi disturbi ugualmente esistono anche dei farmaci a lento rilascio,
favorendo così la compliance verso la terapia.
L’acidosi lattica è una condizione poco comune, in soggetti un po’più anziani e meno seguiti è
possibile una disidratazione, un’insufficienza renale di tipo pre-renale.
Si osserva, solitamente nei pazienti trattati per diverso tempo con metformina, un’anemia di tipo
macrocitico che generalmente sottintende un deficit di vit. B12 (è quindi un parametro che va valutato
periodicamente).
Pioglitazone
Il pioglitazone agisce al livello del recettore PPARγ, è un farmaco insulino-sensibilizzante e ha un
meccanismo d'azione piuttosto complesso: agisce sul tess. adiposo, riduce la gluconeogenesi, migliora
l'utilizzazione muscolare di glucosio e non dà ipoglicemia. Determina, tuttavia, un aumento di peso e,
generalmente, anche ritenzione idrica: non è quindi indicato in soggetti che hanno patologie cardiovascolari,
come lo scompenso cardiaco, soprattutto in associazione con insulina, perché anche l'insulina ha un'attività
sodio ritentiva (può quindi peggiorare il grado di edema).
Sono state descritte fratture con l’uso di questi farmaci, per cui, in Italia, non è molto usato: dal 5 al 7% dei
soggetti. Detto ciò ha un'azione molto efficace sulla glicemia e secondo alcuni studi è capace di ridurre il
rischio di ictus.
Il GLP-1 ha queste funzioni: stimola la cellula β a produrre insulina e lo fa nella condizione postprandiale;
viene, infatti, liberato dopo il pasto e non durante il digiuno e, quindi, non induce ipoglicemia. Riduce un po'
la secrezione di glucagone (anche questo aiuta a limitare l'iperglicemia postprandiale). Un altro effetto è quello
di indurre il senso di sazietà al livello cerebrale (quindi il soggetto mangia meno e perde un po’ di peso) e, a
livello dello stomaco, di rallentare la motilità gastrica: il picco post prandiale sarà ridotto perché l'assorbimento
sarà rallentato. Oltre a queste, che sono le azioni più importanti, ne ha anche altre.
Dal punto di vista fisiologico, questi ormoni, rilasciati in seguito ad un pasto dall’intestino, vengono degradati
naturalmente da un enzima: il DPP-4 (dipeptidil peptidasi 4). Per aumentare l’azione del GLP endogeno sono
stati sintetizzati degli inibitori del DPP-4 che vanno, appunto, ad inibire questo enzima, per cui il peptide
endogeno viene degradato meno e quindi l’azione sarà più duratura.
Ragionando diversamente, è stato sintetizzato un agonista del recettore del GLP, cioè farmaci che sono simili
al peptide endogeno e che agiscono sullo stesso recettore: possono determinare un’azione più duratura. NB:
Oggi le insuline regolari non vengono utilizzate e si utilizzano degli analoghi dell’insulina.
La risposta in bioclinica Minuto 14.12/ è importante. Se somministro ad un soggetto una certa quantità di
glucosio, per endovena o per via orale, l'effetto sulla glicemia sarà diverso: in via venosa l'impatto sarà
maggiore di quando lo somministro per via orale. La somministrazione per via orale coinvolge altri sistemi,
come la stimolazione del GLP-1, che fanno sì che il controllo della glicemia sia migliore. Naturalmente questi
sistemi (come, appunto, gli ormoni gastronintestinali) non vengono stimolati dalla somministrazione di
glucosio per via endovenosa.
Gliptine
Le gliptine sono gli inibitori di DPP-4. Questi farmaci sono quelli in commercio in Italia e richiedono una
riduzione della dose in relazione al filtrato glomerulare: se la funzione renale si riduce va ridotta anche la dose
del farmaco, con un’eccezione, la linagliptina.
(Può essere somministrata la stessa quantità di linagliptina anche in relazione ad una grave riduzione della
funzione renale e anche soggetto in dialisi). Sono farmaci solitamente ben tollerati e hanno un'efficacia
discreta, riducono l'emoglobina glicata di 0.6-0.8%, quindi un po' meno della metformina e ancor meno delle
sulfaniluree. D’altra parte sono farmaci ben tollerati che non danno ipoglicemia e hanno un effetto neutro sul
peso. L'ipoglicemia si verifica solo se vengono somministrati insieme, ad esempio, a sulfaniluree o l'insulina
(che danno ipoglicemia). Sono utili soprattutto in persone che non hanno un cattivo controllo glicemico e negli
anziani perché sono ben tollerati.
Agonisti di GLP-1R
L’exenatide è il loro capostipite, poi sono arrivati gli altri, dal liraglutide in poi. La differenza tra questi è la
loro durata d'azione: breve per alcuni, come lixisenatide e exenatide, che quindi vanno somministrati due volte
al giorno, lunga per altri come la liraglutide, che somministriamo una sola volta al giorno, e ancor più lunga
per la albiglutide e la dulaglutide che vanno dati una volta a settimana. Questi ultimi risultano essere
estremamente comodi perché, essendo tutti iniettati, riduciamo le iniezioni anche ad una a settimana. La
semaglutide è un farmaco orale che dovrebbe arrivare a breve.
Un’altra caratteristica utile di questi farmaci è che non inducono ipoglicemia: sono in grado di regolare la
glicemia, tenendo conto del livello della stessa. Quindi se questa si abbassa il farmaco non continua a stimolare
la cellula β a produrre insulina.
Alcuni soggetti necessitano di un preparato a breve azione (hanno maggiore effetto sulla motilità gastrica e
riducono l’iperglicemia post prandiale), ma la maggior parte sono in terapia con quelli a lunga durata, con
somministrazione settimanale.
Inibitori di SGLT-2
Questi farmaci aumentano l'escrezione urinaria del glucosio, fanno scendere la glicemia facendo urinare una
maggior quantità di zucchero. Generalmente la glicosuria fa pensare ad uno scompenso glicemico: le glicemie
alte si associano sempre a glicosuria, perché viene superata la soglia renale di riassorbimento di glucosio. Oggi
la glicosuria può indicare una terapia con questi farmaci, non per forza ad uno scompenso glicemico.
Agiscono sulla prima porzione del tubulo prossimale, inibiscono l'azione del trasportatore del glucosio SGLT-
2 (cotrasportatore di Na+ e glucosio) che ne riassorbe il 95%, quindi si perde una maggior quantità di glucosio
con le urine. Altri farmaci inibiscono il trasportatore 1 (SGLT-1 riassorbe il 5% del glucosio e si trova sul 3°
tratto del tubulo prossimale) e altri ancora li inibiscono entrambi come la sotaglifozina. La quantità di glucosio
che verrà escreto può essere quantificata ed è variabile a seconda delle glicemie.
Questi sono gli inibitori di SGLT-2 e derivano dalla florizina; il funzionamento di questi si basa su una
funzione renale adeguata. Sono farmaci efficaci, non danno ipoglicemia se non vengono associati ad altri
farmaci. Come effetti collaterali, posso dare infezioni alle vie urinarie, ma soprattutto infezioni genitali, perché
l'urina è ricca di zucchero e rappresenta un substrato favorevole ad una proliferazione di candida. In alcuni
pazienti con diabete di tipo 2, soprattutto in quelli di tipo autoimmune, può provocare chetoacidosi
euglicemica, ossia con glicemia sotto il 250; questo può ritardare la diagnosi perché la chetoacidosi viene
diagnosticata prevalentemente in base alla glicemia. In queste situazioni la glicemia è normale, ma è presente
chetoacidosi che, appunto, non viene rilevata.
Se vengono utilizzate nel diabete di tipo 1 (è possibile che ciò accada in futuro perché sembra, date le evidenze,
che riduca efficacemente la variabilità glicemica e il peso) ci sarà un aumento importante della chetoacidosi
euglicemica.
Questi farmaci hanno dimostrato un effetto favorevole sul rischio cardiovascolare: l’empaglifozina ha
dimostrato una riduzione importante del rischio di mortalità per danni cardiovascolari (CV death) su soggetti
ad elevato rischio, ossia che presentavano fattori di rischio.
La riduzione è del 38%. (Prosegue spiegando il grafico) Questo è un rapporto di rischio che dipende da una
curva di sopravvivenza, quindi un hazard ratio di 0.62 vuol dire che il farmaco rispetto al placebo riduce questo
rischio di 0.62 (Quindi da 1 fino a 0.62 sarebbe 0.38 che in percentuale è il 38%). Questa è una riduzione
importante e la stesso vale per l’ospedalizzazione per scompenso cardiaco, che è del 35%.
Siamo passati dalla glicosuria come scompenso glicemico alla glicosuria indotta farmacologicamente. C’è
rischio di infezioni e di disidratazione.
A seguito di studi, condotti su questi farmaci, sono stati creati degli algoritmi su come utilizzarli. Nei pazienti
che hanno delle complicanze cardiovascolari in prima battuta somministro metformina e la associo a questi
farmaci perché hanno dimostrato un effetto favorevole.
L'obiettivo è quello di poter fare una terapia personalizzata, basata sulle problematiche del paziente; se questo
è obeso vanno benissimo gli agonisti del GLP-1 che riduce il senso dell'appetito e quindi agisce sul peso.
Insulina
Nel diabete tipo 2 si può mettere in atto in qualsiasi momento ovviamente ed è fondamentale nella fase di
scompenso. L'unica controindicazione è l'ipoglicemia, tuttavia può esserci un incremento ponderale. Quando
parliamo però di incremento di peso dobbiamo considerate che il soggetto che inizia l'insulina generalmente è
un soggetto con scompenso glicemico e quindi anche glicosuria; avendo glicosuria perde zucchero e quindi
perde calorie e può perdere anche del peso. Quando inizia la terapia insulinica, che tiene sotto controllo
glicemia, e quindi riduce anche la glicosuria, il peso aumenta regolamentare e tutto sommato fisiologicamente:
è un ri-compenso metabolico. L’incremento ponderale può verificarsi anche successivamente all’inizio della
terapia ed è dovuto a vari fattori.
Questo è un algoritmo del 2017. Ovviamente per prima cosa va modificato lo stile di vita (Oggi non si parla
più di dieta, ma di terapia medica nutrizionale). La terapia inizia con la metformina perché è efficace ha un
basso rischio di ipoglicemia, perché, forse, fa perdere un po' di peso, e perché costa poco. Quando il controllo
non è più adeguato abbiamo tutta una serie di farmaci che potete associare per ottenere l'effetto terapeutico;
alcune di queste associazioni sono possibili, altre no, perché l’obiettivo è un determinato effetto terapeutico.
Si agisce spesso troppo tardi nel modificare la terapia e questo provoca due effetti: il primo è che viene ritardata
la diagnosi, il secondo è che il target glicemico viene raggiunto più lentamente.
La glicemia a digiuno è detta basale e è diversa da quella postprandiale: si agisce sulla prima con un’insulina
basale, un’insulina lenta, che mantiene molto bene la glicemia basale; la terapia è molto semplice, si
somministra la sera una dose prestabilita che si aggiusta in base alla glicemia del mattino. Se la glicemia dopo
i pasti è elevata, e con gli altri farmaci non abbiamo ottenuto risultato, bisogna aggiungere delle dosi di insulina
rapida prima dei pasti (uno solo, due, oppure tutti). L’unione di queste insuline è detta terapia multiniettiva
basal-bolus. Con le nuove insuline basali, come ad esempio l'insulina glargine, si osserva una riduzione del
rischio di ipoglicemia notturno.
Ovviamente i soggetti sono diversi e bisogna tenere conto della loro diversità.
Qui si vede come personalizzare una terapia e stabilire il target del controllo glicemico anche in base al
pazeitnte e alle sue patologie del paziente. Per un soggetto anziano non abbiamo come priorità quella di
prevenire le complicanze a lungo termine, quanto invece ne abbiamo in un soggetto giovane (senza malattie
cardiovascolari, senza ulteriori problematiche) dove vogliamo raggiungere una situazione quanto più simile a
quella di un soggetto senza diabete.
SBOB: MARTINA GERZEL
REV:CHIARA GRIMANI
26/03/2019-3°ora
I surreni sono due piccole ghiandole con funzione endocrina; dalla sezione istologica si riconosce
una zona corticale e una zona interna: la midollare.
Nella corticale si distinguono altre tre aree:
• Glomerulare-> produzione di aldosterone, la cui secrezione è sotto il controllo
dell’asse renina-angiotensina
Dal glicogeno muscolare non può essere liberato glucosio .Vengono quindi formati lattato e piru-
vato che poi possono essere ritrasformati in glucosio e successivamente in glicogeno epatico che
invece può essere utilizzato. Il fegato (e in parte i reni) è l’organo deputato alla liberazione di gluco-
sio.
Anche il glicerolo può essere utilizzato per la sintesi di glucosio.
Le catecolammine possono essere determinate nel sangue (determinazione di tipo puntuale, di quel
momento) e nelle urine (più facile ,evidenzia la presenza di catecolammine nell’arco della giornata)
.Si misurano i cataboliti delle catecolammine: metanefrina, normetanefrina e acido vanilmandelico.
In questo modo si verifica se c’è un ipo- o iper-attività adrenergica.
Il FEOCROMOCITOMA è un adenoma benigno che si colloca a livello della midollare del surrene,
raramente in altre sedi.
• Il 90% dei casi è benigno
• Il 10% dei casi è maligno
Rilevanza della base genetica per lo screening.
Oltre alle catecolammine possono essere secreti peptidi diversi-> il quadro clinico può non essere
di facile diagnosi, anche perché la sintomatologia dovuta all’aumento della secrezione di tali so-
stanze è abbastanza aspecifica (ad esempio nel caso dell’ipercortisolismo si vanno a valutare prima i
livelli di cortisolo).
L’ipertensione è quasi sempre presente in soggetti affetti da feocromocitoma e la causa può essere
anche endocrina.
• Ipertensione continua (difficile la diagnosi differenziale). Può essere dovuta a ipersecrezione
di catecolammine in caso di resistenza ai farmaci.
• Caratterizzata da picchi ipertensivi (crisi)-> può essere dovuta ad un eccesso di secrezione
delle catecolammine.
Diagnosi di tipo biochimico: si ricercano i valori delle catecolammine e dei loro cataboliti nel san-
gue e nelle urine. È più utilizzato il dosaggio nelle urine.
N.B. alcuni farmaci possono andare a interferire con il dosaggio delle catecolammine urinarie-> in
caso di ricovero in ospedale tali farmaci vanno momentaneamente sospesi per fare il dosaggio.
Il test al glucagone non è più utilizzato in quanto la somministrazione per via endovenosa è perico-
losa perché può determinare una risposta di ipersecrezione di catecolammine-> crisi ipertensiva -
>possibili infarti, ictus, emorragie…
Il glucagone quindi stimola la secrezione di catecolammine in soggetti affetti da feocromocitoma.
N.B. il glucagone può anche modulare la motilità gastrointestinale.
Molti sintomi dell’ipertiroidismo sono causati anche dalle catecolammine: tachicardia, tremori..(te-
rapia con β bloccanti per limitare tali sintomi). La sudorazione invece è diversa : calda nell’iperti-
roidismo, fredda nel feocromocitoma.
Stimolazione della glicogenolisi da parte delle catecolammine e insulino-resistenza-> iperglicemia.
Soggetti ipertesi che manifestano ipotensione quando assumono la posizione eretta, in particolare se
poco idratati. Forse dovuta ad un blocco recettoriale, ad up-regulation dei recettori.
Dolore toracico
L’I-Metaiodiobenzilguanidina è utilizzato per fare la scintigrafia (MIBG): va a localizzarsi nelle
cellule della surrenale permettendo l’identificazione della sede; utile anche in caso di formazioni
extra-surrenaliche.
La PET utilizza i positroni.
Esame scintigrafico
La preparazione va fatta con il liquido di Lugol per evitare che la tiroide possa captare il tracciante.
In seguito si somministra il radioiodio (radio tracciante) in modo che venga captato selettivamente
dal surrene.
Una volta fatta la diagnosi di feocromocitoma e localizzato il tumore, il paziente non può essere
operato subito ma va preparato. Infatti per effetto delle catecolammine ha un volume vascolare ri-
dotto (dovuto alla vasocostrizione). Si rischia altrimenti di andare incontro a crisi ipertensive du-
rante l’intervento e crisi ipotensive subito dopo l’asportazione della massa.
La maggior parte degli interventi viene fatta per via laparoscopia: interventi mini-invasivi che pre-
vedono anche l’impiego di chirurgia robotica.
La malignità della forma tumorale è correlata all’estensione del feocromocitoma (varia se interessa
la capsula del surrene o i tessuti circostanti).
TERAPIA
Non ci sono farmaci specifici-> terapia oncologica.
La secrezione del CORTISOLO è sotto il controllo dell’asse ipotalamo-ipofisi. A sua volta l’ipota-
lamo è sotto il controllo di centri corticali superiori.
Modulazione della secrezione di neurotrasmettitori e neuropeptidi da parte dello stress.
Il cortisolo a sua volta esercita un feedback negativo sull’ipotalamo.
La concentrazione di cortisolo è quindi il risultato di diverse modulazioni.
L’ACTH deriva dalla pro-oppiomelanocortina dalla quale derivano anche le endorfine e l’α- e γ-
MSH che ha un ruolo nella pigmentazione della cute.
