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Evoluzione storica
Tutti gli approcci sviluppati fino ad ora sulla selezione del personale, ruotano intorno al paradigma delle differenze individuali, il
quale afferma la diversità delle caratteristiche tra le persone. La grande diversità delle mansioni e dei lavoratori rende necessaria
la predisposizione di programmi per la selezione e il collocamento. Alla luce di ciò, l’obiettivo della selezione dovrebbe essere
quello di assegnare ogni individuo al lavoro più adatto per lui e per l’azienda.
Lo studio specifico della “psicologia delle differenze” con metodi scientifici per la loro misurazione è fatto risalire da
Dunnette (2002) a Francis Galton, che presentò un sistema di classificazione degli individui secondo le loro abilità.
Galton (1896) presentò un sistema di classificazione degli individui secondo le loro abilità. Per lungo tempo gli psicologi si sono
occupati della psicologia delle differenze provando a identificare, descrivere e misurare le diversità nelle attitudini, provando a
determinare le caratteristiche richieste dagli specifici impieghi e costruendo metodologie per misurare qualità richieste. Essi da
un lato hanno studiato le attività lavorative, dall’altro hanno selezionato e costruito metodologie per misurare le qualità richieste.
L’utilizzo dei primi test mentali di orientamento psicomotori per misurare i tempi di reazione, risale alla fine dell’ottocento. A
questa concezione furono sottoposte molte critiche, una delle quali fu formulata da Binet il quale sosteneva che c’era la necessità
di studiare i processi mentali più complessi come l’immaginazione, la memoria, l’attenzione e la comprensione.
Fu questa critica che decretò la nascita del primo test di intelligenza messo a punto nel 1905 da Binet e Simon. In seguito ci fu
una revisione da parte di Terman della scala Binet-Simon per far si che ci fossero norme che consentissero la somministrazione a
soggetti dai 3 anni in all’età adulta.
Altre situazioni che comportarono lo sviluppo di altri test di intelligenza furono le selezioni dei soldati durante la Prima guerra
mondiale (Army alpha per analfabeti e Army Beta per gli altri).
Durante gli anni ’30 le differenti opinioni sulla natura dell’intelligenza condussero alla costruzione della Wechsler-Bellevue
Intelligence Scale, una scala per la misurazione dell’intelligenza che non solo forniva un indice delle abilità mentali generali, ma
rivelava anche i punti di forza e di debolezza dell’intelligenza. In seguito, tuttavia, l’interesse nei confronti della misurazione
dell’intelligenza in quanto tale è diminuito, mentre è aumentata l’attenzione verso le strategie e le modalità cognitive utilizzate
per risolvere i problemi proposti dai test.
La selezione era diventata una scienza, o meglio un’attività che richiedeva un rigore scientifico: curando maggiormente i test,
aggiungendo nuovi predittori alle batterie, poteva essere incrementata la loro validità per produrre, di conseguenza, previsioni
accurate.
Negli anni ’60 e ’70 emergono importanti questioni all’interno della società a proposito della dignità e dei diritti del lavoratore e
della discriminazione in campo lavorativo. La somministrazione di test era fortemente criticata. Nel contesto Europeo si iniziò
a richiedere in particolare il diritto al trattamento confidenziale dei dati, il diritto alla privacy, il diritto di essere informati sui
contenuti emersi dalla selezione.
Negli anni ’60 questo problema venne affrontato dal Congresso americano che introdusse sanzioni contro i datori di lavoro che
compissero discriminazioni nei confronti delle minoranze. Tale cambiamento ha fatto si che ci fossero nuovi atteggiamenti da
parte del selezionatore che doveva considerare anche la valenza esercitata da aspetti quali la motivazione e la sicurezza percepite
dal lavoratore. Piano piano, si modificano la valutazione della personalità e delle attitudini cognitive: si passa dal clerical test, che
valutano le capacità cognitive in base alla velocità di esecuzione dei compiti, a test per misurare la capacità di tipo logico-
simbolico. Ciò comporta nuovi atteggiamenti da parte del selezionatore nei confronti del selezionato. Più di recente si riconosce
invece ai candidati coinvolti nel processo di selezione un ruolo più attivo e partecipativo: i soggetti esprimono idee, obiettivi e
motivazioni durante le varie fasi di valutazione. Tali condizioni favoriscono pertanto una selezione intesa come processo a due
vie, dinamico, di interazione, il cui esito è deciso dal selezionatore ma anche dal candidato.
Un secondo elemento aggiuntivo è quello che porta a considerare il processo di selezione come espressione delle politiche
aziendali di gestione delle risorse umane (GRU) volte poi a raggiungere determinate scopi.
Il candidato, al termine della valutazione, ha il diritto di ricevere un feedback sul giudizio finale e ha la possibilità, se lo
desidera, di ricevere un feedback sul giudizio finale e ha la possibilità, se lo desidera, di ricevere una copia del documento
consegnato al datore di lavoro. Inoltre ha il diritto di verificare i risultati ottenuti nelle prove di valutazione.
Lo specialista della selezione del personale deve essere responsabile della qualità del suo lavoro professionale e deve essere
cosciente del ruolo e delle possibili conseguenze del suo operato. Egli deve raccogliere solo le informazioni essenziali, rilevanti,
utili in vista degli obiettivi della valutazione. Inoltre, in base all’articolo 11, lo psicologo è tenuto al segreto professionale. Egli è
responsabile della sua formazione, deve avere un atteggiamento neutro e deve essere cosciente del proprio ruolo. L’art. 19
sancisce che la valutazione entro un contesto di selezione deve rispettare I principi che caratterizzano tale contesto.
Job analysis
Prima di avviare il reclutamento e la selezione del personale si devono individuare e precisare i profili professionali da ricercare in
base alle caratteristiche che un possibile candidato potrà ricoprire. Individuare un profilo professionale significa definire i job
requirements della posizione, cioè i requisiti e le caratteristiche richiesti per ricoprire adeguatamente l’incarico previsto, oltre che
un’adeguata conoscenza dell’azienda.
Ogni procedura di selezione deve fondarsi su una precedente analisi del lavoro (job analysis) che include la job description, cioè
la descrizione delle attività relative alla mansione, e la job specification cioè la descrizione dei requisiti che le persone devono
avere (conoscenze, abilità, competenze).
La Job Analysis si occupa della definizione delle mansioni e dei comportamenti richiesti ai lavoratori, descrivendone il compito, le
conoscenze e abilità richieste, allo scopo di fornire riferimenti su cui costruire il successive passaggio di reclutamento e selezione.
I metodi più diffusi per raccogliere informazioni per la comprensione e l’analisi dell’attività lavorativa sono:
L’osservazione diretta.
Consiste nell’osservare per un certo periodo di tempi tutto ciò che una persona fa mentre lavora senza apportare commenti.
Permette di registrare un numero elevato di informazioni da una fonte diretta, ma va integrata con l’intervista. Il vantaggio
consiste nell’uniformità delle informazioni ottenute, a danno dei tempi e dei costi che sono assai elevate. Inoltre la presenza di
un osservatore potrebbe alterare i comportamenti prestati dai dipendenti.
L’intervista.
È importante utilizzarla a completamento dell’osservazione. È effettuata da un esperto e può essere più o meno strutturata, a
seconda anche si segua o meno uno schema, e aiuta a reperire una notevole quantità e varietà di informazioni (opinioni
sull’ambiente, clima e cultura organizzativa dell’azienda).
Nonostante possa produrre una ricchezza accumulabile di materiale, consenta di approfondire argomenti importanti o poco
chiari, produrre risultati omogenei e attendibili, anche in questo caso tempi e costi sono elevate e inoltre richiede una specifica
preparazione.
Episodi critici e diari di lavoro.
Viene chiesto agli esperti di una mansione di identificare gli aspetti critici della prestazione che conducono al successo o al
fallimento in una specifica attività. Un altro metodo è far tenere un diario ai lavoratori delle loro attività, che fa emergere gli
elementi lavorativi più significativi.
Il questionario.
Elenco di compiti e di responsabilità a cui attribuire un punteggio ponderato. Richiede dei costi ridotti, essendo uno strumento
standardizzato, ma non garantisce flessibilità nell’analisi dei casi esaminati e richiede un’accurata preparazione e un’approfondita
conoscenza delle posizioni.
Chiaramente la combinazione di tutti gli strumenti può aumentare i vantaggi e assicurare maggiore validità.
Sulla base dei dati raccolti attraverso la job analysis è possibile definire gli elementi personali che assumono rilievo nello
svolgimento di specifici compiti.
L’insieme dei requisiti raccolti, oggettivi (es. Età o genere) e soggettivi (es. Motivazione), rappresentano lo strumento per
paragonare i nuovi candidati al profilo “ideale” tracciato e quindi identificare colui che potrebbe ottenere la mansione.
Reclutamento
Una volta definita la natura dell’attività da svolgere e i requisiti richieste prende avvio l’attività che consiste nel ricercare persone
con qualità tali da soddisfare le esigenze di sviluppo aziendale: il reclutamento.
Esso è composto dalle seguenti fasi:
Raccolta delle candidature potenzialmente interessanti, attraverso canali interni o esterni all’azienda.
Il selezionatore può scegliere se procedere tramite un’inserzione sul giornale, un annuncio televisivo o radiofonico, ricerca nelle
università, consultare l’archivio. La scelta del canale di reclutamento viene fatta in base al tipo di candidato che si intende
raggiungere e alle sue caratteristiche personali e anche in base alle possibilità di spesa dell’azienda.
I canali di reclutamento possono essere interni o esterni all’azienda: i canali interni sono indirizzati a lavoratori già assunti
nell’organizzazione mentre I canali esterni si rivolgono ai potenziali lavoratori che non sono ancora membri dell’organizzazione.
Selezione
Le diverse metodologie di selezione vengono scelte in base agli obiettivi dell’azienda, ai requisiti da indagare, ai costi e ai tempi a
disposizione.
Le principali metodologie per la selezione sono l’intervista individuale, gli assessment center e i test. Il metodo più impiegato
nelle aziende è il colloquio individuale, perché è utile per raccogliere una buona quantità di informazioni ed è la tecnica di più
facile somministrazione.
Il selezionatore nell’ intervista (o colloquio) individuale si pone come obiettivo quello di individuare la personalità, gli interessi e
le motivazioni del candidato; a sua volta il candidato è interessato a capire se l’azienda e il lavoro offerto sono adatti alle sue
aspirazioni.
I colloqui di gruppo (assestment center) si rivelano utili per esaminare come l’individuo si comporta quando è inserito in un
gruppo a cui è stato affidato un compito, per valutare le sue capacità di relazione, di leadership e di problem solving. Il
selezionatore, il più delle volte, funge da osservatore durante le prove e non interviene nella discussione.
Oltre a queste due tipologie ci sono il colloquio in serie e il colloquio panel. Nel colloquio in serie il candidato sostiene diversi
colloqui con più selezionatori che integreranno i loro punti di vista. Nel colloquio panel invece, il candidato sostiene il colloquio
in presenza di più selezionatori che pongono domande alternandosi tra loro.
Anche attraverso l’uso di diverse tipologie di test è possibile valutare la personalità dell’individuo e comprendere meglio il suo
carattere. Devono essere valutati attentamente per essere adattati alle giuste situazioni e ben somministrati.
Dopo l’applicazione degli strumenti scelti, il selezionatore stabilisce una graduatoria dei soggetti maggiormente rispondenti al
profilo del candidato ideale, in base alle diverse informazioni che informazioni che ha raccolto.
