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Sbobina 04.03.19.

Serpico Fabio

Prof.: E. Puxeddu

DIAGNOSTICA MOLECOLARE NELLE MALATTIE ENDOCRINO-


METABOLICHE

Il corso ha questo nome ma in realtà è una parte di Endocrinologia. Sono 5 lezioni in


cui, partendo anche dalla fisiopatologia, si parlerà di tiroide e patologie annesse,
delle neoplasie endocrine multiple, delle sindromi adreno-genitali per poi finire con
la vera e propria diagnostica molecolare.

Libro di testo: Harrison-Principi di medicina interna, integrato a diapositive


(disponibili su UniStudium)

TIROIDE

La tiroide produce gli ormoni tiroidei, T3 (triiodiotironina) e T4 (tetraiodiotironina o


tiroxina). Al suo interno troviamo i follicoli tiroidei, le unità funzionali dal punto di
vista anatomo-istologico. Sono “sfere” rivestite di cellule follicolari che racchiudono
la colloide.

In realtà la vera e propria “centralina” del sistema è rappresentata dalle cellule


follicolari, particolare tipologia di cellule epiteliali. Oltre alle follicolari, altre tipologie
di cellule epiteliali presenti nella tiroide sono le cellule C, o parafollicolari, con
funzioni diverse. Le cellule follicolari sono ovviamente polarizzate con una superficie
baso-laterale e un apice con vari elementi tra cui proteine, trasportatori, recettori ed
enzimi che sono peculiari di questo tipo di cellule e le distinguono da tutte le altre.
Sulla base della presenza di questi elementi prendono forma varie alterazioni e
patologie e su questi si basano anche molte diagnosi.

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Particolarmente importante è il NIS (Simporto Na+/I-), che garantisce alla cellula
follicolare l’intake di ioduro, sfruttando il gradiente elettro-chimico del Sodio, più
concentrato all’esterno della cellula e meno concentrato all’interno. Grazie anche
alla Na+/K- ATPasi è permessa la fuoriuscita di 3 Na+ e l’entrata di 2 K+. La sintesi
degli ormoni tiroidei avviene in prossimità dell’apice della cellula, in corrispondenza
dell’interfaccia cellula-colloide: partendo dalla iodinazione della tireoglobulina
sintetizzata nella cellula, si formano MIT e DIT, che si accoppiano a formare gli
ormoni tiroidei ancora attaccati alla tireoglobulina. All’occorrenza, la colloide è
introdotta nella cellula per micropinocitosi, le vescicole si fondono con i lisosomi, la
tireoglobulina viene clivata e vengono rilasciati gli ormoni tiroidei.

Alla base di tutto questo c’è il TSH, che ha un suo recettore sulla superficie baso-
laterale. L’attivazione di questo recettore innesca una cascata di trasduzione del
segnale che regola l’espressione di vari enzimi, ATPasi, tireoperossidasi, ma stimola
anche la proliferazione cellulare (iperplasia). Fondamentale è poi l’asse ipotalamo-
ipofisi-tiroide con l’importante meccanismo a feedback finalizzato a far rimanere la
concentrazione di ormoni tiroidei in un range ben preciso e specifico.

La tiroide produce T3 e T4 che ovviamente non sono uguali. L’ormone attivo è il


primo e la tiroide provvede al 100% della produzione di T4 e solo al 20% di quella di
T3 (la restante parte deriva dalla
conversione periferica della T4). Gli
ormoni sono immessi nel torrente
circolatorio e raggiungono i tessuti
bersaglio (in realtà l’effetto è su tutti i

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tessuti). Una volta raggiunti, devono entrarci dentro e lo fanno grazie a determinati
trasportatori. Anche alterazioni a carico di questi ultimi, o loro mancanze, possono
determinare patologie, seppur raramente. La T4 è un pro-ormone: una volta dentro
la cellula viene trasformata in T3 ad opera di enzimi, le desiodasi. Ne esistono 3: la
DIO1, DIO2 (trasformano T4 nella forma attiva T3) e DIO3 (entra in gioco
nell’inattivazione ormonale, trasformando la T4 in rT3 che non è in grado di legare i
recettori nucleari). La T3 è in grado di legare i recettori all’interno delle cellule e
regola l’espressione genica e il comportamento delle cellule.

Nel sangue gli ormoni sono legati a 3 proteine di


trasporto: TBG (Tyroxin Binding Protein), che trasporta
il 70% degli ormoni tiroidei, TBPA (Tyroxin Binding Pre-
Albumin) che trasporta il 10% della T4 e l’albumina,
che trasporta il 15% degli ormoni tiroidei. La maggior
parte di questi sono quindi legati a proteine che li
veicolano verso tutti i distretti corporei. In realtà c’è
anche una quota di ormone libero e c’è una
stechiometria ben precisa tra T4 libera, proteine di
trasporto libere e il complesso ormone-proteine
(equazione chimica nell’immagine a dx). Questo è un
fenomeno importante perché ci permette di avere
sempre una certa quota di ormone libero, cioè quello
biologicamente attivo. Se aumenta la quota di proteine di trasporto (succede
spesso ad esempio in gravidanza per azione di estrogeni), FT4 diminuisce perché
andrà a legarsi alle proteine. Allora ci sarà un’attivazione di TRH e TSH che andrà a
stimolare la tiroide a produrre più ormone, rimpiazzando la quota di quello libero che
si è andato a legare. La presenza di queste proteine di trasporto inoltre, ci permette
di avere nel sangue un pool di ormone tiroideo che ci mette parecchio tempo ad
essere consumato. Persone senza tiroide a cui viene sospeso l’ormone tiroideo ci
mettono molto tempo a diventare
ipotiroidei. Questa è una peculiarità
evolutiva di noi esseri umani (ad
esempio i cani, non avendo queste
proteine, hanno un fabbisogno 10
volte maggiore).

Gli ormoni tiroidei vengono


metabolizzati. Abbiamo già
accennato alle desiodasi (DIO o D 1,2
e 3): le D1 e D2 trasformano la T4 in
T3, mentre la D3 inattiva la T4 in rT3 o
trasforma T3 in T2. Ci sono poi anche

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altri meccanismi di metabolizzazione a livello epatico (glucoronazione, solfatazione).
È importante inattivarli dove non servono per evitare che ci siano accumuli in
eccesso.

La T3 si lega a recettori che


funzionano come eterodimeri
insieme ai recettori dell’acido
retinoico a livello nucleare. Si
trovano in corrispondenza di
specifiche sequenze del DNA
che rappresentano i cosiddetti
TRE (Thyroid Responsive
Element), in corrispondenza del
promotore di geni regolati dagli
ormoni tiroidei. Il legame
ormone-recettore modifica
questi eterodimeri determinando
attivazione della trascrizione dei
geni regolati, ma anche
inattivazione. Regolando la
funzionalità trascrizionale, quindi la produzione di proteine, l’ormone modifica la
risposta di un tessuto.

Gli effetti degli ormoni tiroidei sono vari:

• TERMOGENESI e CONSUMO DI OSSIGENO: agiscono sulle cellule di tutto


l’organismo tenendo vivo il metabolismo e mantenendo la temperatura interna
(evitando che laddove ci siano modificazioni della temperatura esterna ci possano
essere modificazioni interne che compromettono il sistema). Agiscono stimolando
le vie del catabolismo
lipidico, glucidico e proteico.
Stimolano il ciclo di Krebs e
la fosforilazione ossidativa,
meccanismi che permettono
produzione di energia. Sono
in grado anche di deviare la
produzione energetica dalla
sintesi di ATP verso l’utilizzo
di questo (ATP) per produrre
calore. Lo fanno stimolando
una proteina, la Uncoupling

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Protein (UCP) che devia gli H+ che vengono pompati al di fuori della membrana
del mitocondrio e che servono alla sintesi di ATP. Così facendo riesce a produrre
calore. È particolarmente importante nel tessuto adiposo bruno, dove c’è
interazione anche con il sistema adrenergico che regola l’espressione di D2.
L’adrenalina dunque attiva la D2 che trasforma la T4 in T3 che stimola la sintesi di
UCP.

• SISTEMA CARDIOVASCOLARE: effetto cronotropo e inotropo positivo, aumento


dell’espressione dei recettori β-adrenergico, riduzione proteine G-inibitorie (che
regolano l’adenilato-ciclasi attivata dagli ormoni tiroidei), riduzione delle resistenze

vascolari periferiche. In maniera diretta e indiretta la T3 regola le resistenze


vascolari periferiche: indirettamente tramite la termogenesi e l’aumento del
metabolismo tissutale; direttamente agendo sulle cellule muscolari lisce delle
arteriole stimolandone il rilasciamento. Stimola direttamente il cronotropismo e
direttamente e indirettamente l’inotropismo cardiaco. Indirettamente perché la
riduzione delle resistenze periferiche, quindi la dilatazione delle arteriole,
determina una riduzione del volume di riempimento arteriolare effettivo (aumenta
la capacità del sistema vascolare ma manca volume) con ripercussioni a livello
iuxtaglomerulare renale, attivazione del sistema RAA e aumento di sodio ad opera
dell’aldosterone. Ciò aumenta la volemia, trascinando dell’acqua. Aumenta il
precarico sul ventricolo, il che determina, per la legge di Frank-Starling, un
aumento dell’inotropismo. Aumentando la frequenza cardiaca e la gittata sistolica,
aumenta la gittata cardiaca che, in aggiunta alla riduzione delle resistenze
periferiche, fa scorrere più veloce il sangue nel nostro apparato (se gli ormoni
tiroidei sono troppi si possono avere problemi)

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• SVILUPPO FETALE: soprattutto del
SNC e lo sviluppo scheletrico.
Durante tutta la vita embrionale e
fetale, l’organismo è esposto a
ormoni tiroidei, che prima derivano
esclusivamente dal passaggio
placentare e poi, intorno alla 20a
settimana sono prodotti propriamente
dal feto. Sono fondamentali per lo
sviluppo del SNC. Se mancano gli
ormoni tiroidei della madre e/o del
figlio ci sono moltissimi difetti e
alterazioni. Si arriva alla nascita di un
bambino affetto da difetti neuro-
intellettivi, neuro-psichici e ritardo
mentale. Tutto questo è possibile
perché questi ormoni riescono a passare, grazie a trasportatori specifici,
attraverso la membrana emato-encefalica, e andare verso i bersagli che possono
essere neuroni o cellule gliali (soprattutto oligodendrociti). Nei neuroni regolano
vari aspetti tra cui maturazione, migrazione, formazione di dendriti, formazione di
mielina e sinapsi. Sono importanti per sviluppare varie abilità: attenzione visiva,
processazione di ciò che si vede, capacità motoria sia grossolana che fine,
distinzione dello spazio circostante, parlare, avere memoria, essere attenti, avere
un QI adeguato etc.

• SNC: Sono importanti anche nella vita adulta. Se mancano, un soggetto perde
memoria, è depresso, perde interesse nelle cose..

• SISTEMA GASTROINTESTINALE: stimola la muscolatura liscia di stomaco e


intestino

• SISTEMA EMOPOIETICO: in particolare la formazione di eritrociti (necessari


perché aumenta il consumo di ossigeno)

• SISTEMA RESPIRATORIO: stimolano la risposta dei centri bulbari allo stimolo


ipossico e ipercapnico

• SISTEMA ENDOCRINO: in integrazione a vari ormoni stimolando la produzione di


molti di questi

Gli ormoni tiroidei contengono Iodio e sono le uniche molecole del nostro
organismo a contenere nella loro struttura questi atomi, importanti anche nella
funzione. La tiroide quindi, proprio per questo, necessita di iodio e lo capta grazie al

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NIS precedentemente descritto. Se nel nostro
organismo abbiamo circa 9mg di iodio, 8 di
questi sono a livello tiroideo. Esiste un ciclo
dello iodio, più o meno complicato. Lo
introduciamo con la dieta, va nel sistema
gastrointestinale, viene assorbito ed entra in un
pool extracellulare. Gran parte di quello
introdotto è perso tramite urine e, in minor
percentuale, tramite le feci (attraverso la bile,
dopo essere passato per il fegato). Una parte
dello iodio è anche quella legata agli ormoni
tiroidei.

Oggi assumiamo iodio soprattutto da cibi animali/vegetali, attraverso le acque o


attraverso il sale di origine marina. Una piccola quota può essere assunta anche
con la respirazione in un’atmosfera ricca di iodio. In natura si trova nell’acqua del
mare, ma, attraverso un ciclo dello iodio (evaporazione, nubi, precipitazioni etc.)
torna sulla terraferma. Le terre vicino al mare sono dunque ricche di iodio e di
conseguenza lo saranno anche gli alimenti da lì provenienti. Più ci allontaniamo dal
mare, più gli eventi atmosferici sono impoveriti di iodio (che si perde via facendo). In
queste zone lontane addirittura gli eventi atmosferici lavano via anche quel poco
iodio che c’era, riportandolo verso il mare. Oggi con la globalizzazione questo
problema è anche superato in maniera passiva, ma un tempo era un problema ben
più serio.

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La problematica dello iodio coinvolge in maniera diversa le varie zone del pianeta.

Per prevenire le malattie è necessario che si riceva l’apporto iodico corretto.


Nell’adulto sono raccomandati 150 microgrammi al giorno (con sale iodato: non
troppo altrimenti si rischiano patologie renali e ipertensione arteriosa). La dose è più
alta in gravidanza e allattamento, dove non basta il sale iodato ma sono necessari
integratori, ed è più bassa nel bambino.

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Nel sistema endocrino abbiamo diversi tipi di malattie, ma in particolare possiamo
distinguere 3 classi:

• Malattie da mancanza di ormoni

• Malattie da eccesso di ormoni

• Malattie dovute a formazioni di noduli a livello delle ghiandole

IPOTIROIDISMO

È una condizione clinica caratterizzata da una ridotta produzione di ormoni tiroidei


che determina una riduzione delle attività metaboliche nei vari tessuti.
L’ipotiroidismo è uno ma esistono diversi gradi. In particolare se ne possono
distinguere 2:
• Clinico o conclamato: quello più grave. Se siamo di fronte a un ipotiroidismo
primitivo, cioè legato a un difetto intrinseco della tiroide, abbiamo una effettiva
riduzione di ormoni tiroidei nell’organismo (li misuriamo nel sangue). Oggi non
andiamo a misurare la quota totale di ormoni tiroidei, poiché può essere
influenzata dalla quantità di proteine di trasporto presenti. Dosiamo allora la quota
libera, cioè quella biologicamente attiva: FT4 e FT3 in cui “F” sta per “free”. In
quello primitivo avremo una riduzione delle concentrazioni nel sangue di FT4 e FT3,
associate, per meccanismo di feedback dell’asse ipotalamo-ipofisario,
all’aumento delle concentrazioni di TRH e TSH che possiamo dosare nel sangue;
• Sublinico o lieve: subclinico significa
con pochi sintomi o senza sintomi. Le
cause possono essere le stesse del
conclamato. In questa categoria di
ipotiroidismo FT3 e FT4 sono ancora nel
range di normalità (probabilmente al
limite basso), ma il TSH risulta
aumentato e la tiroide è comunque
stimolata, nonostante la produzione di
ormone risulti insufficiente (seppur non
gravemente).

Se andiamo a vedere l’epidemiologia di


queste due forme, vediamo che il sublicinico è molto diffuso. Secondo uno studio

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statunitense in Colorado che ha incluso 26.000 persone con più di 18 anni, andando
a valutare la funzionalità tiroidea, lo 0,3% della popolazione (3 persone su 1000) era
affetta dalla forma clinica, cioè grave, mentre addirittura il 9% (9 su 100) era
caratterizzato dalla forma subclinica. Questo vuol dire che ci sono moltissime
persone che soffrono di ipotiroidismo. In Umbria ad esempio, dove ci sono circa
800.000 abitanti, 80.000 persone soffrono di qualche tipo di ipotiroidismo. Tra le
patologie endocrine (acromegalia, Cushing, Addison etc.) sicuramente le patologie
tiroidee sono le più diffuse accanto al diabete mellito (5-10% della popolazione) che
ovviamente ha un impatto diverso.

Per quanto riguarda l’eziologia, l’elenco è abbastanza lungo. Dobbiamo prima


ricordare che esistono le forme primitive, cioè dove il danno è a livello della
ghiandola (più frequenti), ma ci sono anche forme secondarie e addirittura
terziarie (più rare). Infine c’è anche la condizione di resistenza periferica agli
ormoni tiroidei, rarissima, che si traduce in quadri di ipotiroidismo ma anche di
ipertiroidismo, dunque è piuttosto complessa. Tornando alle cause:

• Forme primitive: Tiroidite di Hashimoto (forma di infiammazione cronica della


tiroide su base autoimmune che porta a una progressiva distruzione del tessuto
tiroideo e conseguente perdita della funzionalità tiroidea), cause iatrogene (ci sono
molti pazienti affetti da ipertiroidismo, noduli tiroidei, tumori di questa ghiandola,
che vengono trattati con terapie ablative della tiroide o terapie radiometaboliche),
cause più rare come eccesso di iodio (determinato anche da un farmaco usato
molto in cardiologia) o altre tiroiditi (sub-acuta, post-partum, silente), forme

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congenite (da agenesia o displasia tiroidea), grave carenza di iodio (tipico di
Zimbabwe, Himalaya dove la carenza è grave, ma non a Perugia), assunzione di
sostanze che possono inibire la funzione tiroidea (litio ad esempio) e alterazioni
congenite degli enzimi implicati nella sintesi degli ormoni tiroidei

• Forme secondarie: manca in primis il TSH quindi si parla di ipopituitarismo,


insufficienza funzionale dell’ipofisi, che può interessare solo l’asse del TSH o
essere più ampio. Può essere dunque parziale o globale e può dipendere ad
esempio da un adenoma dell’ipofisi, interventi chirurgici o altri fenomeni come
eventi ischemici, emorragici, infettivi o traumatici

• Forme terziarie: rarissime, legate a disfunzioni ipotalamiche e quello che manca è


il TRH

• Resistenza periferica agli ormoni tiroidei

Tra tutte queste cause 3 sono le più importanti: le terapie radiometaboliche e


ablative della tiroide (facilmente evincibili dall’anamnesi del paziente) e la tiroidite di
Hashimoto.

Il farmaco prima citato è l’amiodarone,


ottimo anti-aritmico. È particolarmente
usato perché interferisce poco con la
contrattilità cardiaca (poco aritmogeno),
ma tra gli effetti collaterali, che possono
riguardare anche retina e polmone, ce
ne sono alcuni a carico della tiroide.
Questo perché il farmaco ha moltissimo
iodio (75mg ogni 200mg di farmaco).
L’effetto anti-aritmico dipende anche
dalla capacità della molecola base di
competere con T3 per il suo recettore
generando una sorta di ipotiroidismo
cardiaco e rendendo più stabili le
membrane delle cellule cardiache. Il
problema è dunque l’eccesso di iodio.
Se noi infatti caricassimo un soggetto normale di iodio, la prima cosa che succede
è il blocco dell’ormonogenesi (effetto Wolff-Chaikoff), per 15-20 giorni al massimo.
Nella tiroide sana, avviene uno sblocco e c’è una ripresa della funzione
dell’ormonogenesi (fenomeno definito fuga dall’effetto Wolff-Chaikoff). Alcuni
soggetti, soprattutto dove c’è già una tiroidite di base, non riescono a mettere in
atto questo fenomeno di fuga e quindi l’eccesso di iodio può bloccare la tiroide. In
realtà l’eccesso di iodio può portare anche a ipertiroidismo, danneggiare la tiroide e
in qualche modo accelerare un meccanismo infiammatorio della ghiandola.

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Quali sono gli effetti della carenza di ormone tiroideo?

La mancanza di ormone tiroideo determina una diminuzione del metabolismo


basale e della produzione di calore da parte dell’organismo. Ma l’ipotiroidismo in un
organismo in fase di crescita e sviluppo (feto ad esempio) può determinare
alterazioni importanti soprattutto nello sviluppo neuro-intellettivo.

A livello cardiaco, per lo


stesso meccanismo visto in
precedenza, si riduce la
termogenesi, aumentano le
resistenze vascolari
periferiche, si riduce il volume
circolante e ci sono effetti
diretti e indiretti che portano
una riduzione di inotropismo,
cronotropismo e gittata
cardiaca. Di solito c’è anche
una riduzione della pressione
differenziale: l’amento delle resistenze vascolari periferiche porta un aumento della
pressione diastolica, mentre, riducendosi la gittata sistolica, diminuisce la pressione
sistolica. Il cuore batte più piano e il circolo diventa più lento.

Venendo a segni e sintomi non si può non citare il mixedema: in alcuni organi,
soprattutto a livello cutaneo, laringeo o cardiaco, c’è accumulo di
glicosamminoglicani, i quali richiamano acqua provocando un ispessimento a livello
di questi tessuti. A livello della cute si manifesta con la cosiddetta facies
mixedematosa (paffuta, gonfia), ridotta espressività, rima oculare che può essere
ristretta (accumulo a livello palpebrale), diradamento delle sopracciglia, labbra e
lingua ingrossate, cute secca, pallida e grigiastra (talvolta giallognola perché si
accumula carotene). Lo stesso fenomeno si ha anche su tutta la cute e si parla di
mixedema cutaneo, ispessimento del sottocutaneo con edema non improntabile
(sotto la cute c’è uno strato duro). Da questi segni prende il nome una forma di
ipotiroidismo grave, cioè proprio appunto il mixedema, in cui FT4 è vicina a 0 e il
TSH è vicino a 100 mmol/L.

C’è poi una fragilità dei tegumenti (capelli, unghie) per ridotto metabolismo e la voce
di questi pazienti di solito diventa rauca per accumulo di glicosamminoglicani a
livello laringeo. Ci sono effetti sull’apparato muscolare e sul SNC che si manifestano
con astenia, adinamia, facile affaticabilità dal punto di vista sia fisico che mentale,
sonnolenza, disturbi della memoria, talvolta perdita di interesse (anche verso i
familiari e la cura della persona). Altro sintomo è l’intolleranza al freddo, legata alla
riduzione della termogenesi. Può esserci lieve aumento ponderale, legato

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all’accumulo di liquidi e al ridotto metabolismo, però l’obesità è comunque legata
all’eccessiva alimentazione e al poco movimento, non primariamente
all’ipotiroidismo. Altro sintomo importante è la stipsi (normalmente abbiamo detto
che l’ormone tiroideo stimola la contrazione della muscolatura liscia
gastrointestinale; in questo caso manca e si ha stipsi).

Altri elementi riscontrabili all’esame obiettivo sono bradicardia, effetto cronotropo


negativo, lieve ipertensione diastolica, riduzione della pressione differenziale,
aumento della colesterolemia (normali quantità di ormoni tiroideo stimolerebbero la
produzione di bile e il passaggio del colesterolo in essa con successiva
eliminazione), sofferenza del tessuto muscolare scheletrico (con aumento di CPK-
MM). C’è poi il cosiddetto mixedema cardiaco, legato al fatto che i
glicosamminoglicani si accumulano sia tra le cellule muscolari striate del cuore sia
nel pericardio (si ha ingrandimento dell’immagine del cuore con versamento
pericardico). Si evidenziano poi alterazioni all’ECG come bassi voltaggi del
complesso QRS o inversione delle onde T.

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I sintomi appena descritti, se presi singolarmente, sono molto aspecifici. Ciò
significa che sulla base di un solo sintomo non si fa diagnosi di ipotiroidismo.
Possiamo sospettarlo quando c’è un insieme di questi sintomi. Ce ne sono alcuni
più frequenti e altri più rari.

Dobbiamo però ricordare che le forme più diffuse di ipotiroidismo sono quelle
subcliniche, che sono paucisintomatiche. Possono presentare possibile intolleranza
al freddo, possibile incapacità a mantenere il peso e rispondere alle diete, possibili
cute secca, stanchezza e difficoltà alla concentrazione.

La diagnosi può essere effettuata a vari livelli. Oggi, almeno una volta all’anno, viene
effettuato il dosaggio del TSH o, in generale, degli ormoni tiroidei. Quindi abbiamo
moltissimi riscontri incidentali che possono andare a smascherare le forme anche
nascoste di ipotiroidismo.

• ESAMI DI PRIMO LIVELLO: possiamo dosare FT4 e TSH o impiegare il TSH-reflex.


Quest’ultimo è un esame di screening di funzionalità tiroidea che si basa sul fatto
che la maggior parte dei pazienti, se ha ipotiroidismo, ha una forma primitiva, in
cui il TSH è il parametro più sensibile per valutare difetto o eccesso di ormoni

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tiroidei. Se la patologia è primitiva, misurare il TSH da solo può essere sufficiente:
se siamo in ipotiroidismo il TSH è elevato, se siamo in ipertiroidismo lo troviamo
basso. Oggi esistono TSH di terza generazione che ci danno una misura alla
microunità, quindi accuratissima e molto attendibile. Il TSH-reflex è in pratica un
algoritmo messo in atto nel laboratorio. Si valuta il TSH: se è normale non si fa
altro, se è elevato (sospetto ipotiroidismo) l’algoritmo mette in opera direttamente,
sempre sullo stesso campione di sangue, la misurazione del FT4. Così facendo
potremo identificare ipotiroidismo clinico e subclinico, in relazione ai valori
ottenuti. Possiamo però avere ipotiroidismi secondari, in cui il TSH sta ancora nel
range di normalità ma è troppo basso per quel soggetto, non stimola abbastanza
la tiroide e quindi non c’è comunque una corretta produzione di ormoni tiroidei. In
questi casi quindi il TSH-reflex potrebbe non essere un test valido. Però le
patologie secondarie sono piuttosto rare, per cui comunque il test è ottimo per
risparmiare.

• ESAMI DI SECONDO LIVELLO: una volta individuato un ipotiroidismo clinico o


subclinico, va identificata la causa. Vogliamo primariamente sapere se il paziente
ha una tiroidite di Hashimoto. Misuriamo allora gli Ab specifici, cioè gli anti-
tireoglobulina e gli anti-tireoperossidasi. In realtà, per risparmiare, in prima battuta
andrebbero misurati solo gli anti-tireoperossidasi, perché in tutte le forme di
tiroidite conclamata questi sono quelli che sono sempre positivi. Anche gli anti-
tireoglobulina però possono essere importanti, soprattutto in una fase precoce
della tiroidite (sono i primi che aumentano). Per questo motivo quindi si fa
comunque il dosaggio di entrambi. Altra indagine di secondo livello è l’ecografia,
che ci permette di vedere se ci sono segni di infiammazione, danno o ipogenesia
della tiroide, oltre alla valutazione del volume e delle caratteristiche del tessuto.

• INDAGINI DI TERZO LIVELLO: non si effettuano mai o solamente quando


abbiamo il sospetto di una forma secondaria. In questa categoria rientrano un
imaging (se si sospetta ipopituitarismo) tramite risonanza della regione ipofisaria,
o un test di stimolo che va a valutare la riserva ipofisaria di TSH tramite il TRH.
Esiste un TRH sintetico distribuito agli ospedali in ampolline che contengono 200
microgrammi di TRH. Questo test un tempo era molto praticato perché esisteva il
TSH di prima o seconda generazione (quando
dice così il prof intende i metodi di dosaggio del
TSH ndr), molto imprecisi che davano solo
un’idea ma non erano molto efficaci. Per cui, per
capire l’attivazione dell’asse, si faceva il test del
TRH: se c’erano pochi ormoni il TSH tendeva già
all’alto, per cui, alla somministrazione di TRH
avevamo un eccesso di TSH; se invece c’era
eccesso di ormoni, l’asse era spento, per cui

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anche alla somministrazione di TRH, il TSH aumentava troppo poco. Oggi, con il
TSH di terza generazione, questo test serve solo se vogliamo verificare una
iperattivazione dell’asse (in presenza di adenomi dell’ipofisi, con resistenza
periferica agli ormoni tiroidei) o se sospettiamo ipopituitarismo. Con ipotiroidismo
primitivo, l’asse è iperattivato, con il TRH abbiamo una iper-risposta. In
ipotiroidismo ipotalamico o ipofisario avremo una risposta che risulta ridotta. Però
rimane comunque il discorso fatto sull’utilità del test.

Come curiamo un ipotiroidismo? Qual è l’obiettivo?

Il paziente ha un difetto di produzione di ormoni tiroidei nel suo organismo, quindi


noi vogliamo, così come in tutte le patologie endocrine, rimpiazzare l’ormone che
manca, tentando dunque di eliminare tutti i sintomi che dipendono da tale
mancanza. In questo caso vogliamo dunque portare alla normalità FT3, FT4 e TSH.
Lo facciamo tramite levotiroxina o L-T4.

Nel 1870 viene descritto per la prima volta il quadro del mixedema, nel 1880 sono
stati introdotti i primi interventi di tiroidectomia, senza pensare però che, così
facendo il paziente rimaneva senza tiroide e dunque senza ormoni tiroidei, con
conseguente mixedema. In seguito sono stati fatti tentatitivi di trapianto di tiroide
(usando tiroidi di maiali), venivano somministrati estratti o fettine di tiroide. Più
avanti, intorno agli anni ‘30 si somministrava tiroide essiccata, tireoglobulina, ma
sono stati prodotti anche i primi ormoni sintetici, tra cui la levotiroxina o
combinazioni di levotiroxina e T3 oppure la sola T3. Tutto questo è andato avanti per
parecchi anni, fino circa agli anni ‘70, in cui si sono susseguiti vari trial clinici. Nel
1970, oltre all’introduzione del test RIA (è da tener conto che prima ci si regolava
sulla valutazione del metabolismo basale), è stato scoperto che la T4 è un pro-
ormone e che effettivamente la T3 deriva dalla sua conversione periferica. I medici
continuavano a dare tiroide essiccata, tireoglobulina e T3 però capirono che
somministrare T4 era più che sufficiente.

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In effetti l’uso della T4 è razionale, perché, come detto
prima, la tiroide produce il 100% del pool di T4 e solo il
20% della T3 (la restante quota dipende dalla conversione
periferica). Dunque, somministrando T4,diamo qualcosa
che può essere convertito anche a livello periferico e
dunque può essere più che sufficiente. Ci sono anche
ragioni pratiche per cui si usa levotiroxina: è facilmente
sintetizzabile, è stabile, è identica alla T4 prodotta dalla
tiroide, si somministra per via orale, è sufficiente
assumere la dose una volta al giorno ed è anche sicura,
perché rappresenta un pro-ormone, non è pronto ad
essere utilizzato, ma richiede una conversione (che viene
modulata anche in relazione agli eccessi di T4).

Andiamo a riequilibrare gli ormoni, ma il nostro biomarcatore di efficacia è


rappresentato dal TSH, che deve tornare in un range specifico (tra 0,5 e 2 nmol/L),
che ci permette di avere una concentrazione di ormone tiroideo adeguato in tutto
l’organismo, rimpiazzandone la carenza effettiva. Ovviamente il TSH non può essere
utilizzato come biomarcatore di efficacia in pazienti affetti da ipotiroidismo
secondario o terziario. In questi casi possiamo essere solo più imprecisi tentando di
normalizzare FT4 con la levotiroxina.

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06/03/2018 Prof.: E. Puxeddu Francesca Tullio

DIAGNOSTICA MOLECOLARE NELLE MALATTIE ENDOCRINO METABOLICHE

CASO CLINICO: paziente femmina di 79 anni con ipotiroidismo.


Segni visibili: facies mixedematosa, edema palpebrale, labbra gonfie, capelli e sopracciglia
diradate. La paziente riferisce stanchezza, lieve insonnia e stitichezza. La voce è rauca a causa
dell’accumulo di GAG a livello della lingua (macroglossia) e del laringe.

A livello degli arti si nota un


ispessimento del sottocutaneo, con
cute ruvida e atrofica.

Per quanto riguarda i valori degli ormoni tiroidei: FT3=1,64 pg/mL, FT4=0,13 ng/dL e TSH 114,000
uUI/ml.
L’ECG mostra cardiomiopatia mixedematosa, tratto QRS molto slargato quindi ha un blocco di
branca sinistra. Il cuore è dilatato, con accumulo di GAG nel miocardio e questo determina
un’alterazione della conduzione cardiaca.
Cosa si fa? Si inizia la terapia sostitutiva, si comincia in maniera graduale da levotiroxina (eutirox).
All’ecografia la tiroide mostra un volume normale, con ecogenicità ridotta e una ecostruttura
disomogenea.
Queste caratteristiche si osservano in pazienti con tiroidite di Hashimoto, dove le infiltrazioni della
tiroide da parte di cellule del sistema immunitario, soprattutto linfociti, determinano queste
caratteristiche di ecogenicità ridotta ed ecostruttura disomogenea.
La terapia varia in base all’età del soggetto:
- Se siamo di fronte ad un soggetto giovane, con un cuore sano, la terapia viene iniziata
subito con una dose piena per raggiungere subito una condizione di eutiroidismo.
- Se siamo di fronte ad un soggetto anziano, con una malattia cardiaca, la terapia viene
iniziata in maniera graduale, quindi si inizia con una dose piccola che poi progressivamente
viene aumentata fino ad arrivare al dosaggio che viene somministrato ai pazienti giovani.
In un paziente anziano di circa 60 kg con ipotiroidismo conclamato, il dosaggio è di 1,5 mcg/kg
quindi la dose totale è di circa 90 mcg. Si inizia con 25 µg, poi 50µg per un paio di mesi per dare il
tempo all’organismo di adattarsi all’aumento della concentrazione, per evitare che raggiunga
troppo velocemente l’eutiroidismo.
Alla signora è stato prescritto il dosaggio degli Ab anti-Tg e Ab anti-TPO, marcatori della Tiroidite di
Hashimoto.

TERAPIA DELL’IPOTIROIDISMO
Dose di L-tiroxina
- Soggetti sani <40 anni
Inizio: dose piena (1,5 mcg/kg/die)
Valutare adeguatezza della terapia dopo 2-3 mesi. Il TSH dovrà essere normale cioè 0,5-2
mlU/L.
- Soggetti sani 40-60 anni
Inizio: 50 µg/die
Aumenti: 25 µg ogni 2 settimane fino a dose piena
Valutare adeguatezza della terapia dopo 2-3 mesi (TSH=N)
- Soggetti sani >60 anni
Inizio: 25 µg/die
Aumenti: 25 µg ogni 4 settimane fino a dose piena
Valutare adeguatezza della terapia dopo 2-3 mesi (TSH=N)
- Pazienti cardiopatici
Inizio: 12,5-25 µg/die
Aumenti: 12,5-25 µg ogni 6-8 settimane
Ridurre se il paziente ha qualche fastidio o si presentano sintomi cardiaci nuovi o aggravati.
Gli ormoni tiroidei, andando a stimolare inotropismo e cronotropismo cardiaci, determinano un
aumento del consumo miocardico di ossigeno, perciò se un soggetto ha un difetto di perfusione
cardiaca (cioè di adeguato livello di ossigeno a livello miocardico) l’ipotiroidismo può essere
addirittura un quadro vantaggioso per un soggetto che soffre di una cardiopatia ischemica.
LIMITI DELLA TERAPIA SOSITUTIVA CON L-T4
Nel gruppo dei pazienti tireoprivi cioè quelli che hanno tolto la tiroide o hanno fatto il trattamento
con radioiodio che gli ha distrutto completamente la ghiandola, abbiamo un sottogruppo di
soggetti che, a fronte di valori di FT3, FT4 e TSH assolutamente normali, questi pazienti lamentano
alcuni sintomi o segni che fanno pensare che non sono sostituiti in maniera piena. Questi soggetti
possono mostrare:
- diminuzione del metabolismo basale del 10-20%
- valori di colesterolo che si mantengono superiori a 200 mg/dl (abbiamo già visto come gli
ormoni tiroidei influenzano la clearance del colesterolo a livello epatico attraverso le vie
biliari)
- sintomi residui dell’ipotiroidismo (aumento di peso, alterazioni dell’umore, stanchezza
fisica e neurocognitiva)
All’inizio si pensava che questi sintomi fossero dati da altri problemi, in realtà invece succede che
quando andiamo a calibrare la terapia sul TSH andiamo a trattare l’ipotiroidismo ipofisario, cioè
andiamo a normalizzare gli ormoni tiroidei a livello dell’ipofisi; abbiamo una serie di persone che,
una volta normalizzata la situazione ormonale ipofisaria, ha una corrispondenza a livello di tutti i
tessuti, ma abbiamo anche dei soggetti dove ciò non avviene perché ogni tessuto ha un suo modo
di gestire il metabolismo degli ormoni tiroidei per cui non è detto che a un eutiroidoisimo
ipofisario corrisponda un eutiroidismo in tutti i tessuti. Abbiamo una serie di polimorfismi, una
serie di geni che giocano un ruolo nel trasporto degli ormoni tiroidei nel loro metabolismo
cellulare che possono causare una variabilità tra tessuti.
La trasformazione della T4 in T3 a livello dei tessuti è svolto principalmente dalla desiodasi D2, e
un suo eventuale polimorfismo genetico può portare ad un fallimento terapeutico. Alcuni soggetti
vengono trattati sia con T4 che con T3.

IPOTIROIDISMO CONGENITO
Nelle aree iodiosufficienti non è una patologia frequentissima ma neanche rara, 1 caso ogni 3000-
4000 nuovi nati. Nelle aree iodiocarenti il problema è più grave perché la mancanza di iodio incide
nella mancata produzione di ormoni tiroidei.
Prima dell’avvento dello screening neonatale, che è in atto da 20-30 anni in tutte le neonatologie
dei paesi civilizzati, l’ipotiroidismo congenito diventava uno dei fattori più importanti nel rischio di
sviluppare un ritardo mentale.
Se l’ipotiroidismo congenito viene riconosciuto nell’immediato periodo dopo la nascita, il
problema può essere risolto e i danni possono non essere permanenti; se invece non viene
riconosciuto si sviluppano dei danni che persistono e diventano irreversibili. La finestra per curare
l’ipotiroidismo congenito è molto piccola, di qualche settimana; se si supera questa finestra il
problema diventa grave, ed è questo il motivo per cui è nato questo screening neonatale.
In Italia e nei paesi civilizzati non nasce bambino senza che il giorno dopo la nascita non venga
fatto un prelievo dal tallone che viene inviato in centri specifici per la misurazione del TSH per
definire lo stato tiroideo.
Le cause dell’ipotiroidismo congenito sono legati a difetti morfo-funzionali tiroidei:
- DISGENESIA
 Atireosi: la tiroide non si forma
 Ectopia: le cellule della tiroide non migrano in maniera corretta, essa si forma in
un’altra sede e quindi non è metabolicamente attiva e non può produrre ormoni
tiroidei
 Ipoplasia: la tiroide è più piccola del normale e non funziona in maniera corretta
- DISORMONOGENESI con gozzo e non.
Ipotiroidismo congenito dipende dal fatto che qualcosa va storto nella ontogenesi della tiroide.
Come si sviluppa la tiroide? Intorno al 20°-24° giorno della vita embrionale, a partire dal
pavimento della faringe primitiva si forma un abbozzo di cellule che tende a migrare e scendere
verso il collo e poi abbiamo una proliferazione delle cellule e infine una differenziazione con la
formazione dei follicoli e l’inizio dell’ormonogenesi. Tutto questo processo è regolato da una serie
di fattori di trascrizione, dal TSH che attraverso il suo recettore regola la differenziazione delle
cellule e la produzione degli ormoni tiroidei. Possiamo avere difetti dei fattori di trascrizione nella
percentuale del 10% dei tiroidismi congeniti, oppure difetti come l’agenesia della tiroide per
mancata formazione dell’abbozzo, l’ectopia per mancata migrazione delle cellule o l’ipoplasia per
un’alterata proliferazione o sopravvivenza delle stesse. Se abbiamo un difetto nel recettore del
TSH queste cellule proliferano meno quindi non si differenziano e abbiamo generalmente un
ipotiroidismo congenito con ipoplasia tiroide; al contrario se abbiamo un difetto
nell’ormonogenesi abbiamo un ridotto feedback negativo sull’ipotalamo da parte dell’ipofisi,
aumenta il TSH che stimola le cellule a proliferare con iperplasia tiroidea e sviluppo del gozzo che
però è ipofunzionante perché mancando l’attività enzimatica non si può completare la sintesi degli
ormoni tiroidei.
Durante l’inizio della vita intrauterina il contributo degli ormoni tiroidei proviene dalla madre e poi
da metà gestazione, pur continuando il contributo materno quindi il passaggio degli ormoni
tiroidei attraverso la placenta, inizia anche il contributo del feto stesso dato che la tiroide si è
completamente sviluppata ed è in grado di produrre ormoni tiroidei. Il sistema è perfetto se
madre e feto hanno una tiroide che funziona normalmente.

Abbiamo un ipotiroidismo congenito risolvibile se c’è un problema nella tiroide del feto ma quella
materna funziona normalmente, manca quindi nella seconda metà della gravidanza il contributo
della tiroide del feto nella produzione di ormoni tiroidei.
Il problema grande si presenta se c’è un difetto nella tiroide materna perché viene a mancare un
contributo importante nella prima metà della gestazione, nella quale gli ormoni tiroidei assumono
un ruolo importante nello sviluppo dell’apparato muscolare scheletrico, del SNC.
Il quadro più grave è sicuramente quello dell’ipofunzione contemporanea della tiroide materna e
fetale dove avremo un ipotiroidismo con delle sequele perinatali non recuperabili. Sono casi molto
rari, più frequenti negli ambienti dove c’è carenza iodica che contribuisce a una ipofunzione
tiroidea materna e fetale.
I sintomi di ipotiroidismo neonatale sono:
- Eccessiva sonnolenza
- Ridotta interesse nella poppata
- Tono muscolare ridotto
- Pianto rauco per il mixedema laringeo
- Stipsi
- Ittero
- Bassa T° corporea
Nei casi più gravi con ipotiroidismo materno e fetale abbiamo difetti nello sviluppo scheletrico,
fontanella anteriore più larga, ernia ombelicale, macroglossia.

L’ipotiroidismo congenito non riconosciuto può dare CRETINISMO, con ritardo mentale importante
oltre a:
- Naso grande e piatto
- Occhi molto distanziati
- Gonfiore periorbitario
- Macroglossia
- Capelli radi e fragilità tegumenti
- Collo corto
- Nanismo disarmonico, arti corti, difetti a livello dell’anca
- Addome protuberante
- Ernia ombelicale
- Grave ritardo mentale
- Mixedema cutaneo
- Cute ruvida
- Stipsi
- Voce rauca
Come viene trattato? Le dosi di L-tiroxina sono più alte rispetto all’adulto :
Inizio 8-15 μg/Kg/die
0-6 mesi 7-10 μg/Kg/die
6-12 mesi 5-8 μg/Kg/die

Del coma mixedematoso (l‘estremo dell’ipotiroidismo) non parliamo.

IPERTIROIDISMO
L’ipertiroidismo è una condizione clinica caratterizzata da un’eccessiva produzione o rilascio degli
ormoni tiroidei che determina accelerazione dell’attività metabolica di tutti i tessuti.
Anche nell’ambito dell’ipertiroidismo abbiamo delle forme cliniche e delle forme subcliniche.
o Forma primitiva, clinica o conclamata (FT3 aumentati, TSH diminuito)
Per quanto riguarda la forma clinica conclamata, nell’ambito dell’ipertiroidismo primitivo vediamo
un aumento di FT3 e FT4 (si misurano le frazioni libere e non gli ormoni totali perché non è un
valore accurato ma può essere influenzato da fattori che alterano le proteine di trasporto) e una
riduzione del TSH.
o Forma sublicnica o lieve (FT3 e FT4 invariati, TSH diminuito)

Epidemiologia dell’ipertiroidismo
Esso è meno frequente dell’ipotiroidismo, la forma clinica conclamata rappresenta lo 0,05% della
popolazione affetta da ipertiroidismo quindi 5/10.000. Mentre l’ipertiroidismo subclinico interessa
il 2% della popolazione. Sommando questi dati a quelli dell’ipotiroidismo abbiamo che circa il 10%
della popolazione è affetta da una disfunzione tiroidea. Prendendo come esempio l’Umbria, circa
16.000 persone sono affette.
Cause dell’ipertiroidismo:
- Morbo di Basedow
- Gozzo uninodulare o multinodulare tossico
- Fase tossica della tiroidite di Hashimoto (malattia infiammatoria causata da un’aggressione
della tiroide da parte del sistema immune) la fase iniziale di questo processo infiammatorio
può essere così forte da provocare distruzione del parenchima dei follicoli e quindi c’è
un’operazione in circolo degli ormoni tiroidei (non c’è una iperproduzione)
- Tiroidite sub-acuta
- Tiroidite silente
- Tiroidite post-partum
- Indotto da iodio (iodio, amidarone, mezzi di contrasto e altri farmaci contenenti iodio)
- Tireotossicosi factizia, dove i pazienti assumono ormoni tiroidei con lo scopo di perdere
peso
- Da assunzione di TRIAC (acido triiodiotiroacetico), analogo degli ormoni tiroidei, contenuto
in sostanze utilizzate per dimagrire
- Cause tumorali:
 struma ovarii (è un teratoma, con presenza di tessuto tiroideo nell’ovaio che può
indurre produzione incontrollata degli ormoni tiroidei in sede ectopica)
 mola idatiforme (neoplasia placentare che si sviluppa durante la gravidanza o in
seguito ad essa, se rimane un residuo di placenta a livello uterino. La placenta
produce la gonadotropina corionica, glicoproteina dimerica composta da due
subunità una α e una β, simile al TSH con il quale condivide la subunità α, mentre la
subunità β è quella che dà la specificità ormonale. Può esserci il fenomeno di
spillover, cioè a causa della similitudine tra TSH e gonadotropina, questa è in grado
di attivare i recettori del TSH causando iperproduzione di ormoni tiroidei)
 carcinoma follicolare metastatico, dove ci sono delle forme che producono masse
enormi e sono formate da cellule così differenziate che sono ancora in grado di
produrre ormoni tiroidei con produzione eccessiva e incontrollata
- Inappropriata secrezione di TSH (con aumento della produzione di FT3, FT4 e TSH)
molto raro, può essere causato da:
 resistenza ipofisaria agli ormoni tiroidei
 adenoma ipofisario TSH-secernente, tumore dell’ipofisi che interessa le cellule
tireotrope con eccesso di produzione di TSH che va ad iperstimolare la tiroide
Nelle prime due cause abbiamo un’attivazione delle vie di sintesi degli ormoni tiroidei e quindi
un’iperproduzione degli stessi, mentre nelle altre cause riguardanti le tiroiditi abbiamo distruzione
del parenchima con liberazione e iperazione degli ormoni tiroidei.
Tra tutte le cause possiamo distinguere cause primitive e cause secondarie. Le cause primitive
sono tutte eccetto la mola idatiforme e l’inappropriata secrezione di TSH.
Si può fare un’ulteriore distinzione tra le cause in cui c’è tireotossicosi con ipertiroidismo o senza
ipertiroidismo. Tireotossicosi indica tutte le situazioni in cui abbiamo un eccesso di ormoni
tiroidei. Mentre l’ipertiroidismo indica un’eccessiva produzione di ormoni tiroidei.
Le tireotossicosi con ipertiroidismo sono il morbo di Basedow, il gozzo uninodulare o
multinodulare tossico, le forme indotte da iodio, le cause tumorali e l’inappropriata secrezione di
TSH.
Le tireotossicosi senza ipertiroidismo sono le restanti cause, con rilascio di ormoni tiroidei.

RECETTORE DEL TSH


Il recettore del TSH gioca un ruolo fondamentale nella cellula
follicolare nel regolare la sintesi degli ormoni tiroidei. Esso è
formato da 7 domini transmembrana, con una porzione
extracellulare e una intracellulare a cui si attaccano le proteine
G che innescano la via di trasduzione cAMP dipendente.
Accanto alla porzione che attraversa la membrana 7 volte
abbiamo un grosso dominio extracellulare che contiene la
tasca per legare il TSH e possiamo distinguere una subunità α e
una β connesse da una sequenza amminoacidica. Questo tipo
di struttura molecolare garantisce il fatto che quando il
recettore non è occupato dal TSH questo dominio esterno
funge da inibitore della porzione che attraversa la membrana e
lo tiene spento. Quando invece il recettore lega il TSH questo
cambia conformazione, il dominio esterno perde la sua
funzione inibitrice.
Questo tipo di conformazione però predispone il recettore ad acquisire dei difetti o avere
mutazioni soprattutto a livello del dominio esterno che perde la sua funzione inibitrice e il
recettore si può attivare facilmente in maniera costitutiva; abbiamo delle patologie che dipendono
all’alterazione del recettore come ad esempio nel morbo di Basedow dove c’è la produzione di
anticorpi contro i recettori del TSH che sono in grado di attivarlo e stimolare la produzione di
ormoni tiroidei. Ovviamente la produzione di TSH è regolata da meccanismi a feedback, la
produzione di Ab no, con iperproduzione di ormoni tiroidei.

MORBO DI BASEDOW-GRAVES
è una malattia autoimmune, dove le IgG sono in grado di legare e attivare i recettori del TSH,
eventualmente espressi anche in altri tessuti come il tessuto retrorbitale e quindi la malattia può
essere caratterizzata, oltre al gozzo dovuto all’iperplasia della ghiandola, anche da una condizione
nota come oftalmopatia.
I tre elementi cardine della malattia di Graves sono:
- Tireotossicosi
- Gozzo diffuso
- Oftalmopatia
Un altro elemento, seppur molto raro, è il mixedema pretibiale, infatti nel nostro corpo i recettori
del TSH possono essere espressi anche in altre sedi come il sottocutaneo della superficie anteriore
della gamba. Il segno visibile è l’ispessimento del sottocutaneo con cute eritematosa e a buccia
d’arancia.

ADENOMA TOSSICO
L’adenoma tossico può essere caratterizzato da un gozzo uninodulare o plurinodulare tossico,
dove abbiamo un nodulo o più noduli (tumori benigni) che producono un eccesso di ormoni
tiroidei. In molti casi abbiamo mutazioni che interessano i recettori del TSH e che lo attivano in
maniera costituiva anche senza la presenza dell’ormone e attivano quelle vie di trasduzione che
stimolano la proliferazione cellulare e la produzione di ormoni. Queste cellule hanno anche
un’iperespressione del NIS (simporto sodio iodio) la quale viene sfruttata in ambito diagnostico
per effettuare le scintigrafie.
Abbiamo un paziente con un nodulo e per capire se è iperfunzionante oppure no, tramite la
scintigrafia gli somministriamo un tracciante radioattivo che contiene un alogeno radioattivo che
vien captato all’interno delle cellule follicolari grazie alla presenza del NIS che è overespresso e
quindi andiamo a verificare se questa sostanza radioattiva si è andata a piazzare a livello del
nodulo.
Nel gozzo multinodulare tossico, cioè nell’ambito di una tiroide con più noduli, ci possono essere
uno o più noduli iperfunzionanti accanto a noduli che non lo sono.

IPERTIROIDISMO IODIO INDOTTO

Un’eccessiva somministrazione di iodio può determinare una condizione di ipertiroidismo. In


particolare l’amiodarone, un farmaco molto utilizzato in cardiologia, contiene una grossa quantità
di iodio (75mg di iodio ogni 200mg di farmaco). Nell’ambito dell’amiodarone possiamo avere due
tipi di tireotossicosi indotte dal farmaco:
- In soggetti che hanno un gozzo semplice o diffuso preesistente, con cellule tiroidee
predisposte all’iperfunzione, che ovesprimono il NIS o che hanno di base una
iperattivazione del sistema di biosintesi degli ormoni tiroidei, la somministrazione di un
eccesso di iodio può attivare le cellule a produrre una quantità più alta di ormoni tiroidei.
Si parla di tireotossicosi iodio indotta di tipo I.
- La tireotossicosi di tipo II, non è associata a ipertiroidismo ma è di tipo distruttivo, con
rilascio di ormoni tiroidei a causa sia dell’effetto diretto dell’amiodarone, che dell’effetto
stesso dello iodio che può indurre anche un effetto tossico con distruzione del tessuto e
liberazione dell’ormone tiroideo.
Questa situazione di ipertiroidismo iodio indotto è osservabile in qualsiasi farmaco o situazione di
esposizione a eccesso di iodio, come ad esempio in pazienti sottoposti a imaging con mezzi di
contrasto iodati dove vengono somministrate grandi quantità di iodio.
Nell’ADENOMA IPOFISARIO TSH-SECERNENTE, l’adenoma iperproduce TSH.

Quadro clinico della TIREOTOSSICOSI


- Aumento del metabolismo delle cellule di tutti i tessuti, quindi aumento del metabolismo
basale e della produzione di calore.
- Un apparato particolarmente sensibile all’aumento degli ormoni tiroidei è l’apparato
cardiovascolare, dove l’aumento della gittata cardiaca, l’aumento della frequenza e la
riduzione delle resistenze vascolari periferiche risultano in quello che viene chiamato
circolo ipercinetico, una condizione in cui il sangue viene pompato e scorre nel nostro
apparato cardiovascolare in maniera più veloce del normale. Questa situazione verifica
anche in gravidanza e nella cosiddetta Beri-beri (patologia associata alla carenza vitaminica
che si riscontra nei paesi del terzo mondo).
- Cardiopalma, tachicardia
- Dispnea
- Intolleranza al caldo dovuta all’eccessiva produzione di calore, sudorazione aumentata
- Stanchezza, facile affaticabilità (astenia, adinamia)
- Diarrea, legata allo stimolo sulla motilità intestinali
- Calo ponderale
- Alterazioni dell’umore, stato di eccitabilità, irritabilità, insonnia, agitazione
- Retrazione palpebrale, legata al fatto che gli ormoni tiroidei aumentano l’espressione dei
recettori β-adrenergici e la trasduzione del segnale attraverso gli stessi, che si trovano
anche a livello delle palpebre soprattutto in quella superiore, determinando questi occhi
spiritati.
Abbiamo alcuni segni clinici particolari:
- Tachicardia per l’effetto cronotopo positivo
- Aumento pressione differenziale
- Circolo ipercinetico
- Aritmie sovraventricolari soprattutto nei pazienti anziani, gli ormoni tiroidei possono
facilitare l’insorgenza di fibrillazioni atriali legate all’effetto batmotropo positivo.
- Diminuzione della colesterolemia
- Aumento della fosfatasi alcalina perché un aumento dello stimolo del turnover osseo
- Aumento delle transaminasi, legato al fatto che questa situazione ipermetabolica può
provocare delle ischemie a livello delle cellule epatiche con citolisi.

IPERTIROIDISMO FETALE-NEONATALE
Oltre ai rari casi di mutazioni congenite del recettore del TSH, può verificarsi se la madre è affetta
dal morbo di Basedow o tiroidite autoimmune e sono caratterizzate dalla presenza di Ab verso i
recettori del TSH che attraversano la placenta dando alla nascita delle manifestazioni di
tireotossicosi:
- Gozzo
- Esoftalmo
- Ipereccitabilità
- Magrezza
- Epato-splenomegalia
- Ittero
- Diarrea
- Craniosinostosi precoce, con accelerazione nella chiusura delle fontanelle, compressione
del cervello e relative conseguenze.
- Scompenso cardiaco
Si tratta di una tireotossicosi transitoria poiché dura il tempo di emivita degli Ab.
Nelle donne in gravidanza affette da morbo di Basedow o tiroidite autoimmune è necessario
eseguire un dosaggio Ab anti-recettore del TSH nell’ultimo trimestre.

DIAGNOSI DI IPERTIROIDISMO
Indagini di I livello
TSH reflex o FT3, FT4 e TSH
Indagini di II livello
 Ab anti-recettore del TSH (ad esempio se si sospetta un morbo di Basedow)
 Ab anti-tireoglobulina e antiperossidasi tiroidea (se si sospetta una tiroidite autoimmune)
 Tireoscintigrafia con o senza curva di captazione dello iodio, la quale prima veniva utilizzata
in maniera indiscrimanata nei pazienti con patologia tiroidea mentre ora solo nei pazienti
con ipertiroidismo per capire quale ne è la causa. La scintigafia si basa sul fatto che le
cellule follicolari tiroidee esprimono il NIS che permette di immagazzinare gli alogeni
radioattivi, in particolare gli isotopi 131 e 123 dello iodio (124 utilizzato nella PET). Con lo
iodio 131 possiamo calcolare la curva di captazione per mappare i punti precisi dove si va a
piazzare la sostanza radioattiva.
 Ecografia tiroidea, che ci permette di dire se siamo di fronte ad un gozzo diffuso del morbo
di Basedow o ad una patologia nodulare tiroidea.
Indagini di III livello
RMN della regione ipofisaria
FOTO A tiroide normale
FOTO B quadro di ipercapatazione tiroidea di iodio
FOTO C quadro di ipocaptazione tiroidea di iodio, le ghiandole salivari captano più della tiroide
FOTO D noduli caldi in un gozzo multinodulare tossico
FOTO E tiroide multinodulare
FOTO F tiroide normale con nodulo freddo che non esprime poco NIS e capta poco iodio
Se somministriamo lo iodio 131 possiamo calcolare la % di iodio 131 somministrato che si piazza
sulla tiroide che sarà diversa a seconda dello stato funzionale della ghiandola. Se abbiamo il morbo
di Basedow la captazione sarà aumentata.
La curva di captazione richiede più rilevazioni, a 6 e 24 ore dalla somministrazione del radioattivo.
Negli ipertiroidismi abbiamo un aumento della captazione di iodio e laddove c’è anche un rapido
turnover degli ormoni c’è prima un’elevata captazione e poi, attraverso la dismissione degli
ormoni tiroidei radioattivi, avviene rapidamente una riduzione della captazione.

Quadro scintigrafico tipico di un morbo di Basedow


Quadro scintigrafico di un gozzo uninodulare o
multinodulare tossico
TERAPIA DEL MORBO DI BASEDOW
Blocco della sintesi degli ormoni tiroidei mediante farmaci antitiroidei (Tionamidi) somministrati
per 12-18 mesi. La terapia è funzionante per il 50% dei pazienti, ma in caso non funzioni o i
pazienti manifesti recidive, si adotta la terapia ablativa che può essere chirurgica tramite la
rimozione della ghiandola o si somministra lo iodio 131 che, in quantità adeguate, grazie alle sue
particelle β- è in grado di creare un danno importante sulle cellule follicolari ed è in grado di
distruggere la ghiandola.
A tutti i pazienti con tireotossicosi, con o senza ipertiroidismo possiamo somministrare una terapia
con β-bloccanti per ridurre una parte dei sintomi come la tachicardia, e diminuire la pressione
differenziale (questo perché gli ormoni tiroidei aumentano l’espressione dei recettori β-
adrenergici.

TERAPIA DEL GOZZO UNINODULARE O MULTINODULARE TOSSICO


L’uso di farmaci come tionamidi funziona un po’ da ponte, perché non è risolutiva, infatti la terapia
è di tipo ablativo con iodio per distruggere la tiroide o la soluzione chirurgica con asportazione
della ghiandola
11.03.2019 Prof. Puxeddu Alessandro Menozzi
L’altra volta abbiamo fatto una carrellata molto veloce delle terapie relative ad ipertiroidismo e
tireotossicosi. Le riprendiamo ora nel dettaglio.
Terapia del Morbo di Basedow
Per il Basedow abbiamo diverse possibilità terapeutiche, che spaziano dalla terapia medica con
farmaci antitiroidei a – eventualmente - quella ablativa (distruggiamo la tiroide con il radioiodio), o
all’asportazione chirurgica. [Chiamiamo questa patologia Morbo di Badedow in Europa, dal nome
del medico tedesco Von Basedow che la descrisse. Allo stesso modo nel mondo anglosassone
invece si ricorda Graves (Graves’ Disease), così come in Italia si ricorda Flaiani. Per questo motivo
un tempo si parlava morbo di Flaiani-Graves-Basedow.]
I farmaci antitiroidei sono molecole molto semplici che derivano dalla tiourea, ne abbiamo
principalmente due a disposizione: metimazolo (nome commerciale TAPAZOLE®), e
propiltiouracile (nome commerciale Propycil®). In realtà in Italia abbiamo in commercio solo il
metimazolo, il propiltiouracile si può prescrivere ma con piano terapeutico; la ditta produttrice
non lo distribuisce in Italia, lo regala ai pz che ne hanno bisogno perché probabilmente gli
costerebbe più distribuirlo che regalarlo. Comunque in Italia è più utilizzato il metimazolo.
Entrambi questi farmaci agiscono inibendo la iodinazione dei residui della tirosina catalizzata dalla
tireoperossidasi. Il meccanismo d’azione prevede la competizione di queste molecole con la
tirosina per la iodinazione, quindi stornano lo iodio dalla tirosina della tireoglobulina su loro stessi
e poi ne permettono l’eliminazione; riducono dunque la iodinazione della tirosina e di
conseguenza la sintesi degli ormoni tiroidei.
Hanno anche altri effetti, tra i più importanti sono sicuramente quelli sulle cellule del sistema
immunitario. Sembrano coinvolti in una modulazione negativa dell’attività linfocitica, forse
perché la diminuzione di produzione di ormoni tiroidei cambia qualcosa all’interno della cellula,
probabilmente l’antigenicità della tireoglobulina. Quindi il secondo effetto – oltre a bloccare gli
ormoni tiroidei – consiste nel creare una sorta di immunodepressione, per cui possono contribuire
nel tempo ad una guarigione della malattia: essendo infatti la patologia determinata da anticorpi
prodotti da cloni di linfociti B che agiscono contro il recettore del TSH, se gli anticorpi spariscono si
ha guarigione. Il propiltiouracile ha anche un’altra
azione, ovvero è in grado di bloccare la desiodasi di
tipo 2 e quindi la conversione nei tessuti periferici di
tiroxina in triiodotironina. Sono farmaci che si
distribuiscono in tutto l’organismo e a livello tiroideo
hanno la capacità di stornare lo iodio, bloccando così
la sintesi degli ormoni tiroidei.
Presentano effetti collaterali, quelli minori ci
interessano poco perché se compaiono o passiamo
dal metimazolo al propiltiouracile oppure troviamo
altre strategie terapeutiche. Quelli maggiori invece
possono essere più preoccupanti, in alcuni casi
entrambi i farmaci possono indurre una
agranulocitosi attraverso un meccanismo immuno-
mediato che comporta la distruzione dei granulociti neutrofili. Questo si correla con un alto rischio
d’infezioni, anche opportunistiche. Altri effetti molto rari sono l’induzione di epatite colestatica
(da metimazolo) e epatite citolitica (da propiltiouracile).

Questo è uno schema pratico


che mostra come si usano questi
farmaci: effettuata la diagnosi,
iniziamo la terapia tireostatica –
a meno che non ci siano
controindicazioni specifiche per
quel pz-. [Tradizionalmente in
italia si segue questo percorso,
ad esempio in USA l’obiettivo è
risparmiare il più possibile
(“mica perdono tempo a fare la
terapia medica, loro”) e spesso
si procede direttamente con il
trattamento con raioiodio che
porta alla distruzione della
tiroide].
Si comincia la terapia
tireostatica con una dose di 5-
30mg al giorno e in un primo
periodo si monitora con emocromo la funzionalità epatica, perché gli effetti collaterali di solito
insorgono soprattutto nel primo periodo di trattamento. Continuiamo a somministrare questi
farmaci controllando la funzionalità tiroidea fino a che non troviamo una dose di mantenimento
della condizione di eutiroidismo: infatti si comincia sempre con dosi più alte per poi calare
progressivamente fino al mantenimento, che verrà mantenuto per 16-18mesi. Se dopo questo
periodo il pz va in remissione – la vediamo perché bastano dosi minime di farmaco o addirittura
possiamo sospenderlo senza ripresa di malattia – si procede con il follow-up con monitoraggi
periodici. Quindi può accadere che vi sia una completa scomparsa di questi anticorpi.
Se invece il pz recidiva passiamo direttamente alla terapia ablativa o con radioiodio o con la
chirurgia. Lo stesso approccio verrà adottato anche nei casi difficili (ad es. non si può ridurre il
dosaggio del farmaco perché il pz ha un fabbisogno elevato, se riduciamo la dose poi recidiva) e
per soggetti che manifestano effetti collaterali: si procederà dunque all’intervento ablativo.
I Beta-bloccanti si utilizzano in tutte le situazioni di tireotossicosi, con o senza ipertiroidismo e
sono ottimi per controllare sintomi più importanti, quali tachicardia e tremori.
Il metimazolo trova utilizzo nel morbo di Basedow e nelle condizioni di tireotossicosi associata a
ipertiroidismo, cioè situazioni in cui abbiamo un’aumentata produzione di ormoni tiroidei che
riusciamo a controllare. Se abbiamo rilascio di ormoni tiroidei dovuti a distruzione dell’organo il
metimazolo non serve a niente.
Radioiodio
E’ un trattamento definitivo per il Basedow non responsivo a terapia medica. E’ Indicato a soggetti
adulti anche in età fertile, purché se donne aspettino almeno 6 mesi per avere una gravidanza. Le
controindicazioni sono per infanzia, gravidanza e allattamento per problemi ovvi. L’obiettivo è
distruggere la tiroide, quindi ottenere un ipotiroidismo. Infatti nella prima lezione abbiamo parlato
delle cause dell’ipotiroidismo e abbiamo citato le forme iatrogene dovute spesso a questa
metodica.
Terapia chirurgica
Si predilige quando ci sono gozzi molto voluminosi, causa di fenomeni compressivi (iperplasia,
noduli sospetti) o in soggetti con controindicazione di radioiodio (bambini, adolescenti, pz che
hanno paura delle radiazioni e rifiutano il trattamento.). E’ importante che il pz vada a operarsi in
condizione di eutiroidismo perché se venisse operato in iper- potrebbe avere problemi con
l’anestesia.
Nel gozzo uninodulare e multinodulare tossico si
possono usare i farmaci antitiroidei, ma in questo
caso precisiamo che fanno solo da ponte tra la
terapia e la soluzione definitiva, perché non
possiamo sicuramente sperare in una remissione
spontanea: il nodulo c’è e rimane anche se
diamo i farmaci. Il radioiodio rappresenta una
terapia a bersaglio con pochi collaterali e molto
precisa, poiché diretta selettivamente verso i
noduli iperproliferanti. La chirurgia è invece
preferibile in situazioni in cui conviene eliminare
tutta la ghiandola.