Nell’ipercortisolismo primitivo l’α-MSH va a ridurre il senso di fame.
Nella lezione precedente abbiamo parlato di surreni e nello specifico delle patologie della midollare del
surrene (feocromocitoma) e abbiamo parlato del ritmo circadiano del cortisolo, fondamentale per il
mantenimento di una funzione corticosurrenalica. Abbiamo inoltre parlato della biosintesi degli ormoni
steroidei, i quali viaggiano legati a delle proteine (albumina e corticotropin binding protein)mentre una
piccola porzione rimane libera. Abbiamo poi preso in considerazione la durata di azione del cortisolo e dei
vari farmaci di sintesi.
Di particolare importanza è ricordare il desametasone , che viene utilizzato nella parte diagnostica della
diagnosi dell’ipercortisolismo e viene utilizzato perché non interferisce con il dosaggio del cortisolo e quindi
può essere somministrato. Se noi somministriamo invece idrocortisone quando misuriamo il livello di
cortisolo questo è influenzato dalla somministrazione del farmaco.
Ipercortisolismo
Abbiamo eccesso di secrezione di cortisolo, condizione patologica nota come sindrome di Cushing , che
raccoglie tutte quelle condizioni dove abbiamo un eccesso di glucocorticoidi dovuto ad una eccessiva
produzione da parte del surrene o da una eccessiva produzione di ACTH che stimola la produzione di
cortisolo (prodotta da un tumore ipofisario o dalla somministrazione di cortisone esogeno). Questa
sindrome è caratterizzata da un eccesso di cortisolo con effetti patologici specifici.
La malattia di Cushing, descritta da Cushing (neurochirurgo americano di fine 800 che ha descritto casi di
Ipercortisolismo e li ha operati; si tratta di casi di ipercortisolismo legati ad un adenoma ipofisario ,
accompagnati quindi da un elevato livello di ACTH). Questa malattia fa riferimento alla ipersecrezione di
ACTH da parte dell’ipofisi (adenoma o microadenoma) e in alcuni casi può essere legata anche alla
ipersecrezione di CRH da parte dell’ipotalamo.
Quello che caratterizza questa malattia è che i livelli di ACTH aumentati ma non necessariamente di molto ,
ed è evidente alterazione del ritmo circadiano , quindi l’asse ipotalamo – ipofisi – surrene è alterato e
quindi la secrezione di cortisolo risulta anch’essa alterata; questo è importante perché in fase diagnostica è
su questo aspetto che si basa l’attività del desametasone. Aumenta la secrezione di cortisolo e per avere
feedback negativo le concentrazioni devono aumentare di molto altrimenti persiste questo deficit di
rapporto tra ipofisi e surrene e abbiamo un continuo rilascio di ACTH e cortisolo : viene meno il normale
feedback del cortisolo sulla ipofisi.
Esistono anche altre condizioni, ad esempio una condizione ectopica di ACTH (prodotta per esempio da un
tumore polmonare) , in cui i livelli di ACTH sono aumentati e in queste condizioni avremmo una
stimolazione eccessiva del surrene con aumento di cortisolo che andrà a fare feedback sull’ACTH prodotto
dalla ipofisi il cui rilascio vieni ridotto.
Le forme primarie sono legate ad adenomi surrenalici (tumori benigni) , con secrezione autonoma del
cortisolo svincolata dal controllo di ACTH e dal CRH. In queste condizioni l’aumento di cortisolo andrà ad
esercitare un feedback a livello ipofisario con soppressione della secrezione di ACTH. Questi aspetti sono
importanti per la diagnosi.
Vi è poi iperplasia nodulare, dove il surrene è iperplasico; può essere ACTH dipendente o indipendente.
Per quanto riguarda il feedback in questa condizione è variabile , quindi non sempre l’aspetto diagnostico è
semplice e agevole in questi soggetti.
La Sindrome di Cushing non è una condizione frequente che si manifesta nei giovani adulti , 40 – 60 anni;
mentre la Malattia di Cushing si presenta prima , e specialmente nelle donne.
SINDROME DI CUSHING
La malattia può essere ACTH dipendente, la quale riconosce una causa ectopica o ipofisaria, o indipendente
(è la forma primaria) tipicamente surrenalica (tumore o iperplasia surrenalica). La sindrome può essere :
Guardando la forma ACTH INDIPENDENTE la causa è a livello surrenalico e l’adenoma è la causa piu comune
, seguita da carcinoma e l’iperplasia. Nelle forme ACTH DIPENDENTE, nella maggior parte dei casi abbiamo
un adenoma ipofisario, in una piccola parte dei casi abbiamo una produzione ectopica di ACTH.
Molti casi di sindrome di Cushing sono legati alla somministrazione esogena di cortisonici ( per il
trattamento di patologie infiammatorie , dermatologiche). La somministrazione cronica può determinare la
comparsa i questa sindrome. In questi casi avremo un aumento della secrezione di cortisolo o del prodotto
che viene somministrato , quindi verrà svolta l’azione antinfiammatoria ma l’ipofisi vedrà una riduzione di
secrezione endogena di ACTH e questo fa in modo che venga meno lo stimolo, anche a livello surrenalico,
per la produzione di cortisolo e quindi i surreni vanno incontro a diversi gradi di atrofia e producono meno
cortisolo.
Se una persona interrompe una terapia esogena improvvisamente i surreni non sono in grado di produrre
cortisolo questo può creare una grave crisi addisoniana, ovvero una grave forma di ipocortisolismo. In
terapie con glucocorticoidi non si interrompe subito la somministrazione , ma gradualmente. Questa forma
nella prati a clinica è la forma piu comune.
Cause
- Iperplasia bilaterale
- Iperplasia multinodulare che non necessariamente è bilaterale
Il fatto di essere bilaterale ha importanza ai fini della terapia perché se è bilaterale in fase di terapia
chirurgica è necessario asportare entrambe i surreni e quindi fare una terapia sostitutiva.
A : Nella prima immagine vediamo l’asse normale.
B : abbiamo una condizione caratterizzata da aumento di ACTH per adenoma ipofisario che continuerà a
stimolare i surrene che vanno incontro a ipertrofia e iperproducono il cortisolo che fa feedback.
C : abbiamo un adenoma surrenalico (che interessa uno solo dei due surreni) che produce cortisolo che
inibisce l’ipofisi che produce meno ACTH e quindi il surrene controlaterale va incontro ad atrofia. Questo è
importante perché quando si rimuove il surrene dove ha sede il tumore è chiaro che l’altro surrene ,
essendo ipotrofico, non produce cortisolo quindi serve subito una terapia sostitutiva.
D ed E : tumore ectopico (ad esempio polmonare) che determina un aumento di ACTH e iperplasia delle
surreni che producono cortisolo che inibisce la produzione di ACTH ipofisario. Una volta tolto il tumore
abbiamo abbassamento di ACTH e quindi una persona può E : tumore che produce CRH
Pseudo Cushing
In questo caso può esserci una alterazione della secrezione di cortisolo che può essere non patologiche , ma
fisiologiche (ad esempio lo stress, malnutrizione) oppure può essere legata alla sfera psichiatrica, ad
esempio :
- Depressione
- Anoressia nervosa
Ma anche l’alcolismo cronico : in pazienti affetti da alcolismo cronico abbiamo , da un punto di vista
fenotipico , un quadro che richiama molto l’aspetto del paziente affetto da Cushing. Andando però a
indagare è possibile quasi sempre , con i test diagnostici , differenziare queste situazioni non patologiche
(per quanto riguarda la secrezione di cortisolo), dalla condizioni di effettivo eccesso di cortisolo.
Segni e sintomi
Slide 86 aspetti clinici della malattia di Cushing. Sono pazienti con obesità caratteristica, localizzata al
tronco e all’addome, che contrasta con le dimensioni degli arti che risultano rispetto al tronco molto piu
piccole; il motivo è che mentre nel tronco e nell’addome si deposita grasso , negli arti si osserva perdita di
massa magra. Parte del grasso si distribuisce in maniera particolare per esempio in sede cervicale e forma il
gibo e a livello del volto abbiamo guance rosse che conferiscono al soggetto aspetto particolare ; abbiamo
acne e aumento di peluria (nelle donne) perché può aumentare anche la secrezione di androgeni
surrenalici, assottigliamento dei capelli e spesso riduzione del fronte dei capelli con aumento della
esposizione della fronte.
La deposizione di grasso in zone particolari non ha una chiara ragione , ma probabilmente è legato al
cortisolo ma anche alla iperinsulinemia, perché in questi soggetti vi è un grado di insulino resistenza
variabile , dovuta all’eccesso di cortisolo, e questo determina una risposta compensatoria di insulina ;
probabilmente da questo connubio il grasso tende a depositarsi a livello addominale e del tronco. La cute è
generalmente sottile ed è facile osservare ematomi sottocutanei con ferite che tendono a guarire
lentamente e ecchimosi. Si osservano anche di strie rubre ovvero smagliature della cute specialmente a
livello addominale , di colore rosaceo (dovute al fatto che in quelle zone la cute è piu sottile e la colorazione
è data dai vasi sottostanti), al contrario delle smagliature tipiche delle persone obese, che sono tipicamente
bianche.
- Sintomi :riferiti
- Segni : osservati
Abbiamo depressione legata anche all’azione del cortisolo a livello centrale. Abbiamo anche dolore lombare
legato a microfratture delle vertebre lombari in questi pazienti che tendono a fare osteoporosi e quindi
fratture, prevalentemente a livello lombare.
Dal punto di vista clinico , il cortisolo contribuisce alla ipertensione con intolleranza ai carboidrati o diabete
franco, può essere presente ipopotassemia, soprattutto nei soggetti con secrezione ectopica di ACTH,
eventualmente predisposti a fare calcolosi delle vie urinarie.
INCIDENTILOMA: un primo riscontro può essere legato ad una ecografia , fatta anche per altri motivi , che
permette di scoprire un adenoma surrenalico.
Possiamo avere anche un certo grado di iperpigmentazione cutanea, tipica dei soggetti che hanno una
forma ACTH dipendente perché l’ACTH deriva dalla prooppiomelanocortina e tra i prodotti viene a esserci
anche l’ormone melanocita – stimolante che determina un certo grado di pigmentazione (che invece
vedremo caratterizzare in maniera classica la malattia di Addison).
Diagnosi
Non sempre è semplice fare la diagnosi. Il nostro obbiettivo è quello di stabilire che ci sia una secrezione
inappropriata di cortisolo e dobbiamo capire la causa dell’ipercortisolismo e dobbiamo stabilire se le forme
sono ACTH dipendenti o indipendenti (misurando l’ACTH) e nelle sindromi ACTH dipendenti dobbiamo
capire se sono legate a ipofisi o sono ectopiche.
Negli anni l’approccio alla diagnosi è stato modificato. Oggi si accede con un test di screening che può
essere la misurazione dei livelli il cortisolo urinario nelle 24h oppure la misurazione salivare del cortisolo la
sera oppure il test di soppressione con desametasone a basse dosi. Sono tutti molto validi ma il dosaggio
del cortisolo urinario richiede piu misurazioni (richiede delle conferme) , almeno 2 o 3 e il riscontro del
cortisolo a livello urinario; possono anche esserci dei falsi positivi di cui bisogna tenere conto oppure
integrare questo risultato con gli altri.
Sicuramente un test molto utile e il test al desametasone , che è un test di screening di primo livello ed è
un test rapido in cui somministriamo 1mg di desametasone alle ore 23 o 24 e il mattino successivo
misuriamo i livelli di cortisolo. Generalmente nel soggetto normale al mattino il cortisolo è inferiore a 1.8
microgrammi/dL (anche questo valore nel tempo è stato modificato nel tempo , prima era 5 e ora si è
abbassato a 1.8). Deve quindi esserci una soppressione: il principio della soppressione si basa sul fatto che
se somministro un glucocorticoide esogeno questo inibisce il rilascio di ACTH e quindi la secrezione di
cortisolo. Quando somministro il desametasone non ho interferenza con la valutazione dei livelli di
cortisolo (sono due glucocorticoidi ma uno è di sintesi mentre l’altro è naturale). Se i valori sono un piu alti
di 1.8 , aumentiamo un po’ il dosaggio e ripetiamo l’esame: possiamo dare per due giorni mezzo grammo al
giorno e al terzo giorno misurare di nuovo i livelli di cortisolo che deve sempre essere inferiore a 1.8. Se vi è
soppressione ci fermiamo qui; se non vi è soppressione significa che abbiamo eccesso di secrezione di
cortisolo e quindi dobbiamo procedere con gli accertamenti.
A questo punto dobbiamo pensare quindi all’adenoma ipofisario o alla patologia surrenalica o a quella
ectopica come possibili cause. Per indagare questi aspetti serve conoscere il valore di ACTH e poi vedremo
l’esecuzione di altri test in relazione al valore di ACTH. Piu in generale andremo ad eseguire anche esami i
immagine per Valutare l’ipofisi, i surreni e cosi via indaghiamo per neoplasie extrasurrenaliche e
extraipofisarie nel sospetto di secrezione ectopica di ACTH.
Ora dobbiamo dosare l’ACTH che può essere basso, quindi soppresso (sotto 5picogrammi per mL). slide 97
se l’ACTH è basso allora pensiamo ad una patologia surrenalica e quindi ad una forma ACTH indipendente; a
questo punto l’indagine viene indirizzata alla ricerca di un adenoma surrenalico. Se L’ACTH è leggermente
piu alto (ad esempio 10 picogrammi/mL) allora l’orientamento è verso una forma ACTH dipendente.
Possono esserci anche valori intermedi (tra 5 e 10 picogrammi / mL) , siamo in una zona grigia e facciamo
allora un test al CRH , con il quale possiamo avere un aumento della secrezione di ACTH nel caso di un
adenoma ipofisario perché c’è risposta, mentre non avremo risposta nel caso di una secrezione di ACTH
ectopica.
Quando vogliamo capire una forma ACTH dipendente la diagnosi differenziale è sostanzialmente tra
adenoma ipofisario e le forme ectopiche e qui possiamo usare il desametasone, questa volta ad alte dose
(Test di LIddle 2, chiamato così perché vengono usati 2mg di desametasone , al contrario del test Liddle 1
che usa 1mg) che ci serve per capire meglio la situazione (slide 98). Si può fare un test rapido
somministrando 8mg di desametasone alla sera alle 23 e poi al mattino si misura il cortisolo ; oppure si può
somministrare per i due giorni e al terzo giorno si misura.
Se vi è una soppressione, generalmente si considera piu del 50% del cortisolo, siamo verosimilmente di
fronte ad un Cushing ipofisario, quindi un adenoma ipofisario. Viceversa se non vi è soppressione , quindi
non c’è nessun impatto del desametasone sull’aumento di cortisolo allora possiamo essere di fronte ad una
secrezione ectopica.
Riassumendo : il desametasone ad alte dosi serve per fare diagnosi differenziale tra l’ACTH dipendente
ipofisario e ectopico. Quello a basse dosi invece è un test di screening di primo livello che serve per valutare
l’asse e iniziare eventualmente la terapia.
Un altro test utile per la diagnosi differenziale è il test al CRH per i valori intermedi tra 5 e 10, però la
somministrazione di CRH determina generalmente un aumento dell’ACTH nelle condizioni in cui alla base vi
sia una patologia ipofisaria e nessun aumento nel caso di un ACTH ectopico.
Queste sono le premesse ; a volte i dati sono molto chiari , altre volte no quindi bisogna continuare con le
indagini soprattutto nei casi di Cushing ciclico dove facciamo questi test e i risultati non sono interpretabili
quindi il soggetto va valutato nel tempo.
Nel caso in cui l’ACTH sia aumentato (forma dipendente) dobbiamo valutare in primis l’ipofisi (adenoma) e
quindi facciamo una risonanza magnetica , che rappresenta la tecnica diagnostica piu adeguata.
CAUSE DI CUSHING
In ordine di frequenza, abbiamo:
1. Adenoma
Vedi lezioni precedenti
2. Carcinoma
Vedi lezioni precedenti
-- Diagnosi:
La diagnosi spesso non è agevole. Ovviamente l'immagine aiuta a stabilire il grado di iperplasia
della ghiandola.
Qui sono riassunti quelli che sono i test utilizzati nella diagnosi, si parte dall'approccio iniziale e poi
man mano si procede.
Questo invece è l'algoritmo che può aiutare nel ricordare il processo diagnostico. Anche questo ha
l'intento di aiutare a ricordare le risposte al test eseguito.
-- Terapia:
Adesso chiaramente bisogna correggere l'ipercortisolismo, e quindi correggere quella che è la
condizione di base, che abbiamo detto essere è la malattia di Cushing, o un adenoma ipofisario.
L'approccio quindi è generalmente chirurgico, e nel 60-80% dei casi è risolutivo, mentre si
caratterizza per una recidiva nel 20-40% dei casi. L'intervento che si esegue oggi è quello per via
transnasosfenoidale, che è meno invasivo rispetto a una
craniotomia.
Ovviamente c'è una terapia medica, che può essere utilizzata
prima dell'intervento o nei pz che non possono essere sottoposti
all'intervento. Ci sono diversi farmaci, per esempio il
metirapone, che è una sostanza che inibisce la sintesi cortisolica,
agendo a livello della 11-idrossilasi. Però ecco generalmente
sono terapie che possono essere gravati a effetti collaterali.
Ovviamente si fa chemioterapia per le forme maligne.