È importante tenere conto che alcuni studi hanno rilevato che le valutazioni possono essere influenzate da alcuni fattori connessi
alle caratteristiche demografiche dell’esaminato, come ad esempio:
il genere I maschi sono di solito valutati meglio, hanno maggiori possibilità di essere assunti e uno stipendio più alto
rispetto alle donne;
provenienza etnica È stato individuato “l’effetto stessa razza”, secondo il quale l’appartenenza alla medesima razza
dell’intervistatore favorisce una valutazione positive;
età Alcune ricerche dimostrano che le similarità demografiche provochino degli errori di valutazione che favoriscono
i candidati più simili all’intervistatore.
Sarebbe opportuno che il selezionatore neutralizzasse l’influenza dei fattori descritti. Per questo la fase di selezione è il momento
più delicato della selezione del personale.
In particolare, durante la valutazione, il candidato è interessato a essere valutato positivamente, cercherà quindi di mostrare le
sue migliori caratteristiche, assumendo strategie come l’integration e la deception. L’integration è composto da quei
comportamenti verbali e non verbali che il candidato mette in atto in modo intenzionale per riscuotere un’impressione positiva
nei confronti del selezionatore. La deception è l’insieme di quei comportamenti che il candidato fa con l’intento di nascondere
quegli aspetti personali che egli considera negativi. È compito del selezionatore prestare attenzione sia ai comportamenti verbali
che ai comportamenti non verbali del candidato.
Una volta che il profilo professionale (esperienze professionali e attività svolte) e psicologico (comportamenti, caratteristiche
personali, valore e aspettative) del candidato e la valutazione sono state redatte, l’esito viene presentato alla committenza
affinché questa possa compiere una scelta fra i candidati proposti.
Accoglimento e inserimento
L’azienda sceglie infine il candidato da assumere e avvia le ultime fasi del processo di selezione, relative all’accoglimento e
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all’inserimento del candidato individuato. È interessante notare come nelle organizzazioni, spesso, venga data maggiore
importanza al processo di valutazione e venga invece trascurata la fase di inserimento, che, in realtà, rappresenta un
momento critico per il neoassunto in vista della sua futura integrazione aziendale e dell’assimilazione delle modalità
comportamentali tipiche dell’organizzazione.
L’accoglimento può essere definito come l’insieme di iniziative e contatti programmati volti a fornire al neoassunto tutte le
informazioni utili per il lavoro e le regole generali di convivenza.
L’inserimento consiste in un programma di azioni di formazione, addestramento e assistenza volto a consentire al nuovo assunto
la conoscenza e l’adeguamento alle procedure dell’azienda. Mentre l’accoglimento è volto a fornire al neoassunto tutte le
informazioni di tipo generale, l’inserimento consiste in un programma di azioni di formazione, addestramento e assistenza volto
a consentire l’adeguamento alle procedure, ai metodi di lavoro dell’azienda. Importante per ogni azienda per trasmettere la
cultura aziendale, le regole di convivenza, le conoscenze e le competenze relative al ruolo di ciascuno
Conclusioni
Gli specialisti che agiscono come consulenti della selezione possono offrire all’organizzazione tre contributi:
a) Partecipare alla progettazione e al miglioramento dei processi di selezione. In questo modo i manager possono venire
affiancati da consulenti esperti nel processo di selezione.
b) Facilitare il processo di valutazione. Si possono suggerire le modalità più idonee per raccogliere le informazioni, per
valutare e decidere quale alternativa sia preferibile.
c) Consigliare il management. Incontro tra la dirigenza è l’esperto dove può esprimere il suo punto di vista prima della
decisione finale.
Diversi studi hanno approfondito anche le possibili evoluzioni di questo processo nel futuro. Secondo Cook e Cripps assisteremo
a un incremento del numero di test psicologici, l’utilizzo del computer e di strumenti web, lo sviluppo del lavoro in team e uso di
test di abilità per valutare le differenze individuali dei candidati.
Secondo le previsioni proposte, in futuro sarà necessaria una maggiore contestualizzazione delle valutazioni individuali che si
vedranno, quindi, inserite e confrontate in un contesto più ampio, ed una maggiore integrazione relativa al rapporto tra ricerca
scientifica e applicazione pratica.
due fattori
Secondo questo approccio le scelte professionali sono compiute razionalmente, quindi lo scopo è di informare la persona rispetto
alle proprie caratteristiche per fornire gli elementi affinché egli compia una giusta scelta. Il soggetto è dunque passivo in quanto
c’è scarsa attenzione all’autorealizzazione individuale, mentre è prevalente il tentativo di sviluppare strumenti in grado di
collocare, con un sufficiente grado di precisione, l’uomo giusto al posto giusto.
È questo il momento che vede l’introduzione dell’analisi fattoriale e della psicotecnica anche in ambito professionale e di
orientamento. Questo portò alla costruzione di test ancora oggi utilizzati, in particolare sviluppati dagli studi statunitensi, ma che
sono stati tradotti in italiano. Test usati: DAT (differential aptitude test) e GAT (General ability test).
Il ruolo dell’intelligenza
Similarmente a quanto tentato con le attitudini, si e cercato di associare le differenti dimensioni dell’intelligenza alle scelte
professionali, al fine di cercare “profili intellettivi” tipici per ogni occupazione. L’intelligenza è generalmente definita come
capacità adattiva di apprendimento, per questo si ritiene possa essere predittiva dell’adattamento ad ambienti formativi e
lavorativi.
Gli studi sull’intelligenza, storicamente, possono essere ricondotti a due orientamenti: uno che la vede come una capacità generale
(fattore g) e che si esplica in relazione ai molteplici fattori con cui entra in contatto, l’altro che la considera come multifattoriale.
Sulla base di questi concetti, Binet si dedicò alla costruzione di uno strumento per misurare le funzioni intellettive complesse che
prevedeva il confronto tra età cronologica ed età mentale per misurare il ritardo mentale. Il rapporto tra età mentale ed età
cronologica moltiplicato per 100 offre l’indice generale del Quoziente Intellettivo (QI).
Alla fine degli anni ’30 il metodo di misurazione unidimensionale dell’intelligenza fu messo in discussione; attraverso
l’applicazione dell’analisi fattoriale, Thurstone identificò diversi fattori, che chiamò abilità primarie.
Oggi i test utilizzati si dividono ancora rispetto all’approccio unidimensionale o multidimensionale dell’intelligenza. Nel campo
dell’orientamento, alcuni autori associano le differenti dimensioni dell’intelligenza alla possibilità di riuscita in differenti campi
professionali.
Il rapporto persona-ambiente
La teoria dell’adattamento al lavoro e la teoria d ella corrispondenza persona-ambiente (Dawis, 1996) rappresentano le
principali evoluzioni dello storico approccio introdotto da Parsons. Secondo questi autori, infatti, la soddisfazione lavorativa
può essere predetta dal grado di corrispondenza tra le caratteristiche della persona e quelle dell’occupazione. Nello specifico,
le caratteristiche della persona sono definibili in termini di abilità e bisogni. Riguardo alle caratteristiche del lavoro,
un’occupazione può essere descritta rispetto alle abilità richieste e alle ricompense previste per il suo svolgimento. Al momento
della scelta vocazionale, la persona deve individuare un’occupazione corrispondente alle sue abilità e bisogni. Quindi la
persona deve individuare un’occupazione corrispondente alle sue abilità e bisogni. Una volta intrapresa l’attività lavorativa, qualora
nel contesto si verifichi la corrispondenza tra abilità personali e abilità richieste e tra bisogni e ricompense, la persona svilupperà
un’esperienza lavorativa soddisfacente e di successo per sé stessa e per la propria organizzazione. Gli autori della teoria
dell’adattamento al lavoro si sono occupati anche dello sviluppo di strumenti di rilevazione delle caratteristiche personali e del
contesto lavorativo: Minnesota Importance Questionaire (misurazione dei valori individuali), Minessota Job Description (misurazione
del sistema di ricompense).
Tra i limiti principali di questa teoria, emerge una tendenza all’ipersemplificazione nelle descrizioni delle caratteristiche personali
e contestuali, ovvero ciascun contributo tende ad analizzare la congruenza, selezionando solo un fattore per volta. In più,
sembra emergere l’importanza di rilevare non solo le caratteristiche oggettive che caratterizzano la persona e l’ambiente, ma
anche la valutazione soggettiva che la persona fa delle stesse.
L’approccio psicodinamico
Questo approccio si centra sulla definizione di tratti motivazionali-dinamici della personalità. La motivazione canalizza le
energie che sostengono determinati comportamenti diretti a una mera. Le scelte professionali sono manifestazioni del carattere.
Le spinte motivazionali provengono dalla struttura di personalità profonda, che si caratterizza per bisogni inconsapevoli e
meccanismi mentali consolidati durante lo sviluppo
Il contributo maggiore delle teorie psicodinamiche alle pratiche orientative è rintracciabile nell’aver mostrato la funzione
motivante della spinta all’autorealizzazione e del bisogno di successo. Secondo Rogers lo sviluppo individuale si muove verso
l’autorealizzazione attraverso il passaggio dalla semplicità alla complessità, dalla dipendenza alla indipendenza: questo concetto si
basa sull’ accettazione di sé.
Atkinson ha dato un importante contributo a questo approccio, elaborando una teoria motivazionale secondo la quale quando la
speranza di successo supera la paura del fallimento, la persona è motivata ad agire e presenta una percezione più realistica delle
scelte.
Gli studi sul bisogno di successo hanno riguardato anche la relazione tra questo costrutto e il career commitment, ovvero la
motivazione a lavorare nel proprio ambito lavorativo e l’integrazione nel mercato del lavoro delle minoranze: per esempio il
bisogno di successo nelle donne è predittivo del campo e del livello della loro occupazione.
Anche la teoria di Jung sulla personalità viene utilizzata in orientamento a fini descrittivi e non esplicativi delle differenze
interindividuali. Secondo Jung la personalità si compone di due attitudini: l’attitudine estroversa (E) e l’attitudine introversa (I).
Il rapporto con il mondo esterno si fonda sull’acquisizione di informazioni, tramite percezioni elementari e l’attenzione al
presente (sensazioni S) o tramite l’apprendimento attraverso modelli e attenzione alle possibilità future (intuizioni I);
l’elaborazione delle informazioni avviene tramite due forme di giudizio: il pensiero (T), fondato sul ragionamento logico, e il
sentimento (F) basato sui valori. In sede decisionale, il soggetto può inoltre mostrare una preferenza per la percezione (P),
ovvero per una decisione presa su numerosi fatti, o per il giudizio (J), ovvero per una decisione presa su un numero imitato di
fatti.
È sulla base di questa teoria che è stato costruito l’MBTI, uno dei questionari di personalità più popolari e diffusi secondo il
quale, ogni tipo psicologico è predittivo della scelta dell’ambito occupazionale.
I valori professionali
L’influenza dei valori professionali sullo sviluppo vocazionale è stata considerata solo a partire dagli anni ’50 e ’60. I valori
professionali sono caratteristiche o condizioni di lavoro corrispondenti ad aspirazioni personali che si possono soddisfare più o
meno indipendentemente dai diversi settori professionali. La classificazione maggiormente diffusa li distingue in valori di tipo
intrinseco (centrati sulla realizzazione di sé) e valori di tipo estrinseco (centrata sul valore strumentale del lavoro). Essi influenzano
le scelte di carriera indirizzando le persone verso alcuni ambiti professionali.