Oftalmopatia di Graves
Si verifica perché ci sono i recettori del TSH a livello retrorbitario, dove ci sono alcuni progenitori di
origine midollare dei fibroblasti. Da un lato i
fattori genetici concorrono alla produzione
peculiare di anticorpi anti-recettore del TSH in
quantità superiori o comunque rilevanti. Anche i
fattori ambientali, in particolare il fumo di
sigaretta sembra essere un importante fattore
di rischio. Infine è implicata anche la cross-
reattività dovuta agli anticorpi contro il
recettore del TSH tra la tiroide e i recettori
espressi a livello dell’orbita. Il principale
bersaglio di questi anticorpi sono questi
progenitori di fibroblasti orbitari che esprimono
il recettore del TSH; comporta l’attivazione di
vie di trasduzione che
inducono la
differenziazione delle
cellule progenitrici in
adipociti, che si
accumulano a livello
retrorbitario. Inoltre
stimolano la sintesi di
acido ialuronico che,
richiamando acqua,
causa l’aumento di
volume. Poi
ovviamente segue la
produzione di citochine
e altri fattori
proinfiammatori, che
concorrono
all’infiltrazione di
cellule immuno-
infiammatorie. C’è coinvolgimento dei muscoli estrinseci dell’occhio (muscoli retto-laterale, retto-
mediale, ecc.) si ispessiscono, si infiammano e nel tempo possono andare incontro a fibrosi.
La slide confronta un’orbita
normale con una con
oftalmopatia di Graves.
Sussiste un problema
anatomico: l’orbita è una
cavità che possiede
un’apertura anteriore, ma
tutto il resto è
incomprimibile. L’accumulo
dei fattori sopracitati
genera un aumento di
pressione e l’occhio viene
spinto verso l’esterno. Si ha
così esoftalmo (l’occhio
sporge dall’orbita in
maniera importante), retrazione e infiammazione palpebrale. Ripetiamo ancora una volta che si
verifica un accumulo di tessuto adiposo retrorbitario e un aumento dello spessore muscolare. Tutti
questi fattori causano iperemia e edema dei tessuti molli dell’occhio (segni di infiammazione), che
possono rivelarsi particolarmente fastidiosi dando sensazione di bruciore e dolore.
Può esserci anche diplopia, quando i muscoli non riescono più a muoversi in modo coordinato
perché infiammati. L’ammiccamento è ridotto, le palpebre non coprono l’intero bulbo oculare e
questo può causare danno corneale che a sua volta causa un danno alla vista. Altrettanto
pericolosa è la compressione del nervo ottico, responsabile della neuropatia ottica.
Possiamo classificare l’oftalmopatia come lieve, moderata e grave. Le forme gravi comprendono le
neuropatie ottiche e le lesioni corneali, le severe la diplopia, mentre nelle forme lievi domina
l’iperemia e l’edema (anche solo queste possono essere talmente fastidiose da richiedere terapia).
Epidemiologia
Non tutti i Graves hanno
oftalmopatia, il 40% dei pz ha
sintomi oculari e, se escludiamo
quelli relativi alle palpebre, in
realtà solo 1 su 4 ha una vera e
propria oftalmopatia. L’incidenza
come per tutte le malattie tiroidee
è più alta nelle donne che negli
uomini. Le forme severe sono la
minoranza e la fascia di età più
colpita è tra la quinta e settima
decade di vita. Abbiamo diversi
gradi di oftalmopatia e notiamo
che le forme severe siano
distribuite egualmente tra i due
sessi, mentre le differenze legate al sesso si riscontrano maggiormente nelle forme lievi e
moderate.
L’oftalmopatia nella maggior parte dei casi insorge in concomitanza con la malattia. Tuttavia in
alcuni casi precede anche di parecchio tempo l’insorgenza dell’ipertiroidismo, mentre in altri può
insorgere o peggiorare anche dopo che l’ipertiroidismo è stato trattato.
Analizziamo ora alcuni segni che si possono
vedere, ricordiamo che l’esoftalmo non è certo
che ci sia quindi dobbiamo sempre controllare
anche queste componenti.
In foto si osserva l’edema a livello delle
palpebre.

In questa notiamo invece l’eritema palpebrale


e congiuntivale, le palpebre sono congeste.
Può esserci anche edema della congiuntiva
(chemosi congiuntivale), visibile già a occhio
nudo, ma si può dimostrare comprimendo
con un dito la palpebra e questo ci
confermerà un aumento di spessore della
congiuntiva dovuto ad accumulo di liquidi.
Osserviamo poi l’infiammazione della plica e
della caruncola all’estremo dell’occhio

In tutte queste foto si tratta di reazioni


infiammatorie di tipo congestizio dei tessuti molli
dell’occhio.

L’esoftalmometro di Hertel permette di misurare la protrusione del bulbo oculare. Il range di


riferimento è caratteristico di ciascuna popolazione, ad es. gli africani “sporgono” più degli italiani
(nei caucasici il valore di proptosi è di circa 15mm). Se la proptosi supera i 23mm significa che
l’occhio sporge in maniera marcata (lieve se 19-20 mm e moderata se 21-23 mm).
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Resistenza agli ormoni tiroidei
E’ una condizione che deriva dal malfunzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide. In realtà
tutti gli ormoni possono andare incontro a resistenza; si ha resistenza ormonale se c’è un difetto
nel recettore per gli ormoni. Un altro caso molto interessante che non trattiamo è la resistenza
agli androgeni, con un fenotipo molto complesso, si tratta di una patologia rara ma estremamente
utile per capire il funzionamento del sistema.
Il recettore per gli ormoni tiroidei è di tipo nucleare (mentre il recettore per il TSH ha 7 domini
transmembranari), appartiene infatti alla famiglia dei recettori steroidei. Mentre i recettori per gli
steroidi sono nel citoplasma e quando arriva lo stimolo si staccano le Heat Shock Proteins e
migrano nel nucleo, questi sono già nel
nucleo e di solito sono legati ai Thyroid
Response Elements (TRE). La slides ci
mostra la struttura del recettore: presenta
un sito di legame al DNA (che gli permette
di legarsi a quelle sequenze palindromiche
che costituiscono i TRE), una serie di domini
di transattivazione, dimerizzazione, ecc.
In realtà questa malattia si sviluppa perché
abbiamo 2 geni che codificano per 2
recettori diversi per gli ormoni tiroidei:
recettore Alpha (cromosoma 17) e Beta
(cromosoma 3). Inoltre ciascuno dei due geni codifica per isoforme del recettore che derivano da
meccanismi di splicing alternativo del mRNA, quindi ci sono sicuramente due recettori per ogni
tipo, ossia Alpha 1 e 2 e Beta 1 e 2. Entrambi i recettori sono responsivi agli ormoni tiroidei e
rispondono in maniera caratteristica a seconda dei tessuti. Ogni tessuto ha una distribuzione
peculiare di questi ultimi, così come c’è anche variabilità individuale.
La sindrome della resistenza agli ormoni tiroidei dipende da una ridotta risposta dei target tissutali
agli ormoni tiroidei dovuta all’alterazione di questi recettori. E’ una malattia rara, 1 caso su 40’000,
il 90% dei soggetti ha alterazioni del gene Beta, di cui l’85% sono trasmesse su base ereditaria e il
15% sono mutazioni che avvengono de novo (avvengono nelle cellule germinali che danno origine
al soggetto portatore della mutazione). Quasi tutti i soggetti sono eterozigoti, hanno la mutazione
di un gene e l’altro è wild type, e anche se eterozigoti sviluppano la malattia. Raramente può
succedere che il 100% dei recettori siano prodotti mutati, sono sufficienti anche solo il 50% di
recettori alterati per generare il quadro clinico. Questo succede perché verosimilmente c’è
un’azione dominante negativa del recettore mutato sul recettore wild type. La trasmissione è
quindi autosomica dominante. Le mutazioni si concentrano nel dominio di legame della T3 e non
compromettono il legame del DNA. I recettori degli ormoni tiroidei si possono legare legare ai TRE
come eterodimeri (ad es. con i recettori per l’acido retinoico) o come omodimeri. In assenza di
ormone, i geni che sarebbero attivati dall’arrivo dell’ormone sono repressi perché i dimeri legano
un corepressore che blocca la trascrizione. In realtà abbiamo anche geni che sono repressi dagli
ormoni tiroidei, sono almeno tre da ricordare:
1. Subunità Alpha del TSH;
2. Subunità Beta del TSH;
3. Gene del TRH.
Questi eterodimeri che sono legati ai TRE cambiano conformazione in seguito al legame con T3, si
staccano i corepressori e arrivano gli attivatori. Nel caso degli omodimeri – che hanno un’azione
repressiva -, quando arriva T3 si staccano, liberando così il TRE, che può ora essere legato da
eterodimeri attivi. Se il recettore è mutato, arriva l’ormone tiroideo ma non gli fa un baffo: gli
omodimeri rimangono attaccati e anche agli eterodimeri non succede nulla e il corepressore non si
stacca. I recettori mutati rimangono attaccati al DNA e impediscono ai recettori normali di
svolgere la loro funzione, ed ecco come si esplica l’effetto dominante negativo. Come si sviluppa la
malattia? A livello ipotalamico e ipofisario sono espressi solo i recettori Beta, che di solito sono
quelli più comunemente mutati in questa malattia. Quindi il feedback negativo non si esercita
correttamente, infatti affinché si abbia un feedback si attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide, che
comporta un aumento di TRH, TSH, T3 e T4. Questo continua finché gli ormoni tiroidei non
bloccano ipotalamo e ipofisi. Quindi il sistema raggiuge un setting ormonale più alto. Il problema
è che gli ormoni tiroidei poi raggiungono i recettori periferici e il quadro clinico dipende dalla
distribuzione nei tessuti periferici dei recettori Alpha e Beta: se in un tessuto prevalgono i recettori
Beta mutati il quadro clinico è quello di un ipotiroidismo (resistenza all’azione ormonale). Nei
tessuti invece in cui c’è dominanza degli Alpha (cuore) il risultato è l’opposto, gli ormoni tiroidei
funzionano di più e troviamo quindi una sintomatologia e una fisiopatologia connessa con
l’ipertiroidismo.
In effetti il quadro clinico presenta un’estrema variabilità con uno spettro sintomatico continuo
che va dall’ipo all’ipertiroidismo. I
soggetti sviluppano gozzo perché il
TSH continua a stimolare
l’aumento di attività della tiroide.
Spesso è presente tachicardia
perché nel cuore dominano i
recettori Alpha.
Il quadro neurologico è simile
all’ipotiroidismo (nel SNC
dominano i recettori Beta), con
alcuni segni che apparentemente
sembrerebbero riconducibili a
ipertiroidismo ma in realtà non lo
sono: disturbi emozionali, segni di
iperattività, sindrome
dell’iperattività del bambino,
ritardo mentale, sordità neuro-
sensoriale. Sono tutte conseguenze
di un alterato sviluppo del SNC (ovviamente, essendo la condizione congenita).
Poi possiamo avere i difetti propri del cretino, quindi problemi di crescita e sviluppo: bassa
statura, età ossea ritardata e basso BMI.
[Questa condizione vale per tutti gli ormoni, forse la più carina è la sindrome di resistenza agli
androgeni, però non avremo il tempo di parlarne.]
Queste sono le varie indagini che possiamo fare:
tipicamente troviamo ormoni aumentati e TSH
aumentato o normale. Con cosa va in diagnosi
differenziale? Con un TSH-oma, adenoma
dell’ipofisi TSH-secernente; importante perché la
resistenza agli ormoni tiroidei da curare è un
casino, il TSH-oma invece si asporta
chirurgicamente e si ha la guarigione. L’esame
gold standard è la risonanza a ipotalamo e ipofisi,
che nel caso ci rivelasse la presenza di un
adenoma potrebbe indurci a sospettare
(attenzione: a sospettare, non a confermare!) un
TSH-oma. Poi si fa il test genetico, si trova il gene
per il recettore Beta mutato nel 90% dei casi di malattia.
Qui trova applicazione il test al
TRH per studiare questo asse
ipotalamo-ipofisi-tiroide. In
condizioni normali se ad un
soggetto iniettiamo 200 μg di
TRH abbiamo un picco del TSH
che arriva entro 20 μ unita/ml e
poi scende. Se in questo
soggetto ripetiamo il test dopo
avergli somministrato dosi
crescenti di T3 (T3 sopprime
l’asse), l’ipofisi risponderà
meno perché è diventato
resistente all’effetto
sopprimente di T3. In pz con
resistenza se iniettiamo il TRH
abbiamo una iper-risposta del
TSH, e in più sono resistenti
all’effetto sopprimente della T3. In questo modo questo test ci permette di differenziare una
condizione di normalità dalla sindrome della resistenza agli ormoni tiroidei e anche dai TSH-omi.
Infatti in condizioni basali i TSH-omi non rispondono al TRH, hanno una risposta piuttosto piatta,
gli aumenta un po’ il TSH ma non succede altro.
La settimana scorsa il prof. ha visitato una pz con aumento T3 e T4 e TSH a 6 (non soppresso), la
risonanza a livello dell’ipofisi evidenziava una massa. E’ stato fatto allora il test al CRH che ha
mostrato una risposta piatta come quella di cui abbiamo appena parlato. Per confermare
ulteriormente servirebbe un test genetico, ma non è sempre così semplice.

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Tiroiditi
Le abbiamo accennate parlando sia di ipo che di ipertiroidismo. Definizione: infiammazione della
tiroide che può avere diverse eziologie e che può essere associata ad una funzionalità tiroidea
normale, elevata o depressa, e spesso con un evoluzione da una condizione all’altra. Solitamente
si osserva che l’iper precede l’ipotiroidismo perché in fase acuta possiamo avere quei fenomeni
distruttivi con dismissione degli ormoni tiroidei. Possono essere classificate in base a:
- dinamica del decorso, ovvero la rapidità con cui si sviluppano i sintomi;
- storia familiare;
- presenza o assenza di sintomi prodromici;
- dolore al collo;
[Questa è la classificazione proposta dagli American Family Physician, ma ne esistono altre]
Tra quelle senza dolore al collo abbiamo quella
di Hashimoto, malattia autoimmune a decorso
cronico. Poi abbiamo le post-partum che sono
autoimmuni e subacute. Cronico significa che
perdura nel tempo e di solito non si riesce a
debellare la malattia (es. diabete tipo I).
Subacuto significa che può dare tanti segni, ha
un decorso più lungo di un acuto ma poi si
risolve, tipicamente 3-6 mesi.
C’è anche una subacuta linfocitaria o silente,
sempre autoimmune e subacuta.
Ci sono poi quelle dipendenti da farmaci che
possono essere acute o tutte subacute, come
quella da amiodarone, da interferone (gli IFN
attivano risposte di tipo immuno-
infiammatorio, in questo caso non c’è una
risosta autoimmunitaria), IL-2 (anch’essa
coinvolta nel contesto infiammatorio) e il Litio
può dare una tiroidite con meccanismo
autoimmune con decorso acuto o subacuto.
Attualmente in oncologia si usano anticorpi per riattivare la risposta immunitaria, tra i collaterali
possiamo avere una serie di disordini endocrini, tra cui tiroiditi su base autoimmune con decorso
acuto o subacuto: basta sospendere il farmaco e di solito si ha remissione della tiroidite.
Infine vi è una forma particolare di tiroidite, quella di Riedel (pronuncia Ridol), peculiare perché
caratterizzata da una componente di fibrosi. Verosimilmente si tratta di una variante di una
tiroidite autoimmune, negli ultimi è stata associata ad una malattia da accumulo di IgG4; questa
patologia causa una risposta infiammatoria estesa che esita in fibrosi in diversi tessuti.
Tra le tiroiditi con dolore citiamo
invece la subacuta
granulomatosa/di De Quervain
(pronuncia de Chervèn)/virale, ha
numerosi sinonimi ma si tratta
sempre della stessa. In realtà non
è conseguenza di un’infezione
virale della tiroide, ma è connessa
alla risposta infiammatoria
attivata dall’infezione che
comporta un decorso subacuto
della malattia con numerosi
sintomi. E’ l’unica malattia
tiroidea associata ad una sintomatologia sistemica.
Anche le tiroiditi suppurative possono dare dolore, sono praticamente legate alla presenza di
ascessi (infezione batterica con decorso acuto o fungina con decorso acuto o subacuto) nella
tiroide. Solitamente si verificano solo quando si fa l’ago aspirato a livello tiroideo se non è stata
disinfettata la cute correttamente, situazioni molto rare. Si riconoscono piuttosto facilmente per la
presenza di edema e rossore a livello cutaneo e in questi casi viene prescritta un’immediata
terapia antibiotica per evitare l’espansione dell’infezione ed un’eventuale sepsi.
Vi sono poi quelle associate a radiazioni, ad es. l’uso di Iodio131 in alcuni pz può dare una sorta di
tiroidite attinica con andamento acuto, dolente (infatti nei primi giorni è consigliata la terapia con
cortisone per ridurre l’infiammazione e il dolore). Anche un trauma alla tiroide può causare dolore
e infiammazione.

Tiroidite di Hashimoto
[La descrizione della patologia è stata fatta dal medico giapponese Hashimoto in Germania, negli
anni ’20 c’era infatti l’asse Berlino-Tokyo.] Anche qui una serie di sinonimi: cronica linfocitaria,
cronica autoimmune. E’ la forma più comune di infiammazione della tiroide, con un decorso
cronico ed è tipicamente caratterizzata dalla presenza di anticorpi contro gli antigeni principali
delle cellule follicolari. Quindi ci sono anticorpi diretti contro la tireoperossidasi (anti-TPO Ab)
presenti nel 90-95% dei pz, contro la tireoglobulina (anti-Tg Ab) nel 20-50% dei pz, e meno
frequentemente contro il recettore del TSH (TRAb). Nel caso della tiroidite di Hashimoto non sono
sicuramente attivanti, altrimenti il quadro clinico virerebbe verso quello del morbo di Basedow. In
realtà in alcuni casi può transitoriamente presentare questi anticorpi attivanti e per questo in
passato si parlava di Hashitossicosi, se invece persistono si tratta di Morbo di Basedow. In effetti
tutte queste malattie autoimmuni della tiroide appartengono ad uno spettro continuo ai cui
estremi troviamo da un lato il morbo di Basedow (presenza di immunità umorale) dall’altro la
tiroidite di Hashimoto (non c’è dominanza dell’immunità umorale, gli anticorpi sono un
epifenomeno o possono avere al massimo un ruolo patogenetico minimo; la patogenesi in questo
caso è dovuta all’attivazione dell’immunità cellulo-mediata)
Reperti clinici
La funzione tiroidea può essere normale, può esserci un ipotiroidismo subclinico oppure un
ipotiroidismo primario franco, fino al mixedema che rappresenta il quadro estremo. Per
definizione la tiroidite di H. dovrebbe essere caratterizzata dal gozzo (nel 90% dei pz) che nel
tempo, a causa di fenomeni distruttivi, può evolvere verso un’atrofia (nel 10% dei pz). In realtà è
frequente vedere pz con tiroiditi croniche il cui volume tiroideo è normale.
Epidemiologia
La frequenza è alta, nel sesso femminile è molto più
rilevante come dimostrato dallo studio di Wickam.
Possiamo stimare che alla fine della vita quasi 1 su 3
donne presenti tiroidite di Hashimoto, con
conseguenze funzionali poco rilevanti o limitate ad
un ipotiroidismo subclinico.
Morbilità e mortalità dipendono dal trattamento. In
casi estremi si può arrivare al mixedema o al coma
mixedematoso.
Colpisce più il sesso femminile come tutte le malattie
tiroidee, probabilmente perché l’organo presenta
una maggiore suscettibilità al setting ormonale
estrogenico, infatti anche le gravidanze alterano il setting tiroideo. Abbiamo infatti un rapporto
femmina malato/maschio malato pari a 10-15/1.
Il picco d’incidenza è nelle femmine tra 30 e 50 anni, di solito dopo la menopausa, e nei maschi tra
40 e 65 anni. Più tempo persiste la tiroidite e più è probabile che persista l’ipotiroidismo per
distruzione del tessuto dell’organo e perdita di funzionalità tiroidea.
Patogenesi
Si ha un’attivazione immunitaria con produzione di anticorpi, importanti per confermare la
diagnosi. Misuriamo infatti gli anti-tireoperossidasi in primis e antitireoglobulina in secundis; in
realtà possiamo misurarli anche contemporaneamente, sapendo che nei casi conclamati sono
positivi soprattutto gli anti-tireoperossidasi, mentre nelle fasi iniziali i primi a positivizzarsi sono
quelli anti-tireoglobulina. Anche quelli che legano il recettore per il TSH si possono misurare.
Lo squilibrio nei meccanismi di riconoscimento del self porta all’attivazione di una risposta T
citotossica (cellulo-mediata) contro la tiroide con conseguente perdita di cellule follicolari,
sostituzione di tessuto tiroideo con tessuto cicatriziale. Vi è l’attivazione dei T CD4+ Th1 che
producono citochine, che attivano altre cellule dell’immunità naturale che contribuiscono al
danno. Gli anticorpi possono essere patogenetici nel caso in cui leghino i loro antigeni e attivino
una citotossicità anticorpo-dipendente cellulo-mediata. Inoltre le cellule NK hanno il recettore per
la porzione Fc degli anticorpi legati alla cellula e possono quindi liberare sostanze per uccidere
quella cellula, e questo rappresenta un ulteriore meccanismo di perdita del tessuto tiroideo.
Non entriamo ora nei meandri delle patologie autoimmuni, però come concetto generale
ricordiamo che l’attivazione di una malattia autoimmune organo specifica è caratterizzata dal fatto
che l’equilibrio tra meccanismi proinfiammatori e antiinfiammatori si sposta verso una situazione
proinfiammatoria e si verifica dunque una reazione immunitaria che non dovrebbe esserci verso
gli antigeni self.
Cosa predispone allo sviluppo della tiroidite di Hashimoto? Sono stati riconosciuti una serie di geni
che appartengono al sistema MHC, DR e DQ, e ci sono alcuni genotipi maggiormente associati a
questa patologia perché le APC e i macrofagi presentano gli antigeni processati con le molecole
MHC. Quindi alcuni polimorfismi possono predisporre a rendere immunogenici gli antigeni
presenti a livello tiroideo.
CTLA-4 è un corepressore
nell’attivazione linfocitaria, quindi
polimorfismi a questo livello possono
indurre un’iperattivazione della risposta
immunitaria.
PTPN22 è una fosfatasi presente nei
linfociti.
Il gene della tireoglobulina presenta
diversi polimorfismi, che comporta la
comparsa di epitopi diversi e possono
predisporre anche alla tiroidite di
Hashimoto.
Lo sviluppo della malattia potrebbe essere
riassunta da questo schema a formaggio, una
serie di eventi concatenati che concorrono alla
patogenesi. Tra i fattori predisponenti abbiamo
appunto i geni del sistema MHC, che secondo
alcune teorie modificabili con splicing
alternativo o meccanismi epigenetici. Abbiamo
poi geni che regolano l’immunoregolazione,
come AIRE nelle poliendocrinopatie
autoimmuni di tipo I e che sarebbe coinvolto
nella selezione timica dei linfociti e FOXP3
espresso nelle T regolatorie (responsabile anche
della sindrome di Ipex). Altrettanto importanti
sono i geni tiroido-specifici, come ad es quello
per la tireoglobulina. Inoltre sicuramente
importanti sono anche i fattori ambientali, infezioni virali e batteriche, che possono stimolare una
risposta immunitaria. Infine ci sono i fattori esistenziali come il sesso, ad es. il sesso femminile è
più colpito.
Se abbiamo questa serie di eventi in fila si sviluppa la patologia, considerando che alcuni sono
latenti mentre altri partecipano proprio in maniera attiva.
La tiroidite autoimmune è veramente la patologia autoimmune più comune, tanto che alcuni
autori la definiscono “the tallest tree in the forest of polyautoimmunity”.
Istologia
Vediamo i centri germinativi in cui si organizzano
i linfociti, infiltrano l’organo e che poi concorrono
al danno. Si perde l’organizzazione dei follicoli e si
può giungere a metaplasia eosinofila da cellula
follicolare a cellula di Huerthle (pronuncia Urtel)
o Askanazy

Diagnosi
Sospettiamo una tiroidite di Hashimoto quando
troviamo un pz con ipotiroidismo clinico o
subclinico, se la vogliamo confermare misuriamo
anticorpi anti-tireoperossidasi o anti-
tireoglobulina. Anche l’imaging può
essere una risorsa importante, infatti
l’ecografia risulta molto utile per
vedere caratteristiche della ghiandola
che possono cambiare in situazioni
infiammatorie: il tessuto tiroideo è
più bianco dei muscoli che stanno
davanti. Nell’immagine osserviamo
una sezione trasversale: al centro c’è
la trachea e davanti ad essa la tiroide,
a sx la carotide comune di dx (nel
fascio vascolo-nervoso) e viceversa
perché nell’ecografia le immagini
sono invertite. Quindi riusciamo a
distinguere il tessuto ghiandolare da
quello muscolare e notiamo che la
tiroide è omogenea. In questa immagine notiamo invece che non ci sono differenze rilevanti nel
colore (la cosiddetta ecogenicità) tra i muscoli e la tiroide, la ghiandola è ipoecogena (meno
bianca) e disomogenea. Queste sono le 2 tipiche caratteristiche ecografiche che si riscontrano in
una tiroidite di Hashimoto. Tipicamente la diagnosi si può fare molte volte anche accidentalmente:
pz ha mal di gola, gli facciamo l’ecografia e troviamo la ghiandola ipoecogena e disomogenea. In
questo caso si procede poi al controllo degli ormoni tiroidei e degli anticorpi.
La scintigrafia non va fatta, o solo se il pz è nella fase iniziale in cui si può avere una transitoria
tireotossicosi sena ipertiroidismo dovuta ai fenomeni distruttivi e quindi al rilascio di ormoni
preformate. Facendo l’esame in quel momento si può riscontrare un ipertiroidismo solitamente
lieve. Se il dosaggio ormonale è normale o tendente all’ipotiroidismo non c’è necessità di fare la
scintigrafia. Ad ogni modo la scintigrafia della tiroidite di Hashimoto è diversa da quella del morbo
di Basedow: osserviamo una ipocaptazione tiroidea, diciamo che
è bassa perché sovrapponibile a quella delle ghiandole salivari. In
condizioni normali a livello della tiroide dovrebbe esserci una
captazione più alta.

Tiroidite subacuta granulomatosa/De Quervain/virale


Seconda per importanza, non tanto per frequenza ma perché è la
causa più comune di dolore a livello della tiroide. Il dolore –
raramente la tiroide è dolente - in regione tiroidea può essere
dovuto a cisti emorragica (un nodulo sanguina, si ingrandisce,
stira la capsula e dà dolore per qualche giorno) o a questa
malattia. Si tratta di un’infiammazione transitoria della ghiandola
con un andamento subacuto che di solito si protrae per 3-6 mesi.
Caratteristiche: dolore, senso di durezza e gonfiore nella regione tiroidea; la ghiandola risulta
dolente sia spontaneamente sia alla palpazione. Ricordiamo poi che è l’unica malattia tiroidea con
sintomi sistemici, quali febbre, malessere, astenia dovute ad un’importante risposta
infiammatoria. Di solito c’è una prima fare di ipertiroidismo, seguita da una di ipotiroidismo
transitorio, a cui segue di solito la completa remissione della malattia con restitutio ad integrum.
La guarigione è anche spontanea e non c’è bisogno di curare il pz, “se uno lo fa soffrire lui
comunque andrà incontro a guarigione”.
All’inizio c’è aumento di T4 e soppressione del
TSH e della captazione dello iodio a livello
tiroideo, questo dura di solito 3-6 settimane. In
questo periodo si ha rilascio di ormoni tiroidei
ed infiammazione acuta (dolore, febbre), col
passare delle settimane l’infiammazione
regredisce e così anche il rilascio di ormoni. Per
cui la captazione rimane sempre bassa ma
tende a salire il TSH e in effetti T4 può ridursi
come se fosse un ipotiroidismo, mentre il TSH
può aumentare come se fosse un
ipertiroidismo. Passano altre settimane e la
situazione torna poi alla normalità, si ha un
recupero della captazione, una riduzione del
TSH ed una normalizzazione degli ormoni
tiroidei.
Qui le fasi sono abbastanza fisse e sono sempre queste tre: tireotossicosi, ipotiroidismo, recupero
morfologico e funzionale (nella tiroidite cronica invece si presenta una situazione più variabile).
Epidemiologia
Per quanto riguarda l’incidenza ricordiamo
che rappresenta meno del 5% della
patologia tiroidea, secondo il prof. anche
meno nelle nostre zone. Ci sono dei picchi
d’incidenza stagionali, in particolare in
estate, autunno, ma in realtà se ne vedono
anche alla fine dell’inverno e in primavera
sulla coda delle influenze. E’ presente anche
una distribuzione geografica.
Si tratta come abbiamo già detto di una
malattia benigna autolimitante, dopo tutto
questo decorso l’esito finale nella maggior
parte dei casi è la restitutio ad integrum.
Prevale nel sesso femminile, e in generale ha il suo picco di incidenza attorno alla quarta e quinta
decade di vita ed è rara nelle persone anziane.

La causa della patologia è un’infezione virale o


soprattutto la risposta infiammatoria post virale,
non è la tiroide ad essere infettata dal virus ma
insorge in seguito all’attivazione della risposta
immunitaria causata dal virus. Soggetti con
particolari tipi di HLA possono essere predisposti. Ci
sono una serie di meccanismi proposti, ma
l’importante è capire che in realtà anche
un’influenza alcuni soggetti può attivare questo
processo. Altri virus che sembrano essere coinvolti
sono riportati nella slide [sono stati citati molto
rapidamente].

Istologia
Si formano dei granulomi, con area di necrosi centrale
e una palizzata di cellule e la presenza di cellule giganti
polinucleate. Quindi l’infezione virale attiva una
risposta immunoinfiammatoria che colpisce l’organo e
si evidenzia questa caratteristica. Vi è un abbondante
rilascio di citochine, responsabili dei sintomi sistemici
(febbre, ecc.).
Diagnosi
Condizione necessaria per la diagnosi è l’aumento degli indici di flogosi (VES, PCR). Se questi non ci
sono non può essere questa malattia. Possiamo revertire in 24-48h la sintomatologia con
cortisonici e in pochi giorni si ha la normalizzazione di tutti gli indici di flogosi. In particolare nella
prima fase possiamo avere un’elevazione del TSH ed un’elevazione più di T4 che di T3, perché la
tiroide produce più T4 (la rottura dei follicoli libera T4 e un po’ di T3). Nell’ipertiroidismo ci
sarebbe un eccesso di T3.
Gli anticorpi anti-tireoperossidasi o anti-tireoglobulina sono di solito negativi o a basso titolo
perché questa patologia non c’entra niente con fenomeni di autoimmunità. La captazione tiroidea
è bassa.
Immaginate un pz che arriva con dolore collo, febbre da
alcuni giorni, porta gli esami che mostrano una
tireotossicosi non particolarmente accentuata. La prima
cosa che facciamo è un’ecografia e possiamo vedere dei
segni patognomonici: una tiroide grossa, dolente e molto
ipoecogena, molto disomogenea, con aree che sembrano
dei noduli infiammatori (a volte ecografisti non esperti gli
scambiano con neoplasie a rapido accrescimento, in realtà
si riconoscono con facilità) chiamate pseudonoduli. In
verità è patognomonica la scintigrafia, che sarà bianca
perché la captazione è azzerata.
Terapia
Molto utili sono gli antiinfiammatori per risolvere la sintomatologia più lieve, laddove sia
necessario si possono usare anche cortisonici (Prednisone 0,5 mg/Kg/die).
I beta-bloccanti vengono usati per controllare i sintomi della tireotossicosi.
Non bisogna assolutamente usare antitiroidei (metimazolo, propiltiouracile), perché in questi non
c’è un’iperproduzione di ormoni ma solo il loro rilascio.
A volte questa patologia può anche recidivare

[Analizziamo molto rapidamente le seguenti]


Tiroidite post-partum
Si tratta di una tiroidite subacuta senza dolore. Si verifica nel 5-9% dei post-partum, è più
frequente in persone con diabete tipo I (quindi soggetti predisposti all’autoimmunità) e più del
50% dei casi si verifica in pz che avevano già una positività degli anticorpi anti-tireoperossidasi. C’è
associazione con alcuni classi di HLA (HLA-DR3, HLA-DR4 e HLA-DR5).
Anche qui si ha una fase di danno tissutale acuto e quindi di ipertiroidismo, seguita da
ipotiroidismo e spesso ci può essere un recupero. Spesso durante la fase di ipotiroidismo si ha
concomitante depressione, probabilmente molti casi di depressione post-partum sono dovuti a
questa situazione. Soggetti a cui è già capitata è più probabile che presentino nuovamente la
patologia al parto successivo, o meglio, dopo di questo. Si verifica a distanza di 6-12 settimane dal
parto ed è causata dall’attivazione della reazione autoimmunitaria di tipo subacuto che si traduce
in: un aumento degli ormoni tiroidei e una diminuzione del TSH, a cui segue una caduta degli
ormoni tiroidei e un aumento – anche consistente - del TSH, e infine può esserci una
normalizzazione. Talvolta non avviene la normalizzazione e questi pz rimangono ipotiroidei.
Durante la gravidanza c’è una soppressione dell’immunità, perché il feto non sarebbe compatibile
con la madre dal punto di vista immunitario. Nella prima fase è soppressa l’immunità cellulo-
mediata e quindi si ha dominanza di quella umorale, poi diminuiscono tutte e due. Nel post-
partum il sistema immunitario subisce una riattivazione e questo può determinare
un’esacerbazione di tutti i quadri di tipo autoimmunitario, così come la tiroidite. Possiamo avere
anche fenomeni distruttivi che portano a ipotiroidismi permanenti e possiamo anche avere
l’attivazione del morbo di Basedow (che in soggetti con la patologia era andato in remissione
durante la gravidanza grazie alla situazione di immunodepressione).

Tiroidite silente
E’ la stessa cosa della post partum, ma non correlata alla gravidanza (anche nei maschi). Si tratta di
una tiroidite acuta senza dolore, ha lo stesso andamento distruttivo con fasi di tireotossi,
ipotiroidismo e recupero. E’ legata alla presenza di anticorpi anti-tireoperossidasi, quindi è una
condizione latente ed è caratterizzata da una fase subacuta che poi rientra in latenza. Nel tempo
può poi avere un decorso come quello della tiroidite di Hashimoto.
DIAGNOSTICA MOLECOLARE 13.3 Arianna Mondaini
Prof. E. Puxeddu

PATOLOGIA NODULARE TIROIDEA

EPIDEMIOLOGIA
- patologie nodulari, insieme a ipofunzioni tiroidee e tiroiditi, sono estremamente frequenti
- iperfunzioni meno frequenti

A proposito delle patologie nodulari, da un punto di vista epidemiologico c’è enorme differenza nel
numero di nuove diagnosi tra oggi e il tempo in cui in i noduli venivano individuati con la sola
palpazione della tiroide.
Attraverso la palpazione si individuano solo i noduli più grandi che improntano la superficie della
ghiandola, senza poter rilevare i possibili noduli di minori dimensioni.
Si può comunque evidenziare che il 5% della popolazione sia portatrice di noduli apprezzabili con
palpazione (con una maggiore prevalenza tra i pazienti anziani).

Oggi la presenza di noduli tiroidei non viene tanto determinata mediante palpazione, quanto
mediante ecografia che ha una sensibilità così elevata che si può assimilare a quella di un esame
autoptico.

Se l’analisi viene eseguita con l’ecografia (in luogo della palpazione) la prevalenza dei noduli arriva
a valori notevolmente superiori: in alcune zone la prevalenza può arrivare anche al 60-70%.

Questo ‘aumento’ comporta numerose conseguenze:


1) oggi l’ecografia è usata in maniera esagerata, specie in un sistema sanitario come quello italiano
che non prevede regole dettate da assicurazioni (che rappresentano un fattore limitante
all’accesso a strutture sanitarie);
2) sono numerose le fonti attraverso le quali possono essere individuati i noduli a prescindere dalla
ricerca mirata su paziente che presenti un evidente problema tiroideo. Spesso eseguendo altri tipi
di analisi (ad esempio un ecodoppler dei tronchi biaortici) si può evidenziare la presenza di noduli
tiroidei;

3) un altro aspetto importante è l’impatto che genera sulla popolazione: alla diagnosi di un nodulo,
anche non pericoloso, ci sono pazienti che si sottopongono a intervento chirurgico anche se non
necessario

Da un punto di vista pratico, tutto questo si traduce in lunghe liste d’attesa nei laboratori di
endocrinologia e per eseguire ecografie della tiroide.

ANALISI DIFFERENZIALI

I noduli della tiroide possono essere:


- benigni
- maligni
- pseudonoduli, nell’ambito di patologie infiammatorie come la tiroidite subacuta o tiroidite
cronica di Hashimoto (già trattate)

Tuttavia noduli palpati nella loggia tiroidea possono essere anche legati anche a condizioni non
tiroidee:
- disordini infiltrativi che risultano in pseudonodulazioni della ghiandola (esempio: emocromatosi)
- metastasi
- cisti paratiroidee
- lipomi
- paragangliomi (un paraganglioma del glomo carotideo, per la vicinanza della carotide potrebbe
simulare un nodulo esofitico che si trova sulla superficie della ghiandola tiroidea)

Nella 95% dei casi si tratta di noduli tiroidei benigni, che possono essere legati a:
- iperplasia nodulare (gozzo)
- tumori benigni che possono essere normo-funzionanti o adenomi tossici (causa di tireotossicosi
associate alla produzione di ormone tiroideo)
Che cos’è il gozzo?
Il gozzo semplice rappresenta un ingrandimento della tiroide non associato a iperfunzione né a
patologie neoplastiche o infiammatorie

NB: questa è la definizione più precisa anche se nel linguaggio comune, solitamente si parla di
gozzo ogni volta che si intende un ingrandimento della tiroide.

Si distinguono:
- gozzi endemici
riguardano una percentuale significativa di popolazione di un territorio, per cui l’insorgenza essere
correlata in qualche modo a un fattore locale

- gozzi sporadici
eventi che si trovano sporadicamente in un territorio, che interessano i singoli individui o una
famiglia

GOZZO ENDEMICO

Che cosa determina la formazione del gozzo?


Può essere determinato da carenza iodica.

Una carenza iodica potrebbe essere causa anche di problemi più importanti:
- ipotiroidismi congeniti
- alterazioni nello sviluppo neurointellettivo dei soggetti esposti a carenza già nella vita intrauterina

In linea di massima, nelle zone dove la presenza di iodio è lieve-moderata (anche nella stessa
Umbria), le conseguenze sono principalmente legate a:
- possibile crescita di gozzi semplici o nodulari
- minima alterazione nella sintesi degli ormoni tiroioidei: una riduzione di T4 rispetto a T3;
l’alterazione del rapporto T3/T4 viene recepita a livello dell’asse ipotalamo-ipofisi, perché
nell’effettivo è T4 che svolge l’effetto di feedback negativo: il rapporto alterato comporta un
alterato aumento cronico di TSH (seppure tendenzialmente rimanga entro range di normalità).
Il TSH stimola a sua volta iperplasia diffusa nella ghiandola e nel tempo si possono sviluppare i
noduli.

In realtà lo sviluppo di gozzo è caratteristica della sola parte di popolazione che presenta una
predisposizione genetica qualora esposta a carenza iodica lieve-moderata.
Il gozzo si sviluppa in questo caso per una maggiore difficoltà nella gestione della carenza iodica.

C’è una fetta della popolazione che riesce a gestire la mancanza di iodio eventualmente andando
incontro a ipertrofia.

Differenza tra IPERTROFIA e IPERPLASIA:


- l’ipertrofia è determinata da un aumento di volume delle cellule
- l’iperplasia è determinata da proliferazione cellulare che può essere associata a fenomeni di
mutagenesi che portano alla selezione di cloni che hanno vantaggio di crescita.
I cloni possono essere:
- normo funzionanti (non caratterizzati da un eccessivo produzione di ormoni tiroidei)
- oltremodo funzionanti che nel lungo termine portano alla formazione di noduli e alla
compensazione della mancanza di iodio (per questa ragione molti gozzi vengono anche
soppressi se nella tiroide si selezionano le aree iperfunzionanti).

Nel processo di iperplasia per stimolazione da TSH la eterogeneità dei cloni cellulari tiroidei è
documentata da studi di autoradiografia: prelevando una porzione di tiroide e valutando la
captazione dello iodio in vitro si potranno vedere cellule che captano maggiori quantità di iodio e
cellule che ne captano quantità minori.

La stimolazione crea una eterogeneità funzionale dei cloni cellulari.

GOZZO SPORADICO

Il gozzo sporadico può dipendere da alterazioni geneticamente determinate dei meccanismi di


biosintesi di ormoni tiroidei (tipicamente mutazioni di geni che codificano per enzimi importanti
nella sintesi degli ormoni tiroidei).

Ridotta attivazione dell’ormone tiroideo  attivazione cronica del feedback  stimolazione


cronica da parte di TSH.
Situazioni di gozzo sporadico ricorrente in una famiglia si devono a disturbi di tipo recessivo: in
eterozigosi la presenza anche di un solo allele funzionante permette un sufficiente prodotto genico,
quindi una quota di proteine trasportatori o enzimi per non avere conseguenze patologiche.

Il gozzo sporadico può essere anche legato a conseguenze alimentari, ad esempio l’assunzione
eccessiva di tiocianati (da fumo o da consumo eccessivo di cavoli).
In questo caso il tiocianato compete con lo ioduro sul NIS, bloccando la captazione dello iodio.
Gozzi di queste dimensioni ad oggi sono molto rari da vedere; un gozzo di questa entità è
caratterizzato da una alterazione funzionale, associata a:
- ipotiroidismo e tiroidite di Hashimoto sovrapposta
- ipertiroidismo (molto più frequente) associato a noduli tossici multifunzionali (tireotossicosi 
ipertiroidismo)

Un gozzo di queste dimensioni pone un altro problema: essendo collocato all’imbocco del
mediastino può determinare una sindrome compressiva mediastinica.
Qualsiasi massa che si sviluppa a livello del torace può determinare una sindrome compressiva
mediastinica con compressione di:
- vena cava,
- vene giugulari,
- esofago  disfagia da compressione esofagea
- trachea  dispnea da compressione tracheale
- nervi ricorrenti  disfonia da compressione dei nervi ricorrenti (che si staccano dal vago e
innervano le corde vocali a livello laringeo); per compressione di uno o di
entrambi i nervi possiamo avere paralisi delle corde vocali con modificazione
della voce e disfonia.

Ad oggi il problema clinico più importante non è tanto rappresentato dai gozzi, quanto da patologie
tumorali (che presentano rischio di malignità).
Di fronte alla presenza dei noduli la domanda spontanea rivolta dal paziente è proprio se il nodulo
rappresenti una massa benigna o maligna.

Il 95% dei noduli sono benigni e controllabili, il vero problema è riuscire a distinguere, il 95% dei
noduli benigni dalla quota del 5% che rappresenta neoplasie tiroidee maligne o più raramente
metastasi (di carcinoma renale, del colon e della mammella).

La quota di 5% dei noduli maligni è rilevata attraverso esami più approfonditi o a posteriori con
autopsia.
Di questa parte i carcinomi più clinicamente significativi, cioè quelli che mettono a rischio la
sopravvivenza del paziente o che compromettono le funzionalità respiratorie e digestive
rappresentano lo 0.5%.
Questi dati esprimono un aspetto importante:
dall’ecografia 9/10 noduli rilevati non hanno un impatto rilevante per il paziente, quindi molto più il
rischio principale è rappresentato dalla sovradiagnosi.

La sovradiagnosi ha grandi conseguenze sulla vita dei pazienti: anche soggetti che presentano
carcinomi della tiroide di piccole dimensioni, controllabili e che non andranno incontro a crescita,
sono indotti a rimuoverli chirurgicamente.
La rimozione comporta sviluppo di ipotiroidismo a vita, e notevoli ripercussioni economiche e
sociali dalle spese chirurgiche a quelle per le terapie.

WORKUP DEI NODULI TIROIDEI

L’aspetto della sovradiagnosi ha un impatto considerevole sulla società, a maggior ragione nel
nostro paese dove l’ecografia è uno strumento accessibile a tutti: possiamo dire di essere di fronte a
un’“epidemia da noduli tiroidei”.

Anche per questa ragione, oggi si stanno elaborando nuove strategie che permettano di approcciare
al problema in modo più razionale per evitare il più possibile le sovradiagnosi, per offrire cure a chi
veramente ne ha bisogno e per cercare anche di risparmiare risorse di fronte a questa ‘epidemia’ che
include per lo più noduli insignificanti.

Ci sono delle strategie diagnostiche per cercare di districarci in questo ambito.

Nell’ambito di un workup di un nodulo tiroideo ci sono passaggi fondamentali:


- anamnesi accurata e valutazione clinica del paziente
- test di laboratorio
ecografia,
scintigrafia,
citologia con ago aspirato (che rappresenta il gold standard)
analisi genetiche e genomiche (che rappresentano una novità e che al momento non sono ancora
utilizzate in Italia)

Ci sono diversi ELEMENTI AMNESTICI e CLINICI da considerare, in particolare aumentano il


rischio di malignità:
- storia familiare di carcinoma alla tiroide
- storia di esposizione a radiazioni ionizzanti, radiazioni esterne o esposizione a radioiodio specie
in età infantile o adolescenziale
- storia personale o familiare di una neoplasia endocrina multipla di tipo 2
- storia personale o familiare per carcinoma midollare della tiroide
- presenza di noduli PET positivi, rilevati per esempio durante un follow up di un carcinoma alla
mammella avuto 5 anni prima
- alti valori di calcitonina nel sangue
- linfoadenopatia associata a nodulo
- noduli a crescita rapida
- noduli a consistenza dura
- noduli associati a disfonia o disfagia, che infiltrando trachea ed esofago comportano alterazioni
del passaggio di cibi o alterazioni della voce

Tutti questi elementi seppur importanti hanno una accuratezza diagnostica piuttosto limitata: una
paralisi delle corde vocali potrebbe essere anche causata da una infezione virale che coinvolge i
nervi ricorrenti; l’esame obiettivo è importante ma deve essere comunque preso in maniera critica.

LABORATORIO
Tutti i pazienti che hanno un nodulo devono sottoporsi alla misurazione del TSH che può essere:
- normale, maggior parte dei casi
- elevato, in questo caso l’aumento non è causato dal nodulo, ma tiroidite autoimmune cronica
associata
- soppresso, nodulo iperfunzionante (adenoma di Plummer)

Il dosaggio del TSH è fondamentale, perché soprattutto se il TSH è soppresso dobbiamo verificare
se il nodulo è iperfunzionante o no.

Si può anche seguire la misurazione della calcitonina: se la calcitonina è elevata, la probabilità che
il nodulo possa essere un carcinoma midollare sia più alta.
La calcitonina viene prodotta solo dalle cellule C della tiroide e se i valori sono sopra la norma vuol
dire che c’è un processo neoplastico che interessa le cellule C.

NB: la calcitonina può essere prodotta anche da altri tumori neuroendocrini in altre zone
dell’organismo (anche se è un evento molto raro).

La calcitonina quindi può essere molto utile per identificare la natura o per dare una maggiore
definizione del nodulo.

I carcinomi della midollare sono in realtà estremamente rari per cui vengono investite
proporzionalmente molte più risorse per effettuare il test alla calcitonina di quanto non siano
nell’effettivo i test positivi.
Anche in questo caso è necessario verificare se nel rapporto costo-beneficio si trae un reale
vantaggio.

Per il test della calcitonina ci sono dati contrastanti:


- linee guida ATA (american thyroid association), il test viene eseguito a discrezione del medico
- linee guida ETA (european thyroid association), definisce il test come utile e le risorse
impiegate per gli screening a tappeto sono ripagate dalla possibilità di effettuare una diagnosi
precoce per pazienti realmente malati di carcinoma midollare della tiroide e di ridurre la spesa dei
trattamenti successivi, molto più costosi
Ha senso misurare tireoglobulina e anticorpi antitirossidasi in tutti i casi?
No perché la tireoglobilina è prodotta da tutte le cellule tiroidee e qualsiasi aumento di volume della
tiroide (anche nodulo) anche se benigno può essere caratterizzato da una eccessiva produzione di
tireoglobulina.
La tireoglobulina non è un marcatore di malignità, quindi non ha utilità il suo dosaggio.

Anticorpi anti tireossidasi si fanno solo per TSH aumentato e se sospettiamo la presenza di una
tiroidite cornica autoimmune.
La misurazione routinaria in questi casi non è indicata.

SCINTIGRAFIA
Una volta era l’unico esame che si poteva fare e che veniva eseguito di seguito alla misurazione del
metabolismo basale.
Oggi ha un'unica indicazione, cioè si esegue su pazienti con sospetto ipertiroidismo (casi in cui i
test di laboratorio danno un TSH soppresso o meno aumento di FT3 o FT4).
In tutti i casi di ipertiroidismo clinico o subclinico c’è una indicazione a fare scintigrafia.

In realtà i noduli tiroidei sono caldi e iperfunzionanti solo nel 10%, nel 90% dei casi sono freddi,
per questo si fa solo se il TSH è soppresso.

Quando i noduli sono caldi abbiamo solitamente la soppressione di TSH.


In caso di adenoma tossico:
- il nodulo è caldo,
- le cellule sono ben differenziate
- la probabilità che sia un tumore maligno è estremamente bassa

I noduli freddi possono essere causa di diverse patologie e rappresentare anche il 5-10% dei noduli
maligni (cioè il totale di tutti i noduli maligni).
Se ci sono indicazioni in questo caso va eseguito un ago aspirato.

Una scintigrafia con tecnezio 99 o iodio 123 per valutare l’uptake del nodulo:
- può essere utile per confermare una autonomia funzionale.
- è indicata quando i livelli di TSH sono soppressi
- se il nodulo è caldo possiamo evitare di fare ago aspirato perché la probabilità che si tratti di un
nodulo maligno è trascurabile.
ECOGRAFIA
Esame estremamente importante, permette di verificare la condizione iniziale per poi continuare il
follow up del nodulo (rappresenta il “tempo 0”, per misurare il nodulo e valutarne le
caratteristiche).

Permette:
- identificazione di noduli aggiuntivi
- di definire una situazione non di gozzo uninodulare, ma di gozzo multinodulare.
- di dare caratterizzazione del nodulo
- di valutare la situazione dei linfonodi lobo-regionali per vedere se sono normali o patologici.

Ci sono una serie di elementi ecografici che ci permettono di fare sospettare la malignità del nodulo.
L’ecografia rappresenta un passaggio fondamentale per guidarci allo step diagnostico successivo,
esecuzione dell’ago aspirato del nodulo (gold standard).

Quali sono le caratteristiche ecografiche che suggeriscono la presenza di una neoplasia?

ECOSTRUTTURA DEL NODULO


(caratteristiche strutturali del nodulo) ci potremmo trovare di fronte a:
- noduli solidi
- noduli liquidi
- noduli misti (solidi e liquidi)
- noduli cistici
Tipicamente le neoplasie sono noduli solidi.
ECOGENICITÀ, colore del nodulo in una scala di grigi.
Nell’ambito della scala abbiamo una condizione di:
- ISOGENICITÀ, colore normale della tiroide (intermedio, grigio chiaro).
- IPOECOGENICITÀ se il colore è tendente al nero
- IPERECOGENICITÀ se il colore è tendente al bianco

I carcinomi papillari della tiroide sono generalmente ipoecogeni.

Ci sono anche noduli di altre caratteristiche:

TALLER THEN WIDE

Sono noduli che hanno diametro anteroposteriore maggiore dell’anterolaterale.


i noduli benigni:
- tendono a crescere lungo il diametro maggiore del lobo (diametro longitudinale)
- non sono sferici, cioè non hanno allungamento del diametro anteroposteriore rispetto
all’allungamento dell’anterolaterale.

i noduli neoplastici:
- tendono a crescere in maniera concentrica
- possono avere il diametro anteroposteriore maggiore o equivalente al diametro anterolaterale.
MARGINI IRREGOLARI

i noduli benigni (sx):


hanno margini molto regolari, (al massimo possono avere degli aloni vascolari periferici).

i noduli maligni (dx):


sono mammellonati con un margine frastagliato

MICROCALCIFICAZIONI
altro elemento significativo per la malignità

assenti a sx, presenti a dx

VASCOLARIZZAZIONE INTRANODULARE CAOTICA


METASTASI AI LINFONODI LATERO-CERVICALI

Caratteristiche di malignità nei linfonodi:


- linfonodi rotondi,
- perdita ilo centrale e ilo vascolare,
- calcificazione
- vascolarizzazione irregolare.
L’aspetto metastatico è riconoscibile perché il linfonodo assume un aspetto sovrapponibile a quello
del nodulo maligno che gli sta vicino.

Questi parametri oggi hanno trovato una applicazione clinica; tempo fa ogni volta che ci si trovava
di fronte a un nodulo si eseguiva un ago aspirato a prescindere, oggi questo dispendio di risorse è
improponibile (dal punto di vista dell’impegno economico e di forza lavoro).

Oggi tutte le società scientifiche che si occupano di ecografia (quelle degli endocrinologi, radiologi,
oncologi) hanno sviluppato dei sistemi di triage basandosi sulle caratteristiche appena descritte per
ricavare le linee guida per l’applicazione dell’ago aspirato in base al rischio di malignità dei noduli.

I noduli vengono quindi stratificati in diverse categorie:


- ad alto sospetto di malignità (70-90%)
- a medio sospetto di malignità (10-20%)
- a basso sospetto di malignità (5-10%)
- a molto basso sospetto di malignità (< 3%)
- benigni (< 1%)
Ci sono diverse combinazioni e da questa stratificazione ecografica derivano metodologie diverse di
comportamento per l’uso dell’ago aspirato, che oggi, anche se non applicato a tappeto, rappresenta
il vero gold standard diagnostico.

AGO ASPIRATO

differenza tra ago aspirato e ago biopsia


ago aspirato:
si usano aghi molto sottili e si prelevano pochi raggruppamenti di cellule: il citologo che analizza il
materiale aspirato è in grado di vedere un piccolo numero di cellule e farsi un’idea non reale del
corrispettivo reale del campione citologico o del nodulo che è stato ago aspirato.
La citologia tiroidea non permette di fare una rilevazione precisa della natura del nodulo, ma sulla
base delle caratteristiche qualitative delle cellule, il citologo stratifica il rischio di malignità della
lesione.

ago biopsia:
è un prelievo istologico di una porzione di tessuto; permette il campionamento di una ‘carotina’ di
tessuto per eseguire un esame istologico, quindi la reale natura del tessuto.
L’agobiopsia non ha una esecuzione facile essendo la tiroide notevolmente vascolarizzata (può
causare ematomi e sanguinamenti).
Inoltre l’agobiopsia è una tecnica time-consuming dispendioso: i noduli sono numerosi, quindi
bisognerebbe eseguire più prelievi e allestire più preparati istologici.

È quindi preferibile l’ago aspirato che si esegue con aghi di 23-25- 27 gauge.
Si preleva piccola quantità di materiale, si posiziona su vetrino, viene colorato spesso con
papanicolau.
Solitamente sono raccomandati più passaggi sia per prelevare maggiore quota di materiali sia per
raggiungere più punti del nodulo.

Come si usa l’ago aspirato in base al triage ecografico?


in presenza di noduli ad alto sospetto ecografico (rischio di malignità 70-90%)
 si bucano tutti i noduli ≥ 10 mm

Perché quindi non si bucano i noduli di dimensioni inferiori a 10 mm (se non in presenza di
linfadenopatia associata)?
Perché 9/10 noduli rappresentano patologia subclinica senza impatto: se la patologia c’è (fosse
anche un tumore) se ha dimensioni inferiori a 10 mm non ha conseguenze importanti.
Oggi come cut-off viene indicata la grandezza di 10mm e vengono bucati tutti i noduli sia con
sospetto alto, sia noduli con sospetto ecografico intermedio.

Se il sospetto ecografico è basso, con rischio di malignità a 5-10% (potrebbe comunque


concentrarsi qualche carcinoma follicolare),
 l’ago aspirato viene raccomandato quando il nodulo ha dimensione ≥ 15 mm (alcune società
suggeriscono anche ≥ 20 mm) perché:
- il rischio è basso
- il tipo di neoplasia che si può nascondere dietro a questo nodulo, è di poca importanza.
Per questo motivo è scelto un cut-off più elevato permette di evitare di eseguire l’ago aspirato
numerose volte.

Se il sospetto è molto basso (noduli misti) è a discrezione del medico eseguire o meno ago aspirato
(non si esegue se il nodulo è cistico orche benigno).

La citologia tiroidea permette appunto la stratificazione dei noduli in base al loro rischio e una
classificazione italiana divide i noduli in 7 categorie principali distinti con acronimo TIR
Le categorie hanno delle corrispondenze in altre classificazioni e ciascuna categoria ha uno
specifico rischio di malignità (a parte TIR 1, dove c’è un problema di subdiagnosi).
In funzione del rischio di malignità le categorie guidano nel management del nodulo e della
gestione del paziente.

TIR 1
Preparati inadeguati o non rappresentativi.
- inadeguati: problema determinato da imprecisione nella colorazione o nella fissazione
- non rappresentativi: campioni che non presentano un campione numerico sufficiente di cellule
Perché un campione sia rappresentativo è necessario un cluster di almeno 6 cellule, ciascuno
comporto da almeno 10 cellule ben conservate
In caso di TIR1 bisogna ripetere il prelievo.

TIR1C
Noduli cistici, che in teoria non devono essere ago bioaspirati.
Spesso nell’aspirato di un nodulo cistico non si trovano cellule tiroidee, ma altri tipi di cellule come
sangue e macrofagi

Complessivamente TIR 1 e TIRC rappresentano meno del 20% degli esami citologici.

TIR2
preparati non neoplastici, il rischio di malignità è < 3%.
Il valore predittivo negativo di TIR2 è superiore al 97%: il tasso di falsi negativi è estremamente
basso.
Complessivamente TIR2 rappresenta il 60-70% degli esami citologici e il materiale che si ottiene si
riferisce ai gozzi colloido-cistici, a tiroiditi o a tiroiditi granulomatose (situazioni appunto in cui si
possono sviluppare noduli).
In caso di TIR2: se il nodulo non ha dimensioni grandi al punto da creare fenomeni compressivi, si
eseguono monitoraggi successivi tramite ecografia per verificare se il nodulo cresce o no.
TIR4
sospetto di malignità.
Il valore predittivo positivo di avere una lesione neoplastica è del 60-80%: in realtà è alto il rischio
di falsi positivi (dal 20-40%).
A Perugia tendenzialmente il TIR4 ha un valore predittivo positivo maggiore al 90% (sono molti
meno quindi i falsi positivi), ma in altre realtà ci possono essere dei falsi positivi.
I TIR4 rappresentano una minoranza degli esami citologici: è un preparato con cellule sospette di
malignità, ma mancano caratteristiche per confermare con certezza che siamo di fronte a un nodulo
maligno.
Ci sono agglomerati con tante di cellule anche diverse.

TIR5
Caso estremo, valore predittivo positivo >95%.
Se abbiamo questo ci troviamo con grande probabilità di fronte a lesione maligna.
Rappresenta il 10-15% dei risultati citologici che si ottengono.
In questo caso dall’esame citologico possiamo determinare che si tratta di:
- carcinoma midollare
- carcinoma papillare
- linfoma
-…

Casi di TIR4 o TIR5 devono essere trattati chirurgicamente.


TIR3
‘area grigia’ della citologia; nonostante la citologia sia il gold standard c’è un margine di errore.

In passato c’era solo la categoria TIR3 (non esisteva la sottoclassificazione in TIR3A-TIR3B): il


margine di rischio per lo sviluppo di malignità oscillava in un range compreso tra il 20-80%,
margine troppo ampio per:
- limitarsi a monitorare il nodulo attraverso successivi follow up
- suggerire a ‘cuor leggero’ l’asportazione del nodulo

Costituiva il 20% degli esami citologici.

Il TIR3 include lesioni follicolari:


- adenomi benigni,
- adenomi follicolari,
- adenomi a cellule di Hurthle,
- carcinomi follicolari
- carcinomi a cellule di Hurthel,
- variante follicolare del carcinoma follicolare.

nella maggior parte dei casi sono noduli tumorali.

Perché la citologia non permette di distinguere un nodulo benigno da un maligno?


Perché ciò che permette di distinguere benigno da maligno è la presenza/assenza di infiltrazione
nella capsula e la presenza/assenza di infiltrazione vascolare, che non possono essere evidenziate
attraverso il prelievo di un numero di cellule ridotto come quello dell’ago aspirato.
Il nodulo è maligno se si evidenza invasione capsulare (foto sx, talvolta l’invasione è tale da
superare anche la capsula) oppure si evidenzia invasione vascolare (foto dx), con presenza di cellule
neoplastiche che proliferano all’interno di capillare o di un vaso più grande e formazione di trombi
neoplastici.
La categoria TIR3 resta una zona grigia e in Italia oggi (seguendo classificazioni del mondo
anglosassone) si utilizzano le sue sottocategorie TIR3A e TIR3B, entrambe date da proliferazioni di
lesioni follicolari, ma con un diverso rischio di sviluppare malignità.

TIR3A
Include campioni che non possono essere definiti di citologia benigna, ma che non possono neanche
essere con certezza definiti di citologia tumorale.
C’è rischio di sviluppo di malignità del 5-15%, un livello basso che consente mettere il paziente in
follow up.
La raccomandazione è di ripetere ago aspirato entro sei mesi e se si riconferma TIR3A di continuare
il follow up.

TIR3B
Include tutte le citologie che fanno pensare a un tumore, benigno o maligno che sia.
Il rischio di malignità è più significativo, 15-30% (il professore sottolinea che nel distretto di
Perugia il rischio stimato è del 30-50%), e l’intervento chirurgico viene raccomandato con maggiore
tranquillità.

Nonostante questa sottoclassificazione ci potrebbero comunque essere dei falsi positivi, e


potrebbero comunque esserci pazienti avviati alla chirurgia anche se non necessario.

Quale potrebbe essere un modo per migliore accuratezza dell’esame citologico?


Analisi genetica e genomica.

ANALISI GENOMICA
Ci sono due test genetici, ampiamente eseguiti in America: la percezione è quella che migliorando
l’accuratezza dell’ago aspirato si possa ridurre il numero di interventi chirurgici con una certa
sicurezza e con buon vantaggio dal punto di vista economico.
Oltre oceano le assicurazioni preferiscono sostenere le spese legate a questi test opzionali piuttosto
che inviare i pazienti direttamente agli interventi.

Uno di questi test, Thyroseq v.3, sviluppato da un collega e amico del professore
(anatomopatologo): è un approccio che si basa su analisi genetica delle cellule prelevate attraverso
ago aspirato.
Ad oggi si conoscono gran parte delle alterazioni genetiche che caratterizzano i tumori della tiroide,
e sfruttando le tecniche di next generation sequencing (sequenziamento massivo di 112 geni) la
presenza/assenza di mutazioni su questi geni permette di distinguere con buona approssimazione se
siamo di fronte a nodulo maligno o a nodulo benigno.

L’assenza di certe mutazioni è legata a noduli benigni, la presenza di tali mutazioni induce a
pensare a malignità.
A proposito della performance del test nelle diverse situazioni:

il valore predittivo negativo di un test TIR3A o TIR3B negativo corrisponde al valore predittivo
negativo di un test TIR2;
- se il test è negativo con ottima approssimazione siamo di fronte a una citologia benigna,
- se il test dà un valore positivo dobbiamo considerare la presenza di tumore

Si può vedere l’algoritmo di comportamento di Thyroseq:

- citologia benigna  follow up


- citologia maligna  chirurgia
- citologia indeterminata  applicazione di Thyroseq
 thyroseq negativo: la probabilità di avere un tumore è la stessa di avere malignità da TIR2 (il
paziente può quindi essere avviato a un programma di osservazione)
 thyroseq positivo: probabilità da 59-99% che ci sia una massa tumorale

Questo test permette quindi di risparmiare una buona quantità di interventi.

Un altro test che può essere applicato è il GEC (gene expression classifer), sviluppato dalla
compagnia Verasite.
Ha un approccio diverso, perché mentre nel Thyrosec vengono analizzate le mutazioni a livello di
DNA e RNA attraverso il sequenziamento, qui si valuta l’espressione genica di un pannello di
cellule.
È un test che si basa sull’RNA che viene estratto dalle cellule, viene fatta una comparazione tra il
risultato ottenuto nell’espressione genica dell’apparato citologico con quelli che sono i risultati di
riferimento dei noduli benigni.

- se c’è coincidenza tra i pattern di espressione genica del preparato citologico e quelli di
riferimento benigni, allora il nodulo è benigno.
- se c’è un discostamento tra i pattern di espressione genica del preparato citologico e quelli di
riferimento il nodulo è considerato sospetto.
È un test molto sensibile con un valore predittivo negativo dichiarato del 95% (ha ottima
accuratezza, ma comunque sembra che il Thyroseq sia meglio).
Anche qui l’algoritmo di comportamento di GEC:

- citologia non chiara  si ripete ago aspirato


- citologia benigna  si mette in osservazione
- citologia maligna  si fa chirurgia
- citologia indeterminata  applicazione gene expression classifier

Se c’è coincidenza tra pattern di espressione genica del preparato con quello di riferimento, si
considera nodulo benigno con rischio di malignità del 5% (simile a quello di TIR2)
 il paziente viene messo in osservazione

Se c’è discostamento tra i due pattern di espressione genica si considera il nodulo sospetto con un
40% di rischio di malignità.

Questo permette di risparmiare molti interventi:


in passato il 74% dei pazienti con noduli indeterminati veniva sottoposto a chirurgia tiroidea,
oggi si risparmia il 50% degli interventi.

In Italia, l’estensione di questo test non è sostenibile da un punto di vista economico: in realtà
servirebbe una ripianificazione della gestione delle risorse, perché risparmiare sulle chirurgie e sugli
effetti della chirurgia a lungo termine, può essere compensato dalle spese di questi test.
ALGORITMO

Nodulo tiroideo:
anamnesi, esame obiettivo, misurazione del TSH, ecografia

- se TSH è soppresso
 scintigrafia, se il nodulo è caldo deve essere trattato
 chirurgia, iodio 121, alcolizzaizone del nodulo

- se TSH è normale o elevato


 ago aspirato (ricordando che oggi possiamo applicare il triage ecografico con stratificazione del
disco ecografico e scegliere entro quali sono i limiti per l’esecuzione dell’ago aspirato)

Si possono avere diversi risultati:


- se il risultato non è diagnostico, il test viene ripetuto.
- se il nodulo è maligno o sospetto viene operato,
- se il nodulo è benigno viene seguito
- se il nodulo è interminato:
TIR 3A: si ripete ago aspirato a sei mesi, se si conferma  follow up
TIR 3B: viene operato

Per quelli benigni una volta si eseguiva la terapia soppressiva di TSH per mettere a riposo la tiroide
e non fare crescere il nodulo, nella convinzione che il TSH fosse un fattore importante per la
crescita dei noduli.
Il prezzo che il paziente pagava era il fatto era quello di essere iatrogenicamente condannato a
ipertiroidismo subclinico, talvolta anche con conseguenze importanti per la salute.

Oggi c’è anche la possibilità di eseguire trattamenti con radiofrequenze iodinate, trattamenti
definiti ‘termo ablativi’.

Un test genetico rappresenta un’evoluzione per guadagnare in accuratezza.


TREND NELL’INCIDENZA DEL CARCINOMA TIROIDEO

La maggior parte dei noduli maligni che troviamo alla tiroide è rappresentata da carcinomi
differenziati della tiroide (88%) che includono i carcinomi papillari della tiroide e i carcinomi
follicolari della tiroide.

Che significa differenziato?


Le cellule tumorali sono simili al tessuto di origine (follicolare) e possono mantenere tre qualità:
- captare iodio perché continuano a esprimere NIS,
- rispondere al recettore di TSH, quindi il TSH in qualche modo ne può regolare la funzione,
- produrre tireoglobulina
Sono elementi importanti perché sono sfruttati in ambito terapeutico e diagnostico.