Nelle forme caratterizzate da iperplasia nodulare la
surrenectomia può essere bi o monolaterale.
[Il professore salta alcune diapositive in quando già osservate con il porf. Puxeddu. Ci sono poi
delle diapo per quanto riguarda le sindromi adrenogenitali che possono essere utili come ripasso]
IPOCORTISOLISMO
Passiamo all'iposurrenalismo. Abbiamo una situazione di una forma:
• Primaria: classicamente è la malattia di Addison, in cui avremo
un'insufficienza, un danno, a livello del surrene, per cui avremo un aumento
dell'ACTH. Quindi viene meno il feedback da parte del surrene.
• Secondaria: riconosce una causa ipofisaria o ipotalamica, per cui è bassa la
secrezione di ACTH e quindi avremo ipocortisolismo causato
dalle ghiandole surrenali che vanno incontro ad atrofia.
-- Eziologia:
• Autoimmune: causa principale, almeno in Italia. Consiste in un danno cellulo-mediato del
surrene. Spesso questa patologia è associata ad
altre forme di endocrinopatia su base autoimmune
(diabete, tiroidite di Hashimoto, morbo di
Basedow, e altre patologie nell'ambito delle
poliendocrinopatie autoimmuni, che
comprendono anche patologie anche non
strettamente endocrine). Si è detto che la causa
principale è quella autoimmune. In realtà, questo
è quello che si riscontra nel surrene nell'ambito di
questa patologia, e l'aspetto autoimmune è sottolineato dal fatto che si formano degli
anticorpi che non hanno un ruolo per quanto riguarda il danno d'organo, ma hanno un ruolo
soprattutto per quanto riguarda la predizione allo sviluppo di insufficienza surrenalica, in
particolare 21-idrossilasi. Sono diversi anticorpi ma questi sono quelli più importanti che di
solito si misurano nei soggetti con sospetto di
ipocortisolismo, o anche in soggetti che hanno altre
condizioni endocrine autoimmuni che sono a
maggior rischio di avere anche l'ipocortisolismo.
Quindi un pz che ha una tiroidite di Hashimoto per
esempio deve fare uno
screening anche per questo
aspetto.
In realtà come vedete poi queste
sono le altre condizioni sempre su
base autoimmune che possono associarsi alla malattia di Addison.
• Infiltrativa
• Emorragica: la terapia anticoagulante può aiutare, si è visto che ci sono stati casi di necrosi
emorragica del surrene
• Collagenopatie
• Patologie neoplastiche
Torno un attimo sulla presenza di anticorpi che hanno un valore predittivo per quanto riguarda lo
sviluppo di iposurrenalismo. Il riscontro di anticorpi positivi in un soggetto ci spinge a valutare la
riserva surrenalica, quindi a eseguire dei test di stimolazione per vedere se il surrene del soggetto è
in grado di secernere in maniera adeguata il cortisolo, altrimenti in relazione all'entità del deficit di
secrezione va presa in considerazione l'ipotesi di avviare o meno la terapia sostitutiva.
Eventualmente ripeto il test periodicamente e qualora vedo un deficit importante si avvia una
terapia. Questi sono soggetti sono quindi seguiti nel tempo, vanno inseriti in un follow-up
endocrinologico per questo aspetto.
-- Segni e sintomi:
Sintomi:
• Debolezza, affaticamento: ci sono sempre
• Mancanza di appetito: in parte è dovuto al fatto che probabilmente vi è anche un problema
proprio a livello delle aree che controllano l'appetito, quindi il soggetto tende a perdere peso
• Sintomi addominali, gastrointestinali (nausea, vomito)
• Dolori addominali, muscolari
• Vertigini: espressione di ipotensione ortostatica. Si tratta infatti
di soggetti che generalmente sono anche disidratati, quindi
ipotesi. Si è detto che la mancanza di surreni determina la morte
dell'animale, e la morte avviene soprattutto per shock
ipovolemico, quindi l'ipotensione è sicuramente un aspetto
molto utile.
Segni:
• Perdita di peso
• Ipotensione
• Pigmentazione della cute e delle mucose. Ovviamente qui facciamo riferimento alla forma
primaria, alla classica malattia di Addison, quindi con danno surrenalico e
ipersecrezione di ACTH. Spesso è poco evidente a livello della
cute e più evidente a livello delle mucose, soprattutto gengivali.
Sempre per la forma primaria. Vedete come è evidente a livello di
cicatrici e pieghe cutanee. Immagine di prima e dopo la cura.
Quindi questo è un segno classico.
E vedete anche le aree di vitiligine che possono essere presenti. La
vitiligine voi sapete è una malattia autoimmune, quindi è una condizione
in questi soggetti che riconosce come meccanismo di base un danno
autoimmunitario.
Vediamo anche questa pz prima e dopo la cura. Vedete il dimagrimento,
la colorazione come cambi dopo la cura, che è molto semplice.
Una cosa che qui non vedo è che dal punto di vista del laboratorio, e quindi anche clinico, è
presente l'ipoglicemia, cioè questi soggetti vanno incontro facilmente a
ipoglicemia, e può essere anche grave, importante tanto da compromettere
lo stato di vigilanza del soggetto e quindi peggiorare il quadro
neuorologico, che si può presentare con sopore, e si risolve con la
somministrazione di zucchero.
-- Diagnosi:
Nella forma primaria:
• I valori di cortisolo saranno bassi.
• Nella forma primaria avremo livelli di ACTH aumentati, anche moderatamente.
• Possono essere bassi anche gli altri ormoni prodotti dal surrene.
• Per stabilire l'eziologia, quindi soprattutto l'eziologia autoimmune che ripeto è la più
comune, si esegue la determinazione di anticorpi, in particolare di quelli elencati nella slide,
che poi come è spiegato sotto hanno questo ruolo di predizione di insufficienza ghiandolare
nel tempo.
Vi è ovviamente anche una forma di Addison bianco, secondario, dovuto a una ridotta secrezione
di ACTH o di CRH. Generalmente si considera anche in un contesto di ipopituitarismo, quindi una
ridotta funzione ipofisaria più ampia, dove sono coinvolti anche deficit di altri ormoni (GH, TSH
etc.) e quindi sostanzialmente una forma che non è
caratterizzata da iperpigmentazione, questo già rende
la diagnosi un po' più difficile. Inoltre, siccome
abbiamo visto che i mineralcorticoidi sono sotto il
controllo del sistema renina-angiotensina, questi
ormoni verranno prodotti, per cui l'ipotensione, soprattutto l'ipotensione grave, è meno comune.
Questi sono numeri per stabilire più o meno il deficit di cortisolo (ICSP = insufficienza
corticosurrenalica primitiva). Valori bassi di cortisolo sono
sostanzialmente indicativi di insufficienza d'organo, soprattutto a
fronte di valori elevati di ACTH (forma primaria!). Quello che si
può fare è un test di stimolazione con ACTH per vedere se in
realtà questa è una risposta adeguata. Al di sotto di 20μg la
risposta risulta deficitaria. Quindi quando noi vogliamo valutare
la riserva surrenalica, utilizziamo il test all'ACTH.
Nei pz che hanno gli anticorpi positivi facciamo il test all'ACTH,
sulla base del risultato ci regoliamo se avviare una terapia oppure
seguirli nel tempo e periodicamente riproporre il test per stabilire il grado di deficit di cortisolo.
Considerate che non tutti i soggetti che hanno anticorpi positivi hanno un deficit di cortisolo, o
andranno incontro a una ipofunzione, probabilmente parliamo di un 50-60% che andranno incontro
a un ipocortisolismo, ma una certa quantità di persone mantiene nel tempo una buona funzione
surrenalica. Però per stabilire questo bisogna seguirli nel tempo.
Vedete sostanzialmente un algoritmo per stabilire la diagnosi di ipocrtisolimso primario o
secondario, che un po' vi può aiutare a ricordare questi aspetti.
-- Terapia:
La terapia dell’ipocortisolismo, cornico e acuto, è un aspetto che invece va puntualizzato e che vi
chiedo di ricordare. Questo lo dico proprio per esperienza, è qualcosa che dobbiamo sapere bene,
perché mettere in atto una terapia adeguata in un pz che può avere un ipocortisolismo acuto
significa salvargli la vita.
Questa è la terapia cronica, si tratta di un deficit ormonale di cortisolo, quindi ridiamo cortisolo
dall'esterno:
• Cortisone acetato: questo farmaco si usa da molti anni, e
lo si dà 2-3 dosi al giorno, quindi la dose maggiore al
mattino, poi una dose al pomeriggio e eventualmente una
dose nel tardo pomeriggio, per un massimo di 25-37,5
mg/gg. Per alcuni soggetti si può dare meno, per altri la
dose effettivamente è quello.
• Idrocortisone: alla dose di 15-25mg/gg.
Il concetto è di dare comunque il cortisolo, sotto forma di
idrocortisone o cortisone acetato, in queste quantità, ogni
giorno.
Soprattutto nelle forme primarie, il danno dell'organo può essere
esteso a tutto l'organo, quindi anche alla zona glomerulare, per
cui si ha un deficit anche di mineralcorticoidi. Ovviamente avremo anche una sintomatologia legata
a questo deficit, in particolare l'ipotensione, che sarà accentuata, e anche l'ipotensione ortostatica.
Quindi dobbiamo reintegrare anche i mineralcorticoidi, e nella pratica clinica in realtà l'unico
farmaco che si utilizza è il fluoroidrocortisone, un farmaco anche questo molto vecchio ma sempre
molto efficace (che tra l'altro non è disponibile nelle nostre farmacie ma bisogna procurarlo nelle
farmacie del Vaticano o San Marino, per esempio in ospedale facciamo delle richieste ad hoc) e va
somministrato alla dose 0,05-0,2mg/gg, una volta al giorno. Questo ha la funzione di ristabilire la
pressione arteriosa, quindi ristabilire i livelli di pressione adeguati e quindi prevenire l'ipotensione
ortostatica.
Poi in alcune situazioni eventualmente va in qualche modo reintegrato il deficit di ormoni andorgeni
che può realizzarsi ripeto quando il danno ha interessato tutta la corteccia.
Quindi mi raccomando terapia con cortisone acetato e idrocortisone, le dosi queste tutti i giorni.
Invece quando siamo in condizioni di emergenza (possono essere per condizioni che siano
subentrate, prima si parlava di febbre etc) o quando comunque la dose per via
orale non viene assorbita in maniera adeguata allora va somministrata in vena o
per via intramuscolare, ovviamente in ospedale si usa la via endovenosa, a
domicilio la via intramuscolare, alla dose di inizio almeno 100mg e poi seguita
da altre somministrazioni ad esempio durante la giornata di 50mg ogni per
esempio 6h, quindi bisogna assicurare una quantità di cortisolo adeguata
nell'arco di 24h.
Solo questo non basta perché questi soggetti si diceva tendono a perdere
volume, quindi disidratarsi, per cui è fondamentale anche la correzione della volemia, quindi
l'idratazione di questi soggetti. In parte questa idratazione può essere attuata con soluzione
glucosata nel caso in cui la glicemia sia bassa.
Quindi se uno ha un sospetto di un'insufficienza corticosurrenalica acuta la terapia va iniziata
subito, e si può iniziare anche con i glucocorticoidi di sintesi, anche con il desametazone, se dopo si
vuole misurare anche i livelli di cortisone, perché abbiamo visto il desametazone per esempio non
interferisce col dosaggio. Oppure si esegue un prelievo basale e poi si inizia la terapia, e dal
prelievo eventualmente risulteranno dei bassi valori di cortisolo. Però il concetto è di iniziare subito
la terapia. Ecco questo è un punto che dovete ricordare sempre, anche quando sarete medici.
INCIDENTALOMI
Abbiamo detto che il surrene può essere sede di adenomi, carcinomi, secernenti cortisolo, però
sempre più spesso si riscontrano delle masse localizzate a livello del surrene che possono non
secernere nulla, e vengono chiamati incidentalomi. Oppure possono secernere cortisolo ma non
abbiamo ancora una clinica evidente, per cui dal punto di vista della diagnosi il soggetto deve
andare incontro a un iter diagnostico. Però la
situazione classica è che il soggetto fa un esame per
esempio per la colecisti, si indaga e si scopre che ha
un nodulo a livello del surrene. Quindi tutto parte
come incidentaloma, come qualcosa che non secerne
ormoni, perché non vi è una clinica, poi bisogna
indagare e può darsi che quello che era un
incidentaloma in realtà è un adenoma che inizia a
secernere l'ormone.
Generalmente queste formazioni possono essere adenomi non secernenti. La dimensione della
formazione può fare una differenza per quanto riguarda il
tipo di struttura, quindi se adenoma o carcinoma in
relazione alle dimensioni.
IPERALDOSTERONISMO
La secrezione di aldosterone è sotto il controllo del sistema renina-angiotensina, che si attiva per
l'ipovolemia e iponatriemia, L’aldosterone determina un aumento
del riassorbimento di sodio e liquidi.
L'iperaldosteronismo può essere primario o secondario.
Primario
-- Eziologia: (primaria)
• Formazione surrenalica, ad esempio l'adenoma che secerne
aldosterone, che denota una condizione nota come morbo o
malattia di Conn. Quindi un adenoma può produrre cortisolo in eccesso, però può produrre
anche aldosterone.
• Iperplasia bilaterale (iperaldosteronismo primario idiopatico)
• Forme meno comuni, fra cui il carcinoma e l’iperaldosteronismo primario familiare di tipo I
e II.
-- Clinica:
• Ipertensione arteriosa: caratteristica clinica di questa condizione. Abbiamo ipertensione nel
feocromocitoma, nel Cushing, e ora come elemento distintivo dell'iperaldosteronismo.
L'ipertensione può essere di grado moderato ma anche severa, e spesso è resistente al
trattamento farmacologico. Questo può essere un campanello di allarme, uno utilizza più
farmaci però la pressione rimane alta
• L'ipopotassiemia spesso è aggravata dall'uso di diuretici, e dà come sintomi crampi,
debolezza muscolare, parestesia.
• Spesso tutto inizia con un riscontro di un incidentaloma,
quindi una formazione surrenalica apparentemente. In un
soggetto iperteso non necessariamente un adenoma deve
secernere aldosterone, però le indagini lo possono poi
documentare.
• Un aspetto che caratterizza questa condizione è che vi è
una tendenza ad andare incontro ad eventi cardiovascolari
in età anche piuttosto giovane, spesso anche nei familiari
di questi soggetti.
-- Diagnosi:
L'aspetto che caratterizza questa forma è che l'aumento di aldosterone non può essere soppresso con
quelli che sono normalmente i parametri che determinano una
riduzione di aldosterone, quali ad esempio l'espansione di
volume, l'aumento dell'apporto di sodio, sono tutti aspetti che
poi possono essere usati in fase diagnostica.
Per la diagnosi si utilizza in realtà il rapporto
aldosterone/renina, che normalmente è al di sotto di 20-25.
quindi non è solo aldosterone, ma l'aldosterone insieme alla
renina. Chiaramente nei soggetti che hanno iperaldosteronismo
primitivo questo rapporto tenderà ad aumentare perché la
concentrazione di aldosterone è aumentata rispetto a
quella che è la secrezione di renina.
Si possono fare dei test dinamici, espansione di volume,
test al captopril, tutte condizioni che normalmente
riducono la secrezione di aldosterone, ma che in questi
soggetti non si verifica. Li vedete qui descritti, ma
insomma il concetto è che non vi è una soppressione della
secrezione di aldosterone.
[I vari metodi secondari vengono analizzati brevemente
in slides qui non riportate – ndr]
Quindi la secrezione è autonoma, svincolata dal controllo
della renina, del volume, del sodio, e l'aspetto clinico
principale è l'ipertensione arteriosa in soggetti spesso giovani.
Quindi la diagnosi è biochimica, il rapporto tra aldosterone e renina, e poi ovviamente l'immagine ci
permetterà di individuare la sede e quindi il surrene interessato.
-- Terapia:
La terapia chiaramente è chirurgica e consiste nell'asportazione del surrene.
Secondario
È legato generalmente a un ridotto flusso a livello renale, quindi il fatto che si venga a realizzare
una riduzione di flusso a livello renale fa sì che aumenti la secrezione di renina e quindi di
aldosterone. È una condizione quindi diversa e generalmente riconosce come origine una stenosi a
livello dell'arteria renale, una stenosi che può essere su base aterosclerotica o per firodisplastica,
soprattutto nei soggetti più giovani. [Eziologia, clinica, diagnosi e terapia vengono descritti in
slides qui non riportate – ndr]
IPERTENSIONE ARTERIOSA
Tutto quello che comporta l'ipertensione arteriosa, soprattutto se grave e nel tempo, con un impegno
eventualmente anche cardiaco, rischio di edema polmonare acuto, ictus eccetera.
[Iperplasia congenita e deficit enzimatici vanno visti autonomamente]
Poi c'è da dire che l'ipertensione arteriosa è comune a diverse patologie endocrine, abbiamo visto il
Cushing, feocromocitoma, iperaldosteronismo primario, ma anche iper e ipotiroidismo, acromegalia
oppure con l'uso degli ormoni esogeni. Quindi l'ipertensione arteriosa è essenziale nella maggior
parte dei casi, in un 10% dei casi riconosce una causa da disturbi endocrini.