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Savig, analizzando la classificazione dei valori di Schwarz con i tipi di interessi di Holland, ha riscontrato che i valori relativi al
superamento di se stessi correlano positivamente con gli interessi investigativi, artistici e sociali, mentre i valori relativi
all’affermazione di sé correlano positivamente con l’interesse di tipo intraprendente. I valori relativi al conformismo correlano
positivamente con gli interessi convenzionali e negativamente con gli interessi artistici e investigativi. Gli interessi di tipo realistico, in
maniera singolare, non correlano con nessun valore. Anche se questa ricerca dimostra che i valori possono influenzare le preferenze
verso un campo professionale, non sempre le persone scelgono un’occupazione in base ai propri valori
Brown (1996) ha individuato quali sono le condizioni nelle quali può realizzarsi la corrispondenza tra valori e scelte
professionali. La prima condizione è che tra le scelte possibili che si presentano al soggetto ce ne sia almeno una in linea con i
propri valori; inoltre, il soggetto deve conoscere in maniera sufficientemente approfondita le opzioni lavorative per sapere
quale rispecchia i suoi valori; infine la scelta dell’opzione corrispondente ai propri valori deve implicare lo stesso grado di
difficoltà delle altre alternative.
La teoria di Super
Super elabora una teoria che sottolinea come la carriera si sviluppa attraverso un processo di costruzione del concetto di sé che
interessa tutto l’arco di vita e i differenti ambiti lavorativi ed extralavorativi.
Questa teoria si è evoluta lungo tre direttrici: un crescente riconoscimento dell’influenza dell’ambiente socioculturale nella
costruzione dei progetti di vita; una maggiore attenzione verso l’analisi contestualizzata dello sviluppo della carriera lavorativa
all’interno dell’articolazione di ruoli che caratterizzano il corso della vita nel suo insieme; una crescente valorizzazione delle
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rappresentazioni che l’individuo si forma di sé e la diminuzione del peso dato alle vallutazioni oggettive di interessi e attitudini.
La teoria è stata riformulata fino ad oggi dove si ritiene che l’esperienza lavorativa acquisti un senso all’interno dello sviluppo
globale della persona e dell’articolazione tra i differenti ruoli sociali che la persona riveste (bambino, studente, uomo o donna
nel tempo libero, lavoratore, padre o madre) e che hanno importanza in relazione all’età, alle preferenze, alle strutture sociali e
così via.
La carriera lavorativa è descritta come l’insieme dinamico dei cambiamenti che intercorrono nel rapporto tra individuo e
l’attività lavorativa, i quali producono ripensamenti sui propri ruoli sociali, che a loro volta richiedono aggiustamenti nelle
relazioni tra individuo e organizzazione, individuo e società, individuo e famiglia. La scelta professionale può essere descritta
come un processo teso all’adeguamento tra sé e il proprio ambiente; per questo il concetto di sé, in particolare il concetto di
sé professionale, acquisisce un ruolo centrale nella scelta. Naturalmente esercitano un’influenza importante anche le attitudini
ereditate, le esperienze di formazione, la sperimentazione di ruoli e la valutazione circa le capacità di ricoprire quei ruoli.
Oltre ai diversi fattori, la carriera è influenzata dal livello socioeconomico della famiglia di origini, dalle attitudini, dalle
caratteristiche personali , dalle occasioni e dalla maturità professionale.
Nel processo di sviluppo tracciato dalla teoria di Super si possono riconoscere alcuni stadi, ovvero dei periodi di equilibrio:
la crescita (fino a 14 anni), l’esplorazione (dai 14 ai 24 anni), la stabilizzazione (dai 25 ai 45 anni), il mantenimento (dai 45 ai 65
anni), il declino (oltre 65 anni). Il passaggio da una fase all’altra presume il superamento di alcuni compiti di sviluppo e
l’equilibrio fra i ruoli. Il costrutto della maturità vocazionale è definito come la prontezza dell’individuo ad affrontare i compiti di
sviluppo con i quali deve confrontarsi a causa del suo sviluppo biologico e sociale o a causa delle aspettative della società verso
le persone che hanno raggiunto quello stadio di sviluppo.
La maturità di carriera è caratterizzata da diverse dimensioni: pianificazione, esplorazione, raccolta di informazioni, decision
making e orientamento alla realtà. Per valutarla sono stati elaborati due strumenti: il Career Maturity Inventory e il Career
Development Inventory. Gli studi dimostrano che il livello di maturità aumentano con crescere dell’età e del livello di educazione.
Le strutture identitarie non sono pienamente coscienti, ma son fondamento delle forme identitarie che riguardano la
rappresentazione cosciente di sé e dell’altro. Alcune forme identitarie sono universali (l’essere donna ), altre sono tipiche di una
specifica identità (l’essere cattolico). In generale le forme identitarie sono variabili a seconda dei contesti in cui si interagisce.
L’aspetto psicologico fa riferimento al fatto che la costruzione del Sé si basa sulle strutture cognitive che la persona ha sviluppato
attraverso l’azione e l’interazione.
Dal punto di vista dinamico queste forme identitarie soggettive si costruiscono attraverso la relazione dell’individuo con il suo
ambiente sociale.
In quest’otica, l’intervento di orientamento diviene un momento privilegiato per riflettere sulle proprie forme identitarie
soggettive, ancorate al proprio sistema di frame identitari, e quindi per esplorare le possibili costruzioni delle forme
identitarie future.
Secondo la Role theory l’importanza del ruolo lavorativo è in relazione agli altri ruoli ricoperto dalla persona, e del valore
soggettivo a essi attribuito. L’effetto che l’assenza di un ruolo lavorativo può produrre a livello personale è determinato da diversi
fattori, quali l’orientamento culturale ideologico della persona rispetto al lavoro, l’impatto oggettivo della mancanza di lavoro
sulla propria vita.
Le ricerche dimostrano che, ai fini del ricollocamento, le risorse personali determinanti nel favorire un approccio attivo al
fronteggia mento della disoccupazione sono: l’autostima, l’ottimismo, la percezione del controllo sulla situazione che aumentano
la probabilità che le persone scelgano strategie di coping centrate sul problema, e quindi aumentano probabilità di
ricollocamento.
Le pratiche di orientamento
La finalità delle pratiche di orientamento è quella di perseguire lo sviluppo personale e sociale dell’individuo e di promuovere la
sua capacità di maturare scelte consapevoli e far fronte alle transizioni.
Tali azioni fanno riferimento ad approcci teorici e metodologici diversi (information, guidance, counseling).
Con il termine “ guidance”, in Italia vengono identificate le azioni finalizzate a promuovere l’educazione all’auto-orientamento.
Questa tipologia di attività si propone principalmente lo sviluppo di competenze orientative, finalizzate a: preparare le persone
ad affrontare le scelte in modo autonomo; aiutare a monitorare i propri percorsi formativi ed eventuali esperienze di lavoro
al fine di prevenire insuccessi; accompagnare le transizioni fra cicli di studi, dalla formazione al lavoro e da un’esperienza
lavorativa all’altra.
Il riferimento teorico di questa tipologia di azioni è l’approccio allo sviluppo dell’identità vocazionale che considera l’esperienza
formativa e lavorativa come un percorso non lineare e la persona come depositaria competenze per imparare a orientarsi,
affrontando e gestendo con successo i momenti di scelta e di transizione di questo percorso. Il focus è posto sul metodo e sulle
strategie per riuscire a decidere cosa fare e come muoversi nelle situazioni di incertezza. È un approccio in grado di pianificare a
livello operativo una serie di obiettivi da raggiungere.
Queste pratiche enfatizzano il metodo di gruppo perché è nel paradigma del confronto sociale e dell’attivazione del conflitto
socio cognitivo che trovano i propri riferimenti teorici e metodologici per lo sviluppo delle competenze orientative. L’obiettivo
prioritario è quello di rispondere al bisogno della persona di essere supportata dal punto di vista metodologico nel
prefigurare e impostare correttamente una soluzione autonoma a un compito orientativo specifico.
Sapersi orientare in maniera consapevole ed efficace lungo tutto l’arco di vita richiede, lo sviluppo di alcune competenze che
facilitano l’attivazione di questo processo e ne aumentano l’efficacia. La maturazioni di tali competenze orientative è legata al
perseguimento di diversi obiettivi:
il primo obiettivo è far acquisire alla persona un atteggiamento e uno stile di comportamento proattivo rispetto alla
gestione della propria storia personale (promuovere competenze orientative aspecifiche e propedeutiche) ;
il secondo obiettivo è far maturare nella persona la capacità di tenere sotto controllo lo svolgersi delle esperienze in atto
(competenze di automonitoraggio);
il terzo obiettivo è far sviluppare al soggetto la capacità di affrontare gli eventi decisionali attraverso una
progettazione di sé nel tempo, tali risorse, definibile anche come competenze orientative di sviluppo della propria
storia formativa e lavorativa, hanno a che fare con la capacità di darsi degli obiettivi di crescita.
Con il termine socializzazione al lavoro, indicheremo quella fase di preparazione all’esperienza lavorativa dell’individuo,
riferendoci a un processo che approfondisce il cambiamento delle strutture psicologiche dell’identità personale. Per
socializzazione organizzativa si va invece ad intendere l’insieme delle interazioni che ci sono tra individuo ed organizzazione,
soprattutto nell’adeguamento alle norme e ai valori del gruppo.
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La socializzazione lavorativa
Nella fase di socializzazione pre-lavorativa ci sono delle figure significative come quelle della famiglia, della scuola e del gruppo
dei pari. Sono significative perché definiscono gli atteggiamenti verso il lavoro e il sistema di aspettative con il quale il soggetto
affronterà l’esperienza lavorativa. Tali esperienze sono le premesse per lo sviluppo dei valori relativi al lavoro e per le scelte che
ne possono derivare: in qualche modo tali opzioni lavorative possono definirsi l’esito di un lungo percorso di sviluppo e di
conoscenza di sé (Super, 1957).
Per quel che riguarda i tratti personali, Holland fece un modello teorico di successo dove associò le caratteristiche di sei tipi di
personalità (artistica, realistica, investigativa, imprenditoriale, sociale, convenzionale) con gli orientamenti di scelta lavorativa.
Altri tipi di studi sono quelli che legano le scelte lavorative ai processi di apprendimento degli individui.
Kolb propone lo studio dei processi di apprendimento definendoli cicli sequenziali di apprendimento che iniziano da una concreta
esperienza del fatto per terminare nell’applicazione pratica.
L’apprendimento prevede l’evoluzione di Quattro fasi: I) Dalla concreta esperienza di un fatto II) All’osservazione riflessiva, quindi
III) Per mezzo di un processo di astrazione sulla catalogazione concettuale, e infine IV) All’applicazione pratica.
Egli avanza l’idea di una tipologia di stili di apprendimento individuali che non vanno considerate come tratti immutabili della
personalità, ma come strutture mutanti che risultano dalla specificità individuale. Gli stili di apprendimento sono:
1. Diverger: orientato verso l’esperienza concreta e osservazione riflessiva.
2. Converger: abilità di apprendimento.
3. Assimilator: capacità di astrazione e osservazione riflessiva.
4. Accomodator: caratteristiche opposte al precedente ed è orientato verso l’esperienza.
Da un’altra prospettiva, si può rappresentare la socializzazione al lavoro come una transizione psicosociale e un’occasione di
sviluppo e cambiamento per la persona. Lewin spiegò questo concetto con la teoria del campo: le parti del campo si chiamano
regioni e rappresentano le componenti psicologiche della personalità di un individuo. Ogni cambiamento, porta la modifica dei
confini delle regioni; quindi davanti ad un cambiamento ci si trova a ridefinire i propri vissuti attuali e aspettative future.