- 75% carcinomi papillari


- 13% carcinomi follicolari (spesso alla citologia diagnosticati come lesioni particolari)
- 6% carcinomi midollari, che derivano dalle cellule C che producono calcitonina
- 5% carcinomi poco differenziati che derivano sempre dalle cellule follicolari e rappresentano
una progressione verso la perdita di differenziazione di carcinomi più differenziati
(qualche volta si vede la coesistenza di aree di carcinoma differenziato con aree di carcinoma
poco differenziato).
- 1% carcinomi anaplastici, che rappresentano l’evoluzione estrema delle neoplasie che
coinvolgono le cellule follicolari.
Sono delle neoplasie completamente indifferenziate, che non esprimono il recettore del TSH, né la
tireoglobulina, né NIS e che sono estremamente aggressive.
La sopravvivenza dopo la diagnosi va dai 6 ai 18 mesi nella migliore delle ipotesi (più
frequentemente 3-6 mesi) perché tendono a crescere molto rapidamente e non ci sono ad oggi
delle terapie efficaci per curarli.

Bisogna sottolineare che negli ultimi 10-20 anni si è affermata un’impennata in generale
dell’incidenza dei tumori della tiroide e, in particolare, dei carcinomi papillari della tiroide, poco
aggressivi, che hanno una mortalità bassa e costante.
Per quale motivo si apprezza un aumento dell’incidenza?
Probabilmente è il frutto della sovradiagnosi:
oggi si fa diagnosi di un serbatoio di patologia subclinica che è sempre esistito, che tempo fa, con la
sola palpazione, non veniva identificato e che oggi si diagnostica attraverso ecografia e ago aspirato
(forse anche utilizzati in maniera indiscriminata).

Le patologie della tiroide sono un problema prevalentemente femminile (forse anche perché le
donne vanno più spesso dal medico), la mortalità è la stessa in entrambi i sessi.

L’incidenza delle neoplasie è salita da 5 nuovi casi/ 100.000 abitanti /anno a 14 nuovi casi/ 100.000
abitanti /anno per la diagnosi di carcinomi papillari (in Italia).
I carcinomi papillari sono neoplasie che determinano un aumento di incidenza ogni anno.

Alcune neoplasie stanno presentando un trend al ribasso altre un trend al rialzo; la prova scientifica
che l’aumento dell’incidenza sia legato a una sovradiagnosi proviene da dati prodotti in Corea.
In Corea a partire dalla fine degli anni ‘90 è stato effettuato uno screening massivo delle neoplasie e
per la tiroide c’è stato un incremento vertiginoso dell’incidenza: 70 nuovi casi/ 100.000 abitanti
/anno.

Lo studio coreano afferma che più le neoplasie si cercano più si trovano; è stata dimostrata
scientificamente la correlazione tra l’intensità dello screening il tasso di incidenza: a seconda
dell’intensità con la quale si cercano i tumori si ha un diverso tasso di incidenza.
A riprova nel 2014-2015 è stato pubblicato un ulteriore studio: nel momento in cui il piano di
screening è stato interrotto, anche l’incidenza dei tumori (di tiroide ma non solo) si è
progressivamente ridotta insieme al numero degli interventi.

Il cancro alla tiroide, in passato considerato un cancro raro, è in nona posizione per frequenza (4%
delle neoplasie).
Nel 2014 negli USA erano attesi 62.000 casi di tumore della tiroide con mortalità prevista di 2000
casi.

In generale nella pratica clinica:


- si evidenzia che la mortalità del tumore della tiroide è quasi l’eccezione
- il trattamento di tumore della tiroide è tipicamente di appannaggio dell’endocrinologo (non
dell’oncologo)

Quali sono i fattori di rischio per il tumore della tiroide?


Il fattore di rischio principale per il tumore della tiroide è l’esposizione a radiazioni ionizzanti
soprattutto in età pediatrica e adolescenziale.
Il 26 aprile 1986, l’esplosione del reattore 2 della centrale nucleare di Chernobyl è stato l’evento
storico che più ha permesso la comprensione del rapporto tra radiazioni ionizzanti e tumori tiroidei.
Erano i tempi dell’URSS e nell’immediato la notizia non venne divulgata né ai paesi occidentali
confinanti, né tantomeno alla popolazione del paese.
Di seguito all’esplosione ci fu liberazione di cesio e iodio 131 e una massiva contaminazione del
territorio.

Il collega del professore (quello a cui si deve l’invenzione del Thyroseq) al tempo esercitava la
professione di anatomopatologo a Misnk, vicino Chernobyl.
A riprova del fatto che la popolazione non fosse stata avvisata del disastro, il professore racconta
che il fratello del collega fosse un fisico e che nel dipartimento di fisica qualcuno accese
casualmente un contatore geiger (misuratore di radioattività) che prese fuoco per il forte aumento
della radioattività.

Per diversi giorni la popolazione è stata esposta in maniera massiva alle radiazioni e i danni
principali sono stati riportati dai bambini.
Dopo il disastro l’intera comunità internazionale si mise in allerta; già dai fatti di Hiroshima e
Nagasaki era noto il rapporto tra radiazioni e tumori della tiroide, ma non era chiara la correlazione
tra esposizione e tempo di insorgenza del tumore.
Già a partire da 3-4 anni dopo l’incidente nucleare ci fu un incremento sensibile dell’incidenza dei
carcinomi papillari della tiroide nella popolazione pediatrica che era stata esposta alla radioattività e
chi pagò il prezzo più alto furono proprio i bambini, perché le tiroidi in formazione sono le più
suscettibili.

Il professore aggiunge che il suo collega, deluso dalle istituzioni dell’URSS, si trasferì in America
con i reperti bioptici di tiroidi infantili e che da questo sviluppò l’interesse per il tumore della
tiroide fino alla scoperta del Thyroseq.
18/03/19 Elena Giglioni Prof. Paolo Sportoletti

La lezione è stata tenuta dall’ematologo Paolo Sportoletti per mostrare alcune applicazioni
pratiche della diagnostica molecolare, metodo attuale e futuro della diagnosi.

Il dogma della medicina molecolare afferma che ogni messaggio che viene costruito all’interno
della cellula da parte del DNA, viene trasformato nel ribosoma in una proteina, con natura
fisiologica o patologica, a seconda se il messaggio sia corretto o meno.

L’obiettivo della diagnostica molecolare è individuare le


alterazioni del messaggio e in minor parte la proteina
creata. Molto spesso in oncologia ed ematologia
l’individuazione di una mutazione è in grado di
determinare la diagnosi di una certa patologia. In altre
condizioni aiuta dopo la diagnosi nel determinare una
classificazione, la prognosi e chance terapeutiche
mirate, grazie alla precisa individuazione del bersaglio
terapeutico molecolare. Una volta individuato il
messaggio non corretto si può monitorare la terapia
grazie alla diagnostica molecolare. La medicina molecolare deve le sue basi dopo la riuscita del
Progetto Genoma che mappando il genoma umano ha permesso di confrontare poi geni alterati.

PCR

Tutta la medicina molecolare si può legare alla PCR, poiché tutte le indagini di RNA e DNA non
possono prescindere da questa tecnica, indipendentemente dal campione prelevato. La PCR è un
metodica che permette di studiare precise sequenze di DNA, piccoli frammneti a doppio filamento,
che vengono amplificati affinchè il loro peso possa essere adeguato ad uno studio. Si inizia con un
piccolo frammneto fino a generare miliardi di copie. Necessitiamo di:

 materiale da amplificare
 primers(oligonucleotidi complementari alla regioni di DNA di interesse che si andranno ad
attacare e permettere la duplicazione del filamento)
 Tamponi magnesio per la polimerasi
 Taq polimerasi
 desossinucleotidi.

La PCR sfrutta le temperature per i processi di


duplicazione del filamento di interesse. Prima
dell’avvento del termociclatore tutto ciò veniva fatto a
mano spostando il materiali in bagnetti a diversa
temperatura. Fasi principali:

1) Denaturazione a 90° rottura dei legami ad idrogeno


2) Annaling a 55°  attacco dei primers (reverse e forward)
3) Estensione  attività di allungamento della polimerasi

Il numero di copie aumentano esponenzialmente poiché si


efftuano cicli di PCR, si possono spingere i cicli fino a 30
ottenendo grandi quantità di molecole. Il numero di
molecole
di DNA è
pari al
numero di molecole iniziali per 2 elevato al
numero di cicli effetuati.

Scelta dei primers

Per una corretta esecuzione della PCR è importante generare oligonucleotidi non troppo lunghi
che si attacchino in maniera specifica al DNA da amplificare per evitare la comparsa di bande
aspecifiche in fase di analisi, che genererebbero false positività o peggio ancora impossiblità di
fare analisi. Tutto ciò è evitato dalla corretta progettazione dei primers, che segue alcuni principi:

 Tanto più sarà lungo e preciso il frammento, tanto meno saranno le possibilità di
appaiamneto erroneo
 Ogni primers ha una temperatura di appaiamneto propria che dipende dalle sue
caratterististiche fisiche e delle basi di cui è composto
 La sequenza interna non deve contenere sequenze omologhe per evitare la chiusura ad
anello del primers, impedendo così l’apaiamento al filamento

Tutto ciò ora è semplificato da browser che contengono banche dati di sequenze genomiche
bersaglio della PCR; una volta ottenuta la sequenza si usano software (motori di ricerca) che
sovraimpongono tutte le caratteristiche necessarie ad un primer quando si deve amplificare una
determinata sequenza. Si possono ottenere dal software diverse opzioni a seconda della prova di
indagine da effettuare. La PCR, come ogni altra indagine, deve sempre avere un controllo negativo
e uno positivo per evitare falsi
negativi e falsi positivi.

Elettroforesi

Il prodotto della PCR per essere letto


e analizato deve essere passato in
elettroforesi, che sfrutta le
caratteristiche del DNA per separare
i frammenti in base al loro peso. Il
gel(Agar al 2-3%) su cui viene fatto
correre il prodotto,appliacando un
campo eletrico, permette la
migrazione verso il polo positivo
grazie a maglie più o meno larghe che separano i frammenti. Affinchè sia visibile il contenuto
avviene una colorazione violetta (prima bromuro di etidio ora non usato perché cancerogeno). La
corsa efficace è valutata dalla presenza di bande nette di distribuzione del materiale tramite raggi
UV che colpiscono il colorante. Nella corsa compare un ladder, una scala di misura del peso
molecolare corrispondente alla banda di corsa del DNA, una sorta di metro per valutare il peso dei
frammenti.

Vantaggi e limiti della PCR

I vantaggi della PCR sono dare in


poche ore una risposta, una sensibilità
elevata anche in caso di estrazione di
DNA imprecisa. La PCR standard
permette l’amplificazione solo di
sequenze note, tuttavia grazie alla
Next Generation Sequencing siamo in
grado di farlo per tutto il genoma. Le
dimensioni di una PCR non possono
essere infinite: arrivare a 5kbasi è già
una mole enorme di materiale.
Normalmente per la diagnostica base si usano 500bp circa. I potenziali limiti sono rappresentati
dagli errori della Taq polimerasi. E’ abbastanza usuale ormai usare la PCR per ricercare patogeni
come CMV, ma anche la diagnostica prenatale, screening, identificazione di target farmaceutici,
compatibilità nei trapianti. Diretta conseguenza della PCR è la sequenziazione genomica e
l’ingegneria per il Genome editing, che si basa sulla possibilità di modificare all’interno della cellula
germinale singoli frammenti di DNA. La tecnica è tuttavia sottoposta a limitazioni etiche. Un altro
dei limiti della PCR è che ci indica la presenza della mutazione, ma non quanto sia espressa.
PCR Real-Time

Si è perciò trovata una modernizzazione, un avanzamento


della PCR: la PCR Real-Time. Si affiancano poi ancora nuove
tecniche come la digital PCR.

La Real-time PCR trasforma in numero le mutazioni che stiamo studiando. L’innovazione è stata
l’introduzione di un sistema di reporter fluorescenti in combinazione con gli enzimi e primers, che
identificano la quantità in base all’emissione luminosa emessa da queste sonde reporter.

Il processo è del tutto uguale alla PCR normale, ma nella fase di annealing, tra i due primers sono
inseriti frammenti marcati con sonde fluorescenti che se interagiscono con la Taq polimerasi che
ne libera frammenti, sono in grado di emetter luminescenza quantificabile. La sonda è costituita
da un reporter che emette fluorescenza e un quencher in grado di inibire l’emissione del reporter
finché essi non sono separati dalla Taq polimerasi. Importanti nella Real-time PcR sono la soglia e
CT. La soglia (Threshold) indica se la quantità di fluorescenza emessa ha un valore, oppure
appartiene a un background di disturbo. Sotto questo determinato valore di soglia, che viene
espresso in numero di cicli, l’emissione non ha
significato.

Superata la soglia di fluorescenza, si ha una fase


di crescita esponenziale dell’emissione, quando
la curva esponenziale intercetta la soglia si ha il
CT, Cicle treshold, il numero di cicli in cui la
fluorescenza è valutabile ed è indice della
quantità di template presente. L’analisi
quantitativa può essere assoluta o relativa. Il
metodo assoluto prevede di elaborare il numero
di copie del gene target direttamente; il metodo relativo elabora invece il numero in base alla
quantità di un gene di riferimento. La quantificazione assoluta è, di fatto, un modo di mettere a
confronto il numero di copie rispetto al ciclo di PCR, si fa infatti parallelamente una PCR per un
template di riferimento di cui conosciamo le concentrazioni e si ricava una curva standard. I valori
di CT ottenuti nella PCR di nostro interesse saranno confrontati con la curva standard.

La quantizzazione di tipo relativa avviene confrontando i valori con un calibratore o un template a


tempo zero. L’elaboratore determina un numero che è il CT del campione che si sta studiando con
il metodo del 2 elevato alla delta delta CT.
La Real-time ci permette di aver grande quantità di prodotto con un’elevata sensibilità e
riproducibilità. La Real-time PCR è la metodica più efficace per monitorare terapie nei pazienti e
determinare le chance di sopravvivenza, oltre che permette di studiare quanto in un trapianto sia
presente la quantità donor (del donatore) e quanto quella host(malata).

Un esempio di applicazione della PCR Real-Time è lo


studio del gene bcr-abl che configura la base della
leucemia mieloide cronica. Nelle cellule staminali
ematopoietiche avviene una traslocazione cromosomica
che fonde bcr dal cromosma 9 insieme a abl nel
cromosoma 22. Si ottiene un cromosoma più piccolo,
cromosoma Philadelphia, specifico marcatore
neoplastico. L’unione sul cromosoma 22 fa indurre
costitutivamente un’attività tirosin chinasica, mentre nel
cromosoma 9 è ininfluente. I punti di rottura di bcr
possono essere differenti: si ottengono diversi RNA che
fanno riferimento alle proteine p190, p210e p230 e al
punto di rottura di bcr. L’obiettivo della diagnostica
molecolare è di cercare bcr-abl nel cDNa, misura della
malattia. Si procede perciò con una diagnosi rapida (1 h
circa),che negli anni ha migliorato la terapia e la
sopravvivenza(la malattia era mortale, nei giovani la sola
speranza era il trapianto di midollo osseo). Il ritrovamento
del frammento in un paziente con leucocitosi permette la
diagnosi di Leucemia mieloide cronica, mentre in paziente sano è assente completamente. Inoltre
questa tecnica di PCR risparmia al paziente un prelievo di midollo, poiché basta sangue periferico.
La proteina tirosin chinasi del bcr-abl cerca
di far proliferare le cellule e differenziarsi.
Grazie alla Real-time PCR si è riusciti
lavorare su una molecola da frappone tra
la proteina anomala e l’attivatore,
stoppando la funzione chinasica. Si tratta
perciò di una terapia, Imatinib, che
inibisce l’attivazione della tirosin chinasi
modificata così che la cellula possa
ritornare ad una proliferazione normale.
La terapia distrugge le cellule anomale in alcuni mesi, abbattendo il numero di cromosomi
Philadelphia, benzina di queste cellule. La Real-time PCR viene usata per seguire l’efficacia
terapeutica e l’assunzione della terapia.

Il monitoraggio della risposta terapeutica può essere effettuato in tre modi, con diversa profondità
di indagine. Se ci si fermassimo alla sola risposta ematologica, non sarebbero rilevate cellule con il
cromosoma bcr-abl mantenuto nel
cariotipo, ma con morfologia normale.

Nel secondo stadio il cromosoma non è


presente, risposta citogenetica positiva
ma abbiamo livelli di bcr –abl sotto forma
di RNA. Se non si arriva a livelli profondi di
monitoraggio in pochi mesi sale la
possibilità di resistenza della malattia. La
Real-time PCR indaga invece l’espressione
del gene e quindi il residuo di prodotto.

Di fianco si mostra un esempio di refertazione, dove


la quantità di attività del gene è tradotta in numeri.
Questo paziente risponde bene poiché abbiamo un
calo esponenziale in poco tempo.
Linee guida di risposta al trattamento:

Sub ottimale: il medico inizia a preoccuparsi e pensare di cambiare atteggiamento di


monitoraggio. Spesso il paziente anche in caso di fallimento della terapia si presenta senza sintomi
evidenti ed emocromo perfetto. Si deve perciò forse tentare una terapia differente. Il
monitoraggio serve anche a detectare i “furbetti” che non eseguono la terapia che in casi di
malattie ematiche croniche è ad vitam ogni giorno. Il riscontro della malattia è all’80% casuale nei
controlli di routine. Questi farmaci possono avere effetti secondari non gravi che però possono
essere mal digeriti dal paziente che smette di assumere il farmaco, si usa perciò la PCR per
indagare eventuali anomalie di numero
dell’attività tirosin chinasica.

Il paziente riportato a fianco presentava


diarrea inficiante nella vita sociale, perciò
aveva deciso volontariamente di
sospendere il farmaco. Si deve perciò
indagare e ripetere l’esame bcr-abl in
seguito a controllo sul paziente e sulla sua
assunzione, in quanto questa terapia ha
una buonissima resa nella cura della
malattia, ed è un peccato perdere un paziente per un solo effetto collaterale.

Le curve di sopravvivenza alla leucemia mieloide cronica sono molto positive dopo l’avvento del
farmaco, soprattutto con una risposta in tempi brevi che fa calare la possibilità di ricadute. Il
dogma di questa terapia fino a qualche anno fa era di
assumerla ad vitam, ma in tempi recenti abbiamo
individuato una sottopopolazione di pazienti, che
possono sospendere la terapia senza il rischio di
recidiva molecolare. Il 40% dello 0,1% (pazienti con
risposta ottimale sotto i 12 mesi) poteva sospendere la
terapia tranquillamente.
SEQUENZIAMENTO GENICO CON METODO
SANGER

Il metodo Sanger è il metodo gold


standard, utilizzato molto spesso
nonostante la presenza della Next
Generation Sequencing.

Cosa occorre per il sequenziamento e


campione di studio

Si raccolgono dati di DNA da biobanche,


rappresentati da tessuti conservati in formalina, spesso con DNA rovinato dalla stessa.

Si cerca una sequenza che possa rendere una buona analisi. Il sequenziamento pone le sue basi
nella PCR. Dobbiamo amplificare il campione per poi
passare al sequenziamento, prima si deve però
purificare il campione dagli altri elementi della PCR
avanzati (magnesio, dntps, elementi della soluzione
tampone…). Si ripulisce il prodotto grazie ad un filtro
apposito o aspiratori che selezionano solo i frammenti di
DNA che rimangono ancora alla membrana di filtro,
grazie ad una soluzione tampone vengono staccati. Si
verifica la presenza della banda di interesse per il sequenziamento.

Per sequenziare si usa la PCR con il template, primers, dntps (desossiribonucleotidi) e ddntps
(didesossiribonucleotidi) marcati. Quando la polimerasi espleta la sua funzione può usare i ddntps
che non avendo l’estremità 3’ libera fanno terminare il processo: si otterranno frammenti
differenti in lunghezza, che se messi in ordine di lunghezza possiamo ricostruire la sequenza,
facendoli correre in un’elettroforesi capillare che li seleziona in base alla grandezza.

Ora le basi terminatrici (ddntps) sono marcati con fluorocromi che il sequenziatore elabora
nell’elettroferogramma, ogni base emette il suo colore rispettivo che il sequenziatore legge come
sequenza di picchi di differente lunghezza d’onda. Si riscontrano così le variazioni della sequenza
nucleotidica a causa di mutazioni puntiformi. È utile visualizzare l’elettroferogramma poiché legge
entrambi i filamenti, quindi qualora si presentino basi non corrette in eterozigosi, abbiamo la
registrazione contemporanea di due picchi differenti (nella slide solo su un filamento è sostituita la
timina con una guanina). Si passa poi a cercare la sequenza alterata in banche dati per ricercare la
mutazione (Blasting).
Diagnostica Molecolare
Lezione del 20-03-19 Sandro Zaffini

SI inizia da dove è finita la lezione precedente, cioè elencando gli istotipi del carcinoma follicolare
tiroideo.
Al microscopio ci possiamo trovare di fronte a 4 istotipi:

-Cellule follicolari normali


-Carcinoma differenziato (DTC)
-Carcinoma poco differenziato (PDTC)
-Carcinoma anaplastico

Le differenze tra questi istotipi si basano sull’espressione o meno di diverse molecole che saranno
poi utili per l’approccio terapeutico.

Nel Carcinoma differenziato, le cellule follicolari sono uguali a quelle normali e presentano dunque
il NIS, la TPO, il TSH-R e la Tg (tireoglobulina)
Nel Carcinoma poco differenziato, le cellule follicolari hanno bassa espressione di queste molecole
mentre nel Carcinoma anaplastico sono totalmente assenti, in quanto c’è una totale perdita di
differenziazione. Visto che questi ultimi tumori sono estremamente aggressivi ed esistono ben
poche terapie disponibili, è una fortuna che siano estremamente rari, anche perché si manifestano in
stadi già avanzati.

Terapia

Si basa fondamentalmente su 3 linee di azione:

1. Approccio chirurgico (per Carcinomi differenziati, poco differenziati e midollari)

2. Terapia con radio-iodio ( per Carcinomi differenziati, poco differenziati)

3. Terapia con TSH- soppressivo ( nei carcinomi in cui è presente il recettore per il TSH)

APPROCCIO CHIRURGICO

Ha come obiettivo principale la radicalizzazione della neoplasia sia nel tessuto tiroideo sia nei
linfonodi locoregionali.
Prima ogni paziente con carcinoma follicolare subiva una tiroidectomia totale; adesso l’approccio
chirurgico è calibrato e varia a seconda delle dimensioni e dell’estensione del tumore. Si analizza
ora l’approccio per i carcinomi differenziati e poco differenziati ( per quelli anaplastici non verrà
detto altro)
-Per i carcinomi piccoli (<1cm) si fa una lobectomia

-Per i carcinomi di medie dimensioni (1-4cm) che non presentano metastasi, si esegue una
tiroidectomia totale

-Per i carcinomi grandi (>5cm) che presentano metastasi linfonodali si procede con tiroidectomia
totale associata a linfadenectomia locoregionale.

TERAPIA CON RADIO-IODIO ( 131 I)

Viene introdotta negli anni ‘40 ed è


ad oggi considerata come la prima
terapia a bersaglio molecolare che
sia mai esistita; infatti il principio su
cui si basa è l’espressione del NIS
(Simporto Sodio-Iodio) sulla cellula
tumorale associata alla capacità di
organificare lo iodio così che resti
dentro il follicolo tiroideo e possa
danneggiare il tumore.

L’introduzione di questo approccio è


stata una rivoluzione in ambito
oncologico, non solo perché ha
permesso di sviluppare altre
tecniche, ma perché è la prima terapia specifica, in quanto NIS è presente solo nella tiroide ( leggera
espressione nelle ghiandole salivari e nelle ghiandole mammarie in allattamento) e quindi consente
di danneggiare solo il necessario. rendendo questa terapia poco tossica.

L’obiettivo che si pone questo approccio terapeutico è sia adiuvante, cioè permette, dopo la
chirurgia, di rimuovere eventuali residui di tessuto neoplastico, sotto forma di micrometastasi, che
potrebbero essere sfuggite al chirurgo, riducendo così drasticamente il rischio di recidive. Il
secondo obiettivo è certamente terapeutico, vista l’azione diretta del radioiodio sul tumore.
Altri obiettivi, di non minore importanza, sono quelli di permettere una stadiazone del tumore,
grazie alla scintigrafia post- radioiodio, e quello di rimuovere, dopo tiroidectomia totale, anche
residui di tessuto sano (o patologico) che potrebbero interferire con le successive analisi di
laboratorio previste per il follow-up.

Così come per la chirurgia, anche la terapia con radioiodio non viene applicata in tutti i casi di
carcinomi follicolari tiroidei.
-Per i carcinomi <1cm (T1a) non è consigliabile la terapia con radioiodio
-Per i carcinomi gradni >5cm è obbligatoria, dopo la chirurgia.
-Per quelli intermedi si usa in modo selettivo in base allo stadio e alla presenza di metastasi
linfonodali locoregionali.

Per l’uso di questa terapia esiste però un limite: la possiamo fare SOLO se è presente io NIS che ad
esempio nei carcinomi poco differenziati può esserci in concentrazioni così basse da non avere
rilevanza terapeutica. Per superare questo ostacolo dovremmo aumentare l’espressione di NIS; a
questo scopo possiamo sfruttare il TSH-R che se stimolato aumenta l’espressione di NIS .
Fondamentalmente dobbiamo far aumentare le concentrazioni di TSH prima di fare una terapia/
screening con radioiodio.
Come?
Il paziente classico che risente di questa problematica è quello che ha subito tiroidectomia totale ed
è sotto trattamento sostitutivo. In un paziente del genere basterebbe interrompere la terapia con
ormoni tiroidei così da far aumentare il TSH sfruttando il feedback.
Questa metodica fa, però, insorgere delle problematiche: se interrompo la terapia nel paziente
questo andrà in ipotiroidismo, inoltre, affinché il TSH salga si deve consumare anche quel pool di
riserva di ormoni tiroidei legati alle proteine plasmatiche, quindi dovrei interrompere la terapia
sostitutiva per almeno 4-6 settimane e costringere il paziente ad un periodo prolungato di
ipotiroidismo.
Fortunatamente questo approccio non è più consigliato, in quanto circa 15-20 anni fa si è riusciti a
sintetizzare in laboratorio il TSH umano ricombinante (rhTSH). Non bisogna sottovalutare gli sforzi
che sono stati fatti per riuscire a produrre questa glicoproteina dimerica estremamente complessa.
Però in questo modo si può evitare un periodo di ipotiroidismo pre radioiodio semplicemente
somministrando 0.9 mg di Tyrogen® (nome commerciale del rhTSH) per 2gg consecutivi con
iniezione intramuscolo. Dopo questa terapia si può fare il radioiodio e poi dopo 2-7 gg si può
procedere con la scintigrafia

TERAPIA TSH-SOPPRESSIVA

Sappiamo che il TSH è un fattore di crescita per le cellule tiroidee così come per quelle tumorali
che presentano un recettore per il TSH ( Carcinomi differenziati e poco differenziati).
L’obiettivo di questo approccio terapeutico è quello di sopprimere il TSH ,mantenendo però i livelli
di FT3 e FT4 normali.
Come?
Aumento la dose della terapia sostitutiva così da far scendere il TSH sotto il limite inferiore del
range di normalità (ricordiamo che il range è 0.5-2) quindi al di sotto di 0.5 ( di solito si porta a 0.1)

NB. Non bisogna mai annullare i livelli di TSH per non mandare il pz. in ipertiroidismo clinico ma
mantenerlo in uno stato di ipertiroidismo subclinico.

Esistono dunque dei rischi, anche se tenessimo il paziente in ipertiroidismo sublclinico.


Gli effetti collaterali di questo trattamento sono riferiti soprattutto all’apparato cardiovascolare e
alle ossa.
A lvl. cardiovascolare si assiste ad un aumento della frequenza cardiaca ( da 60 a 68bpm ad
esempio), una diminuzione della variabilità della frequenza cardiaca ( ad esempio la notte la
frequenza resta la stessa del giorno), un maggiore rischio di aritmie atriali e un aumento della massa
ventricolare sinistra.
Sono stati fatti degli studi epidemiologici riguardo questi effetti collaterali su pz. di età superiore ai
60 anni con livelli di TSH minori o uguali a 0.1. Si è riscontrato rispetto ai confronti sani un
aumento di rischio di fibrillazione atriale e un aumento di mortalità per eventi cardiaci.

A lvl. osseo, invece, si assiste ad una riduzione della massa ossea, di particolare rilievo nelle donne
in post- menopausa, a cui si aggiunge alla deplezione ossea fisiologica, anche questa componente
causata dall’ipertiroidismo subclinico.

Anche in questo caso si rende necessario un bilanciamento della terapia basato sul rischio di
cancro tiroideo:

Per i pz ad alto rischio è raccomandata una soppressione del TSH sotto 0.1mU/L
Per i pz a rischio intermedio è raccomandata una soppressione tra 0.1 e 0.5 mU/L
Per i pz a basso rischio non viene raccomandata soppressione del TSH
Outcome dei pz con Carcinoma differenziato (DTC)

Dopo il trattamento iniziale ( chirurgia associata a radioiodio)


l’85% dei pazienti va in remissione completa mentrea solo il15%
ha persistenza di malattia o comparsa di recidive. Di questo 15%
che non guarisce il 75% ha malattia locoregionale mentre il 25%
ha metastasi a distanza. I casi di DTC hanno fortunatamente
mortalità piuttosto bassa ,anche se la sopravvivenza a 10 anni per
tumori recidivanti o persistenti, con localizzazione locoregionale o
con metastasi a distanza, è rispettivamente del 70 e 40%.

STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO

Necessaria per calibrare il follow-up.

Il sistema di stratificazione usato molto in oncologia è quello TNM

T: dimensione
N: metastasi locoregionali
M:metastasi a distanza

In realtà questo sistema non è molto utile, almeno per i carcinomi tiroidei, in quanto stratifica non
tanto il rischio di recidive/ persistenza della malattia, bensì il rischio di morte, che in linea di
massima è intuibile anche senza questa classificazione,basandosi sulle analisi e sull’imaging.

Per concludere la parentesi sulla classificazione TNM si dice solamente che viene divisa in fasce di
età: sotto i 55anni esistono solo due stadi, sopra i 55 ne esistono ben 5.

Ci sono altri sistemi estremamente complessi di stratificazione del rischio che tengono conto
dell’istotipo, dell’invasione vascolare e dell’efficacia del trattamento iniziale.
In questa sede verrà solo detto che grazie a questa stratificazione si è arrivati a distinguere categorie
a basso(<5%), medio (5-20%) e alto rischio (>20%); ognuna con le sue sottocategorie (molto
complesso non va fatto)

Problema!
Questo sistema di stratificazione
non è preciso:

Caso Clinico: pz di circa 60 anni


con DTC operato 10 anni prima,
con basso rischio (<5%), si
prosegue il follow up ed alle
analisi si nota un rialzamento dei
livelli di Tg che, vista la sua
storia chirurgica dovrebbero
essere a zero. Si prosegue
l’indagine e si esegue una PET
che mostra presenza di metastasi in ogni sede del corpo ( cervello, polmoni, ossa, fegato….), che si
rivelano essere, dopo analisi bioptica, metastasi di carcinoma tiroideo: Il paziente, nonstante fosse
cosiderato a basso rischio di recidiva, muore pochi giorni dopo.
Questo caso clinico fa molto riflettere sull’incompletezza delle classificazione basate solo sulla
clinica.

Per questo motivo, per evitare casi simili, si è aggiunta alla stratificazione del rischio anche l’analisi
genetica, in particolar modo dei geni BRAF e TERT.
La mutazione di BRAF (V600E, Valina sostituita in posizione 600 da una Acido Glutammico) si
associa, secondo uno studio, ad un outcome peggiore.
La mutazione del promotore del gene TERT si associa ad un drastico aumento della mortalità e ad
una drastica riduzione della sopravvivenza libera da malattia.

Adesso nelle valutazioni del rischio coesistono fattori clinici e fattori genetici.

DEFINIZIONE DI ASSENZA DI MALATTIA

Posso dire con certezza che non c’è malattia se:

-Non ci sono segni clinici di malattia


-Non ci sono segni di malattia ll’imaging
-I livelli di Tg sono indosabili (la tireoglobulina è il marcatore di malattia per il DTC)

FOLLOW-UP

1.Misurazione della Tg e degli Ab-anti Tg

2. Scintigrafia con 131 I

3. Ecografia del collo

4. Imaging (TC-PET-RMN ossea)

Tg e Ab-antiTg

Vengono misurati per verificare l’efficacia del trattamento. (dopo circa 1 anno...dipende dal rischio)
Il dosaggio della tireoglobulina può essere fatta in condizioni basali ( ha però bassa sensibilità)
oppure dopo stimolazione con TSH ( in quanto lo stimolo del TSH dovrebbe far aumentare la
sintesi di Tg) che può essere eseguito o inducendo ipotiridismo oppure più semplicemente con
rhTSH (0.9mg di Tyrogen x 2gg) questa metodica di dosaggio ha una sensibilità che si avvicina
molto al 100%.

Assieme al dosaggio della Tg dobbiamo anche fare quello degli Ab anti-Tg .


Il dosaggio della Tg viene fatto usando il test ELISA che prevede l’utilizzo di Ab. Se abbiamo già
nel sangue degli anticorpi contro la Tg , questi andranno a mascherare i livelli effettivi di Tg
plasmatica, sottostimando la concentrazione di Tg e rischiando così dei falsi negativi. Con il
dosaggio anche degli Ab, il problema non si pone.
Durante questi dosaggi posso includere anche una scintigrafia (WBS) somministrando 131 I e
facendo l’imaging dopo 2 giorni circa.

NB Durante il follow-up le dosi di tracciante sono basse, se la scintigrafia mi vine positiva, userò
dosi di tracciante terapeutiche!

Ecografia del collo

Se eseguita da mano esperte consente la visualizzazione di recidive che con i dosaggi di Tg e Ab


anti-Tg non si sarebbero viste.
Se in buone mani l’eco del collo ha una sensibilità ,se possibile ,maggiore dei dosaggi.

Imaging

Se le analisi precedenti mi fanno intendere che ci sia


effettivamente qualcosa ( Tg plasmatica dosabile, zone
di assorbimento del tracciante radioattivo, ecografia del
collo sospetta…) devo analizzare il tutto con TC/ FDG-
PET.

CARCINOMA MIDOLLARE DELLA TIROIDE (MTC)

Il carcinoma midollare della tiroide è un tumore delle cellule parafollicolari secernenti calcitonina.
Anche le cellule tumorali condividono con le cellule C la proprietà di poter produrre questo ormone,
che in questi casi funge come marker di malattia.

Questo particolare tipo di carcinoma è in realtà poco frequente, in quanto costituisce solo il 5% dei
tumori tiroidei. Peculiare in questa tipologia è la presenza di una componente ereditaria nel 25% dei
casi, che rientra nella Sindrome MEN2 ( Neoplasia Endocrina Multipla di tipo 2). L’incidenza di
questa sindrome è piuttosto bassa ( crica 2.5 famiglie su 100.000----in Umbria ci sono 20 famiglie
con MEN2).

La forma familiare di MTC è provocata da una mutazione del proto-oncogene RET, situato sul
braccio lungo del cromosoma 10, lungo 60 kbasi, contenente 21 esoni, che codifica per una proteina
di 1100 amminoacidi.
Questa proteina altro non è che un recettore tirosinchinasico (TK) che nella sua forma completa
comprende anche 4 ligandi e 4 co-recettori.
Questo recettore è fisiologicamente presente durante lo
sviluppo embrionale, nel foglietto ectodermico ed è quindi
coinvolto nella genesi dei reni e del sistema nervoso
enterico. Una mutazione a questo livello che sopprime la
funzione di RET provoca la cosiddetta aganglionosi
intestinale ( meglio conosciuta come “Morbo di
Hirschprung” o “Megacolon congenito”), che provoca un allargamento del colon con conseguenze
piuttosto gravi, risolvibili però con la chirurgia.

Struttura di RET

Il recettore che si genera dopo la trascrizione/traduzione del gene


RET è costituito da 3 domini

1. Dominio Caderino-simile (extracellulare)


2. Dominio ricco in Cisteina (extracellulare)
3. Dominio tirosinchinasico (intracellulare)

I 4 ligandi che possono interagire con il recettore e/o con i co-


recettroi sono :GDNF ( Fattore Neurotrofico Gliale) ,NRTN (
Neurturina), ARTN ( Artenina), PSPN (Persepina).

Il proto-oncogene RET nell’adulto è espresso nei tessuti di origine


ectodermica, quindi nelle cellule C dellla tiroide, nelle paratiroidi, nella midollare del surrene e nei
plessi nervosi sottomucosi. In base a quali organi colpisca la mutazione si possono avere diversi
fenotipi della MEN2:

>FMTC- “Carcinoma midollare tiroideo familiare”- abbiamo solo MTC

>MEN2A- abbiamo MTC, Feocromocitoma e iperplasia o adenomi delle paratiroidi

>MEN2B- abbiamo MTC, Feocromocitoma, Habitus Marfanoide e Neuromatosi

( Gli altri fenotipi non sono rilevanti per la trattazione che stiamo facendo e non vanno saputi!)

A prescindere dal fenotipo il momento comune a tutte le sindromi MEN2, è la mutazione attivante
di RET, che provoca sulle cellule parafollicolari una iperplasia delle cellule C, con conseguente
“carcinoma midollare multifocale”.

Analizziamo adesso i vari fenotipi :

FMTC è “familiare” se ci sono almeno 4 membri all’interno di un nucleo familiare con MTC.
Bisogna però considerare che questa mutazione ha penetranza variabile!

MEN2A c’è presenza di MTC in praticamente tutti i soggetti affetti, il Feocromocitoma è meno
frequente ( 30-50%) così come gli adenomi o iperplasia paratiroideee (10-30%)

MEN2B c’è presenza di MTC in tutti i soggetti con insorgenza particolarmente aggressiva già in
età pediatrica, assistiamo alla presenza di neuromi sulle mucose orali, intestinali, palpebrali etc…
che ci fanno subito ipotizzare una sindrome del genere visto che sono presenti nel 100% dei pz,
comuni sono i Feocromocitomi, così come le anomalie scheletriche e l’Habitus Marfanoide → →

Il pattern ereditario della malattia segue un modello tipico di una patologia autosomica
dominante. Vengono colpiti indiscriminatamente si maschi che femmine con casi in ogni grado di
parentela.
Si eredita di solito un allele mutato, ma si è visto che potrebbe non bastare per provocare il fenotipo
della malattia. Vige quindi la teoria del doppio colpo in cui il primo, rappresentato dall’allele
mutato in eterozigosi non è sufficiente. Interviene perciò il secondo colpo che fa, in qualche modo,
sviluppare una “dominanza” all’allele mutato su quello sano, Questo secondo colpo è classicamente
o una trisomia o una amplificazione o una perdita dell’allele sano.

Esistono svariate mutazioni del gene RET ma la più frequente in Italia è


quella Val804Met
Comunque da analisi di pazienti con MEN2 si è visto che queste
mutazioni coinvolgono prevalentemente degli “hotspots mutazionali”,
che sono porzioni del gene che in questo caso codificano per il dominio
ricco in Cys o per il dominio TK.

Una mutazione a livello dell’esone codificante per il dominio ricco in


Cys provoca una alterazione della conformazione della proteina,
derivata da una sostituzione di una cisteina con un altro amminoacido;
di solito le cisteine sono presenti in numero pari così da poter formare
dei ponti disolfuro. La presenza di un numero dispari di cisteine provoca
il legame di quella cisteina spaiata con un’altra cisteina spaiata presente
su un altro recettore RET: si ha una dimerizzazione del recettore, che
porta ad un’attivazione costitutiva della segnalazione. Stesso risultato
anche se con meccanismo differente si ottiene per le mutazioni a livello
degli esoni che codificano e per il dominio tirosinchinasico.

TEST GENETICO PER MEN2

Si fa come solito da campione di sangue periferico. Estraggo il DNA dai globuli bianchi ed
amplifico tramite PCR gli esoni che mi interessano ( 5-8-10-11-13-14-15-16). Faccio poi una
elettroforesi su gel di agarosio per poi sequenziare gli esoni in maniera diretta per vedere se ci sono
eventuali mutazioni, confrontando la sequenza amminoacidica con la sequenza di riferimento.

Valore del test genetico

Va categoricamente eseguito su tutti i pazienti che hanno ricevuto una diagnosi di MTC (nel 25%
dei casi è ereditaria) e nei familiari di primo grado di una paziente con MEN2.
In questo modo posso: distinguere quelli che hanno MEN2 o semplicemente un MTC e, sui
familiari di primo grado, posso distinguere i sani dai portatori della mutazione, così da fare una
diagnosi precoce( già in infanzia) prima che si sviluppi effettivamente la neoplasia.

Genotipo-Fenotipo

Per quanto riguarda la MEN2A l’85% dei pazienti presentano una mutazione del codone 634
dell’esone 11

Per quanto riguarda la MEN2B il 95% dei pazienti presentano una mutazione de codone 918
dell’esone 16.
Peculiarità delle mutazioni che provocano MEN2B è che sono spesso “de novo”, cioè interessano i
gameti, e provocano una malattia talmente grave che fino a poco tempo fa non si era a conoscenza
di nuclei familiari MEN2B visto che morivano prima di poter generare prole.
STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO

In base alle diverse tipologie di mutazione di RET si divide dal riscio maggiore a quello minore i 4
livelli:

Livello D ( altissimo rischio) si associa alle mutazione dei codoni 918 e 833 associate alla MEN2B.
C’è un altissimo rischio di MTC estremamente aggressivi che si possono manifestare in età infantile
con elevato tasso di mortalità dovuto all’alto rischio di metastatizzazione.

Livello C ( alto rischio) si associa alla mutazione del codone 634, associata ad un rischio più basso,
ma comunque elevato, di MTC aggressivo.

Livello B (medio rischio) si associa ad altre mutazioni sugli esoni codificanti per i domini ricchi in
cisteina, con rischio minore di MTC aggressivo

Livello A (basso rischio) si associa a mutazioni segli esoni che codificano per il dominio TK. Si
tratta del livello a più basso rischio associato a bassi livelli di calitonina sierica e ad un più elevato
successo terapeutico.

Lo stato di portatore è definito dalla presenza della mutazione germinale. Conoscere chi è o non è
portatore ci pone di fronte a due vie: o facciamo un monitoraggio periodico o facciamo la cosiddetta
“prevenzione preclinica”: visto che è un tumore molto maligno in alcuni casi è utile poter fare una
tiroidectomia profilattica per poi proseguire con i monitoraggi. Queste scelte si fanno in base alla
stratificazioni del rischio che vengono eseguite direttamente da bambini per evitare l’evitabile.

>Portatori di mutazioni di livello D: Tiroidectomia totale profilattica (PTT) associata a


linfadenectomia del compartimento centrale (CCL) da eseguirse il più presto possibile, massimo
entro 1 anno di età.

>Portatori di mutazioni di livello C: Tiroidectomia totale prfilattica prima dei 5 anni di età e CCL
dopo i 10 anni di età

>Portatori di mutazioni di livello B: PTT prima dei 5 anni dii età e CCL dopo i 20

>Portatori di mutazioni di livello A : PTT dopo i 5 anni( a Perugia, almeno per questo livello, non si
fa tiroidectomia totale finché non ci sono manifestazioni cliniche della malattia, riscontrabili da
monitoraggi annuali)

Screening

Per quanto riguarda la MEN2A si inizia a fare il monitoraggio quando il paziente ha 1 anno.
Per quanto riguarda la FMTC si può aspettare fino a 3-5 anni
Per quanto riguarda il Feocromocitoma si iniziano gli screening a 5-7 anni
Per quanto riguarda l’iperparatiroidismo si inizioano a 10 anni

I Test da eseguire sono vari:

-Per FMTC e MEN2A si fanno i dosaggi della calcitonina plasmatica in condizioni basali e dopo
stimolazione con Ca++, sfruttando le proprietà ipocalcemizzanti dell’ormone stesso, che viene
indotto alla produzione quando aumentano i livelli sierici di calcio. Il dosaggio della calcitonina
dopo Ca++ si può fare solo in centri altamente specializzati in quanto vengono somministrate
grandi dosi di calcio ( 25mg/kg che corrispondono a circa 2 g di calcio in bolo che possono
potenzialmente portare ad un arresto cardiaco).
Ogni anno si fa una Ecografia della tiroide come test di imaging

-Per il Feocromocitoma si fanno i dosaggi delle metanefrine urinarie o plasmatiche, i dosaggi delle
catecolamine urinarie o plasmatiche o i VMA urinario. Per il Feocromocitoma non si fanno test di
imaging se prima i test biochimica non danno un sospetto,

-Per l’iperparatiroidismo si fanno semplicemente i dosaggi del Ca++e del PTH. Così come per il
Feo, non si fanno test di imaging.

Outcome dei pazienti con MTC

Dopo il trattamento iniziale di tipo chirurgico, i dati


epidemiologici rivelano che il 50% dei pazienti va in
remissione, il restante 50% ha persistenza di malattia o recidive.

Del 50% dei pazienti ancora malati il 75% ha malattia


locoregionale mentre il 25% sviluppa metastasi a distanza . La
sopravvivenza a 10 anni in caso di malattia recidivante
locoregionale si attesta attorno al 50-70%, nel caso di malattia
recidivante con metastasi a distanza è minore del 50%

FOLLOW-UP

Si basa su test relativamente semplici come la misurazione della calcitonina (basale e/o dopo Ca+
+), la misurazione del CEA che è un prodotto dele cellule C neoplastiche, l’ecografia del collo e
altre tecniche di imaging classiche come TC, PET e RMN
SBOB.:ALESSIA LANCIANESE
REV.:GIULIA LATINI
5/03/2019-1° ora

IPOGLICEMIE

Sindromi ipoglicemiche

L’argomento ipoglicemia è molto rilevante nei soggetti che sono affetti da diabete mellito e fanno
uso di farmaci che possono determinare ipoglicemia, ovvero abbassamento dei valori glicemici.
Questo vale per la terapia insulinica o per la terapia con farmaci orali, le sulfaniluree.

Oggi parleremo però dell’ipoglicemia nelle persone che non hanno il diabete e che quindi
presentano altre cause, tra le quali l’uso di insulina ma in maniera del tutto autonoma.

Nei soggetti sani la glicemia si mantiene in un intervallo


piuttosto stretto, ovvero tra 60 e 140 mg/dl, in cui 60mg/dl è il
valore a digiuno, mentre 140 mg/dl è il valore post prandiale.
Nelle donne generalmente il limite inferiore può essere un po’
più basso rispetto all’uomo. Quindi si parla di ipoglicemia per
valori di glicemia inferiori a 60/55 mg/dl. Nel diabete mellito
la soglia di ipoglicemia è stata stabilita a 70mg/dl. Questo è quindi un valore di allarme; il soggetto
con questo valore glicemico, con o senza sintomi, deve assumere degli zuccheri e correggerlo. Il
rischio se non avviene la correzione è che l’ipoglicemia possa diventare più grave.

Nei soggetti sani, il range è il frutto dell’azione di ormoni quali insulina (unico ormone
ipoglicemizzante) e ormoni contro regolatori, ovvero iperglicemizzanti, che sono glucagone,
adrenalina, cortisolo e ormone della crescita (GH). Il soggetto sano non va mai in ipoglicemia:
quando egli è in una situazione di digiuno e la glicemia si abbassa anche a 55mg/dl, entrano in
gioco glucagone ed adrenalina che tendono a far risalire la glicemia.

Tra questi ormoni contro regolatori sicuramente il glucagone è l’ormone più importante poiché è
quello che agisce per primo quando la glicemia tende ad abbassarsi (ad esempio in condizioni di
digiuno o in seguito a studi sperimentali). Quindi man mano che la glicemia si abbassa il glucagone
viene rilasciato ed esso agisce a livello epatico, stimolando la produzione di glucosio attraverso
glicogenolisi. Anche l’adrenalina fa la stessa cosa, tanto che questi ormoni vengono detti essere ad
azione rapida, contrastano velocemente l’azione dell’insulina e tendono a far rialzare la glicemia.
Se il digiuno si protrae entrano in gioco anche gli altri ormoni, che sono il cortisolo e il GH. Anche
questi ormoni agiscono a livello epatico sulla glicogenolisi e sulla gluconeogenesi, ma adrenalina e
cortisolo, in parte anche GH agiscono anche a livello periferico, quindi muscolare: essi fanno sì che
i muscoli utilizzino meno glucosio. Da un lato questi ormoni inducono il fegato a produrre glucosio,
dall’altro vanno ad inibire l’utilizzo di glucosio a livello muscolare. In questo modo il glucosio
rimane in circolo e può essere metabolizzato da altri tessuti, in particolare dal tessuto nervoso, che è
del tutto glucosio-dipendente.

La glicogenolisi è sostenuta da vari substrati:

• dal lattato che deriva dalla glicogenolisi


• dagli amminoacidi che derivano dalla
proteolisi
• dal glicerolo, derivato dalla lipolisi

Quando si parla di glicemia dobbiamo pensare


che ci sono due tipi di tessuto:

1. tessuti insulino dipendenti (l’utilizzazione di glucosio da parte di questi tessuti


dipende dall’insulina, se essa manca o la sua azione è compromessa, questi tessuti
non sono in grado di utilizzare glucosio. Ciò vale per il tessuto muscolare e per il
tessuto adiposo. Ad esempio soggetti con diabete di tipo II sono insulino-resistenti:
il tessuto muscolare e adiposo non assorbono glucosio che rimane in circolo, facendo
aumentare glicemia), i quali hanno bisogno di circa 1mg/kg/min di glucosio.
Utilizzano circa 4/5 g di glucosio ogni ora.
2. tessuti insulino indipendenti (utilizzano il glucosio indipendentemente dalla
presenza di insulina. L’organo più importante è il tessuto cerebrale, ma anche i reni e
i globuli rossi sono insulino indipendenti).
Il fegato, che è l’organo principale
per la produzione di glucosio, a
digiuno ne rilascia circa
2mg/kg/min, quindi circa 8g/h. Circa
il 50% del totale è utilizzato dai
tessuti insulino dipendenti, mentre il
resto dagli insulino indipendenti. Per correggere un’ipoglicemia devono essere somministrati
almeno 8/10g.

Il glucosio che entra nelle cellule attraverso l’azione dell’insulina che facilita il reclutamento dei
trasportatori di glucosio, viene poi ossidato attraverso la glicolisi oppure va incontro al metabolismo
non ossidativo, e quindi viene immagazzinato sotto forma di glicogeno.

Nell’ambito della fisiopatologia dell’ipoglicemia un aspetto importante è svolto proprio dal tessuto
cerebrale, che nonostante rappresenti solo il 2% del peso totale del nostro organismo, utilizza una
quantità di glucosio che può anche essere del 50% perché il metabolismo è strettamente glucosio
dipendente.

Il glucosio arriva a livello cerebrale tramite dei trasportatori localizzati a livello della barriera
ematoencefalica, struttura che impedisce l’accesso a livello cerebrale di tante molecole. Una volta
che il glucosio è stato trasportato al cervello viene metabolizzato per ottenere ATP, quindi energia
mediante la quale il cervello può svolgere le proprie funzioni. A livello cerebrale i GLUT1 e i
GLUT3 sono i trasportatori più importanti. I GLUT1 sono localizzati nelle cellule endoteliali e
facilitano il passaggio di glucosio a livello degli astrociti, i GLUT3 a livello neuronale. Oggi è
evidente che gli astrociti, cellule metabolicamente molto attive, sono a supporto dei neuroni. Gli
astrociti trasformano glucosio in lattato che viene fornito ai neuroni che poi continuano il
metabolismo, con formazione di ATP. Ci sono circa 12/13 GLUT , ma i GLUT1 e 3 sono
traportatori con una bassa Km (costante di Michaelis-Menten) e quindi con un’elevata affinità per il
glucosio: questo è un vantaggio soprattutto in condizioni di digiuno prolungato o di ipoglicemia.
Sono in grado di trasportare glucosio anche in situazioni di assenza.

Questa diapositiva è una regressione lineare,


ci fa vedere il rapporto tra la glicemia e la
quantità di glucosio a livello del tessuto
cerebrale. Qui la glicemia è espressa in
mmol/l (in realtà nel sistema internazionale
l’unità di misura è questa), se si vuol
convertire in mg/dl basta moltiplicare il
valore per 18 o dividerlo per 0.05. Quello che
ci fa vedere questo grafico su soggetti sani e con diabete di tipo I è che man mano che si abbassa la
glicemia si riduce la quantità di glucosio a livello cerebrale. I trasportatori di glucosio sono in grado
di lavorare anche a fronte di bassi livelli di glucosio, ma ovviamente ci sarà un punto in cui
l’efficacia di questi trasportatori sarà praticamente nulla perché le concentrazioni di glucosio nel
sangue saranno troppo basse per poter funzionare. Per valori molto bassi, ad esempio 20mg/dl il
glucosio a livello cerebrale tende a essere quasi zero, si parla di ipoglicemia grave.

Questo è un tracciato encefalo grafico a valori


di glicemia normali (60 mg/dl). Man mano che
la glicemia si abbassa il tracciato tende a
modificarsi, in particolare gli spikes tendono a
diventare più ampi con una minore frequenza.
Per valori molto bassi di glicemia il tracciato
tende ad appiattirsi (18mg/dl), non c’è più
attività elettrica. Se questa situazione si protrae
per qualche ora, il cervello subisce dei danni irreversibili, bisogna intervenire subito infondendo
glucosio. La somministrazione di glucosio è sempre una buona regola.

Affinché ci sia attivazione degli


ormoni iperglicemizzanti deve
esserci un’ipoglicemia percepita. I
sensori per l’ipoglicemia sono
localizzati fondamentalmente a
livello cerebrale, questo è
chiaramente un meccanismo di difesa
del tessuto cerebrale contro
l’ipoglicemia. Ci sono delle zone a
livello cerebrale, in particolare il
nucleo ventro-mediale
dell’ipotalamo, che riconoscono
l’ipoglicemia. Una volta che questa
viene avvertita da queste aree si attiva il sistema autonomico, con rilascio di adrenalina e a livello
del pancreas si ha una riduzione dell’azione di insulina, aumenta il rilascio di glucagone
(conseguenza del controllo a feedback tra la cellula β e la cellula α).

Il sistema autonomico genererà anche dei sintomi tipici dell’ipoglicemia, noti proprio come sintomi
autonomici o sintomi adrenergici.

Abbiamo però anche dei sintomi chiamati neuroglicopenici, connessi alla riduzione della glicemia
a livello cerebrale.
Con l’attivazione del sistema autonomico avremo anche delle modificazioni emodinamiche:
aumenta il flusso cerebrale di glucosio e si riduce negli altri distretti, ad esempio a livello del
cutaneo.

Vi saranno poi alterazioni di tipo cognitivo e


di tipo comportamentale. Le comportamentali
sono interessanti perché spingono il soggetto
ad alimentarsi. Se la glicemia si abbassa tra i
sintomi ho anche la fame, dovuta al fatto che
a livello del nucleo arcuato si ha attivazione
dei neuroni oressigeni che liberano soprattutto
neuropeptide Y, (che è forse il fattore
oressigeno più importante del nostro
organismo) che stimola il senso dell’appetito
e il soggetto è portato ad alimentarsi. Questo
può avere luogo in soggetti con insulinoma, ovvero un tumore che produce insulina in maniera del
tutto autonoma, che induce in soggetti ipoglicemie senza che se ne rendano conto ma capiscono che
mangiando qualcosa stanno meglio. Tutto questo può andare avanti per mesi e ciò fa sì che ci sia
una diagnosi ritardata. Soggetti affetti da iperinsulinismo vanno incontro ad aumento ponderale.

• Sintomi autonomici (in parte sono


adrenergici e in parte colinergici): tremori,
sensazione di fame, sudorazione fredda,
pallore, cardiopalmo, parestesie
(sensazione di formicolii a mani, dita,
livello perilabiale).
• Sintomi neuroglicopenici: difficoltà
di concentrazione, confusione. diplopia
(disturbi vista), convulsioni, cefalea, coma.

• Sintomi neurologici:
parestesie,coma, tremori…

• Disturbi psichici: ansia


Nei disturbi delle funzioni cognitive abbiamo compromissione di:

• Attenzione
• Coordinazione visuo-motoria
• Tempi di reazione (tendono ad aumentare)
• Flessibilità mentale
• Memoria a breve termine

L’alterazione di una o più funzioni cognitive può avere effetti gravi, basta pensare al soggetto che
guida l’auto con dei tempi di reazione rallentati. Ci sono ad esempio storie di pazienti, trovati in
auto in stato di incoscienza (ipoglicemia grave, che richiede assistenza da parte di altre persone), in
seguito, riferiscono di essersi messi in macchina ed essere partiti da un punto x, ma non ricordano
altro. Queste funzioni cognitive che tendono ad essere compromesse durante l’ipoglicemia, una
volta che questa viene corretta, non si normalizzano subito ma richiedono del tempo (anche 2 ore).
Anche questo aspetto ha una rilevanza pratica, il soggetto non può subito mettersi alla guida ad
esempio.

La secrezione di ormoni contro regolatori, la


riduzione della secrezione insulinica
seguono una gerarchia: prima insulina viene
soppressa, poi vengono secreti gli ormoni
contro regolatori, in seguito compaiono i
sintomi. Quando compaiono i sintomi, il
soggetto può correggersi (ipoglicemia
moderata). Se ciò non viene fatto
l’ipoglicemia può aggravarsi fino al coma.
Il tessuto cerebrale può utilizzare anche altri substrati, come i copri chetonici e il lattato. Si è visto
sperimentalmente che incrementando nel sangue le concentrazioni di questi substrati durante
l’ipoglicemia il cervello ne aumenta l’utilizzazione. Nella ipoglicemia clinica, l’aumento di questi
substrati è molto relativo, il contributo è davvero minimo. Ci sono però condizioni in cui il
contributo è importante, ad esempio fisiologicamente i corpi chetonici sono importanti in condizioni
di digiuno prolungato (insulina si riduce, aumenta lipolisi e quindi aumentano corpi chetonici).
Utilizzare corpi chetonici significa risparmiare glucosio. Il lattato invece può aumentare e può
costituire un substrato importante per il tessuto cerebrale in condizioni di sforzo muscolare.

Se si abbassa la glicemia, si riduce anche la captazione di glucosio a livello cerebrale e viene a


delinearsi un deficit energetico. In ipoglicemia aumenta l’utilizzo del lattato ma la quantità di
energia che ne deriva non eguaglia quella del deficit legato all’utilizzo del glucosio. Il contributo
c’è ma non è sufficiente.

Può anche essere utilizzato il glicogeno,


anche se in quantità minima, per fornire
substrato energetico in caso di ipoglicemia,
ma in realtà i dati non sono mai stati
confermati. Il glicogeno cerebrale in ogni
caso, è presente a livello cerebrale e in
particolari casi può essere un substrato
energetico, ma soprattutto in euglicemia.

Ci sono anche i substrati amminoacidici che sicuramente vengono utilizzati a livello cerebrale.
Amminoacidi assunti per OS determinano delle variazioni in senso positivo di alcuni aspetti
cognitivi; probabilmente non lo fanno come amminoacidi ma come precursori di neurotrasmettitori.
Il cervello ha dunque questa plasticità di utilizzare più substrati, ma l’ipoglicemia necessita di
glucosio per essere corretta.
Una condizione interessante è
l’ipoglicemia silente, condizione in cui
c’è ipoglicemia ma assenza di sintomi.
Una condizione di questo tipo espone al
rischio di ipoglicemia grave. Le
ipoglicemie anche moderate ma che
ricorrono nel tempo (più volte a
settimana) rappresentano un fattore di
rischio per questa condizione. In
ipoglicemia grave non si può
somministrare nulla per via orale perché nel soggetto in stato di incoscienza c’è rischio di polmoniti
ab ingestis. Posso infondere glucosio in vena o glucagone (iniezione intramuscolare). Il glucagone è
in grado di far salire la glicemia di 50-60 mg, quanto basta per far riprendere al soggetto lo stato di
coscienza. Situazione molto comune in diabetici di tipo I e tipo II ma soprattutto nel primo caso in
cui i pazienti possono fare solo terapia insulinica la quale espone a rischio di ipoglicemia. Nel tipo
II la terapia è basata prevalentemente su farmaci orali e farmaci iniettivi quindi il rischio di
ipoglicemia è più basso.
Sbobina 5 Marzo 2019
2° ora
Maria Teresa Baffa
Docente: Prof. Carmine Fanelli

IPOGLICEMIA SILENTE
Viene chiamata anche ipoglicemia inavvertita o ipoglicemia singolare.
Si tratta di una serie di ipoglicemie, anche moderate e prive di sintomi autonomici, ma che si
protraggono nel tempo.
L’ipoglicemia silente è un fattore di rischio per l’Ipoglicemia grave, la quale richiede l’assistenza
di altre persone che, in questo caso, devono agire dando glucosio endovena, o dando glucagone
come iniezione intramuscolo.
L’iniezione di glucagone intramuscolo è in grado di innalzare i valori di glicemia anche di 50-60
mg/dL, tanto quanto basta per ripristinare le funzioni cognitive.
RICORDA: Il soggetto con uno stato di coscienza alterato, non deve assolutamente assumere
sostanze per via orale, in quanto si ha il rischio di inalazione a livello polmonare con conseguente
polmonite per abingestis.
E’ una condizione che si presenta nel soggetto affetto da diabete di tipo 1 e 2 (prevalentemente nel
diabete di tipo 1).

L’ipoglicemia silente può essere data anche da disfunzioni che non interessano il sovradosaggio
dell’insulina.
Tali problemi possono essere:
• INSULINOMA
• ANORESSIA NERVOSA
• IPOGLICEMIA POST-CHIRURGIA BARIATRICA
• IPOGLICEMIA REATTIVA AL PASTO (DOPO 4-5 ORE)

Abbiamo precedentemente detto che l’ipoglicemia silente può essere data da un protrarsi di
ipoglicemie ricorrenti, che utilizzano come meccanismo d’azione principale un aumento della
captazione del glucosio.

IPOGLICEMIA RICORRENTE
Adattamento nervoso all’ipoglicemia ricorrente mediato dai trasportatori GLUT 1 e GLUT 3
che fanno sì che la stessa quantità di glucosio possa essere trasportata anche in condizione di
ipoglicemia

IMPORTANTE
Quando si abbassano i livelli di glicemia ci sono delle attivazioni di alcune aree cerebrali, tra cui
quella dell’amigdala.
L’amigdala è una struttura che gestisce alcuni aspetti emotivi tra cui l’ansia e la paura.
L’ attivazione dell’amigdala determina uno stato di preoccupazione, allarme e paura che in questo
caso è appunto lo stato di ipoglicemia.

CLASSIFICAZIONE DEI DISORDINI IPOGLICEMICI


Dalla slide sovrastante possiamo analizzare una panoramica circa la classificazione dei disturbi
ipoglicemici.
Si è detto precedentemente che quando il valore della glicemia scende al di sotto dei 60 mg/dL si
parla di Ipoglicemia.
Dal punto di vista pratico e quindi clinico, è interessante scindere il concetto di ipoglicemia in
IPOGLICEMIA A DIGIUNO E IPOGLICEMIA POST-PRANDIALE.

Generalmente, l’ipoglicemia a digiuno sottende una patologia organica, per esempio un insulinoma,
o altre condizioni, come l’insufficienza epatica.
La forma post-prandiale è una condizione funzionale o reattiva, che nella maggior parte dei casi può
essere trattata mediante una correzione della dieta.

La condizione pre-diabetica può verificarsi in quei soggetti in cui ancora non è stato diagnosticato
diabete di tipo 1 o di tipo 2.
Nel diabete di tipo 2, in particolare, vi è un deficit nella prima fase di secrezione dell’insulina,
quindi succede che, dopo il pasto, in mancanza della risposta iniziale dell’insulina, ho una
condizione di iperglicemia che causa un’ ulteriore stimolazione delle cellule beta del pancreas
che daranno una iperinsulinemia tardiva, a distanza di circa 6 ore dal pasto, con ulteriore
abbassamento della glicemia.

FARMACI
Vi sono soggetti che possono autoindursi l’ipoglicemia con iniezione di insulina, ma perché?
Spesso succede a scopo autoillustrativo, o per problemi psicologici e in questo caso la diagnosi è
difficile perché il soggetto nega di aver utilizzato insulina.
Al contrario, qualora il soggetto utilizzi sulfaniluree, la diagnosi è più semplice poiché i metaboliti
vengono ritrovati nelle urine.

ALCOL
Può indurre ipoglicemia in quanto inibisce la secrezione degli ormoni controregolatori e inibisce la
gluconeogenesi soprattutto nei soggetti malnutriti o a digiuno.
Se un soggetto ha scorte di glicogeno, l’alcol non ha effetto, ma in condizioni di digiuno può essere
molto pericoloso in quanto dà ipoglicemia, anche grave.

INSUFFICIENZE D’ORGANO
Ricordiamo che il fegato è l’organo principale che rilascia glucosio in circolo mediante
gluconeogenesi, ma anche il rene, con una quota del 20%, è adibito al rilascio di glucosio e ha
pertanto un’importante funzione nel mantenimento della glicemia.

DEFICIT ORMONALI
Si tratta di disfunzioni ormonali date da patologie che coinvolgono la secrezione degli ormoni
controregolatori, ad esempio la malattia di Addison che provoca un ipocortisolismo.
Nel deficit del glucagone, però, l’approccio è particolare: nei pazienti con diabete di tipo 1, dopo
uno o due anni di malattia, si osserva un iniziale deficit che tende a peggiorare con gli anni.
Quindi i pazienti con diabete di tipo 1 sono a rischio di ipoglicemia non solo perché fanno uso
di insulina, ma anche perché hanno questo malfunzionamento del glucagone.

N.B.La distinzione a digiuno-postprandiale è valida fino a un certo punto, infatti bisogna tenere
conto che ci sono delle eccezioni, ad esempio l’insulinoma, che può dare ipoglicemia in entrambi i
casi.

ALTRE CLASSIFICAZIONI:
E’ una classificazione che mette a confronto due categorie di soggetti:
Persone affette da malattie concomitanti e persone che godono apparentemente di buona salute.

Tra i farmaci dobbiamo sempre ricordare l’insulina e le sulfaniluree, ma a questa categoria di


farmaci aggiungiamo poi le glinidi che sono dei farmaci di nuova generazione che dovrebbero
essere delle sulfaniluree “intelligenti”, in grado di stimolare le cellule beta solo durante il pasto.
Il meccanismo di questi farmaci e le sulfaniluree è quello di stimolare le beta cellule attraverso l’
inibizione della fuoriuscita di potassio, questo determina iperpolarizzazione della cellula a cui segue
l’ingresso di calcio a livello intracellulare e rilascio di insulina dai granuli secretori.

Vi sono delle condizioni che favoriscono l’ipoglicemia quando si utilizzano questi farmaci, ad
esempio l’età avanzata, l’insufficienza renale, un ridotto entroito calorico, processi infettivi,
neoplasie ecc ecc… in condizioni come queste, questi tipi di farmaci non dovrebbero essere
utilizzati.

Tra i farmaci vi possono essere anche antibiotici che favoriscono l’ipoglicemia, qualora vengano
associati alle sulfaniluree sopra citate, inoltre anche i betabloccanti e gli ACE-inibitori possono
determinare una condizione di ipoglicemia andando a sensibilizzare i tessuti all’insulina.

L’alcool da un lato inibisce la secrezione degli ormoni contro regolatori e dall’altra la


gluconeogenesi quindi può dare ipoglicemie solo a digiuno e non post-prandiali perché in un
soggetto che ha mangiato questo, avendo scorte di glicogeno vengono utilizzate per rilasciare
glucosio.