Sbob.: Anna Degliesposti
Rev: Chiara Grimani
02/04/19-1°ora (9-10)
ASSE IPOTALAMO-IPOFISIARIO
Ipotalamo e ipofisi sono delle strutture connesse dal punto di vista anatomico e funzionale.
L’asse regola la maggior parte delle ghiandole endocrine e riceve feedback da parte delle strutture
superiori che integra con stimoli periferici in modo da determinare poi segnali ormonali che vanno a
regolare a loro volta le ghiandole stesse.
IPOTALAMO
L’ i p o t a l a m o è u n a s t r u t t u r a
diencefalica, è collocato vicino al
chiasma ottico. In presenza di
adenomi ipofisari viene compresso
il chiasma ottico e abbiamo
problemi oculari.
L’ ipotalamo è formato da nuclei
collocati nella porzione anteriore,
posteriore e mediale. Questi nuclei
sono implicati in modo diverso nel
controllo della funzione ipofisaria,
particolare rilevanza hanno i nuclei
sopraottico e paraventricolare.
L’ipotalamo oltre a quella ormonale,
svolge numerose funzioni:
• È implicato nel meccanismo della gratificazione (neurotrasmettitore: dopamina);
• Ruolo nel comportamento alimentare: regolazione dell’appetito e della sete. Nell’ipotalamo
sono presenti i nuclei oressigeni e anoressigeni regolati da input superiori, ma anche da
segnali periferici. Ad esempio la leptina, ormone prodotto dal tessuto adiposo dopo i pasti,
riduce il senso di appetito e agisce sui nuclei anoressigeni, anche l’eccesso di insulina dopo
il pasto agisce sui nuclei anoressigeni. Lo stesso vale per gli ormoni che arrivano
dall’intestino come GLP1 (glucagon like peptide 1), secreto subito durante il pasto e stimola
la secrezione di insulina mentre inibisce la secrezione del glucagone. Viceversa ormoni quali
la grelina, prodotta dallo stomaco in condizioni di digiuno, stimolano i nuclei oressigeni,
quindi stimolano l’appetito. I nuclei ipotalamici stimolati durante il pasto attivano una serie
di risposte: aumento motilità intestinale, variazioni emodinamiche (pressione), aumento del
flusso ematico all’intestino: tutto è finalizzato a favorire il processo digestivo.
• Implicato nel comportamento di difesa/ stress fisico o psicofisico: determina una variazione
di ormoni periferici quali catecolammine e cortisolo che determinano variazioni
emodinamiche con aumento di flusso nei muscoli.
• Controllo della glicemia e prevenzione dell’ipoglicemia. A livello ipotalamico abbiamo dei
sensori dell’ipoglicemia.
N.B. Se si induce ipoglicemia sistemica con infusione di insulina, mentre a livello
ipotalamico si somministrava glucosio la risposta difensiva non parte.
• Termoregolazione: mantiene costante la nostra temperatura endogena, fondamentale per far
sì che i processi biochimici si svolgano in maniera ottimale. L’ipotalamo rileva la
temperatura esterna tramite sensori cutanei e li integra con quelli endogeni ristabilendo una
temperatura adeguata tramite il sistema nervoso simpatico (vasocostrizione, vasodilatazione,
sudorazione, brivido).
A livello ipotalamico viene stabilita quella che è la ritmicità di tutti gli ormoni, che è
fondamentale per la normale funzione delle ghiandole endocrine. Se vi è un’alterazione del
ritmo sonno veglia ad esempio nei lavoratori che fanno turni notturni, abbiamo un’alterazione
della ritmicità e si verifica un adattamento.
Gli ormoni prodotti a livello ipotalamico sono fattori di rilascio che stimolano la secrezione
delle tropine ipofisarie. Abbiamo il fattore di rilascio della prolattina (PRH), TRH, CRH,
GHRH e fattori di rilascio per le gonadotropine (GnRH).
!
Abbiamo anche dei fattori che inibiscono il rilascio delle tropine ipofisarie. Ad esempio il
fattore di inibizione del rilascio di prolattina è la dopamina, questa inibizione è continua sulle
cellule dell’ipofisi.
L’iperprolattinemia è correlata con un’alterazione di questa inibizione. La prolattina è anche
stimolata dal TRH quando si trova ad alte concentrazioni (es. ipotiroidismo). Quindi se ci si
presenta una ragazza con iperprolattinemia, e quindi amennorrea, dobbiamo indagare anche la
tiroide.
Un altro fattore inibente è la somatostatina, prodotta anche nel pancreas e nell’intestino che
modula la secrezione di insulina e glucagone. Poi abbiamo un fattore che inibisce la secrezione
del GHRH.
Abbiamo visto che il sistema portale è presente anche nel surrene per fare in modo che
concentrazioni elevate di cortisolo possano raggiungere la midollare e stimolare la secrezione di
catecolamine.
IPOFISI
L’ipofisi è costituita da una parte anteriore detta adenoipofisi, da una parte posteriore detta
neuroipofisi e da una parte intermedia poco rappresentata.
L’adenoipofisi deriva dalla tasca di Rathke e ha origine ectodermica. Si forma un’invaginazione che
tende a chiudersi e poi in parte ingloba la parte tuberale. La neuroipofisi deriva dal pavimento del
terzo ventricolo.
Sono due strutture diverse dal punto di vista dell’embriogenesi.
Lobo posteriore ipofisi: libera ormoni che sono prodotti a livello ipotalamico e trasportati poi a
livello neuroipofisario, quest’ultimo rappresenta una sorta di “magazzino”.
Lobo anteriore ipofisi: sintetizza le tropine ipofisarie sotto il controllo dei fattori ipotalamici che
giungono all’adenoipofisi tramite il sistema portale.
Aspetto importante: la vasopressina che normalmente non è implicata nel controllo degli ormoni
dell’adenoipofisi, in situazioni di stress può controllare la secrezione di ACTH.
Tropine ipofisarie
Tropine perché hanno un ruolo trofico sulle ghiandole a valle, se diminuisce la secrezione di queste
tropine le ghiandole a valle vanno incontro a atrofia.
• TSH: ha una secrezione circadiana, quindi anche il rilascio di ormoni tiroidei ha una
ritmicità. E’stimolato da una diminuzione degli ormoni periferici T3 e T4 e dal TRH, mentre
la dopamina e l’aumento di T3 e T4 (tramite feedback corto e lungo) ne inibiscono il
rilascio. Infine la somatostatina può modulare la secrezione di TSH.
E’ l’elemento fondamentale per fare diagnosi di ipertiroidismo (TSH basso) o ipotiroidismo
(TSH alto). Eccezione: se il TSH è basso potrebbe essere anche un deficit ipofisario, un
ipertiroidismo secondario con anche T3 e T4 bassi;
• ACTH: deriva dalla pro-opiomelanocortina insieme all’ MSH (ormone melanocita
stimolante) e alle beta-endorfine importanti nella percezione del dolore e stimolate
dall’attività fisica. Il picco dell’ACTH si verifica nelle prime ore del mattino, è
fondamentale per la funzionalità della zona fascicolata e reticolare del surrene (la zona
glomerulare è sotto il controllo dell’angiotensina). La regolazione è a feedback da parte dei
glucocorticoidi (cortisolo) che agiscono a livello ipofisario e ipotalamico.
L’MSH stimola la pigmentazione cutanea e ha una funzione anoressigena. Per questo
motivo nel morbo di Addison con ipocortisolismo si ha mancanza di appetito e maggiore
pigmentazione cutanea per aumento di questi fattori. Il cortisolo di per sé è un ormone che
stimola l’appetito;
• FSH, LH (gonadotropine): agiscono a livello delle gonadi, testicoli e ovaie, promuovono
lo sviluppo, maturazione dello sperma e dei follicoli e stimolano la produzione degli ormoni
sessuali quali testosterone e estradiolo.
• PROLATTINA: è sotto il controllo della dopamina ipotalamica. Fisiologicamente aumenta
durante la gravidanza per preparare la mammella alla lattazione e durante la lattazione
stessa.
Effetti: stimola lo sviluppo dei lobuli della mammella, la sintesi del latte e ha azione
negativa sulla funzione riproduttiva poiché blocca la progressione del ciclo ovarico (inibisce
LH).
Anche in condizioni di stress aumenta la prolattina.
La secrezione della prolattina è stimolata dal TRH (escludo sempre ipotiroidismo nelle
persone che hanno iperprolattinemia), dall’ ossitocina, dal VIP e dalla suzione.
I fattori che inibiscono il suo rilascio sono dopamina e GABA.
Per l’eiezione del latte è necessario che ci sia uno stimolo che è quello della suzione. In
questo processo entra in gioco l’OSSITOCINA che stimola le miocellule della ghiandola
mammaria, inoltre è implicata anche nelle contrazioni uterine durante il travaglio.
SBOB: FABIANA CALICIOTTI
REV: ROBERTA LOCATELLI
02/04/2019 2° ora mattina
Il GH, o ormone della crescita, una volta veniva chiamato ormone somatotropo. Le cellule che lo
producono sono localizzate nella parte laterale dell’ipofisi (le cellule localizzate nella parte centrale
producono ACTH e TSH). Circola in forma libera, e in piccola parte in forma legata alle proteine
specifiche per il trasporto dell’ormone della crescita, le GHBP (GH binding protein).
Azioni dell’ormone della crescita:
• Agisce su tutti gli
organi, perché tutti gli
organi sono soggetti ad
un accrescimento.
• Ha un’azione
METABOLICA.
• A livello epatico
stimola la produzione di
somatomedine, in
particolar modo di
IGF1; anche IGF2 ma
in piccola parte, perché
è poco presente
nell’adulto, è per lo più
presente in età infantile.
IGF 1 è il fattore
mediante il quale agisce
il GH, quindi su molti tessuti non agisce direttamente. Riconosce un meccanismo per quanto
riguarda l’azione recettoriale simile alla prolattina, quindi tramite l’attivazione di questa
proteina è in grado di provocare una risposta metabolica intracellulare.
In sintesi l’ormone della crescita regola la crescita tissutale e ha un’azione sul metabolismo. Queste
azioni, soprattutto per quanto riguarda la crescita, sono svolte in collaborazione con altri ormoni tra
cui:
- L’insulina;
- Gli ormoni tiroidei, che hanno un ruolo importante nella crescita, tanto che un deficit di
ormoni tiroidei durante la crescita può portare a danni importanti sia a livello neurologico
che a livello osseo, con forme di anomalie dello sviluppo dello scheletro;
- Gli ormoni sessuali;
- In parte gli estrogeni.
Quindi la crescita in generale è un processo complesso, sicuramente l’ormone della crescita svolge
un ruolo importante, ma in seguito all’azione di questi ormoni. L’azione sugli organi è in parte
diretta, in parte indiretta, grazie a dei fattori insulino-simili.
Gli effetti metabolici
diretti sono:
- Stimolazione della
sintesi proteica
- Stimolazione della
lipolisi, che
determina un
aumento degli
acidi grassi
liberati, i quali a
loro volta
andranno a inibire
la produzione di
GH. La lipolisi
determina anche
un aumento di
corpi chetonici
durante il digiuno
e durante l’aumento della glicemia.
- Sulla glicemia ha un effetto iperglicemizzante, anche se può mostrare sulla fase iniziale
anche un moderato effetto di riduzione della glicemia. L’effetto che domina in generale è
l’effetto di iperglicemia. Anche l’aumento della glicemia esercita un feedback negativo sulla
secrezione di GH. Quindi se aumenta la glicemia si riduce la secrezione di GH, se
aumentano gli acidi grassi si riduce la secrezione di GH. Gli effetti diretti sulla glicemia
sono: glicogenolisi, gluconeogenesi e aumento dell’insulino-resistenza.
- Allungamento delle ossa e crescita lineare dell’organismo. Un effetto molto importante lo
abbiamo in particolar modo sulle cartilagini, dove praticamente avviene l’allungamento
dell’osso. L’azione è quella di stimolare la differenziazione delle cellule precondroblastiche,
in condroblastiche, stimolando la maturazione dei condrociti e determinando l’allungamento
della cartilagine distale.
Questa diapositiva ci vuole un
po’ ricordare l’azione del GH, in
parte mediato da IGF1 per
quanto riguarda la
differenziazione e quindi il
processo che coinvolge la
cartilagine di accrescimento:
grazie all’azione dell’ormone sia
ha una maturazione e
differenziazione dei condroblasti
e viene a determinarsi un
processo di ossificazione che fa
sì che avvenga l’allungamento
dell’osso, e quindi la crescita.
Questo ci fa capire quanto sia
importante quest’ormone nel
bambino, nella fase di crescita
puberale e nell’adolescenza: se
abbiamo deficit ipofisario di
quest’ormone si determinerà nanismo ipofisario.
Le somatomedine hanno effetti
simili al GH (effetti indiretti):
- Accrescimento dell’osso
- Aumento della massa
muscolare: è un aspetto molto
importante perché l’ormone della
crescita viene utilizzato nel doping,
insieme ad ormoni anabolizzanti
come testosterone
- Riduce la massa grassa
- Sul metabolismo hanno
effetti opposti perché causano una
riduzione della glicemia nella prima
fase di produzione di GH mediata da
IGF1, ma l’effetto globale è
l’iperglicemia
- Lipogenesi, quindi captano
glucosio e formano acidi grassi.
LE PATOLOGIE DELL’IPOFISI
L‘ipofisi può funzionare meno, in questo caso parliamo di ipopituitarismo e possiamo distinguerlo
in:
❖ Primario. Riconosce una causa primaria, un danno a livello ipofisario. Questo può avere
diverse cause: iatrogeno (un intervento chirurgico dell’ipofisi, o radiazioni. In questo caso il
meccanismo è noto, si fa una radioterapia, si osservano i segni clinici, ed eventualmente si fa
terapia ormonale sostitutiva), traumi cranici, cause infiammatorie (infettive o
autoimmuni), malattie infiltrative come emocromatosi e metastasi, cause vascolari, e
ovviamente tumori. Questi ultimi nella maggior parte dei casi sono benigni e questi
possono essere SELLARI (localizzati a livello della sella turcica dove si trova l’ipofisi) o
SOPRASELLARI (crescono soprattutto verso l’alto e invadono la regione sopra sellare) e
quindi determinare effetti di compressione e meccanici a livello delle strutture vicino dove si
trovano la sella e il chiasma ottico. Quindi vi sarà, nel caso in cui il tumore cresca, una
clinica legata proprio alla compressione dell’adenoma sulle strutture vicine; poi vi sarà una
clinica legata al fatto che quel tumore non è in grado di secernere determinati ormoni.
Un'altra sindrome che si può avere è la sindrome della sella vuota: l’ipofisi c’è, ma è
schiacciata dalle meningi che si approfondano a livello della sella, e la funzione della
ghiandola può essere del tutto normale; spesso viene rilevata tramite immagini, risonanza
magnetica. Un’ulteriore condizione è la necrosi ischemica.
❖ Secondario: qui la causa va cercata a livello ipotalamico. Viene meno la secrezione di
ormoni ipotalamici che stimolano la secrezione di tropine ipofisarie e anche questo può
riconoscere diverse cause: iatrogena (farmaci di vario tipo come i corticosteroidi che
inibiscono la secrezione di ACTH, e cause chirurgiche che determinano l’interruzione del
peduncolo ipofisario, quindi un danno nel sistema ipotalamo-ipofisi); traumi cranici (se vi
è un danno al livello del peduncolo ipofisario aumenta la secrezione di prolattina che
normalmente è soggetta a controlli inibitori della dopamina ipotalamica →
iperprolattinemia); processi infiammatori che interessano l’ipotalamo (deficit di fattori di
rilascio ipotalamici e quindi una ridotta secrezione di ormoni ipofisari); tumori soprasellari
(che possono però interessare la sella per contiguità per esempio craniofaringiomi);
anoressia.
Il quadro clinico dipende dal deficit dell’ormone coinvolto. Si possono avere conseguenze
endocrine ma anche non strettamente endocrine: il deficit di GH può influenzare la crescita, ma
anche la prolattina, con compromissione del processo di lattazione.
L’ espressione clinica dipende da:
❖ L’estensione del deficit: la gravità del coinvolgimento ipofisario può essere interessato un
solo tipo cellulare come un deficit di ACTH o TSH, oppure di più ormoni ipofisari, di
conseguenza avremo dei quadri di gravità variabile fino al più grave che coinvolge tutta
l’ipofisi, si parla di panipotuitarismo.
❖ L’Epoca di insorgenza: se si presenta nei bambini, nell’adulto, durante la gravidanza ecc…È
chiaro che se il deficit di GH si manifesta nel bambino andrà incontro a nanismo, mentre se
si manifesta nell’adulto avrà dei problemi metabolici, ma non dei deficit che possono
coinvolgere l’apparato e la struttura.
❖ La rapidità con cui insorge il deficit, se è più elevata possono insorgere dei quadri clinici
assolutamente gravi, (ricordiamo il deficit di ACTH che se insorge con rapidità porta a un
ipocortisolismo acuto, una condizione grave che richiede una terapia immediata con
somministrazione di idrocortisone altrimenti si rischia di morire). Oppure un danno che si
manifesta più lentamente e che può essere meno facile da riconoscere inizialmente, ma
sicuramente non mette a rischio la vita del soggetto.