Il modello di Lewin ci suggerisce che ogni trasformazione, e quindi ogni apprendimento, oscilla su tre fasi di scongelamento,
di cambiamento e di ricongelamento. I processi che accompagnano tali fasi mutano radicalmente la definizione di Sé, le
strategie di risposta alla nuova situazione e le relazioni che si vanno a creare.
Occorre poi considerare un altro fattore significativo per la persona in transizione, il concetto di aspettativa. Vroom, con le sue
applicazioni nella ricerca motivazionale, pone la teoria dell’aspettativa al centro degli interessi degli studiosi dei contesti
organizzativi. Le aspettative che si hanno verso il lavoro, l’organizzazione, i colleghi e verso le opportunità di crescita
professionale incidono sul livello di impegno profuso e le qualità della performance agita. Quando tali aspettative non vengono
soddisfatte c’è una bassa soddisfazione lavorativa, un basso commitment e un alto turnover.
Un ultimo elemento da esaminare è il tema del giudizio nella nuova situazione in cui la persona si viene a trovare. Sarchielli fa
notare come nella fase di ingresso nel mondo del lavoro ci si esponga di fatto a valutazioni formali e informali da parte
dei colleghi e dei superiori venendo meno il paracadute del sostegno affettivo e delle cure parentali che caratterizzava gli
stadi precedenti. La propria identità lavorativa e professionale diviene esposta al giudizio degli altri.
La socializzazione organizzativa
Gli scenari lavoratori e organizzativi moderni sono caratterizzati da profonde trasformazioni, che sortiscono i loro effetti sulla
società, sulle persone e sulle loro sfere di vita. In questo panorama, le transizioni legate al lavoro implicano la
negoziazione continua dei propri progetti, dei propri desideri, della propria identità personale e sociale.
aspettative del soggetto (da 1 a 2); si prendono le misure sui vincoli e sulle opportunità del proprio ruolo (da 2 a 3); si lavora sulla
consapevolezza e sulle attribuzioni di senso della nuova situazione e quindi su quali apprendimenti sono da registrare (da 3 a 4); le
correzioni effettuate tendono a stabilizzarsi (da 4 a 1). L’equilibrio raggiunto tenderà successivamente a destabilizzarsi di fronte a una
nuova fase di transizione che vedrà coinvolto il soggetto.
Nel lavoro di Louis (1980) troviamo una definizione di socializzazione organizzativa come un processo attraverso il quale un
individuo fa propri quei valori, abilità, comportamenti attesi e conoscenza sociale ritenuti essenziali per assumere un ruolo
organizzativo e per acquisire membership organizzativa. La socializzazione organizzativa è vista come il processo primario
attraverso il quale il soggetto esperisce il nuovo ruolo lavorativo. Questa dinamica prevede la presenza di tre elementi che
vorrebbero spiegare le strategie comportamentali del soggetto : il cambiamento, il contrasto e la sorpresa.
I punti chiave sono legati alla nozione di script, cioè quegli schemi mentali che sono costruiti sulle esperienze passate e che fungono
da copione per l’agire quotidiano. Quando gli script non funzionano, il soggetto deve ridurre tale dissonanza attraverso una
creazione di senso.
Jones presenta un lavoro che pone l’accento sull’asimmetria della relazione tra soggetto e organizzazione, ribaltando le ipotesi
sostenute da alcune impostazioni teoriche precedenti: il soggetto influenza la relazione esistente con l’organizzazione in
misura maggiore di quanto la struttura organizzativa possa fare verso il soggetto sesso. Il soggetto è visto come attivo, dotato di
autostima e in grado di gestire la situazione.
Conclusioni
In un contesto lavorativo così mutevole e instabile continua, comunque, ad essere fondamentale la fase di ingresso in
organizzazione; per tale ragione si insiste sulla volontà di voler curare gli aspetti concernenti la dinamica della socializzazione.
La letteratura distingue inoltre, tra gli elementi che possono essere oggetto di osservazione e di valutazione: i tratti, i comportamenti
e i risultati.
La valutazione dei tratti si concentra su ciò che la persona è: l’attenzione è rivolta alle caratteristiche personali che sono
considerate rilevanti per il lavoro svolto. Alcuni studi dimostrano come un utilizzo responsabile e competente della
valutazione dei tratti possa incrementare la possibilità di prevedere la prestazione lavorativa, ottenendo conoscenze non
rilevabili mediante altri approcci.
La valutazione dei comportamenti messi in atto sul lavoro. In questo caso oggetto della valutazione sono elementi osservabili,
facilmente identificabili e documentabili con adeguata precisione. La valutazione dei comportamenti presenta alcuni vantaggi
legati alla maggiore semplicità con cui questi possono essere studiati e verificati rispetto ai tratti, ma non può essere esaustiva
quando uno stesso livello di prestazione è raggiungibile mediante comportamenti diversi.
In questo caso può essere maggiormente appropriato utilizzare un processo valutativo incentrato sui risultati ottenuti, quindi sugli
effetti ottenuti dai comportamenti messi in atto dalla persona.
Secondo questo metodo il responsabile definisce gli obiettivi da raggiungere nel periodo stabilito e che sono condivisi dal valutato e
dal valutatore. Al valutato è concessa poi ampia libertà sulle modalità da adottare per ottenere determinati obiettivi. Al termine del
periodo si realizza la verifica e la misurazione dei risultati raggiunti, sulla base dei quali verranno assegnati i premi stabiliti.
I metodi
Esistono molteplici metodi di misurazione della valutazione.
Il livello di formalizzazione che caratterizza la valutazione distingue tra metodi formali e informali.
Formali Si può considerare la valutazione informale come una valutazione inevitabile, prodotto delle costanti interazioni
presenti sul luogo di lavoro.
Informali La valutazione formale è al contrario caratterizzata dall’applicazione periodica e constante di metodologie stabilite
e di strumenti oggettivi per la rilevazione di dimensioni prefissate.
Una seconda classificazione distingue tra misure di valutazione oggettive e misure di valutazione soggettive.
Oggettiva L’ambito delle misure oggettive è costituito dalla valutazione dei risultati: elementi chiaramente identificabili e
conteggiabili, che permettono di ricavare indicatori oggettivi.
Soggettiva Le misure soggettive hanno come oggetto della valutazione i comportamenti o i tratti degli individui.
Un ulteriore distinzione riguarda I metodi tradizionali e quelli distrifjutivi: in questo caso si considerano le fluttuazioni
caratterizzanti gli oggetti di valutazione.
Tradizionali e distributivi I metodi di valutazione distributivi tengono conto della variabilità della prestazione individuale;
per ciascuna dimensione valutata il punteggio di sintesi ottenuto con i metodi tradizionali viene sostituito, nei metodi
distributivi, con il calcolo della frequenza dei differenti livelli di prestazione.
Un’ultima distinzione è tra metodi qualitativi e quantitative:
Qualitativi e quantitativi Sono concentrati rispettivamente sulla qualità e sulla quantità dell’aspetto valutato. A questa
distinzione si aggiunge quella che concerne I metodi relativi, in cui I soggetti sono valutati in confronto con gli altri, e quelli assoluti,
in cui I soggetti sono valutati isolatamente.
Gli strumenti
Ci sono un ampia varietà di strumenti da utilizzare per la valutazione. I principali sono:
Conteggio Utilizzato quando la valutazione ha per oggetto gli esiti del comportamento lavorativo, concretamente
riferibili ad ambiti quali la quantità del lavoro, la qualità del risultato, gli indici di presenza, la sicurezza.
Ranking È uno strumento che permette di classificare le persone in base a una valutazione globale.
Generalmente adottato per pochi soggetti, ma risulta meno utile con un grande numero di persone da valutare.
Nonostante ciò per superare tale difficoltà, è disponibile la tecnica del “confronto a coppie” dei valutati, in cui ciascun
soggetto viene singolarmente paragonato a tutti gli altri valutati. Una seconda variante è l’ “alternate ranking”, dove si
scelgono i soggetti con migliore e peggiore punteggio rispetto alla dimensione valutata; successivamente si individuano il
secondo e il penultimo, e così via. Un’ultima tecnica di ranking è la “distribuzione forzata”, che assegna percentuali di casi
prestabilite a ogni categoria di valutazione, pertanto non si può attribuire il medesimo giudizio a più di un certo numero di
valutati.
Tecniche grafiche di ranking Prevedono l’utilizzo di una lista generale di caratteristiche, di comportamenti o di
tratti di personalità, rispetto alla quale si valuta la persona su una fata scala, collocando graficamente il giudizio tra
due estremi; le caratteristiche valutate sono in genere molto ampie. Questa tecnica è stata criticata per essere
soggetta ad errori come l’effetto alone o l’eccessiva indulgenza. Per ovviare questo limite si usa la “scala di valutazione
ancorata ai comportamenti” che vede il valutatore indicare, lungo un continuum, quali tra i comportamenti presentati sono
tipici della persona valutata.
Un’altra scala adoperata è quella di “osservazione del comportamento”, in cui vengono riportati specifici esempi di
comportamento per ogni dimensione valutata e rispetto ai quali il valutatore indica la misura che riflette il comportamento
agito dal valutato.
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Lista di controllo (checklist) Consiste in un elenco di frasi espresse in forma descrittiva o interrogativa, in genere
specificamente riferite a precisi comportamenti o risultati e al particolare tipo di lavoro di cui intendono essere
rappresentative. Questa tecnica permette al valutatore di concentrarsi sugli elementi rilevanti per la valutazione. Una
variante di tale strumento è la lista di controllo a risposta libera , in cui il valutatore è libero di esprimersi senza dover
scegliere tra risposte codificate.
Descrizione narrative Prevedono da parte del valutatore, la libera descrizione delle osservazioni e delle valutazioni
effettuate. La destrutturazione di questo metodo può rappresentare un limite, poiché la ricchezza della valutazione
dipende dall’abilità ideativa ed espressiva del valutatore, e inoltre risultano difficili i confronti tra più persone.
Eventi critici Presuppone l’individuazione di precisi esempi di comportamenti adeguati o inadeguati, che
contribuiscono al successo o all’insuccesso in una determinata mansione, e il rilevamento nel valutato dei
comportamenti riferibili agli standard individuati.
Assessment center Consiste in una serie di prove comportamentali standardizzate, basate su diversi stimoli in cui il
comportamento attuato viene considerato come un indicatore del comportamento nel contesto reale di lavoro.
A queste tecniche si aggiungono strumenti più tradizionali utilizzati per fini valutativi:
L’intervista di valutazione Condotta sul singolo individuo o su gruppi, utilizza una traccia più o meno strutturata
circa gli elementi da approfondire nella valutazione. In tale tecnica, per salvaguardare l’oggettività e la completezza
della valutazione, di fondamentale importanza è la capacità del valutatore di instaurare un’adeguata relazione con
l’intervistato.
L’osservazione diretta Utile quando si valutano lavori semplici e/o ripetitivi.
I questionari Domande aperte o chiuse.
I test Danno la possibilità di condurre la valutazione su un elevato numero di persone e velocità di correzione e di
elaborazione dei risultati. Sono utili perché standardizzati e utilizzabili con un ampio campione.