Parlando circa i tumori, questi non solo possono determinare ipoglicemia, dato il grosso utilizzo di
glucosio, ma vi sono diverse neoplasie in grado di produrre IGF 2 (fattore di crescita insulino-
simile)
Questi composti hanno un’affinità di struttura con l’insulina e possono andare a interagire con il
recettore dell’insulina in diversi tessuti.
Per permettere una interazione IGF2-RECETTORE INSULINA abbiamo bisogno di elevate
concentrazioni di questi composti ma succede che alcune neoplasie producono dei composti
contenuti IGF2 atipici, che vanno a interagire in maniera più specifica e diretta con il recettore
dell’insulina.
Concentrandoci sui farmaci, dobbiamo porre attenzione al Metimazolo che è un farmaco che viene
utilizzato nell’ipertiroidismo, per esempio nella Malattia di Basedow. La particolarità di questo
farmaco è può dare luogo ad anticorpi anti insulina.
La formazione di anticorpi anti.insulina può essere correlata anche all’utilizzo di acido lipoico,
utilizzato attualmente come integratore.
Generalmente, nel tempo, l’ipoglicemia tende a migliorare, ma è necessaria una terapia che molto
spesso può essere immunosoppressiva, steroidea, oppure si può agire mediante l’eliminazione fisica
di anticorpi.
Gli anticorpi anti insulina si legano all’insulina, mascherandola e impendendo la sua iniziale
risposta. Dopo il pasto si avrà dunque una condizione di iperglicemia. Dopodiché il sistema
anticorpo-ligando si scinde e l’insulina può esplicare la sua funzione cosi si avrà una ipoglicemia
dopo circa 3-4 ore dal pasto.
Riferendoci alla slide sovrastante, vi sono delle condizioni in cui possono crearsi degli anticorpi che
vanno ad agire direttamente sul recettore dell’insulina stimolandolo continuamente con una over
secrezione di quest’ultima che darà quindi una condizione di ipoglicemia.

DIAGNOSI
Viene utilizzata la Triade di Whipple, che ritrovate in tutti i testi:
1. Sintomi e /o segni clinici dell’ipoglicemia
2. Glicemia ridotta
3. Risoluzione dei sintomi o dei segni clinici dopo ripristino della normoglicemia
Essa è molto valida ma dobbiamo tenere conto che vi sono le dovute eccezioni:
Ad esempio, nei soggetti con ipoglicemia inavvertita, i sintomi sono assenti anche per valori di
glicemia molto bassi.
Per quanto riguarda le pratiche di laboratorio, la diagnosi si basa sulla misurazione della
concentrazione dell’insulina, del peptide C e della glicemia.
L’insulina e il peptide C vengono secreti in maniera equimolare dal pancreas, cioè alla stessa
concentrazione, ma, a livello epatico, l’insulina viene poi catabolizzata per circa il 50%, quindi a
livello periferico in corrispondenza della vena epatica si registra un valore di insulinemia più basso
rispetto a quello che si registra a livello portale.
Il peptide C non subisce questo tipo di degradazione, pertanto le concentrazioni, a livello portale e
delle vene epatiche, sono le stesse.

TEST AL DIGIUNO

Esso si basa sul presupposto che, se manteniamo un soggetto a digiuno, la glicemia tendenzialmente
tende ad abbassarsi ma lo fa di poco, rimanendo comunque entro dei livelli vicini alla norma (circa
70 mg/dL). Ciò che invece si abbassa in maniera importante sono i livelli di insulinemia e del
peptide C.
Quindi un soggetto normale in condizioni di digiuno deve dimostrare di avere una determinata
concentrazione di insulina e peptide C nell’ambito di determinanti range, con una glicemia che
rimane nell’ambito di un intervallo normale, quindi non si deve verificare ipoglicemia.
Si effettuano dei prelievi seriati, con un intervallo di circa due-tre ore e si controllano le varie
concentrazioni, dopopdichè, quando il paziente raggiunge dei valori di glicemia sotto i 50mg/dL e
manifesta i sintomi dell’ipoglicemia, il test viene sospeso.

Generalmente, l’80% dei soggetti che hanno una ipoglicemia organica, data per esempio da un
insulinoma, finiscono il test piuttosto presto, entro le prime 24 ore, alcuni addirittura devono
sospendere il test anche dopo 4 ore.

Nella slide sovrastante ritroviamo i criteri per diagnosticare una condizione di iperinsulinismo
organico:
Glicemia: <50mg/dL
Insulinemia: >3uU/ml
Peptide C: >0,6 ng/ml
Questo nella slide sovrastante, invece, è un esempio di test al digiuno condotto in un soggetto che
non manifestava sintomi di ipoglicemia e che quindi era adattato a questa condizione.
Si possono osservare i vari dati e le loro concentrazioni monitorate nei vari intervalli di tempo
durante i quali il test viene condotto.
Si può dedurre che la diagnosi di iperinsulinemia è biochimica, sulla base del test a digiuno.

INSULINOMI

Gli insulinomi sono neoplasie benigne poco comuni ma che sono la causa principale di
iperinsulinismo endogeno.
Attualmente si registrano circa 3-4 casi su un milione di abitanti.
Queste neoplasie sono per lo più localizzate a livello del pancreas e più raramente a livello
duodenale.
Si presentano come formazioni con dimensioni di circa 2 cm e raramente sono maligni, quindi non
metastatizzano.
Un aspetto molto importante, che si riscontra in quasi tutte le neoplasie endocrine, è che il tessuto
circostante è ipoplasico, ciò significa che, mentre l’insulina è un nodulo che produce insulina
autonomamente, il tessuto circostante tende ad essere ipoplasico e quindi ipofunzionante per un
atteggiamento di feedback negativo. Mentre l’insulinoma ha una secrezione autonoma, le cellule
circostanti sono in grado di regolare la secrezione di insulina in base alla concentrazione media
dell’ormone: se questa è aumentata le cellule ridurranno la secrezione.
Questo vuol dire che, quando il nodulo verrà eliminato mediante esportazione chirurgica, il tessuto
circostante avrà bisogno di qualche giorno per riadattarsi e ripristinare la sua attività.
PANORAMICA SULLA DIAGNOSI
Utilizzo di insulina
Volendo riassumere la diagnosi ipoglicemia a digiuno, se il soggetto ha utilizzato insulina e si è
autoindotto l’ipoglicemia, l’insulina esogena andrà ad esercitare un effetto a feedback negativo nei
confronti dell’insulina endogena, dunque riscontreremo una soppressione del peptide C.
In questo caso non si registrerà la presenza. Di anticorpi anti insulina, né metaboliti delle
sulafniluree

Insulinoma
Nel caso dell’insulina avremo un aumento dell’insulina ma anche del peptide C

Utilizzo di Sulfaniluree
Nella diagnosi si riscontra un aumento dell’insulina, del peptide C e avremo la presenza di
metaboliti a livello delle urine.

Anticorpi anti-insulina
Nel caso degli anticorpi anti insulina avremo una maggior concentrazione di insulina e di peptide C
e avremo la presenza di anticorpi che si possono misurare.
Quindi, qualora vi sia il sospetto di ipoglicemia, tra le varie indagini bisogna anche ricercare la
presenza di anticorpi.

Anticorpi anti-recettore insulinico


E’ una condizione molto rara ma in questo caso le concentrazioni di insulina e peptide C saranno
basse e si riscontrerà la presenza di determinati anticorpi.

DIAGNOSI STRUMENTALE

Le metodiche sopra riportate vengono messe in pratica nella ricerca di insulinomi, la quale risulta
molto spesso difficile.
Vi sono una serie di indagini, a partire da quelle meno invasive come l’ecografia addominale.
Quest’ultima infatti è quella che viene eseguita all’inizio dell’iter diagnostico perché risulta poco
invasiva ma nonostante ciò ha una sensibilità bassa.
La scintigrafia risulta poco utile come metodica d’indagine poiché l’insulinoma non presenta
recettori per la somatostatina.
L’ecografia endoscopica risulta invece molto utile e viene seguita nell’ambito dell’esame
gastroscopico; è molto utile perché riesce a mettere in evidenza noduli presenti nella testa e nel
corpo del pancreas.
Un altro test decisamente molto utile e moderatamente invasivo è l’arteriografia associata a
stimolazione con calcio e cateterismo della vena epatica.

Nonostante tutti questi accertamenti l’insulinoma non viene trovato: perchè?

Una delle ipotesi è che probabilmente non si tratta di un vero e proprio insulinoma ma si tratta di
una iperplasia o nesidioblastosi.
L’altra possibilità è che in realtà l’insulinoma c’è ma sfugge alle varie pratiche diagnostiche.
In questo caso l’arteriografia con la stimolazione al calcio risulta molto valida in quanto il tessuto
iperplastico o adenomatoso è molto sensibile al calcio, il quale provoca un aumento della secrezione
di insulina.
N.B. L’arteriografia con stimolazione al calcio funziona solo per il tessuto iperplastico e
adenomatoso e non per il tessuto normale. Questo test si basa sul fatto che il pancreas ha una
vascolarizzazione regionalizzata: ad esempio in processo uncinato è irrorato prevalentemente
dall’arteria mesenterica superiore, la testa del pancreas è irrorata dalla arteria gastro-duodenale
mentre corpo e coda del pancreas sono irrorati dall’arteria splenica.
Quindi se noi siamo in grado di stimolare selettivamente queste diverse arterie col calcio e poi
effettuato dei prelievi reflui dal distretto venoso, possiamo individuare le aree dove possa
essere presente l’adenoma o la zona iperplasica.
Il procedimento è un po’ invasivo perché dovremmo effettuare un doppio cateterismo.

CASO CLINICO
Questo è un caso clinico un po’ particolare a detta del professore, il Quale sottolinea come la
diagnosi sia stata effettuata dopo 3 anni dalla comparsa dei sintomi.
Nel test a digiuno si evidenziano elevati livelli di insulina anche dopo quasi 24 ore in cui
quest’ultima avrebbe dovuto avere una concentrazione nulla.
Il professore mostra in queste slide tutto l’iter clinico del paziente: test al digiuno, tac addominale,
intervento ed esame istologico estemporaneo.
In questo ultimo è importante il risultato in cui non viene diagnosticato un insulinoma ma un
glucagonoma non funzionante.
Questo soggetto, successivamente è stato sottoposto ad un’arteriografia con stimolazione al calcio,
test in cui la stimolazione dell’arteria splenica ha dato una notevole risposta di secrezione
insulinica, quindi in realtà questo soggetto aveva una iperplasia a livello del coda del pancreas.
TERAPIA
Il trattamento dell’insulina vede come terapia principale l’esportazione del nodulo.
Qualora l’intervento non venga effettuato subito, vi è una terapia che si somministra in fase di
preparazione all ‘intervento con Diazossido, un farmaco che viene utilizzato per via venosa nelle
crisi ipertensive, mentre per via orale inibisce la secrezione di insulina, quindi con un meccanismo
opposto rispetto alle sulfaniluree. L’enucleazione dell’adenoma è la forma auspicabile, qualora non
sia possibile si procede con la resezione.

CONDIZIONE POST-PRANDIALE
Quella riportata nella slide che segue è una situazione che si verifica a livello intestinale dopo
chirurgia bariatrica.
In questo tipo di intervento che è il bypass gastrico, si va a formare una piccola tasca a livello
gastrico dove viene posizionata l’ansa digiunale e vengono esclusi gran parte del corpo dello
stomaco e il duodeno.
Il contenuto a livello gastrico è notevolmente ridotto, perciò i soggetti sottoposti a questo tipo di
intervento si saziano subito.
Il fatto che gli alimenti passano più rapidamente a livello intestinale, fa sì che venga stimolato il
rilascio di ormoni a questo livello che sono il GIP e il GLP1, ormoni che sono in grado di
promuovere la secrezione di insulina.
Più ricco è il pasto in termini di carboidrati, maggiore è la secrezione di GIP e GLP1, maggiore è
l’effetto a livello delle cellule beta con una iperinsulinemia che dà un esito di ipoglicemia ad alcune
ore dal pasto.
Nell’ambito di questa condizione è importante fare diagnosi differenziale perché i soggetti che
vengono sottoposti a intervento di bypass gastrico possono sviluppare la cosiddetta dumping
syndrome, una condizione in cui l’arrivo del cibo innesca una risposta simpatica adrenergica che si
manifesta con sintomi come sudorazione e tremore ma senza ipoglicemia.

Come si tratta l’ipoglicemia?


Con lo zucchero.
Se l’ipoglicemia è lieve diamo 15-20 grammi di zucchero, se il soggetto è poco cosciente non va
dato niente per via orale ma si può somministrare glucagone intramuscolo o mediante spray nasale.
Per i casi di ipoglicemia grave acuta va somministrato glucosio endovena e se la condizione di
ipoglicemia grave viene protratta nel tempo bisogna effettuare anche una terapia anti edema.
1 ora 19/03/2019 Chiara Gelosi rev: Eleonora Defendi

DIABETE

Ci sono degli organi insulino-indipendenti, altri invece che richiedono l’azione insulinica per
metabolizzare glucosio (muscolo, tessuto adiposo).

Quando l’insulina a livello di questi tessuti non funziona bene ( insulino-resistenza) allora parte del
glucosio non verrà utilizzato e resterà nel sangue, aumentando la glicemia.

La glicemia è il risultato di due meccanismi:

• Produzione epatica di glucosio(glicogenolisi, gluconeogenesi), assicura che la glicemia si


mantenga costante

• Mobilitazione

Questo è il valore che il fegato è in grado di produrre 2mg/kg/min=8gr/h=200gr/die

- Se la produzione epatica di glucosio è in eccesso, per esempio quando manca l’insulina o quando
non funziona bene, la glicemia si alza come nel diabete mellito.

- Se la produzione epatica si riduce perché c’è eccesso di insulina si tende ad avere una ipoglicemia.

L’ipoglicemia è condizione meno comune se non nei pazienti che fanno farmaci ipoglicemizzanti o
nei soggetti che hanno patologie particolari (insulinoma)

Diabete: malattia non trasmissibile cronica alla pari di altre patologie come la patologia
cardiovascolare, patologia respiratoria cronica, patologia oncologica. Queste hanno in comune i
fattori di rischio alcuni non modificabili(età, sesso, razza) , altri modificabili (obesità, sovrappeso,
inattività fisica, fumo di sigaretta, ipertensione, ecc...)

Il 70% delle patologie croniche è causata dallo stile di


vita.

Il diabete ha eziologia varia. C’è iperglicemia dovuta alla


ridotta azione insulinica, alla mancanza di insulina, che
agisce anche sul metabolismo lipidico e proteico, di
conseguenza ci saranno ripercussioni su questi tipi di
metabolismo.

Il diabete deriva dal fatto che l’insulina manca oppure


l’azione a livello tessutale è compromessa, come nei
soggetti con insulinoma resistenza.

Nel 1980 l’Italia occupava il 9° posizione con 2000400 diabetici , in cima c’era la Cina, l’India , gli
stati Uniti,Russia.
Nel 2014 l’Italia è passata alla 16° posizione con
4000300 diabetici , in termini assoluti il numero
dei pazienti è aumentato, anche se in questi anni
altre nazioni (Indonesia , Pakistan,Messico ) sono
avanzati in graduatoria.

-Dal 2005 al 2030 si vede un raddoppio delle


persone con diabete e le stime ci dicono che nel
2040 ci sarà un ulteriore raddoppio.

L’aspetto interessante è che c’è stato un aumento


dappertutto ma in particolare nei paesi asiatici e
in Africa.

-Diabete: 9-10% nel mondo nel 2030

IGT: intolleranza ai carboidrati. Persone che hanno disturbo del metabolismo glucidico, non hanno
ancora il diabete ma lo svilupperanno (condizione di pre-diabete)-> 4-6%

-Dati per fasce d’età: la maggior parte dei pazienti diabetici sono le persone anziane >65 anni.
meno frequente in età giovanile , quel tipo di diabete sarebbe eventualmente diabete tipo 1.

-Distribuzione in Italia per quanto riguarda le aree geografiche c’è differenza fra regione e
regione, fra nord e sud, con aumento di prevalenza scendendo al sud

Dato di incidenza: 9 casi per anno, 10-12 % per diabete tipo1( in Sardegna i casi sono molti di più)
CRITERI DIAGNOSTICI

[Prendiamo il caso di un signore che fa gli esami del sangue a


digiuno e trova una glicemia elevata(>200mg/dl),quel signore
ha sicuramente il diabete.]

-Glicemia: > 200mg/dl

-Sintomi: calo ponderale nei mesi precedenti, poliuria(esigenza di urinare spesso), polidipsia(sete).

L’acuità della presentazione può variare nei soggetti con diabete di tipo 1 o con diabete di tipo 2 .

I paziente hanno glicemia elevata per molti mesi, nei diabetici tipo 2 anche per anni e si aggiungono
questi sintomi.

La soglia per fare diagnosi di diabete è 126mg/dl.

Il paziente può aver una glicemia più bassa di 126mg/dl ma più alta di 100mg/dl(intervallo
superiore massimo, quindi la glicemia non dovrebbe superare questo valore), quindi siamo in una
condizione di pre diabete, per esempio un’intolleranza ai carboidrati.

Questo aspetto si può valutare bene con il:

-Carico orale di glucosio(OGTT- Oral Glucose Tollerance Test) si fanno assumere al soggetto 75
mg di glucosio e alla 2° ora si misura la glicemia e si confronta con la basale, se la glicemia dopo
2h è > 140mg/dl allora si fa diagnosi di diabete.

Un’altra possibilità di fare diagnosi di diabete è utilizzare:

-HbA1c (emoglobina glicata) normalmente si utilizza per seguire il controllo glicemico. L’Hb che
si lega alla quantità di zucchero nel sangue, maggiore è lo zucchero presente maggiore sarà questo
parametro. HbA1c> 6,5% permette di fare diagnosi di diabete. Può essere complementare alla
determinazione della glicemia venosa.

#Questo può essere utile quando, per esempio, abbiamo un paziente che si ricovera in chirurgia o in
cardiologia che, sottoposto ad accertamenti, mostra una glicemia elevata (170mg/dl); quel soggetto
ha un diabete oppure no? In realtà in queste condizioni la glicemia tende ad alzarsi a causa dello
stress, quindi i valori tornano normali dopo la fase acuta. Se allora vogliamo avere una valutazione
più precisa per quella glicemia misuriamo l’emoglobina glicata, se questa è > 6,5% allora quel
paziente ha un diabete, se invece è normale allora la glicemia alta potrebbe essere da stress oppure
un iniziale diabete che ancora non ha impattato sul valore dell’HbA1c .

100mg/dl: glicemia normale


>126mg/dl: diabete mellito

100-126mg/dl: alterata glicemia a digiuno o intolleranza


ai carboidrati

Il carico orale di glucosio si usa soprattutto per quei


soggetti che hanno glicemia 100-126mg/dl, i valori dopo
carico orale potranno essere:

>200mg/dl: diabete

140-200mg/dl: intolleranza ai carboidrati

<140mg/dl: glicemia normale

Oppure posso utilizzare emoglobina glicata:

Hb1Ac> 6,5: diabete

Hb1Ac< 6,5 e fino a 5,7: prediabete, alterata glicemia a digiuno

Hb1Ac<5,7: glicemia normale

Quando si parla di prediabete si includono queste due condizioni l’alterata glicemia a digiuno o
l’intolleranza ai carboidrati e queste vanno identificate con il carico orale di glucosio.

(Es. Se un paziente ha una glicemia a digiuno di 174mg/dl sarà diabetico. Se ha una glicemia di
110mg/dl è condizione di prediabete, quindi si fa la curva di carico di glucosio perché potrebbe
avere già un diabete oppure una ridotta tolleranza al glucosio, che comunque è una condizione
predisponente al diabete.)

Questo ci mostra come queste persone che hanno una IGT, un’intolleranza ai carboidrati oppure una
glicemia a digiuno alterata, hanno rischio aumentato di sviluppare diabete.(per i pazienti che hanno
intolleranza ai carboidrati di 20 volte maggiore)

Raccomandazioni per individuare quelle persone che sono a maggior rischio di diabete:

persone obese, popolazioni con particolari etnie (asiatici, americani), persone che hanno già un
quadro di intolleranza ai carboidrati, parenti di persone che hanno diabete, donne che hanno avuto
diabete in gravidanza, donne con ovaio policistico(condizione di insulino-resistenza), inattività
fisica, età.

-Popolazione italiana 60000000; 3700000 persone :diabete noto; 1500000 persone :diabete non
noto

3000000 persone : prediabete

Immigrati con diabete con caratteristiche diverse: diabete in età un po’ più anticipata rispetto a
quella italiana. Una percentuale di diabete tipo 1 maggiore.

CLASSIFICAZIONE

-Diabete tipo 1 :Progressiva distruzione delle β cellule, quindi mancherà la produzione di insulina.

Abbiamo il tipo autoimmune (1A)che è il più comune, e il tipo idiopatico (1B), di cui non si
conosce bene la causa che si trova soprattutto negli immigrati in particolare nelle persone di colore
e che si caratterizza in genere per un minor rischio di chetoacidosi e per un recupero più rapido
della funzione pancreatica dopo l’evento acuto.

-Diabete tipo 2: è caratterizzato da due difetti:

1) Secrezione insulina(soprattutto nella prima fase della secrezione)

2) Insulino-resistenza: l’insulina viene secreta ma funziona meno bene a livello tessutale.

-Diabete LADA(diabete autoimmune latente dell’adulto): Si manifesta in età adulta ed è su base


ereditaria e questo lo accomuna al diabete di tipo 1 invece l’età di insorgenza lo accomuna al tipo 1.
La storia naturale del Diabete tipo 1 : 1-predisposizione
genetica 2- abbiamo poi un evento, un fattore,
un’infezione virale che innesca un meccanismo
autoimmune che determina un danno progressivo con
perdita di β cellule che può portare a completa assenza di
insulina.

Questo è il percorso ma può impiegare mesi oppure un


anno, in realtà, dopo che il meccanismo è stato innescato,
l’evoluzione è piuttosto rapida.

Più anticorpi ci sono positivi, maggiore è il rischio di


sviluppare diabete. La percentuale di pazienti che non sviluppano il diabete con un solo anticorpo
resta più alta rispetto ai soggetti che presentano 2 o più anticorpi positivi.

LADA

Insorge in età adulta(<30anni), presenta anticorpi positivi, inizialmente


non necessita di terapia insulinica che invece è indispensabile nel diabete
1 e non ha un indice di massa corporea elevata, quindi non ha il fenotipo
del paziente con diabete di tipo 2.

Quado facciamo una diagnosi di diabete di tipo 2 anche nelle persone che
non sono obese o in sovrappeso, non sempre andiamo a ricercare gli
anticorpi, ma se questo viene fatto in maniera sistematica 5% delle
persone che noi etichettiamo come diabete di tipo 2 sono invece LADA.

Un altro tipo di diabete è:

-Mody : condizioni poco comuni, mostrano difetti recettoriali, difetti genetici.

-Oppure il diabete che si può sviluppare in corso di endocrinopatie : per esempio


nell’ipercortisolismo, per eccesso di GH, per eccesso di catecolammine, nell’ipertiroidismo

- Diabete gestazionale

Nel Diabete di tipo 2 è importante la predisposizione , fattori genetici e ambientali( ridotta attività
fisica, obesità), si instaura una condizione di insulino-resistenza, di iperglicemia e glucotossicità e
lipotossicità( alterazione del metabolismo lipidico). Questo comporta una ridotta azione insulinica a
livello di questi tessuti, per esempio pazienti che hanno scompenso glicemico, hanno bisogno di
molte unità di insulina per riportare la glicemia a valori normali, ma, mano a mano che il controllo
migliora, i tessuti recuperano sensibilità, questo fenomeno è noto come glucotossicità. Si elimina
abbassando gradualmente la glicemia dando modo nel tempo ai tessuti di recuperare sensibilità.

Insulino-resistenza: è quella condizione in cui la risposta all’insulina è ridotta e questo significa che
i pazienti vanno trattati con dosi incrementali di insulina per ottenere effetto metabolico.

Nel soggetto con diabete di tipo 2 la βcellula cerca di superare l’insulino-resistenza aumentando la
secrezione di insulina. Quindi i soggetti sono anche iperinsulinemici in senso assoluto ma quei
livelli di insulina non sono sufficienti per abbattere e superare l’insulino-resistenza che, invece, va
ridotta o farmacologicamente oppure mettendo in atto quelle strategie che possono ridurre il peso.

Diabete 1:manca insulina, sintomatologia acuta (chetoacidosi), età giovanile, terapia insulinica

Diabete tipo 2: sintomatologia acuta(sindrome iperosmolare),età avanzata, complicanze croniche


(ipertensione, nefropatia, danno vascolare),terapia se scompensato insulina altrimenti con terapia
con farmaci orali e oggi la possibilità di farmaci iniettivi, sono analoghi del GLP1. Nel tempo
questo tipo di diabete va incontro a insufficienza totale β cellulare quindi richiede terapia insulinica.

Sintomi

Polidipsia, poliuria, nicturia, perdita di peso, polifagia, astenia…

Perché c’è la perdita di peso in questi soggetti?

Si perde peso perché comincia a mancare l’insulina che è un ormone anabolizzante, allora i
metabolismi vanno incontro a catabolismo, si perde zucchero con le urine, c’è poliuria proprio
perché c’è glicosuria. Perdono allora molte energie e l’organismo fa riferimento ad altri
metabolismi per esempio alla gluconeogenesi, quindi aumenterà la degradazione delle proteine, dei
lipidi, il rischio poi è la chetoacidosi.

1-Complicanze Croniche: sono legate all’iperglicemia che nel tempo può favorire danni ad alcuni
organi, danni per esempio vascolari.

2-Complicanze Acute: chetoacidosi, sindrome iperosmolare, acidosi lattica( per uso di farmaci
come la metformina nel diabete tipo 2)

3-Complicanze Ipoglicemiche: ipoglicemie dovute o all’insulina o a dei farmaci come le


sulfaniluree(anche se oggi si cerca di limitarne l’utilizzo)

-Complicanze micro vascolari: sono associate all’iperglicemia(oculari,renali,nervose)

-Complicanze macrovascolari: Malattie cerebro vascolari, malattia coronarica,malattia vascolare


periferica)

La mortalità nel diabete mellito è dovuta principalmente a malattie cardiovascolari ,circa il 50%
delle persone che hanno diabete vanno incontro ad un evento cardiovascolare. In questi pazienti si
sviluppa un aterosclerosi accelerata.
Macroangiopatia si manifesta anche in pazienti che non hanno diabete ma in questi pazienti
l’evoluzione è più rapida e contribuisce anche alla diagnosi; magari un ictus, un infarto ci fanno fare
poi diagnosi di diabete. Si possono riscontrare anche complicanze microvascolari (retinopatia,
vasculopia benigna.)

Queste condizioni hanno un impatto maggiore sula mortalità soprattutto nelle persone più anziane
e, se si interviene precocemente, si è in grado di ridurre di molto il manifestarsi di queste
complicazioni. Molto importante la prevenzione, la diagnosi precoce, un intervento precoce di
terapia.

Siamo abituati a sentire che il paziente con diabete è un paziente a rischio di patologia ischemica
alla pari di un paziente che non ha il diabete ma che abbia avuto un infarto del miocardio
precedentemente.

I pazienti che hanno avuto un infarto e che hanno il diabete sono quelli che hanno la peggior
prognosi.
Sbobina 19/03/2019 2° ora Mariapia Carafa rev:Eleonora Defendi

COMPLICANZE

Le complicanze costituiscono in molti pazienti il modo in cui la malattia si presenta. Se i vari


sintomi come perdita di peso, polidipsia, disidratazione, poliuria,… si dovessero presentare in pochi
giorni, il paziente necessita di ricovero perché in gravi condizioni.

La condizione di chetoacidosi è l’esordio del diabete di tipo 1 e richiede un’immediata


ospedalizzazione (il tempo per intervenire con una terapia potrebbe essere particolarmente ridotto e
talvolta si potrebbe incorrere in un grave coma chetoacidoso).

La condizione di chetoacidosi è
caratterizzata da:

 Iperglicemia

 Marcato stato di disidratazione (il


paziente ha glicosuria, poliuria)

 Acidosi e aumento dei corpi


chetonici

La chetocidosi potrebbe essere analizzata in relazione alla sua gravità:

1. la glicemia è elevata mostrando un valore superiore a 250 mg/dl (nella sindrome


iperglicemica iperosmolare tipica del diabete di tipo 2 la glicemia può essere molto più
elevata e determinare anche un aumento dell’osmolarità basale);

2. si ha riduzione del pH plasmatico che può essere moderata o grave a pH<7, valore per cui il
soggetto potrebbe avere aritmia cardiaca, arresto cardiaco;
3. i corpi chetonici vanno incontro ad aumento (analogamente alla glicemia, posso
quantificare i corpi chetonici nel sangue);

4. l’osmolarità plasmatica è variabile (nella sindrome iperosmolare è aumentata);

5. l’anion gap aumenta;

6. in relazione al grado di acidosi il soggetto può trovarsi in uno stato vigile o comatoso;

L’incidenza è di 4.6-8 episodi/1000 pazienti diabetici/anno. Per molti soggetti il quadro della
chetoacidosi è quello di insorgenza, ma ci sono casi in cui si determina condizione di acidosi in
soggetti ai quali era già stato diagnosticato il diabete; questi quindi vanno incontro a chetoacidosi
(non hanno adeguato controllo glicemico).

Nonostante una migliore possibilità di seguire i pazienti diabetici nel decorso della loro malattia, c’è
stata un’incidenza del 35% di episodi dal 1996 al 2006. La maggior parte dei pazienti (due terzi)
con DKA hanno diabete di tipo 1, ma si potrebbe presentare in misura minore (34%) nei pazienti
con diabete di tipo 2. Nella terapia al diabete di tipo 2 ci sono farmaci che favoriscono l’escrezione
di urina e aumentano la glicosuria, quindi abbassano la glicemia. Tali farmaci potrebbero aumentare
l’incidenza di chetoacidosi nel diabete di tipo 2.

È possibile associare alla chetoacidosi una condizione di mortalità (principale causa di mortalità in
bambini ed adolescenti con diabete di tipo 1).

La sindrome iperglicemica iperosmolare è


una complicanza tipica del diabete di tipo 2,
che si accompagna ad un aumento
dell’osmolarità plasmatica e
compromissione dello stato di vigilanza del
soggetto con quello che un tempo era
definito “coma iperosmolare”.

È caratterizzata da:
 iperosmolarità

 disidratazione

 assenza di acidosi

Colpisce principalmente i soggetti anziani, ad esempio coloro che fanno terapia diuretica
incrementando la condizione di disidratazione, non controbilanciata da adatta introduzione di
liquidi (gli anziani bevono poco). Questi pazienti potrebbero sviluppare in seguito un’insufficienza
renale acuta.

Rispetto alla condizione di chetoacidosi, questi casi sono maggiormente comuni e presentano
un’incidenza di 10-17 casi/anno/100000 abitanti.

PATOGENESI

Questo grafico mette a confronto la condizioni di chetoacidosi con quella di sindrome iperglicemica
iperosmolare, maggiormente presenti rispettivamente nel diabete di tipo 1 e nel diabete di tipo 2. La
secrezione di insulina è assente nel diabete di tipo 1 ed è scarsamente presente in quello di tipo 2
(anche se presenta insulino-resistenza, vi è una quota basale di insulina).

La presenza di insulina è la base per la differenza dei corpi chetonici: basse concentrazioni di
insulina sono in grado di sopprimere la lipolisi, prevenire la formazione di acidi grassi e di processi
ad essi correlati come la β-ossidazione, la chetogenesi,.. . Per questo motivo nei soggetti con diabete
di tipo 2 che presentano una minima quantità di insulina non ci sono corpi chetonici.

Nel diabete di tipo 1, mancando l’insulina, aumenta la glicemia e la lipolisi. Si ha chetogenesi con
formazione di corpi chetonici: acetone, acetoacetato e β-idrossibutirrato. L’acetone viene eliminato
con il respiro, mentre gli altri due non vengono espulsi ma contribuiscono ad abbassare il pH del
sangue, incrementando il grado di acidosi. Quindi sia l’aumento dei corpi chetonici che
l’abbassamento dei bicarbonati rendono il sangue acido. Tutto è correlato alla durata di assenza di
insulina, che determinerà un maggiore quadro di acidosi e una minore possibilità terapeutica.

L’assenza di insulina comporta anche l’aumento della proteolisi e la maggiore quantità di


amminoacidi verrà utilizzata nella gluconeogenesi, in una condizione in cui i valori di glicemia
sono già elevati.

Si presenterà conseguentemente glicosuria associata a diuresi, con perdita di acqua ed elettroliti


quindi disidratazione, aggravata in caso di vomito, diarrea e uso di diuretici. Si determina perciò un
quadro di insufficienza renale acuta con alterazione della funzione renale.

Il soggetto sarà glicosurico, disidratato, a rischio di insufficienza renale acuta, con alterata pressione
sistemica e aumento dell’omolarità.

In condizioni ottimali, la quantità di insulina e glucagone sono in equilibrio. Quando viene a


mancare la secrezione di insulina (usata per inibire la produzione di glucagone), il glucagone
tenderà ad aumentare. Questo avrà effetto sul Malonil-CoA, che normalmente regola il processo di
ossidazione degli acidi grassi inibendolo. Per bloccare tutto questo meccanismo è necessario dare
insulina, la quale favorisce la lipolisi. Lo squilibrio è perciò dato da assenza di insulina e aumento
di ormoni controregolatori (glucagone, cortisolo, catecolammine,..).

Quali sono le cause di chetoacidosi?


Come già detto, essa può comparire
come manifestazione iniziale, oppure
può essere favorita da varie condizioni
in pazienti che presentano già il diabete.

Tra le cause organiche ci sono le


infezioni, come una polmonite o una
semplice influenza, in cui il soggetto
presenta mancanza di appetito associata
a nausea, con tendenza alla riduzione di
dosi di insulina. In queste condizioni la resistenza all’insulina aumenta. La somministrazione di
insulina è necessaria per bloccare la chetogenesi (se riduco l’insulina, la chetogenesi può aumentare
e determinare talvolta chetoacidosi).
Altra causa è la terapia steroidea con uso di cortisolo, cortisone,.. che contribuiscono ad uno stato
di insulino-resistenza; la glicemia deve essere adeguatamente monitorata durante gli interventi
chirurgici.

Tra le cause ricorre l’omissione della terapia: il soggetto riduce o interrompe in modo autonomo la
terapia, anche per alterazioni psicologiche. Nei giovani, infatti, in situazioni di ipoglicemia o
iperglicemia potrebbe verificarsi un disturbo del comportamento.

Il malfunzionamento degli strumenti di somministrazione, quali penne o microinfusori è da


annoverare tra le cause. I microinfusore infondono insulina sottocute in modo continuo e
programmabile e in piccole quantità, senza determinare deposito. Questo si contraddistingue
dell’iniezione: iniettando la sera 20 unità di insulina lenta, tali unità vengono assorbite nell’arco
delle 24h perciò c’è un deposito che garantisce una quantità di insulina basale sufficiente ad inibire
la chetogenesi (con il microinfusore, invece, si somministrano piccole quantità ad ora e se per
qualche motivo si interrompe l’infusione, aumenta il rischio di chetoacidosi). È necessaria, infatti,
una buona pratica e un rapido intervento in caso di errore.

Nella sindrome iperglicemica iperosmolare l’infezione gioca un ruolo fondamentale peggiorando la


condizione di insulino-resistenza. Tra i fattori precipitanti ritroviamo l’infarto, l’insufficienza
renale, l’uso di farmaci come cortisonici, diuretici (determinano ulteriore disidratazione), nutrizione
enterale o parenterale se eccessivamente carica di zuccheri, patologie endocrine, scarso apporto di
liquidi in anziani.
Considerando entrambe le condizioni di DKA e HHS si presentano frequentemente poliuria,
polidipsia, perdita di peso e astenia; questi sono dovuti all’iperglicemia cronica. La poliuria è
associata a disidratazione e deplezione di volume con conseguente ipotensione, tachicardia che
potrebbero essere gravi fino ad arrivare ad un quadro di shock ipovolemico. La chetoacidosi
determina condizione di tachipnea con respiro frequente e profondo detto “Respiro di Kusmaul”
(utile per la diagnosi), alitosi con odore a frutta marcia, anoressia, nausea, vomito, dolori
addominali,.. . Ai sintomi neurologici si associa una variazione dello stato di vigilanza con sopore,
torpore, fino al come. Febbre e leucocitosi sono correlati con segni di infezione.

L’emogasanalisi ci fornisce una presentazione del


quadro di chetoacidosi, con i livelli di pCO₂ e

HCO₃⁻ che varieranno contensualmente alla

variazione di CO₂ e del pH nel sangue. Tra i


parametri si considera anche l’osmolarità e l’anion
gap.
OSMOLARITA’

I fluidi totali al livello del compartimento intra ed extracellulare sono distribuiti in maniera
differente, con una maggiore presenza a livello intracellulare. Dal punto di vista osmotico, gli
osmoli effettivi sono sodio, glucosio, mannitolo (meno importante), mentre molecole come l’azoto
sono meno incidenti. L’osmolarità può essere infatti calcolata a partire dalla concentrazione di
questi elementi.

Se aumenta l’azotemia per insufficienza renale,


l’azoto tende a distribuirsi in maniera omogenea
e non esplica un’azione osmotica importante.

Il glucosio, invece, esercita un’azione osmotica.


Aumentando nel sangue per assenza di insulina,
richiama acqua dai tessuti intracellulari (dove si
verifica iperosmolarità). A livello extracellulare
si verifica aumento della tonicità. L’effetto sarà
diuresi osmotica e disidratazione.

Questo è un aspetto fondamentale perché nella terapia, prima della somministrazione di insulina,
bisogna dare acqua. Inoltre, lo stato di vigilanza del soggetto è in relazione al grado di osmolarità:
maggiore è l’osmolarità, più basso è il pH, maggiore è la compromissione dello stato dell’individuo,
con risentimento cerebrale e rischio di coma.

Nel plasma, le cariche positive del sodio (Na⁺) e del potassio (K⁺), sono bilanciate da cloro (Cl⁻) e

bicarbonati (HCO₃⁻). La differenza tra i cationi e gli anioni si definisce “Anion Gap”. La
chetoacidosi è caratterizzata da un aumento dell’Anion Gap (è fattore diagnostico).

ES: emogasanalisi di un paziente ricoverata dove si legge un pH acido pari a 6.87, livelli di CO₂

pari a 9.1 (con il respiro di Kusmaul viene eliminata la CO₂, quindi si ha una condizione di

iperventilazione come meccanismo di ricompensa), HCO₃⁻ ha valore minore di 5 → quadro di


acidosi particolarmente grave dove si è intervenuti con terapia intensiva.

Il corpo chetonico che bisogna considerare è β-idrossibutirrato, utile per descrivere la risposta alla
terapia: il β-idrossibutirrato tende a ridursi per effetto della terapia, mentre l’Acetoacetato rimane
stabile (non fornisce un’indicazione precisa dell’evoluzione del diabete). È possibile, perciò,
misurare sia la glicemia capillare che i chetoni (l’Acetoacetato viene misurato nelle urine, mentre il
β-idrossibutirrato nel sangue). Se il paziente presenta febbre, infezione, glicemia alta deve misurare
i corpi chetonici attraverso degli stick.

All’aumentare della chetoacidosi, i livelli di


β-idrossibutirrato aumentano e per valori
superiori a 3 bisogna richiedere un
intervento immediato e contattare il
diabetologo.

Una condizione di chetoacidosi euglicemica si presenta con valori di glicemia non elevati (<250
mg/dl), quindi anche valori glicemici non eccessivamente elevati possono essere causa di
chetoacidosi.

TERAPIA
 I pazienti sono disidratati perciò è necessario intervenire cercando di ripristinare il volume
plasmatico

 Avendo glicemia alta, è necessario ridurla (questo aspetto è anche controllato


dall’idratazione che quindi agisce sia sul volume che sulla glicemia e sull’osmolarità)

 Bisogna correggere il deficit elettrolitico, soprattutto potassio e calcio

 Identificare e trattare gli eventi che hanno posto le basi per la chetoacidosi

A questo si associa la terapia insulinica, effettuata dopo la necessaria idratazione.

All’inizio bisogna infondere una quantità abbondante di liquidi, variabile da paziente a paziente
(nell’anziano cardiopatico si usano infusioni minori che possono gradualmente variare).
Che liquidi si infondono? La soluzione maggiormente utilizzata è la soluzione salina 0.9%. Se il
soggetto presenta un valore di sodemia particolarmente alto si può intervenire con una soluzione
ipotonica o ricorrendo al sondino naso-gastrico.

L’avvio dell’idratazione nella terapia determina una riduzione della glicemia del 15-20%.

L’insulina si somministra tenendo conto della


concentrazione degli elettroliti, in particolare del potassio.
L’insulina sposta il glucosio dal liquido extracellulare a
livello cellulare e stessa cosa fa con il potassio (la
potassemia tende infatti ad abbassarsi). È necessario
controllare i livelli di potassio: essi devono essere presenti
in concentrazioni opportune, altrimenti si deve intervenire
somministrandolo (idratazione e infusione di potassio).

L’obiettivo della terapia insulinica è quello di sopprimere la chetogenesi e questo avviene in due
modi differenti:
1. Si somministra bolo insulinico (0.1 U/Kg)→ in una persona che pesa 70 kg si
somministrano 7 di bolo

2. Iniziare direttamente con infusione continua (0.14 U/Kg/h)

Questi due approcci non presentano differenze sostanziali, se non il fatto che l’infusione continua
potrebbe minimizzare alterazioni elettrolitiche.

La distribuzione di insulina a livello tissutale e lo svolgimento delle sue funzioni è adeguata solo se
il paziente è stato precedentemente sottoposto ad idratazione.

Le somministrazioni variano caso per caso: nella sindrome iperosmolare si cerca un calo di
glicemia piuttosto lento per evitare sbalzi di glicemia e quindi causare edemi cerebrali.

L’insulina viene infusa per via venosa e generalmente si somministra insulina regolare (insulina
umana), anche se oggi si potrebbe ricorrere anche ad analoghi di insulina.

 Per valori di potassemia bassi (<3.3 mEq/l), bisogna iniziare subito l’infusione di potassio e
tardare la somministrazione di insulina (determina comunque ipopotassemia, ponendo il
soggetto a rischio di aritmie cardiache soprattutto nel complesso di acidosi).

 Per valori di potassio moderato (3.3-5.2 mEq/l) si procede in maniera analoga.

 Se la potessemia è a livelli adeguati, la somministrazione di potassio viene ritardata.

In ordine si procede quindi con: idratazione, controllo di elettroliti (se non sono presenti nelle giuste
concentrazioni vanno reintegrati), terapia insulinica (dopo circa 1h), uso di bicarbonato.
I bicarbonati in condizione di acidosi tendono ad abbassarsi. Le raccomandazioni indicano una
somministrazione di bicarbonato solo nel caso in cui il pH è inferiore a 7/6.9 (al di sopra di 7.1 non
viene dato). Le quantità somministrate non sono elevate perché potrebbe verificarsi una condizione
di alcalosi che potrebbe indurre danni a livello cerebrale. I livelli di bicarbonato desiderati sono 15
mg.

MONITORAGGIO: i soggetti ipercritici devono


essere monitorati sull’aspetto emodinamico, sulla
glicemia, sulla diuresi, sul contenuto di elettroliti,..

TERAPIA: La disidratazione può determinare, soprattutto negli anziani, rischio di trombosi,


edema, embolia polmonare, insufficienza renale. Talvolta è perciò utile somministrare eparina,
effettuare terapia antibiotica (spesso è possibile individuare l’origine dell’infezione, l’indice di
flogosi, l’aumento dei leucociti,..), usare O₂, ricorrere al sondino nasogastrico (utile per
somministrare acqua libera, farmaci,..).
COMPLICANZE: Tra le complicanze si tiene conto dell’ ipoglicemia nel caso di terapia
insulinica, edema cerebrale per eccessiva reidratazione o decrementi importanti di glicemia,
scompenso cardiaco specie nell’anziano per eccessiva idratazione, complicanze tromboemboliche,
insufficienza renale, acidosi lattica, coagulazione intravascolare diffisa e sindrome da Distress
Respiratorio Acuto. Il rischio perciò sarà sia precedente che successivo alla terapia.

PREVENZIONE: Molte chetoacidosi potrebbero essere prevenute attraverso un controllo


periodico della glicemia, il riconoscimento precoce dei sintomi (sete, diuresi,..), una necessità di
non sospendere mai la terapia insulinica per evitare chetogenesi, gestendo le malattie intercorrenti
come febbre, vomito, infezioni, controllo dei corpi chetonici ad alti valori di glicemia, attraverso la
somministrazione di boli di insulina supplementari per abbassare la glicemia, con l’educazione di
pazienti e familiari per l’utilizzo periodico dei dispositivi.
Endocrinologia (con professor Puxeddu)
3° lezione - 21 marzo 2019 – 1°ora
Sbobinatore: Lucia Francioni
Revisionatore: Costanza Ercolani

Oggi vediamo qualcosa in dettaglio: ci occuperemo della fisiologia del differenziamento sessuale e
dei disordini del differenziamento sessuale, come alterazioni che portano a conseguenze
patologiche.
Faremo una fisiologia rapida, poi alcune patologie.
È una cosa nuova, perciò per voi potrebbe essere l’unica occasione per approfondire questioni che
nella vostra vita professionale avranno un impatto terrificante.

DIFFERENZIAMENTO SESSUALE
Questa diapositiva ci mostra quello che è la vita embrionale e fetale in relazione agli eventi che ci
portano al suo stato sessuale.

Nel MASCHIO, già a partire dalle


prime settimane della gestazione
abbiamo due importanti giocatori
di questa partita:
- il mesoderma, che darà
origine ai genitali
- cellule germinali che si
vengono a formare e che
danno origine alla gonade
che si sta formando, in cui
si distinguono due tipi cellulari fondamentali:
o cellule del Sertoli: coadiuvano il processo spermatogenetico a livello dei tubuli
seminiferi del testicolo, formando un reticolo che consente alle cellule germinali di
essere accolte e di migrare nella gonade.
o cellule del Leydig: producono testosterone.
Entrambe sono fondamentali per lo sviluppo dell’apparato genitale maschile:
- le cellule del Sertoli facendo degenerare il dotto di Muller,
- le cellule di Leydig invece, col testosterone, coadiuvano i processi che avvengono durante
l’embriogenesi e stabilizzano i dotti di Wolff, importanti nella localizzazione e nella crescita
dei genitali maschili.
Già a partire dalla nona settimana di gestazione vediamo un inizio i produzione di
testosterone, che poi aumenta e rimane alto nella vinta fetale, con dei livelli, proprio per
queste importanti funzioni, molto vicine a quelle del maschio adulto.
Nella FEMMINA invece il discorso un po’
diverso, infatti i tessuti che giocano un ruolo
nella gametogenesi maschile, la giocano
pure in quella femminile, in effetti entrambi
derivano da un precursore comune detto
gonade bipotente, in grado poi di
differenziarsi, a seconda di certi contesti, in
testicolo od ovaie. Quindi la gonade
maschile e femminile hanno origine comune
a livello di cellule embrionali, però la
gonade femminile sta ferma lì fino alla
pubertà: contiene le cellule germinali
primordiali e non svolge nessuna funzione gametogenetica, ne di secrezione ormonale.
In effetti quello che avviene per quanto riguarda il differenziamento sessuale femminile è un
processo apparentemente non regolato in maniera valutabile e avviene un po’ per default, perché se
non abbiamo interferenze da parte di una cellula che produce un fattore antiepiteliale (come la
cellula del Sertoli o il testosterone nelle cellule del Leydig), lo sviluppo diventa femminile.
Perciò a partire dalla nona settimana, abbiamo lo sviluppo della vagina, poi lo sviluppo dell’ovaio,
che corrisponde alla gonade, poi lo sviluppo dell’utero, poi la degenerazione del dotto di Wolff e la
formazione dei genitali esterni.
Da ciò si evince che la formazione dei genitali maschili è più complessa perché interviene con la
modificazione del programma in default.

La gonade incomincia a formarsi a livello della 4° settimana, a partire dal mesoderma, il quelle che
chiamiamo creste genitali, dove si vengono a formare diversi abbozzi:
- pronefro: origine della ghiandola surrenale
- mesonefro: origine della gonade bipotente
- metanefro: darà origine ai reni
In questa gonade primitiva, in 4 o 5 settimane ci
sarà una migrazione delle cellule germinali.
Da dove vengono le cellule germinali? Dal sacco
vitellino, in prossimità dell’allantoide, poi migrano
fino a localizzarsi nel mesonefro, la gonade in
formazione.
Cosa definisce poi il destino di questa gonade bipotenziale? La differenziazione sessuale è un
processo complicato, che perciò ha diversi punti di controllo nella formazione della gonade:
- il primo momento di controllo è quello del sesso cromosomico: i maschi
hanno un cariotipo 46 XY, mentre le femmine 46 XX, che giocherà un
ruolo determinante. Ma non sempre c’è corrispondenza tra il sesso
cromosomico e il sesso gonadico, perché ci possono essere delle
interferenze che intervengono sul sesso gonadico.
- Il secondo momento di controllo è quello del sesso gonadico: il sesso
gonadico è determinato dal tipo di gonade che si viene a sviluppare e che
avrà un impatto sull’apparato genitale. Ma anche qui c’è possibilità di
interferenza nel passaggio tra gonade e fenotipo che si manifesta
- Sesso fenotipico, generalmente legato al sesso gonadico, che a sua volta deriva dal sesso
cromosomico, ma che per interferenze può essere differente, a fronte di un sesso gonadico di
un certo tipo.

Un rapido accenno al sesso cromosomico: è determinato dai cromosomi X e Y (maschio XX e


femmina XY) ed è il cromosoma Y l’elemento principale che definisce il sesso gonadico.
Sono importanti in particolare nel il gene SRY, nella parte telomerica del braccio corto del
cromosoma Y, che causa un accorciamento di un braccio del cromosoma X, che determina il sesso
gonadico maschile.
Ci sono geni che dovete sapere, come il gene per il recettore degli androgeni, nel cromosoma X, che
se mutato, determina azoospermia, perciò infertilità, perché compromette la gametogenesi. Poi c’è il
***-1 che codifica per un fattore di trascrizione, che permette un adeguato sviluppo delle cellule
ipotalamiche, deputate alla produzione dell’gnRH, che controlla l’asse ipotalamo-ipofisi-gonade.

Il sesso gonadico è determinato dall’espressione di diversi fattori, che inviano lo sviluppo verso una
direzione o l’altra.
Il più importante gene è l’SRY, nel cromosoma Y, che se espresso, favorisce l’over espressione di
SOX9, che determina la produzione di una proteina importante, e in presenza di SOX9 e di altri
fattori di trascrizione che vengono attivati, il destino della gonade bipotente è quello di diventare
testicolo.
Se SOX9 invece è spento, perché SRY e anche altri fattori non sono espressi, o in una situazione di
spegnimento di SOX9 con altri meccanismi, abbiamo il differenziamento nella gonade femminile
(ovaio). Ci sono una serie di network che garantiscono questa differenziazione femminile, perché
spengono SOX9.

Per il sesso fenotipico abbiamo visto che un


grosso contributo allo sviluppo dell’apparato
genitale maschile, sia interno che esterno, è
giocato dal testosterone, prodotto dalle cellule del
Leydig, che producono questo ormone di natura
steroidea a partire dal colesterolo, che viene
modificato da processi mitocondriali e poi prende
la via degli androgeni a livello testicolare, la cui
via più importate è la Δ5 [nomina qualche
elemento della via della formazione del
testosterone], poi la 17β-idrossisteroide
deidrogenasi di tipo 3, che nell’androstenedione
porta il doppio legame da Δ5 ad una posizione
Δ4, trasformando l’androstenedione in
testosterone.
Nelle CELLULE DEL LEYDIG abbiamo solo questo processo, mentre nella corteccia surrenalica,
che produce anche altri ormoni steroidei, abbiamo un sistema enzimatico più complesso per
produrre non sono androgeni surrenalici, ma anche cortisolo e aldosterone.

Quindi a livello testicolare abbiamo questa via biosintetica che produce diidro-testosterone, che in
realtà può essere prodotto in piccole quantità anche a livello della gonade femminile, anche
dall’androsterone, da cui deriva il testosterone o l’estrone, che possono entrambi dar vita poi
all’estradiolo (o 17β-estradiolo).

Il testosterone è un ormone steroideo, perciò i suoi recettori sono intracellulari citoplasmatici,


perciò una volta che avviene l’interazione ligando-recettore, c’è uno shutting fino al nucleo e va a
regolare la trascrizione genica.
Questo recettore può essere attivato sia dal testosterone, che dal diidro-testosterone; il testicolo
produce il testosterone, questo diffonde attraverso la membrana cellulare e può agire direttamente
come testosterone oppure può essere convertito in diidro-testosterone da questa 5α-reduttasi.
Il testosterone in questo modo:
- regola l’asse ipotalamo-ipofisi-gonade in feedback negativo, regolando la produzione delle
gonadotropine (LH, che agisce sulle cellule del Leydig, per stimolare la produzione del
testosterone)
- regola la spermatogenesi a livello testicolare
- a livello dello sviluppo sessuale stabilizza i dotti di Wolff (già dopo 8-9 settimane la
concentrazione di testosterone prodotta riesce a fare ciò).
Il diidrotestosterone invece, agendo sullo stesso recettore, con lo stesso meccanismo, regola:
- virilizzazione esterna (sviluppo dei genitali esterni)
- maturazione sessuale gonadica

Le CELLULE DE SERTOLI producono il fattore antimulleriano, che lega sulle cellule dei
dotti di Muller un recettore proprio e questo induce una loro regressione nel maschio.
Perciò a partire dalla gonade indifferenziata, a seconda degli stimoli prodotti dalla gonade, abbiamo
la differenziazione femminile o maschile:
- se non intervengono ormoni, il dotto di Wolff
regredisce spontaneamente, mentre il dotto di
Muller si sviluppa con formazione delle tube
di Falloppio, le salpingi, l’utero e il terzo
superiore della vagina.
- Se invece c’è l’effetto ormonale della gonade,
il dotto di Muller regredisce e il dotto di
Wolff sopravvive, andando a stimolare lo
sviluppo della componente interna
dell’apparato genitale maschile in deferente,
epididimo, vescichette seminali. Questi
stimoli in parte contribuiscono anche allo
sviluppo prostatico.
Praticamente I GENITALI ESTERNI DERIVANO DAL SENO URO-GENITALE,
eventualmente dal tubercolo mulleriano, nello stadio indifferenziato, ma:
- nel maschio, in presenza del diidrotestosterone, avremo una differenziazione del seno uro-
genitale a formare l’uretra e il pene, avremo poi la regressione dei dotti di Muller e si
formerà la prostata col suo utricolo e i suoi lobi prostatici nel maschio.
- nella femmina invece, la mancanza di
diidrotestosterone, comporterà la regressione
dei dotti di Wolff, la trasformazione dei dotti
di Muller nel terzo superiore della vagina e
nell’utero e avremo uno spontaneo sviluppo
del seno uro-genitale per formare i 2/3
restanti della vagina e la parte esterna
dell’apparato genitale femminile.
Possiamo vedere ancora meglio qui che dal seno
uro-genitale si forma questo tubercolo genitale,
questa fessura uro-genitale, queste pieghe uro-
genitali, pieghe labio-scrotali, e a seconda della
presenza di testosterone avremo un
differenziamento verso il maschio, oppure in default
verso l’apparato genitale esterno femminile.

Il TESTOSTERONE è importante durante la vita embrionale e fetale, vediamo infatti che i livelli
di testosterone durante la gravidanza (nel periodo
embrionale-fetale) sono simili a quelli dell’adulto.
In fase neonatale poi c’è ancora un picco di
testosterone per completare lo sviluppo genitale
maschile, poi il sistema si spegne fino alla
pubertà.
Nella pubertà il sistema si riaccende, per il
differenziamento e maturazione sessuale maschile,
associato all’innesto della spermatogenesi, che si
mantiene per tutta la vita, attraverso il
mantenimento dei livelli di testosterone.

Tutto IL PROCESSO È REGOLATO DALL’ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-TESTICOLO:


l’ipotalamo ha questi neuroni che producono il gnRH, che integrano diversi stimoli che provengono
dal cervello e c’è una sorta di generatore d’impulsi che stimolano la secrezione di gnRH che, in
base alla frequenza di scarica, modulerà la secrezione di LH e FSH a livello ipofisario (alta
frequenza di scarica → secrezione di FHS; bassa frequenza di scarica → secrezione di LH).

LH è una molecola molto simile al FSH, agisce sui recettori di membrana che hanno 7 domini
trans-membrana, associate a proteine G, sulle cellule del Leydig, dove stimolerà la secrezione del
testosterone.
L’FSH, agisce soprattutto a livello delle cellule del Sertoli, che hanno recettori molto simili a quelli
dell’LH, e andrà a stimolare il processo spermatogenetico.
Il testosterone, prodotto dalle cellule del Leydig, e l’Inibina B, prodotta dalle cellule del Sertoli,
determinano feedback negativo sull’asse:
agiscono sull’ipofisi e l’ipotalamo,
inibendo la sintesi di LH e FSH.
Il testosterone poi può essere trasformato
in diidtrotestosterone e in estrogeni: in
alcuni organi la produzione di estrogeni
è fondamentale, sicuramente nella
regolazione del feedback negativo e
negli effetti scheletrici del testosterone.
La conversione in 17β-estradiolo è
determinata dall’enzima aromatasi e una
sua mutazione può determinare
demineralizzazione ossea; perciò è un
ormone che viene prodotto anche nel
maschio attraverso questa
aromatizzazione, soprattutto a livello
(scheletrico?).
Nella femmina invece è l’ormone
principale.

Perciò nel maschio il testosterone e il diidrotestosterone hanno questo ruolo nello sviluppo sessuale
e delle cellule [?del leydig e de sertoli?], dello sviluppo cutaneo, dei capelli, della libido, della
funzione erettile, della spermatogenesi e nella pubertà della mineralizzazione delle ossa, dei
muscoli, del comportamento e della percezione del mondo e secrezione delle gonadotropine.

Abbiamo già detto che i recettori per gli ormoni steroidei sono a livello citoplasmatico o nucleare,
quelli per gli androgeni, in particolare, sono a livello nucleare e sono simili a quelli per i
glucocorticoidi, mineralcorticoidi e progesterone.
Il testosterone arriva, può essere trasformato ad opera del 5α-reduttasi in diidro-testosterone e lega il
recettore citoplasmatico di solito bloccato dal legame con le Hsp (heat shock proteins) e una volta
che si forma il complesso ormone-recettore, questo dimerizza, viene fosforilato, c’è uno shutting nel
nucleo e agendo nel nucleo a livello dei geni bersaglio (dove sono presenti caratteristici Androgen
Response Element), regola l’attività dei geni sessuali.

Nella femmina il processo che inizia nella pubertà è un processo diverso, in cui c’è un’integrazione
tra un ciclo a livello dell’ovaio, uno a livello dell’utero e tutto è regolato in maniera estremamente
articolata e complessa da una serie di eventi ormonali:
• nel ciclo ovarico
o durante la fase follicolare abbiamo la maturazione di una serie di follicoli,
o si forma il follicolo di Graaf
o ovulazione
o trasformazione del follicolo in corpo luteo
• nel ciclo uterino:
o durante la parte follicolare,
che inizia con la mestruazione
precedente, abbiamo uno
sfaldamento dell’endotelio,
perdendo l’endometrio, in
particolare:
▪ gli estrogeni, prodotti
in questa fase in
misura crescente,
determinano la
riproliferazione
dell’endotelio;
▪ abbiamo un picco
della produzione estrogenica a metà ciclo, che poi contribuisce al picco di
FHS e LH, che contribuiscono ad una modulazione
o Nella fase luteinica:
▪ il corpo luteo produce molto progesterone
▪ continua a produrre estrogeni
insieme permettono la transizione dell’endometrio da fase proliferativa a fase
secretiva, per l’impianto dello zigote, nel concepimento.

Abbiamo poi anche nella femmina un controllo dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio, con stesso
meccanismo del maschio:
- abbiamo un ormone gnRH,
che regola la secrezione di
FSH e LH,
- ci sono poi feedback brevi
che regolano la produzione
di FSH e LH in maniera
molto accurata; questi
agiscono sull’ovaio e
determinano, nelle varie fasi
del ciclo ovarico,
produzione di estrogeni e
progesterone, che a loro
volta hanno un effetto
sull’endometrio;
estrogeni e progesterone
hanno poi importanza nel feedback fine.
Per quanto riguarda gli estrogeni esistono dei meccanismi di feedback negativo (per la maggior
parte del ciclo ovarico), ma a metà del ciclo, questo picco di estrogeni non esercita più un effetto di
feedback negativo, ma di feedback positivo, andando a stimolare (invece di inibire) il picco di LH e
FSH a livello delle cellule gonadotrope.
Altri effetti degli estrogeni, oltre allo sviluppo degli organi genitali femminili, anche se
nell’embriogenesi, non hanno davvero un ruolo, però poi sono importanti nella pubertà per lo
sviluppo dell’apparato genitale femminile e dei caratteri secondari sessuali, nella fecondazione, sul
metabolismo osseo, sul metabolismo epatico e sul rallentamento dell’aterosclerosi.

Qui abbiamo un summary di tutto quello che abbiamo detto, sarebbe anche bastata, ma mi piaceva
approfondire un po’ di più l’argomento.
Qui ci sono i momenti chiave dello sviluppo sessuale:
- sesso cromosomico, l’effetto del cariotipo (46 XX o XY) nel maschio e nella femmina,
presente fin dal principio
- sesso gonadico, dipende dall’influenza sulla gonade bipotente dei fattori di trascrizione
SRY e SOX9 che, quando attivati determinano un sviluppo di tipo maschile della gonade,
atri fattori determinano lo sviluppo verso l’ovaio (generalmente l’assenza del SOX9).
- Sesso fenotipico, che nella femmina è un processo in default: in assenza di stimolo abbiamo
una regressione dei dotti di Wolff e una stimolazione dello sviluppo dei dotti di Muller in
tube di Falloppio, salpingi, utero e 3° superiore della vagina e differenziamento del seno
uro-genitale in genitali esterni di tipo femminile.
Nel maschio invece tutto è più complicato, intervengono molti fattori, tra cui il fattore
antimulleriano, che determina la degenerazione dei dotti di Muller e la produzione
androgenica, che porta alla stimolazione dei dotti di Wolff, con lo sviluppo delle vie genitali
interne e il diidrotestosterone, che deriva dal testosterone grazie alla 5α-reduttasi, che va a
stimolare il differenziamento del seno uro-genitale, verso i genitali esterni maschili.

DISTURBI DEL DIFFERENZIAMENTO SESSUALE

Possiamo avere disturbi del differenziamento sessuale che possono dipendere da mutazioni nei
cromosomi, o in soggetti che hanno cariotipo perfettamente normale (femmine 46 XX e maschi 46
XY).
Cosa può determinare difetti di differenziamento nello sviluppo gonadico maschile:
- disordini nello sviluppo testicolare: disgenesie gonadiche o complete, per difetti dei fattori
di trascrizione della transizione della gonade bipotente in testicolo.
- formazione di un ovotestis
- regressione testicolare
Per quanto riguarda lo sviluppo fenotipico, questo è correlato con la secrezione o la ricezione
androgenica, fino all’insensibilità agli androgeni.

Nella femmina possiamo avere difetti dello sviluppo gonadico femminile per:
- difetti dello sviluppo ovarico: disegenesie gonadiche
- formazione di ovotestis
- sovvertimento della transizione della gonade bipolare, con formazione di testicoli, per
mutazioni a livello dei fattori che la regolano.
Difetti dello sviluppo fenotipico possono invece essere determinati dall’eccessiva secrezione degli
androgeni, a livello fetale per condizioni placentari o materne.
ERMAFRODITISMO: situazione di transizione tra soggetto perfettamente maschio o femmina,
per la coesistenza di tessuto testicolare e ovarico.
Possono derivare da chimerismi nel cariotipo:
- 45 X con 46 XY, con disgenesia gonadica mista (da una parte c’è un ovaio primordiale, da
una parte c’è un testicolo normale)
- 46 XX con 46 XY (chimerismo vero e proprio).
Talvolta non si determina ermafroditismo, ma un apparato genitale che non è perfettamente né
maschile né femminile:
- 47 XXY, la nota sindrome di Klinefelter
- 45 X0, con le sue varianti, della sindrome di Turner
Oppure ci possono essere situazioni di franco ermafroditismo, con coesistenza dei due tessuti
gonadici.
Questo per quanto riguarda difetti cromosomici.

Per quanto riguarda invece i disturbi dello sviluppo della gonade possiamo avere soggetti con
cariotipo normale, ma con OVOTESTIS (coesistenza tra tessuto ovarico femminile e maschile),
determinando una anomala produzione di testosterone e fattore antimulleriano nello sviluppo
gonadico, estrogeni e androgeni nella pubertà.

Invece, nel caso di alterazioni della sintesi o azione androgenica nel maschio, o di eccesso di sintesi
nella femmina, si può determinare un quadro sessuale intermedio in cui non parliamo di
ermafroditismo, ma di PSEUDOERMAFRODITISMO: qui la gonade è normale e rispetta il
corredo cromosomico, ma manca una corretta esposizione ormonale (eccesso androgenico
femminile o deficit androgenico maschile).

Il sesso cromosomico può essere interessato da diverse alterazioni del cariotipo:


- Sindrome di Klinefelter (47 XXY) e
sue varianti: i testicoli ci sono, ma sono
ialinizzati perché c’è disgenesia
gonadica, perciò la ghiandola non può
funzionare bene. Spesso hanno le cellule
del Leydig che producono un po’ di
testosterone, ma non hanno
spermatogenesi, non hanno utero.
- Sindrome di Turner (45 X0), c’è solo
cromosoma X o alterato il secondo
cromosoma. Hanno dei genitali
nastriformi, che determinano donne non
fertili per compromissione della
gametogenesi, anche
in presenza di utero.

- La disgenesia gonadica mista (45 X + 46 XY) e sue varianti:


possiamo avere un testicolo e un ovaio disgenetico, i genitali interni
sono variabili, perché dipendono dal testosterone e l’ormone
antimulleriano prodotto. Sono soggetti di bassa statura che ricordano
la sindrome di Turner.
- Chimerismo: coesistenza di 46 XY e 46 XX, possono determinare o testicolo e ovaio o
ovotestis. Abbiamo variabilità, sono soggetti a rischio di tumore.

Questo è un cariotipo un soggetto con la sindrome di Klinefelter con due cromosomi X e uno Y (o
XXXY, XXYY…).
Sapete come si fa un cariotipo? Si studiano cellule del sangue, globuli bianchi, che, in metafase,
ovvero quando i cromosomi sono più espressi, vengono colorati i cromosomi, poi si fa una foto del
nucleo, poi si ritagliano le fotografie dei vari cromosomi e poi vengono distinti in base alle
bandeggiature, per vedere se ci sono difetti grossolani a livello cromosomico.

Ci sono quadri clinici tipici, tra cui possiamo vedere ipogonadismi ipergonadotropi, in cui già nel
periodo fetale si possono notare alterazioni dello sviluppo dei genitali esterni, dovute alla mancanza
di testosterone, mentre per le femmine la carenza di estrogeni si evidenzia nella pubertà, poiché
determina mancanza della maturazione.