DEFICIT UNITROPICI
• Se mancano le
gonadotropine ipofisarie
l’effetto principale è
l’ipogonadismo ed è un
danno di tipo secondario (non
interessa le gonadi
principalmente ma è la
conseguenza del deficit delle
gonadotropine ipofisarie),
avremo in questo caso delle
concentrazioni basse di
gonadotropine. Se questo si
sviluppa in età prepubere il
soggetto non svilupperà i
caratteri sessuali secondari
quindi avrà mancato sviluppo
di questi caratteri sessuali e
un eccesso di sviluppo
staturale. Queste persone
assumeranno un aspetto
caratteristico che prende il nome di EUNUCOIDE.
Se invece il deficit si sviluppa dopo la pubertà avremo nell’uomo mancanza di libido, impotenza,
azoospermia, infertilità, caduta dei peli, ipotrofia testicolare, ipotrofia muscolare. Nella donna
invece amenorrea, anovulazione ridotta fertilità, ipotrofia delle mammelle, mancanza di secrezioni
vaginali con dispareunia. Sono delle condizioni che i soggetti non siano in grado di procreare.
• Se abbiamo un deficit di TSH abbiamo ipotiroidismo di tipo secondario, perciò ridotti livelli
di TSH e ormoni in circolo. Bassi livelli di TSH generalmente ci fanno fare diagnosi di
ipertiroidismo.
• Deficit di prolattina: il risultato dal punto di vista clinico più importante è la mancata
lattazione.
• Per il GH: il quadro clinico varia in base all’età in cui si sviluppa, nell’età giovanile il
risultato è quello di determinare nanismo ipofisario, l’arresto della crescita corporea. È
importante la diagnosi precoce. Nell’età adulta, in cui la crescita ossea è già avvenuta, ciò
che si osserverà saranno disturbi del metabolismo che sarà caratterizzato da un aumento
della massa grassa, anomalie dell’assetto lipidico, astenia. Tutti aspetti che non hanno a che
vedere con la crescita.
• Un deficit di vasopressina determina un diabete insipido centrale, con perdita eccessiva di
liquidi.
• Per quanto riguarda l’ACTH un deficit si associa all’ipocortisolismo secondario, in questo
caso avremo un’iperpigmentazione cutaneo-mucosa (Addison bianco), non c’è deficit di
aldosterone perché è sotto il controllo della renina-angiotensina, ma possono esserci deficit
di androgeni che vengono prodotti nella zona fascicolata, sotto controllo dell’ACTH.
Gli adenomi ipofisari funzionanti possono ipersecernere ormoni e avere un effetto di massa e
meccanico sulle strutture, e la sintomatologia potrà essere di tipo di disturbi visivi e cefalea.
Oltre agli adenomi ricordiamo i craniofaringiomi che sono tumori che tendono a svilupparsi nei
soggetti più giovani e che possono determinare dei quadri di tipo di deficit ormonali qualora si
sviluppassero in prossimità del peduncolo ipofisario.
Endocrinologia 2/04 prima ora
Sbobina: Antonella Badiali Revisione: Ilaria Bartolini
Gli adenomi ipofisari nel 25% dei casi sono non funzionanti, ricordano il caso
dell’incidentaloma surrenalico. Si definiscono adenomi funzionanti invece quelli che
producono un eccesso di ormone, quello più frequente è il prolattinoma. I meno frequenti
sono i tumori producenti TSH ed FSH/LH. In relazione alle dimensioni si distinguono micro e
macroadenomi, rispettivamente di dimensioni inferiori e superiori ad 1 cm. Il microadenoma
ha una prognosi più favorevole, darà meno frequentemente sintomi legati all’effetto
compressivo (effetto massa se di dimensione maggiore) sui tessuti circostanti. Se l’adenoma è
non funzionante si potrà avere sintomatologia neurologica (da compressione) o da
ipofunzione (per compressione di cellule della parte di ipofisi non interessata dall’adenoma).
Gli adenomi funzionanti daranno una clinica legata ad eccesso di secrezione oltre che
sintomatologia da compressione neurologica, effetto non presente nei microadenomi. Tra i
sintomi neurologici si possono riscontrare cefalea (uno dei sintomi più comuni), poiché
alcune strutture come le leptomeningi possono essere stirate ed irritate dalla crescita
neoplastica.
Possono essere coinvolti anche i nervi oculomotori (III, IV e V) che si trovano nel seno
sfenoidale, si può avere strabismo convergente o divergente, diplopia etc. Più difficili da
diagnosticare sono disturbi a livello del ritmo sonno-veglia, temperatura corporea, appetito,
sete, dati soprattutto da adenomi di maggior dimensioni che possono arrecare danni a livello
ipotalamico. Si può anche avere rinoliquorrea. Si possono avere sintomi acuti, come
un’emorragia, con aumento acuto della massa e necrosi della formazione neoplastica, a dare
ipopituitarismo. Sintomi da ipofunzione sono correlati a crescita neoplastica anche non
funzionante a livello soprasellare o parasellare, a bloccare il flusso sanguigno e
neurosecretorio a livello del peduncolo ipofisario con aumento della secrezione di prolattina,
a causa del diminuito afflusso inibitorio di dopamina. Sindromi da iperfunzione sono
gigantismo e acromegalia, morbo di Cushing secondario, ipertiroidismo secondario (raro),
SIADH (non di rara origine extraipofisaria, come riportato nella slide! Si riscontra in diversi
casi di soggetti ospedalizzati).
Nel 20-30% dei casi gli adenomi possono sfuggire all’indagine diagnostica per immagini. La
terapia per i macroadenomi è chirurgica, generalmente per via trans-sfenoidale. In altri casi si
adotta radioterapia. Per la diagnosi si possono eseguire test di valutazione, come quello
dell’ACTH e del CRH per valutare un deficit nell’increzione di ACTH (se c’è un deficit di ACTH
il surrene va incontro a ipofunzione ma anche a ipotrofia, quindi somministrano ACTH non
osserveremo un incremento dei livelli ematici di cortisolo). L’ITT è il test di tolleranza
all’ipoglicemia, si induce un’ipoglicemia insulinica acuta, che provoca risposta di tutti gli
ormoni ipofisari; è un test di largo utilizzo, soprattutto in passato, prevalentemente in ambito
pediatrico, ma è un test pericoloso, va eseguito in ultima istanza, perché può indurre
convulsioni. Un test con GHRH ed Arginina è molto più sicuro.
A volte si ha una diagnosi di sella vuota, in cui non si riscontra la presenza di formazioni
neoplastiche ma l’ipofisi risulta compressa da diverticolo liquorale. In caso di ipopituitarismo
si attua terapia sostitutiva. Nell’ipotiroidismo secondario si somministra eutiroxina, così come
nell’ipocortisolismo secondario si somministra cortisone.
Clinica dell’ipopituitarismo
Il deficit di ACTH nell’adulto provoca, tra gli altri sintomi, ipopigmentazione (Addison bianco).
Il deficit di TSH nel bambino (cretinismo) comporta ritardo della crescita e deficit cognitivo
grave se non diagnosticato e trattato, per tale motivo è stato introdotto il test di screening alla
nascita.
Nella femmina, la ridotta secrezione di estrogeni determina amenorrea. Inoltre la prolattina poiché stimola
la lattazione, determinerà galattorrea (può essere spontanea o provocata dalla spremitura del capezzolo).
Pertanto di parla di sindrome amenorrea-galattorrea. Nel maschio si può avere galattorrea a seguito di
spremitura del capezzolo ma soprattutto si avrà ipogonadismo accompagnato da infertilità ed impotenza.
Diagnosi: in presenza di segni clinici di iperprolattinemia come amenorrea e galattorrea, viene eseguito il
dosaggio della prolattina.
Terapia: la terapia è sostanzialmente medica; si sfruttano come farmaci degli agonisti dopaminici come la
broncocriptina (usato in passato) e carbergolina (usata ad oggi). Quest’ultima ha una lunga emivita
pertanto si può somministrare 3 volte a settimana (dose 0,2-0,3 mg); è molto efficace poiché riduce i livelli
di prolattina ma anche le dimensioni della massa.
Se la riduzione della massa non è adeguata o se vi è una sintomatologia legata alla massa stessa allora si
interviene con la terapia chirurgica e l’approccio è per via transfenoidale.
GH
Il professore ha
ribadito gli aspetti
principali del GH ma
non si è soffermato
molto sulla slide
accanto poiché parte
dei argomenti erano
stati già trattati nella
lezione precedente. Ha
però sottolineato
l’importanza di alcuni
fattori che modulano il
rilascio di GH:
- Iperglicemia,
aumento del
carico di acidi
grassi
riducono il rilascio di GH;
- Ghrelina è un ormone che agisce a livello ipotalamico in particolare a livello del nucleo oressigeno
ma oltre a ciò è in grado anche di stimolare la secrezione di GH (ecco perché si scrive GHrelina).
Cosa accade quando il GH viene prodotto in eccesso? Se ciò si verifica in età infantile, essendoci possibilità
di crescita, si avrà gigantismo; se si verifica in età adulta, non essendoci possibilità di crescita, allora si avrà
acromegalia.
Nella seguente slide è riassunta la fisiopatologia con cui l’eccesso di GH determina sia aspetti metabolici
che gli aspetti che riguardano i tessuti (allungamento/allargamento osso + visceromegalia) tipici della
patologia.
Acromegalia
- Sintomi da eccesso di GH
o Modificazione fisionomiche: facies acromegalica (tratto tipo che consente di fare molto
facilmente la diagnosi) che interessa:
Il volto- i lineamenti cambiano molto lentamente quindi il soggetto non se ne
accorge se non facendo confronto con vecchie foto. Si avrà prominenza degli
zigomi, allargamento della mandibola con prognatismo, allargamento del naso.
Le parti acrali (mani e piedi).
o Modificazioni cutanee- la cute è ispessita e più dura;
o Visceromegalia che interessa i seguenti organi:
.
Un aspetto importante riguarda il cuore poiché esso va incontro ad un aumento del volume
al quale si aggiunge ipertensione che peggiora l’ipertrofia miocardica. Pertanto la morte
per patologia cardiovascolare rappresenta la causa più comune di mortalità in questi
pazienti.
o Disturbi a livello delle articolazioni- es. sindrome del tunnel carpale;
o Turbe neuromuscolari- ipertrofia muscolare con miopatia che si caratterizza per l’astenia
muscolare (il volume del muscolo aumenta ma esso è meno efficiente);
o Turbe metaboliche- diabete, intolleranza ai carboidrati;
o Segni di ipogonadismo.
- Sintomi da effetto massa- l’adenoma può determinare sintomi neurologici.
- Associazioni morbose:
o In questi pazienti si riscontrano più frequentemente neoplasie. Infatti l’ormone della
crescita, stimolando la crescita tissutale, può indurre anche la progressione di formazioni
tumorali ad esempio dei polipi del colon;
o Si può riscontrare anche nei pazienti con la MEN 1.
Sintomi da eccesso di GH: abnorme crescita (soggetti altissimi) e turbe metaboliche. Quando diventano
adulti, tendono a spostarsi verso il tratto acromegalico. Ovviamente nei bambini che sono seguiti
un’eccessiva crescita può essere un campanello d’allarme per fare ulteriori accertamenti ed in caso di
eccesso di GH, impedire che venga a stabilirsi un gigantismo.
Diagnosi: il test più utile è il test con carico orale di glucosio (100mg di glucosio, in realtà va bene anche 75
mg cioè la dose che viene usata per la diagnosi di intolleranza ai carboidrati). La somministrazione di
glucosio in un soggetto sano determina una riduzione di GH, ciò non si verifica nei soggetti che hanno
adenomi secernenti GH.
Possono essere fatti anche altri test per ricercare disendocrinie associate. Si deve valutare anche il campo
visivo e si ricomanda l’esecuzione di colonscopie (poiché i polipi possono progredire nella loro crescita).
Da non dimenticare, anche TAC e RMN sono importanti per capire se si tratta di un microadenoma o
macroadenoma.
Terapia: può essere chirurgica oppure terapia medica con somministrazioni di SRL, cioè analoghi della
somatostatina (da ricordare: la somatostatina inibisce la secrezione di GH) che hanno come obiettivo
ridurre la secrezione di GH ed anche ridurre la massa tumorale. Tra questi c’è l’octreotide. Esso oltre che in
terapia è usato anche per la diagnosi (in particolare per la scintigrafia permette di individuare organi in
cui sono presenti i recettori per la somatostatina e che possono andare incontro ad autonomia funzionale-
es l’insulinoma).
NEUROIPOFISI
A livello della neuroipofisi vengono rilasciati i due ormoni vasopressina e ossitocina, che vengono prodotti
dai neuroni magnocellulari.
Vasopressina- agisce a livello renale e delle arteriole periferiche. I suoi recettori si trovano a livello della
membrana e sono di tre tipi: V1 (si trova sulle arteriole), V2 (a livello renale) e V3 (a livello delle cellule
corticotrope, infatti in condizioni di stress la vasopressina è in grado di stimolare la secrezione di ACTH).
Meccanismo di azione di V1
Meccanismo di azione di V2- a livello renale vi è un richiamo di acqua tramite esposizione sulla membrana
delle acquaporine che internalizzano acqua. L’azione della vasopressina si realizza in particolare a livello del
tubulo collettore. Grazie a questo ormone, pertanto la nostra diuresi si mantiene intorno ad 1,5L. Possiamo
inoltre già intuire che in mancanza di questo ormone si avrà un’eccessiva perdita di urina come nel caso del
diabete insipido.
Oltre agli effetti sulla ritenzione idrica, si avranno anche effetti pressori in quanto determina
vasocostrizione a livello delle arteriole periferiche e quindi aumento della pressione arteriosa.
- Aumento dell’osmolalità- ad es. in caso di disidratazione, in caso di aumento di osmoli nel sangue
(aumento della sodiemia);
- Diminuzione del volume sanguigno- ad es. in caso di
emorragia;
- Nicotina e barbiturici stimolano direttamente la
secrezione della vasopressina;
- L’alcool è un inibitore della vasopressina.
Di fronte a tale patologia, l’organismo mette in atto un sistema di difesa che è quello della sete e ciò gli
consente di compensare la perdita di liquidi. Nonostante il compenso, il soggetto si accorgerà di bere e
urinare molto e si rivolgerà al medico. Se ovviamente però il centro della sete non è funzionate (ad es. per
un danno ipotalamico che coinvolge tale centro) allora il soggetto andrà incontro a disidratazione in breve
tempo visto che la poliuria è massiva.
Cause:
- Genetiche;
- Trauma;
- Dopo interventi chirurgici- in generale dopo gli interventi c’è un quadro di diabete insipido
transitorio che dura qualche giorno massimo qualche settimana;
- Neoplasie ipotalamiche.
Ci sono altre condizioni che devono essere prese in considerazione per fare diagnosi differenziale come il
diabete insipido nefrogeno, in cui a seguito di alterazioni dei recettori per la vasopressina, non vi è l’effetto
dell’ormone antidiuretico.
Cause:
- Difetti genetici;
- Difetti acquisiti da farmaci, da danni renali.
Esiste anche un altro tipo di diabete insipido definito dipsogeno o anche polidipsia primaria. In questo
caso i soggetti tendono a bere moltissimo (generalmente, si riscontra nell’ambito di patologie
psichiatriche).
Patologie da carenza di GH- gli effetti sono i seguenti: nanismo armonico, ritardo nella maturazione
scheletrica e sessuale, obesità.
[Domanda da studente: quali possono essere le cause che possono determinare una forma di secrezione
inappropriata di ADH (al quale il professore ha fatto cenno nelle lezione precedente)? Risposta del prof: la
secrezione inappropriata di ADH può essere determinata:
- Nel paziente ospedalizzato, in quanto si trova in una condizione di stress (questa situazione si
verifica di frequente);
- Neoplasie;
- Scompenso cardiaco;
- Insufficienza renale;
- Insufficienza epatica;
- Ipoalbuminemia;
- Edemi;
- Ipotiroidismo;
- Ipocortisolismo;
- Alcolismo (in assenza di altre patologie concomitanti).
Tutte queste condizioni devono essere valutate per mettere in atto una terapia corretta.]
Conseguenze dell’inappropriata secrezione di ADH (eccesso di ADH): emodiluizione, quindi una riduzione
dell’osmolarità plasmatica con iposodiemia che può compromettere le attività cerebrali. Si deve capire se
quadri di iposodiemia si sono verificati in maniera acuta o cronica poiché si deve intervenire in modo da
normalizzare la sodiemia in maniera ottimale.
Tra i fattori che possono influenzare la terapia insulinica c’è sicuramente l’attività fisica. Precisamente,
l’attività fisica aumenta la sensibilità insulinica sia nei soggetti sani che in quelli con diabete determinando
un aumento dell’utilizzazione del glucosio, in particolare a livello muscolare e nel tessuto adiposo. L’insulina
è in grado di fare ciò poiché rimodula il circolo sanguigno (nel muscolo) e soprattutto stimola il
reclutamento di trasportatori del glucosio che si portano a livello della membrana plasmatica, aumentando
la captazione di glucosio che viene internalizzato e va incontro a metabolismo ossidativo.
Nel diabete di tipo I, come sappiamo, è necessaria la terapia insulinica che però può essere influenzata da
vari fattori (pertanto i soggetti con diabete di tipo I devono essere adeguatamente educati circa la
somministrazione di insulina):
Come abbiamo detto, l’obiettivo del controllo glicemico in termini di emoglobina glicata è del 7% o sotto il
7%. Questo obiettivo, in realtà, possiamo modularlo in relazione a tante variabili che possono aumentare il
rischio di ipoglicemia e al rischio di danno che deriva dall’esercizio fisico.