Un approccio sempre più utilizzato all’interno delle organizzazioni consiste nella combinazione di differenti valutatori, si parla di
multi-source o multi-rater. Può essere una strategia utile per ottenere una valutazione a “360 gradi” ma bisogna fare attenzione
nel caso in cui la scelta dei valutatori, da parte del valutato, non sia pilotata al fine di ottenere valutazioni migliori.
Un tema importante è quello dell’anonimato, questo perché potrebbe incoraggiare alla formulazione di un giudizio meno
accurate, al contrario, quando la valutazione non è anonima, si incrementa la possibilità di formulare un giudizio maggiormente
accurate.
Valutare la valutazione
Molti studi si sono rivolti a capire quali siano gli elementi che determinano l’efficacia della valutazione e come limitare gli errori in
questa attività.
Altri elementi ritenuti importanti negli ultimi anni sono i fattori del contesto sociale, il clima e la cultura organizzativi, gli sviluppi
tecnologici e gli obiettivi della valutazione.
All’influenza sulla valutazione, si aggiungono elementi legati alle caratteristiche del valutatore. Tziner e collaboratori (2001, 2002)
per “comfort and confidence” intendono infatti la capacità dei valutatori di gestire l’apprensione che può accompagnare la
valutazione per le conseguenze che essa comporta.
Anche l’autostima, l’autoefficacia e i tratti di personalità del valutatore possono influenzare l’attività (bassi livelli di autostima
portano a maggiore indulgenza).
I possibili rimedi
Vista la molteplicità di errori che possono occorrere è utile cercare interventi che a vari livelli si propongono di ridurne la frequenza e
gli effetti.
In riferimento alla situazione valutativa, alcuni accorgimenti possono essere efficaci per migliorare le condizioni in cui la
valutazione viene realizzata: prevedere e garantire la possibilità di condurre un’osservazione regolare e di lungo periodo dei
lavoratori, adottando un approccio multi-rater.
In riferimento agli strumenti operativi è importante un’attenta preparazione degli strumenti in modo che le dimensioni
rilevate siano chiaramente definite, significative e ciascuna corrispondente a una singola attività lavorativa.
Migliorare l’efficacia e promuovere l’accettazione della comunicazione attraverso l’incentivazione della partecipazione dei
valutati di esprimere, da parte dei superiori, supporto e comprensione verso il valutato; È utile, in relazione al ruolo del
valutatore, prevedere una formazione specifica per il valutatore in modo da diminuire gli errori attraverso percorsi di training
finalizzati ad esempio ad esporre i criteri da usare per valutare, esplicitare gli errori che possono interferire, sensibilizzare al ruolo
degli obiettivi da raggiungere.
I criteri
La correttezza delle valutazioni è legata anche al rispetto di determinati criteri.
I criteri psicometrici che considerano l’accuratezza della valutazione dal punto di vista statistico. A questi, si affiancano i criteri di
utilizzo che considerano la valutazione in quanto reale strumento per motivare e sostenere la crescita delle persone. Inoltre
vanno tenuti presenti gli aspetti psicologici e sociali connessi al processo di valutazione e, in particolare, gli attori che ne prendono
arte.
Gli studi dimostrano che la valutazione e la comunicazione risultano accettabili e determinano reazioni più positive quando vengono
percepite come accurate (fonte credibile, frutto di un processo parziale e reale)
Inoltre sono indicatori importanti la soddisfazione espressa per il sistema di valutazione e per la sessione valutativa e la percezione
di utilità, precisione e giustizia. La percezione di giustizia è fondamentale per sviluppare committment e reazioni positive verso
l’organizzazione.
È inoltre importante che la valutazione si caratterizzi per un adeguato livello di condivisione. La valutazione dovrebbe essere
riconosciuta dal valutatore e dal valutato come una pratica utile e vantaggiosa per la gestione e lo sviluppo delle persone.
Infine l’ultimo criterio utile è l’integrazione della valutazione con le altre attività di gestione del personale. È necessario che la
valutazione non sia isolata dagli altri processi gestionali, ma che invece sia integrata con le fasi precedenti e successive.
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Conclusioni
Va evidenziata l’influenza della cultura organizzativa sul processo di valutazione. Ad oggi si sta cercando di indirizzare la
motivazione verso gli aspetti che riguardano la motivazione e il raggiungimento degli obiettivi, l’impiego di tecnologie ad hoc e
l’integrazione di questo momento alle restanti fasi che caratterizzano la gestione delle risorse umane.
È possibile osservare alcune tendenze attuali verso cui la valutazione in ambito organizzativo si sta sempre più indirizzando:
Orientamento verso obiettivi di sviluppo e motivazione (non solo remunerazione);
Responsabilizzazione del valutato;
Intreccio della valutazione con altri elementi del sistema di gestione delle risorse umane;
Impiego di tecnologie.
La teoria sociale di (Blau,1964) sottolinea il ruolo del bilanciamento e del livello degli obblighi e delle richieste.
del processo è misurabile tramite due variabili principali: il grado di realismo con cui il soggetto si rappresenta la vita lavorativa in
un certo contesto, e il grado di congruenza tra aspettative e desideri, le capacità della persona e le risorse e opportunità offerte
dal contesto.
Lo step successivo avviene durante la fase di recruiting e di hiring: il patto in oggetto include la decisione di entrare a far parte di
un’organizzazione. In questa fase avviene una prima conoscenza tra lavoratore e mondo economico e valoriale dell’organizzazione.
Segue la fase della prima socializzazione sul lavoro dedicata al reperimento di informazioni, attraverso l’interazione con i
rappresentanti dell’organizzazione e la percezione della cultura organizzativa nelle applicazioni pratiche. La sfida per le organizzazioni
diventa quella di individuare le modalità più efficaci per gestire il nuovo contratto psicologico al fine di mantenere elevati il
commitment e la motivazione delle loro risorse umane.
benessere psicologico, cali della performance lavorativa, aumento dei comportamenti di ritardi, assenteismo e intenzioni di
turnover.
3) Alla valutazione di tipo cognitivo (rottura) può seguire un processo interpretativo sulle cause e sulle modalità della
rottura stessa, che porterà verosimilmente a un’esperienza affettiva di disappunto, rabbia, frustrazione e risentimento, e quindi
alla violazione del contratto psicologico.
Non necessariamente alla rottura segue la violazione del contratto.
La probabilità di sperimentare un vissuto di violazione dipende da tre aspetti: monitoraggio (osservazione e reperimento di
informazioni), la dimensione della perdita percepita e la forza del legame tra organizzazione e dipendente.
Le possibili risposte dell’organizzazione alla percezione di una violazione del contratto psicologico da parte del lavoratore
sono rappresentate dal silenzio, nella speranza che la situazione si risolva spontaneamente, dal richiamo verbale o scritto, dal
licenziamento o addirittura dal mobbing strategico.
4. Conway e Briner sostengono l’opportunità di ricorrere all’uso di diari giornalieri, utili soprattutto nello studio dell’esperienza di
rottura del contratto psicologico. Possono essere considerati un’alternativa metodologica all’utilizzo dei più consueti questionari.
Offrono la possibilità di ottenere descrizioni di eventi, comportamenti ed emozioni nel momento stesso in cui essi si
manifestano e in un modo relativamente non intrusivo.
5. Interviste in profondità possono risultare utili solo in combinazione con alti metodi per valutare l’esistenza di possibili
relazioni causali tra le variabili considerate e per la generalizzazione delle informazioni ottenute.
6. Il ricorso allo studio dei singoli casi è molto raro.
Conclusioni
Empowerment e potere
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Kanter (1977) definisce le persone disempowered come prive di potere. In questa prospettiva empowerment
significherebbe la ridistribuzione di un potere reificato: chi ne possiede troppo deve cederlo a che ne ha meno, o chi ne ha
meno deve toglierlo a che ne possiede troppo, incontrando presumibilmente delle resistenze.
Accanto alla concezione reificate del potere si trovano quelle che ne sottolineano la sua componente sociale e di
interdipendenza: il potere non esiste in sé, ma risiede nelle relazioni tra le persone. Questa posizione si incontra già in
Weber che definisce il potere come “possibilità di far valere, entro una relazione sociale, anche di fronte a una
opposizione, la propria volontà quale che sia la base di questa possibilità. Potere, qui, è l’influenza di una persona su un’altra.
Le due concezioni di potere discusse fin qui rimandano a una prospettiva ancorata all’idea di un potere su piuttosto che di un
potere con.
La prospettiva dell’empowerment, invece, ci aiuta a pensare al potere anche in termini positivi e processuali. La parola “potere”,
in quanto verbi, richiama la dimensione dell’opportunità e della possibilità del “poter fare”. Secondo questa concezione, avere
potere, essere empowered, significa non tanto detenerlo, quanto avere la potenzialità e la capacità di agire. In termini
relazionali, questo significa coniugare l’interdipendenza con la condivisione, la reciprocità, la mutualità e la solidarietà, e rimanda
alla dimensione partecipativa dell’empowerment, all’essere rafforzati dall’agire insieme con e non sugli altri.
Il rischio di questa prospettiva risiede nell’esaltazione del lato luminoso del potere, tralasciando al contempo quello
oscuro.
Chiudere gli occhi di fronte al lato oscuro del potere significa ignorare i meccanismi di sottomissione, esclusione ed
emarginazione presenti nelle nostra società.
Empowerment e organizzazione
Zimmermann parlando di empowerment organizzativo distingue tra “organizzazioni empowering” e “organizzazioni
empowering”. Con il primo termine si riferisce a quelle organizzazioni che prendono o influenzano con successo decisioni
politiche o che sviluppano reali alternative nell’offerta di servizi, cioè che compongono, insieme a singoli cittadini e istituzioni
pubbliche, il livello comunitario. Sono organizzazioni empowered, per esempio, le organizzazioni che si impegnano
attivamente nel contesto politico e sociale come le ONG o le organizzazioni non profit.
Le organizzazioni empowering invece sono quelle che forniscono ai propri membri strumenti per ottenere un controllo sulla
propria vita e sviluppare competenze, cioè organizzazioni che permettono e favoriscono processi interni di empowerment.
Generalmente si tratta di organizzazioni basate su una struttura democratica, all’interno delle quali viene permessa e
promossa la partecipazione dei membri sia ai risultati e alla proprietà, sia al controllo e al governo, attraverso processi
decisionali partecipativi e investimenti sull’autogestione, sulla comunicazione e sulla formazione.
Emerge qui la necessità di uno sguardo multidisciplinare in relazione al concetto di empowerment. In questo senso, da un
punto di vista psicologico, i contributi per studiare e promuovere le organizzazioni empowering si possono distinguere in due
approcci:
L’approccio psico-socio-politico – il destinatario dell’intervento volto all’empowerment è rappresentato ancora dall’individuo e
dalla sua emancipazione da una situazione powerless verso una condizione di empowerment. L’empowerment come sentimento
di autoefficacia e possibilità di autodeterminazione rappresenta in questa concezione il più alto grado di investimento
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Il futuro dell’empowerment tra psicologia organizzativa e di comunità: l’ipotesi del doppio empowerment
Mentre un’organizzazione empowering non deve per forza essere empowered (può non avere molta influenza politica ma offrire ai
propri membri l’occasione di sviluppare competenze e senso di controllo), essere empowering per un’organizzazione empowered
sembra sia fondamentale. Per favorire processi di empowerment di “terzi”, le persone che lavorano in organizzazioni empowered
necessitano di opportunità empowering tanto individuali quanto organizzative. Crediamo che questa esigenza valga
particolarmente per le organizzazioni di servizio alla persona o per le ONP.