Questo è un paziente con chimerismo, con 45 X + 46 XY, con testicoli e apparato genitale esterno
femminile.
Oppure nel caso dell’ovotestis, abbiamo ovai e tubuli seminiferi, quindi coesistenza dei tessuti
femminili e maschili.
Sbob: Davide Giorgi
Rev: Costanza Ercolani
21 Marzo-seconda ora

Proseguiamo ora parlando del caso in cui un maschio avente cariotipo normale 46 XY,
presenti un disordine nello sviluppo del sesso gonadico.
Tale quadro può derivare da varie situazioni, spesso sinergiche fra loro, come ad esempio una
perdita dei geni SRY e SOX9 che può causare disgenesia gonadica (mancato sviluppo del
testicolo), se il difetto è completo, o una condizione chiamata ovotestis , in cui abbiamo un
parziale sviluppo testicolare e un parziale sviluppo ovarico, se il difetto è incompleto.
Altra conseguenza può essere la formazione del testicolo, seguita poi da una sua regressione
causata dalla mancanza di importanti fattori di trascrizione per il suo sviluppo.

Entrambi i geni possono però subire anche delle mutazioni che inducono manifestazioni
intermedie con nel caso dell’ermafroditismo.
Riprendendo il concetto del disturbo del differenziamento sessuale in maschi con cariotipo
normale, abbiamo poi il caso in cui il problema sia a livello fenotipico, con
pseudoermafroditismi dovuti ad un’alterata produzione androgenica.
A tal proposito affronteremo solo il caso dell’alterata produzione androgenica dovuta ad un
deficit dell’enzima 5α-reduttasi di tipo 2, che causa nel maschio un alterato sviluppo dei
genitali esterni.
Il testosterone viene prodotto normalmente ed agisce normalmente ma a causa del deficit
enzimatico non avviene la sua conversione in diidrossitestosterone che porta alla mancata
virilizzazione esterna e la mancata maturazione sessuale durante la pubertà.

Quindi le caratteristiche fondamentali di tal deficit enzimatico sono:


• Cariotipo: 46,XY
• Ereditarietà: autosomica recessiva (mutazione SRD5A2)
• Genitali: ambigui con fallo piccolo ipospadico (uretra terminante in maniera
anomala), vagina a fondo cieco
• Derivati dei dotti di Wolff: normali
• Derivati dei dotti di Mueller: assenti (testicolo produce normalmente il fattore
antimulleriano)
• Gonadi: testicoli normali
• Habitus: Riduzione dei peli al volto e al corpo; mancata recessione temporale dei
capelli; prostata non palpabile
• Profilo ormonale: incremento rapporto T/DHT; LH modestamente elevato
• Ginecomastia: assente

Altro esempio di pseudoermafroditismo è fornito dalla sindrome da insensibilità agli


androgeni, che dipende da alterazioni a livello del recettore: un’alterazione completa
(forma completa di insensibilità agli androgeni) porta alla femminizzazione testicolare
completa mentre alterazioni parziali portano per l’appunto a casi più e mono gravi di
ermafroditismo (genitali ambigui).
Il gene codificante per il recettore degli androgeni si trova nel braccio lungo del
cromosoma X in posizione q11-12 e una mutazione che ne provochi una totale alterazione
provocherà una mancata azione degli androgeni, che causerà la mancata azione sui dotti si
Wolf e una alterazione della formazione dei genitali esterni.
Quindi le caratteristiche fondamentali dell’insensibilità agli androgeni completa sono:
• Cariotipo: 46,XY
• Ereditarietà: X-linked recessiva (mutazione AR), trasmissione materna
• Genitali: femminili con vagina a fondo cieco ( no utero, no tube di Falloppio)
• Derivati dei dotti di Wolff: spesso presenti (dipendenza dal tipo di mutazione)
• Derivati dei dotti di Mueller: assenti o vestigiali
• Gonadi: testicoli (intra-addominali)
• Habitus: assenza o riduzione peli pubici e ascellari; sviluppo della mammella e di
habitus femminile alla pubertà; amenorrea primaria
• Profilo ormonale: livelli elevati di testosterone e LH; livelli elevati (per il maschio)
di estradiolo; FSH normale o lievemente elevato

Invece nella forma parziale sono:


• Cariotipo: 46,XY
• Ereditarietà: X-linked recessiva (mutazione AR)
• Genitali: ambigui con vagina a fondo cieco → sottomascolinizzati → ipospadia
isolata → uomo normale con infertilità
• Derivati dei dotti di Wolff: spesso normali
• Derivati dei dotti di Mueller: assenti
• Gonadi: testicoli (intra-addominali)
• Habitus: peli pubici e ascellari, crescita della barba e peli corporei da ridotti a
normali; sviluppo di ginecomastia alla pubertà
• Profilo ormonale: livelli elevati di testosterone e LH (mancato feedback negativo);
livelli elevati (per il maschio) di estradiolo; FSH normale o lievemente elevato

Anche nella femmina con cariotipo normale 46XX, possono verificarsi disordini dello
sviluppo ovarico come disgenesia gonadica completa o mutazioni che vadano a attivare
geni quali SRY o SOX9.
Tali mutazioni possono portare a condizioni di mancata formazione di ovaio, formazione
ovotestis o se producono attivazioni marcate dei due geni possono portare persino alla
formazione del testicolo nonostante il cariotipo femminile.
Una mutazione di questo tipo può avvenire ad esempio durante processi meiotici a livello
paterno, dove una traslocazione del gene SRY dal cromosoma Y al cromosoma X può
portare alla presenza del gene e ad una sua attivazione all’interno del genoma di una
femmina con cariotipo 46 XX.

Può però accadere anche il contrario, ovvero l’assenza del gene SRY all’interno del
genoma di un maschio 46 XY.

SINDROMI ADRENOGENITALI CONGENITE


Le sindromi adrenogenitali congenite sono dovute a deficit enzimatici a livello della
steroidogenesi surrenalica.
Nella diapositiva sono rappresentate le tre principali vie biosintetiche surrenaliche,
ovvero quelle che portano alla sintesi di mineralcorticoidi (zona glomerulare),
glucocorticoidi (zona fascicolata) e androgeni (zona reticolata).
Le sindromi adrenogenitali congenite sono generalmente ereditabili, attraverso
un’ereditarietà di tipo autosomico recessivo e spesso portano alla mancata produzione di
cortisolo.
La mancata produzione di tale ormone porta a un mancato feedback che induce una
attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-corteccia surrenalica ad opera dell’ACTH.
L’ACTH compensatorio in eccesso stimola la sintesi di glucocorticoidi e androgeni, ma
anche la proliferazione delle cellule surrenaliche portando ad una iperplasia surrenalica
(infatti ci sono casi in cui “iperplasia surrenalica congenita” è sinonimo di “sindromi
adrenogenitali congenite).
La diapositiva mostra i principali enzimi convolti all’interno delle vie metaboliche
surrenaliche, evidenziando il fatto che spesso un enzima partecipa a più vie, ciò comporta
quindi che un suo deficit può alterare più vie biosintetiche.
Per quanto riguarda la via biosintetica del cortisolo abbiamo ben cinque enzimi che
portano il colesterolo a divenire cortisolo e che possono essere coinvolti in una sindrome
adrenosurrenalica congenita.
Sono inclusi nelle sindromi adrenosurrenaliche congenite anche i deficit di due enzimi
coinvolti nella via biosintetica dell’aldosterone, P450c11-CMO I e P450c11-CMO II ma
con quadri diversi.

DEFICIT DELLA 21-IDROSSILASI

L’enzima 21-idrossilasi è coinvolto sia nella via dei mineralcorticoidi, sia nella via dei
glucocorticoidi, in particolare trasforma il 17-OH-Progesterone in 11-Deossicortisolo.
Il suo deficit porta ad un difetto della sintesi di cortisolo e aldosterone, e ad una
deviazione dei substrati verso la via biosintetica degli estrogeni.
Tale deficit è il più comune all’interno delle sindromi adrenogenitali congenite (95%) e si
presenta in due forme, una classica, più grave e una non classica.
Nelle forme classiche più gravi il difetto enzimatico è completo e ciò porta ad una
virilizzazione, chiaramente nelle femmine, e una perdita di sali; mentre nelle forme
classiche meno gravi abbiamo solo la virilizzazione.
Il quadro clinico delle forme meno gravi quindi presenta ipovolemia, ipotensione, (dovute
alla perdita di sali nei casi più gravi) pseudoermafroditismo femminile e precocità
sessuale nel maschio.
Le forme non classiche invece presentano un quadro più lieve e ad insorgenza tardiva,
essendo il deficit non completo, in cui possiamo avere in entrambi i sessi pseudopubertà
precoce.
La pubertà è il periodo in cui avviene la maturazione sessuale dell’individuo, scatenata
dal rilascio di LH e FSH che attivano varie vie ormonali; nella femmina avviene tra gli 8
e i 13 anni mentre nel maschio tra i 9 e i 14 anni.
Si parla di pubertà precoce vera se questa è caratterizzata dal rilascio anticipato di
gonadotropine (FSH e LH) dovuto ad esempio ad un tumore ipofisario; parliamo invece
di pseudo pubertà precoce quando non si ha un rilascio di gonadotropine ma bensì
un’anomala produzione di androgeni come nel caso del deficit della 21-idrossilasi.Nei
maschi avremo una crescita anticipata e abbondante della peluria ascellare e pubica,
crescita anticipata del pene e raggrinzimento scrotale, nella femmina invece, avremmo
irsutismo e alterazioni mestruali.
Tali sintomi nella femmina possono portare a confondimento con un caso di ovaio
policistico; infatti per la diagnosi di quest’ultimo, oltre a riscontrare cisti ovariche bisogna
prima escludere una sindrome adrenosurrenalica o una malattia di Cushing.

DEFICIT DELLA 11β-IDROSSILASI

Il deficit della 11β-idrossilasi si ha nel 5% delle sindromi adrenosurrenaliche congenite e


porta una mancata produzione di cortisolo e aldosterone ma ad un accumulo di DOC e ad
un aumento di androgeni.
Il DOC è un metabolita ad elevata attività mineralcorticoide e determina nelle forme
classiche ipertensione che si accompagna a virilizzazione femminile o precocità sessuale
maschile e in entrambi i sessi ad una pseudopubertà precoce legata all’eccesso di
androgeni.
Nelle forme non classiche abbiamo solo un iperandrogenismo, che nella femmina
potrebbe di nuovo confondersi con un ovaio policistico.
DEFICIT DELLA 17α-IDROSSILASI

Il deficit della 17α-idrossilasi porta ad una mancata produzione di cortisolo e di


androgeni, correlata anche alla produzione di estrogeni e quindi il problema non sarà solo
surrenalico ma anche gonadico.
I metaboliti saranno quindi deviati nella via biosintetica dei mineralcorticoidi con una
aumentata sintesi di aldosterone.
Nella femmina tale deficit porta ad amenorrea primaria dovuta alla carenza estrogenica e
ad una mancata maturazione sessuale.
Nel maschio invece abbiamo conseguenze più gravi, in primis uno pseudoermafroditismo
maschile, con malformazioni a livello dell’apparato riproduttore.
In entrambi i sessi si ha inoltre ipertensione dovuta all’eccessiva produzione di mineral
corticoidi.
DEFICIT DELLA 3β-OH-STEROIDO-DEIDROGENASI

Si tratta di un deficit raro, che porta ad un deficit di cortisolo e dei mineralcorticoidi e


all’aumento del DHEA, ovvero un androgeno debole: nella femmina l’eccesso di tale
ormone porta ad una lieve virilizzazione, nel maschio, mancando il testosterone avremo
un ipogenitalismo.
In entrambi i sessi venendo a mancare i mineralcorticoidi avremo anche la perdita di sali.
DEFICIT DELLA 20,22-DESMOLASI

Il deficit della 20,22-desmolasi è il deficit con le conseguenze più gravi, poiché vengono
a mancare cortisolo, mineralcorticoidi e androgeni, caratterizzando quello che è un
quadro di iposurrenalismo grave.

APPROFONDIMENTO SUL DEFICIT DELLA 21-IDROSSILASI


− Epidemiologia:

• Segni:
− Neonati con ambiguità dei genitali (soggetti 46,XX con
− pseudoermafroditismo femminile)
− Neonati con perdita di sali, ipotensione e ipoglicemia
− Più tardi nell’infanzia in presenza di pseudopubertà precoce
− Dopo la pubertà in femmine con fenotipo simil-PCOS
Caso Clinico: Massimiliano, un uomo di 40 anni, nasce con un’ambiguità dei genitali e
con ipospadia ma viene assegnato comunque al genere maschile da neonatologo.
All’età di 18 mesi, viene portato all’ospedale Bambin Gesù di Roma da i genitori,
preoccupati per l’ambiguità genitale del figlio.
Qui viene effettuato il cariotipo che evidenzia il fatto che in realtà il bambino sia una
femmina 46XX e viene consigliato ai genitori di intraprendere un percorso chirurgico
correttivo e successiva riassegnazione al sesso femminile.
Tale opzione però viene respinta dai genitori, intimoriti dal fatto di poter mettere in
imbarazzo il figlio, ormai presentato al piccolo paese come Massimiliano.
Quindi viene presa la decisione di non riassegnare Massimiliano al genere femminile ma
di seguire una terapia cortisonica per bloccare quella che sarebbe stata una pseudopubertà
precoce.
Successivamente con l’arrivo della pubertà Massimiliano ha dovuto iniziare una terapia
con testosterone e intraprendere un percorso chirurgico per rimodellare i genitali,
asportare le ovaie e creare una sacca scrotale con protesi.
Oggi Massimiliano è sposato e ha adottato una figlia.

• Diagnosi di deficit della 21-idrossilasi:


La diagnosi prevede la ricerca del metabolita 17-idrossi-progesterone, che tenderà ad
accumularsi, essendo la via biosintetica a valle bloccata. (si trovano anche livelli alti di
delta-4-androstenedione)
L’esame Gold Standard però per la diagnosi di tale deficit si basa sulla somministrazione
in bolo endovenosa di 0,25 mg di ACTH o del Synacthen (versione sintetica dell’ACTH).
Dopo di che si misura la concentrazione sierica di 17-idrossi-progesterone a 0, 30 e 60
min; nel caso ci sia un blocco della via enzimatica, in seguito alla forte stimolazione
dell’ACTH riscontreremo elevate concentrazioni del metabolita.
Il test al Synacthen viene effettuato in tutti i casi si riscontri una concentrazione basale di
17-idrossi-progesterone più alta di 2 nanogrammi/mL.
Se il risultato del test supera i 9 nanogrammi/mL allora il paziente presenterà una
condizione di omozigosi, mentre se il risultato sarà compreso tra i 3,5 e i 9
nanogrammi/mL allora presenterà una condizione di eterozigosi.

Grafico che correla i valori basali con i valori stimolati: nelle forme classiche abbiamo
valori altissimi di 17-idrossi-progesterone già in condizioni basali; nelle forme di
eterozigosi valori intermedi.
Una volta effettuato il test biochimico possiamo avere ulteriore conferma effettuando test
genetici, come l’analisi dei RFLP (polimorfismi della lunghezza dei frammenti ottenuti da
digestione con enzimi di restrizione), marcatura con oligonucleotidi allele-specifici PCR,
ligasi reaction o sequenziamento diretto del gene CYP21A2.
Tali test sono utili per la diagnosi ma soprattutto per rilevare eventuali portatori sani di
allele mutato e per la diagnosi prenatale.
Nel caso in cui un embrione risulti affetto dalla patologia, si può trattare la madre con
desametasone per bloccare nel feto l’aumento di ACTH e androgeni.

• Correlazione genotipo/fenotipo:
In base al livello di deficit enzimatico (21-idrossilasi) avremo delle conseguenze più o
meno gravi: in caso il deficit sia completo avremo sia perdita di sali sia virilizzazione, se
abbiamo un deficit parziale avremo solo la virilizzazione, se il deficit è lieve avremo
invece le forme non classiche e meno gravi.
• Principi di terapia:
-Glucocorticoidi per sostituire deficit cortisolo e sopprimere asse ipofisi-surrene
(bloccare produzione androgenica e iperplasia surrenalica), idrocortisone o
desametasone
-Mineralcorticoidi per sostituire deficit di aldosterone con Fludrocortisone. Questo nelle
forme classiche e non classiche più gravi (come pseudopubertà precoce).
-Estro-progestinici e anti-androgeni per coreggere amenorrea/oligomenorrea e irsutismo
nelle forme late-onset dove non è opportuno terapia steroidea, con Pillola o Ciproterone
acetato o spironolattone. (Nelle forme non classiche meno gravi nelle femmine)
-Glucocorticoidi nella donna gravida con feto femmina affetto da deficit di 21-idrossilasi,
con Desametasone (non inattivato a livello placentare).
SBOB.: PIETRO ARMADI
REV.: ALESSIO COLANTUONO
26/03/2019- 1°ora

Passiamo ora ad analizzare le complicanze croniche legate ad una condizione di iperglicemia


anch’essa cronica. Avevamo visto la scorsa volta che la mortalità del diabete è da attribuirsi quasi
esclusivamente alla patologia cardiovascolare. Una condizione quindi di diabete non controllato nel
tempo può portare ad un danno cronico ai vasi del microcircolo. Le complicanze di maggior rilievo
sono riassunte nell’immagine seguente:

 la retinopatia diabetica;

 La nefropatia diabetica:

 La neuropatia diabetica.

La retinopatia è una complicanza piuttosto comune. La scorsa volta si è detto che pazienti con
diabete di tipo 2, che erano ignari della loro condizione di iperglicemia risalente a mesi, addirittura
anni prima del momento della diagnosi certa di diabete avevano già sviluppato questa complicanza.
La gravità della retinopatia può essere variabile; modelli di studio epidemiologici riportano la
retinopatia diabetica come la prima causa di cecità nel nostro paese in soggetti in età lavorativa
(quindi giovani), oppure causa di un danno che determina un ipovisione grave. La retinopatia
diabetica si divide sostanzialmente in due categorie: quella non proliferante e quella proliferante.

Quella non proliferante si divide a sua volta


in lieve, moderata e grave. I danni più gravi
consistono nella formazione dell’edema
maculare che è responsabile dell’ipovisione in
questi soggetti affetti e la maculopatia
trazionale che culmina nel distacco di retina.
Per approfondire, la forma non proliferante si
caratterizza per il fatto che si formano delle
piccole lesioni a carico dei piccoli vasi, quindi
emorragie e dei microaneurismi che
interessano le pareti sempre dei piccoli vasi.

Questi sono gli aspetti salienti che caratterizzano la forma non proliferante, per cui quando si va a
valutare il fondo dell’occhio queste alterazioni dei piccoli vasi della retina sono piuttosto tipiche della
retinopatia diabetica. Il medico oculista sulla base di queste evidenze cliniche riesce a fare diagnosi
differenziale rispetto magari ad una retinopatia ipertensiva, anch’essa altrettanto frequente, i cui
danni però sono differenti. L’oculista è in grado quindi di differenziare semplicemente guardando i
vasi della retina. Quindi si formano degli aneurismi, delle piccole emorragie e delle zone di ischemia,
in parte si formano anche degli essudati e a questo punto l’oculista valuta se è il caso di intervenire
per limitare la progressione di questi danni vasali. Generalmente con la terapia laser è possibile agire
per limitare l’estensione di queste anomalie. Tuttavia è fondamentale mantenere un buon controllo
nel tempo di questa condizione patologica a carico della retina perché se ciò non avviene il danno
retinico tende a progredire e si passa alla forma più grave che è quella proliferante. I vasi lesionati
vanno incontro con meccanismi vari a fenomeni di neoangiogenesi; questi piccoli nuovi vasi hanno
l’obiettivo di vascolarizzare le zone precedentemente danneggiate, tuttavia sono molto fragili e
delicati e vanno incontro comunque a rottura. Ciò può portare alla deposizione di tessuto fibroso con
le varie conseguenze del caso fino al distacco di retina. Avremo retrazione del corpo vitreo, distacco
della retina e quindi grave danno visivo. L’obiettivo è quello di prevenire queste forme proliferanti
sia dal punto di vista strettamente oculistico e quindi non giungere allo stadio non proliferante della
patologia retinica diabetica sia dal punto di vista del diabetologo che ha invece il compito di tenere il
soggetto in buon controllo glicemico nel tempo che è l’unico modo per evitare la progressione della
malattia e ovviamente prevenire l’insorgenza della malattia in chi ancora non è stato affetto. In difesa
di questa tesi è importante lo screening che deve essere fatto alla diagnosi in soggetti con diabete di
tipo 2, poiché, secondo quanto detto prima, sono soggetti che potrebbero avere già una complicanza
del genere. Per quanto riguarda il diabete di tipo 1 non è necessaria una valutazione iniziale poiché
la complicanza si manifesta in maniera piuttosto rapida.

Questo ivi illustrato è uno studio storico per


quanto riguarda la terapia del diabete di tipo 1
in particolare ed in parte per il buon controllo
glicemico che influisce sullo sviluppo delle
complicanze microvascolari. Questo studio fu
iniziato negli anni ’80, cui poi è seguito un
follow-up (EDIC): i pazienti inizialmente
venivano trattati in maniera intensiva con
l’obiettivo di portare l’emoglobina glicata
(parametro che ci permette di valutare il
conrollo glicemico) al 7/7,2% che è
considerato generalmente un buon controllo
glicemico. Nel braccio convenzionale l’Hb
glicata era di quasi 8,7/8,8 %. Il confronto era
stato fatto per stabilire se effettivamente il
buon controllo glicemico era in grado di limitare la progressione o di prevenire le complicanze perché
negli anni ’80 c’erano ancora pochi studi (e su una popolazione limitata) sul corretto controllo del
diabete. Dal grafico si evince che i pazienti che hanno avuto un controllo glicemico più stretto (curva
arancione) hanno una ridotta progressione delle complicanze diabetiche anche nel corso di anni
distanti da quelli di follow-up (20,30 anni di distanza dallo studio originario).

LA NEFROPATIA DIABETICA
Molto brevemente lo stesso vale anche per la
funzione renale, da cui la nefropatia diabetica
che altro non è che la complicanza del diabete
a carico del rene. Da qui si può vedere che il
primo segno di alterazione renale in
associazione con l’iperglicemia è la
microalbuminuria. Al di sotto di 30 mg/g per
quanto riguarda l’albuminuria generalmente
non vi è alterazione renale. Dal grafico si può
anche notare la funzione renale in relazione al
filtrato. In associazione all’entità della micro e
macroalbuminuria avremo un’alterazione
renale dovuta al diabete. In quest’ordine di idee la microalbuminuria indica un parametro di screening
in questi pazienti. Quindi quando si fa la diagnosi oltre a valutare la presenza di retinopatia ed
eventualmente quantificare il danno retinico si va a valutare anche la microalbuminuria. Se presente
bisogna tenere sempre in considerazione il controllo glicemico; ci sono di contro anche dei farmaci
che possono aiutare a limitare la progressione della patologia, come gli ACE-inibitori. Il medico deve
tuttavia porre gran parte della sua attenzione al momento della diagnosi ai parametri di screening per
quanto riguarda l’albuminuria, e di rivalutare questi indicatori della patologia diabetica renale a
distanza di 3/4 mesi in maniera tale da monitorare con costanza l’eventuale progredire della patologia
diabetica renale.

Questa diapositiva mette in luce un aspetto


importante nella patologia diabetica renale.
Infatti la microalbuminuria in relazione
anche alla ridotta funzione renale che in
questi pazienti con iperglicemia cronica si
può verificare, si associa ad una aumentato
rischio di eventi cardiovascolari. Quindi
non è solo la funzione renale che si riduce
nel tempo (peggioramento della perdita di
albumina) ma aumenta la probabilità che si
verifichino eventi cardiovascolari.

Dal Registro Italiano di Dialisi e Trapianto risulta che tra le varie cause primarie di insufficienza
renale terminale (ESRD, End Stage Renal Disease) incidente in Italia, il diabete ne rappresenta la
terza causa (quindi di dialisi). Queste complicanze legate al diabete provocano dei danni molto
importanti, che vanno dalla ipovisione, cecità ecc.. all’insufficienza renale cronica e dialisi e poi come
vedremo alla neuropatia.

LA NEUROPATIA DIABETICA
È una complicanza gravata da esiti molti importanti. Molte di queste forme di neuropatia si
manifestano con dolore, il quale risulta non facile da trattare anche perché non c’è una terapia
specifica per la neuropatia; si fa di solito ricorso ad antidolorifici generici o che vengono impiegati
in neurologia in altri tipi di condizioni. Il dolore ha un grande impatto poi sulla qualità di vita
(aspetto molto importante) e ciò vale sia per il diabete di tipo 1 che per quello di tipo 2. Ovviamente
queste complicanze possono determinare una disabilità, deficit e le ulcere.
Il piede diabetico è un piede neuropatico (non vascolare), principalmente; può esserci il danno
vascolare e normalmente c’è però in primis il piede diabetico si manifesta perché di fondo c’è una
neuropatia. Questa neuropatia si può manifestare con delle ulcere, soprattutto nelle aree di maggior
pressione del piede, queste ulcere possono poi infettarsi. Queste infezioni sono difficili da trattare,
richiedono terapia antibiotica a lungo termine e possono poi aggravarsi e raggiungere i tessuti più
profondi fino all’osso e provocare le osteomieliti. Si possono presentare anche altre alterazioni
come il piede di Charcot, che si caratterizza per un’alterazione dell’anatomia del piede con
frammentazioni ossee e perdita dei normali rapporti articolari, da cui poi si procede con
l’amputazione (atto molto disabilitante per il paziente). Alle nostre latitudini la neuropatia diabetica,
la vasculopatia rappresentano le cause principali di infezioni ed ulcere, seguite poi da quelle
traumatiche.

Come si classificano le neuropatie diabetiche?


 Polineuropatia distale simmetrica: si tratta di un interessamento di più nervi (per questo è
chiamata polineuropatia) a carico generalmente degli arti superiori e inferiori. E’ per lo più
sensitiva e motoria, ma può essere anche autonomica e mista. Il dolore deriva
dall’interessamento delle fibre sensitive cui si aggiunge di solito un’ipotrofia dei muscoli
per interessamento delle fibre motorie.
 Neuropatia prossimale simmetrica;
 Neuropatia asimmetrica: craniale (possono essere interessati i nervi cranici con disturbi
della visione, strabismo ecc..), truncale, mononeuropatie, oppure neuropatie da
intrappolamento come il caso del tunnel carpale;
 Neuropatia asimmetrica e polineuropatia distale simmetrica.

I sintomi sono molto vari. E’ ovvio che il dolore rappresenta per il paziente l’aspetto più grave e
soprattutto disabilitante e può essere di tipo lancinante, urente, costante… Si possono avere disturbi
della sensibilità come le parestesie (disturbi della sensibilità, sensazione di scosse elettriche),
bruciore, anestesia tattile, come il caso di alcuni pazienti che si sono bruciati i piedi vicino al
camino o con l’acqua calda perché non avevano sentito alcun dolore.
C’è anche una riduzione dei riflessi osteno-tendinei, ipostenia.
Segni e sintomi sono riassunti nella tabella sottostante.
Poi c’è la neuropatia autonomica che, nonostante rappresenti un aspetto meno comune rispetto
agli altri, ha poi dei risvolti altrettanto gravi e può manifestarsi con una sintomatologia differente in
relazione all’organo principalmente interessato. Ad esempio il cuore con alterazione della frequenza
cardiaca, il tratto gastro-intestinale con diarrea cronica (notevole influenza sulla qualità di vita e nei
rapporti con le altre persone), ipotensione ortostatica (riduzione della pressione sistolica di 15-20
mmHg) con vertigini, sensazione di svenimento.

Oltre all’ipotensione ortostatica abbiamo la


perdita del ritmo circadiano della pressione
arteriosa e della frequenza cardiaca; spesso
questi soggetti sono tachicardici, ovvero in
condizioni basali hanno un’esaltazione del
tono adrenergico a scapito di quello vagale.
Le situazioni che si possono presentare in
caso di neuropatia autonomica diabetica
sono molteplici, tra queste annoveriamo
l’ischemia miocardica silente. L’infarto del
miocardio in queste persone si può
manifestare senza dolore oppure con un
dolore atipico al quale non si è soliti prestare
particolare attenzione in caso di eventuale
sindrome ischemica acuta. Questa tipologia
di ischemia è piuttosto fuorviante poiché
generalmente il soggetto che si reca al pronto soccorso per un’ischemia miocardia comune lamenta
un intenso dolore toracico. Queste persone non avvertendo dolore non si attivano e quindi la
diagnosi può essere incerta oppure non viene eseguita in tempo utile per poter applicare la corretta
terapia. Per l’infarto infatti esiste un certo iter terapeutico che deve essere eseguito subito nel giro di
trenta minuti - massimo un’ora - per avere poi dei risultati ottimali per quanto riguarda la prognosi.
E’ chiaro che se uno ritarda perché non avverte dolore il quadro si può aggravare.
Poi abbiamo l’allungamento dell’intervallo QT, che è considerato un fattore di rischio per le
aritmie in generale, indipendentemente dal diabete, soprattutto di aritmie ventricolari, extrasistoli.
La gastroparesi costituisce un risvolto importante della neuropatia autonomica diabetica, anche per
quanto riguarda l’ambito terapeutico. Una complicanza di tale natura in una persona è difficile da
accertare perché bisognerebbe fare una scintigrafia ad hoc, che non è la prassi che di solito si segue.
Tuttavia un dato che potrebbe far pensare ad una gastroparesi è indicato dal fatto che il soggetto
dopo aver mangiato ha una digestione piuttosto lenta. Se pensate a pazienti sottoposti a terapia con
insulina, se si somministra insulina prima del pasto può succedere che hanno ipoglicemia subito
dopo il pranzo che generalmente non si verifica in soggetti diabetici, che non hanno la complicanza
della gastroparesi. In soggetti con questa complicanza la digestione ed il successivo assorbimento
dei carboidrati è rallentato per cui si avrà un picco di insulinemia che è stata somministrata a cui
non si associa un picco di carboidrati e quindi è probabile un rischio di ipoglicemia a distanza di
un’ora/ un’ora e mezzo dal pasto. Allora in questi soggetti bisogna organizzare il timing di
somministrazione dell’insulina, semmai posticiparlo al termine del pasto quando già cominciano ad
essere assorbiti e introdotti nel torrente ematico i carboidrati. In altri soggetti la motilità gastrica
può essere esalata con alterazione del tono degli sfinteri e quindi si avrà diarrea cronica con le varie
conseguenze: disidratazione, perdita di elettroliti, ipotensione. La diagnosi generalmente è clinica
ed inoltre per la forma autonomica ci sono dei test specifici (si valuta la frequenza cardiaca, risposta
al cambiamento di posizione da supina ad ortostatica…).

Nell’immagine accanto è illustrata un’ulcera di un


paziente diabetico. Le ulcere si verificano di solito nelle
zone dove è maggiore la pressione esercitata; il soggetto
non avverte il dolore, non avverte la ferita per cui poi essa
inizia ad infettarsi e c’è il rischio che questa infezione si
approfondisca nei tessuti molli e poi alle ossa
(osteomielite). I quadri possono essere estremamente
gravi e può alterarsi quella che è l’anatomia del piede.

Nel caso del piede di Charcot invece l’articolazione delle ossa del piede si disarticola e si riduce anche
l’arco plantare e il soggetto è esposto ad ulteriori danni e traumi, per cui è necessario fare particolare
attenzione alle calzature.
Il piede diabetico è sempre suscettibile in futuro di ulteriori danni di tipo infettivo; spesso il
percorso patologico origina da una piccola lesione che viene curata e poi recidiva, ritorna nella
stessa sede o in un’altra, progredisce, si cura, ritorna e poi dopo anni si rende necessaria
l’amputazione della gamba.

TERAPIA DEL DIABETE MELLITO DI TIPO 2

Ci occuperemo prevalentemente della terapia del diabete di tipo 2 perché per il tipo 1 la terapia è
unica e prevede la somministrazione dell’insulina. Ci sono si modalità diverse di somministrazione
con le iniezioni, con il microinfusore ecc.. però sostanzialmente la terapia è una sola, quella
insulinica.
Per quel che riguarda il diabete di tipo 2 la terapia con insulina può darsi che non funzioni (si può
usare, ad esempio, nello scompenso glicemico). Le possibilità terapeutiche sono diverse; oggi sono
parecchie rispetto a 40/50 anni fa dove sostanzialmente c’erano due farmaci: le sulfaniluree e la
metformina. Il diabete di tipo 2 è frutto di un’alterazione della secrezione dell’insulina, c’è un
difetto della cellula β soprattutto nella prima fase di secrezione e c’è un’insulino-resistenza. In
realtà studi più mirati di fisiopatologia hanno messo in luce che ci sono anche altri difetti che
concorrono a determinare l’iperglicemia. Tra questi ritroviamo la difettosa secrezione insulinica,
l’insulino-resistenza, cioè la ridotta captazione di glucosio dal tessuto muscolare e adiposo. C’è
anche chi dice che per esempio si può verificare un lieve aumento della secrezione basale di
glucagone, una ridotta attività incretinica (quindi si fa riferimento ad ormoni gastrointesinali),
alterazioni a livello dei neurotrasmettitori, il fatto che il rene è in grado di assorbire più glucosio,
un’aumentata lipolisi ecc… Fatto sta che oggi abbiamo dei farmaci che ci possono aiutare a trattare
in maniera più specifica l’iperglicemia dovuta a diabete di tipo 2. Alcuni di questi possono agire a
livello renale e quindi ridurre il riassorbimento di glucosio e permettere una maggiore eliminazione
renale di glucosio con riduzione della glicemia. Altri che migliorano l’insulino-sensibilità, farmaci
che vanno in qualche modo a compensare la ridotta attività incretinica... La diapositiva qui sotto
fornisce un quadro generale per quanto riguarda la fisiopatologia del diabete di tipo 2.

Nel diabete di tipo 2, come del resto nel tipo 1, l’evidenza scientifica è importante affinché si
dimostri che trattare un soggetto abbassandone la glicemia determini poi una efficace riduzione
delle complicanze e della mortalità.

Allora ci viene in soccorso uno studio (UKPDS) anch’esso condotto negli anni ’80 da cui ne risulta
che trattare il diabete mellito, quindi controllare la glicemia, determina una riduzione importante
delle complicanze micro-vascolari, di quelle macro-vascolari e dell’infarto del miocardio.

E’ chiaro che se un farmaco è applicato in una certa terapia, in questo caso quella del diabete,
questo deve soddisfare una serie di requisiti prima che possa poi essere somministrato ai pazienti in
cura. Esso deve essere perciò efficace, ovvero mantenere la glicemia a valori soddisfacenti e dove
l’ emoglobina glicata sia almeno sotto il 7%. Al giorno d’oggi le linee guida considerano come
soglia massima di Hb glicata il 7% tale per cui a questi valori si ha un buon controllo glicemico, ciò
non toglie però che nei prossimi anni questa soglia si possa abbassare poiché potranno essere
utilizzate tecnologie innovative che migliorano il controllo glicemico senza provocare il rischio di
ipoglicemia. Quest’aspetto costituisce l’altra faccia della medaglia perché nonostante
l’abbassamento della glicemia sia un effetto comune a tutti i farmaci impiegati nella terapia del
diabete alcuni di essi espongono al rischio di ipoglicemia abbassando la glicemia in maniera
eccessiva. Se un domani riuscissimo a fabbricare farmaci che abbassano si la glicemia ma che non
provocano ipoglicemia sarebbe un ottimo traguardo, mimando il controllo glicemico di soggetti non
diabetici.
Oltre all’ipoglicemia un altro parametro da tenere sotto osservazione è il peso poiché nel trattare
una persona il farmaco non dovrebbe incidere sul peso, poiché se dovesse aumentare costituirebbe
un fattore di rischio cardiovascolare. Perciò questi farmaci dovrebbero essere almeno neutrali sotto
quest’aspetto. Ovviamente devono avere una buona tollerabilità: va da sé che un farmaco non deve
avere effetti collaterali altrimenti non può essere assunto, specialmente a lungo termine. I farmaci
poi non devono peggiorare il rischio cardiovascolare, un aspetto che dovrebbe essere scontato ma
non lo è più di tanto perché in passato sono stati impiegati alcuni farmaci come il Rosiglitazone il
quale, in seguito a trials clinici, è venuto fuori che aumentava il rischio di infarto. Successe che
l’FDA (ente che si occupa della regolamentazione dei medicinali) ha voluto che per tutti i nuovi
farmaci in arrivo per la cura del diabete ed altre patologie venisse dimostrato che non avevano
complicanze cardiovascolari. Quindi oggi per tutti i farmaci che vengono registrati per la cura del
diabete devono avere degli studi di sicurezza cardiovascolare. Inoltre questi medicinali devono
avere la possibilità di essere utilizzati in combinazione con altri farmaci.

Fino agli anni ’50 avevamo solo l’insulina (che era peraltro di estrazione animale), poi per il diabete
di tipo 2 vennero successivamente utilizzate le sulfaniluree e la metformina che sono in commercio
tutt’oggi. Per passare all’acarbose, i glitazoni, le glinidi, gli analoghi del GLP-1(deralglutide,
iralglutide) poi gli inibitori del DPP-4 (glitine) e poi dapaglifozina, cioè inibitori del recettore del
SGLT2 a livello renale.

Questi sono farmaci utilizzati nella


terapia del diabete di tipo 2. Le
sulfaniluree sono farmaci che noi oggi
cerchiamo di non utilizzare perché sono
dei farmaci che possono dare
ipoglicemia, in particolare la
glibenclamide. Però in Italia ancora oggi
circa il 25-28% delle terapie diabetiche
prevedono l’assunzione di questi farmaci.
Dalla loro parte la glicemia la abbassano
in maniera efficace e costano poco. Tra le
biguanidi abbiamo la metformina. La
penformina un altro farmaco di questa
categoria che è stato eliminato in Italia e
USA perché è stato associato a dei casi di
acidosi lattica.
Dopo abbiamo tra i glitazoni solo il
pioglitazone, farmaci agonisti del PPAR γ
che sono farmaci insulino-sensibilizzabili.
Gli inibitori dell’α-Glucosidasi (Acarbosio) sono da noi poco utilizzati mentre in paesi asiatici
molto utilizzati, essi riducono l’assorbimento intestinale di glucosio e saccarosio. Poi gli inibitori
della Dipeptidil Peptidasi-4 (DPP-4) e gli Inibitori del Co-Trasportatore Sodio-Glucosio-2
(SGLT2), che sono farmaci molto importanti perché trials clinici hanno dimostrato che in
popolazioni dall’elevato rischio cardiovascolare riducono l’ospedalizzazione per scompenso
cardiaco e la mortalità per causa cardiovascolare. Gli agonisti del recettore GLP-1 sono anch’essi
importanti, infatti tra questi la liraglutide è stata dimostrata avere un effetto favorevole per la
riduzione del rischio cardiovascolare.
Infine abbiamo le insuline; in Italia oggi utilizziamo gli analoghi dell’insulina la cui forma
molecolare è leggermente modificata rispetto all’insulina umana normale. Questi analoghi
dell’insulina sono stati modificati quindi a partire dall’originaria insulina per ottenere delle
molecole ad azione ancora più rapida (Lispro, Aspart, Glulisine). Queste insuline si utilizzano
lontano dai pasti, prima di mangiare (con l’intenzione di riprodurre la fisiologia cinetica del
soggetto non diabetico, ma siamo ancora lontani). Oltre a queste sono stati elaborati anche gli
analoghi dell’insulina lenta come l’Nph, poco utilizzata in commercio da noi; non è solubile ed
infatti il flaconcino contenente quest’insulina va risospeso perché c’è una componente amorfa e poi
si inietta. Invece queste ultime insuline (Glargine Levemir Degludec Glargine U300) sono
molecole solubili per cui non è necessario risospendere la soluzione e si iniettano direttamente.

Come dicevamo le sulfaniluree sono state


tra i primi farmaci utilizzati nella tarapia
del diabete. Qui accanto è mostrato il loro
meccanismo d’azione, consiste
essenzialmente nella chiusura dei canali
passivi del potassio che determina una
depolarizzazione, evento che media il
rilascio di insulina da parte della cellula β
del pancreas. Esso è un effetto continuo,
prolungato nel tempo e non è una
stimolazione “intelligente” che tiene conto
del livello di glicemia. Se la glicemia si
abbassa queste continuano a stimolare la
cellula β, che rilascia insulina e il livello
di ipoglicemia tende a peggiorare.
Nel corso degli anni sono state introdotte diverse generazioni di farmaci appartenenti sempre alla
famiglia delle sulfaniluree, ma che hanno tutte la caratteristica costante di fornire un rischio di
ipoglicemia (inoltre costano poco). Rispetto ai Glitazoni e alla metformina le sulfaniluree nel lungo
periodo funzionano meno bene siccome stimolano in maniera eccessiva la β cellula e questa a lungo
andare va incontro ad una sorta di insufficienza.

Inoltre altro aspetto da tenere in


considerazione è che fanno aumentare di
peso, poiché l’insulina presente il circolo in
concentrazioni elevate favorisce processi
anabolici, aumentano i depositi di grassi.
Un’altra possibilità è che, siccome il rischio
di ipoglicemia è piuttosto corrente, in questi
pazienti per cercare di compensare
mangiano e di conseguenza aumenta la
quantità di calorie che giornalmente si
introducono.
Il peso aumenta anche con i glitazoni però
esso è essenzialmente dovuto ad una condizione di ritenzione idrica favorita dall’effetto di questi
farmaci. Con altri farmaci il peso rimane uguale o addirittura si riduce.

Per quanto riguarda le ipoglicemie possiamo


notare come la Glibenclamide, (indicata in
verde nel grafico) appartenente alle
sulfaniluree, determina un aumento
importante di episodi di ipoglicemia rispetto
agli altri farmaci. Studio UKPDS.

Questa è una valutazione che è stata


condotta dal professore. Sono stati raccolti
dati di persone che si erano recate al pronto
soccorso in seguito ad una severa
ipoglicemia. In questi 5 anni di studio sono
state ricoverate circa 400 persone con
ipoglicemia; 200 di queste hanno avuto
bisogno di essere ospedalizzate e le restanti
200 sono state trattate con glucosio e poi
rimandate a casa. Tra i ricoverati l’età
media era di 79 anni, quindi persone
anziane ed alcune di queste avevano una
funzione renale compromessa per cui alcuni
di questi farmaci non erano indicati per il
loro trattamento. Molto spesso capita però che questi farmaci vengono prescritti ma poi i pazienti
non vengono rivalutati per quanto riguarda la loro attività renale, epatica ecc… per cui in alcuni di
questi pazienti non c’era proprio l’indicazione ad usare questi farmaci. La glicemia misurata a
domicilio era di 35,4 mg/dl, quindi grave ipoglicemia associata a coma e perdita di conoscenza.
Spesso venivano utilizzati altri farmaci che possono aver contribuito a favorire l’ipoglicemia ed
altre patologie cardiovascolari. L’aspetto interessante è che per risolvere l’ipoglicemia in alcune
persone era necessaria l’infusione di glucosio per molte ore, addirittura giorni. Quindi se un
soggetto presenta ipoglicemia in seguito ad uso eccessivo di sulfaniluree, se assume del glucosio la
glicemia risale ma solo temporaneamente perché a distanza di qualche minuto/ora si ripresenta la
stessa situazione di severa ipoglicemia e per questi pazienti si rende necessaria l’ospedalizzazione.
Sono farmaci che sicuramente negli anziani non andrebbero utilizzati; è più opportuno usufruire del
trattamento con medicinali di nuova generazione. Ci sono anche altri farmaci che utilizziamo nella
terapia di tutti i giorni che potrebbero favorire l’effetto ipoglicemizzante di questi farmaci
(combinazione fra più farmaci) come l’aspirina, gli ACE-inibitori e anche taluni antibiotici che
utilizziamo comunemente.
SBOB.: MATTEO BUONOCORE
REV.: ALESSIO COLANTUONO
26/03/2019- 2°ora

Le sulfoniuree possono aumentare il rischio di patologie ischemiche e cardiovascolari, così come


l’ipoglicemia, causata dalle queste, soprattutto in soggetti anziani.
L’ipoglicemia si associa anche ad un aumentato rischio di demenza.

Metformina
Parliamo quindi della metformina: appartiene alla classe delle biguanidi, è un farmaco molto molto
utilizzato che migliora la sensibilità insulinica e riduce la produzione epatica di glucosio (è il
fenomeno più importante di iperglicemia, soprattutto al mattino, nel diabete di tipo 2). Viene quindi
considerato un farmaco insulino-sensibilizzante e, ad oggi, tutte le linee guida consigliano di dare la
metformina come primo farmaco a tutti, a meno che non ci siano delle controindicazioni, come
l'insufficienza renale, oppure che non sia tollerato dal punto di vista gastrointestinale: quindi si dà
come primo farmaco la metformina singolarmente o in associazione con altri farmaci. L’azione della
metformina è quella di abbassare di 1 punto in percentuale l'emoglobina glicata, come anche altri
farmaci.
Quando si parla di efficacia si fa riferimento all’emoglobina glicata, e l’obiettivo è 7: quanto più alta
è la glicemia, tanto maggiore sarà l'emoglobina glicata. NB: 6.5 è il valore per la diagnosi di diabete.
La metformina ha dimostrato, inoltre, di avere vantaggi in termini di riduzione del rischio
cardiovascolare: la sua efficacia, quindi, non è solo l’impatto che ha sulla glicemia, ma anche il fatto
che riduce del 30-35% i rischi cardiovascolari. Come unica controindicazione ha che può influire
sulla funzione renale, riducendola. Il farmaco non andrebbe dato per concentrazioni di nitrato al di
sotto di 45 mg per millilitro, anche se oggi nuovi studi dicono che potrebbe essere usato fino a 30
mg.

Chiaramente al soggetto viene diagnosticata la funzione renale ridotta solo nel caso in cui faccia
controlli frequenti: ma, di norma, i controlli, vengono effettuati una o due volte l'anno, quindi la
patologia renale potrebbe esserci e peggiorare e la metformina potrebbe favorire l’acidosi lattica
(come complicanza della insufficienza o disfunzione renale). L'acidosi lattica può essere una
condizione molto grave: si caratterizza sia per il quadro dell'acidosi che per un aumento dell’anion
gap. Essendo la ridotta funzione renale alla base di questa condizione, i soggetti dovranno essere
trattati in maniera specifica: generalmente vengono dializzati, per riportare la funzione renale sotto
controllo. Possono manifestarsi dei disturbi gastrointestinali, come meteorismo, sensazione di
gonfiore, e per alcuni anche diarrea; generalmente si verifica se si inizia somministrando quantità
elevate (il massimo che si può assumere è di 2-2.5 g nelle 24 ore, di solito, distribuiti in tre dosi). Se
si inizia con un dosaggio basso, come 500 mg al giorno e poi si aumenta, di solito questi disturbi non
ci sono. Per chi presenta questi disturbi ugualmente esistono anche dei farmaci a lento rilascio,
favorendo così la compliance verso la terapia.
L’acidosi lattica è una condizione poco comune, in soggetti un po’più anziani e meno seguiti è
possibile una disidratazione, un’insufficienza renale di tipo pre-renale.
Si osserva, solitamente nei pazienti trattati per diverso tempo con metformina, un’anemia di tipo
macrocitico che generalmente sottintende un deficit di vit. B12 (è quindi un parametro che va valutato
periodicamente).

Pioglitazone
Il pioglitazone agisce al livello del recettore PPARγ, è un farmaco insulino-sensibilizzante e ha un
meccanismo d'azione piuttosto complesso: agisce sul tess. adiposo, riduce la gluconeogenesi, migliora
l'utilizzazione muscolare di glucosio e non dà ipoglicemia. Determina, tuttavia, un aumento di peso e,
generalmente, anche ritenzione idrica: non è quindi indicato in soggetti che hanno patologie cardiovascolari,
come lo scompenso cardiaco, soprattutto in associazione con insulina, perché anche l'insulina ha un'attività
sodio ritentiva (può quindi peggiorare il grado di edema).
Sono state descritte fratture con l’uso di questi farmaci, per cui, in Italia, non è molto usato: dal 5 al 7% dei
soggetti. Detto ciò ha un'azione molto efficace sulla glicemia e secondo alcuni studi è capace di ridurre il
rischio di ictus.

GLP-1R agonisti e DPP-4 inibitori


Arrivati in commercio 12-13 anni fa, queste nuove classi di farmaci vanno ad aumentare l’azione del GLP-1
(Glucagon-Like Peptide 1, ormone gastrointestinale) oppure a riprodurne l'azione, come analoghi.

Il GLP-1 ha queste funzioni: stimola la cellula β a produrre insulina e lo fa nella condizione postprandiale;
viene, infatti, liberato dopo il pasto e non durante il digiuno e, quindi, non induce ipoglicemia. Riduce un po'
la secrezione di glucagone (anche questo aiuta a limitare l'iperglicemia postprandiale). Un altro effetto è quello
di indurre il senso di sazietà al livello cerebrale (quindi il soggetto mangia meno e perde un po’ di peso) e, a
livello dello stomaco, di rallentare la motilità gastrica: il picco post prandiale sarà ridotto perché l'assorbimento
sarà rallentato. Oltre a queste, che sono le azioni più importanti, ne ha anche altre.
Dal punto di vista fisiologico, questi ormoni, rilasciati in seguito ad un pasto dall’intestino, vengono degradati
naturalmente da un enzima: il DPP-4 (dipeptidil peptidasi 4). Per aumentare l’azione del GLP endogeno sono
stati sintetizzati degli inibitori del DPP-4 che vanno, appunto, ad inibire questo enzima, per cui il peptide
endogeno viene degradato meno e quindi l’azione sarà più duratura.
Ragionando diversamente, è stato sintetizzato un agonista del recettore del GLP, cioè farmaci che sono simili
al peptide endogeno e che agiscono sullo stesso recettore: possono determinare un’azione più duratura. NB:
Oggi le insuline regolari non vengono utilizzate e si utilizzano degli analoghi dell’insulina.
La risposta in bioclinica Minuto 14.12/ è importante. Se somministro ad un soggetto una certa quantità di
glucosio, per endovena o per via orale, l'effetto sulla glicemia sarà diverso: in via venosa l'impatto sarà
maggiore di quando lo somministro per via orale. La somministrazione per via orale coinvolge altri sistemi,
come la stimolazione del GLP-1, che fanno sì che il controllo della glicemia sia migliore. Naturalmente questi
sistemi (come, appunto, gli ormoni gastronintestinali) non vengono stimolati dalla somministrazione di
glucosio per via endovenosa.

Gliptine
Le gliptine sono gli inibitori di DPP-4. Questi farmaci sono quelli in commercio in Italia e richiedono una
riduzione della dose in relazione al filtrato glomerulare: se la funzione renale si riduce va ridotta anche la dose
del farmaco, con un’eccezione, la linagliptina.

(Può essere somministrata la stessa quantità di linagliptina anche in relazione ad una grave riduzione della
funzione renale e anche soggetto in dialisi). Sono farmaci solitamente ben tollerati e hanno un'efficacia
discreta, riducono l'emoglobina glicata di 0.6-0.8%, quindi un po' meno della metformina e ancor meno delle
sulfaniluree. D’altra parte sono farmaci ben tollerati che non danno ipoglicemia e hanno un effetto neutro sul
peso. L'ipoglicemia si verifica solo se vengono somministrati insieme, ad esempio, a sulfaniluree o l'insulina
(che danno ipoglicemia). Sono utili soprattutto in persone che non hanno un cattivo controllo glicemico e negli
anziani perché sono ben tollerati.

Agonisti di GLP-1R
L’exenatide è il loro capostipite, poi sono arrivati gli altri, dal liraglutide in poi. La differenza tra questi è la
loro durata d'azione: breve per alcuni, come lixisenatide e exenatide, che quindi vanno somministrati due volte
al giorno, lunga per altri come la liraglutide, che somministriamo una sola volta al giorno, e ancor più lunga
per la albiglutide e la dulaglutide che vanno dati una volta a settimana. Questi ultimi risultano essere
estremamente comodi perché, essendo tutti iniettati, riduciamo le iniezioni anche ad una a settimana. La
semaglutide è un farmaco orale che dovrebbe arrivare a breve.
Un’altra caratteristica utile di questi farmaci è che non inducono ipoglicemia: sono in grado di regolare la
glicemia, tenendo conto del livello della stessa. Quindi se questa si abbassa il farmaco non continua a stimolare
la cellula β a produrre insulina.
Alcuni soggetti necessitano di un preparato a breve azione (hanno maggiore effetto sulla motilità gastrica e
riducono l’iperglicemia post prandiale), ma la maggior parte sono in terapia con quelli a lunga durata, con
somministrazione settimanale.

Inibitori di SGLT-2
Questi farmaci aumentano l'escrezione urinaria del glucosio, fanno scendere la glicemia facendo urinare una
maggior quantità di zucchero. Generalmente la glicosuria fa pensare ad uno scompenso glicemico: le glicemie
alte si associano sempre a glicosuria, perché viene superata la soglia renale di riassorbimento di glucosio. Oggi
la glicosuria può indicare una terapia con questi farmaci, non per forza ad uno scompenso glicemico.
Agiscono sulla prima porzione del tubulo prossimale, inibiscono l'azione del trasportatore del glucosio SGLT-
2 (cotrasportatore di Na+ e glucosio) che ne riassorbe il 95%, quindi si perde una maggior quantità di glucosio
con le urine. Altri farmaci inibiscono il trasportatore 1 (SGLT-1 riassorbe il 5% del glucosio e si trova sul 3°
tratto del tubulo prossimale) e altri ancora li inibiscono entrambi come la sotaglifozina. La quantità di glucosio
che verrà escreto può essere quantificata ed è variabile a seconda delle glicemie.

Questi sono gli inibitori di SGLT-2 e derivano dalla florizina; il funzionamento di questi si basa su una
funzione renale adeguata. Sono farmaci efficaci, non danno ipoglicemia se non vengono associati ad altri
farmaci. Come effetti collaterali, posso dare infezioni alle vie urinarie, ma soprattutto infezioni genitali, perché
l'urina è ricca di zucchero e rappresenta un substrato favorevole ad una proliferazione di candida. In alcuni
pazienti con diabete di tipo 2, soprattutto in quelli di tipo autoimmune, può provocare chetoacidosi
euglicemica, ossia con glicemia sotto il 250; questo può ritardare la diagnosi perché la chetoacidosi viene
diagnosticata prevalentemente in base alla glicemia. In queste situazioni la glicemia è normale, ma è presente
chetoacidosi che, appunto, non viene rilevata.
Se vengono utilizzate nel diabete di tipo 1 (è possibile che ciò accada in futuro perché sembra, date le evidenze,
che riduca efficacemente la variabilità glicemica e il peso) ci sarà un aumento importante della chetoacidosi
euglicemica.

Questi farmaci hanno dimostrato un effetto favorevole sul rischio cardiovascolare: l’empaglifozina ha
dimostrato una riduzione importante del rischio di mortalità per danni cardiovascolari (CV death) su soggetti
ad elevato rischio, ossia che presentavano fattori di rischio.
La riduzione è del 38%. (Prosegue spiegando il grafico) Questo è un rapporto di rischio che dipende da una
curva di sopravvivenza, quindi un hazard ratio di 0.62 vuol dire che il farmaco rispetto al placebo riduce questo
rischio di 0.62 (Quindi da 1 fino a 0.62 sarebbe 0.38 che in percentuale è il 38%). Questa è una riduzione
importante e la stesso vale per l’ospedalizzazione per scompenso cardiaco, che è del 35%.
Siamo passati dalla glicosuria come scompenso glicemico alla glicosuria indotta farmacologicamente. C’è
rischio di infezioni e di disidratazione.
A seguito di studi, condotti su questi farmaci, sono stati creati degli algoritmi su come utilizzarli. Nei pazienti
che hanno delle complicanze cardiovascolari in prima battuta somministro metformina e la associo a questi
farmaci perché hanno dimostrato un effetto favorevole.
L'obiettivo è quello di poter fare una terapia personalizzata, basata sulle problematiche del paziente; se questo
è obeso vanno benissimo gli agonisti del GLP-1 che riduce il senso dell'appetito e quindi agisce sul peso.

Insulina
Nel diabete tipo 2 si può mettere in atto in qualsiasi momento ovviamente ed è fondamentale nella fase di
scompenso. L'unica controindicazione è l'ipoglicemia, tuttavia può esserci un incremento ponderale. Quando
parliamo però di incremento di peso dobbiamo considerate che il soggetto che inizia l'insulina generalmente è
un soggetto con scompenso glicemico e quindi anche glicosuria; avendo glicosuria perde zucchero e quindi
perde calorie e può perdere anche del peso. Quando inizia la terapia insulinica, che tiene sotto controllo
glicemia, e quindi riduce anche la glicosuria, il peso aumenta regolamentare e tutto sommato fisiologicamente:
è un ri-compenso metabolico. L’incremento ponderale può verificarsi anche successivamente all’inizio della
terapia ed è dovuto a vari fattori.
Questo è un algoritmo del 2017. Ovviamente per prima cosa va modificato lo stile di vita (Oggi non si parla
più di dieta, ma di terapia medica nutrizionale). La terapia inizia con la metformina perché è efficace ha un
basso rischio di ipoglicemia, perché, forse, fa perdere un po' di peso, e perché costa poco. Quando il controllo
non è più adeguato abbiamo tutta una serie di farmaci che potete associare per ottenere l'effetto terapeutico;
alcune di queste associazioni sono possibili, altre no, perché l’obiettivo è un determinato effetto terapeutico.
Si agisce spesso troppo tardi nel modificare la terapia e questo provoca due effetti: il primo è che viene ritardata
la diagnosi, il secondo è che il target glicemico viene raggiunto più lentamente.

La glicemia a digiuno è detta basale e è diversa da quella postprandiale: si agisce sulla prima con un’insulina
basale, un’insulina lenta, che mantiene molto bene la glicemia basale; la terapia è molto semplice, si
somministra la sera una dose prestabilita che si aggiusta in base alla glicemia del mattino. Se la glicemia dopo
i pasti è elevata, e con gli altri farmaci non abbiamo ottenuto risultato, bisogna aggiungere delle dosi di insulina
rapida prima dei pasti (uno solo, due, oppure tutti). L’unione di queste insuline è detta terapia multiniettiva
basal-bolus. Con le nuove insuline basali, come ad esempio l'insulina glargine, si osserva una riduzione del
rischio di ipoglicemia notturno.
Ovviamente i soggetti sono diversi e bisogna tenere conto della loro diversità.

Qui si vede come personalizzare una terapia e stabilire il target del controllo glicemico anche in base al
pazeitnte e alle sue patologie del paziente. Per un soggetto anziano non abbiamo come priorità quella di
prevenire le complicanze a lungo termine, quanto invece ne abbiamo in un soggetto giovane (senza malattie
cardiovascolari, senza ulteriori problematiche) dove vogliamo raggiungere una situazione quanto più simile a
quella di un soggetto senza diabete.
SBOB: MARTINA GERZEL
REV:CHIARA GRIMANI
26/03/2019-3°ora

I surreni sono due piccole ghiandole con funzione endocrina; dalla sezione istologica si riconosce
una zona corticale e una zona interna: la midollare.
Nella corticale si distinguono altre tre aree:
• Glomerulare-> produzione di aldosterone, la cui secrezione è sotto il controllo
dell’asse renina-angiotensina

• Fascicolata e Reticolare -> Produzione di corticosteroidi: cortisone e androgeni (


ormoni sessuali) la cui secrezione è sotto il controllo ipofisario mediante l’ACTH.

La midollare invece produce catecolammine.


Se si asporta il surrene ad un animale questo muore per shock ipovolemico o ipoglicemia-> ghian-
dole fondamentali per la sopravvivenza.

La midollare origina dalla cresta neurale.


Sintesi a partire dalla Tyr (tirosina): in seguito a reazioni di idrossilazione e decarbossilazione si ot-
tengono DOPAMINA, NORADRENALINA e ADRENALINA.
L’enzima N-metil transferasi è presente solo nella midollare del surrene-> in altre strutture (come i
gangli del SN simpatico) si ha produzione di noradrenalina ma non di adrenalina che quindi è pro-
dotta solamente a livello della midollare del surrene.
[A partire dalla tirosina si producono anche gli ormoni tiroidei].
Sistema portale di vascolarizzazione che dalla corticale raggiunge la midollare attraverso cui il
CORTISOLO arriva alla midollare. Tale ormone ha un ruolo fondamentale in quanto va a stimolare
l’attività della N-metiltransferasi.

Il catabolismo delle catecolammine avviene a livello sinaptico e a livello extraneuronale in organi


come il fegato e i reni ad opera della COMT. I prodotti del catabolismo hanno una rilevanza soprat-
tutto in ambito diagnostico, infatti vanno misurati: se aumentano sono indice di iperattività del tes-
suto cromaffine (cellule cromaffini).
L’azione delle catecolammine è correlata al tipo di recettore al quale si legano e all’organo bersa-
glio (dove si trova il recettore).
Es. a livello di bronchi e trachea il legame con il recettore β2 fa decontrarre la muscolatura dell’al-
bero bronchiale, si ha rilasciamento-> utilizzato nel trattamento dell’asma cardiaco con β2 stimo-
lanti.
Inoltre si hanno effetti stimolatori e inibitori sulle cellule pancreatiche per quanto riguarda la secre-
zione di insulina e glucagone.
A livello cutaneo determinano vasocostrizione (tipica dell’attivazione adrenergica).

L’adrenalina determina aumento della pressione sistolica.


La noradrenalina determina aumento sia della sistolica che della diastolica.

Dal glicogeno muscolare non può essere liberato glucosio .Vengono quindi formati lattato e piru-
vato che poi possono essere ritrasformati in glucosio e successivamente in glicogeno epatico che
invece può essere utilizzato. Il fegato (e in parte i reni) è l’organo deputato alla liberazione di gluco-
sio.
Anche il glicerolo può essere utilizzato per la sintesi di glucosio.
Le catecolammine possono essere determinate nel sangue (determinazione di tipo puntuale, di quel
momento) e nelle urine (più facile ,evidenzia la presenza di catecolammine nell’arco della giornata)
.Si misurano i cataboliti delle catecolammine: metanefrina, normetanefrina e acido vanilmandelico.
In questo modo si verifica se c’è un ipo- o iper-attività adrenergica.

Il FEOCROMOCITOMA è un adenoma benigno che si colloca a livello della midollare del surrene,
raramente in altre sedi.
• Il 90% dei casi è benigno
• Il 10% dei casi è maligno
Rilevanza della base genetica per lo screening.

Oltre alle catecolammine possono essere secreti peptidi diversi-> il quadro clinico può non essere
di facile diagnosi, anche perché la sintomatologia dovuta all’aumento della secrezione di tali so-
stanze è abbastanza aspecifica (ad esempio nel caso dell’ipercortisolismo si vanno a valutare prima i
livelli di cortisolo).
L’ipertensione è quasi sempre presente in soggetti affetti da feocromocitoma e la causa può essere
anche endocrina.
• Ipertensione continua (difficile la diagnosi differenziale). Può essere dovuta a ipersecrezione
di catecolammine in caso di resistenza ai farmaci.
• Caratterizzata da picchi ipertensivi (crisi)-> può essere dovuta ad un eccesso di secrezione
delle catecolammine.

Diagnosi di tipo biochimico: si ricercano i valori delle catecolammine e dei loro cataboliti nel san-
gue e nelle urine. È più utilizzato il dosaggio nelle urine.
N.B. alcuni farmaci possono andare a interferire con il dosaggio delle catecolammine urinarie-> in
caso di ricovero in ospedale tali farmaci vanno momentaneamente sospesi per fare il dosaggio.
Il test al glucagone non è più utilizzato in quanto la somministrazione per via endovenosa è perico-
losa perché può determinare una risposta di ipersecrezione di catecolammine-> crisi ipertensiva -
>possibili infarti, ictus, emorragie…
Il glucagone quindi stimola la secrezione di catecolammine in soggetti affetti da feocromocitoma.
N.B. il glucagone può anche modulare la motilità gastrointestinale.

Molti sintomi dell’ipertiroidismo sono causati anche dalle catecolammine: tachicardia, tremori..(te-
rapia con β bloccanti per limitare tali sintomi). La sudorazione invece è diversa : calda nell’iperti-
roidismo, fredda nel feocromocitoma.
Stimolazione della glicogenolisi da parte delle catecolammine e insulino-resistenza-> iperglicemia.
Soggetti ipertesi che manifestano ipotensione quando assumono la posizione eretta, in particolare se
poco idratati. Forse dovuta ad un blocco recettoriale, ad up-regulation dei recettori.
Dolore toracico
L’I-Metaiodiobenzilguanidina è utilizzato per fare la scintigrafia (MIBG): va a localizzarsi nelle
cellule della surrenale permettendo l’identificazione della sede; utile anche in caso di formazioni
extra-surrenaliche.
La PET utilizza i positroni.

Esame scintigrafico
La preparazione va fatta con il liquido di Lugol per evitare che la tiroide possa captare il tracciante.
In seguito si somministra il radioiodio (radio tracciante) in modo che venga captato selettivamente
dal surrene.
Una volta fatta la diagnosi di feocromocitoma e localizzato il tumore, il paziente non può essere
operato subito ma va preparato. Infatti per effetto delle catecolammine ha un volume vascolare ri-
dotto (dovuto alla vasocostrizione). Si rischia altrimenti di andare incontro a crisi ipertensive du-
rante l’intervento e crisi ipotensive subito dopo l’asportazione della massa.

Preparazione del paziente attraverso degli α-bloccanti: vasodilatatori.


La vasodilatazione in un quadro di volume vascolare ridotto rischia di generare ipotensione->
vanno somministrati anche liquidi (per diversi giorni).
La vasodilatazione inoltre genera una tachicardia di tipo compensatorio-> in seguito alla sommini-
strazione degli α-bloccanti si possono associare i β-bloccanti (non prima ,altrimenti si va a peggio-
rare lo stato di ipertensione e vasocostrizione).

N.B. la fentolamina oggi non viene più prodotta.


Il propanololo è un β-bloccante non selettivo.
Il labetalolo va somministrato per via endovenosa e può essere utile nelle crisi ipertensive.

La maggior parte degli interventi viene fatta per via laparoscopia: interventi mini-invasivi che pre-
vedono anche l’impiego di chirurgia robotica.
La malignità della forma tumorale è correlata all’estensione del feocromocitoma (varia se interessa
la capsula del surrene o i tessuti circostanti).
TERAPIA
Non ci sono farmaci specifici-> terapia oncologica.

In caso di test di imaging negativo ma di sospetto feocromocitoma si possono fare l’arteriografia e


il cateterismo venoso: dosaggio di catecolammine e cataboliti dalle vene reflue (vene femorali).

CORTICALE DEL SURRENE


Produzione di ALDOSTERONE da parte della glomerulare.
Stimoli come ipovolemia, iponatriemia e disidratazione vanno a stimolare le cellule iuxtaglomeru-
lari a livello renale che vanno ad attivare il sistema renina-angiotensina-aldosterone.
Angiotensina II: ormone ad azione vasocostrittrice e di stimolazione della secrezione di aldosterone.
Con un meccanismo a feedback negativo va ad inibire l’azione della renina.
L’aldosterone determina il riassorbimento di sodio e acqua per andare a ripristinare il volume ema-
tico. All’aumentare della concentrazione di sodio che viene trattenuto aumenta l’escrezione di po-
tassio.