Oltre all’attività fisica, anche la dieta gioca un ruolo importante nel diabete. In definitiva, nei pazienti con
diabete, lo stile di vita deve essere adeguatamente rimodulato grazie ad una precisa dieta ed attività fisica,
specifiche per ogni paziente.
In questa immagine, si riassume il risultato di una meta-analisi che ha valutato l’impatto della dieta e
dell’attività fisica sulla prevenzione del diabete di tipo 2. Si è visto che entrambe hanno un impatto
estremamente favorevole poiché vi è una probabilità di circa il 50% di rallentare l’insorgenza del diabete di
tipo 2.
SBOB.: MARTINA CROCIONI
REV.: ROBERTA LOCATELLI
02/04/2019, 16.00-17.00
L’attività fisica, in conclusione, ha tutti questi vantaggi e in questo senso riveste un ruolo
importante la sua frequenza: più esercizio si pratica, tanto più si ridurranno delle complicanze.
Non solo la malattia è cronica e necessita di continui controlli glicemici, ma necessita di una terapia
piuttosto complessa che oggi prevede:
Fisiologicamente l’insulina pancreatica entra nel sistema portale, quindi esplica la sua prima azione
a livello epatico dove inibisce la produzione di glucosio garantendo quindi una modulazione portale
della glicemia. Dal fegato solo il 50% dell’insulina va nel circolo sistemico (il resto dell’insulina
viene degradata) e quindi raggiunge i tessuti periferici sui quali agisce stimolando l’utilizzazione
del glucosio.
Insulinemia periferica < insulinemia portale
Invece, l’insulina somministrata sottocute (modalità più pratica, ormai in uso da anni) agisce
direttamente a livello periferico. Quindi, per ottenere le concentrazioni epatiche di insulina tali da
modulare la produzione epatica di glucosio, determiniamo un grado di insulinizzazione periferica
maggiore rispetto a quello che verrebbe raggiunto in seguito alla secrezione fisiologica.
Insulinemia periferica > insulinemia portale
La sfida sta proprio nel modulare bene la terapia per evitare eccessi iperglicemici ma anche
ipoglicemici.
• La prima insulina commercializzata (1922) era di estrazione animale (bovina o porcina che
è la più simile a quella umana), ma non era pura perché ottenuta da omogeneizzazione delle
cellule beta; nonostante ciò era funzionante. Era un’insulina regolare, cosiddetta rapida
perché funzionava dopo mezz’ora circa e richiedeva più somministrazioni al giorno per
coprire le 24 ore → questo era uno svantaggio pratico, soprattutto per il tipo di siringhe
utilizzate un tempo.
• Negli anni ‘50 è stata sintetizzata l’insulina NPH: regolare e accoppiata a proteine
(protamina) che ne ritardavano l’assorbimento e ne garantivano una maggiore durata
d’azione (circa 12 ore) → ciò rendeva sufficienti solo 2 somministrazioni al giorno
(vantaggio pratico). C’era però un possibile rischio che questo tipo di insulina inducesse
ipoglicemia (svantaggio).
Poi nel corso degli anni hanno capito che la terapia ottimale è quella “Basal Bolus”, quindi
tramite la tecnica del DNA ricombinante hanno iniziato a sintetizzare insuline ad azione
rapida e insuline ad azione lenta: sia insuline umane ricombinanti sia analoghi dell’insulina.
• L’insulina umana
ricombinante è
un’insulina pura quindi
non causa allergie nei
pazienti e non porta
alla produzione di
anticorpi (o comunque
il titolo anticorpale si
mantiene basso) che a
livelli elevati interferirebbero con la cinetica della molecola.
Analoghi dell’insulina
ad azione rapida a
confronto con l’insulina
regolare:
1. Picco d’azione
rapido: permette un
controllo della glicemia
postprandiale migliore.
3. Presentano
maggiore flessibilità: con
queste nuove insuline il
paziente può fare la
somministrazione poco prima del pasto, invece l’insulina regolare necessita di un
intervallo di tempo di circa mezz’ora tra la somministrazione e l’inizio del pasto.
Insuline lente
Insulinizzazione basale: ogni ora il pancreas produce una certa quantità di insulina (circa 0.5/0,6
unità all’ora).
La secrezione durante i pasti è in relazione al contenuto di carboidrati.
Sia la Glargine sia la Detemir sono insuline solubili (come le rapide) quindi possono essere iniettate
così come sono, invece l’insulina NPH è un preparato non solubile costituita da una fase liquida e
una fase di cristalli, quindi prima della somministrazione deve essere risospesa (se il procedimento
non viene eseguito adeguatamente si rischia una non equa somministrazione delle due fasi che mi
comporta una variabilità glicemica).
Insulina Degludec (è un’ottimizzazione della Detemir): ha un profilo generalmente piatto con una
durata che va oltre le 24 ore (sufficiente la monosomministrazione giornaliera) infatti, una volta
somministrata, si lega all’albumina nel sottocute e questo ne determina un ritardo
nell’assorbimento. Una volta assorbita, anche nel sangue si lega all’albumina e questo ne ritarda
ulteriormente l’azione. Mano a mano che si stacca dall’albumina, interagisce con i suoi recettori.
Oggi sono disponibili dei glucometri pratici e dotati di memoria per poter registrare le varie
glicemie misurate nel tempo. Alcuni possono anche consigliare il “bolo” di insulina da iniettare ai
pasti sulla base della sensibilità all’insulina del soggetto e del tipo di pasto. È utile anche tenere un
diario cartaceo per annotare i vari valori glicemici e avere una visione rapida e globale della
situazione.
Nella cartella clinica di un paziente oggi è presente anche un modulo delle ipoglicemie: è
importante per avere una visione del numero delle ipoglicemie a cui il paziente va incontro e
raggrupparle in base alla gravità. È accompagnato anche da un questionario per capire se il soggetto
avverte l’ipoglicemia oppure ha perso la sensibilità di percepire i sintomi (ipoglicemia
asintomatica).
Anche le siringhe sono cambiate a favore di una maggiore precisione in termini di unità di insulina.
Il microinfusore invece è uno strumento con all’interno una cartuccia di insulina che viene erogata
da un sistema a pompa collegato a una serie di tubicini connessi ad un ago che rimane inserito nel
sottocute e che va sostituito ogni 2/3 giorni. La somministrazione, come già detto, avviene ad una
velocità basale, poi si possono stabilire degli incrementi (boli) in corrispondenza dei pasti.
Se si verifica un problema nello strumento che non viene rilevato, c’è il rischio di andare incontro a
chetoacidosi perché non c’è deposito sottocutaneo. Invece l’utilizzo delle siringhe permette una
somministrazione, ad esempio 30 unità di insulina Glargine la sera, tale da mantenere la lipolisi
soppressa: quindi la formazione di corpi chetonici è poco probabile.
La quantità di insulina che può essere somministrata con il microinfusore è molto bassa (per i
soggetti che sono molto sensibili all’insulina bastano 0,01 U/h). È uno strumento molto flessibile
che permette di programmare delle diverse infusioni in base alle attività previste nell’arco della
giornata.
Oggi c’è la possibilità di associare un sensore sottocutaneo della glicemia che permette al paziente
di controllare i valori glicemici e se collegato con il microinfusore permette una automatica
modulazione dell’insulina basale (ad esempio se il sensore registra una glicemia minore di 70
mg/dl, il microinfusore interrompe l’infusione di insulina). In questo modo viene ulteriormente
incrementata la capacità dello strumento di avere un ottimo controllo glicemico e di prevenire le
ipoglicemie.
In caso di ipoglicemia grave che abbia portato alla perdita di coscienza del soggetto si procede con
somministrazione intramuscolare di glucagone.
Se si somministra insulina nel sottocute sempre negli stessi siti c’è il rischio di sviluppare
lipodistrofia che consiste nell’accumulo di tessuto adiposo che poi non rende più ottimale
l’assorbimento dell’insulina: se ad assorbimento ridotto aumentiamo le dosi dell’insulina ma la
iniettiamo in una sede in cui non c’è lipoipertrofia, la sua azione a questo punto può essere
eccessiva e può causare ipoglicemia.
In conclusione, c’è la necessità che il paziente venga educato non solo in merito alla gestione del
diabete tramite la dieta e l’attività fisica ma anche in merito alla gestione di queste nuove
tecnologie.
Anche l’attività fisica in questo senso riduce la risposta degli ormoni controregolatori ad una
eventuale ipoglicemia indotta il giorno successivo, quindi migliora la sensibilità all’insulina: ecco
che un soggetto diabetico se pratica sport deve ridurre la dose insulinica o assumere carboidrati.
Endocrinologia – sbobina del 04/04/2019 prima ora
Sbobinatrice:Azzurra Genna
Revisionatore: Alessandro Livi
Docente: Carmine Fanelli
1 -Domanda dal posto: Per quanto riguarda la terapia in caso di iperprolattinemia con
carbegolina, come viene somministrata quantitativamente?
-Risposta: ricordiamo che il range va da 0,5 a 3mg/dose e ogni dose va effettuata tre volte a
settimana. Va perciò individualizzata da soggetto a soggetto. Questi sono tipi di farmaci che per
esempio potrebbero dare ipotensione ortostatica e dobbiamo tenerne conto.
2 -Domanda dal posto relativa al diabete: “Da cosa dipende la scelta della terapia effettuata con
microinfusore o con insulina basale e insulina rapida ai pasti?” “C'è qualche condizione che
predispone ad una scelta più che ad un'altra?”
-Risposta: In linea generale si parte quasi sempre con la terapia multiiniettiva (insulina rapida e
basale), perchè probabilmente richiede un approccio più semplice che richiede da parte del
paziente meno impegno; è inoltre la soluzione più rapida ed economica. D'altra parte vediamo che
l'utilizzo del microinfusore richiede invece un'educazione molto più profonda.
Il microinfusore viene proposto soprattutto ai soggetti più giovani (ci riferiamo al diabete di tipo 1)
che verosimilmente hanno una durata di malattia più breve e che sono in grado di gestire lo
strumento. Il soggetto deve scegliere lui stesso le dosi ad esempio di insulina rapida che inietta se
effettua uno spuntino e deve essere bravo a valutare i carboidrati del pasto che sta per effettuare,
per poter dosare bene l'insulina da somministrare, tramite il microinfusore, sulla base della
glicemia prima del pasto e della quantità di carboidrati contenuti nel pasto stesso. Modificare la
dose implica la conoscenza della conta dei carboidrati; processo che i pazienti devono apprendere
tramite l'aiuto del dietista.
I pazienti inizialmente pesano infatti gli alimenti calcolando dalla percentuale di carboidrati la
quantità in grammi.
Essi devono inoltre conoscere la loro sensibilità all'insulina, che non è un fattore costante, ma che
varia da giorno a giorno, in base all'attività fisica ecc ecc.
Es: Se inietto un'unità di insulina, questa abbassa la glicemia di 50 mg/dL; questa è la sensibilità e
la possono calcolare sulla quantità di insulina totale che effettuano al giorno applicando una
formula.
Facendo questi conti partendo da 120 mg/dL di glicemia basale, il pz aggiusta la quantità di
insulina per quel valore di glicemia, partendo dalla quantità di carboidrati nel pasto.
Il microinfusore si consiglia alle persone che non raggiungono un buon controllo glicemico con
la terapia multi-iniettiva, o che hanno problemi particolari come l'ipoglicemia grave, o persone
che hanno notevole variabilità glicemica.
Oggi in alcune realtà di pediatria: molti medici avviano già la terapia insulinica col microinfusore
in bambini molto piccoli; ovviamente l'aspetto educativo è volto al genitore. Così facendo c'è un
basso rischio di ipoglicemia e un buon controllo glicemico sin dall'inizio, garantendo una crescita
normale del neonato.
(Il professore racconta - per far capire il rischio a cui si sottopongono i soggetti che hanno crisi
ipoglicemiche- di una sua paziente in cura da molti anni alla quale è stato impiantato un sensore
sottocutaneo in grado di avvertire un calo di glicemia, poiché la signora in questione non ricordava
nemmeno, non essendo cosciente, di aver avuto una crisi ipoglicemica. Racconta inoltre di come
questa situazione modifichi drasticamente la vita e le abitudini del paziente a tal punto che questa
signora aveva paura anche ad addormentarsi e addirittura era solita controllare quasi in modo
ossessivo minuto per minuto la glicemia.
E' inoltre cambiata negli ultimi anni la legislazione per quanto riguarda i permessi di guida da
parte dei soggetti a rischio ipoglicemico, in quanto si verificano diversi incidenti per ipoglicemia)
METABOLISMO CALCIO-FOSFORO:
Metabolismo importante che vede il coinvolgimento di più figure. Entrano in gioco diversi ormoni,
come il PTH prodotto dalle paratiroidi, la calcitonina, la VitD. Parliamo anche di diversi tessuti:
l'osso in cui il Ca viene immagazzinato, l'intestino dove il Ca viene assorbito e i reni che
controllano l'assorbimento e l'escrezione di Ca.
E' dunque un metabolismo controllato da più organi e più ormoni.
Il Ca ha diverse funzioni:
Extracellulari:
• Mineralizzazione osso
• Coagulazione
• Eccitabilità neuromuscolare
Intracellulari: (azione che hanno a che vedere col rilascio di ormoni; es l'insulina → ricordiamo che
il Ca permette la degranulazione dei granuli contenenti questo ormone)
• Attivazione neuronale
• contrazione muscolare
• secrezione di ormoni
• secondo messaggero per ormoni e fattori di crescita
• regolazione della trascrizione dei geni e delle attività metaboliche
E' bene ricordare che se richiediamo il Ca, va richiesta anche l'albumina per correzione, a meno che
non siamo sicuri ci sia anche una ipoalbuminemia.
Valori di Magnesio:
Va tenuto in considerazione quando si interpretano i dati della calcemia e della fosfatemia, perchè
l'ipomagnesemia di per sé può essere alla base di un'ipocalcemia.
Correggere un'ipocalcemia quando vi è una ridotta magnesemia significa non avere successo.
Il Mg può ridursi ad esempio in condizioni di malnutrizione, di etilismo cronico ecc.
Il range fisiologico di riferimento è: 1,7-2,4 mg/dL
Funzioni extracellulari:
• Eccitabilità muscolare
• Secrezione del PTH
Funzioni intracellulari:
• Cofattore di alcuni enzimi
• Stabilizza macromolecole (DNA, RNA)
• Metabolismo energetico (ossidazione mitocondriale)
Quindi → Questi tre elettroliti (Ca, P, Mg) vanno misurati e considerati insieme.
TESSUTO OSSEO:
Siamo abituati a pensare all'osso come una struttura statica e rigida di sostegno, ma in realtà è molto
attivo e dinamico dal punto di vista metabolico, endocrino e cellulare.
STRUTTURA DELL'OSSO:
1) Ha una componente cellulare composta da:
-osteoblasti (da cui derivano gli osteociti)
-osteociti (metabolicamente attivi)
-osteoclasti.
Gli osteoblasti sono adibiti alla formazione dell'osso, mentre gli osteoclasti alla rimozione dell'osso.
Da questo processo di formazione e rimozione ne deriva il rinnovamento osseo chiamato
rimodellamento osseo.
IL PARATORMONE → prodotto dalle paratiroidi, piccole ghiandole poste sulla faccia posteriore
della tiroide. Esse hanno un peso totale inferiore ad 1 grammo. Possono inoltre trovarsi in posizioni
ectopiche quali collo o torace, in relazione all'origine embriologica.
Il PTH ha 84 AA. La sua secrezione è regolata in modo stretto dalla calcemia.
→ Se la calcemia si abbassa, il PTH viene maggiormente secreto (e viceversa).
LA CALCITONINA:
Prodotta dalle cellule C (parafollicolari) della tiroide, agisce sostanzialmente in modo antagonista al
PTH.
Si ritiene che essa non abbia un'azione fisiologica particolarmente importante, in quanto i pazienti
sottoposti a tiroidectomia-in cui fatalmente vengono rimosse anche le cellule C- non vanno in
contro a squilibri eccessivi nel metabolismo del calcio.
FUNZIONI CALCITONINA:
A livello intestinale → riduce l'assorbimento intestinale del Ca
A livello dell'osso → ne riduce l'assorbimento (favorendo perciò la mobilizzazione).
Essa tende ad abbassare la concentrazione plasmatica di Ca in quanto:
-riduce l'attività degli osteoclasti
-riduce la neoformazione di nuovi osteoclasti
VITAMINA D:
Elemento di natura steroidea che sostanzialmente nel nostro organismo si forma in due modi:
1) Assunzione dalla dieta (molto presente nei pesci molto grassi) → in passato veniva
somministrato l'olio di fegato di merluzzo, ricco di Vit D.
2) Sintesi a livello della cute, grazie alle radiazioni UV, che agiscono sul 7-deidrocolesterolo.
Successivamente questo composto subisce ulteriori idrossilazioni: a livello epatico (in posizione 25)
e poi nel compartimento renale (in posizione 1) per ottenere la forma attiva della Vit D3.
Funzioni Vit D:
1) concorre alla formazione del PTH
2) esplica l'azione a livello di diversi metabolismi:
-intestinale → aumenta il riassorbimento intestinale di Ca e P
-renale → aumenta il riassorbimento di Ca e di P
-osso (in azione col PTH) → mobilita il Ca.