È in questo ambito organizzativo che è stata sviluppata l’ipotesi del doppio empowerment da parte di soggetti
reciprocamente coinvolti in un processo di sviluppo individuale, organizzativo e comunitario, cioè l’ipotesi che l’empowerment
individuale dei soggetti disempowered possa realizzarsi solo in concomitanza con la costruzione di un funzionamento
organizzativo che consenta l’empowerment dei membri normodotati impegnati nel sostenere, accompagnare, facilitare, creare
le premesse organizzative per l’empowerment dei soggetti cui ci si rivolge e con cui si coopera e che sono,
contemporaneamente, destinatari e costruttori dei loro servizi.
Questa visione è auspicabile in tutte quelle organizzazioni che prevedono una relazionalità reciproca e funzionale al raggiungimento
del cambiamento.
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identifichi i problemi salienti, gli esiti desiderati e il piano di azione, per arrivare a un accordo condiviso tra career counselor e
cliente e al relativo impegno di perseguire le azioni concordate.
In relazione all’approccio del counselor, Bobek e Robbins sottolineano che sono le teorie sullo sviluppo personale e di carriera ad
essere di aiuto nel:
– Far emergere le connessioni critiche tra il punto di vista del counselor e le azioni intraprese per aiutare i clienti.
– Rinforzare il bisogno di consistenza concettuale e teorica nell’azione.
– Integrare le questioni personali e professionali quando ci si occupa dei bisogni degli adulti.
Gli autori, a riguardo, delineano quattro teorie di sviluppo professionale per comprendere lo sviluppo di
carriera. Le quattro teorie di sviluppo professionale, conducono all’identificazione di questioni personali e
professionali e a stabilire esiti chiari e misurabili per il cliente.
La prospettiva di adattamento Persona-Ambiente tale approccio si concentra essenzialmente sull’applicazione di
abilità e conoscenze al nuovo contesto di lavoro. Un tema importante è quello del trasferimento delle competenze
acquisite in passato in un nuovo ambito lavorativo. Utilizzando questo approccio, elementi di criticità risiedono nella
possibile sensazione di ridotta autostima dovuta a perdite personali e professionali, unita all’indecisione e all’ansia
relativa al futuro incerto, che devono essere prese in considerazione e risolte per un adeguato svolgimento
dell’intervento.
La teoria dello sviluppo professionale di Super In questa teoria è fondamentale comprendere gli stadi della vita e i
ruoli degli individui per aiutali a inquadrare bisogni e aspettative.
L’attenzione agli interessi professionali include sia lo sviluppo di chiare mete lavorative sia lo sviluppo della
consapevolezza riguardo alle competenze necessarie per competere con gli altri in ambito professionali.
Quindi gli interessi personali chiamano in causa, per i clienti, l’accettazione dei propri limiti e l’assunzione di nuovi
ruoli.
La teoria socio cognitiva Enfatizza i fattori motivazionali, come le credenze di autoefficacia e le aspettative di risultato
per spiegare il processo di sviluppo professionale
Le teorie dello sviluppo degli adulti A questo proposito vengono segnalate due teorie. La teoria di Baltes sostiene
che con l’età le persone mostrano una considerevole plasticità o comportamento compensatorio di adeguamento,
evidenziando da un lato l’importanza della valutazione realistica e dall’altro il valore delle energie adattive creative, per
utilizzare nel miglior modo sia le competenze attuali sia le precedenti in un nuovo contesto con nuove richieste.
La teoria della continuità di Atchley riflette l’enorme enfasi che la letteratura evolutiva attribuisce al mantenimento di
uno scopo nella vita o al mantenimento di significato durante i momenti importanti di transizione della vita: mezza
età, passaggio da giovane ad anziano, da anziano a vecchio. Fare scelte adattive o realistiche dipende dal riuscire a
connettere il precedente lavoro e il nuovo nel contesto dei cambiamenti esterni o interni. A livello personale, ciò
richiede rischio emotivo e supporto sociale.
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e inoltre a bassa autostima e fiducia, e a disturbi somatici legati allo stress. L’azione del career counselor, per
controbilanciare tali effetti negativi della perdita del lavoro, è volta a coinvolgere l’adulto nella ricerca attiva.
Rientro. Si riferisce a individui che hanno focalizzato il proprio tempo, di solito numerosi anni, e considerevole energia
su ruoli diversi da quello del lavoro salariato. Sono le donne ad affrontare più frequentemente transizioni di
carriera. Il rientro può essere motivato da fattori vocazionali, familiari o finanziari e può implicare tanto il desiderio
di avere una carriera quanto quello di diventare autosufficienti, tenendo presente che molte donne “continuano a
rimandare la formazione del loro ruolo vocazionale a 35 anni, quando hanno stabilito i loro ruoli familiari”.
Possono pertanto sperimentare conflitti di ruolo e problemi emotivi, tentando di bilanciare le richieste della
famiglia e gli obblighi lavorativi, così come altre difficoltà comuni riscontrate, per esempio la scarsa autostima, la
sottovalutazione delle proprie abilità e autonomia, la minor assertività rispetto alle donne in carriera. Un career
counseling efficace, in riferimento a tale target di intervento, richiede agli operatori di tenere nella giusta
considerazione tutti i fattori menzionati e di considerare le adeguate prospettive teoriche ed empiriche, in grado di
intensificare la comprensione di tali lavoratori adulti e di guidare positivamente il processo di assistenza nella transizione
di carriera.
Problemi frequenti dei clienti. Punti in comune nelle istanze sottoposte al counselor dagli adulti che attraversano
transizioni di carriera: stabilire un’autovalutazione realistica delle proprie competenze e abilità; fronteggiare la
perdita economica e l’ansia, la perdita della sicurezza del lavoro, dei colleghi, dell’identità, la mancanza di fiducia e
autostima e la paura del fallimento; reagire gli svantaggi legati all’età.
Secondo Krumboltz e Chan, il transition counseling non è un intervento a unico atto, bensì un processo continuo attraverso la
vita, sulla base dei bisogni del cliente.
La ricerca empirica come direttrice di riferimento per intervento di career counseling efficaci
Nonostante siano stati formulati modelli teorici e realizzate numerose ricerche sul processo di counseling personale, siamo solo
agli inizi, ad oggi, infatti, Heppner ritiene che mancano degli studi specifici che evidenzino gli ambiti di ricerca su cui bisogna
lavorare e la stimolazione affinché vengano realizzate.
Da alcuni dati emersi di recente, emerge comunque l’esigenza di preparare il counselor secondo una formazione olistica che
tenga conto di tutti I fattori che contraddistinguono i soggetti e i contesti in cui sono inseriti.
All’efficacia del counseling è opportune affiancare l’uso di microtecniche, come esercizi scritti, interpretazioni individualizzate,
modeling.
La ricerca sul career counseling può proseguire efficacemente identificando tre tipi di variabili: di processo, input e di risultato.
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per la persona.
L’aumento di interesse per il tema risale agli anni ’70 va certamente a Rosabeth Kanter (1977) il merito di aver smantellato il mito
dei “mondi separati”, e ai lavori di ricerca di autori di quel periodo il merito di aver avviato un fertile filone di studi. È però
negli anni ’80 che il numero dei lavori di ricerca, in particolare sul tema del conflitto tra lavoro e famiglia, ha iniziato ad
aumentare in maniera significativa. Il corpus di studi sul tema suggerisce come la tensione tra ruoli familiari e lavorativi possa
configurarsi come una fonte di stress, responsabile di una diminuzione del benessere psicologico e fisico alla persona.
Il conflitto lavoro-famiglia
l costrutto di conflitto tra lavoro e famiglia (CLF) trova le sue origini nella teoria del ruolo e nell’ipotesi del role strain di Goode
(1960). Dalla definizione di Greenhaus e Beutell emerge che il conflitto lavoro-famiglia viene considerato come una forma di
conflitto dove la partecipazione al ruolo lavorativo (o familiare) è resa più complicata dalla partecipazione al ruolo familiare (o
lavorativo).
Il costrutto CLF è bidirezionale è può essere asimmetrico (quando per esempio un soggetto sente che il lavoro interferisce con la
vita famigliare, ma non viceversa) o reciproco (quando per esempio un soggetto sente che il lavoro interferisce con la vita
famigliare e viceversa). La distinzione tra conflitto Lavoro Famiglia e conflitto Famiglia Lavoro è sostenuta dalle
evidenze di ricerca, che segnalano che gli individui dichiarano di percepire generalmente un maggiore conflitto nella direzione L
F rispetto a quella nella direzione F L.
Gli antecedenti del CLF identificate da P’Driscoll, fanno riferimento a:
– Richieste legate a ciascun ruolo, familiare e/o lavorativo;
– Alla personalità;
– Alle strategie di coping;
– Alla presenza di “persone a carico”;
– Al supporto sociale distinto da quello familiare e quello organizzativo.
La ricerca evidenzia inoltre che il vissuto di CLF può essere causa di insoddisfazione sul lavoro, e una delle possibili cause
dell’assenteismo e dell’intenzione di cambiare impiego.
Per questi motivi è un costrutto importante da valutare, infatti la ricerca si sta investendo per la costruzione e la validazione di
scale CLF. In generale le misure CLF sono basate sul modello di Greenhaus e Beutell. La maggior parte degli strumenti vuole
rilevare il grado in cui il lavoro (o la famiglia) interferisce con specifici elementi dell’altro dominio.
La compensazione
La compensazione fa riferimento a una relazione tra i due domini (lavoro – famiglia) che prevede il tentativo da parte del
soggetto di rimediare alle “difficoltà o mancanze” in un contesto attraverso un maggiore investimenti in un altro ruolo. Le
persone possono ridurre l’importanza che attribuiscono a quel ruolo, o possono cercare riconoscimenti in un altro contesto o
investire più tempo in un ruolo alternativo.
La strumentalità
Il modello della strumentalità ipotizza che un contesto sia strumentale al raggiungimento di risultati nell’altro contesto
(Evans, 1984). La strumentalità, come i costrutti precedenti, può essere pensata in entrambe le direzioni (il lavoro
strumentale per mantenere la famiglia, la famiglia strumentale per mantenere il lavoro in termini di sostegno emotivo e concreto).
L’identità lavorativa e l’identità familiare, riflettono il concetto di sé, contribuiscono all’autorealizzazione e sono predittive delle
prestazioni di ruolo.
Gli individui tenderebbero a investire risorse nel ruolo associato all’identità con maggiore importanza, con l’obiettivo di
consolidare la propria autostima: per esempio, individui con una forte identità di carriera investono una maggiore quantità
di energie e risorse nel percorso di carriera rispetto a coloro che possiedono una debole identità lavorativa. L’identificazione con il
ruolo lavorativo determina una diminuzione di tempo disponibile per la famiglia, così come l’identificazione con il ruolo familiare
determina una diminuzione di tempo per il lavoro. Tuttavia è riduttivo pensare che un maggiore investimento da una parte causi un
minore investimento da un’altra.
La teoria dell’identità di ruolo si collega agli studi che si concentrano sul concetto di engagement in multiple roles,
definibile come l’impegno richiesto da ciascun ruolo assunto, lavorativo e famigliare, in termini di attenzione e “assorbimento”.