La secrezione del CORTISOLO è sotto il controllo dell’asse ipotalamo-ipofisi. A sua volta l’ipota-
lamo è sotto il controllo di centri corticali superiori.
Modulazione della secrezione di neurotrasmettitori e neuropeptidi da parte dello stress.
Il cortisolo a sua volta esercita un feedback negativo sull’ipotalamo.
La concentrazione di cortisolo è quindi il risultato di diverse modulazioni.
L’ACTH deriva dalla pro-oppiomelanocortina dalla quale derivano anche le endorfine e l’α- e γ-
MSH che ha un ruolo nella pigmentazione della cute.
Nell’ipercortisolismo primitivo l’α-MSH va a ridurre il senso di fame.

Secrezione ciclica di cortisolo e ACTH:


se viene meno la secrezione secondo il ritmo circadiano si va incontro a patologia.
In persone che lavorano di notte tale ritmo risulta alterato.
Sintesi a partire dal colesterolo-> pregnenolone
-> se siamo nella glomerulare-> sintesi aldosterone
-> se siamo nella fascicolata-> cortisolo
->se siamo nella reticolare->ormoni sessuali (prodotti in quantità maggiori dalle gonadi).
In caso di deficit o malfunzionamento di uno di questi enzimi viene meno la sintesi degli ormoni a
valle. In caso ad esempio di malfunzionamento delle vie che portano alla sintesi di aldosterone o
cortisolo, verrà potenziata la sintesi degli ormoni sessuali-> rischio di ipotensione e shock, oltre
che alterazioni a livello degli organi sessuali.
Questi ormoni viaggiano per lo più legati a proteine: Corticoid Binding Globulin, albumina.
Una minima parte invece viaggia come razione libera-> pronta per essere utilizzata, per agire.
iperglicemizzanti

In caso di ipercortisolismo possono de-


terminare dei quadri di osteoporosi im-
portanti

Nel feto: il surfattante permette la


respirazione. Si può intervenire con
cortisonici in caso di mancanza di
surfattante

Possono dare euforia, depres-


sione..

Utilizzati nelle collageno-


patie

Possibili gastriti se in ec-


cesso

Farmaci cortisonici: classificati in base alla durata dell’azione o in base all’attività.


Farmaci anche più potenti del cortisolo (idrocortisone).
Prednisone: farmaco più utilizzato.
Desametasone: utilizzato nella diagnosi del Morbo di Cushing. È 30 volte più potente rispetto
all’idrocortisone come antinfiammatorio ma non ha attività sodio-ritentiva.
28/03/19 prima ora

Sbobinatore Deborah Degregori

Revisionatore Eleonora Cucini

Riassunto della lezione precedente:

Nella lezione precedente abbiamo parlato di surreni e nello specifico delle patologie della midollare del
surrene (feocromocitoma) e abbiamo parlato del ritmo circadiano del cortisolo, fondamentale per il
mantenimento di una funzione corticosurrenalica. Abbiamo inoltre parlato della biosintesi degli ormoni
steroidei, i quali viaggiano legati a delle proteine (albumina e corticotropin binding protein)mentre una
piccola porzione rimane libera. Abbiamo poi preso in considerazione la durata di azione del cortisolo e dei
vari farmaci di sintesi.

Di particolare importanza è ricordare il desametasone , che viene utilizzato nella parte diagnostica della
diagnosi dell’ipercortisolismo e viene utilizzato perché non interferisce con il dosaggio del cortisolo e quindi
può essere somministrato. Se noi somministriamo invece idrocortisone quando misuriamo il livello di
cortisolo questo è influenzato dalla somministrazione del farmaco.

Ipercortisolismo

Abbiamo eccesso di secrezione di cortisolo, condizione patologica nota come sindrome di Cushing , che
raccoglie tutte quelle condizioni dove abbiamo un eccesso di glucocorticoidi dovuto ad una eccessiva
produzione da parte del surrene o da una eccessiva produzione di ACTH che stimola la produzione di
cortisolo (prodotta da un tumore ipofisario o dalla somministrazione di cortisone esogeno). Questa
sindrome è caratterizzata da un eccesso di cortisolo con effetti patologici specifici.

La malattia di Cushing, descritta da Cushing (neurochirurgo americano di fine 800 che ha descritto casi di
Ipercortisolismo e li ha operati; si tratta di casi di ipercortisolismo legati ad un adenoma ipofisario ,
accompagnati quindi da un elevato livello di ACTH). Questa malattia fa riferimento alla ipersecrezione di
ACTH da parte dell’ipofisi (adenoma o microadenoma) e in alcuni casi può essere legata anche alla
ipersecrezione di CRH da parte dell’ipotalamo.

Quello che caratterizza questa malattia è che i livelli di ACTH aumentati ma non necessariamente di molto ,
ed è evidente alterazione del ritmo circadiano , quindi l’asse ipotalamo – ipofisi – surrene è alterato e
quindi la secrezione di cortisolo risulta anch’essa alterata; questo è importante perché in fase diagnostica è
su questo aspetto che si basa l’attività del desametasone. Aumenta la secrezione di cortisolo e per avere
feedback negativo le concentrazioni devono aumentare di molto altrimenti persiste questo deficit di
rapporto tra ipofisi e surrene e abbiamo un continuo rilascio di ACTH e cortisolo : viene meno il normale
feedback del cortisolo sulla ipofisi.

Esistono anche altre condizioni, ad esempio una condizione ectopica di ACTH (prodotta per esempio da un
tumore polmonare) , in cui i livelli di ACTH sono aumentati e in queste condizioni avremmo una
stimolazione eccessiva del surrene con aumento di cortisolo che andrà a fare feedback sull’ACTH prodotto
dalla ipofisi il cui rilascio vieni ridotto.

Le forme primarie sono legate ad adenomi surrenalici (tumori benigni) , con secrezione autonoma del
cortisolo svincolata dal controllo di ACTH e dal CRH. In queste condizioni l’aumento di cortisolo andrà ad
esercitare un feedback a livello ipofisario con soppressione della secrezione di ACTH. Questi aspetti sono
importanti per la diagnosi.

Vi è poi iperplasia nodulare, dove il surrene è iperplasico; può essere ACTH dipendente o indipendente.
Per quanto riguarda il feedback in questa condizione è variabile , quindi non sempre l’aspetto diagnostico è
semplice e agevole in questi soggetti.

Riassumendo : l’aumento dell’ACTH , dovuto alla presenza di un adenoma ipofisario o a un microadenoma


oppure ancora dovuto ad una iperplasia aumenta i livelli di cortisolo; se invece l’ACTH è prodotto da un
tumore ectopico avremo un aumento del cortisolo e la secrezione dell’ACTH ipofisario sarà soppressa dalla
presenza dell’ACTH prodotto dal tumore ectopico; se invece abbiamo un tumore a lviello del surrene la
secrezione è autonoma e non è controllata dall’ACTH e dal CRH.

La Sindrome di Cushing non è una condizione frequente che si manifesta nei giovani adulti , 40 – 60 anni;
mentre la Malattia di Cushing si presenta prima , e specialmente nelle donne.

SINDROME DI CUSHING
La malattia può essere ACTH dipendente, la quale riconosce una causa ectopica o ipofisaria, o indipendente
(è la forma primaria) tipicamente surrenalica (tumore o iperplasia surrenalica). La sindrome può essere :

- Clinica : presenta tutti i sintomi


- Subclinica : piu difficile da diagnosticare , quindi la diagnosi può essere ritardata
- Ciclica : la secrezione di cortisolo non è continua e questo complica l’aspetto diagnostico.

Guardando la forma ACTH INDIPENDENTE la causa è a livello surrenalico e l’adenoma è la causa piu comune
, seguita da carcinoma e l’iperplasia. Nelle forme ACTH DIPENDENTE, nella maggior parte dei casi abbiamo
un adenoma ipofisario, in una piccola parte dei casi abbiamo una produzione ectopica di ACTH.

Molti casi di sindrome di Cushing sono legati alla somministrazione esogena di cortisonici ( per il
trattamento di patologie infiammatorie , dermatologiche). La somministrazione cronica può determinare la
comparsa i questa sindrome. In questi casi avremo un aumento della secrezione di cortisolo o del prodotto
che viene somministrato , quindi verrà svolta l’azione antinfiammatoria ma l’ipofisi vedrà una riduzione di
secrezione endogena di ACTH e questo fa in modo che venga meno lo stimolo, anche a livello surrenalico,
per la produzione di cortisolo e quindi i surreni vanno incontro a diversi gradi di atrofia e producono meno
cortisolo.

Se una persona interrompe una terapia esogena improvvisamente i surreni non sono in grado di produrre
cortisolo questo può creare una grave crisi addisoniana, ovvero una grave forma di ipocortisolismo. In
terapie con glucocorticoidi non si interrompe subito la somministrazione , ma gradualmente. Questa forma
nella prati a clinica è la forma piu comune.
Cause

Per quanto riguarda le causa , vediamo una classificazione in slide :

- Adenoma a livello ipofisario


- Forme ectopiche , prevalentemente carcinomi polmonari
- Feocromocitoma: produce eccesso di catecolammine ma può anche produrre altri ormoni tra cui
anche ACTH.

Tra le forme indipendenti ricordiamo :

- Iperplasia bilaterale
- Iperplasia multinodulare che non necessariamente è bilaterale

Il fatto di essere bilaterale ha importanza ai fini della terapia perché se è bilaterale in fase di terapia
chirurgica è necessario asportare entrambe i surreni e quindi fare una terapia sostitutiva.
A : Nella prima immagine vediamo l’asse normale.

B : abbiamo una condizione caratterizzata da aumento di ACTH per adenoma ipofisario che continuerà a
stimolare i surrene che vanno incontro a ipertrofia e iperproducono il cortisolo che fa feedback.

C : abbiamo un adenoma surrenalico (che interessa uno solo dei due surreni) che produce cortisolo che
inibisce l’ipofisi che produce meno ACTH e quindi il surrene controlaterale va incontro ad atrofia. Questo è
importante perché quando si rimuove il surrene dove ha sede il tumore è chiaro che l’altro surrene ,
essendo ipotrofico, non produce cortisolo quindi serve subito una terapia sostitutiva.

D ed E : tumore ectopico (ad esempio polmonare) che determina un aumento di ACTH e iperplasia delle
surreni che producono cortisolo che inibisce la produzione di ACTH ipofisario. Una volta tolto il tumore
abbiamo abbassamento di ACTH e quindi una persona può E : tumore che produce CRH

F : condizione iatrogena, molto comune e legata alla somministrazione di glucocorticoidi. L’eccesso di


glucocorticoidi andrà a sopprimere l’ACTH, che essendo basso , causerà un abbassamento del cortisolo e
quindi i surreni andranno incontro a ipotrofia.

Pseudo Cushing
In questo caso può esserci una alterazione della secrezione di cortisolo che può essere non patologiche , ma
fisiologiche (ad esempio lo stress, malnutrizione) oppure può essere legata alla sfera psichiatrica, ad
esempio :
- Depressione
- Anoressia nervosa

Ma anche l’alcolismo cronico : in pazienti affetti da alcolismo cronico abbiamo , da un punto di vista
fenotipico , un quadro che richiama molto l’aspetto del paziente affetto da Cushing. Andando però a
indagare è possibile quasi sempre , con i test diagnostici , differenziare queste situazioni non patologiche
(per quanto riguarda la secrezione di cortisolo), dalla condizioni di effettivo eccesso di cortisolo.

Segni e sintomi
Slide 86 aspetti clinici della malattia di Cushing. Sono pazienti con obesità caratteristica, localizzata al
tronco e all’addome, che contrasta con le dimensioni degli arti che risultano rispetto al tronco molto piu
piccole; il motivo è che mentre nel tronco e nell’addome si deposita grasso , negli arti si osserva perdita di
massa magra. Parte del grasso si distribuisce in maniera particolare per esempio in sede cervicale e forma il
gibo e a livello del volto abbiamo guance rosse che conferiscono al soggetto aspetto particolare ; abbiamo
acne e aumento di peluria (nelle donne) perché può aumentare anche la secrezione di androgeni
surrenalici, assottigliamento dei capelli e spesso riduzione del fronte dei capelli con aumento della
esposizione della fronte.

La deposizione di grasso in zone particolari non ha una chiara ragione , ma probabilmente è legato al
cortisolo ma anche alla iperinsulinemia, perché in questi soggetti vi è un grado di insulino resistenza
variabile , dovuta all’eccesso di cortisolo, e questo determina una risposta compensatoria di insulina ;
probabilmente da questo connubio il grasso tende a depositarsi a livello addominale e del tronco. La cute è
generalmente sottile ed è facile osservare ematomi sottocutanei con ferite che tendono a guarire
lentamente e ecchimosi. Si osservano anche di strie rubre ovvero smagliature della cute specialmente a
livello addominale , di colore rosaceo (dovute al fatto che in quelle zone la cute è piu sottile e la colorazione
è data dai vasi sottostanti), al contrario delle smagliature tipiche delle persone obese, che sono tipicamente
bianche.

Può inoltre esserci ipogonadismo e incremento ponderale legato all’eccesso di grassi.


NB :

- Sintomi :riferiti
- Segni : osservati

Abbiamo depressione legata anche all’azione del cortisolo a livello centrale. Abbiamo anche dolore lombare
legato a microfratture delle vertebre lombari in questi pazienti che tendono a fare osteoporosi e quindi
fratture, prevalentemente a livello lombare.

Dal punto di vista clinico , il cortisolo contribuisce alla ipertensione con intolleranza ai carboidrati o diabete
franco, può essere presente ipopotassemia, soprattutto nei soggetti con secrezione ectopica di ACTH,
eventualmente predisposti a fare calcolosi delle vie urinarie.

INCIDENTILOMA: un primo riscontro può essere legato ad una ecografia , fatta anche per altri motivi , che
permette di scoprire un adenoma surrenalico.

Possiamo avere anche un certo grado di iperpigmentazione cutanea, tipica dei soggetti che hanno una
forma ACTH dipendente perché l’ACTH deriva dalla prooppiomelanocortina e tra i prodotti viene a esserci
anche l’ormone melanocita – stimolante che determina un certo grado di pigmentazione (che invece
vedremo caratterizzare in maniera classica la malattia di Addison).
Diagnosi

Non sempre è semplice fare la diagnosi. Il nostro obbiettivo è quello di stabilire che ci sia una secrezione
inappropriata di cortisolo e dobbiamo capire la causa dell’ipercortisolismo e dobbiamo stabilire se le forme
sono ACTH dipendenti o indipendenti (misurando l’ACTH) e nelle sindromi ACTH dipendenti dobbiamo
capire se sono legate a ipofisi o sono ectopiche.

Negli anni l’approccio alla diagnosi è stato modificato. Oggi si accede con un test di screening che può
essere la misurazione dei livelli il cortisolo urinario nelle 24h oppure la misurazione salivare del cortisolo la
sera oppure il test di soppressione con desametasone a basse dosi. Sono tutti molto validi ma il dosaggio
del cortisolo urinario richiede piu misurazioni (richiede delle conferme) , almeno 2 o 3 e il riscontro del
cortisolo a livello urinario; possono anche esserci dei falsi positivi di cui bisogna tenere conto oppure
integrare questo risultato con gli altri.

Sicuramente un test molto utile e il test al desametasone , che è un test di screening di primo livello ed è
un test rapido in cui somministriamo 1mg di desametasone alle ore 23 o 24 e il mattino successivo
misuriamo i livelli di cortisolo. Generalmente nel soggetto normale al mattino il cortisolo è inferiore a 1.8
microgrammi/dL (anche questo valore nel tempo è stato modificato nel tempo , prima era 5 e ora si è
abbassato a 1.8). Deve quindi esserci una soppressione: il principio della soppressione si basa sul fatto che
se somministro un glucocorticoide esogeno questo inibisce il rilascio di ACTH e quindi la secrezione di
cortisolo. Quando somministro il desametasone non ho interferenza con la valutazione dei livelli di
cortisolo (sono due glucocorticoidi ma uno è di sintesi mentre l’altro è naturale). Se i valori sono un piu alti
di 1.8 , aumentiamo un po’ il dosaggio e ripetiamo l’esame: possiamo dare per due giorni mezzo grammo al
giorno e al terzo giorno misurare di nuovo i livelli di cortisolo che deve sempre essere inferiore a 1.8. Se vi è
soppressione ci fermiamo qui; se non vi è soppressione significa che abbiamo eccesso di secrezione di
cortisolo e quindi dobbiamo procedere con gli accertamenti.

A questo punto dobbiamo pensare quindi all’adenoma ipofisario o alla patologia surrenalica o a quella
ectopica come possibili cause. Per indagare questi aspetti serve conoscere il valore di ACTH e poi vedremo
l’esecuzione di altri test in relazione al valore di ACTH. Piu in generale andremo ad eseguire anche esami i
immagine per Valutare l’ipofisi, i surreni e cosi via indaghiamo per neoplasie extrasurrenaliche e
extraipofisarie nel sospetto di secrezione ectopica di ACTH.
Ora dobbiamo dosare l’ACTH che può essere basso, quindi soppresso (sotto 5picogrammi per mL). slide 97
se l’ACTH è basso allora pensiamo ad una patologia surrenalica e quindi ad una forma ACTH indipendente; a
questo punto l’indagine viene indirizzata alla ricerca di un adenoma surrenalico. Se L’ACTH è leggermente
piu alto (ad esempio 10 picogrammi/mL) allora l’orientamento è verso una forma ACTH dipendente.

Possono esserci anche valori intermedi (tra 5 e 10 picogrammi / mL) , siamo in una zona grigia e facciamo
allora un test al CRH , con il quale possiamo avere un aumento della secrezione di ACTH nel caso di un
adenoma ipofisario perché c’è risposta, mentre non avremo risposta nel caso di una secrezione di ACTH
ectopica.

Quando vogliamo capire una forma ACTH dipendente la diagnosi differenziale è sostanzialmente tra
adenoma ipofisario e le forme ectopiche e qui possiamo usare il desametasone, questa volta ad alte dose
(Test di LIddle 2, chiamato così perché vengono usati 2mg di desametasone , al contrario del test Liddle 1
che usa 1mg) che ci serve per capire meglio la situazione (slide 98). Si può fare un test rapido
somministrando 8mg di desametasone alla sera alle 23 e poi al mattino si misura il cortisolo ; oppure si può
somministrare per i due giorni e al terzo giorno si misura.

Se vi è una soppressione, generalmente si considera piu del 50% del cortisolo, siamo verosimilmente di
fronte ad un Cushing ipofisario, quindi un adenoma ipofisario. Viceversa se non vi è soppressione , quindi
non c’è nessun impatto del desametasone sull’aumento di cortisolo allora possiamo essere di fronte ad una
secrezione ectopica.

Riassumendo : il desametasone ad alte dosi serve per fare diagnosi differenziale tra l’ACTH dipendente
ipofisario e ectopico. Quello a basse dosi invece è un test di screening di primo livello che serve per valutare
l’asse e iniziare eventualmente la terapia.

Un altro test utile per la diagnosi differenziale è il test al CRH per i valori intermedi tra 5 e 10, però la
somministrazione di CRH determina generalmente un aumento dell’ACTH nelle condizioni in cui alla base vi
sia una patologia ipofisaria e nessun aumento nel caso di un ACTH ectopico.
Queste sono le premesse ; a volte i dati sono molto chiari , altre volte no quindi bisogna continuare con le
indagini soprattutto nei casi di Cushing ciclico dove facciamo questi test e i risultati non sono interpretabili
quindi il soggetto va valutato nel tempo.

Nel caso in cui l’ACTH sia aumentato (forma dipendente) dobbiamo valutare in primis l’ipofisi (adenoma) e
quindi facciamo una risonanza magnetica , che rappresenta la tecnica diagnostica piu adeguata.

Nella slide vediamo adenomi e microadenomi osservabili tramite la risonanza magnetica.


Per quanto riguarda la secrezione ectopica generalmente si caratterizza per valori di ACTH elevati (oltre
100picogrammi/mL), quindi valori parecchio elevati di cortisolo e anche di cortisoluria , con un impatto
sugli elettroliti che causa una ipokaliemia importante : sono soggetti che solitamente sono caratterizzati da
dimagrimento in relazione alla patologia di base (ad esempio il tumore polmonare) e possono avere un
certo grado di iperpigmentazione cutanea con ipokaliemia. Questi aspetti sono fondamentali per orientare
la diagnosi verso una forma di secrezione ectopica.
SBOB.: Adriana Belardi
REV.: Eleonora Cucini
28/03/2019- 2°ora

CAUSE DI CUSHING
In ordine di frequenza, abbiamo:

1. Adenoma
Vedi lezioni precedenti

2. Carcinoma
Vedi lezioni precedenti

3. Iperplasia surrenalica macronodulare ACTH indipendente (AIMAH)


Forma particolare legata in parte alla presenza di recettori per ormoni che apparentemente nulla
hanno a che vedere con il cortisolo, per esempio per GIP, serotonina, vasopressina, eccetera, che
sono accoppiati alle proteine G. Sono forme spesso familiari. Oltre all'eccesso di cortisolo, spesso si
può avere un eccesso anche degli altri ormoni della corteccia surrenalica.

4. Malattia nodulare pigmentata primitiva della corteccia surrenale (PPNAD)


Iperplasia surrenalica piuttosto caratteristica, perché i surreni presentano proprio dei noduli
iperpigmentati con delle aree di surrene caratterizzate da atrofia.
È una condizione genetica che si associa spesso al complesso di Carney.
-- Clinica:
È caratterizzata da diverse endocrinopatie e mixomi (quindi per esempio tumori cardiaci benigni)

-- Diagnosi:
La diagnosi spesso non è agevole. Ovviamente l'immagine aiuta a stabilire il grado di iperplasia
della ghiandola.
Qui sono riassunti quelli che sono i test utilizzati nella diagnosi, si parte dall'approccio iniziale e poi
man mano si procede.

Questo invece è l'algoritmo che può aiutare nel ricordare il processo diagnostico. Anche questo ha
l'intento di aiutare a ricordare le risposte al test eseguito.

-- Terapia:
Adesso chiaramente bisogna correggere l'ipercortisolismo, e quindi correggere quella che è la
condizione di base, che abbiamo detto essere è la malattia di Cushing, o un adenoma ipofisario.
L'approccio quindi è generalmente chirurgico, e nel 60-80% dei casi è risolutivo, mentre si
caratterizza per una recidiva nel 20-40% dei casi. L'intervento che si esegue oggi è quello per via
transnasosfenoidale, che è meno invasivo rispetto a una
craniotomia.
Ovviamente c'è una terapia medica, che può essere utilizzata
prima dell'intervento o nei pz che non possono essere sottoposti
all'intervento. Ci sono diversi farmaci, per esempio il
metirapone, che è una sostanza che inibisce la sintesi cortisolica,
agendo a livello della 11-idrossilasi. Però ecco generalmente
sono terapie che possono essere gravati a effetti collaterali.
Ovviamente si fa chemioterapia per le forme maligne.
Nelle forme caratterizzate da iperplasia nodulare la
surrenectomia può essere bi o monolaterale.

Quindi con questo diciamo finiamo il Cushing, mi interessa


soprattutto l'aspetto clinico, la diagnosi, la terapia relativamente se non finalizzata a questi pochi
aspetti.

[Il professore salta alcune diapositive in quando già osservate con il porf. Puxeddu. Ci sono poi
delle diapo per quanto riguarda le sindromi adrenogenitali che possono essere utili come ripasso]

IPOCORTISOLISMO
Passiamo all'iposurrenalismo. Abbiamo una situazione di una forma:
• Primaria: classicamente è la malattia di Addison, in cui avremo
un'insufficienza, un danno, a livello del surrene, per cui avremo un aumento
dell'ACTH. Quindi viene meno il feedback da parte del surrene.
• Secondaria: riconosce una causa ipofisaria o ipotalamica, per cui è bassa la
secrezione di ACTH e quindi avremo ipocortisolismo causato
dalle ghiandole surrenali che vanno incontro ad atrofia.

Addison, che è il medico che ha descritto inizialmente questa


patologia, qui rappresentata negli elementi principali, aveva descritto dei casi di
insufficienza surrenalica. Le cause erano principalmente infettive, tubercolosi in primis (6
casi), ma anche tumori (3 casi), emorragie (1 caso) e anche atrofia (1 caso) di origine
all'epoca sconosciuta. Rappresenta questa persona allettata, sembra quasi soporosa, con
l'iperpigmentazione e con delle aree di vitiligine. Quindi la forma primaria è questa.

Incidenza: parliamo di alcuni casi per milione all'anno (4.7-6.2/milione/anno)


Prevalenza:93-14/milione

-- Eziologia:
• Autoimmune: causa principale, almeno in Italia. Consiste in un danno cellulo-mediato del
surrene. Spesso questa patologia è associata ad
altre forme di endocrinopatia su base autoimmune
(diabete, tiroidite di Hashimoto, morbo di
Basedow, e altre patologie nell'ambito delle
poliendocrinopatie autoimmuni, che
comprendono anche patologie anche non
strettamente endocrine). Si è detto che la causa
principale è quella autoimmune. In realtà, questo
è quello che si riscontra nel surrene nell'ambito di
questa patologia, e l'aspetto autoimmune è sottolineato dal fatto che si formano degli
anticorpi che non hanno un ruolo per quanto riguarda il danno d'organo, ma hanno un ruolo
soprattutto per quanto riguarda la predizione allo sviluppo di insufficienza surrenalica, in
particolare 21-idrossilasi. Sono diversi anticorpi ma questi sono quelli più importanti che di
solito si misurano nei soggetti con sospetto di
ipocortisolismo, o anche in soggetti che hanno altre
condizioni endocrine autoimmuni che sono a
maggior rischio di avere anche l'ipocortisolismo.
Quindi un pz che ha una tiroidite di Hashimoto per
esempio deve fare uno
screening anche per questo
aspetto.
In realtà come vedete poi queste
sono le altre condizioni sempre su
base autoimmune che possono associarsi alla malattia di Addison.

• Infettiva: Vi sono poi le forme infettive, in passato la


tubercolosi rappresentava la causa più frequente,
oggi da noi meno.

• Infiltrativa

• Emorragica: la terapia anticoagulante può aiutare, si è visto che ci sono stati casi di necrosi
emorragica del surrene
• Collagenopatie

• Patologie neoplastiche

• Forme particolari quali l'adrenoleucodistrofia:


sostanzialmente è una patologia che coinvolge il
SNC, che consiste in un difetto su base genetica
del metabolismo degli acidi grassi a catena molto
lunga. Giusto per ricordare che alla
sintomatologia di tipo neurologico può integrarsi
anche un ipocortisolismo, quindi un quadro di
insufficienza surrenalica.

Torno un attimo sulla presenza di anticorpi che hanno un valore predittivo per quanto riguarda lo
sviluppo di iposurrenalismo. Il riscontro di anticorpi positivi in un soggetto ci spinge a valutare la
riserva surrenalica, quindi a eseguire dei test di stimolazione per vedere se il surrene del soggetto è
in grado di secernere in maniera adeguata il cortisolo, altrimenti in relazione all'entità del deficit di
secrezione va presa in considerazione l'ipotesi di avviare o meno la terapia sostitutiva.
Eventualmente ripeto il test periodicamente e qualora vedo un deficit importante si avvia una
terapia. Questi sono soggetti sono quindi seguiti nel tempo, vanno inseriti in un follow-up
endocrinologico per questo aspetto.

-- Segni e sintomi:
Sintomi:
• Debolezza, affaticamento: ci sono sempre
• Mancanza di appetito: in parte è dovuto al fatto che probabilmente vi è anche un problema
proprio a livello delle aree che controllano l'appetito, quindi il soggetto tende a perdere peso
• Sintomi addominali, gastrointestinali (nausea, vomito)
• Dolori addominali, muscolari
• Vertigini: espressione di ipotensione ortostatica. Si tratta infatti
di soggetti che generalmente sono anche disidratati, quindi
ipotesi. Si è detto che la mancanza di surreni determina la morte
dell'animale, e la morte avviene soprattutto per shock
ipovolemico, quindi l'ipotensione è sicuramente un aspetto
molto utile.

Segni:
• Perdita di peso
• Ipotensione
• Pigmentazione della cute e delle mucose. Ovviamente qui facciamo riferimento alla forma
primaria, alla classica malattia di Addison, quindi con danno surrenalico e
ipersecrezione di ACTH. Spesso è poco evidente a livello della
cute e più evidente a livello delle mucose, soprattutto gengivali.
Sempre per la forma primaria. Vedete come è evidente a livello di
cicatrici e pieghe cutanee. Immagine di prima e dopo la cura.
Quindi questo è un segno classico.
E vedete anche le aree di vitiligine che possono essere presenti. La
vitiligine voi sapete è una malattia autoimmune, quindi è una condizione
in questi soggetti che riconosce come meccanismo di base un danno
autoimmunitario.
Vediamo anche questa pz prima e dopo la cura. Vedete il dimagrimento,
la colorazione come cambi dopo la cura, che è molto semplice.

• Eventualmente perdita di peli ascellari per un quadro di ipogonadismo che


viene a verificarsi.
!!Questi sintomi ricordateli, soprattutto l'ipotensione!!

Una cosa che qui non vedo è che dal punto di vista del laboratorio, e quindi anche clinico, è
presente l'ipoglicemia, cioè questi soggetti vanno incontro facilmente a
ipoglicemia, e può essere anche grave, importante tanto da compromettere
lo stato di vigilanza del soggetto e quindi peggiorare il quadro
neuorologico, che si può presentare con sopore, e si risolve con la
somministrazione di zucchero.

Ci sono dei quadri poi di insufficienza corticosurrenalica acuta, per


esempio un quadro di necrosi emorragica (prima si faceva cenno all'uso di
anticoagulanti). Si può verificare raramente, ma anche in corso di
infezioni, di sepsi in particolare, vedete da diversi batteri, il
meningococco ad esempio, e questo è uno dei quadri descritti. Io ne ho
visto uno molti anni fa in malattie infettive. Quindi danno luogo a una
necrosi emorragica che significa un'insufficienza acuta dell'organo, quindi
i surreni vanno incontro a insufficienza funzionale, quindi con un grave
quadro di shock che si sovrappone allo shock della sepsi. Voi sapete che
anche la sepsi è una condizione molto grave, e fra le manifestazioni c'è
anche la deplezione di volume, quindi la tendenza a fare ipotensione e
shock ipovolemico. Quindi sono dei quadri che vanno riconosciuti presto
per poi agire con terapia antibiotica, supporto rianimatorio. Si tratta di pz per i quali è necessario
mettere in atto tutti gli accorgimenti per mantenerli in vita.

-- Diagnosi:
Nella forma primaria:
• I valori di cortisolo saranno bassi.
• Nella forma primaria avremo livelli di ACTH aumentati, anche moderatamente.
• Possono essere bassi anche gli altri ormoni prodotti dal surrene.
• Per stabilire l'eziologia, quindi soprattutto l'eziologia autoimmune che ripeto è la più
comune, si esegue la determinazione di anticorpi, in particolare di quelli elencati nella slide,
che poi come è spiegato sotto hanno questo ruolo di predizione di insufficienza ghiandolare
nel tempo.

Vi è ovviamente anche una forma di Addison bianco, secondario, dovuto a una ridotta secrezione
di ACTH o di CRH. Generalmente si considera anche in un contesto di ipopituitarismo, quindi una
ridotta funzione ipofisaria più ampia, dove sono coinvolti anche deficit di altri ormoni (GH, TSH
etc.) e quindi sostanzialmente una forma che non è
caratterizzata da iperpigmentazione, questo già rende
la diagnosi un po' più difficile. Inoltre, siccome
abbiamo visto che i mineralcorticoidi sono sotto il
controllo del sistema renina-angiotensina, questi
ormoni verranno prodotti, per cui l'ipotensione, soprattutto l'ipotensione grave, è meno comune.

Questi sono numeri per stabilire più o meno il deficit di cortisolo (ICSP = insufficienza
corticosurrenalica primitiva). Valori bassi di cortisolo sono
sostanzialmente indicativi di insufficienza d'organo, soprattutto a
fronte di valori elevati di ACTH (forma primaria!). Quello che si
può fare è un test di stimolazione con ACTH per vedere se in
realtà questa è una risposta adeguata. Al di sotto di 20μg la
risposta risulta deficitaria. Quindi quando noi vogliamo valutare
la riserva surrenalica, utilizziamo il test all'ACTH.
Nei pz che hanno gli anticorpi positivi facciamo il test all'ACTH,
sulla base del risultato ci regoliamo se avviare una terapia oppure
seguirli nel tempo e periodicamente riproporre il test per stabilire il grado di deficit di cortisolo.
Considerate che non tutti i soggetti che hanno anticorpi positivi hanno un deficit di cortisolo, o
andranno incontro a una ipofunzione, probabilmente parliamo di un 50-60% che andranno incontro
a un ipocortisolismo, ma una certa quantità di persone mantiene nel tempo una buona funzione
surrenalica. Però per stabilire questo bisogna seguirli nel tempo.
Vedete sostanzialmente un algoritmo per stabilire la diagnosi di ipocrtisolimso primario o
secondario, che un po' vi può aiutare a ricordare questi aspetti.

-- Terapia:
La terapia dell’ipocortisolismo, cornico e acuto, è un aspetto che invece va puntualizzato e che vi
chiedo di ricordare. Questo lo dico proprio per esperienza, è qualcosa che dobbiamo sapere bene,
perché mettere in atto una terapia adeguata in un pz che può avere un ipocortisolismo acuto
significa salvargli la vita.
Questa è la terapia cronica, si tratta di un deficit ormonale di cortisolo, quindi ridiamo cortisolo
dall'esterno:
• Cortisone acetato: questo farmaco si usa da molti anni, e
lo si dà 2-3 dosi al giorno, quindi la dose maggiore al
mattino, poi una dose al pomeriggio e eventualmente una
dose nel tardo pomeriggio, per un massimo di 25-37,5
mg/gg. Per alcuni soggetti si può dare meno, per altri la
dose effettivamente è quello.
• Idrocortisone: alla dose di 15-25mg/gg.
Il concetto è di dare comunque il cortisolo, sotto forma di
idrocortisone o cortisone acetato, in queste quantità, ogni
giorno.
Soprattutto nelle forme primarie, il danno dell'organo può essere
esteso a tutto l'organo, quindi anche alla zona glomerulare, per
cui si ha un deficit anche di mineralcorticoidi. Ovviamente avremo anche una sintomatologia legata
a questo deficit, in particolare l'ipotensione, che sarà accentuata, e anche l'ipotensione ortostatica.
Quindi dobbiamo reintegrare anche i mineralcorticoidi, e nella pratica clinica in realtà l'unico
farmaco che si utilizza è il fluoroidrocortisone, un farmaco anche questo molto vecchio ma sempre
molto efficace (che tra l'altro non è disponibile nelle nostre farmacie ma bisogna procurarlo nelle
farmacie del Vaticano o San Marino, per esempio in ospedale facciamo delle richieste ad hoc) e va
somministrato alla dose 0,05-0,2mg/gg, una volta al giorno. Questo ha la funzione di ristabilire la
pressione arteriosa, quindi ristabilire i livelli di pressione adeguati e quindi prevenire l'ipotensione
ortostatica.
Poi in alcune situazioni eventualmente va in qualche modo reintegrato il deficit di ormoni andorgeni
che può realizzarsi ripeto quando il danno ha interessato tutta la corteccia.
Quindi mi raccomando terapia con cortisone acetato e idrocortisone, le dosi queste tutti i giorni.

Ovviamente poi questi soggetti vanno controllati nel tempo, però


generalmente la risposta è buona. Un aspetto che devo sottolineare nei pz che
fanno la terapia è che queste dosi sono stabilite per le condizioni di tutti i
giorni, ma qualora ci siano condizioni di stress, di diverso tipo (fisico,
pischico, interventi chirurgici, febbre, influenza), allora queste dosi vanno
aumentate. Quindi il soggetto deve essere da questo punto di vista aiutato,
deve sapere che se si verifica una cosa di questo tipo deve aumentare la dose,
quindi ad esempio invece che prendere 37,5 al giorno aggiungerà mezza
compressa o una compressa in più. E deve anche avere a casa
dell'idrocortisone in fiale che può essere somministrato per via intramuscolare. Quindi lui e i
familiari devono essere in grado di utilizzarlo, perché può succedere che in condizioni particolari il
soggetto non può assumere il farmaco per bocca, oppure pensate in situazioni di vomito in cui
comunque il farmaco non può essere assorbito, allora il farmaco va somministrato per via
intramuscolare, alla dose per esempio di 50mg o 100mg. Ripeto sono condizioni in cui il soggetto è
a rischio di grave ipotensione quindi il farmaco indubbiamente va somministrato. Tra l'altro questi
soggetti dovrebbero portare con loro anche un cartellino di riconoscimento, in cui c'è scritto che
soffrono di questa malattia per cui se vengono trovati in condizioni critiche va somministrato
l'idrocortisone per via intramuscolare.

Invece quando siamo in condizioni di emergenza (possono essere per condizioni che siano
subentrate, prima si parlava di febbre etc) o quando comunque la dose per via
orale non viene assorbita in maniera adeguata allora va somministrata in vena o
per via intramuscolare, ovviamente in ospedale si usa la via endovenosa, a
domicilio la via intramuscolare, alla dose di inizio almeno 100mg e poi seguita
da altre somministrazioni ad esempio durante la giornata di 50mg ogni per
esempio 6h, quindi bisogna assicurare una quantità di cortisolo adeguata
nell'arco di 24h.
Solo questo non basta perché questi soggetti si diceva tendono a perdere
volume, quindi disidratarsi, per cui è fondamentale anche la correzione della volemia, quindi
l'idratazione di questi soggetti. In parte questa idratazione può essere attuata con soluzione
glucosata nel caso in cui la glicemia sia bassa.
Quindi se uno ha un sospetto di un'insufficienza corticosurrenalica acuta la terapia va iniziata
subito, e si può iniziare anche con i glucocorticoidi di sintesi, anche con il desametazone, se dopo si
vuole misurare anche i livelli di cortisone, perché abbiamo visto il desametazone per esempio non
interferisce col dosaggio. Oppure si esegue un prelievo basale e poi si inizia la terapia, e dal
prelievo eventualmente risulteranno dei bassi valori di cortisolo. Però il concetto è di iniziare subito
la terapia. Ecco questo è un punto che dovete ricordare sempre, anche quando sarete medici.

INCIDENTALOMI
Abbiamo detto che il surrene può essere sede di adenomi, carcinomi, secernenti cortisolo, però
sempre più spesso si riscontrano delle masse localizzate a livello del surrene che possono non
secernere nulla, e vengono chiamati incidentalomi. Oppure possono secernere cortisolo ma non
abbiamo ancora una clinica evidente, per cui dal punto di vista della diagnosi il soggetto deve
andare incontro a un iter diagnostico. Però la
situazione classica è che il soggetto fa un esame per
esempio per la colecisti, si indaga e si scopre che ha
un nodulo a livello del surrene. Quindi tutto parte
come incidentaloma, come qualcosa che non secerne
ormoni, perché non vi è una clinica, poi bisogna
indagare e può darsi che quello che era un
incidentaloma in realtà è un adenoma che inizia a
secernere l'ormone.
Generalmente queste formazioni possono essere adenomi non secernenti. La dimensione della
formazione può fare una differenza per quanto riguarda il
tipo di struttura, quindi se adenoma o carcinoma in
relazione alle dimensioni.

Chiaramente un aspetto che va sottolineato è che un


incidentaloma va indagato, e per esempio l'indagine più
importante è l'ago aspirato, la biopsia dell'organo per
capire cosa sia. L'ago aspirato chiaramente comporta dei
rischi nel caso in cui quella formazione sia un
feocromocitoma, perché a quel punto può partire una crisi
ipertensiva anche grave. Quindi il soggetto deve andare
incontro agli accertamenti per escludere che non abbia un
feocromocitoma, quindi vanno misurate le catecolamine urinarie, l'acido vanilmandelico,
ovviamente il cortisolo, insomma va fatto uno screening. A quel punto se l'immagine non è chiara,
perché a volte con la TAC o la RMN è impossibile esprimersi sulle caratteristiche del nodulo, allora
si procede con l'ago aspirato, oppure direttamente con un intervento chirurgico di rimozione della
massa, che poi verrà successivamente analizzata. Questa è una situazione che si riscontra con una
certa frequenza e richiede comunque l'iter endocrinologico per caratterizzarne gli aspetti di tipo
secretivo e se secretivo di che tipo, catecolamine, cortisolo, aldosterone...

IPERALDOSTERONISMO
La secrezione di aldosterone è sotto il controllo del sistema renina-angiotensina, che si attiva per
l'ipovolemia e iponatriemia, L’aldosterone determina un aumento
del riassorbimento di sodio e liquidi.
L'iperaldosteronismo può essere primario o secondario.

Primario
-- Eziologia: (primaria)
• Formazione surrenalica, ad esempio l'adenoma che secerne
aldosterone, che denota una condizione nota come morbo o
malattia di Conn. Quindi un adenoma può produrre cortisolo in eccesso, però può produrre
anche aldosterone.
• Iperplasia bilaterale (iperaldosteronismo primario idiopatico)
• Forme meno comuni, fra cui il carcinoma e l’iperaldosteronismo primario familiare di tipo I
e II.

-- Clinica:
• Ipertensione arteriosa: caratteristica clinica di questa condizione. Abbiamo ipertensione nel
feocromocitoma, nel Cushing, e ora come elemento distintivo dell'iperaldosteronismo.
L'ipertensione può essere di grado moderato ma anche severa, e spesso è resistente al
trattamento farmacologico. Questo può essere un campanello di allarme, uno utilizza più
farmaci però la pressione rimane alta
• L'ipopotassiemia spesso è aggravata dall'uso di diuretici, e dà come sintomi crampi,
debolezza muscolare, parestesia.
• Spesso tutto inizia con un riscontro di un incidentaloma,
quindi una formazione surrenalica apparentemente. In un
soggetto iperteso non necessariamente un adenoma deve
secernere aldosterone, però le indagini lo possono poi
documentare.
• Un aspetto che caratterizza questa condizione è che vi è
una tendenza ad andare incontro ad eventi cardiovascolari
in età anche piuttosto giovane, spesso anche nei familiari
di questi soggetti.

-- Diagnosi:
L'aspetto che caratterizza questa forma è che l'aumento di aldosterone non può essere soppresso con
quelli che sono normalmente i parametri che determinano una
riduzione di aldosterone, quali ad esempio l'espansione di
volume, l'aumento dell'apporto di sodio, sono tutti aspetti che
poi possono essere usati in fase diagnostica.
Per la diagnosi si utilizza in realtà il rapporto
aldosterone/renina, che normalmente è al di sotto di 20-25.
quindi non è solo aldosterone, ma l'aldosterone insieme alla
renina. Chiaramente nei soggetti che hanno iperaldosteronismo
primitivo questo rapporto tenderà ad aumentare perché la
concentrazione di aldosterone è aumentata rispetto a
quella che è la secrezione di renina.
Si possono fare dei test dinamici, espansione di volume,
test al captopril, tutte condizioni che normalmente
riducono la secrezione di aldosterone, ma che in questi
soggetti non si verifica. Li vedete qui descritti, ma
insomma il concetto è che non vi è una soppressione della
secrezione di aldosterone.
[I vari metodi secondari vengono analizzati brevemente
in slides qui non riportate – ndr]
Quindi la secrezione è autonoma, svincolata dal controllo
della renina, del volume, del sodio, e l'aspetto clinico
principale è l'ipertensione arteriosa in soggetti spesso giovani.
Quindi la diagnosi è biochimica, il rapporto tra aldosterone e renina, e poi ovviamente l'immagine ci
permetterà di individuare la sede e quindi il surrene interessato.

-- Terapia:
La terapia chiaramente è chirurgica e consiste nell'asportazione del surrene.

Secondario
È legato generalmente a un ridotto flusso a livello renale, quindi il fatto che si venga a realizzare
una riduzione di flusso a livello renale fa sì che aumenti la secrezione di renina e quindi di
aldosterone. È una condizione quindi diversa e generalmente riconosce come origine una stenosi a
livello dell'arteria renale, una stenosi che può essere su base aterosclerotica o per firodisplastica,
soprattutto nei soggetti più giovani. [Eziologia, clinica, diagnosi e terapia vengono descritti in
slides qui non riportate – ndr]
IPERTENSIONE ARTERIOSA
Tutto quello che comporta l'ipertensione arteriosa, soprattutto se grave e nel tempo, con un impegno
eventualmente anche cardiaco, rischio di edema polmonare acuto, ictus eccetera.
[Iperplasia congenita e deficit enzimatici vanno visti autonomamente]
Poi c'è da dire che l'ipertensione arteriosa è comune a diverse patologie endocrine, abbiamo visto il
Cushing, feocromocitoma, iperaldosteronismo primario, ma anche iper e ipotiroidismo, acromegalia
oppure con l'uso degli ormoni esogeni. Quindi l'ipertensione arteriosa è essenziale nella maggior
parte dei casi, in un 10% dei casi riconosce una causa da disturbi endocrini.
Sbob.: Anna Degliesposti
Rev: Chiara Grimani
02/04/19-1°ora (9-10)

ASSE IPOTALAMO-IPOFISIARIO

Ipotalamo e ipofisi sono delle strutture connesse dal punto di vista anatomico e funzionale.
L’asse regola la maggior parte delle ghiandole endocrine e riceve feedback da parte delle strutture
superiori che integra con stimoli periferici in modo da determinare poi segnali ormonali che vanno a
regolare a loro volta le ghiandole stesse.

IPOTALAMO
L’ i p o t a l a m o è u n a s t r u t t u r a
diencefalica, è collocato vicino al
chiasma ottico. In presenza di
adenomi ipofisari viene compresso
il chiasma ottico e abbiamo
problemi oculari.
L’ ipotalamo è formato da nuclei
collocati nella porzione anteriore,
posteriore e mediale. Questi nuclei
sono implicati in modo diverso nel
controllo della funzione ipofisaria,
particolare rilevanza hanno i nuclei
sopraottico e paraventricolare.
L’ipotalamo oltre a quella ormonale,
svolge numerose funzioni:
• È implicato nel meccanismo della gratificazione (neurotrasmettitore: dopamina);
• Ruolo nel comportamento alimentare: regolazione dell’appetito e della sete. Nell’ipotalamo
sono presenti i nuclei oressigeni e anoressigeni regolati da input superiori, ma anche da
segnali periferici. Ad esempio la leptina, ormone prodotto dal tessuto adiposo dopo i pasti,
riduce il senso di appetito e agisce sui nuclei anoressigeni, anche l’eccesso di insulina dopo
il pasto agisce sui nuclei anoressigeni. Lo stesso vale per gli ormoni che arrivano
dall’intestino come GLP1 (glucagon like peptide 1), secreto subito durante il pasto e stimola
la secrezione di insulina mentre inibisce la secrezione del glucagone. Viceversa ormoni quali
la grelina, prodotta dallo stomaco in condizioni di digiuno, stimolano i nuclei oressigeni,
quindi stimolano l’appetito. I nuclei ipotalamici stimolati durante il pasto attivano una serie
di risposte: aumento motilità intestinale, variazioni emodinamiche (pressione), aumento del
flusso ematico all’intestino: tutto è finalizzato a favorire il processo digestivo.
• Implicato nel comportamento di difesa/ stress fisico o psicofisico: determina una variazione
di ormoni periferici quali catecolammine e cortisolo che determinano variazioni
emodinamiche con aumento di flusso nei muscoli.
• Controllo della glicemia e prevenzione dell’ipoglicemia. A livello ipotalamico abbiamo dei
sensori dell’ipoglicemia.
N.B. Se si induce ipoglicemia sistemica con infusione di insulina, mentre a livello
ipotalamico si somministrava glucosio la risposta difensiva non parte.
• Termoregolazione: mantiene costante la nostra temperatura endogena, fondamentale per far
sì che i processi biochimici si svolgano in maniera ottimale. L’ipotalamo rileva la
temperatura esterna tramite sensori cutanei e li integra con quelli endogeni ristabilendo una
temperatura adeguata tramite il sistema nervoso simpatico (vasocostrizione, vasodilatazione,
sudorazione, brivido).
A livello ipotalamico viene stabilita quella che è la ritmicità di tutti gli ormoni, che è
fondamentale per la normale funzione delle ghiandole endocrine. Se vi è un’alterazione del
ritmo sonno veglia ad esempio nei lavoratori che fanno turni notturni, abbiamo un’alterazione
della ritmicità e si verifica un adattamento.
Gli ormoni prodotti a livello ipotalamico sono fattori di rilascio che stimolano la secrezione
delle tropine ipofisarie. Abbiamo il fattore di rilascio della prolattina (PRH), TRH, CRH,
GHRH e fattori di rilascio per le gonadotropine (GnRH).
!
Abbiamo anche dei fattori che inibiscono il rilascio delle tropine ipofisarie. Ad esempio il
fattore di inibizione del rilascio di prolattina è la dopamina, questa inibizione è continua sulle
cellule dell’ipofisi.
L’iperprolattinemia è correlata con un’alterazione di questa inibizione. La prolattina è anche
stimolata dal TRH quando si trova ad alte concentrazioni (es. ipotiroidismo). Quindi se ci si
presenta una ragazza con iperprolattinemia, e quindi amennorrea, dobbiamo indagare anche la
tiroide.
Un altro fattore inibente è la somatostatina, prodotta anche nel pancreas e nell’intestino che
modula la secrezione di insulina e glucagone. Poi abbiamo un fattore che inibisce la secrezione
del GHRH.

Ritornando ai nuclei ipotalamici abbiamo:


• Nuclei magnocellulari: sintetizzano la vasopressina e l’ossitocina che raggiungono la
neuroipofisi viaggiando negli assoni legati a proteine dette neurofisine;
• Nuclei parvocellulari: producono e rilasciano fattori di stimolazione per le cellule
ipofisarie e la dopamina che mantiene un tono inibitorio continuo sulla secrezione di
prolattina.
Ruolo importante del sistema portale ipotalamo-ipofisario.
E’ presente un sistema arterioso a livello dell’eminenza mediana, il quale deriva dall’arteria
ipofisaria superiore, da qui si forma un plesso venoso che raggiunge un altro plesso a livello della
ipofisi. Questo permette il raggiungimento da parte dei fattori ipotalamici dell’ adenoipofisi.

Abbiamo visto che il sistema portale è presente anche nel surrene per fare in modo che
concentrazioni elevate di cortisolo possano raggiungere la midollare e stimolare la secrezione di
catecolamine.

IPOFISI
L’ipofisi è costituita da una parte anteriore detta adenoipofisi, da una parte posteriore detta
neuroipofisi e da una parte intermedia poco rappresentata.

L’adenoipofisi deriva dalla tasca di Rathke e ha origine ectodermica. Si forma un’invaginazione che
tende a chiudersi e poi in parte ingloba la parte tuberale. La neuroipofisi deriva dal pavimento del
terzo ventricolo.
Sono due strutture diverse dal punto di vista dell’embriogenesi.

Lobo posteriore ipofisi: libera ormoni che sono prodotti a livello ipotalamico e trasportati poi a
livello neuroipofisario, quest’ultimo rappresenta una sorta di “magazzino”.
Lobo anteriore ipofisi: sintetizza le tropine ipofisarie sotto il controllo dei fattori ipotalamici che
giungono all’adenoipofisi tramite il sistema portale.
Aspetto importante: la vasopressina che normalmente non è implicata nel controllo degli ormoni
dell’adenoipofisi, in situazioni di stress può controllare la secrezione di ACTH.
Tropine ipofisarie
Tropine perché hanno un ruolo trofico sulle ghiandole a valle, se diminuisce la secrezione di queste
tropine le ghiandole a valle vanno incontro a atrofia.
• TSH: ha una secrezione circadiana, quindi anche il rilascio di ormoni tiroidei ha una
ritmicità. E’stimolato da una diminuzione degli ormoni periferici T3 e T4 e dal TRH, mentre
la dopamina e l’aumento di T3 e T4 (tramite feedback corto e lungo) ne inibiscono il
rilascio. Infine la somatostatina può modulare la secrezione di TSH.
E’ l’elemento fondamentale per fare diagnosi di ipertiroidismo (TSH basso) o ipotiroidismo
(TSH alto). Eccezione: se il TSH è basso potrebbe essere anche un deficit ipofisario, un
ipertiroidismo secondario con anche T3 e T4 bassi;
• ACTH: deriva dalla pro-opiomelanocortina insieme all’ MSH (ormone melanocita
stimolante) e alle beta-endorfine importanti nella percezione del dolore e stimolate
dall’attività fisica. Il picco dell’ACTH si verifica nelle prime ore del mattino, è
fondamentale per la funzionalità della zona fascicolata e reticolare del surrene (la zona
glomerulare è sotto il controllo dell’angiotensina). La regolazione è a feedback da parte dei
glucocorticoidi (cortisolo) che agiscono a livello ipofisario e ipotalamico.
L’MSH stimola la pigmentazione cutanea e ha una funzione anoressigena. Per questo
motivo nel morbo di Addison con ipocortisolismo si ha mancanza di appetito e maggiore
pigmentazione cutanea per aumento di questi fattori. Il cortisolo di per sé è un ormone che
stimola l’appetito;
• FSH, LH (gonadotropine): agiscono a livello delle gonadi, testicoli e ovaie, promuovono
lo sviluppo, maturazione dello sperma e dei follicoli e stimolano la produzione degli ormoni
sessuali quali testosterone e estradiolo.
• PROLATTINA: è sotto il controllo della dopamina ipotalamica. Fisiologicamente aumenta
durante la gravidanza per preparare la mammella alla lattazione e durante la lattazione
stessa.
Effetti: stimola lo sviluppo dei lobuli della mammella, la sintesi del latte e ha azione
negativa sulla funzione riproduttiva poiché blocca la progressione del ciclo ovarico (inibisce
LH).
Anche in condizioni di stress aumenta la prolattina.
La secrezione della prolattina è stimolata dal TRH (escludo sempre ipotiroidismo nelle
persone che hanno iperprolattinemia), dall’ ossitocina, dal VIP e dalla suzione.
I fattori che inibiscono il suo rilascio sono dopamina e GABA.
Per l’eiezione del latte è necessario che ci sia uno stimolo che è quello della suzione. In
questo processo entra in gioco l’OSSITOCINA che stimola le miocellule della ghiandola
mammaria, inoltre è implicata anche nelle contrazioni uterine durante il travaglio.
SBOB: FABIANA CALICIOTTI
REV: ROBERTA LOCATELLI
02/04/2019 2° ora mattina

L’ORMONE DELLA CRESCITA

Il GH, o ormone della crescita, una volta veniva chiamato ormone somatotropo. Le cellule che lo
producono sono localizzate nella parte laterale dell’ipofisi (le cellule localizzate nella parte centrale
producono ACTH e TSH). Circola in forma libera, e in piccola parte in forma legata alle proteine
specifiche per il trasporto dell’ormone della crescita, le GHBP (GH binding protein).
Azioni dell’ormone della crescita:
• Agisce su tutti gli
organi, perché tutti gli
organi sono soggetti ad
un accrescimento.
• Ha un’azione
METABOLICA.
• A livello epatico
stimola la produzione di
somatomedine, in
particolar modo di
IGF1; anche IGF2 ma
in piccola parte, perché
è poco presente
nell’adulto, è per lo più
presente in età infantile.
IGF 1 è il fattore
mediante il quale agisce
il GH, quindi su molti tessuti non agisce direttamente. Riconosce un meccanismo per quanto
riguarda l’azione recettoriale simile alla prolattina, quindi tramite l’attivazione di questa
proteina è in grado di provocare una risposta metabolica intracellulare.
In sintesi l’ormone della crescita regola la crescita tissutale e ha un’azione sul metabolismo. Queste
azioni, soprattutto per quanto riguarda la crescita, sono svolte in collaborazione con altri ormoni tra
cui:
- L’insulina;
- Gli ormoni tiroidei, che hanno un ruolo importante nella crescita, tanto che un deficit di
ormoni tiroidei durante la crescita può portare a danni importanti sia a livello neurologico
che a livello osseo, con forme di anomalie dello sviluppo dello scheletro;
- Gli ormoni sessuali;
- In parte gli estrogeni.
Quindi la crescita in generale è un processo complesso, sicuramente l’ormone della crescita svolge
un ruolo importante, ma in seguito all’azione di questi ormoni. L’azione sugli organi è in parte
diretta, in parte indiretta, grazie a dei fattori insulino-simili.
Gli effetti metabolici
diretti sono:
- Stimolazione della
sintesi proteica
- Stimolazione della
lipolisi, che
determina un
aumento degli
acidi grassi
liberati, i quali a
loro volta
andranno a inibire
la produzione di
GH. La lipolisi
determina anche
un aumento di
corpi chetonici
durante il digiuno
e durante l’aumento della glicemia.
- Sulla glicemia ha un effetto iperglicemizzante, anche se può mostrare sulla fase iniziale
anche un moderato effetto di riduzione della glicemia. L’effetto che domina in generale è
l’effetto di iperglicemia. Anche l’aumento della glicemia esercita un feedback negativo sulla
secrezione di GH. Quindi se aumenta la glicemia si riduce la secrezione di GH, se
aumentano gli acidi grassi si riduce la secrezione di GH. Gli effetti diretti sulla glicemia
sono: glicogenolisi, gluconeogenesi e aumento dell’insulino-resistenza.
- Allungamento delle ossa e crescita lineare dell’organismo. Un effetto molto importante lo
abbiamo in particolar modo sulle cartilagini, dove praticamente avviene l’allungamento
dell’osso. L’azione è quella di stimolare la differenziazione delle cellule precondroblastiche,
in condroblastiche, stimolando la maturazione dei condrociti e determinando l’allungamento
della cartilagine distale.
Questa diapositiva ci vuole un
po’ ricordare l’azione del GH, in
parte mediato da IGF1 per
quanto riguarda la
differenziazione e quindi il
processo che coinvolge la
cartilagine di accrescimento:
grazie all’azione dell’ormone sia
ha una maturazione e
differenziazione dei condroblasti
e viene a determinarsi un
processo di ossificazione che fa
sì che avvenga l’allungamento
dell’osso, e quindi la crescita.
Questo ci fa capire quanto sia
importante quest’ormone nel
bambino, nella fase di crescita
puberale e nell’adolescenza: se
abbiamo deficit ipofisario di
quest’ormone si determinerà nanismo ipofisario.
Le somatomedine hanno effetti
simili al GH (effetti indiretti):
- Accrescimento dell’osso
- Aumento della massa
muscolare: è un aspetto molto
importante perché l’ormone della
crescita viene utilizzato nel doping,
insieme ad ormoni anabolizzanti
come testosterone
- Riduce la massa grassa
- Sul metabolismo hanno
effetti opposti perché causano una
riduzione della glicemia nella prima
fase di produzione di GH mediata da
IGF1, ma l’effetto globale è
l’iperglicemia
- Lipogenesi, quindi captano
glucosio e formano acidi grassi.

Fattori che stimolano la secrezione di GH:


❖ GHRH secreto dall’ipotalamo
❖ Una riduzione di IGF1 in circolo che rappresenta l’effetto periferico che a sua volta tramite
feedback negativo va a modulare la secrezione di GH
❖ Il sonno nella fase Rem
❖ Attività fisica
❖ Stress
❖ Shock ipovolemico
❖ Ipoglicema
❖ Digiuno prolungato
❖ Malnutrizione cronica
❖ Pasti ricchi di proteine
❖ Altre sostanze tra cui anche la
vasopressina e sostanze prodotte
anche a livello del SNC.
Fattori che inibiscono la secrezione di
GH:
❖ Aumento di IGF: quest’azione
viene svolta a livello ipofisario
ma anche ipotalamico,
stimolando la produzione di
somatostatina, quindi
quest’effetto non è diretto;
❖ L’iperglicemia, che è appunto causata dal GH. Questo meccanismo viene anche utilizzato
nella fase diagnostica degli eccessi di GH, in cui si somministra un campione orale di
glucosio, quindi si aumenta la glicemia e normalmente si osserva una soppressione del GH;
❖ L’obesità;
❖ L’aumento degli acidi grassi perché stimolano la lipolisi.

LE PATOLOGIE DELL’IPOFISI

L‘ipofisi può funzionare meno, in questo caso parliamo di ipopituitarismo e possiamo distinguerlo
in:
❖ Primario. Riconosce una causa primaria, un danno a livello ipofisario. Questo può avere
diverse cause: iatrogeno (un intervento chirurgico dell’ipofisi, o radiazioni. In questo caso il
meccanismo è noto, si fa una radioterapia, si osservano i segni clinici, ed eventualmente si fa
terapia ormonale sostitutiva), traumi cranici, cause infiammatorie (infettive o
autoimmuni), malattie infiltrative come emocromatosi e metastasi, cause vascolari, e
ovviamente tumori. Questi ultimi nella maggior parte dei casi sono benigni e questi
possono essere SELLARI (localizzati a livello della sella turcica dove si trova l’ipofisi) o
SOPRASELLARI (crescono soprattutto verso l’alto e invadono la regione sopra sellare) e
quindi determinare effetti di compressione e meccanici a livello delle strutture vicino dove si
trovano la sella e il chiasma ottico. Quindi vi sarà, nel caso in cui il tumore cresca, una
clinica legata proprio alla compressione dell’adenoma sulle strutture vicine; poi vi sarà una
clinica legata al fatto che quel tumore non è in grado di secernere determinati ormoni.
Un'altra sindrome che si può avere è la sindrome della sella vuota: l’ipofisi c’è, ma è
schiacciata dalle meningi che si approfondano a livello della sella, e la funzione della
ghiandola può essere del tutto normale; spesso viene rilevata tramite immagini, risonanza
magnetica. Un’ulteriore condizione è la necrosi ischemica.
❖ Secondario: qui la causa va cercata a livello ipotalamico. Viene meno la secrezione di
ormoni ipotalamici che stimolano la secrezione di tropine ipofisarie e anche questo può
riconoscere diverse cause: iatrogena (farmaci di vario tipo come i corticosteroidi che
inibiscono la secrezione di ACTH, e cause chirurgiche che determinano l’interruzione del
peduncolo ipofisario, quindi un danno nel sistema ipotalamo-ipofisi); traumi cranici (se vi
è un danno al livello del peduncolo ipofisario aumenta la secrezione di prolattina che
normalmente è soggetta a controlli inibitori della dopamina ipotalamica →
iperprolattinemia); processi infiammatori che interessano l’ipotalamo (deficit di fattori di
rilascio ipotalamici e quindi una ridotta secrezione di ormoni ipofisari); tumori soprasellari
(che possono però interessare la sella per contiguità per esempio craniofaringiomi);
anoressia.

Il quadro clinico dipende dal deficit dell’ormone coinvolto. Si possono avere conseguenze
endocrine ma anche non strettamente endocrine: il deficit di GH può influenzare la crescita, ma
anche la prolattina, con compromissione del processo di lattazione.
L’ espressione clinica dipende da:
❖ L’estensione del deficit: la gravità del coinvolgimento ipofisario può essere interessato un
solo tipo cellulare come un deficit di ACTH o TSH, oppure di più ormoni ipofisari, di
conseguenza avremo dei quadri di gravità variabile fino al più grave che coinvolge tutta
l’ipofisi, si parla di panipotuitarismo.
❖ L’Epoca di insorgenza: se si presenta nei bambini, nell’adulto, durante la gravidanza ecc…È
chiaro che se il deficit di GH si manifesta nel bambino andrà incontro a nanismo, mentre se
si manifesta nell’adulto avrà dei problemi metabolici, ma non dei deficit che possono
coinvolgere l’apparato e la struttura.
❖ La rapidità con cui insorge il deficit, se è più elevata possono insorgere dei quadri clinici
assolutamente gravi, (ricordiamo il deficit di ACTH che se insorge con rapidità porta a un
ipocortisolismo acuto, una condizione grave che richiede una terapia immediata con
somministrazione di idrocortisone altrimenti si rischia di morire). Oppure un danno che si
manifesta più lentamente e che può essere meno facile da riconoscere inizialmente, ma
sicuramente non mette a rischio la vita del soggetto.
DEFICIT UNITROPICI

Un’ipotrofia della ghiandola porta a deficit della secrezione dell’ormone.

• Se mancano le
gonadotropine ipofisarie
l’effetto principale è
l’ipogonadismo ed è un
danno di tipo secondario (non
interessa le gonadi
principalmente ma è la
conseguenza del deficit delle
gonadotropine ipofisarie),
avremo in questo caso delle
concentrazioni basse di
gonadotropine. Se questo si
sviluppa in età prepubere il
soggetto non svilupperà i
caratteri sessuali secondari
quindi avrà mancato sviluppo
di questi caratteri sessuali e
un eccesso di sviluppo
staturale. Queste persone
assumeranno un aspetto
caratteristico che prende il nome di EUNUCOIDE.
Se invece il deficit si sviluppa dopo la pubertà avremo nell’uomo mancanza di libido, impotenza,
azoospermia, infertilità, caduta dei peli, ipotrofia testicolare, ipotrofia muscolare. Nella donna
invece amenorrea, anovulazione ridotta fertilità, ipotrofia delle mammelle, mancanza di secrezioni
vaginali con dispareunia. Sono delle condizioni che i soggetti non siano in grado di procreare.

• Se abbiamo un deficit di TSH abbiamo ipotiroidismo di tipo secondario, perciò ridotti livelli
di TSH e ormoni in circolo. Bassi livelli di TSH generalmente ci fanno fare diagnosi di
ipertiroidismo.
• Deficit di prolattina: il risultato dal punto di vista clinico più importante è la mancata
lattazione.
• Per il GH: il quadro clinico varia in base all’età in cui si sviluppa, nell’età giovanile il
risultato è quello di determinare nanismo ipofisario, l’arresto della crescita corporea. È
importante la diagnosi precoce. Nell’età adulta, in cui la crescita ossea è già avvenuta, ciò
che si osserverà saranno disturbi del metabolismo che sarà caratterizzato da un aumento
della massa grassa, anomalie dell’assetto lipidico, astenia. Tutti aspetti che non hanno a che
vedere con la crescita.
• Un deficit di vasopressina determina un diabete insipido centrale, con perdita eccessiva di
liquidi.
• Per quanto riguarda l’ACTH un deficit si associa all’ipocortisolismo secondario, in questo
caso avremo un’iperpigmentazione cutaneo-mucosa (Addison bianco), non c’è deficit di
aldosterone perché è sotto il controllo della renina-angiotensina, ma possono esserci deficit
di androgeni che vengono prodotti nella zona fascicolata, sotto controllo dell’ACTH.

