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Riassunto - libro "Psicologia delle Risorse Umane" di


Argentero, Cortese, Piccardo - psicologia dello sviluppo e
dell'educazione - a.a. 2015/2016
Psicologia dello Sviluppo e dell'Educazione (Università degli Studi di Padova)

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Psicologia delle risorse umane


(Argentero, Cortese, Piccardo)

Capitolo 2. La selezione del personale


Definizione e ofjiettivi della selezione
La selezione del personale è un elemento fondamentale per il successo delle aziende. Nell’attuale contesto di competizione
economica globale, le imprese dedicano grandissima attenzione anche al loro capitale umano e intellettuale.
La selezione del personale può essere vista come l’insieme delle operazioni che vengono effettuate ogni volta che un’organizzazione
deve reperire e valutare uno o più individui in possesso di requisiti fisici, psichici, professionali e culturali necessari per svolgere una
determinata mansione.
Secondo molti autori la selezione è un processo volto alla valorizzazione delle caratteristiche proprie dell’individuo e alla successive
valutazione di esse, con conclusive scelta di quei soggetti le cui caratteristiche risultano essere più congrue alla posizione aperta. Da
un punto di vista concettuale, la selezione consiste nella scelta di un soggetto destinato a una mansione nella quale si prevede
che le sue qualità trovino la migliore utilizzazione; da un punto di vista tecnico, essa consiste invece nell’individuazione e
nella misurazione, per mezzo di determinati strumenti, delle qualità e dei requisiti del soggetto, in relazione alle caratteristiche
delle mansioni.
La selezione del personale può essere intesa come un macroprocesso che comprende al suo interno una serie di sottoprocessi,
situandosi tra la fase precedente del reclutamento e quella successiva dell’inserimento; è il momento gestionale in cui
l’azienda, dopo aver reclutato aspiranti dipendenti, procede a scegliere le persone più adatte a ricoprire le posizioni disponibili.
Un’organizzazione può utilizzare la selezione per due scopi:
– Reclutare e valutare il nuovo personale da assumere.
– Valutare le competenze e il potenziale di persone già assunte.
Nel primo caso la selezione è centrata sul lavoro, perché esamina le competenze della persona per comprendere se è idonea a
ricoprire una determinata posizione.
Nel secondo caso è un processo di orientamento dove le persone vengono esaminate per capire se sono adatte a ricoprire un ruolo
maggiore.
Ci sono dei principi da rispettare all’interno di una selezione; uno di questi stabilisce che essa sia condotta da esperti ed è, inoltre,
necessario utilizzare strumenti standardizzati che assicurano affidabilità e validità, oltre che rispettare norme ed etica propria del
contest in cui la si svolge.

Evoluzione storica
Tutti gli approcci sviluppati fino ad ora sulla selezione del personale, ruotano intorno al paradigma delle differenze individuali, il
quale afferma la diversità delle caratteristiche tra le persone. La grande diversità delle mansioni e dei lavoratori rende necessaria
la predisposizione di programmi per la selezione e il collocamento. Alla luce di ciò, l’obiettivo della selezione dovrebbe essere
quello di assegnare ogni individuo al lavoro più adatto per lui e per l’azienda.
Lo studio specifico della “psicologia delle differenze” con metodi scientifici per la loro misurazione è fatto risalire da
Dunnette (2002) a Francis Galton, che presentò un sistema di classificazione degli individui secondo le loro abilità.
Galton (1896) presentò un sistema di classificazione degli individui secondo le loro abilità. Per lungo tempo gli psicologi si sono
occupati della psicologia delle differenze provando a identificare, descrivere e misurare le diversità nelle attitudini, provando a
determinare le caratteristiche richieste dagli specifici impieghi e costruendo metodologie per misurare qualità richieste. Essi da
un lato hanno studiato le attività lavorative, dall’altro hanno selezionato e costruito metodologie per misurare le qualità richieste.
L’utilizzo dei primi test mentali di orientamento psicomotori per misurare i tempi di reazione, risale alla fine dell’ottocento. A
questa concezione furono sottoposte molte critiche, una delle quali fu formulata da Binet il quale sosteneva che c’era la necessità
di studiare i processi mentali più complessi come l’immaginazione, la memoria, l’attenzione e la comprensione.
Fu questa critica che decretò la nascita del primo test di intelligenza messo a punto nel 1905 da Binet e Simon. In seguito ci fu
una revisione da parte di Terman della scala Binet-Simon per far si che ci fossero norme che consentissero la somministrazione a
soggetti dai 3 anni in all’età adulta.
Altre situazioni che comportarono lo sviluppo di altri test di intelligenza furono le selezioni dei soldati durante la Prima guerra
mondiale (Army alpha per analfabeti e Army Beta per gli altri).
Durante gli anni ’30 le differenti opinioni sulla natura dell’intelligenza condussero alla costruzione della Wechsler-Bellevue
Intelligence Scale, una scala per la misurazione dell’intelligenza che non solo forniva un indice delle abilità mentali generali, ma
rivelava anche i punti di forza e di debolezza dell’intelligenza. In seguito, tuttavia, l’interesse nei confronti della misurazione
dell’intelligenza in quanto tale è diminuito, mentre è aumentata l’attenzione verso le strategie e le modalità cognitive utilizzate
per risolvere i problemi proposti dai test.
La selezione era diventata una scienza, o meglio un’attività che richiedeva un rigore scientifico: curando maggiormente i test,
aggiungendo nuovi predittori alle batterie, poteva essere incrementata la loro validità per produrre, di conseguenza, previsioni
accurate.
Negli anni ’60 e ’70 emergono importanti questioni all’interno della società a proposito della dignità e dei diritti del lavoratore e
della discriminazione in campo lavorativo. La somministrazione di test era fortemente criticata. Nel contesto Europeo si iniziò