L’esito in termini di relazione tra lavoro e famiglia, dell’impegno richiesto dall’assunzione dei diversi ruoli può essere infatti
un vissuto negativo di “svuotamento” (depletion) oppure un vissuto positivo di “arricchimento” (enrichment) nella duplice
direzione LF e FL. Il concetto di svuotamento si basa sull’assunto secondo cui le persone possiedono una quantità limitata
di risorse psicologiche e fisiche, e che quindi le richieste provenienti da un ruolo possono interferire con le richieste provenienti
dall’altro ruolo, generando vissuti di malessere. Di contro il vissuto di arricchimento di verifica quando il commitment legato
all’assunzione di un ruolo genera un’espansione di energie e risorse a beneficio dell’altro ruolo. La risposta emotiva (positiva o
negativa) dell’individuo all’impegno assunto in un ruolo (lavorativo o familiare) è centrale, perché determina l’impegno
nell’assunzione dell’altro ruolo (lavorativo – familiare).
Dalle ricerche svolte sembra che le donne, rispetto agli uomini, tendino a integrare maggiormente i due contesti e di conseguenza i
due ruoli.
A questa considerazione si aggiungono i dati riportati dalle ricerche, per cui sembrerebbe che gli uomini vivano con maggiore
difficoltà la possibilità di conciliare più ruoli sottraendosi, dunque, al conflitto.
L’equilibrio
Spesso le ricerche in tema di equilibrio rilevano il CLF e assumono che una riduzione di CLF coincida con un maggiore
equilibrio. Tale posizione non appare però del tutto condivisibile, poiché l’equilibrio è uno stato psicologico significativamente
diverso dall’assenza di CLF.
Reiter propone di distinguere tra definizioni di equilibrio:
Assolutiste, per cui l’equilibrio sarebbe il miglior risultato possibile indipendentemente dalle caratteristiche della
situazione o del soggetto;
Situazioniste, che considerano l’equilibrio come strettamente dipendente dalle situazioni;
Soggettiviste, per cui l’equilibrio sarebbe basato non tanto su principi universali quanto su valori personali;
Eccezionaliste, per cui l’idea di equilibrio fornita da qualche soggetto diviene la definizione di riferimento per
impostare un disegno di ricerca.
Secondo la riflessione di Reiter, la prospettiva situazionalista risulta essere la più adeguata per la ricerca.
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Il ruolo dell’organizzazione nel sostenere la conciliazione: Thompson e collaboratori hanno definito la cultura work family
come caratterizzata da “assunzioni condivise, credenze e valori relativi alla tendenza dell’organizzazione a sostenere e valorizzare
l’integrazione tra vita lavorativa e familiare delle persone”. Un’altra impostazione è l’organizzazione family friendly che fa
riferimento al fatto che l’organizzazione è effettivamente impegnata a sostenere i dipendenti nella gestione delle loro
responsabilità familiari affiancando all’accessibilità delle soluzioni pro conciliazione la presenza di una classe dirigente sensibile e
attenta. Nelle aziende in cui la percezione di supporto è maggiore, è più elevato il senso di appartenenza, il commitment e il
desiderio di continuare la propria carriera all’interno dell’organizzazione.
Un’organizzazione è family friendly quando sono presenti capi che offrono sostegno di fronte ai problemi di conciliazione; il
ricorso a forme istituzionali di supporto alla conciliazione non dà origine a conseguenze negative sul fronte della carriera; le
richieste di tempo sono commisurate rispetto alle implicazioni di ruolo.
Questi elementi favoriscono la presenza di una cultura supportiva, che sembra essere una condizione necessaria affinché le politiche
a sostegno della conciliazione siano positivamente accolte dai dipendenti e le soluzioni o le iniziative proposte siano effettivamente
utilizzate e apprezzate come strumenti utili per un miglior equilibrio tra lavoro e vita.
Ci sono varie direzioni che le organizzazioni possono seguire per migliorare la qualità di vita percepita dai dipendenti, attivando
strategie family-friendly. I livelli di intervento possono riguardare:
Le forme di contratto (es. flessibilità di orario, lavoro a distanza, ecc. );
Le azioni di sostegno e sviluppo a carattere formativo e/o consulenziale;
Le agevolazioni economiche e i servizi direttamente offerti all’interno delle strutture aziendali;
Le politiche, le procedure gestionali e l’organizzazione del lavoro (per esempio il lavoro di gruppo per condividere le
responsabilità).
Tali iniziative sono rese disponibili da molte aziende di grandi dimensioni (anche per proteggere la propria immagine).
Questo tipo di organizzazione, dunque, si presenta come particolarmente attento ai bisogni e alle differenze degli individui e
dei contesti di lavoro. Le conseguenze possono essere certamente positive in quanto profondamente supportive, tuttavia non
si può ignorare l’aspetto economico che va affrontato, l’esigenza di un feedback positive e l’obbligo di precedere questo
processo attraverso un’analisi dei bisogni di conciliazione dei dipendenti.
Attivare programmi family-friendly significa dunque tenere conto di molteplici dimensioni:
Le differenze individuali;
La presenza o l’assenza di supporto sociale;
Le caratteristiche del lavoro;
Il mercato del lavoro;
Il monitoraggio delle iniziative family-friendly, infine, dovrebbe riportare la valutazione degli effetti non solo a livello
organizzativo, ma anche a livello familiare.
Dal momento che frequentemente è possibile imbattersi nell’errore di voler allineare queste iniziative ad quelle proposte da
aziende esterne, sarebbe più opportuno valutare il lavoro in base alla qualità facendo in modo che gli impegni familiari non
penalizzino il percorso lavorativo, e lasciare che l’organizzazione sia gestita da superiori che ascoltano e sono attenti ai temi di
supporto.
Accessibili ed efficaci sono le soluzioni proposte da contesti organizzativi caratterizzati da una cultura in cui:
Il lavoro è valutato in base alla qualità e gli impegni familiari non penalizzano i percorsi;
I superiori sono capaci di ascoltare, sensibili ai temi della conciliazione, comprensivi rispetto alle responsabilità
extralavorative di ciascuno, orientati a informare e sostenere le iniziative di welfare.
Pur tenendo presente l’importanza delle diverse identità di ciascun individuo e la loro salienza nel contesto, si può
comunque correre il rischio di annullare le differenze: ognuno nella sua specificità, può essere considerato diverso da chi lo
circonda, riducendo, in tal modo, la diversità a “null’altro che un concetto benigno, ma privo di significato”. Bisogna ricordare
che la diversità non concerne le differenze antropologiche che rendono gli individui speciali per la loro unicità, ma riguarda
l’essere suscettibili di subire un trattamento diverso e di avere opportunità differenti come conseguenza dell’appartenere – o non
appartenere – a determinate categorie sociali.
Information/decision making
Questo approccio si focalizza sulla diversità intesa in termini funzionali e informativi, ossia sulle caratteristiche del lavoro, della
posizione, delle funzioni di ciascun contesto organizzativo. Questa prospettiva afferma che è proprio la disomogeneità a
favorire le migliori performance. I gruppi diversificati, infatti, sarebbero in possesso di una più ampia gamma di
conoscenze utili allo svolgimento dei loro compiti. In particolare, la diversificazione dei punti di vista solleciterebbe il gruppo
ad analizzare più approfonditamente le alternative di scelta, producendo un maggior numero di idee rispetto a un gruppo
omogeneo. Sarebbero le organizzazioni o le unità di lavoro impegnate in compiti innovativi a giovarsi di più della
diversificazione.
Dallo svolgimento di alcune ricerche è emerso come non vi siano relazioni significative tra tipo di diversità ed outcome positive
di performance o relazionali nell’ambiente di lavoro.
Un modello integrato
Ci sono modelli che integrano le due prospettive. La diversificazione, di per sé, sarebbe in grado di accrescere la performance,
ma tale successo può essere contaminato dai processi di categorizzazione.
Van Kinppenberg e collaboratori (2004) hanno proposto un modelli integrato, il “Caterization-Elaboration Model” (CEM). Secondo
il CEM, la diversità nei gruppi è in grado di favorire l’elaborazione di idee creative e propositive differenziate che aiutano a
svolgere al meglio le mansioni, se sussistono le seguenti condizioni nel gruppo:
1) Elevate capacità di elaborazione delle informazioni e di decision making;
2) Alta motivazione e alta capacità di elaborare informazioni rilevanti per lo svolgimento delle mansioni.
Queste condizioni possono dar luogo a fenomeni di favoritismo o di assenza di favoritismo tra i gruppi:
1) Accessibilità cognitiva, ossia la facilità con cui il processo di categorizzazione si attiva a causa della differenza
percepita;
2) Normative fit, vale a dire quanto della categorizzazione è soggettivamente rilevante per i membri del gruppo;
3) Comparative fit, ossia quanto la categorizzazione dà origine a sottogruppi distinti sulla base di un’altra omogeneità
interna e di elevate differenze intergruppi.
Secondo il modello CEM l’elaborazione di informazioni e i processi di categorizzazione sociale interagiscono e, in particolare, I
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bias intergruppi possono interferire sulla corretta elaborazione di informazioni utili a svolgere le mansioni.
Sviluppi futuri
La prospettiva migliore sarebbe quella di ricollocare il tema della diversità al livello della gestione organizzativa, facendo
attenzione alla fase di selezione, fidelizzazione, creatività, innovazione, problem solving.
Le leve della gestione aziendale sulle quali agire per ottenere vantaggi della diversità nell’organizzazione sono:
La selezione;
La fidelizzazione delle persone;
L’atteggiamento dei collaboratori;
La creatività e l’innovazione;
Il problem solving di gruppo.
In che misura un’organizzazione è in grado di compenetrare nella sua politica complessiva il diversity management può essere
data da alcuni indicatori significativi:
Il commitment del top management;
La composizione della forza lavoro;
La pianificazione in termini strategici;
I benefit correlati al DM;
Gli incentivi al management per la gestione della diversità;
Le strutture;
Il monitoraggio delle iniziative;
La comunicazione interna ed esterna di messaggi che includono il tema;
Le iniziative di supporto;
La formazione mirata;
La misurazione della produttività pre e post diversificazione;
La cultura organizzativa.
Se il diversity management coincide con le politiche del personale, esso rappresenta un nuovo modo di considerare le persone in
organizzazione seguendo un’ottica molto più ampia; inoltre questo garantirà il rispetto delle pari opportunità sancite dalla legge.
Il DM appare un settore in cui gli esperti delle risorse umane possono offrire un contributi significativo sia per comprendere i
fenomeni psicosociali alla base del conflitto e delle costrittività organizzative, sia per la progettazione e l’applicazione di
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interventi mirati alla performance che si inseriscano in politiche di gestione del personale di più ampio respiro.
Il profjlema
È un’attività che si occupa di accompagnare persone uscite da un’azienda in un’altra situazione lavorativa; si tratta di un tema
assai delicato, data la flessibilità e instabilità del nostro periodo storico.
Nel contesto odierno, il tema dell’outplacement assume una connotazione negativa e riparatoria, laddove, in una prospettiva
positiva e propositiva, la connotazione è quella dello sviluppo, della valorizzazione, del riposizionamento che il processo di
cambiamento e miglioramento continuo implicano e determinano.
Le origini
Le due date di nascita nell’outplacement fanno riferimento: la prima, alla gestione della transizione che interessa i veterani da
reinserire nel nuovo mercato del lavoro trasformato a seguito della fine del conflitto; la seconda, a partire dagli anni ’60, alla
gestione dei processi di trasformazione e di dowsizing delle imprese americane, che implicano la fuoriuscita dal mondo del
lavoro di risorse di medio posizionamento. Si può, al riguardo, proporre un diverso livello di lettura di questa doppia nascita.