I deficit possono essere multipli: ci troviamo di fronte ad una condizione di panitoipotituarismo e


l’espressione clinica sarà più grave. Bisogna tener conto dei sintomi legati all’invasività e
all’espansione di adenomi, ci saranno dei segni neurologici, ma anche endocrini e generici.
Questo quadro di panipopituitarismo,se non trattato, tende ad assumere un aspetto caratteristico che
è dato da pallore cutaneo e ipotrofia muscolare. Oggi si interviene in maniera opportuna ma col
rischio che vengano meno le funzioni metaboliche più importanti, quelle funzioni che permettono
un equilibrio a livello muscolare a livello osseo ecc...
Condizioni particolari:
- La necrosi ischemica ipofisaria che è una condizione non comune, caratterizzata da
un’ischemia che interessa i vasi dell’ipofisi. È stata descritta durante il parto in gravidanza,
perché l’ipofisi tende ad aumentare di volume, e quindi aumenta anche il flusso del circolo
ematico a livello ipofisario. Dopo il parto si assiste ad un venir meno di ormoni estrogeni e
quindi si assiste ad un calo della vascolarizzazione ipofisaria → quadro di ischemia.
Successivamente il volume tenderà a ridursi. Anche condizioni che possono interessare la
vascolarizzazione cerebrale e ipofisaria e altre vasculopatie potrebbero determinare un
quadro clinico di questo tipo.
- La sindrome della sella vuota è caratterizzata da un’invaginazione delle meningi
all’interno della sella turcica determinando uno schiacciamento dell’ipofisi. Generalmente
non determina alcun tipo di conseguenza per quanto riguarda la produzione di ormoni, ma in
una buona percentuale dei casi può determinarsi un deficit di uno o più ormoni. Viene
diagnosticata con le immagini, in primis con la risonanza.
- Tumori soprasellari che determinano una causa comune di ipopanituitarismo o
ipotuitarismo parziale. I tumori più comuni sono gli adenomi ipofisari.
Questi altri tumori non producono ormoni e quindi eserciteranno una sintomatologia caratterizzata
alla crescita e alla compressione meccanica sulle strutture vicine.

Gli adenomi ipofisari funzionanti possono ipersecernere ormoni e avere un effetto di massa e
meccanico sulle strutture, e la sintomatologia potrà essere di tipo di disturbi visivi e cefalea.
Oltre agli adenomi ricordiamo i craniofaringiomi che sono tumori che tendono a svilupparsi nei
soggetti più giovani e che possono determinare dei quadri di tipo di deficit ormonali qualora si
sviluppassero in prossimità del peduncolo ipofisario.
Endocrinologia 2/04 prima ora
Sbobina: Antonella Badiali Revisione: Ilaria Bartolini

Gli adenomi ipofisari nel 25% dei casi sono non funzionanti, ricordano il caso
dell’incidentaloma surrenalico. Si definiscono adenomi funzionanti invece quelli che
producono un eccesso di ormone, quello più frequente è il prolattinoma. I meno frequenti
sono i tumori producenti TSH ed FSH/LH. In relazione alle dimensioni si distinguono micro e
macroadenomi, rispettivamente di dimensioni inferiori e superiori ad 1 cm. Il microadenoma
ha una prognosi più favorevole, darà meno frequentemente sintomi legati all’effetto
compressivo (effetto massa se di dimensione maggiore) sui tessuti circostanti. Se l’adenoma è
non funzionante si potrà avere sintomatologia neurologica (da compressione) o da
ipofunzione (per compressione di cellule della parte di ipofisi non interessata dall’adenoma).
Gli adenomi funzionanti daranno una clinica legata ad eccesso di secrezione oltre che
sintomatologia da compressione neurologica, effetto non presente nei microadenomi. Tra i
sintomi neurologici si possono riscontrare cefalea (uno dei sintomi più comuni), poiché
alcune strutture come le leptomeningi possono essere stirate ed irritate dalla crescita
neoplastica.

Più degni di attenzione sono i disturbi della vista, (i quali danno


maggiori probabilità di condurre alla diagnosi perché spingono il
soggetto a rivolgersi al medico) dato che il peduncolo
dell’ipotalamo si trova al di sopra del chiasma ottico. Si hanno
generalmente deficit visivi.
Se si ha compressione chiasmatica centrale (1), nella regione di
incrociamento delle fibre retiniche nasali, si avrà emianopsia
bitemporale. Una compressione retrochiasmatica (2) determina
invece una emianopsia laterale omonima (verrà compresso uno
dei due tratti ottici). Una compressione prechiasmatica (3)
determinerà un deficit completo ma monolaterale (interessa un
solo nervo ottico).

Possono essere coinvolti anche i nervi oculomotori (III, IV e V) che si trovano nel seno
sfenoidale, si può avere strabismo convergente o divergente, diplopia etc. Più difficili da
diagnosticare sono disturbi a livello del ritmo sonno-veglia, temperatura corporea, appetito,
sete, dati soprattutto da adenomi di maggior dimensioni che possono arrecare danni a livello
ipotalamico. Si può anche avere rinoliquorrea. Si possono avere sintomi acuti, come
un’emorragia, con aumento acuto della massa e necrosi della formazione neoplastica, a dare
ipopituitarismo. Sintomi da ipofunzione sono correlati a crescita neoplastica anche non
funzionante a livello soprasellare o parasellare, a bloccare il flusso sanguigno e
neurosecretorio a livello del peduncolo ipofisario con aumento della secrezione di prolattina,
a causa del diminuito afflusso inibitorio di dopamina. Sindromi da iperfunzione sono
gigantismo e acromegalia, morbo di Cushing secondario, ipertiroidismo secondario (raro),
SIADH (non di rara origine extraipofisaria, come riportato nella slide! Si riscontra in diversi
casi di soggetti ospedalizzati).
Nel 20-30% dei casi gli adenomi possono sfuggire all’indagine diagnostica per immagini. La
terapia per i macroadenomi è chirurgica, generalmente per via trans-sfenoidale. In altri casi si
adotta radioterapia. Per la diagnosi si possono eseguire test di valutazione, come quello
dell’ACTH e del CRH per valutare un deficit nell’increzione di ACTH (se c’è un deficit di ACTH
il surrene va incontro a ipofunzione ma anche a ipotrofia, quindi somministrano ACTH non
osserveremo un incremento dei livelli ematici di cortisolo). L’ITT è il test di tolleranza
all’ipoglicemia, si induce un’ipoglicemia insulinica acuta, che provoca risposta di tutti gli
ormoni ipofisari; è un test di largo utilizzo, soprattutto in passato, prevalentemente in ambito
pediatrico, ma è un test pericoloso, va eseguito in ultima istanza, perché può indurre
convulsioni. Un test con GHRH ed Arginina è molto più sicuro.

A volte si ha una diagnosi di sella vuota, in cui non si riscontra la presenza di formazioni
neoplastiche ma l’ipofisi risulta compressa da diverticolo liquorale. In caso di ipopituitarismo
si attua terapia sostitutiva. Nell’ipotiroidismo secondario si somministra eutiroxina, così come
nell’ipocortisolismo secondario si somministra cortisone.

Clinica dell’ipopituitarismo
Il deficit di ACTH nell’adulto provoca, tra gli altri sintomi, ipopigmentazione (Addison bianco).
Il deficit di TSH nel bambino (cretinismo) comporta ritardo della crescita e deficit cognitivo
grave se non diagnosticato e trattato, per tale motivo è stato introdotto il test di screening alla
nascita.

Tra le cause di ipopituitarismo si hanno anche le ipofisiti.

Quelle secondarie si riscontrano


nell’ambito di patologie
sistemiche e vascolari
(Takayasu, Chron, sarcoidosi) o
infettive. Tra le primitive, poco
comune ma di rinnovato
interesse è quella linfocitaria, su
base autoimmune. L’ipofisite può
interessare una parte o tutta
l’ipofisi. Si possono avere (come
negli adenomi) cefalea, disturbi
del campo visivo,
iperprolattinemia; spesso si
hanno però forme subcliniche.
Un quadro classico che si può
presentare in caso di ipofisite è
quello dell’ipotiroidismo subclinico, con T3 e T4 normali ma TSH molto aumentato, quindi con
compenso. L’ipotiroidismo franco è invece caratterizzato anche da una riduzione delle
frazioni libere (T3 e T4). Per quanto riguarda la terapia, soprattutto in un soggetto anziano
non è opportuno che sia avviata. Ma l’ipotirodismo può aumentare il rischio di patologia
cardiovascolare, quindi le stesse considerazioni non si applicano per il soggetto giovane. Le
donne sono più suscettibili alle ipofisiti ad eziologia autoimmune (come risulta per quasi tutte
le patologie autoimmuni).

Le iperprolattinemie sono i disturbi neuroendocrini più frequenti in assoluto. Livelli di


prolattina normale sono tra 5 e 20 ng/mL nell’uomo, fino a 25 nella donna. In condizioni di
stress aumenta l’increzione. Generalmente per la determinazione si fa un solo prelievo
tramite venipuntura, che dà risultati di non facile interpretazione. I dati vanno pertanto
riconfermati mediante 2 o 3 misurazioni con un ago che rimane inserito in vena (Venflon). La
venipuntura è comunque una condizione di stress (che provoca aumento di catecolammine e
PRL). L’ipotiroidismo può stimolare la secrezione di PRL per gli alti livelli di TRH e TSH. Gli
estrogeni possono determinare uno stimolo al rilascio di PRL. La PRL interferisce con la
funzione ovarica (e androgenica nell’uomo), inibisce la secrezione (e la ciclicità di questa) di
GnRH, con ridotta produzione di gonadotropine. Pertanto l’amenorrea è un sintomo che
caratterizza l’iperprolattinemia, che si dovrà sospettare quando se ne siano escluse altre
cause. La prolattina deriva dalla Big prolattina, una proteina più grande, che in parte può
rimanere in circolo e dare, alla rilevazione mediante venipuntura, concentrazioni aumentate
fittizie; si può pertanto usare PEG (polietilenglicole) per separarle. L’amenorrea può essere
utile per discriminare dati fittizi. Tra i segni clinici si ha galattorrea spontanea o dopo
spremitura. Nell’uomo si arriva alla diagnosi un po’ più tardi, per sintomatologia meno
evidente, con riduzione della libido, si ritrovano pertanto più spesso macroadenomi.
Patogenesi dell’ipersecrezione di PRL

L’adenoma è caratterizzato da secrezione autonoma. Anche patologie che interessano il


peduncolo ipotalamico possono provocare iperprolattineamia ostacolando il rilascio di
dopamina che ha azione inibitoria sulla secrezione di PRL. Anche farmaci antiemetici come
metoclopramide (plasil), antidepressivi triciclici ed oppiacei interferiscono con la secrezione
di dopamina, mentre gli estrogeni possono dare iperprolattinemia per stimolo alla secrezione.
Nella sindrome dell’ovaio policistico si ha ipersescrezione di estrone, con debole azione
estrogenica ma in grado di aumentare la secrezione di PRL. Patologie della parete toracica
come Herpes ed ustioni determinano ipersecrezione di PRL con meccanismo non noto. IRC e
cirrosi epatica sono alla base di una iperprolattinemia da diminuito catabolismo dell’ormone.
SBOBINA ENDOCRINO 02-04-19 2°ORA

Sbobinatrice: Alessia Bianconi Revisione: Ilaria Bartolini

Fisiopatologia e quadro clinico della iperprolattinemia: la secrezione di prolattina inibisce a livello


ipotalamico la secrezione di GnRH, questo a sua volta determina una ridotta secrezione della
gonadotropine ipofisarie (FSH e LH) e quindi una ridotta produzione a livello gonadico di estrogeni nella
femmina e testosterone nel maschio.

Nella femmina, la ridotta secrezione di estrogeni determina amenorrea. Inoltre la prolattina poiché stimola
la lattazione, determinerà galattorrea (può essere spontanea o provocata dalla spremitura del capezzolo).
Pertanto di parla di sindrome amenorrea-galattorrea. Nel maschio si può avere galattorrea a seguito di
spremitura del capezzolo ma soprattutto si avrà ipogonadismo accompagnato da infertilità ed impotenza.

Diagnosi: in presenza di segni clinici di iperprolattinemia come amenorrea e galattorrea, viene eseguito il
dosaggio della prolattina.

- Se la prolattina < 25 ng/ml  livelli normali di prolattina


- Se la prolattina > 25 ng/ml  iperprolattinemia
o Se è sopra 100 ng/ml dobbiamo pensare ad un adenoma
o Se è sotto 100 ng/ml dobbiamo pensare ad altri fattori
TAC e RMN sono importantissime per stabilire la posizione e le dimensioni dell’adenoma e
soprattutto per capire se l’adenoma ha superato la sella o meno.

Terapia: la terapia è sostanzialmente medica; si sfruttano come farmaci degli agonisti dopaminici come la
broncocriptina (usato in passato) e carbergolina (usata ad oggi). Quest’ultima ha una lunga emivita
pertanto si può somministrare 3 volte a settimana (dose 0,2-0,3 mg); è molto efficace poiché riduce i livelli
di prolattina ma anche le dimensioni della massa.

Se la riduzione della massa non è adeguata o se vi è una sintomatologia legata alla massa stessa allora si
interviene con la terapia chirurgica e l’approccio è per via transfenoidale.

GH

Il professore ha
ribadito gli aspetti
principali del GH ma
non si è soffermato
molto sulla slide
accanto poiché parte
dei argomenti erano
stati già trattati nella
lezione precedente. Ha
però sottolineato
l’importanza di alcuni
fattori che modulano il
rilascio di GH:

- Iperglicemia,
aumento del
carico di acidi
grassi 
riducono il rilascio di GH;
- Ghrelina è un ormone che agisce a livello ipotalamico in particolare a livello del nucleo oressigeno
ma oltre a ciò è in grado anche di stimolare la secrezione di GH (ecco perché si scrive GHrelina).

Cosa accade quando il GH viene prodotto in eccesso? Se ciò si verifica in età infantile, essendoci possibilità
di crescita, si avrà gigantismo; se si verifica in età adulta, non essendoci possibilità di crescita, allora si avrà
acromegalia.

Eziologia: generalmente adenomi ipofisari, sia microadenomi che macroadenomi.

Nella seguente slide è riassunta la fisiopatologia con cui l’eccesso di GH determina sia aspetti metabolici
che gli aspetti che riguardano i tessuti (allungamento/allargamento osso + visceromegalia) tipici della

patologia.

Acromegalia

- Sintomi da eccesso di GH
o Modificazione fisionomiche: facies acromegalica (tratto tipo che consente di fare molto
facilmente la diagnosi) che interessa:
 Il volto- i lineamenti cambiano molto lentamente quindi il soggetto non se ne
accorge se non facendo confronto con vecchie foto. Si avrà prominenza degli
zigomi, allargamento della mandibola con prognatismo, allargamento del naso.
 Le parti acrali (mani e piedi).
o Modificazioni cutanee- la cute è ispessita e più dura;
o Visceromegalia che interessa i seguenti organi:

.
Un aspetto importante riguarda il cuore poiché esso va incontro ad un aumento del volume
al quale si aggiunge ipertensione che peggiora l’ipertrofia miocardica. Pertanto la morte
per patologia cardiovascolare rappresenta la causa più comune di mortalità in questi
pazienti.
o Disturbi a livello delle articolazioni- es. sindrome del tunnel carpale;
o Turbe neuromuscolari- ipertrofia muscolare con miopatia che si caratterizza per l’astenia
muscolare (il volume del muscolo aumenta ma esso è meno efficiente);
o Turbe metaboliche- diabete, intolleranza ai carboidrati;
o Segni di ipogonadismo.
- Sintomi da effetto massa- l’adenoma può determinare sintomi neurologici.
- Associazioni morbose:
o In questi pazienti si riscontrano più frequentemente neoplasie. Infatti l’ormone della
crescita, stimolando la crescita tissutale, può indurre anche la progressione di formazioni
tumorali ad esempio dei polipi del colon;
o Si può riscontrare anche nei pazienti con la MEN 1.

Tipico volto di una persona con


facies acromegalica.

Gigantismo- quando l’eccesso di GH si manifesta nel bambino.

Sintomi da eccesso di GH: abnorme crescita (soggetti altissimi) e turbe metaboliche. Quando diventano
adulti, tendono a spostarsi verso il tratto acromegalico. Ovviamente nei bambini che sono seguiti
un’eccessiva crescita può essere un campanello d’allarme per fare ulteriori accertamenti ed in caso di
eccesso di GH, impedire che venga a stabilirsi un gigantismo.

Diagnosi: il test più utile è il test con carico orale di glucosio (100mg di glucosio, in realtà va bene anche 75
mg cioè la dose che viene usata per la diagnosi di intolleranza ai carboidrati). La somministrazione di
glucosio in un soggetto sano determina una riduzione di GH, ciò non si verifica nei soggetti che hanno
adenomi secernenti GH.

Possono essere fatti anche altri test per ricercare disendocrinie associate. Si deve valutare anche il campo
visivo e si ricomanda l’esecuzione di colonscopie (poiché i polipi possono progredire nella loro crescita).

Da non dimenticare, anche TAC e RMN sono importanti per capire se si tratta di un microadenoma o
macroadenoma.

Prognosi: la mortalità è associata al rischio cardiovascolare ed al diabete.


Seguendo questa slide il prof ha indicato come procedere per fare diagnosi differenziale in caso di eccesso
di GH.

Terapia: può essere chirurgica oppure terapia medica con somministrazioni di SRL, cioè analoghi della
somatostatina (da ricordare: la somatostatina inibisce la secrezione di GH) che hanno come obiettivo
ridurre la secrezione di GH ed anche ridurre la massa tumorale. Tra questi c’è l’octreotide. Esso oltre che in
terapia è usato anche per la diagnosi (in particolare per la scintigrafia permette di individuare organi in
cui sono presenti i recettori per la somatostatina e che possono andare incontro ad autonomia funzionale-
es l’insulinoma).

NEUROIPOFISI

A livello della neuroipofisi vengono rilasciati i due ormoni vasopressina e ossitocina, che vengono prodotti
dai neuroni magnocellulari.

Vasopressina- agisce a livello renale e delle arteriole periferiche. I suoi recettori si trovano a livello della
membrana e sono di tre tipi: V1 (si trova sulle arteriole), V2 (a livello renale) e V3 (a livello delle cellule
corticotrope, infatti in condizioni di stress la vasopressina è in grado di stimolare la secrezione di ACTH).

Meccanismo di azione di V1

Meccanismo di azione di V2- a livello renale vi è un richiamo di acqua tramite esposizione sulla membrana
delle acquaporine che internalizzano acqua. L’azione della vasopressina si realizza in particolare a livello del
tubulo collettore. Grazie a questo ormone, pertanto la nostra diuresi si mantiene intorno ad 1,5L. Possiamo
inoltre già intuire che in mancanza di questo ormone si avrà un’eccessiva perdita di urina come nel caso del
diabete insipido.

Oltre agli effetti sulla ritenzione idrica, si avranno anche effetti pressori in quanto determina
vasocostrizione a livello delle arteriole periferiche e quindi aumento della pressione arteriosa.

Fattori che stimolano il rilascio della vasopressina:

- Aumento dell’osmolalità- ad es. in caso di disidratazione, in caso di aumento di osmoli nel sangue
(aumento della sodiemia);
- Diminuzione del volume sanguigno- ad es. in caso di
emorragia;
- Nicotina e barbiturici stimolano direttamente la
secrezione della vasopressina;
- L’alcool è un inibitore della vasopressina.

L’ immagine a lato riassume gli effetti appena visti.

Ossitocina- è un ormone che ha un ruolo importante in


particolare durante il travaglio e nello stimolare le miocellule
della mammella per favorire il processo di secrezione del
latte. In questa seconda funzione è richiesto però uno
stimolo meccanico quale quello della suzione (la suzione
oltre che stimolare la produzione di ossitocina stimola anche
quella della prolattina che è importante per il mantenimento
del processo di lattazione).
La patologia che deriva da un deficit di vasopressina è il diabete insipido neurogeno o centrale. Poiché
viene meno l’azione dell’ormone antidiuretico, si riduce l’assorbimento di acqua e ciò determinerà poliuria.
L’urina è ipotonica poiché diluita (basso peso specifico).

Di fronte a tale patologia, l’organismo mette in atto un sistema di difesa che è quello della sete e ciò gli
consente di compensare la perdita di liquidi. Nonostante il compenso, il soggetto si accorgerà di bere e
urinare molto e si rivolgerà al medico. Se ovviamente però il centro della sete non è funzionate (ad es. per
un danno ipotalamico che coinvolge tale centro) allora il soggetto andrà incontro a disidratazione in breve
tempo visto che la poliuria è massiva.

Cause:

- Genetiche;
- Trauma;
- Dopo interventi chirurgici- in generale dopo gli interventi c’è un quadro di diabete insipido
transitorio che dura qualche giorno massimo qualche settimana;
- Neoplasie ipotalamiche.

Tale condizione si corregge con la somministrazione esogena di vasopressina.

Ci sono altre condizioni che devono essere prese in considerazione per fare diagnosi differenziale come il
diabete insipido nefrogeno, in cui a seguito di alterazioni dei recettori per la vasopressina, non vi è l’effetto
dell’ormone antidiuretico.

Cause:

- Difetti genetici;
- Difetti acquisiti da farmaci, da danni renali.

In questo caso la vasopressina esogena non funziona poiché il difetto è recettoriale.

Esiste anche un altro tipo di diabete insipido definito dipsogeno o anche polidipsia primaria. In questo
caso i soggetti tendono a bere moltissimo (generalmente, si riscontra nell’ambito di patologie
psichiatriche).

Patologie da carenza di GH- gli effetti sono i seguenti: nanismo armonico, ritardo nella maturazione
scheletrica e sessuale, obesità.

[Domanda da studente: quali possono essere le cause che possono determinare una forma di secrezione
inappropriata di ADH (al quale il professore ha fatto cenno nelle lezione precedente)? Risposta del prof: la
secrezione inappropriata di ADH può essere determinata:

- Nel paziente ospedalizzato, in quanto si trova in una condizione di stress (questa situazione si
verifica di frequente);
- Neoplasie;
- Scompenso cardiaco;
- Insufficienza renale;
- Insufficienza epatica;
- Ipoalbuminemia;
- Edemi;
- Ipotiroidismo;
- Ipocortisolismo;
- Alcolismo (in assenza di altre patologie concomitanti).

Tutte queste condizioni devono essere valutate per mettere in atto una terapia corretta.]
Conseguenze dell’inappropriata secrezione di ADH (eccesso di ADH): emodiluizione, quindi una riduzione
dell’osmolarità plasmatica con iposodiemia che può compromettere le attività cerebrali. Si deve capire se
quadri di iposodiemia si sono verificati in maniera acuta o cronica poiché si deve intervenire in modo da
normalizzare la sodiemia in maniera ottimale.

TERAPIA INSULINICA e I FATTORI CHE POSSONO INFLUENZARLA.

Tra i fattori che possono influenzare la terapia insulinica c’è sicuramente l’attività fisica. Precisamente,
l’attività fisica aumenta la sensibilità insulinica sia nei soggetti sani che in quelli con diabete determinando
un aumento dell’utilizzazione del glucosio, in particolare a livello muscolare e nel tessuto adiposo. L’insulina
è in grado di fare ciò poiché rimodula il circolo sanguigno (nel muscolo) e soprattutto stimola il
reclutamento di trasportatori del glucosio che si portano a livello della membrana plasmatica, aumentando
la captazione di glucosio che viene internalizzato e va incontro a metabolismo ossidativo.

In questa tabella sono indicati gli effetti


dell’attività fisica (aerobica ed attività
di forza) su vari parametri che hanno un
impatto in particolare sulla mortalità
cardiovascolare. Generalmente
l’attività fisica riduce la massa grassa a
vantaggio di quella magra, rimodula
l’assetto lipidico, la frequenza cardiaca,
la pressione, etc.

Ad oggi, le raccomandazioni da parte


delle linee guida indicano che i soggetti
con diabete devono praticare attività
fisica almeno 3 volte a settimana per un
totale di 150 minuti. (Nota: l’effetto dell’attività fisica si mantiene fino ad un massimo di 24-48 ore). Ciò
vale per il diabete di tipo I ma in modo particolare per il diabete di tipo II poiché spesso coloro che hanno
diabete di tipo II sono soggetti sovrappeso/obesi e per i quali l’attività fisica può davvero fare la differenza.

Nel diabete di tipo I, come sappiamo, è necessaria la terapia insulinica che però può essere influenzata da
vari fattori (pertanto i soggetti con diabete di tipo I devono essere adeguatamente educati circa la
somministrazione di insulina):

- Attività fisica – tipo, durata, frequenza e


timing dell’attività fisica. Il timing è molto
importante: se si fa attività fisica subito
dopo aver mangiato, si avranno delle
insulinemie legate alla somministrazione
post-prandiale di insulina; se l’attività viene
svolta più tardi, le concentrazioni saranno
diverse;
- Ambiente – un ambiente caldo o freddo
può fare la differenza sull’assorbimento
dell’insulina, generalmente un ambiente
più caldo facilita l’assorbimento;
- Variabili metaboliche come ad esempio la
glicemia di partenza. Un conto è partire
con una buona glicemia ed un altro è
partire con un’elevata glicemia. In questo
secondo caso, in realtà, poiché la glicemia è espressione di un controllo glicemico non ottimale o di
uno scompenso, il soggetto non deve praticare attività fisica, dovrebbe prima ricompensare con
insulina e poi eventualmente fare attività fisica altrimenti l’esercizio fisico, stimolando gli ormoni
contro regolatori quali adrenalina e cortisolo, non fa altro che peggiorare il grado di scompenso con
rischio di chetoacidosi;
- Variabili corporee come lo stato di idratazione perché uno stato di idratazione ottimale permette
un valido uso dell’insulina;
- Pregresse ipoglicemie;
- Precedente esercizio fisico.

Come abbiamo detto, l’obiettivo del controllo glicemico in termini di emoglobina glicata è del 7% o sotto il
7%. Questo obiettivo, in realtà, possiamo modularlo in relazione a tante variabili che possono aumentare il
rischio di ipoglicemia e al rischio di danno che deriva dall’esercizio fisico.

Oltre all’attività fisica, anche la dieta gioca un ruolo importante nel diabete. In definitiva, nei pazienti con
diabete, lo stile di vita deve essere adeguatamente rimodulato grazie ad una precisa dieta ed attività fisica,
specifiche per ogni paziente.

In questa immagine, si riassume il risultato di una meta-analisi che ha valutato l’impatto della dieta e
dell’attività fisica sulla prevenzione del diabete di tipo 2. Si è visto che entrambe hanno un impatto
estremamente favorevole poiché vi è una probabilità di circa il 50% di rallentare l’insorgenza del diabete di
tipo 2.
SBOB.: MARTINA CROCIONI
REV.: ROBERTA LOCATELLI
02/04/2019, 16.00-17.00

L’attività fisica, in conclusione, ha tutti questi vantaggi e in questo senso riveste un ruolo
importante la sua frequenza: più esercizio si pratica, tanto più si ridurranno delle complicanze.

Per quanto riguarda la dieta, quella che


ha dimostrato avere maggiori vantaggi,
soprattutto a livello cardiovascolare, è la
dieta mediterranea.

La difficoltà che si riscontra è


convincere il paziente diabetico
(soprattutto di tipo 2) a seguire con
costanza le raccomandazioni sulla dieta e
sulla pratica di esercizio fisico. Quindi
c’è la necessità di agire in maniera
multidisciplinare: sull’aspetto
nutrizionale e motorio ma anche
sull’aspetto psicologico.
DIABETE DI TIPO 1
Diabete di tipo 1 = terapia insulinica a vita

Non solo la malattia è cronica e necessita di continui controlli glicemici, ma necessita di una terapia
piuttosto complessa che oggi prevede:

• TERAPIA MULTINIETTIVA (MDI) → è la più comune e necessita di almeno 4


somministrazioni al giorno per coprire il fabbisogno delle 24 ore. È nota anche come terapia
“Basal Bolus” infatti prevede la somministrazione di insuline ad azione rapida (boli) prima
di ogni pasto e poi insulina ad azione lenta (basale) la sera o al mattino.

• TERAPIA CON MICROINFUSORE(CSII) → si utilizza solo l’insulina rapida che viene


somministrata in infusione continua e poi ai pasti si possono stabilire dei boli per simulare
quella che sarebbe la risposta fisiologica.

Secrezione fisiologica e somministrazione tramite la terapia: differenze

Fisiologicamente l’insulina pancreatica entra nel sistema portale, quindi esplica la sua prima azione
a livello epatico dove inibisce la produzione di glucosio garantendo quindi una modulazione portale
della glicemia. Dal fegato solo il 50% dell’insulina va nel circolo sistemico (il resto dell’insulina
viene degradata) e quindi raggiunge i tessuti periferici sui quali agisce stimolando l’utilizzazione
del glucosio.
Insulinemia periferica < insulinemia portale

Invece, l’insulina somministrata sottocute (modalità più pratica, ormai in uso da anni) agisce
direttamente a livello periferico. Quindi, per ottenere le concentrazioni epatiche di insulina tali da
modulare la produzione epatica di glucosio, determiniamo un grado di insulinizzazione periferica
maggiore rispetto a quello che verrebbe raggiunto in seguito alla secrezione fisiologica.
Insulinemia periferica > insulinemia portale

La sfida sta proprio nel modulare bene la terapia per evitare eccessi iperglicemici ma anche
ipoglicemici.

Evoluzione della terapia insulinica

• La prima insulina commercializzata (1922) era di estrazione animale (bovina o porcina che
è la più simile a quella umana), ma non era pura perché ottenuta da omogeneizzazione delle
cellule beta; nonostante ciò era funzionante. Era un’insulina regolare, cosiddetta rapida
perché funzionava dopo mezz’ora circa e richiedeva più somministrazioni al giorno per
coprire le 24 ore → questo era uno svantaggio pratico, soprattutto per il tipo di siringhe
utilizzate un tempo.
• Negli anni ‘50 è stata sintetizzata l’insulina NPH: regolare e accoppiata a proteine
(protamina) che ne ritardavano l’assorbimento e ne garantivano una maggiore durata
d’azione (circa 12 ore) → ciò rendeva sufficienti solo 2 somministrazioni al giorno
(vantaggio pratico). C’era però un possibile rischio che questo tipo di insulina inducesse
ipoglicemia (svantaggio).
Poi nel corso degli anni hanno capito che la terapia ottimale è quella “Basal Bolus”, quindi
tramite la tecnica del DNA ricombinante hanno iniziato a sintetizzare insuline ad azione
rapida e insuline ad azione lenta: sia insuline umane ricombinanti sia analoghi dell’insulina.

• L’insulina umana
ricombinante è
un’insulina pura quindi
non causa allergie nei
pazienti e non porta
alla produzione di
anticorpi (o comunque
il titolo anticorpale si
mantiene basso) che a
livelli elevati interferirebbero con la cinetica della molecola.

• Analoghi dell’insulina: si differenziano dall’insulina umana per sostituzioni e/o


spostamenti di alcuni AA a livello della sequenza primaria e quindi hanno caratteristiche
cinetiche diverse. Inoltre, nel caso delle insuline rapide la loro azione è ancora più rapida in
modo da simulare il più possibile la secrezione endogena. Vale la stessa cosa per le insuline
lente prodotte in questo modo: hanno una durata d’azione molto più lunga e quindi coprono
bene le 24 ore e soprattutto hanno un profilo piuttosto piatto quindi espongono meno al
rischio di ipoglicemia (che invece era maggiore con l’insulina NPH).

Analoghi dell’insulina
ad azione rapida a
confronto con l’insulina
regolare:

1. Picco d’azione
rapido: permette un
controllo della glicemia
postprandiale migliore.

2. Forse hanno una


durata minore quindi:
a) è importante l’uso di
insulina basale;
b) è minore il rischio di
ipoglicemia.

3. Presentano
maggiore flessibilità: con
queste nuove insuline il
paziente può fare la
somministrazione poco prima del pasto, invece l’insulina regolare necessita di un
intervallo di tempo di circa mezz’ora tra la somministrazione e l’inizio del pasto.
Insuline lente

Insulinizzazione basale: ogni ora il pancreas produce una certa quantità di insulina (circa 0.5/0,6
unità all’ora).
La secrezione durante i pasti è in relazione al contenuto di carboidrati.

L’incremento dell’insulinemia esercita un effetto iniziale soprattutto sulla produzione epatica di


glucosio, invece l’utilizzazione di glucosio richiede delle concentrazioni di insulina più elevate.
Quindi:
A) Durante un pasto → per abbassare la glicemia non solo devo inibire la produzione epatica di
glucosio ma devo anche permettere l’utilizzazione dei carboidrati da parte del tessuto
adiposo e muscolare → quindi sono necessarie concentrazioni insuliniche molto elevate
(circa 50-70 microunità/ml).
B) A digiuno → devo solo modulare la produzione epatica di glucosio, perciò sono sufficienti
concentrazioni insuliniche basse (circa 7-10 microunità/ml), le quali possono essere
raggiunte con la somministrazione delle nuove insuline lente.

Quindi l’insulina lenta ideale dovrebbe avere queste caratteristiche:


• Riprodurre la secrezione endogena del pancreas e contemporaneamente dal punto di vista
terapeutico essere caratterizzata da una sola iniezione al giorno;
• Avere un profilo costante con un basso rischio di ipoglicemia;
• Avere ridotta variabilità da giorno a giorno.
Questo è uno studio di farmacocinetica e
farmacodinamica delle insuline lente ed è
stato eseguito con la tecnica del clamp
euglicemico: si fa un’iniezione di insulina
ad una certa dose e contemporaneamente
si infonde anche glucosio per evitare che
la glicemia si abbassi e che quindi si
attivino gli ormoni controregolatori.
A questo punto si riesce a tracciare il
profilo d’azione dell’insulina. Dal grafico
si nota che l’insulina NPH (che in genere
viene somministrata la sera e di
conseguenza agisce durante la notte) ha un
picco d’azione dopo 5-6 ore e poi si
riduce: in effetti questo tipo di insulina
come abbiamo detto era legato a episodi di
ipoglicemie notturne con una frequenza
maggiore rispetto alle nuove insuline.

Confronto tra insulina NPH e


insulina Glargine

Insulina Glargine 100: è stato


il primo analogo di insulina
lenta ad essere
commercializzato e ha
rappresentato un’evoluzione
importate. Rispetto all’insulina
NPH ha un profilo più costante
nelle 24 ore e una durata
d’azione maggiore.

Un altro vantaggio è che, a


parità di controllo glicemico, è
associata a un minor rischio di
ipoglicemia. Per questi motivi
rappresenta tutt’oggi l’insulina
più utilizzata.
Insulina Detemir: è un’altra nuova insulina lenta, con un ottimo controllo glicemico, ma rispetto a
Glargine ha un meccanismo diverso e una durata minore. In relazione a ciò:

1. Richiede una doppia somministrazione durante le 24 ore (quindi oltre alle 3


somministrazioni di insulina rapida, vanno associate queste 2 somministrazioni di insulina
lenta).
Nota: in genere si considerano 3 somministrazioni di insulina rapida perché associate ai pasti
principali (colazione, pranzo, cena), infatti il paziente diabetico dovrebbe evitare di fare spuntini e
qualora li facesse, dovrebbe somministrare anche in questo caso insulina. Quindi in realtà il
numero di somministrazioni dipende dal numero dei pasti anche dal tipo di insulina lenta.

2. Porta alla produzione di una maggiore quantità di acidi grassi.

Sia la Glargine sia la Detemir sono insuline solubili (come le rapide) quindi possono essere iniettate
così come sono, invece l’insulina NPH è un preparato non solubile costituita da una fase liquida e
una fase di cristalli, quindi prima della somministrazione deve essere risospesa (se il procedimento
non viene eseguito adeguatamente si rischia una non equa somministrazione delle due fasi che mi
comporta una variabilità glicemica).

Nuove insuline lente:

Insulina Degludec (è un’ottimizzazione della Detemir): ha un profilo generalmente piatto con una
durata che va oltre le 24 ore (sufficiente la monosomministrazione giornaliera) infatti, una volta
somministrata, si lega all’albumina nel sottocute e questo ne determina un ritardo
nell’assorbimento. Una volta assorbita, anche nel sangue si lega all’albumina e questo ne ritarda
ulteriormente l’azione. Mano a mano che si stacca dall’albumina, interagisce con i suoi recettori.

Insulina Glargine 300 (è


l’ottimizzazione della
Glargine): ottenuta
aumentando la
concentrazione iniziale di
100 unità/ml a 300
unità/ml. In questo modo
ne viene ritardato
l’assorbimento e il profilo
risulta più omogeneo.

Inoltre rispetto alla 100, la 300 mantiene


meglio l’attività nell’ultima parte dello
studio, modula la secrezione epatica di
glucosio in maniera meno aggressiva
(soprattutto nella prima parte della notte)
e fa produrre meno acidi grassi. Tutto
questo si traduce con un minor rischio di
episodi ipoglicemici. Anche questa ha
una mono somministrazione giornaliera.
Ci sono situazioni in cui risulta più difficile mettere in pratica la terapia insulinica e si devono
rimodulare la dosi per evitare un peggioramento nel controllo glicemico o un rischio di ipoglicemia
o di chetoacidosi. Ad esempio in caso di vomito la terapia insulinica non va interrotta ma
rimodulata tenendo sotto controllo la chetoacidosi.

Evoluzione della tecnologia

Oggi sono disponibili dei glucometri pratici e dotati di memoria per poter registrare le varie
glicemie misurate nel tempo. Alcuni possono anche consigliare il “bolo” di insulina da iniettare ai
pasti sulla base della sensibilità all’insulina del soggetto e del tipo di pasto. È utile anche tenere un
diario cartaceo per annotare i vari valori glicemici e avere una visione rapida e globale della
situazione.
Nella cartella clinica di un paziente oggi è presente anche un modulo delle ipoglicemie: è
importante per avere una visione del numero delle ipoglicemie a cui il paziente va incontro e
raggrupparle in base alla gravità. È accompagnato anche da un questionario per capire se il soggetto
avverte l’ipoglicemia oppure ha perso la sensibilità di percepire i sintomi (ipoglicemia
asintomatica).

Anche le siringhe sono cambiate a favore di una maggiore precisione in termini di unità di insulina.

Il microinfusore invece è uno strumento con all’interno una cartuccia di insulina che viene erogata
da un sistema a pompa collegato a una serie di tubicini connessi ad un ago che rimane inserito nel
sottocute e che va sostituito ogni 2/3 giorni. La somministrazione, come già detto, avviene ad una
velocità basale, poi si possono stabilire degli incrementi (boli) in corrispondenza dei pasti.
Se si verifica un problema nello strumento che non viene rilevato, c’è il rischio di andare incontro a
chetoacidosi perché non c’è deposito sottocutaneo. Invece l’utilizzo delle siringhe permette una
somministrazione, ad esempio 30 unità di insulina Glargine la sera, tale da mantenere la lipolisi
soppressa: quindi la formazione di corpi chetonici è poco probabile.

La quantità di insulina che può essere somministrata con il microinfusore è molto bassa (per i
soggetti che sono molto sensibili all’insulina bastano 0,01 U/h). È uno strumento molto flessibile
che permette di programmare delle diverse infusioni in base alle attività previste nell’arco della
giornata.
Oggi c’è la possibilità di associare un sensore sottocutaneo della glicemia che permette al paziente
di controllare i valori glicemici e se collegato con il microinfusore permette una automatica
modulazione dell’insulina basale (ad esempio se il sensore registra una glicemia minore di 70
mg/dl, il microinfusore interrompe l’infusione di insulina). In questo modo viene ulteriormente
incrementata la capacità dello strumento di avere un ottimo controllo glicemico e di prevenire le
ipoglicemie.

In caso di ipoglicemia grave che abbia portato alla perdita di coscienza del soggetto si procede con
somministrazione intramuscolare di glucagone.

Se si somministra insulina nel sottocute sempre negli stessi siti c’è il rischio di sviluppare
lipodistrofia che consiste nell’accumulo di tessuto adiposo che poi non rende più ottimale
l’assorbimento dell’insulina: se ad assorbimento ridotto aumentiamo le dosi dell’insulina ma la
iniettiamo in una sede in cui non c’è lipoipertrofia, la sua azione a questo punto può essere
eccessiva e può causare ipoglicemia.

In conclusione, c’è la necessità che il paziente venga educato non solo in merito alla gestione del
diabete tramite la dieta e l’attività fisica ma anche in merito alla gestione di queste nuove
tecnologie.

Le ipoglicemie precedenti modificand le


risposte degli ormoni controregolatori ad
una successiva ipoglicemia. Analizziamo le
risposte dell’adrenalina: in azzurro è
indicata la sua azione standard in euglicemia
e in giallo in ipoglicemia. Con il susseguirsi
di ipoglicemie il soggetto risulta più
insulino-sensibile e avverte di meno i
sintomi.

Anche l’attività fisica in questo senso riduce la risposta degli ormoni controregolatori ad una
eventuale ipoglicemia indotta il giorno successivo, quindi migliora la sensibilità all’insulina: ecco
che un soggetto diabetico se pratica sport deve ridurre la dose insulinica o assumere carboidrati.
Endocrinologia – sbobina del 04/04/2019 prima ora
Sbobinatrice:Azzurra Genna
Revisionatore: Alessandro Livi
Docente: Carmine Fanelli

1 -Domanda dal posto: Per quanto riguarda la terapia in caso di iperprolattinemia con
carbegolina, come viene somministrata quantitativamente?
-Risposta: ricordiamo che il range va da 0,5 a 3mg/dose e ogni dose va effettuata tre volte a
settimana. Va perciò individualizzata da soggetto a soggetto. Questi sono tipi di farmaci che per
esempio potrebbero dare ipotensione ortostatica e dobbiamo tenerne conto.

2 -Domanda dal posto relativa al diabete: “Da cosa dipende la scelta della terapia effettuata con
microinfusore o con insulina basale e insulina rapida ai pasti?” “C'è qualche condizione che
predispone ad una scelta più che ad un'altra?”
-Risposta: In linea generale si parte quasi sempre con la terapia multiiniettiva (insulina rapida e
basale), perchè probabilmente richiede un approccio più semplice che richiede da parte del
paziente meno impegno; è inoltre la soluzione più rapida ed economica. D'altra parte vediamo che
l'utilizzo del microinfusore richiede invece un'educazione molto più profonda.
Il microinfusore viene proposto soprattutto ai soggetti più giovani (ci riferiamo al diabete di tipo 1)
che verosimilmente hanno una durata di malattia più breve e che sono in grado di gestire lo
strumento. Il soggetto deve scegliere lui stesso le dosi ad esempio di insulina rapida che inietta se
effettua uno spuntino e deve essere bravo a valutare i carboidrati del pasto che sta per effettuare,
per poter dosare bene l'insulina da somministrare, tramite il microinfusore, sulla base della
glicemia prima del pasto e della quantità di carboidrati contenuti nel pasto stesso. Modificare la
dose implica la conoscenza della conta dei carboidrati; processo che i pazienti devono apprendere
tramite l'aiuto del dietista.
I pazienti inizialmente pesano infatti gli alimenti calcolando dalla percentuale di carboidrati la
quantità in grammi.
Essi devono inoltre conoscere la loro sensibilità all'insulina, che non è un fattore costante, ma che
varia da giorno a giorno, in base all'attività fisica ecc ecc.
Es: Se inietto un'unità di insulina, questa abbassa la glicemia di 50 mg/dL; questa è la sensibilità e
la possono calcolare sulla quantità di insulina totale che effettuano al giorno applicando una
formula.
Facendo questi conti partendo da 120 mg/dL di glicemia basale, il pz aggiusta la quantità di
insulina per quel valore di glicemia, partendo dalla quantità di carboidrati nel pasto.
Il microinfusore si consiglia alle persone che non raggiungono un buon controllo glicemico con
la terapia multi-iniettiva, o che hanno problemi particolari come l'ipoglicemia grave, o persone
che hanno notevole variabilità glicemica.
Oggi in alcune realtà di pediatria: molti medici avviano già la terapia insulinica col microinfusore
in bambini molto piccoli; ovviamente l'aspetto educativo è volto al genitore. Così facendo c'è un
basso rischio di ipoglicemia e un buon controllo glicemico sin dall'inizio, garantendo una crescita
normale del neonato.

(Il professore racconta - per far capire il rischio a cui si sottopongono i soggetti che hanno crisi
ipoglicemiche- di una sua paziente in cura da molti anni alla quale è stato impiantato un sensore
sottocutaneo in grado di avvertire un calo di glicemia, poiché la signora in questione non ricordava
nemmeno, non essendo cosciente, di aver avuto una crisi ipoglicemica. Racconta inoltre di come
questa situazione modifichi drasticamente la vita e le abitudini del paziente a tal punto che questa
signora aveva paura anche ad addormentarsi e addirittura era solita controllare quasi in modo
ossessivo minuto per minuto la glicemia.
E' inoltre cambiata negli ultimi anni la legislazione per quanto riguarda i permessi di guida da
parte dei soggetti a rischio ipoglicemico, in quanto si verificano diversi incidenti per ipoglicemia)
METABOLISMO CALCIO-FOSFORO:
Metabolismo importante che vede il coinvolgimento di più figure. Entrano in gioco diversi ormoni,
come il PTH prodotto dalle paratiroidi, la calcitonina, la VitD. Parliamo anche di diversi tessuti:
l'osso in cui il Ca viene immagazzinato, l'intestino dove il Ca viene assorbito e i reni che
controllano l'assorbimento e l'escrezione di Ca.
E' dunque un metabolismo controllato da più organi e più ormoni.

Il Ca ha diverse funzioni:
Extracellulari:
• Mineralizzazione osso
• Coagulazione
• Eccitabilità neuromuscolare

Intracellulari: (azione che hanno a che vedere col rilascio di ormoni; es l'insulina → ricordiamo che
il Ca permette la degranulazione dei granuli contenenti questo ormone)
• Attivazione neuronale
• contrazione muscolare
• secrezione di ormoni
• secondo messaggero per ormoni e fattori di crescita
• regolazione della trascrizione dei geni e delle attività metaboliche

Valori fisiologici della concentrazione del Ca nel sangue:

Range fisiologico: 8,5 – 10,4 mg/dl.


Se > 10,4 → ipercalcemia
Se < 8,5 → ipocalcemia

Noi misuriamo il Ca totale, anche se non è un


valore di riferimento preciso. Per ottenere invece
un valore più fine, si misura il Ca ionizzato,
ovvero quello che sostanzialmente si trova sotto
forma di ione libero non complessato e che
effettivamente agisce.
Il Ca tot risente dell'effetto delle proteine a cui è
legato e dei sali (es. sali di fosfato) a cui è complessato. NB → Se varia la quantità proteica
(soprattutto se si riduce fortemente come nei casi di insufficienza epatica o insufficienza renale), il
valore del Ca tot non è attendibile, ma devo aggiustare la calcemia per i livelli di proteinemia,
soprattutto valutando la quantità di albumina.
Per fare ciò esiste una formula, riportata nella slide seguente:

In generale questa correzione consiste


nell'aggiungere 0,8 mg/dl per ogni riduzione
di albumina nel sangue.
Con questa formula possiamo invece
ottenere valori precisi.
Es. a sx della slide: Ho un paziente con una
calcemia di 9,6 mg/dl con un'albumina
molto bassa a 2 g/dl → aggiustando la
calcemia con la formula, essa risulta più
elevata.
Es a dx: Ha un'ipocalcemia a 7,4 mg/dl con ipoalbuminemia → corretto con la formula ha una
valore fisiologico di 9mg/dl.

E' bene ricordare che se richiediamo il Ca, va richiesta anche l'albumina per correzione, a meno che
non siamo sicuri ci sia anche una ipoalbuminemia.

Livelli fisiologici di Fosfato sierico:


La sua concentrazione è fondamentale per la mineralizzazione dell'osso (funzione extracellulare).
Funzioni intracellulari:
• Utilizzato nei legami ad alta Energia ad es. nell'ATP, importante nei processi energetici
cellulari
• Struttura delle membrane
• Fosforilazione delle proteine
Valori fisiologici del fosfato (PO4): 2,7 – 4,5 mg/dL.

Valori di Magnesio:
Va tenuto in considerazione quando si interpretano i dati della calcemia e della fosfatemia, perchè
l'ipomagnesemia di per sé può essere alla base di un'ipocalcemia.
Correggere un'ipocalcemia quando vi è una ridotta magnesemia significa non avere successo.
Il Mg può ridursi ad esempio in condizioni di malnutrizione, di etilismo cronico ecc.
Il range fisiologico di riferimento è: 1,7-2,4 mg/dL
Funzioni extracellulari:
• Eccitabilità muscolare
• Secrezione del PTH
Funzioni intracellulari:
• Cofattore di alcuni enzimi
• Stabilizza macromolecole (DNA, RNA)
• Metabolismo energetico (ossidazione mitocondriale)

Quindi → Questi tre elettroliti (Ca, P, Mg) vanno misurati e considerati insieme.

Il metabolismo calcio-fosfato è controllato da diversi fattori: PTH, Vit D, Calcitonina.


Questi agiscono a livello dell'osso, del rene e dell'intestino, modificando i processi di formazione e
di riassorbimento (osso), della filtrazione e del riassorbimento (rene) e il riassorbimento e la
secrezione (intestino).

TESSUTO OSSEO:
Siamo abituati a pensare all'osso come una struttura statica e rigida di sostegno, ma in realtà è molto
attivo e dinamico dal punto di vista metabolico, endocrino e cellulare.
STRUTTURA DELL'OSSO:
1) Ha una componente cellulare composta da:
-osteoblasti (da cui derivano gli osteociti)
-osteociti (metabolicamente attivi)
-osteoclasti.
Gli osteoblasti sono adibiti alla formazione dell'osso, mentre gli osteoclasti alla rimozione dell'osso.
Da questo processo di formazione e rimozione ne deriva il rinnovamento osseo chiamato
rimodellamento osseo.

2) Poi c'è la matrice extracellulare composta da:


-collagene (componente fibrosa)
-sali di calcio -idrossiapatite- e proteoglicani (componente amorfa)
REGOLAZIONE DELL'OMEOSTASI:
Quali ormoni partecipano?

IL PARATORMONE → prodotto dalle paratiroidi, piccole ghiandole poste sulla faccia posteriore
della tiroide. Esse hanno un peso totale inferiore ad 1 grammo. Possono inoltre trovarsi in posizioni
ectopiche quali collo o torace, in relazione all'origine embriologica.
Il PTH ha 84 AA. La sua secrezione è regolata in modo stretto dalla calcemia.
→ Se la calcemia si abbassa, il PTH viene maggiormente secreto (e viceversa).

Effetti biologici del PTH


Nel rene:
1) Aumenta il riassorbimento del Ca (e in parte anche del Mg) a liv del tubulo distale;
meccanismo con cui il rene conserva il Ca.
2) Riduce il riassorbimento del fosfato.
3) Aumenta l'attività della vit D, rendendola attiva (ovvero facilitandone l'idrossilazione in
posizione 1). Con questi 3 meccanismi a liv renale si previene l'ipocalcemia tramite il PTH.
Nell'osso:
1) aumenta il riassorbimento di Ca e di P
2) promuove la mobilizzazione di Ca e di P a liv osso → stimola l'espressione di RANK-L sugli
osteoblasti (vedi dopo).
Se c'è eccesso di PTH → rimossa quantità eccessiva di Ca dall'osso → osteoporosi.
Nell'intestino:
1) aumenta il riassorbimento di Ca indirettamente: promuovendo la sintesi di vit D.

MECCANISMO DI AZIONE DEL PTH:


Agisce a livello cellulare mediante recettori accoppiati a proteine G, attivando la trasduzione del
segnale, fino ad espletare l'effetto biologico → mobilitare il Ca dalle ossa.
NB: Se si verificano disfunzioni del recettore, si instaurano quadri clinici di resistenza al PTH
determinando comunque un quadro di ipoparatiroidismo.

LA CALCITONINA:
Prodotta dalle cellule C (parafollicolari) della tiroide, agisce sostanzialmente in modo antagonista al
PTH.
Si ritiene che essa non abbia un'azione fisiologica particolarmente importante, in quanto i pazienti
sottoposti a tiroidectomia-in cui fatalmente vengono rimosse anche le cellule C- non vanno in
contro a squilibri eccessivi nel metabolismo del calcio.
FUNZIONI CALCITONINA:
A livello intestinale → riduce l'assorbimento intestinale del Ca
A livello dell'osso → ne riduce l'assorbimento (favorendo perciò la mobilizzazione).
Essa tende ad abbassare la concentrazione plasmatica di Ca in quanto:
-riduce l'attività degli osteoclasti
-riduce la neoformazione di nuovi osteoclasti

VITAMINA D:
Elemento di natura steroidea che sostanzialmente nel nostro organismo si forma in due modi:
1) Assunzione dalla dieta (molto presente nei pesci molto grassi) → in passato veniva
somministrato l'olio di fegato di merluzzo, ricco di Vit D.
2) Sintesi a livello della cute, grazie alle radiazioni UV, che agiscono sul 7-deidrocolesterolo.
Successivamente questo composto subisce ulteriori idrossilazioni: a livello epatico (in posizione 25)
e poi nel compartimento renale (in posizione 1) per ottenere la forma attiva della Vit D3.
Funzioni Vit D:
1) concorre alla formazione del PTH
2) esplica l'azione a livello di diversi metabolismi:
-intestinale → aumenta il riassorbimento intestinale di Ca e P
-renale → aumenta il riassorbimento di Ca e di P
-osso (in azione col PTH) → mobilita il Ca.
NB: La mobilitazione del calcio osseo è ad opera degli osteoclasti, ma il processo viene attivato in
realtà dagli osteoblasti, i quali esprimono un ligando (è una citokina chiamata RANK-L) così
attivano gli osteoclasti i quali, una volta maturati, promuovono il riassorbimento di Ca dalle ossa
stesse.

Ricordiamo anche l'osteoprotegerina, la quale inibisce il sito del RANK-L, impedendo così l'inizio
della maturazione degli osteoclasti e dunque il processo di rimozione del Ca dall'osso.

Altri fattori intervengono nel processo di rimodellamento osseo (RANK/RANK-L):


• PTH e Vit D
• ESTROGENI: bloccando il RANK-L, facilitano la formazione dell'osso, perchè bloccano
l'attivazione degli osteoclasti. Ecco l'importanza degli estrogeni per l'osso, riscontrabile
dopo la menopausa quando la loro concentrazione cala e il meccanismo di degradazione
ossea si avvia in maniera marcata portando alla formazione di osteoporosi.
• GLUCOCORTICOIDI: Nella malattia di Cushing abbiamo sottolineato come l'eccesso di
corticoidi possa far scaturire fenomeni di osteoporosi. Infatti i pazienti che fanno una terapia
cronica steroidea, tendono a sviluppare osteoporosi.
• ORMONI TIROIDEI: se in eccesso, aumentano la rimozione dell'osso.
• GH: causa un aumento della massa scheletrica

Oggi (non viene tanto praticato da noi, ma vale la pensa sottolinearlo), esiste un approccio alla
terapia del nodulo tiroideo che prevede la somministrazione dell'ormone esogeno a concentrazioni
soppressive (molto alte, fino a 200microgrammi) in modo da abbassare il TSH, cercando di ridurre
il nodulo. Questo metodo potrebbe funzionare per i noduli di piccole dimensioni, ma esiste il forte
rischio che con questa metodica si possa indurre una tireotossicosi iatrogena al paziente!!

Slide che ricapitola gli effetti biologici della vit D:


IPOPARATIROIDISMO PRIMITIVO: causato da bassi livelli di PTH.
Necessariamente in presenza di questi quadri clinici, si parla di ipocalcemia.
NB: PTH basso → Ca basso.
Alcune condizioni che possono determinare ipoparatiroidismo:
1) Post intervento nel collo (es. tiroidectomia con accidentale asportazione delle paratiroidi)
2) Agenesia o disgenesia (mancata formazione completa delle ghiandole)
3) Forme idiopatiche (ma che rientrano poi nelle cause autoimmunitarie, sindromi
polighiandolari autoimmuni o nei disordini genetici)
4) Metastasi a livello delle paratiroidi
5) Forme funzionali (es ipomagnesemia grave → può dare ipoparatiroidismo)

FORME DI PSEUDO-IPOPARATIROIDISMO:
Generalmente sono forme che hanno a che fare con un difetto recettoriale a diversi livelli, ma che
comunque porta allo stesso risultato finale di ipocalcemia. Oppure eventualmente si verifica per una
secrezione di PTH inattivo.

IPOCALCEMIA: Valori di Ca < 8,5 mg/dL (NB:avendo escluso ipoalbuminemia)


Si manifesta con sintomi di gravità variabile; generalmente sono:
• Sintomi neuromuscolari:
parestesie(formicolii), sensazione di freddo, mialgie, spasmo carpo-podalico, laringospasmo,
tetania, convulsioni, comparsa dei segni di CHVOSTEK e TROUSSEAU.
• sintomi cardiovascolari:
aritmie alla cui base c'è spesso un allungamento del tratto QT, arresto cardiaco, scompenso cardiaco
congestizio.

• altri tipi di sintomi:


cataratta, calcificazione dei gangli della base

La tetania può essere anche latente, o addirittura può “slatentizzarsi” (cit.)


NB → tetania = contrazione muscolare del tutto involontaria → lo spasmo può interessare più
frequentemente il polso, i piedi (spasmo carpo-podalico), il laringe (laringospasmo → impedita la
respirazione con possibile exitus).
La tetania, anche latente, può essere riconosciuta con il segno di CHVOSTEK: si fa una percussione
col martelletto sotto lo zigomo a livello del n. faciale e osservare se avviene una contrazione della
rima buccale.
Se così si verifica → sospetto una tetania, in quanto normalmente non si verifica.
Altro segno di TROUSSEAU (“mano da ostetrica”): si posiziona il bracciale dello
sfigmomanometro gonfiando a 20-30mmhg sopra la pressione massima del paziente, creando uno
stato di ischemia alla mano. In chi ha ipocalcemia, si determina uno spasmo carpale che fa si che la
mano acquisisca l'atteggiamento tipico della mano da ostetrica.

Diagnosi: non è semplice l'approccio diagnostico. Spesso viene confusa con una reazione allergica.

Terapia: ipocalcemia si risolve con iniezioni di Ca. La tetania coinvolge anche mm del collo, del
torace, mm respiratori ecc.

IPOCALCEMIA ASSOCIATA A IPERPARATIROIDISMO SECONDARIO:


Sono condizioni in cui c'è un deficit di vit D; viene meno una componente di controllo del
metabolismo del Ca. Possibili cause: scarsa esposizione solare, epatopatia, insufficienza renale,
alterata attivazione epatica ecc ecc.
In questi soggetti per compensare vi è un aumento del PTH, che aumentando, fa in modo che la
calcemia si mantenga normale rimuovendo il calcio dalle ossa → questa azione in maniera cronica
determina un forte danno all'osso formando una sorta di osteoporosi chiamata OSTEODISTROFIA
RENALE (patologia ossea su pz con insufficienza renale). Quindi, ricapitolando, questo deficit di
VitD viene compensato da un iperparatiroidismo secondario provocando danni nel tessuto osseo.
L'azione dei raggi UV solari promuove la formazione di vitD: se oggi facciamo esami a soggetti
giovani, molti hanno un deficit di vitD.
Deficit molto diffuso anche negli anziani.
→ Bisogna perciò integrare la vitamina D tramite la dieta o l'esposizione solare.

Altri casi in cui: la vitamina c'è ma non funziona (condizione poco comune).

PSEUDOIPOPARATIROIDISMO: E' quella condizione caratterizzata da un recettore per il PTH


che è inattivo o che presenta alterazioni tali per cui il PTH non può funzionare.

Generalmente ne deriva un quadro clinico particolare, spesso patologie dovute a cause genetiche,
associato anche a sintomi che non hanno a che vedere con il PTH direttamente come ritardo mentale
oppure bassa statura, calcificazioni varie, cataratta, tetania ecc ecc.
SBOB.: EDOARDO EMILIANO
REV.: ALESSANDRO LIVI
04/04/2019- 2°ora

Premessa: il professore fa molto riferimento alle slide, talvolta senza neanche leggerle ma solo
indicandone i concetti importanti, inoltre in quest’ora ne ha saltate diverse perché era di fretta;
consiglio pertanto di studiare dalle slide (“METABOLISMO CALCIO-FOSFORO”), nella sbobina
ho cercato di trascrivere gli aspetti su cui lui ha posto più enfasi e gli eventuali approfondimenti
extra, ma probabilmente quello che ha detto a lezione non è sempre sufficiente ai fini della
comprensione degli argomenti

Iperparatiroidismi
Classificazione e clinica

L’iperparatiroidismo è una condizione di aumentata concentrazione plasmatica di paratormone, in


genere associata ad ipercalcemia.
L’iperparatiroidismo viene distinto in forme primarie (dovute in genere ad adenoma, più raramente
iperplasie o carcinomi), secondarie (associate sostanzialmente a deficit di vitamina D, a loro volta
spesso provocati da insufficienza renale, in ogni caso se ne è parlato nell’ora precedente) e terziarie
(conseguenti al protrarsi nel tempo di una forma secondaria).

L’iperparatiroidismo primario consiste in una secrezione autonoma del paratormone,


indipendente dalla calcemia, da parte di tumori o iperplasie delle paratiroidi, talvolta nell’ambito di
neoplasie endocrine multiple (MEN1 e MEN2a). Dal punto di vista clinico e sintomatologico,
l’iperparatiroidismo primario è caratterizzato da segni di ipercalcemia, danno osseo e danno
renale. Oggi è il danno renale la complicazione più comune rispetto a quella ossea, spesso tuttavia
l’iperparatiroidismo, almeno nelle prime fasi, è un’alterazione del tutto asintomatica, viene talvolta
rilevato in maniera casuale durante l’esecuzione di esami per ragioni diverse. Il danno osseo è
caratterizzato perlopiù da fenomeni di osteoporosi, con aumentato rischio di fratture, che sono
fratture patologiche, cioè spontanee, non associate a un trauma. Il danno renale è secondario
all’ipercalcemia e alla conseguente ipercalciuria, che aumenta il rischio di sviluppare nefrolitiasi
nonché calcificazioni del parenchima renale (nefrocalcinosi, nel tempo può determinare
insufficienza renale). I sintomi di ipercalcemia sono svariati, tra i più importanti si ricordano
l’ipertensione arteriosa, l’accorciamento dell’intervallo QT, la bradicardia, la debolezza muscolare,
la poliuria (dovuta all’ipercalciuria, a sua volta genera polidipsia, se non adeguatamente
compensata può generare disidratazione), sintomi neuropsichiatrici, ulcere peptiche, stipsi,
pancreatite, calcificazioni metastatiche.

Diagnosi

La diagnosi si effettua su base laboratoristica e tramite imaging.

Dal punto di vista laboratoristico ci si basa sull’aumento del calcio totale (sopra 11 mg/dl) e
sull’aumento del paratormone (N.B.: nella slide sono indicati anche altri parametri), in assenza di
insufficienza renale (vitamina D normale, altri parametri connessi all’insufficienza renale normali).
Tramite imaging si può valutare il
danno osseo (es. fratture e densità
ossea, N.B.: nelle slide sono riportati
anche altri aspetti) e la calcificazione
renale(nefrocalcinosi). Con
l’imaging si può anche risalire alla
localizzazione del tumore delle
paratiroidi (nel caso di un
iperparatiroidismo primario), in
particolare si usa l’ecografia del
collo, per identificare il tumore
l’esame di elezione è però la
scintigrafia delle paratiroidi. Si
tratta di un esame scintigrafico che
avviene per sottrazione, si
somministrano infatti due traccianti radioattivi diversi per distinguere il tessuto tiroideo da quello
paratiroideo (tecnezio sestamibi), gli adenomi paratiroidei e il tessuto iperplastico captano
maggiormente. Per identificare con maggiore precisione la posizione dei tumori si usano poi TC e
risonanza magnetica, perlopiù ai fini chirurgici.

Altre cause di ipercalcemia

L’ipertiroidismo non è l’unica causa di ipercalcemia, pur essendo la più frequente. L’ipercalcemia
neoplastica è dovuta alla produzione ectopica di fattori in grado di aumentare la calcemia, possono
riguardare svariati tumori, in particolare linfomi. L’ipercalcemia si riscontra anche nell’ambito di
altre endocrinopatie, quali tireotossicosi e feocromocitoma, nonché in altre patologie (sarcoidosi)
o per l’uso di farmaci ( es.eccesso di vitamina D).

È importante sottolineare le differenze tra ipercalcemia da iperparatiroidismo primitivo e


iperalcemia neoplastica: la prima è cronica e spesso subclinica, la seconda ha un esordio acuto,
spesso associato agli altri sintomi della malattia neoplastica; la calcemia è più bassa e stabile
nell’iperparatiroidismo primitivo, mentre nell’ipercalcemia neoplastica è più alta e fluttuante.
Infine, il paratormone risulta elevato nell’iperparatiroidismo primario, mentre nell’ipercalcemia
neoplastica è soppresso dall’ipercalcemia stessa.
Patologie dell’osso

Richiami all’istologia e alla fisiologia dell’osso


(N.B.: nelle slide il discorso è leggermente più ampio rispetto a quello che fa il professore)

Le funzioni dell’osso sono numerose ma sta emergendo sempre di più un suo importante ruolo nelle
funzioni endocrine. La matrice ossea è continuamente sottoposta a rimodellamento da parte degli
osteoclasti e degli osteoblasti, con la loro azione antagonista: gli osteoblasti attivano gli osteoclasti
che riassorbono la matrice ossea, aumentando la calcemia; gli osteoblasti attivati invece depositano
nuovamente matrice riducendo la calcemia. L’attività di queste cellule dipende dall’insieme dei
segnali che esse ricevono dal sangue e dalle cellule circostanti. Il processo dura tutta la vita con dei
cicli mensili.

Osteoporosi

Si tratta di una patologia dell’osso caratterizzata da aumentata fragilità dello stesso, espone al
rischio di fratture (perlopiù fratture patologiche). Nel 2012 in Umbria ci sono state 1783 fratture di
femore da osteoporosi sopra i 65 anni, il dato è in aumento rispetto ai 6 anni precedenti. La frattura
del femore è una complicanza temuta sopra i 65 anni, perché comporta ospedalizzazione e
intervento chirurgico, con tutti gli ulteriori rischi a cui ciò espone (in particolare l’immobilizzazione
è un fattore prognostico negativo).

Si distinguono osteoporosi primitive (principalmente


senile e postmenopausale, nelle slide sono indicate
anche altre forme meno comuni) e osteoporosi
secondarie (in relazione ad altre patologie, tra cui
l’insufficienza renale che genera osteodistrofia, o
all’uso di farmaci, in particolare cortisonici).
Il picco di massa ossea si ha tra i 20 e i 30 anni, sopra
i 50 inizia a scendere (in realtà già dopo i 30 anni ma
in maniera meno marcata), soprattutto nelle donne, a
causa della menopausa che fa venir meno le
concentrazioni di estrogeni, importanti nella
deposizione di matrice ossea.

Le ossa maggiormente interessate da fratture patologiche in questo quadro sono le vertebre, il


femore, le ossa del polso (frattura di Colles) e la clavicola. Nelle fratture vertebrali si rileva
schiacciamento della vertebra interessata e alterazioni nella curvatura della colonna, il tutto
associato a dolore cronico, che richiede particolare attenzione.

La diagnosi di osteoporosi si fa tramite mineralometria ossea, un esame di imaging che sfrutta una
radiografia dalla quale viene ricavato un dato sulla densità ossea. Tale dato viene elaborato per
poter essere confrontato con valori di riferimento, pertanto viene convertito in un punteggio detto
T-score, che è relativo al dato di mineralometria ideale in riferimento alla fascia di età del soggetto
o ad una fascia di età che rappresenta l’optimum in assoluto. Se il T-score è maggiore di -1 l’osso è
normale, se è compreso tra -1 e -2,5 c’è osteopenia, se è inferiore a -2,5 c’è osteoporosi, che viene
definita severa se vi si associa anche una frattura patologica. Oltre alla mineralometria ossea è
importante valutare altri parametri clinici (vd. Slide), tra cui la massa muscolare: spesso
l’osteoporosi è associata a sarcopenia.
Per quanto riguarda la terapia esistono diversi farmaci per trattare l’osteoporosi, non sempre
efficaci, perlopiù ne rallentano la progressione. Tra i farmaci più importanti si ricordano gli
estrogeni, i bifosfonati (riducono il riassorbimento osseo), il denossumab (anticorpo monoclonale
in grado di legare il RANK-L degli osteoblasti, in modo da evitarne l’interazione con il recettore
RANK che attiva gli osteoclasti). (N.B.: nelle slide sono presenti altri farmaci, ma da come dice il
professore non è necessario approfondirli ai fini dell’esame). Altri approcci terapeutici riguardano
lo stile di vita: maggiore assunzione di calcio nella dieta, di vitamina D (anche per esposizione al
sole), maggiore attività fisica, evitare alcol e fumo. Hanno effetti sia sulla prevenzione sia per
ridurne la progressione.