NB: La mobilitazione del calcio osseo è ad opera degli osteoclasti, ma il processo viene attivato in
realtà dagli osteoblasti, i quali esprimono un ligando (è una citokina chiamata RANK-L) così
attivano gli osteoclasti i quali, una volta maturati, promuovono il riassorbimento di Ca dalle ossa
stesse.
Ricordiamo anche l'osteoprotegerina, la quale inibisce il sito del RANK-L, impedendo così l'inizio
della maturazione degli osteoclasti e dunque il processo di rimozione del Ca dall'osso.
Oggi (non viene tanto praticato da noi, ma vale la pensa sottolinearlo), esiste un approccio alla
terapia del nodulo tiroideo che prevede la somministrazione dell'ormone esogeno a concentrazioni
soppressive (molto alte, fino a 200microgrammi) in modo da abbassare il TSH, cercando di ridurre
il nodulo. Questo metodo potrebbe funzionare per i noduli di piccole dimensioni, ma esiste il forte
rischio che con questa metodica si possa indurre una tireotossicosi iatrogena al paziente!!
FORME DI PSEUDO-IPOPARATIROIDISMO:
Generalmente sono forme che hanno a che fare con un difetto recettoriale a diversi livelli, ma che
comunque porta allo stesso risultato finale di ipocalcemia. Oppure eventualmente si verifica per una
secrezione di PTH inattivo.
Diagnosi: non è semplice l'approccio diagnostico. Spesso viene confusa con una reazione allergica.
Terapia: ipocalcemia si risolve con iniezioni di Ca. La tetania coinvolge anche mm del collo, del
torace, mm respiratori ecc.
Altri casi in cui: la vitamina c'è ma non funziona (condizione poco comune).
Generalmente ne deriva un quadro clinico particolare, spesso patologie dovute a cause genetiche,
associato anche a sintomi che non hanno a che vedere con il PTH direttamente come ritardo mentale
oppure bassa statura, calcificazioni varie, cataratta, tetania ecc ecc.
SBOB.: EDOARDO EMILIANO
REV.: ALESSANDRO LIVI
04/04/2019- 2°ora
Premessa: il professore fa molto riferimento alle slide, talvolta senza neanche leggerle ma solo
indicandone i concetti importanti, inoltre in quest’ora ne ha saltate diverse perché era di fretta;
consiglio pertanto di studiare dalle slide (“METABOLISMO CALCIO-FOSFORO”), nella sbobina
ho cercato di trascrivere gli aspetti su cui lui ha posto più enfasi e gli eventuali approfondimenti
extra, ma probabilmente quello che ha detto a lezione non è sempre sufficiente ai fini della
comprensione degli argomenti
Iperparatiroidismi
Classificazione e clinica
Diagnosi
Dal punto di vista laboratoristico ci si basa sull’aumento del calcio totale (sopra 11 mg/dl) e
sull’aumento del paratormone (N.B.: nella slide sono indicati anche altri parametri), in assenza di
insufficienza renale (vitamina D normale, altri parametri connessi all’insufficienza renale normali).
Tramite imaging si può valutare il
danno osseo (es. fratture e densità
ossea, N.B.: nelle slide sono riportati
anche altri aspetti) e la calcificazione
renale(nefrocalcinosi). Con
l’imaging si può anche risalire alla
localizzazione del tumore delle
paratiroidi (nel caso di un
iperparatiroidismo primario), in
particolare si usa l’ecografia del
collo, per identificare il tumore
l’esame di elezione è però la
scintigrafia delle paratiroidi. Si
tratta di un esame scintigrafico che
avviene per sottrazione, si
somministrano infatti due traccianti radioattivi diversi per distinguere il tessuto tiroideo da quello
paratiroideo (tecnezio sestamibi), gli adenomi paratiroidei e il tessuto iperplastico captano
maggiormente. Per identificare con maggiore precisione la posizione dei tumori si usano poi TC e
risonanza magnetica, perlopiù ai fini chirurgici.
L’ipertiroidismo non è l’unica causa di ipercalcemia, pur essendo la più frequente. L’ipercalcemia
neoplastica è dovuta alla produzione ectopica di fattori in grado di aumentare la calcemia, possono
riguardare svariati tumori, in particolare linfomi. L’ipercalcemia si riscontra anche nell’ambito di
altre endocrinopatie, quali tireotossicosi e feocromocitoma, nonché in altre patologie (sarcoidosi)
o per l’uso di farmaci ( es.eccesso di vitamina D).
Le funzioni dell’osso sono numerose ma sta emergendo sempre di più un suo importante ruolo nelle
funzioni endocrine. La matrice ossea è continuamente sottoposta a rimodellamento da parte degli
osteoclasti e degli osteoblasti, con la loro azione antagonista: gli osteoblasti attivano gli osteoclasti
che riassorbono la matrice ossea, aumentando la calcemia; gli osteoblasti attivati invece depositano
nuovamente matrice riducendo la calcemia. L’attività di queste cellule dipende dall’insieme dei
segnali che esse ricevono dal sangue e dalle cellule circostanti. Il processo dura tutta la vita con dei
cicli mensili.
Osteoporosi
Si tratta di una patologia dell’osso caratterizzata da aumentata fragilità dello stesso, espone al
rischio di fratture (perlopiù fratture patologiche). Nel 2012 in Umbria ci sono state 1783 fratture di
femore da osteoporosi sopra i 65 anni, il dato è in aumento rispetto ai 6 anni precedenti. La frattura
del femore è una complicanza temuta sopra i 65 anni, perché comporta ospedalizzazione e
intervento chirurgico, con tutti gli ulteriori rischi a cui ciò espone (in particolare l’immobilizzazione
è un fattore prognostico negativo).
La diagnosi di osteoporosi si fa tramite mineralometria ossea, un esame di imaging che sfrutta una
radiografia dalla quale viene ricavato un dato sulla densità ossea. Tale dato viene elaborato per
poter essere confrontato con valori di riferimento, pertanto viene convertito in un punteggio detto
T-score, che è relativo al dato di mineralometria ideale in riferimento alla fascia di età del soggetto
o ad una fascia di età che rappresenta l’optimum in assoluto. Se il T-score è maggiore di -1 l’osso è
normale, se è compreso tra -1 e -2,5 c’è osteopenia, se è inferiore a -2,5 c’è osteoporosi, che viene
definita severa se vi si associa anche una frattura patologica. Oltre alla mineralometria ossea è
importante valutare altri parametri clinici (vd. Slide), tra cui la massa muscolare: spesso
l’osteoporosi è associata a sarcopenia.
Per quanto riguarda la terapia esistono diversi farmaci per trattare l’osteoporosi, non sempre
efficaci, perlopiù ne rallentano la progressione. Tra i farmaci più importanti si ricordano gli
estrogeni, i bifosfonati (riducono il riassorbimento osseo), il denossumab (anticorpo monoclonale
in grado di legare il RANK-L degli osteoblasti, in modo da evitarne l’interazione con il recettore
RANK che attiva gli osteoclasti). (N.B.: nelle slide sono presenti altri farmaci, ma da come dice il
professore non è necessario approfondirli ai fini dell’esame). Altri approcci terapeutici riguardano
lo stile di vita: maggiore assunzione di calcio nella dieta, di vitamina D (anche per esposizione al
sole), maggiore attività fisica, evitare alcol e fumo. Hanno effetti sia sulla prevenzione sia per
ridurne la progressione.
Osteomalacia
(N.B.: nelle slide ci sono molte più cose rispetto a quanto viene detto a lezione)
È un danno osseo dovuto al deficit di vitamina D. Nei bambini questa condizione è nota come
rachitismo (oggi poco frequente), associata a deformazioni ossee tipiche. Clinicamente è
caratterizzato da dolore e debolezza muscolare.
I test di I livello comprendono: test con progestinico (MAP test) e i dosaggio di: beta-HCG,
17 beta-Estradiolo, prolattina, FSH, LH, TSH e l’ecografia pelvica.
Ci si deve sempre accertare della causa e solo dopo procedere con dei test: dosiamo gli
ormoni del sangue, si misura prima di tutto la gonadotropina corionica umana per escludere
un’eventuale gravidanza, che causa amenorrea fisiologica. Tra le condizioni più comuni c’è
l’iperprolattinemia verificabile con la misurazione della prolattina. Tra gli accertamenti si
valuta anche il TSH per escludere un ipotiroidismo. Si fa anche un’ecografia pelvica per
valutare la morfologia e le caratteristiche strutturali dell’ovaio. In passato si faceva un test
con idrossi-progesterone (si somministra una compressa di 10 milligrammi al giorno per 5
giorni) alla fine ci deve essere sanguinamento, questo test fa escludere (se positivo)
anomalie dell’utero, se negativo occorrerebbe la valutazione ginecologica. La diagnosi può
però partire semplicemente con il dosaggio ormonale, misurando estradiolo nei primi giorni
del ciclo mestruale (3° - 5° giorno) e il progesterone nella fase luteinica.
Dei valori bassi dei dosaggi ormonali ci orientano verso forme ipotalamo-ipofisarie; dei
valori alti con estradiolo basso indirizzano verso forme differenti di attività ovarica, per
esempio l’ovaio policistico in cui è caratteristico l’aumento del rapporto LH/FSH. Per
escludere l’ovaio policistico si fa un’ecografia pelvica.
I test di II livello sono: test con estro-progestinici, test al GnRH e RMN ipofisaria.
Ci sono poi test di III livello: test al clomifene citrato, dosaggio di androgeni (questo test in
alcuni casi viene eseguito direttamente come test di I livello). Nel caso di sospetta
disgenesia gonadica (sindrome di Turner) c’è l’analisi anche del cariotipo e determinazione di
anticorpi anti-ovaio e anti-ovociti per le forme autoimmuni. Spesso la presenza di tali anticorpi è associata
ad altre patologie autoimmuni come patologie tiroidee o il diabete tipo I.
Di seguito riportiamo la flow chart della diagnosi di amenorrea secondaria. Innanzi tutto
si deve sempre escludere la gravidanza (il test va fatto anche se la donna afferma di non
essere incinta). Poi si valuta prolattina per escludere iperprolattinemia/prolattinoma, si
valuta il TSH per individuare un eventuale ipotiroidismo. Successivamente si fa ancora un
un test di primo livello, il test all’idrossi-progesterone (MAP test) che se positivo ci porta alla
diagnosi di ovaio policistico (che è tra le cause più comuni di amenorrea). Se invece il MAP
test è negativo, si fa il test con estro-progestinici e se non si verifica sanguinamento si
contatta il ginecologo per la ricerca del problema ovarico/uterino. Se invece si verifica il
sanguinamento allora si dosano FSH e LH, se sono normali/basse si fa diagnosi di
amenorrea ipotalamica, se invece sono alte di POF o resistenza ovarica.
SINDROME DI TURNER
È una condizione comune, spesso viene scoperto quando viene fatta un’ecografia a
causa di amenorrea o oligomenorrea. La sua presenza è caratterizzata da
iperandrogenismo, aumenta la secrezione di LH in misura maggiore rispetto a quella di
FSH. La patogenesi non è del tutto nota. Si ha anche una condizione di iperinsulinismo.
Sintomatologia
Infertilità, amenorrea, obesità.
E’ definita menopausa prematura se compare tra 41-45 anni, molti di questi casi sono
iatrogeni da farmaci o terapia.
TESTICOLO
Anche la secrezione di androgeni risente di un ritmo con picco nel mattino e una riduzione
durante la giornata.
In circolo viaggiano in parte come ormone libero, in parte legati ad albumina e in parte
legati a SHBG (sex ormon binding protein). Variazioni nella concentrazione di SHBG
influenzano la quota libera di ormone.
Test dinamici
tra i test dinamici abbiamo quelli di stimolazione con gonaditropina corionica, di
stimolazione con GnRH (per valutare alterazioni nella funzione ipofisaria, se presente
disfunzione ipofisaria non ci sarà risposta). Importante è anche l’esame del liquido
seminale nel quale si valutano le caratteristiche e la numerosità degli spermatozoi.
Indagini strumentali
Tra le indagini strumentali ci sono l’Ecografia (che
permette di valutare bene la morfologia del
testicolo), l’eco-doppler (per valutare la
vascolarizzazione che potrebbe essere alterata
ad es. nel varicocele).
Test più invasivi sono l’agoaspirato e la biopsia
testicolare, per stabilire le caratteristiche di
eventuali formazioni e noduli.
IPOGONADISMO MASCHILE
IPOGONADISMO PRIMARIO
È un tipo di ipogonadismo ipergonadotropo causato da:
• Alterazioni genetiche: anomalie cromosomiche (es.Klinefelter), microdelezione del
cromosoma Y e Resistenza a LH e/o FSH
• Anomalie anatomiche: Anorchia congenita, agenesia o pioplasia delle cellule del Leydig,
aplasia germinale, criporchidismo e varicocele. Questi ultimi due si presentano con una
certa frequenza.
• Patologie autoimmuni
• Processi postinfettivi
• Processi traumatici
• Danni Iatrogeni
Dal punto di vista clinico, l’ipogonadismo si può manifestare in maniera diversa a seconda che si
presenta prima della pubertà o nell’età adulta.
Nel bambino avremo un accrescimento eccessivo che comporta un aspetto eunucoide. Questo
aspetto è caratterizzato da:
1. Un’altezza sopra la media;
2. Un’apertura delle braccia che può superare l’altezza anche di qualche centimetro;
3. Scarsa massa muscolare;
4. Disposizione del grasso di tipo femminile (come ad esempio a livello del bacino);
5. Riduzione o assenza di peluria a livello facciale o ascellare. La peluria si posiziona nelle
zone tipiche femminile, come a livello pubico, mentre i capelli sono ben sviluppati;
6. Alto timbro della voce, tipico del bambino;
7. Diminuzione dell’accrescimento dei testicoli che hanno un volume inferiore a 5 ml e una
lunghezza < 2.5 cm;
8. Diminuzione delle dimensioni del pene (<3-5cm) e della prostata;
9. Mancanza di libido, impotenza sessuale e ginecomastia (presenza di mammelle nel
maschio).
Nell’adulto invece:
1. L’altezza e le proporzioni scheletriche saranno normali cosi come il timbro della voce;
2. La massa muscolare e la forza saranno ridotte. Gli androgeni, infatti, sono ormoni
fondamentali per conferire la forma e la forza muscolare. Essi sono tra gli ormoni che
vengono utilizzati nel doping, così come insulina, GH, EPO;
3. Si presenta riduzione dei peli ascellari, pubici e facciali;
4. Si presenta impotenza, perdita di libido e infertilità, in quanto il testosterone prodotto dalle
cellule del Leydig agisce anche a livello delle cellule del Sertoli promuovendo lo sviluppo
degli spermatozoi.
5. La prostata è normale mentre il volume testicolare è ridotto;
6. Aumenta il rischio di osteoporosi per il ruolo che svolgono gli androgeni (limitare il
riassorbimento);
7. Si presenta oligoazoospermia (infertilità dovuta a riduzione di spermatozoi e/o alterazioni
degli stessi).
SINDROME DI KLINEFELTER
È una patologia genetica che dà luogo a un
ipogonadismo ipergonadotropo caratterizzata SINDROME DI KLINEFELTER
dal fatto che in questi soggetti c’è un
cromosoma X sovrannumerario (XXY). Causa più frequente di ipogonadismo congenito maschile
Questo tipo di anomalia determina un alterato
Presenza di un cromosoma X soprannumerario per
sviluppo testicolare ma soprattutto interessa la mancata disgiunzione meiotica durante la spermatogenesi o
parte tubulare che va incontro a processi la oogenesi in uno dei genitori
degenerativi comportando una mancanza di
sviluppo di epitelio germinale e quindi di 60% madre (oocita con 2 cromosomi X)
spermatociti. Ciò determina infertilità. Il 30% padre
cariotipo più comune, nell’80% dei casi, è
caratterizzato dalla tripletta XXY ma ci sono Anomalie dello sviluppo testicolare;
anche forme di mosaicismo (XXY/XY) nel Degenerazione tubulare;
Scomparsa epitelio germinale
20% dei casi. La prevalenza è 1:500 nati
maschi.
L’aspetto è un fenotipo maschile con vari livelli ipoandrogenismo che comporta habitus eunucoide.
La progressione della patologia può essere evitata con una terapia appropriata. Purtroppo però, la
diagnosi può essere ritardata a causa di un quadro molto sfumato in una buona percentuale di casi.
Un elemento clinico presente nella maggior parte dei casi è la ginecomastia dovuta ad un eccesso di
estrogeni che vengono aromatizzati a livello del tessuto adiposo. Abbiamo anche azoospermia
(spermatozoi alterati) e testicoli piccoli e duri. Questa ultima caratteristica è dovuta alla prevalenza
di tessuto fibroso che va a sostituire il tessuto gonadico (come nella sindrome di Turner). I livelli
ormonali di testosterone saranno bassi mentre FSH e LH saranno elevati. In alcuni casi può essere
presente una ridotta tolleranza al glucosio.