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a richiedere in particolare il diritto al trattamento confidenziale dei dati, il diritto alla privacy, il diritto di essere informati sui
contenuti emersi dalla selezione.
Negli anni ’60 questo problema venne affrontato dal Congresso americano che introdusse sanzioni contro i datori di lavoro che
compissero discriminazioni nei confronti delle minoranze. Tale cambiamento ha fatto si che ci fossero nuovi atteggiamenti da
parte del selezionatore che doveva considerare anche la valenza esercitata da aspetti quali la motivazione e la sicurezza percepite
dal lavoratore. Piano piano, si modificano la valutazione della personalità e delle attitudini cognitive: si passa dal clerical test, che
valutano le capacità cognitive in base alla velocità di esecuzione dei compiti, a test per misurare la capacità di tipo logico-
simbolico. Ciò comporta nuovi atteggiamenti da parte del selezionatore nei confronti del selezionato. Più di recente si riconosce
invece ai candidati coinvolti nel processo di selezione un ruolo più attivo e partecipativo: i soggetti esprimono idee, obiettivi e
motivazioni durante le varie fasi di valutazione. Tali condizioni favoriscono pertanto una selezione intesa come processo a due
vie, dinamico, di interazione, il cui esito è deciso dal selezionatore ma anche dal candidato.
Un secondo elemento aggiuntivo è quello che porta a considerare il processo di selezione come espressione delle politiche
aziendali di gestione delle risorse umane (GRU) volte poi a raggiungere determinate scopi.

Aspetti legislativi e normativi


L’attività di selezione può essere influenzata dal contesto legislativo entro cui viene svolta.
La selezione delle risorse umane, quindi, non può trascurare l’approfondita conoscenza di normative, leggi e decreti che
sanciscono i principi giuridici di base da seguire. In Italia sono sempre più numerose le normative che, a partire dallo
Statuto dei Lavoratori fino alla più recente riforma Biagi hanno lo scopo di tutelare i diritti dei lavoratori. In passato alcune
aziende effettuavano inserzioni anonime di ricerca di personale. Con l’entrata in vigore della riforma Biagi questo non è più
possibile.
Anche la Legge 903/1977 sulla parità del trattamento tra uomini e donne è intervenuta, nell’ambito della selezione del
personale, per impedire che le ricerche si svolgano attraverso forme di discriminazione.
Per quanto riguarda la privacy, la Legge 675/1996 e il D.Lgs 196/2003 indicano molte norme riferibili al trattamento dei dati
acquisiti mediante l’attività di ricerca e selezione del personale. In particolare, i dati contenuti nei curricula e tutte le
informazioni raccolte attraverso colloqui e test devono adeguatamente protetti.