Osteomalacia
(N.B.: nelle slide ci sono molte più cose rispetto a quanto viene detto a lezione)

È un danno osseo dovuto al deficit di vitamina D. Nei bambini questa condizione è nota come
rachitismo (oggi poco frequente), associata a deformazioni ossee tipiche. Clinicamente è
caratterizzato da dolore e debolezza muscolare.

La diagnosi si basa sostanzialmente sul dosaggio di vitamina D, si parla di deficit se è inferiore a 20


ng/ml.

La terapia consiste nella somministrazione di vitamina D. Il fabbisogno giornaliero ammonta a


1000 unità al giorno, ma ci sono integratori a concentrazioni maggiori per poter ridurre la frequenza
di assunzione (ad esempio settimanale o mensile), inoltre la dose va anche commisurata al grado di
carenza, in una prima fase è necessario operare una correzione del deficit ripristinando le riserve di
vitamina D, segue una terapia di mantenimento. Anche un’alimentazione ricca in calcio è
importante in questi pazienti.
09/03 Eduardo Bianchi

AMENORREA SECONDARIA: diagnosi

Nel processo diagnostico è importante l’anamnesi e l’esame fisico, in particolare


conoscere la storia patologica, la regolarità dei precedenti cicli mestruali, l’alimentazione,
le abitudini di vita, l’eventuale attività sportiva agonistica che modifica la secrezione di
gonadotropine. E’ importante conoscere eventuali variazioni di peso e se sono state fatte
terapie che hanno interferito con la funzionalità ovarica come la chemioterapia. Potrebbe
esserci anche una menopausa precoce da svariate cause come situazioni psicologiche o
psichiche che alterano un buon funzionamento dell’ovaio.

I test di I livello comprendono: test con progestinico (MAP test) e i dosaggio di: beta-HCG,
17 beta-Estradiolo, prolattina, FSH, LH, TSH e l’ecografia pelvica.

Ci si deve sempre accertare della causa e solo dopo procedere con dei test: dosiamo gli
ormoni del sangue, si misura prima di tutto la gonadotropina corionica umana per escludere
un’eventuale gravidanza, che causa amenorrea fisiologica. Tra le condizioni più comuni c’è
l’iperprolattinemia verificabile con la misurazione della prolattina. Tra gli accertamenti si
valuta anche il TSH per escludere un ipotiroidismo. Si fa anche un’ecografia pelvica per
valutare la morfologia e le caratteristiche strutturali dell’ovaio. In passato si faceva un test
con idrossi-progesterone (si somministra una compressa di 10 milligrammi al giorno per 5
giorni) alla fine ci deve essere sanguinamento, questo test fa escludere (se positivo)
anomalie dell’utero, se negativo occorrerebbe la valutazione ginecologica. La diagnosi può
però partire semplicemente con il dosaggio ormonale, misurando estradiolo nei primi giorni
del ciclo mestruale (3° - 5° giorno) e il progesterone nella fase luteinica.

Dei valori bassi dei dosaggi ormonali ci orientano verso forme ipotalamo-ipofisarie; dei
valori alti con estradiolo basso indirizzano verso forme differenti di attività ovarica, per
esempio l’ovaio policistico in cui è caratteristico l’aumento del rapporto LH/FSH. Per
escludere l’ovaio policistico si fa un’ecografia pelvica.

I test di II livello sono: test con estro-progestinici, test al GnRH e RMN ipofisaria.

Test con estro-progestinici: si valuta se la mucosa può andare incontro ad ovulazione o


meno dopo aver stimolato per 20-30 giorni con estro-progestinici.
Test al GnRH e RMN: si valuta la funzione ipofisaria con GnRH, un test negativo è
caratteristico di una condizione di ridotta responsività, si cercano poi eventuali masse o
adenomi con risonanza ipotalamica/ ipofisara.

Ci sono poi test di III livello: test al clomifene citrato, dosaggio di androgeni (questo test in
alcuni casi viene eseguito direttamente come test di I livello). Nel caso di sospetta
disgenesia gonadica (sindrome di Turner) c’è l’analisi anche del cariotipo e determinazione di
anticorpi anti-ovaio e anti-ovociti per le forme autoimmuni. Spesso la presenza di tali anticorpi è associata
ad altre patologie autoimmuni come patologie tiroidee o il diabete tipo I.
Di seguito riportiamo la flow chart della diagnosi di amenorrea secondaria. Innanzi tutto
si deve sempre escludere la gravidanza (il test va fatto anche se la donna afferma di non
essere incinta). Poi si valuta prolattina per escludere iperprolattinemia/prolattinoma, si
valuta il TSH per individuare un eventuale ipotiroidismo. Successivamente si fa ancora un
un test di primo livello, il test all’idrossi-progesterone (MAP test) che se positivo ci porta alla
diagnosi di ovaio policistico (che è tra le cause più comuni di amenorrea). Se invece il MAP
test è negativo, si fa il test con estro-progestinici e se non si verifica sanguinamento si
contatta il ginecologo per la ricerca del problema ovarico/uterino. Se invece si verifica il
sanguinamento allora si dosano FSH e LH, se sono normali/basse si fa diagnosi di
amenorrea ipotalamica, se invece sono alte di POF o resistenza ovarica.

SINDROME DI TURNER

Condizione caratterizzata dalla mancanza di un cromosoma X (45X0: questo è il cariotipo


più comune) la sindrome si caratterizza per l’assenza del tessuto ovarico normale che è
sostituito da tessuto fibroso. Si ha una forma di ipogonadismo ipogonadotropo con
presenza di amenorrea. Gli organi genitali non si sviluppano e le manifestazioni
caratteristiche sono la bassa statura, l’infantilismo sessuale, il fenotipo femminile,
anomalie come lo pterigio del collo, pieghe cutanee a livello delle palpebre. Ci sono anche
anomalie cardiache e renali, inoltre può essere presente un insufficiente sviluppo delle
mammelle. Le persone affete sono inoltre sterili.

La terapia è caratterizzata da estro-progestinici per ristabilire un bilancio endocrino


adeguato.
SINDROME OVAIO POLICISTICO

È una condizione comune, spesso viene scoperto quando viene fatta un’ecografia a
causa di amenorrea o oligomenorrea. La sua presenza è caratterizzata da
iperandrogenismo, aumenta la secrezione di LH in misura maggiore rispetto a quella di
FSH. La patogenesi non è del tutto nota. Si ha anche una condizione di iperinsulinismo.

Può manifestarsi con amenorrea, oligomenorrea, irsutismo e obesità.

Le ovaie si caratterizzano per l’aumento di volume e per la presenza di follicoli multipli a


diversi stadi di maturazione, di cui la maggior parte non raggiunge lo stadio di maturazione
finale, da questi si formano le cisti. Dal punto di vista ormonale c’è un aumento di
androgeni e di estrogeni, soprattutto estrone (dotato di bassa attività estrogenica).
L’iperinsulinismo deriva dal fatto che i soggetti hanno un’aumentata resistenza insulinica,
dovuta all’aumento degli androgeni, aromatizzati a livello del tessuto adiposo in estrogeni
poco attivi come l’estrone. L’iperinsulinemia da un lato determina la riduzione delle proteine
che trasportano gli androgeni con aumento della quota libera
del testosterone stesso, dall’altro l’insulina
interagendo con LH ne aumenta l’effetto e fa
aumentare i livelli di androgeni contribuendo
alla determinazione dell’irsutismo.

Dal punto di vista terapeutico è necessario


ridurre i livelli di insulinemia, facendo perdere
peso al soggetto e facendogli fare attività fisica
per ridurre l’insulino-resistenza. Se ciò non
basta possiamo attuare una terapia usando
farmaci che utilizziamo per trattare il diabete di
tipo 2 come la Metformina (insulino-
sensibilizzante) a piccole dosi 500 mg per
2dosi/die (da iniziare gradualmente) o farmaci della classe del glitazone.
Il dimagrimento riduce da un lato i livelli di insulina e dall’altro la quantità di tessuto
adiposo e quindi di aromatasi che sono implicate nel processo di conversione degli
androgeni in estrone che poi interferisce nella normale funzione ipofisaria.

Sintomatologia
Infertilità, amenorrea, obesità.

Diagnosi di ovaio policistico


la diagnosi di ovaio policistico si basa sulla presenza di amenorrea, segni biochimici di
iperandrogenismo (irsutismo, acne, alopecia), ovaie aumentate di volume con cisti (almeno
12, le cisti sono l’evoluzione dei follicoli che non sono giunti a maturazione). Occorre
escludere sempre cause tumorali come tumori surrenalici (Cushing).

MENOPAUSAPRECOCE-POF(PREMATURE OVARIC FAILURE)


E’ una condizione che si presenta sotto i quarant’anni, con livelli elevati di
gonadotropine (che ci fanno far diagnosi di menopausa) e basse concentrazioni di
estrogeni, in particolare di estradiolo.
Le cause di POF sono generalmente iatrogena (chirurgica, radioterapica), idiopatica
(piuttosto comune) e autoimmune diagnosticata tramite evidenziazione di anticorpi
anti-ovaio.

E’ definita menopausa prematura se compare tra 41-45 anni, molti di questi casi sono
iatrogeni da farmaci o terapia.

SEGNI E SINTOMI DI IPO- E IPERGONADISMO


Le forme di ipoestrogenismo caratterizzano la menopausa e le sue manifestazioni sono
particolarmente fastidiose. Ricordiamo tra le manifestazioni le vampate di caore,
l’arrossamento, la sudorazione notturna, la depressione del tono dell’umore.
Inoltre si verifica irsutismo relativo alla disposizione dei peli cutanei preceduto da
ipertricosi, ovvero un aumento lieve del vello che diventa irsutismo se l’eccessiva crescita
compare nelle porzioni terminali degli arti, dove normalmente non dovrebbero esserci.
Il virilismo invece indica, oltre i segni sopracitati, anche altri segni di mascolinizzazione a
livello genitale, del cuoio capelluto e dei peli in sedi prettamente maschili (sono dei quadri
di gravità crescente associati a gradi di iperandrogenismo crescente).

Per stabilire il grado di tricosi e irsutismo si


fa riferimento alla Stadiazione di
ferrimangallwey, nella quale vengono
esaminate 9 sedi di crescita abnorme di peli
nella donna. Si fa uno score per
comprendere se la condizione è o meno
fisiologica.
Occorre escludere patologie come l’ovaio
policistico che possono determinare tale
situazione, sindromi adrenogenitali,
farmaci come minoxidi, un antiipertensivo
che nell’uomo aiuta la crescita dei capelli,
ma utilizzato nella donna può dare
ipertricosi e irsutismo.
Nella virilizzazione sono anche compresi
altri aspetti come la voce profonda e l’aspetto mascolino.

TESTICOLO

Consideriamo due compartimenti: le cellule


del Leydig che sintetizzano gli ormoni sessuali
maschili quali il testosterone e le cellule del
Sertoli, che oltre ad essere cellule di supporto,
sono coinvolte nel processo di maturazione
degli spermatociti. Anche il testicolo produce
l’inibina che insieme al testosterone esercita
un feedback negativo sull’ipotalamo.

Il testosterone esercita anche un’azione locale


sulle cellule del Sertoli, dove promuove la
maturazione degli spermatociti.

A livello periferico il testosterone o è


convertito in diidrotestosterone, più attivo del testostserone (di circa 250 volte) o è
convertito in estrogeni, estradiolo ed estrone.

Anche la secrezione di androgeni risente di un ritmo con picco nel mattino e una riduzione
durante la giornata.
In circolo viaggiano in parte come ormone libero, in parte legati ad albumina e in parte
legati a SHBG (sex ormon binding protein). Variazioni nella concentrazione di SHBG
influenzano la quota libera di ormone.

Il diidrotestosterone ricopre un ruolo particolarmente importante nello sviluppo dei genitali


maschili, che derivano dai dotti di Wolff, poichè inibisce lo sviluppo dei dotti di Müller
attraverso il fattore antimulleriano. Poi l’azione di questo ormone si manifesta in maniera
maggiore durante la fase della pubertà, quando sostiene la crescita dei peli e avvia la
spermatogenesi.

Test per indagare la funzione testicolare


In prima battuta si fanno le valutazioni dei livelli ormonali di testosterone, LH, FSH,
prolattina e diidrotestosterone che già permettono di orientarsi verso una forma primitiva
(gonadica) o una forma ipotalamica o ipofisaria.
E’ importante nell’uomo il dosaggio della prolattina, infatti l’iperprolattinemia può
provocare riduzione nella produzione androgenica. Di solito la diagnosi è tardiva a causa
del fatto che solo tardivamente l’uomo si rivolge al medico, è quindi più comune il riscontro
di macroprolattinomi.

Test dinamici
tra i test dinamici abbiamo quelli di stimolazione con gonaditropina corionica, di
stimolazione con GnRH (per valutare alterazioni nella funzione ipofisaria, se presente
disfunzione ipofisaria non ci sarà risposta). Importante è anche l’esame del liquido
seminale nel quale si valutano le caratteristiche e la numerosità degli spermatozoi.
Indagini strumentali
Tra le indagini strumentali ci sono l’Ecografia (che
permette di valutare bene la morfologia del
testicolo), l’eco-doppler (per valutare la
vascolarizzazione che potrebbe essere alterata
ad es. nel varicocele).
Test più invasivi sono l’agoaspirato e la biopsia
testicolare, per stabilire le caratteristiche di
eventuali formazioni e noduli.

Nell’immagine è rappresentato un Orchidometro


di Prader IV. Grazie a questo strumento si può
in modo diretto valutare il volume testicolare con
gli ovoidi di diverso volume in ml. Oggi si
usa per lo più l’ecografia che permette di valutare, oltre le dimensioni, anche l’ecogenicità.

IPOGONADISMO MASCHILE

La condizione di ridotta funzione


gonadica maschile, nella sua forma
estrema, determina infertilità
temporanea o definitiva per affezione
delle cellule germinali.
L’interessamento delle cellule del
Leydig determina un calo nella
produzione androgenica.

Possiamo classificare le forme di


ipogonadismo in forme primarie, le
quali sono necessariamente
ipergonadotrope con aumento dei
livelli di FSH e LH.
Tra le cause di ipogonadismo abbiamo: anomalie cromosomiche, come la sindrome di Klinefelter;
condizioni anatomiche, come l’agenesia congenita; criptorchismo e varicocele (tra le più comuni);
forme autoimmuni; forme traumatiche.
SBOBINATORE: FEDERICO AMICUCCI REVISIONATORE: Ivona Antovska
09/04/2019 – 1a ora

IPOGONADISMO PRIMARIO
È un tipo di ipogonadismo ipergonadotropo causato da:
• Alterazioni genetiche: anomalie cromosomiche (es.Klinefelter), microdelezione del
cromosoma Y e Resistenza a LH e/o FSH
• Anomalie anatomiche: Anorchia congenita, agenesia o pioplasia delle cellule del Leydig,
aplasia germinale, criporchidismo e varicocele. Questi ultimi due si presentano con una
certa frequenza.
• Patologie autoimmuni
• Processi postinfettivi
• Processi traumatici
• Danni Iatrogeni

IPOGONADISMO SECONDARIO IPOGONADISMI SECONDARI


(ipogonadotropo) (Ipogonadotropi)
Questa patologia ha alla sua base una causa
Da alterazioni ipotalamo-ipofisarie
ipotalamo-ipofisaria. È dovuta a una carenza di Deficit isolato di FSH e/o LH, Gn-RH
FSH, LH o GnRH. Questi deficit possono essere Deficit associato ad altre tropine
anche associati a deficit di altre tropine Deficit secondario a iperprolattinemia
ipofisarie in una patologia che interessa buona Da affezioni non primitivamente ipot.-ipofisarie
parte dell’ipofisi. L’ipogonadismo secondario AIDS, Emocromatosi
può essere dovuta anche a condizioni Malattie sistemiche, stati di malnutrizione
sistemiche, farmaci e eventualmente anche a Psicogeni
stress o alterazioni psicologiche. Iatrogeni (da farmaci, chirurgici, da radiazioni)

IPOGONADISMO DA RESISTENZA PERIFERICA


È dovuto a una resistenza recettoriale a livello tissutale che provoca una diminuita funzionalità del
testosterone. Ciò avviene nella sindrome di Morris, o sindrome delle belle donne, o in caso di
deficit di una reduttasi che, in condizioni normali, permette la formazione di diidrotestosterone,
l’ormone maggiormente attivo.

Dal punto di vista clinico, l’ipogonadismo si può manifestare in maniera diversa a seconda che si
presenta prima della pubertà o nell’età adulta.
Nel bambino avremo un accrescimento eccessivo che comporta un aspetto eunucoide. Questo
aspetto è caratterizzato da:
1. Un’altezza sopra la media;
2. Un’apertura delle braccia che può superare l’altezza anche di qualche centimetro;
3. Scarsa massa muscolare;
4. Disposizione del grasso di tipo femminile (come ad esempio a livello del bacino);
5. Riduzione o assenza di peluria a livello facciale o ascellare. La peluria si posiziona nelle
zone tipiche femminile, come a livello pubico, mentre i capelli sono ben sviluppati;
6. Alto timbro della voce, tipico del bambino;
7. Diminuzione dell’accrescimento dei testicoli che hanno un volume inferiore a 5 ml e una
lunghezza < 2.5 cm;
8. Diminuzione delle dimensioni del pene (<3-5cm) e della prostata;
9. Mancanza di libido, impotenza sessuale e ginecomastia (presenza di mammelle nel
maschio).
Nell’adulto invece:
1. L’altezza e le proporzioni scheletriche saranno normali cosi come il timbro della voce;
2. La massa muscolare e la forza saranno ridotte. Gli androgeni, infatti, sono ormoni
fondamentali per conferire la forma e la forza muscolare. Essi sono tra gli ormoni che
vengono utilizzati nel doping, così come insulina, GH, EPO;
3. Si presenta riduzione dei peli ascellari, pubici e facciali;
4. Si presenta impotenza, perdita di libido e infertilità, in quanto il testosterone prodotto dalle
cellule del Leydig agisce anche a livello delle cellule del Sertoli promuovendo lo sviluppo
degli spermatozoi.
5. La prostata è normale mentre il volume testicolare è ridotto;
6. Aumenta il rischio di osteoporosi per il ruolo che svolgono gli androgeni (limitare il
riassorbimento);
7. Si presenta oligoazoospermia (infertilità dovuta a riduzione di spermatozoi e/o alterazioni
degli stessi).

SINDROME DI KLINEFELTER
È una patologia genetica che dà luogo a un
ipogonadismo ipergonadotropo caratterizzata SINDROME DI KLINEFELTER
dal fatto che in questi soggetti c’è un
cromosoma X sovrannumerario (XXY). Causa più frequente di ipogonadismo congenito maschile
Questo tipo di anomalia determina un alterato
Presenza di un cromosoma X soprannumerario per
sviluppo testicolare ma soprattutto interessa la mancata disgiunzione meiotica durante la spermatogenesi o
parte tubulare che va incontro a processi la oogenesi in uno dei genitori
degenerativi comportando una mancanza di
sviluppo di epitelio germinale e quindi di 60% madre (oocita con 2 cromosomi X)
spermatociti. Ciò determina infertilità. Il 30% padre
cariotipo più comune, nell’80% dei casi, è
caratterizzato dalla tripletta XXY ma ci sono Anomalie dello sviluppo testicolare;
anche forme di mosaicismo (XXY/XY) nel Degenerazione tubulare;
Scomparsa epitelio germinale
20% dei casi. La prevalenza è 1:500 nati
maschi.
L’aspetto è un fenotipo maschile con vari livelli ipoandrogenismo che comporta habitus eunucoide.
La progressione della patologia può essere evitata con una terapia appropriata. Purtroppo però, la
diagnosi può essere ritardata a causa di un quadro molto sfumato in una buona percentuale di casi.
Un elemento clinico presente nella maggior parte dei casi è la ginecomastia dovuta ad un eccesso di
estrogeni che vengono aromatizzati a livello del tessuto adiposo. Abbiamo anche azoospermia
(spermatozoi alterati) e testicoli piccoli e duri. Questa ultima caratteristica è dovuta alla prevalenza
di tessuto fibroso che va a sostituire il tessuto gonadico (come nella sindrome di Turner). I livelli
ormonali di testosterone saranno bassi mentre FSH e LH saranno elevati. In alcuni casi può essere
presente una ridotta tolleranza al glucosio.
SINDROME DI KLINEFELTER
La sindrome di Klinefelter espone ad un rischio aumentato di neoplasia, in particolare alla
mammella (aumento della frequenza di 20 volte), e di osteoporosi a causa della carenza di
androgeni. aumentato rischio di
I soggetti presentano ginecomastia, magrezza e
lunghezza delle braccia. - carcinoma mammario (20 volte > che nel
Analisi microscopica dei tubuli seminiferi: sono maschio e 5 volte < rispetto alla donna)
visibili solo i setti fibrosi e non il tessuto
germinale. - leucemia, linfomi, tumori gonadici e tumori a
cellule germinali extragonadici, vene varicose,
malattie autoimmuni, osteoporosi
IPOGONADISMO CONGENITO
Esistono anche delle forme congenite in cui i valori di FSH e LH sono molto variabili.

IPOGONADOTROPO CONGENITO
Modalità di trasmissione:
- Forme sporadiche (circa i 2/3)
- Forme familiari ( circa 1/3, autosomiche dominanti e
autosomiche recessive, legate all’X )
Quadro ormonale:
- Bassi valori di testosterone
- Bassi valori di FSH e LH (con ridotta assente
pulsatilità) oppure valori normali
- (Variabile risposta al GnRH, in genere ridotta)

SINDROME DI KALLMANN Sindrome di Kallmann


È una patologia genetica caratterizzata da un
ipogonadismo ipogonadotropo e può essere
L’ipogonadismo ipogonadotropo congenito
associata a anosmia o iposmia (riduzione associato ad anosmia è spesso determinato
dell’olfatto) dovuto ad un’alterazione dei da mutazioni di un gene (KAL) situato
bulbi olfattivi. I soggetti presentano sul braccio corto del cromosoma X (Xp22.3)
infantilismo genitale e habitus eunucoide.
Oltre all’anosmia, presente nel 50% dei casi, Il gene KAL codifica l’anosmina, una prote-
possono presentare altri difetti come: ina coinvolta nel processo di migrazione
palatoschisi, labbro leporino, anomalie degli assoni olfattivi e dei neuroni GnRH
renali, sincinesie. secernenti che durante la vita embrionale
migrano dal placode olfattivo verso il
bulbo olfattivo
CRIPTORCHIDISMO E VARICOCELE
Sono delle patologie molto comuni, in particolare il varicocele, che possono compromettere la
funzionalità delle gonadi e la fertilità del soggetto.
Per criptorchidismo si intende la mancata discesa di uno o entrambi i testicoli nello scroto.
Normalmente i testicoli si originano nell’addome e migrano nello scroto. In una certa percentuale di
soggetti questo processo non si verifica, ma non necessariamente siamo in presenza di una
patologia. Infatti, questo processo di discesa può completarsi anche durante i primi 6 mesi. Dal
sesto mese in poi va valutata la possibilità di iniziare una terapia. È possibile anche la presenza di
un testicolo ectopico, al di fuori del normale percorso anatomico, o di un testicolo retrattile,
condizione non patologica in cui il testicolo tende a tornare nella cavità addominale ma
generalmente raggiunge la posizione anatomica corretta nel giro di pochi mesi.
Si presenta maggiormente nei nati prematuri (15-30%). Nel 75% dei casi è monolaterale, nel 25%
dei casi è bilaterale.
La diagnosi è clinica e si attua tramite la palpazione.
La patogenesi non è del tutto compresa ma intervengono diversi fattori (anomalie meccaniche o di
secrezione di GnRH o diidrotestosterone o ormone anti-mulleriano) che compromettono la discesa
del testicolo.
Il testicolo che rimane nella cavità addominale resta di dimensioni ridotte e va incontro ad una
compromissione della spermatogenesi mentre la produzione di ormoni è normale. Se questa
anomalia non viene corretta ed è bilaterale abbiamo il pericolo di sterilità. Le cause che provocano
CRIPTORCHIDISMO
alterazione della produzione di spermatozoi non sono note con certezza ma SEDE
si ipotizza che questo
danno sia dovuto alla temperatura troppo elevata della cavità addominale rispetto a quella scrotale.
Il testicolo si può bloccare a livello della cavità
addominale o nel canale inguinale a diversi livelli. • Intra-addominale 10%
Generalmente è palpabile con un dito a livello del
canale inguinale esterno. In una parte dei casi,
• Canalicolare 20%
questo processo si accompagna alla presenza di • Anello inguinale est. 70%
un’ernia inguinale.
Inoltre i testicoli ritenuti che non vengono curati hanno una probabilità 10 volte maggiore di
sviluppare una neoplasia testicolare.
Per evitare la sterilità e la neoplasia, il testicolo va trattato chirurgicamente o, in una parte minore
dei casi, tramite ormoni. La terapia chirurgica va eseguita entro il primo anno tramite un intervento
chiamato orchidopessi che consiste nella fissazione del testicolo in cavità scrotale.
Se la diagnosi viene fatta troppo tardivamente si procede alla rimozione del testicolo con lo scopo
di prevenire l’insorgenza della neoplasia testicolare.

Il varicocele è un’ectasia, una dilatazione, delle vene VARICOCELE


del plesso pampiniforme del funicolo spermatico che Concause
determina una stasi del flusso causando un aumento del -Fattori infettivi
volume del testicolo. Anche in questo caso abbiamo -Fattori meccanici
-Alterazioni congenite (ipoplasia tessuto elastico
alterazione della spermatogenesi. Si può presentare vasi)
sensazione di peso o dolore a livello inguinale. Anche Conseguenze
in questo caso l’alterazione della spermatogenesi è da -Alterazioni della spermatogenesi
attribuire all’aumento della temperatura, causata dalla Clinica
stasi di sangue. -Assenza di sintomi
-Peso/dolore irradiato all’inguine
MENOPAUSA -70% alterazioni spermiogramma
La menopausa è la cessazione del ciclo mestruale. Può essere:
• naturale (tra 45 e 55 anni),
• precoce (sotto i 40 anni), in relazione alla POF (insufficienza ovarica prematura). La POF ha
tra le cause anche quella immunitaria che comporta un’ovarite. Quest’ultima è alla base
dell’insufficienza ovarica,
• o artificiale/iatrogena/farmacologica, dovuta a terapie che hanno compromesso la
funzionalità dell’ovaio, come la chemioterapia.
Oltre alla menopausa sono importanti due periodi nella vita della donna:
-Climaterio: periodo compreso tra pre-menopausa e post-menopausa.
-Perimenopausa: simile al climaterio ma con estremi più ravvicinati alla menopausa.
In questi periodi e quindi prima della menopausa si incominciano ad osservare alterazioni del flusso
mestruale e sintomi tipici della menopausa. Si osservano irregolarità mestruali, cicli anovulatori,
aumento di peso, modesto irsutismo e infertilità.
La menopausa è caratterizzata dalla riduzione di estradiolo, aumento di FSH, modesto aumento di
androgeni e di estrogeni a bassa attività come l’estrone.
Sostanzialmente abbiamo la scomparsa del ciclo ovarico e ormonale.
La diagnosi si effettua se siamo nel range di età corretta, se abbiamo aumento di FSH, diminuzione
estradiolo e assenza di ciclo mestruale almeno da 6-12 mesi. Ovviamente bisogna escludere la
gravidanza.
La menopausa è caratterizzata da un ampia varietà di sintomi:
• I sintomi neurologici principali sono vampate di calore, irritabilità, depressione, alterazioni
del ritmo del sonno e, in una minore percentuali di casi, perdita di memoria.
• I sintomi cutanei sono secchezza della pelle e delle mucose, diminuita elasticità, prurito e
aumento delle rughe.
• L’apparato genitale subisce un processo di lenta involuzione caratterizzato da atrofia e
secchezza vaginale che può comportare infezioni batteriche e micotiche. Sono presenti
anche prurito, dispareunia (dolore durante l’attività sessuale) e prolasso.
• Possono essere presenti anche disturbi dell’apparato urinario come cistiti, incontinenza
urinaria, disuria, pollachiuria e tenesmo vescicale (sensazione di dover urinare più spesso).
• Tra i sintomi generali si annoverano tachicardia, ipertensione, modificazione dell’assetto
lipidico e aumento del peso corporeo.
Con la menopausa e i suoi cambiamenti ormonali aumenta anche il rischio di patologie
cardiovascolari. Nelle donne questo rischio è generalmente più basso fino alla menopausa, dopo la
quale diventa anche più alto.
Gli estrogeni hanno un impatto a livello endoteliale e metabolico, dove favoriscono la presenza di
HDL e la diminuzione di LDL.
Inoltre, la diminuzione di estrogeni provoca un aumento dell’insorgenza di osteoporosi. Gli
estrogeni, in condizioni normali, riducono il riassorbimento osseo e quindi nel periodo successivo
alla menopausa abbiamo uno sviluppo dell’osteoporosi più rapido. La progressione di questa
patologia è più grave nei soggetti che già avevano una particolare predisposizione all’osteoporosi.
Per evitare l’insorgenza dei sintomi e delle alterazioni è consigliato seguire uno stile di vita sano e
attivo. In alcuni casi, però, sono necessarie delle terapie ormonali sostitutive che vanno eseguite per
un breve periodo in quanto sono presenti effetti collaterali. Non andrebbero trattati pazienti che
presentano neoplasie alla mammella e all’utero o che hanno subito eventi trombo-embolici. La
terapia va utilizzata solo quando la qualità della vita viene ridotta ma situazione va valutata caso per
caso. [Il prof. non si è soffermato molto sulle terapie ormonali sostitutive]
SBOB.: FRANCESCO BROCCARDO
REV.: Ivona Antovska
09/04/2019- 2°ora pomeriggio

ENDOCRINOLOGIA

Ginecomastia
Si intende un aumento di volume di una o di entrambe le mammelle maschili per un
aumento/proliferazione dei dotti mammari; questa viene detta ginecomastia vera, da distinguere
dalla più comune pseudoginecomastia (o ginecomastia falsa), dovuta generalmente alla
deposizione di tessuto adiposo o anche per altre condizioni, tra cui le neoplasie.
La ginecomastia può essere fisiologica,
riscontrabile sia nei neonati sia negli
adolescenti, e va incontro a regressione
spontanea; questa condizione è comune
anche nell’anziano.
La più comune pseudoginecomastia va
differenziata da altre condizioni, quali i
tumori e l’iperprolattinemia, che potrebbe
determinare una secrezione dai dotti; i
tumori, che possono generarsi nella regione
mammaria, sono generalmente monolaterali.
L’obesità si associa ad una aumentata
incidenza della ginecomastia falsa e sembra
ci sia una correlazione diretta tra il grado di
obesità e quello di pseudoginecomastia.

Esistono quindi:
• Forme fisiologiche
o Neonatali,
o Puberali,
o Senili.
• Forme nell’ambito di patologie endocrine:
o Ipogonadismo,
o Adenomi ipofisari come i prolattinomi,
o Sindromi adreno-genitali per la resistenza agli androgeni,
o Ipertiroidismo e, verosimilmente anche ipotiroidismo,
o Tumori testicolari secernenti estradiolo.
• Forme non endocrine:
o Insufficienza epatica, in particolare su base alcolica, che potrebbe essere accentuata
dall’utilizzo di farmaci (es. diuretici risparmiatori di potassio),
o Insufficienza renale,
o Rialimentazione nei pazienti cachettici.
• Forme date da farmaci:
o Ormonali (es. estrogeni),
o Che possono interferire col sistema endocrino (es. diuretici risparmiatori di
potassio come spironolattone e amiloride).
• Forme per le quali non si conosce una causa, quindi idiopatiche.
La diagnosi differenziale deve essere fatta con:
1) Condizioni di aumentata produzione di estrogeni:
a) Tumori sia delle ghiandole surrenali sia dei testicoli, i quali possono determinare un
aumento della produzione di estrogeni (vanno misurati gli estrogeni e le gonadotropine),
b) Ipertiroidismo, perché aumento il processo di aromatizzazione del testosterone in estrogeni
(basta misurare i valori di TSH).
2) Condizioni di ridotta attività androgenica:
a) Ipogonadismo centrale o periferico,
b) Insensibilità periferica agli androgeni,
c) Rialimentazione,
d) Dialisi,
e) Altro (es. insufficienza epatica, spina bifida).

I farmaci che possono indurre ginecomastia sono diversi:


• Estrogeni (componenti di creme, carni da animali trattati per aumentarne il peso),
• Gonadotropina,
• Spironolattone, usato molto nella terapia dello scompenso cardiaco e dell’insufficienza
epatica (condizioni che attivano il sistema renina-angiotensina-aldosterone con ritenzione di
acqua e sodio e perdita di potassio) per ricompensare l’equilibrio elettrolitico a questi
soggetti; un effetto collaterale è la ginecomastia, che può essere dolorosa, e questo induce
una riduzione nel suo utilizzo, quindi devo trovare terapie alternative.

Quando arriva un paziente con ginecomastia, all’anamnesi bisogna inizialmente chiedere:


• Età (per una possibile forma fisiologica),
• Se è presente una storia di familiarità,
• Se il paziente presenta dolore,
• Se c’è una patologia tumorale,
• Se sono presenti secrezioni (es. galattorrea che può essere dovuta a iperprolattinemia),
• Una storia nota di ipogonadismo, ipertiroidismo, nefropatia e/o epatopatia,
• L’assunzione di farmaci (come sempre lo spironolattone).
In seguito posso prescrivere una serie di esami di laboratorio:
• Gonadotropine e Testosterone (ipogonadismo),
• Estradiolo, hCG, DHEA-S (neoplasie secernenti androgeni/estrogeni),
• Ormoni tiroidei (ipertiroidismo),
• PRL (iperprolattinemia),
• Cariotipo (Sindrome di Klinefelter, 47XXY o altri mosaicismi),
• Ecografie (non invasive):
o Tessuto mammario (per diagnosi differenziale pseudoginecomastia con altre
condizioni come il tumore),
o Testicolo (sospetto di tumore),
o Addominale (sospetto tumore surrenalico, insieme a RM/TC).
Per quanto riguarda la terapia può essere:
1. Farmacologica in relazione alla causa,
2. Chirurgica:
a. Plastica, con rimozione del tessuto adiposo in eccesso,
b. Mirata alla rimozione di neoplasie.
Sindromi autoimmuni poliendocrine (SPA)
Si tratta di condizioni in cui più ghiandole endocrine possono essere interessate da processi
autoimmuni, determinandone un’alterata funzione (in genere ipofunzione, ma anche iperfunzione
come nella malattia di Basedow).
L’importanza di conoscere queste condizioni sta nel fatto che possono trovarsi associate; questo ha
rilevanza clinica perché impone di eseguire uno screening allargato, qualora si faccia diagnosi di
una di queste patologie.
La SPA di tipo I, di pertinenza soprattutto pediatrica, si caratterizza per l’insufficienza cortico-
surrenalica primitiva (ICSP o Malattia di Addison, 60-70%) e l’ipoparatiroidismo (80%);
entrambe queste condizioni hanno causa autoimmune quindi la diagnosi è possibile attraverso la
misura del livello anticorpale. La SPA di tipo I presenta anche altre caratteristiche:
• Tireopatie autoimmuni (10%, es. la forma di Hashimoto),
• Diabete di tipo 1 (2-4%),
• Ipogonadismo (12-17%).
Se sospetto e confermo la diagnosi di ICSP, devo anche valutare paratiroidi, patologie tiroidee e
diabete dal punto di vista anticorpale e degli altri parametri di laboratorio; infatti, un soggetto
potrebbe non avere il diabete, ma risultare positivo agli anticorpi e ciò significa che potrebbe
svilupparsi in futuro (vale anche per le tireopatie autoimmuni).
Questa condizione si associa anche a patologie non endocrine:
• Candidiasi cronica (75%),
• Anemia perniciosa (15%, da carenza di vit. B12),
• Vitiligine (8-9%),
• Epatite cronica attiva (11%),
• Malassorbimento (22%, anche celiachia).
Nel fare diagnosi devo quindi considerare anche queste patologie che possono associarsi alle SPA,
ma devo anche fare il ragionamento inverso; quindi in caso di queste patologie non endocrine, è
bene non escludere a priori le SPA.
La SPA di tipo II (o Sindrome di Schmidt), interessa di più l’adulto, si caratterizza per l’ICSP
(100%) e le altre forme endocrine, in percentuali maggiori rispetto il tipo I:
• Tireopatie (60%),
• Diabete di tipo 1 (50%),
• Ipogonadismo (35%).
Anche questa forma presenta altre condizioni non endocrine che possono manifestarsi in tempi
diversi.
La SPA di tipo III comprende sostanzialmente le tireopatie e il diabete (entrambe al 100%) e
condizioni non endocrine associate, con frequenze variabili.
Nel fare diagnosi è possibile misurare gli anticorpi che si positivizzano in ognuna di queste
condizioni:
• Addison/ICSP → Anti-21-idrossilasi,
• Menopausa precoce → Anti-17-idrossilasi,
• Tireopatie autoimmuni → Anti-TPO (es. tireoperossidasi) e TrAb (Ab anti-recettore del TSH),
• Diabete tipo 1/LADA (diabete autoimmune che si manifesta nell’adulto) → GAD65,
• Morbo celiaco → Transglutaminasi tissutale (e biopsia gastro-duodenale).
Tumori neuroendocrini
Sono neoplasie, che coinvolgono tessuto endocrino e non, a comportamento variabile; possono
essere benigni o, a seconda del grado di differenziazione, virare verso il maligno.
I principali sono:
• Carcinoidi,
• Insulinomi,
• Gastrinomi,
• VIPomi,
• Glucagonomi,
• Somatostatinomi,
• GH-omi (Adenomi GH-secernenti).
Questi sono in grado di secernere in modo eccessivo ormoni normalmente indotti a livello del tratto
gastrointestinale o bronchiale; quindi la sintomatologia si relaziona in base al tipo di
peptide/ormone prodotto.
La Sindrome da Carcinoide è una condizione molto comune nei tumori bronchiali (e
gastrointestinali), che si caratterizza per una dismissione di istamina in circolo con conseguente:
• Arrossamento del volto (Flushing, presente anche nei feocromocitomi),
• Diarrea,
• Broncocostrizione/Broncostenosi (Wheezing),
• Fibrosi cardiaca.
• Forme atipiche:
o Cefalea,
o Arrossamento persistente.
In pazienti che presentano questi elementi, in particolare arrossamento del volto, della base del collo
e della parte superiore del tronco, va sospettata una sindrome da carcinoide.

I Gastrinomi si caratterizzano per un’ipersecrezione di gastrina, la cui


concentrazione è misurabile, e dal punto di vista clinico si presentano
con:
• Ulcere gastroduodenali,
• Sintomi da reflusso gastroesofageo,
• Diarrea.

I VIPomi sono tumori che si localizzano, quasi sempre, nel pancreas e


producono il VIP (polipeptide vasoattivo intestinale), il quale
determina una diarrea acquosa inibendo l’assorbimento di acqua con
rischio di disidratazione importante e squilibrio elettrolitico
(ipocaliemia, ipercalcemia); anche in questo caso può manifestarsi il
flushing.
I Glucagonomi, a localizzazione pancreatica, si caratterizzano
generalmente per la presenza di:
• Diabete,
• Eritema migratorio necrolitico (di colore rosaceo scuro,
soprattutto alla base delle cosce),
• Perdita di peso.
I glucagonomi tendono a essere maligni, uno dei motivi che può
spiegare la perdita di peso.

I Somatostatinomi, condizione poco comune, colpiscono le cellule


δ del pancreas e cellule dislocate nell’apparato gastrointestinale e
possono associarsi a:
• Calcoli della colecisti (colelitiasi),
• Diabete,
• Diarrea.

La diagnosi non è semplice, in quanto queste condizioni sono molto comuni; per cui si arriva a
diagnosticare la neoplasia, quando questa si è evoluta, attraverso le immagini perché può aver dato
problemi di compressione.
SBOB: Silvia Fiori
REV: Leonora Klahr
11/04/2019 – 1° ora

Regolazione neuroendocrina dell’appetito


Quando si parla di obesità bisogna pensare ad un disturbo che ha a che fare anche con la
regolazione dell’appetito e del senso della fame, che porta a un eccesso di alimentazione. Sono
aspetti regolati in maniera molto fine dal sistema neuroendocrino. Da un lato possono esserci
situazioni caratterizzate da alterazione dell’appetito, che comportano ridotta assunzione di alimenti
e quindi portano a condizioni di magrezza patologica; viceversa l’obesità è caratterizzata da
eccessiva introduzione di alimenti.
Il sistema che regola tutto ciò sono delle strutture centrali, quindi a livello cerebrale, la cui attività è
influenzata da segnali periferici. In questo modo viene mantenuto il controllo in maniera ottimale.
Se c’è un’alterazione di queste vie, avremo situazioni di magrezza e forme di disturbo del
comportamento alimentare. Sono in realtà una condizione piuttosto comune.
Ad esempio l’anoressia nervosa, che determina uno stato di
malnutrizione estremamente importante e può essere letale:
prevede un intervento terapeutico complesso, all’inizio si
cerca di ristabilire il peso minimo adeguato per poi
aggiungere una terapia comportamentale e psicologica.
Condizioni di questo tipo rendono poi molto più difficile la
terapia di altre patologie associate e quindi complicano
notevolmente ed ulteriormente la salute del paziente (es.
diabete mellito di tipo 1).
Il diabete di tipo 1 è infatti un esempio calzante, perché colpisce solitamente i giovani adolescenti e
deve essere curato con terapia insulinica per iniezione. I risultati non sono del tutto soddisfacenti in
termini di riscontro di ipoglicemie e iperglicemie, perché appena queste persone realizzano che la
terapia insulinica determina un piccolo aumento di peso, tendono a ridurre autonomamente le dosi.
Attuando questo comportamento corrono il rischio di chetoacidosi.
Anche altre condizioni, come la bulimia nervosa, fanno parte di questo quadro di patologie che
richiedono interventi multidisciplinari.
I disturbi del comportamento alimentare sono infatti catalogati come patologie psichiatriche.

OBESITA’
È una condizione estremamente comune. È gravata da
morbidità e mortalità molto elevata, comportando anche
elevati costi sanitari.
L’obesità viene solitamente classificata in relazione
all’indice di massa corporea BMI, in relazione al
risultato la distinguiamo tra sottopeso, normopeso,
sovrappeso, obesità di I, II, III grado.
La distribuzione del grasso corporeo è diversa nel
maschio rispetto alla femmina.
Maschio tronco
Femmina  sottocute: cosce e natiche

Ciò ha conseguenze a livello funzionale: la disposizione del grasso sottocutaneo nelle donne ha
impatto per quanto riguarda il rischio cardiovascolare, che viene ridotto.
Nel maschio, il grasso addominale, è maggiormente associato a patologie come steatosi epatiche e
insulino resistenza, che favoriscono l’insorgenza di patologie
cardiovascolari.
All’aumentare dell’obesità aumenta il rischio di morte.
La mortalità generale è un dato molto grezzo ma allo stesso tempo
molto efficace, la mortalità cardiovascolare può essere dovuta allo
scompenso cardiaco, alla patologia ischemica: il rischio aumenta
in relazione al grado di obesità.

Obesità endocrine:

Ipotiroidismo: quello che si deposita non è


solo grasso, è in parte liquido e in parte
sostanza mucinosa.
Sindrome di Cushing: obesità con grasso a
livello del tronco e a livello cervicale
Iperinsulinismo organico: (es insulinoma) i
soggetti aumentano di peso per proteggersi
dall’ipoinsulinemia
Ovaio policistico: obesità e insulino
resistenza

[Domanda d’esame possibile: in quali


condizioni endocrine è presente obesità?]

L’obesità può essere definita utilizzando anche altre misure, ad esempio la circonferenza
addominale e la circonferenza vita, e anche questi risultati sono correlati al rischio cardiovascolare.
Normalmente la circonferenza addominale dovrebbe essere più bassa almeno di 100 cm, per avere
un rischio basso e contenuto, al di sopra di 100 cm il rischio aumenta notevolmente. La
circonferenza addominale esprime principalmente la quantità di grasso presente a livello
addominale. Ad oggi questa tipologia di
misurazione è anche più rilevante del BMI,
perché mentre il BMI esprime un rapporto
tra altezza e peso, la circonferenza
addominale ci dà informazioni riguardanti
la quantità di grasso. Se prendiamo un
soggetto molto muscoloso, potremmo
riscontrare un BMI uguale ad un soggetto sovrappeso della stessa altezza, ovviamente quindi va
considerato il tipo di massa (magra o grassa).

Per questo motivo le misurazioni devono essere


integrate per non confondere con la massa magra
con la massa grassa. Sarebbe corretto eseguire più
di una misurazione utilizzando più metodi.
Può essere utilizzato anche il rapporto vita-fianchi,
il punteggio risultante dovrebbe essere inferiore
all’unità, valori superiori esprimono un aumento
del grasso viscerale, che esprime anch’esso
eventuale rischio cardiovascolare.

Forme di obesità poco comuni, come quelle


genetiche: si presentano con caratteristiche
specifiche e infatti vengono diagnosticate
durante l’infanzia.
Abbiamo poi altre forme identificate più
recentemente come quelle legate ai difetti nel
gene della leptina o alterazioni del gene della
pro-opiomelanocortina. Dalla pro-
opiomelanocortina si formano diversi prodotti
tra cui ACTH e TSH, quindi ha azione sui
melanociti, ma anche anoressizzante.

Il problema dell’obesità è anche legato al numero enorme di obesi che sono in aumento e
attualmente troppi. Per analizzare questi dati ci riferiamo agli Stati Uniti, poiché hanno molti
registri e quindi dati molto precisi: la percentuale degli obesi supera il 35%. Sappiamo che qui lo
stile di vita non è tra quelli più consigliati e questo ha un evidente riscontro nell’obesità.

Analizzando invece i dati italiani del ministero


della salute, in media i soggetti in sovrappeso
sono il 30%, il 10,5% invece corrisponde agli
obesi. L’obesità inoltre è più comune al sud, con
delle differenze tra regione e regione.
Evidenziando questo dato non possiamo non
considerare i motivi culturali e genetici alla base.
Questa differenza si riscontra anche nei bambini.
Dal 2016 è stata registrato un lieve calo. Il
riferimento viene preso dai dati del ministero e
dell’Istat.
Cause
L’obesità riconosce una causa di tipo multifattoriale, anche una certa predisposizione genetica.
Sono evidenziati quelli più importanti e sui quali si può intervenire, come aspetti socioculturali e
ambientali, o i farmaci. Tra i farmaci ve ne sono diversi che si associano ad aumento di peso, come
le sulfaniluree (stimolano la secrezione insulinica), o farmaci utilizzati nella terapia psichiatrica.
Il metabolismo (si spende meno di quello che si introduce) è l’aspetto principale.
Stando a dati americani, dal 1970 al 2010, c’è stato un aumento dell’introito calorico di circa il 20%
(400kcal al dì) non bilanciata da un incremento di dispendio energetico, quindi andiamo incontro ad
un bilancio di tipo positivo.

Obesità nell’infanzia: importante è l’aspetto socio-culturale.


Per quanto riguarda i bambini, questi spesso non
hanno buone abitudini alimentari, a partire dalla
colazione proseguendo durante la giornata con
scarsi consumi di frutta e verdura. Questo si
riscontra con disturbi della crescita in termini di
aumento della massa adiposa. All’alimentazione
va associata l’attività fisica, che nei bambini è
oggi scarsa (1 volta a settimana) in media.
È interessante analizzare il problema
dell’obesità infantile anche dal punto di vista del
genitore: si riscontra una non corretta percezione
della condizione di salute del figlio, non si
rendono conto del serio problema. Quando il
bambino è obeso bisogna quindi coinvolgere tutta la famiglia in una rieducazione alimentare.

L’obesità è associata ad altre comorbidità importanti:

-polmonari: il soggetto obeso tende ad ipoventilare  apnea ostruttiva del sonno: ad oggi viene
diagnosticata sempre più spesso. È una condizione che espone il soggetto a rischi di ipossemia, per
cui la T di ossigeno si abbassa mentre aumenta la CO2, dunque si attiva il sistema adrenergico
durante la notte quando invece dovrebbe essere a riposo. Abbiamo quindi aumento della frequenza
cardiaca e aumento della pressione arteriosa, con aumento del lavoro cardiaco notturno. Capiamo
perché ciò è associato al rischio cardiovascolare (aritmia, morte). L’unica terapia, oltre alla perdita
di peso, è quella di aumentare la T di ossigeno durante la notte. Viene utilizzato un erogatore di
ossigeno a pressioni elevate per generare tensioni positive a livello alveolare: il soggetto porta una
maschera durante la notte grazie al quale vengono assicurati scambi alveolari gassosi adeguati. È
una terapia non facilmente tollerata e quindi scarsamente praticata dai pazienti, che poi durante il
giorno tenderanno ad essere sonnolenti per aumenti di CO2 e per aver dormito male.
Questi pazienti sono più soggetti ad esempio ad asma, perché lo spazio respiratorio è ridotto per
colpa del grasso addominale che costringe il diaframma in una posizione “più alta”. Viene definita
sindrome di Pickwick (tendenza ad addormentarsi durante il giorno in associazione agli altri
disturbi). Ha quindi conseguenze estremamente rilevanti.
- gastrointestinale  formazione di calcoli, steatosi epatiche non alcoliche (accumulo di grasso a
livello del fegato) che può evolvere verso steatoepatite e cirrosi. Sono anche soggetti maggiormente
esposti al rischio di cancro (esofago e colon).
[NB: le patologie neoplastiche sono in generale più comuni nei soggetti obesi.]
- cardiovascolari  ipertensione, cardiomiopatia ischemica, insufficienza cardiaca
- metaboliche  diabete, sindrome metabolica
- endocrine
- muscolo-scheletriche  artrosi dipendente dal peso in eccesso che il sistema scheletrico
(ginocchia, colonna) deve sopportare.
Quando analizziamo condizioni di obesità dobbiamo quindi valutare anche tutto ciò che la
condizione può comportare nel tempo.
Altro aspetto, non patologico ma sociale, evidenzia che i soggetti obesi si assentano maggiormente
dal lavoro. Questo non ha ovviamente rilevanza dal punto di vista patologico ma è un’altra criticità
che il paziente deve affrontare.

Sindrome metabolica
È in stretto rapporto con l’obesità.
La prima definizione (1999) che è stata data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità include
numerose comorbidità con l’obesità:
diabete di tipo 2, intolleranza ai carboidrati, insulino resistenza, ipertensione arteriosa, aumento dei
trigliceridi, obesità (misurata come circonferenza addominale: >102 cm per l’uomo, >94 cm per la
donna), HDL diminuite.
Quindi la sindrome metabolica è una condizione che racchiude almeno 3 patologie, tutte che
concorrono ad aumentare il rischio cardiovascolare.
La nuova definizione introduce un’importanza per la glicemia a digiuno (> 110mg), trigliceridi
(>150mg), HDL (<40/50mg), circonferenza vita (>102 uomo, >94 donna), ipertensione arteriosa
con valori leggermente diversi.
WHO, 1999

IDF (associazione mondiale per lo studio del diabete) ne ha proposta un’altra un po’ più restrittiva,
soprattutto per quanto riguarda la circonferenza vita, che è stata abbassata ad un valore di 94 cm
nell’uomo (bassa!!) e 80 cm nelle donne, glicemia a digiuno > di 100mg e gli altri parametri
invariati.
Un aspetto importante di questa condizione è che è caratterizzata dall’aumento degli acidi grassi,
che è associato ad insulino resistenza, indotta dall’aumento della glicemia, dall’ipertensione e da
alterazioni del metabolismo lipidico. L’aumento degli acidi grassi determina un metabolismo di
questi alterato, che si accumulano a livello del fegato, per cui aumenta la massa grassa a livello del
fegato, che porta a steatosi epatica.
Nei diabetici e negli obesi è quasi sempre presente steatosi epatica, magari lieve ma sarà presente.
La steatosi avvia alla steatoepatite. Se la steatosi non viene corretta nel tempo tramite eliminazione
di grasso superfluo (perdita di peso), questa condizione porta allo sviluppo di steatoepatite, cirrosi e
cancro. Quindi le condizioni che comportano aumento degli acidi grassi sono alla base della
sindrome metabolica. La sindrome metabolica è associata all’aumentato rischio cardiovascolare.

Tessuto adiposo
È un organo di deposito di grasso. Ma oggi sappiamo che è anche in grado di produrre ormoni e
citochine (adipochine) che svolgono un ruolo per quanto riguarda l’insulino-resistenza, quindi deve
essere ricordato anche come organo endocrino, implicato anche poi nell’infiammazione cronica di
basso grado associata all’obesità. Questi marker, tipici dell’infiammazione (IL-6, leptina,
adiponectina, TNFalfa), vengono maggiormente prodotti dal tessuto adiposo viscerale.

Altre comorbidità
-Nefropatia  presenza di microalbuminuria nelle fasi iniziali, tendono a peggiorare in relazione
alla quantità di elementi della sindrome metabolica presenti
-Epatopatia  NAFLD (sempre in relazione al grado di obesità), NASH correlate a rischio
cardiovascolare (rischio di infarto, scompenso cardiaco)
-Policistosi ovarica
-Neoplasie  leucemia
-Gotta
-Ipercoagulabilità, trombosi, disfunzione epiteliale

SBOB: Leonardo Maria Collini


REV: Leonora Klahr
11/04/2019- 2° ora

Regolazione neuroendocrina dell’appetito


Dicevamo della regolazione dell’appetito, della fame dei centri che sono deputati alla gestione di
questo processo fisiologico.
Questi centri sono localizzati a livello celebrale, nell’ipotalamo. L’ipotalamo, composto da nuclei,
è dunque molto importante nel gestire il comportamento alimentare. I neuroni che sono coinvolti
nel processo di percezione della fame sono localizzati a livello del nucleo arcuato.
Possiamo individuare 2 grossi gruppi di neuroni: anoressigeni e oressigeni, a loro volta connessi a
neuroni superiori, poi connessi ad afferenze della corteccia cerebrale.
L’attivazione dei neuroni oressigeni o anoressigeni dipende molto dai segnali che ricevono dalla
periferia, quindi dalla condizione di digiuno e dalla condizione post prandiale:
• nella condizione di digiuno viene secreta dalle cellule del fondo dello stomaco la grelina (ha
anche capacità di stimolare l’ormone della crescita GH), che va a stimolare l’attività dei neuroni
oressigeni, i quali a loro volta rilasciano neurotrasmettitori quali NPY e AGRP. Questi sono
(soprattutto NPY) neurotrasmettitori e anche ormoni gastrointestinali, che hanno una forte attività
oressigena e quindi spingono il soggetto ad alimentarsi.
• dopo una pasto invece si ha il rilascio di ormoni come la leptina (prodotta dal tessuto adiposo),
che ha una azione opposta, stimola i neuroni anoressigeni i quali producono POMC, CART che a
loro volta andranno a limitare il senso di fame, dando una sensazione di sazietà.
L’azione della leptina è simile a quella dell’insulina, informa le strutture centrali in merito a quelle
che sono le riserve del tessuto adiposo, stimolando il senso di sazietà nei soggetti che hanno una
maggiore quantità di tessuto adiposo (vedremo che non sarà sempre cosi).
E poi c’è l’azione degli ormoni gastrointestinali come GIP e il GLP1 in particolare, che esercita
una funzione negativa sui neuroni oressigeni  inibisce il senso della fame, avendo quindi una
azione anoressigena.
Riassumendo quindi: questo sistema di regolazione dipende dal ruolo essenziale del nucleo arcuato
e dall’integrazione delle informazioni che i neuroni del nucleo arcuato ricevono dalla periferia;
l’esito finale sarà quello di stimolare o inibire il senso di fame.
In questo processo di regolazione dell’appetito è coinvolto anche il sistema endocannabinoide, che
presenta a livello cerebrale dei recettori che possono essere influenzati da diversi neuropeptidi, tra
cui anche NPY, endorfine ecc.; esso ha la funzione di stimolare l’appetito (oressigena), ma non si
limita a questo: stimolando l’appetito, con la successiva alimentazione, provoca una sensazione di
gratificazione, di “sentirsi bene” relativa all’assunzione di quell’alimento.
Ha la parola cannabinoide perché la loro azione è simile al delta-9 tetra idro cannabinoide che
ritroviamo nella cannabis. Recentemente era stato messo in commercio un farmaco, che andava ad
inibire questo sistema cannabinoide, che funzionava molto bene: provocava una perdita di peso
anche di diversi kg, tuttavia (come spesso accade per i farmaci che hanno un’attività a livello
cerebrale) è stato ritirato perché aveva effetti collaterali che andavano a peggiorare (se presenti) gli
stati depressivi che il paziente aveva, favorendo il suicidio.

Abbiamo poi il tessuto adiposo che è in grado di comportarsi come un tessuto endocrino e quindi di
secernere ormoni (leptina, adiponectina), ma anche citochine, implicate nel processo infiammatorio
cronico che caratterizza l’adiposità. Come si può vedere, le sostanze prodotte dal tessuto adiposo
sono numerose e sostanzialmente hanno a che fare con l’infiammazione.
Per ciò che riguarda gli ormoni si riconosce la leptina e la adiponectina. Quest’ultima è interessante
perché è l’unico di questi prodotti che è in grado di migliorare l’insulino sensibilità e inoltre è
prodotto con una concentrazione inversamente proporzionale alla quantità di tessuto adiposo del
soggetto: questo spiega perchè i soggetti più magri sono più sensibili rispetto a quelli meno magri.
La leptina abbiamo già visto che ha un ruolo nel modulare i centri oressigeni e anoressigeni; poi vi
sono tanti altri prodotti che invece lavorano in senso contrario all’adiponectina, che peggiorano il
grado di insulino sensibilità e che quindi aumentano l’insulino resistenza e sono alla base di quelle
comorbidità presenti in soggetti obesi quali il diabete, intolleranza ai carboidrati, l’ipertensione
arteriosa (perché se aumenta l’insulino resistenza aumenta anche la pressione) e così via.
Entriamo nel dettaglio:
- la Leptina è un ormone prodotto
dal tessuto adiposo in quantità
proporzionale alla concentrazione di
grasso, che è stata sintetizzata circa
25 anni fa (è stato individuato il gene
responsabile della sua sintesi: ob-
gene) e vedete come (in questo caso
nel topolino: a sx avente il gene e a
dx senza gene) senza il gene della
leptina l’animale tenda ad ingrassare.
Ci sono stati dei tentativi nell’uomo
di somministrare la leptina, ma sono
stati dei tentativi che non hanno
portato risultati clinici rilevanti. La leptina induce senso di sazietà, aumento della spesa energetica
ed è un ormone importante che ha anche un ruolo nell’ambito della funzione riproduttiva: è infatti
coinvolta nell’attivazione del menarca e quindi della pubertà. Dovendo agire sul sistema nervoso,
essa deve attraversare la barriera ematoencefalica. Nei soggetti obesi avviene spesso un quadro di
resistenza alla leptina, dovuto probabilmente ad un problema recettoriale, quindi anche se le
concentrazioni di leptina aumentano (a causa della maggiore quantità di tessuto adiposo) la sua
efficacia diminuisce. Abbiamo visto che l’azione del NPY è legata alla leptina, quindi in questo
caso una diminuita risposta alla leptina provoca un aumento della produzione di NPY e questo
provoca la stimolazione dell’appetito.
I fattori che regolano la secrezione della leptina sono diversi, sicuramente il pasto ne stimola la
secrezione, mentre il digiuno la inibisce.

La leptina come abbiamo detto è coinvolta nella fertilità: avendo una corretta quantità di tessuto
adiposo siamo in grado di secernere una giusta quantità di leptina e questo è importante soprattutto
per innescare il menarca.
Nei soggetti con malnutrizione i livelli di leptina sono bassi e avremo ripercussioni sulla produzione
di estrogeni (che diminuisce) causando alterazioni del ciclo ovulatorio e mestruale; in questo modo
capiamo perché i soggetti che non hanno il gene per la leptina siano sterili.
Nel caso in cui vi sia un problema a livello recettoriale, la somministrazione di leptina non ha alcun
effetto.
Essa può essere implicata in determinate condizioni, come nella sindrome metabolica (un tempo
veniva chiamata “sindrome x”); ma anche in altre condizioni quali alterazioni riproduttive,
patologie tiroidee, comportamento alimentare e insufficienza renale.
Il tessuto adiposo produce altri fattori come il TNF-α che ha un’azione anoressigena importante,
tant’è che può provocare dei quadri di magrezza gravi, fino ad avere cachessia (riscontrabile per
esempio nei pazienti oncologici nelle fasi più avanzate).
Domanda: per quale motivo abbiamo detto che il TNF ha un’azione anoressizzante in questo caso,
quando nei pazienti obesi viene prodotto per via dell’infiammazione cronica non da questo tipo di
effetto? Prendiamo come esempio i soggetti oncologici, malnutriti. In questi pazienti l’azione
cachessizzante viene fuori con l’interazione con altri prodotti, altre sostanze prodotte dal tessuto
adiposo (in questo caso scarso), verosimilmente vi è una sorta di correlazione inversa nei soggetti
obesi, in cui l’azione di questi prodotti viene a dominare rispetto all’azione per esempio della
leptina, dell’insulina, che generalmente richiedono una quantità di grasso maggiore; poi ci può
essere anche un problema di sensibilità tissutale a questi prodotti.

- La grelina è prodotta dalle cellule dello stomaco e aumenta nella condizione di digiuno, e
abbiamo visto come agisce poi a livello
del nucleo arcuato.
Si mantiene molto elevata nella
condizione di digiuno, anche in casi di
anoressia nervosa: in questi casi
nonostante una grande concentrazione di
grelina, probabilmente la sua azione sui
nuclei della fame è compromessa e
pertanto non ha effetto.
La secrezione viene influenzata da
numerosi fattori, in primis la fame; ci
sono invece tanti altri fattori che la
inibiscono come per esempio il pasto, la
distensione gastrica, la leptina, l’obesità
ecc.
Dato che la grelina agisce sui neuroni oressigeni, stimola la secrezione di NPY.

- Parliamo ora di un ormone gastrointestinale molto importante, il GLP 1.


Esso ha molteplici effetti a livello centrale, periferico, del pancreas (stimola secrezione insulinica)
ecc. Alla base di questi effetti c’è da sottolineare il ruolo che ha sulla riduzione del senso
dell’appetito e questo effetto viene utilizzato nella terapia (per esempio nella cura del diabete non
solo migliora la glicemia ma fa perdere anche peso). Vi è una formulazione della liraglutide che si
somministra una volta al giorno a dosi più elevate (3mg), indicata per essere utilizzata nell’obesità.
Effetto incretinico: somministrando del glucosio a persone non diabetiche per via venosa, avremo
questa curva di concentrazione di insulina. Quando diamo la stessa concentrazione di glucosio
orale, le concentrazioni di insulina
aumentano notevolmente: questa
differenza di concentrazione è
l’effetto incretinico. A questo livello
entrano in gioco gli ormoni
gastrointestinali che vengono
stimolati dalla somministrazione di
glucosio per via orale, una
stimolazione che non avviene per via
venosa. Nel diabetico di tipo 2 questa
differenza è più bassa, a causa di una
parziale compromissione di questo
sistema.
Al giorno d’oggi abbiamo farmaci sintetizzati molto pratici che si somministrano una volta a
settimana, alcuni di questi hanno un impatto migliore sulla glicemia post prandiale, altri su quella
prandiale: siamo quindi in grado di individuare per il determinato soggetto la terapia più utile.
Tornando al discorso dell’obesità, esaminiamo l’aspetto terapeutico: esso richiede un approccio
nutrizionale, un implemento dell’attività fisica, un’educazione terapeutica e una terapia che può
essere farmacologica (anche se abbiamo pochissimi farmaci a riguardo). A tal proposito si è
assistito negli ultimi anni ad un notevole aumento della chirurgia bariatrica nei soggetti obesi e oggi
si tende ad utilizzarla anche in soggetti con gradi di obesità meno grave rispetto a come si faceva
nei primi interventi. Questa chirurgia dà sicuramente risultati: fa perdere peso, ed è in grado di
migliorare le condizioni delle comorbidità associate per esempio il diabete, l’ipertensione arteriosa.
L’aspetto più difficile è sicuramente quello di mantenere questi miglioramenti nel tempo, è infatti
necessaria una grande motivazione e per questo deve essere fatta una valutazione iniziale di tipo
psicologico, perché gli interventi eseguiti (che sono di vario tipo) determineranno dei deficit
nutrizionali tali per cui la dieta va integrata in maniera anche importante, pertanto richiede al
soggetto una continua attenzione a questi aspetti. Queste procedure danno risultati importanti come
perdita di peso, risoluzione del diabete nel 80-95 % dei casi. Sono quindi risultati di grande impatto;
tuttavia parliamo sempre di intervento chirurgico che può avere delle complicanze. Un esempio è la
ipoglicemia che generalmente si verifica dopo alcuni mesi e per alcune persone questo è un
problema estremamente importante. Questo tipo di ipoglicemia è sostenuta da un incremento degli
ormoni gastrointestinali (soprattutto GLP1) che aumentano in maniera importante la loro
concentrazione, in relazione al fatto che i carboidrati arrivano direttamente all’intestino (essendo lo
stomaco in questo intervento ridotto ad una piccola sacca), pertanto questi soggetti devono fare dei
pasti piccoli e si saziano subito. L’arrivo degli alimenti nell’intestino fa sì che gli ormoni
gastrointestinali aumentino di concentrazione, quindi c’è uno stimolo notevole sulla cellula beta,
con secrezione insulinica a concentrazioni molto elevate che può determinare nelle ore successive
un abbassamento della glicemia.
Non ci sono molti farmaci: come detto prima la liraglutide, con la dose di 3 milligrammi ha un
effetto importante sulla percezione dell’assenza di fame e riduce l’appetito perdendo peso. Un altro
farmaco è il Loristart, che riduce l’assorbimento di grassi a livello intestinale e permette
un’eliminazione maggiore di grassi con le feci (in parte riduce anche l’assorbimento di vitamine
liposolubili però è gravato anche da effetti collaterali, quello più importante è la diarrea grassosa,
che i pazienti descrivono come qualcosa di intollerabile, il soggetto deve evacuare in maniera
rapida, e ciò può compromettere l’attività della vita quotidiana).
Poi ci sono farmaci di tipo anti depressivo che possono determinare un calo ponderale, studiati
proprio per questo effetto, altri studiati per interrompere l’abitudine al fumo. Ma i farmaci classici
anti depressivi generalmente comportano un aumento ponderale.

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