SINDROME DI KLINEFELTER
La sindrome di Klinefelter espone ad un rischio aumentato di neoplasia, in particolare alla
mammella (aumento della frequenza di 20 volte), e di osteoporosi a causa della carenza di
androgeni. aumentato rischio di
I soggetti presentano ginecomastia, magrezza e
lunghezza delle braccia. - carcinoma mammario (20 volte > che nel
Analisi microscopica dei tubuli seminiferi: sono maschio e 5 volte < rispetto alla donna)
visibili solo i setti fibrosi e non il tessuto
germinale. - leucemia, linfomi, tumori gonadici e tumori a
cellule germinali extragonadici, vene varicose,
malattie autoimmuni, osteoporosi
IPOGONADISMO CONGENITO
Esistono anche delle forme congenite in cui i valori di FSH e LH sono molto variabili.
IPOGONADOTROPO CONGENITO
Modalità di trasmissione:
- Forme sporadiche (circa i 2/3)
- Forme familiari ( circa 1/3, autosomiche dominanti e
autosomiche recessive, legate all’X )
Quadro ormonale:
- Bassi valori di testosterone
- Bassi valori di FSH e LH (con ridotta assente
pulsatilità) oppure valori normali
- (Variabile risposta al GnRH, in genere ridotta)
ENDOCRINOLOGIA
Ginecomastia
Si intende un aumento di volume di una o di entrambe le mammelle maschili per un
aumento/proliferazione dei dotti mammari; questa viene detta ginecomastia vera, da distinguere
dalla più comune pseudoginecomastia (o ginecomastia falsa), dovuta generalmente alla
deposizione di tessuto adiposo o anche per altre condizioni, tra cui le neoplasie.
La ginecomastia può essere fisiologica,
riscontrabile sia nei neonati sia negli
adolescenti, e va incontro a regressione
spontanea; questa condizione è comune
anche nell’anziano.
La più comune pseudoginecomastia va
differenziata da altre condizioni, quali i
tumori e l’iperprolattinemia, che potrebbe
determinare una secrezione dai dotti; i
tumori, che possono generarsi nella regione
mammaria, sono generalmente monolaterali.
L’obesità si associa ad una aumentata
incidenza della ginecomastia falsa e sembra
ci sia una correlazione diretta tra il grado di
obesità e quello di pseudoginecomastia.
Esistono quindi:
• Forme fisiologiche
o Neonatali,
o Puberali,
o Senili.
• Forme nell’ambito di patologie endocrine:
o Ipogonadismo,
o Adenomi ipofisari come i prolattinomi,
o Sindromi adreno-genitali per la resistenza agli androgeni,
o Ipertiroidismo e, verosimilmente anche ipotiroidismo,
o Tumori testicolari secernenti estradiolo.
• Forme non endocrine:
o Insufficienza epatica, in particolare su base alcolica, che potrebbe essere accentuata
dall’utilizzo di farmaci (es. diuretici risparmiatori di potassio),
o Insufficienza renale,
o Rialimentazione nei pazienti cachettici.
• Forme date da farmaci:
o Ormonali (es. estrogeni),
o Che possono interferire col sistema endocrino (es. diuretici risparmiatori di
potassio come spironolattone e amiloride).
• Forme per le quali non si conosce una causa, quindi idiopatiche.
La diagnosi differenziale deve essere fatta con:
1) Condizioni di aumentata produzione di estrogeni:
a) Tumori sia delle ghiandole surrenali sia dei testicoli, i quali possono determinare un
aumento della produzione di estrogeni (vanno misurati gli estrogeni e le gonadotropine),
b) Ipertiroidismo, perché aumento il processo di aromatizzazione del testosterone in estrogeni
(basta misurare i valori di TSH).
2) Condizioni di ridotta attività androgenica:
a) Ipogonadismo centrale o periferico,
b) Insensibilità periferica agli androgeni,
c) Rialimentazione,
d) Dialisi,
e) Altro (es. insufficienza epatica, spina bifida).
La diagnosi non è semplice, in quanto queste condizioni sono molto comuni; per cui si arriva a
diagnosticare la neoplasia, quando questa si è evoluta, attraverso le immagini perché può aver dato
problemi di compressione.
SBOB: Silvia Fiori
REV: Leonora Klahr
11/04/2019 – 1° ora
OBESITA’
È una condizione estremamente comune. È gravata da
morbidità e mortalità molto elevata, comportando anche
elevati costi sanitari.
L’obesità viene solitamente classificata in relazione
all’indice di massa corporea BMI, in relazione al
risultato la distinguiamo tra sottopeso, normopeso,
sovrappeso, obesità di I, II, III grado.
La distribuzione del grasso corporeo è diversa nel
maschio rispetto alla femmina.
Maschio tronco
Femmina sottocute: cosce e natiche
Ciò ha conseguenze a livello funzionale: la disposizione del grasso sottocutaneo nelle donne ha
impatto per quanto riguarda il rischio cardiovascolare, che viene ridotto.
Nel maschio, il grasso addominale, è maggiormente associato a patologie come steatosi epatiche e
insulino resistenza, che favoriscono l’insorgenza di patologie
cardiovascolari.
All’aumentare dell’obesità aumenta il rischio di morte.
La mortalità generale è un dato molto grezzo ma allo stesso tempo
molto efficace, la mortalità cardiovascolare può essere dovuta allo
scompenso cardiaco, alla patologia ischemica: il rischio aumenta
in relazione al grado di obesità.
Obesità endocrine:
L’obesità può essere definita utilizzando anche altre misure, ad esempio la circonferenza
addominale e la circonferenza vita, e anche questi risultati sono correlati al rischio cardiovascolare.
Normalmente la circonferenza addominale dovrebbe essere più bassa almeno di 100 cm, per avere
un rischio basso e contenuto, al di sopra di 100 cm il rischio aumenta notevolmente. La
circonferenza addominale esprime principalmente la quantità di grasso presente a livello
addominale. Ad oggi questa tipologia di
misurazione è anche più rilevante del BMI,
perché mentre il BMI esprime un rapporto
tra altezza e peso, la circonferenza
addominale ci dà informazioni riguardanti
la quantità di grasso. Se prendiamo un
soggetto molto muscoloso, potremmo
riscontrare un BMI uguale ad un soggetto sovrappeso della stessa altezza, ovviamente quindi va
considerato il tipo di massa (magra o grassa).
Il problema dell’obesità è anche legato al numero enorme di obesi che sono in aumento e
attualmente troppi. Per analizzare questi dati ci riferiamo agli Stati Uniti, poiché hanno molti
registri e quindi dati molto precisi: la percentuale degli obesi supera il 35%. Sappiamo che qui lo
stile di vita non è tra quelli più consigliati e questo ha un evidente riscontro nell’obesità.
-polmonari: il soggetto obeso tende ad ipoventilare apnea ostruttiva del sonno: ad oggi viene
diagnosticata sempre più spesso. È una condizione che espone il soggetto a rischi di ipossemia, per
cui la T di ossigeno si abbassa mentre aumenta la CO2, dunque si attiva il sistema adrenergico
durante la notte quando invece dovrebbe essere a riposo. Abbiamo quindi aumento della frequenza
cardiaca e aumento della pressione arteriosa, con aumento del lavoro cardiaco notturno. Capiamo
perché ciò è associato al rischio cardiovascolare (aritmia, morte). L’unica terapia, oltre alla perdita
di peso, è quella di aumentare la T di ossigeno durante la notte. Viene utilizzato un erogatore di
ossigeno a pressioni elevate per generare tensioni positive a livello alveolare: il soggetto porta una
maschera durante la notte grazie al quale vengono assicurati scambi alveolari gassosi adeguati. È
una terapia non facilmente tollerata e quindi scarsamente praticata dai pazienti, che poi durante il
giorno tenderanno ad essere sonnolenti per aumenti di CO2 e per aver dormito male.
Questi pazienti sono più soggetti ad esempio ad asma, perché lo spazio respiratorio è ridotto per
colpa del grasso addominale che costringe il diaframma in una posizione “più alta”. Viene definita
sindrome di Pickwick (tendenza ad addormentarsi durante il giorno in associazione agli altri
disturbi). Ha quindi conseguenze estremamente rilevanti.
- gastrointestinale formazione di calcoli, steatosi epatiche non alcoliche (accumulo di grasso a
livello del fegato) che può evolvere verso steatoepatite e cirrosi. Sono anche soggetti maggiormente
esposti al rischio di cancro (esofago e colon).
[NB: le patologie neoplastiche sono in generale più comuni nei soggetti obesi.]
- cardiovascolari ipertensione, cardiomiopatia ischemica, insufficienza cardiaca
- metaboliche diabete, sindrome metabolica
- endocrine
- muscolo-scheletriche artrosi dipendente dal peso in eccesso che il sistema scheletrico
(ginocchia, colonna) deve sopportare.
Quando analizziamo condizioni di obesità dobbiamo quindi valutare anche tutto ciò che la
condizione può comportare nel tempo.
Altro aspetto, non patologico ma sociale, evidenzia che i soggetti obesi si assentano maggiormente
dal lavoro. Questo non ha ovviamente rilevanza dal punto di vista patologico ma è un’altra criticità
che il paziente deve affrontare.
Sindrome metabolica
È in stretto rapporto con l’obesità.
La prima definizione (1999) che è stata data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità include
numerose comorbidità con l’obesità:
diabete di tipo 2, intolleranza ai carboidrati, insulino resistenza, ipertensione arteriosa, aumento dei
trigliceridi, obesità (misurata come circonferenza addominale: >102 cm per l’uomo, >94 cm per la
donna), HDL diminuite.
Quindi la sindrome metabolica è una condizione che racchiude almeno 3 patologie, tutte che
concorrono ad aumentare il rischio cardiovascolare.
La nuova definizione introduce un’importanza per la glicemia a digiuno (> 110mg), trigliceridi
(>150mg), HDL (<40/50mg), circonferenza vita (>102 uomo, >94 donna), ipertensione arteriosa
con valori leggermente diversi.
WHO, 1999
IDF (associazione mondiale per lo studio del diabete) ne ha proposta un’altra un po’ più restrittiva,
soprattutto per quanto riguarda la circonferenza vita, che è stata abbassata ad un valore di 94 cm
nell’uomo (bassa!!) e 80 cm nelle donne, glicemia a digiuno > di 100mg e gli altri parametri
invariati.
Un aspetto importante di questa condizione è che è caratterizzata dall’aumento degli acidi grassi,
che è associato ad insulino resistenza, indotta dall’aumento della glicemia, dall’ipertensione e da
alterazioni del metabolismo lipidico. L’aumento degli acidi grassi determina un metabolismo di
questi alterato, che si accumulano a livello del fegato, per cui aumenta la massa grassa a livello del
fegato, che porta a steatosi epatica.
Nei diabetici e negli obesi è quasi sempre presente steatosi epatica, magari lieve ma sarà presente.
La steatosi avvia alla steatoepatite. Se la steatosi non viene corretta nel tempo tramite eliminazione
di grasso superfluo (perdita di peso), questa condizione porta allo sviluppo di steatoepatite, cirrosi e
cancro. Quindi le condizioni che comportano aumento degli acidi grassi sono alla base della
sindrome metabolica. La sindrome metabolica è associata all’aumentato rischio cardiovascolare.
Tessuto adiposo
È un organo di deposito di grasso. Ma oggi sappiamo che è anche in grado di produrre ormoni e
citochine (adipochine) che svolgono un ruolo per quanto riguarda l’insulino-resistenza, quindi deve
essere ricordato anche come organo endocrino, implicato anche poi nell’infiammazione cronica di
basso grado associata all’obesità. Questi marker, tipici dell’infiammazione (IL-6, leptina,
adiponectina, TNFalfa), vengono maggiormente prodotti dal tessuto adiposo viscerale.
Altre comorbidità
-Nefropatia presenza di microalbuminuria nelle fasi iniziali, tendono a peggiorare in relazione
alla quantità di elementi della sindrome metabolica presenti
-Epatopatia NAFLD (sempre in relazione al grado di obesità), NASH correlate a rischio
cardiovascolare (rischio di infarto, scompenso cardiaco)
-Policistosi ovarica
-Neoplasie leucemia
-Gotta
-Ipercoagulabilità, trombosi, disfunzione epiteliale
Abbiamo poi il tessuto adiposo che è in grado di comportarsi come un tessuto endocrino e quindi di
secernere ormoni (leptina, adiponectina), ma anche citochine, implicate nel processo infiammatorio
cronico che caratterizza l’adiposità. Come si può vedere, le sostanze prodotte dal tessuto adiposo
sono numerose e sostanzialmente hanno a che fare con l’infiammazione.
Per ciò che riguarda gli ormoni si riconosce la leptina e la adiponectina. Quest’ultima è interessante
perché è l’unico di questi prodotti che è in grado di migliorare l’insulino sensibilità e inoltre è
prodotto con una concentrazione inversamente proporzionale alla quantità di tessuto adiposo del
soggetto: questo spiega perchè i soggetti più magri sono più sensibili rispetto a quelli meno magri.
La leptina abbiamo già visto che ha un ruolo nel modulare i centri oressigeni e anoressigeni; poi vi
sono tanti altri prodotti che invece lavorano in senso contrario all’adiponectina, che peggiorano il
grado di insulino sensibilità e che quindi aumentano l’insulino resistenza e sono alla base di quelle
comorbidità presenti in soggetti obesi quali il diabete, intolleranza ai carboidrati, l’ipertensione
arteriosa (perché se aumenta l’insulino resistenza aumenta anche la pressione) e così via.
Entriamo nel dettaglio:
- la Leptina è un ormone prodotto
dal tessuto adiposo in quantità
proporzionale alla concentrazione di
grasso, che è stata sintetizzata circa
25 anni fa (è stato individuato il gene
responsabile della sua sintesi: ob-
gene) e vedete come (in questo caso
nel topolino: a sx avente il gene e a
dx senza gene) senza il gene della
leptina l’animale tenda ad ingrassare.
Ci sono stati dei tentativi nell’uomo
di somministrare la leptina, ma sono
stati dei tentativi che non hanno
portato risultati clinici rilevanti. La leptina induce senso di sazietà, aumento della spesa energetica
ed è un ormone importante che ha anche un ruolo nell’ambito della funzione riproduttiva: è infatti
coinvolta nell’attivazione del menarca e quindi della pubertà. Dovendo agire sul sistema nervoso,
essa deve attraversare la barriera ematoencefalica. Nei soggetti obesi avviene spesso un quadro di
resistenza alla leptina, dovuto probabilmente ad un problema recettoriale, quindi anche se le
concentrazioni di leptina aumentano (a causa della maggiore quantità di tessuto adiposo) la sua
efficacia diminuisce. Abbiamo visto che l’azione del NPY è legata alla leptina, quindi in questo
caso una diminuita risposta alla leptina provoca un aumento della produzione di NPY e questo
provoca la stimolazione dell’appetito.
I fattori che regolano la secrezione della leptina sono diversi, sicuramente il pasto ne stimola la
secrezione, mentre il digiuno la inibisce.
La leptina come abbiamo detto è coinvolta nella fertilità: avendo una corretta quantità di tessuto
adiposo siamo in grado di secernere una giusta quantità di leptina e questo è importante soprattutto
per innescare il menarca.
Nei soggetti con malnutrizione i livelli di leptina sono bassi e avremo ripercussioni sulla produzione
di estrogeni (che diminuisce) causando alterazioni del ciclo ovulatorio e mestruale; in questo modo
capiamo perché i soggetti che non hanno il gene per la leptina siano sterili.
Nel caso in cui vi sia un problema a livello recettoriale, la somministrazione di leptina non ha alcun
effetto.
Essa può essere implicata in determinate condizioni, come nella sindrome metabolica (un tempo
veniva chiamata “sindrome x”); ma anche in altre condizioni quali alterazioni riproduttive,
patologie tiroidee, comportamento alimentare e insufficienza renale.
Il tessuto adiposo produce altri fattori come il TNF-α che ha un’azione anoressigena importante,
tant’è che può provocare dei quadri di magrezza gravi, fino ad avere cachessia (riscontrabile per
esempio nei pazienti oncologici nelle fasi più avanzate).
Domanda: per quale motivo abbiamo detto che il TNF ha un’azione anoressizzante in questo caso,
quando nei pazienti obesi viene prodotto per via dell’infiammazione cronica non da questo tipo di
effetto? Prendiamo come esempio i soggetti oncologici, malnutriti. In questi pazienti l’azione
cachessizzante viene fuori con l’interazione con altri prodotti, altre sostanze prodotte dal tessuto
adiposo (in questo caso scarso), verosimilmente vi è una sorta di correlazione inversa nei soggetti
obesi, in cui l’azione di questi prodotti viene a dominare rispetto all’azione per esempio della
leptina, dell’insulina, che generalmente richiedono una quantità di grasso maggiore; poi ci può
essere anche un problema di sensibilità tissutale a questi prodotti.
- La grelina è prodotta dalle cellule dello stomaco e aumenta nella condizione di digiuno, e
abbiamo visto come agisce poi a livello
del nucleo arcuato.
Si mantiene molto elevata nella
condizione di digiuno, anche in casi di
anoressia nervosa: in questi casi
nonostante una grande concentrazione di
grelina, probabilmente la sua azione sui
nuclei della fame è compromessa e
pertanto non ha effetto.
La secrezione viene influenzata da
numerosi fattori, in primis la fame; ci
sono invece tanti altri fattori che la
inibiscono come per esempio il pasto, la
distensione gastrica, la leptina, l’obesità
ecc.
Dato che la grelina agisce sui neuroni oressigeni, stimola la secrezione di NPY.