Nel 1944, il Bill Act attuato dal presidente Roosvelt facilitò la transizione e il reinserimento dei veterani della seconda guerra
mondiale che, tornando, trovarono un contesto lavorativo che si trovava in rapida evoluzione. Il GI Bill Act del 1944 ha come scopo
quello di riqualificare e reinserire risorse che hanno sviluppato competenze non del tutto allineate con il nuovo assetto del
mercato del lavoro in forte espansione e riconversione – dalla produzione di guerra alla produzione di massa e per il
benessere – secondo un disegno di forte recupero dell’occupazione,
Le linee di azione previste dal GI Bill Act sono:
Interventi di formazione e qualificazione;
Supporto finanziario per l’acquisto di abitazione;
Supporto economico per la gestione della transizione dall’occupazione militare a quella civile.
Gli anni ’60 connotano una dinamica occupazionale inversa, incentrata sull’espulsione di forza di lavoro in esubero a motivo delle
restrizioni del mercato del lavoro e delle opportunità, dei processi di downsizing generati dal radicale riposizionamento dei
sistemi produttivi per effetto del nuovo assetto del mercato e degli stili di consumo.
Ad accompagnare questo processo di nascita e rinascita dell’outplacement vi è una figura che partecipa alle fasi di fondazione
e sviluppo delle pratiche di intervento; si tratta di Bernard Haldane, che realizza il suo primo intervento operando come
pioniere nel programma GI Bill Act con i veterani della seconda guerra mondiale fino al 1947 e che realizza il progetto di
outplacement all’approssimarsi della crisi degli anni ’60 e ’90 fornendo la sua consulenza per la Humble Oil Company, a partire
dalla fine degli anni ’60.
I confini dell’outplacement
A partire dalla storia originaria, l’outplacement può essere definito come l’impegno delle organizzazioni a realizzare interventi di
sostegno a fronte di una disconferma o rottura del contratto psicologico implicito tra dipendente e organizzazione. Al
momento dell’assunzione, l’aspettativa è stabilire un contratto a tempo indeterminato. Se esigenze organizzative impongono una
riduzione di personale, ciò determina una sorta di tradimento e comporta la messa in campo di strategie e interventi di
consulenza necessari per gestire la fuoriuscita dall’organizzazione e la ricerca di possibili opportunità occupazionali sostitutive:
l’outplacement.
Alla radice di tutta la problematica che dà ragione dell’esistenza delle strategie di outplacement, va collocato il tema del
rapporto individuo-posto di lavoro, per quel che attiene alla dimensione contrattuale, le implicazioni relative alla stabilità e alla
sicurezza. L’attuale dinamica del mercato del lavoro prospetta una sorta di slittamento di significato che va dalla cultura della job
security a quella della work security, in allineamento con i processi di destrutturazione dei sistemi organizzativi.
La work security riguarda la gestione del proprio processo di apprendimento continuo (continual learning) e della propria abilità di
gestione del trasferimento della capacità di occupabilità da un contesto di lavoro a un altro. Tale questione è stata più volte
connessa al tema della employability. Il commitment e impegno individuale sono funzione dell’apprendimento continuo, della
preparazione costante per la successiva esperienza di lavoro.
L’affermazione della cultura e della pratica dell’outplacement va collegata alle trasformazioni della natura del rapporto di lavoro –
dalla job security alla work security – implicando lo sviluppo di un insieme di servizi che le organizzazioni offrono ai propri ex
collaboratori per fronteggiare la perdita di lavoro e la conseguente gestione del processo di transizione per una nuova
opportunità occupazionale.
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L’esigenza è quella di competere in un mercato sempre più globale e di rispondere alla necessità di inglobare l’innovazione
tecnologica negli assetti organizzativi. È un cambiamento del mercato che ha generato riposizionamenti delle agenzie di
outplacement.
In questa prospettiva, le modalità e le ragioni per cui le organizzazioni fanno ricorso all’outplacement registrano un cambiamento
a partire dalle impostazioni originarie: si tratta di un cambiamento del mercato che ha generato riposizionamenti nella mission,
nelle funzioni, nelle modalità operative e negli assetti organizzativi delle agenzie di outplacement. Le linee di caratterizzazione di
tali trasformazioni sono le seguenti:
Da un servizio “sconosciuto” a una “corporate commodity” alla promessa di un’occupazione duratura, di un posto di
lavoro sicuro, di una confortevole prospettiva di pensione si sostituisce l’offerta, da parte dell’organizzazione, di servizi
di consulenza, di accompagnamento e di formazione necessari per fronteggiare l’eventualità di un licenziamento e
l’opportunità della ricerca di un nuovo lavoro;
Dal contenzioso giuridico-sindacale sul lavoro ai servizi di outplacement. Per fronteggiare senza conflitti questa
situazione, le imprese incoraggiano con incentivi le dimissioni volontarie e quindi intervengono offrendo servizi di
outplacement per accompagnare e gestire il percorso di licenziamento o di dimissione con la possibilità di
individuare nuove opportunità di business occupazionali;
Dal contesto locale a quello nazionale/internazionale. I servizi si affermano anche in relazione al contesto di riferimento che
vede la globalizzazione come un fenomeno sempre più in evoluzione.
Corporate efficiency, riduzione dei costi e cambiamento dei valori. All’espansione della domanda, da parte degli utenti
maggiormente consapevoli e responsabili, la risposta organizzativa è quella di spalmare gli interventi di consulenza e di
sostegno al fine di ridurre i costi e l’impatto delle azioni di outplacement sui programmi e sul budget aziendale;
Cambiamento della natura dei servizi di outplacement. dall’approccio di consulenza individuale a una prospettiva
operativa; dal target di utenza rappresentato dagli alti livelli del management agli executive e alla dirigenza di livello
intermedio; dai piani di intervento standard ai programmi di durata variabile customizzati; da un approccio di
consulenza personale all’introduzione di strumenti informatici in linea con la nuovo filosofia di intervento basato su
strategie di technology based job replacement;
Cambiamento delle domande degli utenti: questi ultimo risultano più competenti e informati circa I vari ambiti e le
molteplici variabili che condizionano il contesto organizzativo.
Linee di tendenza attuali delle attività di consulenza per l’outplacement che integrano molteplici aspetti dei contesti
organizzativi.
– Servizi di career transition/outplacement integrati con interventi di career management e organizational
consultino service;
– Servizi di outplacement agiti in parallelo con attività di erogazione di lavoro temporaneo e di forme di
occupazione ad interim;
– Servizi di outplacement che prefigurano posizionamenti e connessioni con attività di International executive
coaching;
– interventi di outplacement integrati con un set comprensivo di servizi di human resource consulting in un
sistema di internazionalizzazione delle organizzazioni.
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Il profilo di competenze del consulente per l’outplacement, così come stabilito dalle linee guida dell’International Board of
Career Management Certification (IBCMC) include un ampio set di competenze, distinto in core competencies e selected
competencies che riguardano i seguenti ambiti:
Conoscenze del mondo delle imprese e delle organizzazioni produttive;
Competenze nel counseling psicologico e nelle pratiche di sviluppo e formazione professionale;
Conoscenze specialistiche relative ai settori e brand di intervento;
Competenze specifiche nel career management e career development.
L’Institute of Career Certification rappresenta proprio l’accertamento della presenza di qualità professionali dei consulenti che si
occupano di tali transizioni lavorative.
In Italia ci sono l’APRO e l’AISO, due associazioni che si occupano di accreditare I professionisti.
Modelli di outplacement
Le implicazioni che scaturiscono dal livello di coinvolgimento del soggetto rispetto alla propria carriera e al proprio destino
professionale rendono necessari interventi di consulenza per l’outplacement a fronte di:
Persistenza di sentimenti di colpevolizzazione e recriminazione per la perdita del lavoro;
Emergenza di risposte individuali alla perdita di lavoro tradotte in manifestazioni di ansia, paura, abbassamento della
stima personale ecc;
Persistenza di una cultura aziendale di squalifica del soggetto che ha perso il lavoro ed è in cerca di nuove opportunità
occupazionali;
Difficoltà a recuperare le stesse condizioni salariali e di status dopo la perdita di lavoro;
Pressione familiare e sociale per il ripristino delle condizioni occupazionali in ragione delle esigenze esistenziali e di
mantenimento dello status;
Incapacità personale di attivare e valorizzare competenze di ricerca attiva di lavoro;
Emergenza del divario generazionale nelle situazioni di ricerca di lavoro.
Il servizio di outplacement prevede la presenza di diversi modelli di lettura, ognuno specificamente collegato ad un dato
momento con caratteristiche sociali ed economiche uniche.
Le implicazioni emotive che animano il soggetto rispetto alle proprie transizioni di lavoro richiedono la presenza di questo
servizio, volto a far fronte a sentimenti di colpevolizzazione, ansia, paura, pressioni familiari, emergenza del divario generazionale
nelle situazioni di ricerca di lavoro, incapacità di valorizzare le competenze di ricerca etc.
La presenza di questo servizio aiuta il soggetto a gestire la propria personal transition, e le sue correlazioni emotive a stampo
negativo, e consente all’organizzazione di migliorare la propria immagine in quanto fornitrice di una soluzione al momento critico
della perdita del lavoro.
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Lewis propongono un modello composto da sette fasi di transizione che segnano la perdita del lavoro come momento di lutto; le
prime quattro fasi coincidono con il modello di Kubler-Ross ma vengono diversamente etichettate.
a) Immobilization – Shock derivante dal disallineamento tra realtà e aspettative;
b) Denial of change – Negazione e minimizzazione degli effetti del cambiamento di stato;
c) Incompetence – Esperienza e consapevolezza dell’inadeguatezza per la nuova situazione;
d) Acceptation of reality – Accettazione e disponbilità ad agire nella nuova realtà;
e) Testing out – Individuazione e scoperta di nuove opportunità nella nuova situazione;
f) Search for meaning – Internalizzazione della situazione;
g) Integration – Cambiamento del punto di vista e incorporazione del significato attraverso i comportamenti.
Ogni soggetto elabora e struttura la propria modalità di gestione della transizione che sembra corrispondere a tre stili:
a) Reattivo – L’individuo nega la necessità di cambiamento;
b) Ingenuo – L’individuo rifiuta ogni cosa della passata esperienza;
c) Confronto personale – L’individuo si serve delle proprie capacità per adattarsi alla nuova situazione.
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Replacement candidate Il lavoratore, da risorsa in esubero per l’azienda, si riposiziona come candidato per una
nuova occupazione, attraverso un processo di formazione e consulenza finalizzato alla redazione di un curriculum
dedicato e all’organizzazione di una strategia di “marketing” presso potenziali datori di lavori. Si tratta di un insieme di
interventi di riqualificazione delle competenze del candidato necessarie per affrontare le opportunità e le complessità del
mercato del lavoro:
Accesso ed esplorazione dei database relativi al mercato dell’offerta di lavoro.
Sviluppo di capacità di placamento relativamente al mercato di lavoro disponibile. Si tratta di sviluppare capacità
nel condurre network meetings, nel rispondere agli annunci di lavoro e fornirsi di nuovi contatti.
sociale.
I ReServist sono pensionati o lavoratori che hanno intenzionalmente abbandonato un posto di lavoro e che intendono
valorizzare le loro potenzialità e le loro risorse per una nuova opportunità di impegno sul piano sociale, attraverso opportune
forme di consulenza di outplacement.
La consulenza per l’outplacement, quindi, si definisce come un sistema di servizi e risorse che tendono a riparare il momento
negative caratterizzato dalla perdita del lavoro valorizzando le risorse e potenzialità del soggetto a favore di una future
ricollocazione.
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