La tutela della libertà e della dignità dei lavoratori


Le norme dello Statuto dei Lavoratori precisano i diritti fondamentali di tutela della libertà e della dignità del lavoratore nella
gestione del personale. L’articolo 1 costituisce una norma di principio che delinea i valori essenziali e i riferimenti
fondamentali cui si ispira il provvedimento di legge. L’articolo 8 ribadisce il rispetto della personalità e del credo delle persone.
Sono invece permesse le indagini riguardanti i lavori svolti in precedenza o gli studi fatti. Nell’articolo 15, viene invece precisato
che è da considerarsi nullo qualsiasi atto volto a licenziare un lavoratore sulla base del sesso, della razza, della lingua e della
religione.

Le pari opportunità nel mondo del lavoro


In Italia esistono diverse leggi che tutelano e garantiscono l’uguaglianza tra i generi. Nella dichiarazione dei diritti
fondamentali della persona, la Costituzione italiana riconosce questo principio di parità. La Legge 903/1977 ha vietato
qualsiasi discriminazione basata sull’appartenenza di genere per quanto riguarda l’accesso al lavoro, la retribuzione,
l’attribuzione di qualifiche, di mansioni e la progressione di carriera in tutti i settori e rami dell’attività economica e a tutti i
livelli della gerarchia professionale. Una svolta significativa è stata data dalla legge 125/1991 che si è posta gli obiettivi di
promuovere l’occupazione femminile e di realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne a lavoro. Il divieto di discriminare
concerne anche l’etnia, la razza, la cultura ecc.

Aspet etici e deontologici


L’attività di selezione del personale deve tener conto anche di alcuni importanti aspetti etici e deontologici.
Nonostante le differenze presenti nei vari paesi, sono stati generalmente individuati e riconosciti alcuni principi
fondamentali che possono essere suddivisi in quattro categorie principali:
– Il rispetto dei diritti e della dignità dei candidati;
– La professionalità e la competenza del valutatore;
– La responsabilità del valutatore;
– I diritti del valutatore.
Alla base di questi principi c’è il rispetto delle esperienze, delle caratteristiche e dei punti di vista del candidato, che non
va valutato in generale, ma solo relativamente alle caratteristiche e capacità rilevanti per il lavoro. Poiché in molti casi il
selezionatore è uno psicologo, può essere utile richiamare quanto previsto dal Codice deontologico degli psicologi italiani.
L’articolo 9 sancisce che lo psicologo è tenuto ad informare i soggetti coinvolti adeguatamente anche riguardo al proprio nome,
al proprio status scientifico e professionale. L’articolo 4 stabilisce che lo psicologo rispetti la dignità, il diritto alla riservatezza di
coloro che si avvalgono delle sue prestazioni, le credenze e ed opinioni.
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Il candidato, al termine della valutazione, ha il diritto di ricevere un feedback sul giudizio finale e ha la possibilità, se lo
desidera, di ricevere un feedback sul giudizio finale e ha la possibilità, se lo desidera, di ricevere una copia del documento
consegnato al datore di lavoro. Inoltre ha il diritto di verificare i risultati ottenuti nelle prove di valutazione.
Lo specialista della selezione del personale deve essere responsabile della qualità del suo lavoro professionale e deve essere
cosciente del ruolo e delle possibili conseguenze del suo operato. Egli deve raccogliere solo le informazioni essenziali, rilevanti,
utili in vista degli obiettivi della valutazione. Inoltre, in base all’articolo 11, lo psicologo è tenuto al segreto professionale. Egli è
responsabile della sua formazione, deve avere un atteggiamento neutro e deve essere cosciente del proprio ruolo. L’art. 19
sancisce che la valutazione entro un contesto di selezione deve rispettare I principi che caratterizzano tale contesto.

Fasi e strumenti del processo di selezione


Il processo di selezione che conduce alla ricerca e alla scelta del candidato finale è composto da 5 fasi: Job Analysis,
Reclutamento, Selezione, Inserimento e Valutazione degli esiti della selezione.

Job analysis
Prima di avviare il reclutamento e la selezione del personale si devono individuare e precisare i profili professionali da ricercare in
base alle caratteristiche che un possibile candidato potrà ricoprire. Individuare un profilo professionale significa definire i job
requirements della posizione, cioè i requisiti e le caratteristiche richiesti per ricoprire adeguatamente l’incarico previsto, oltre che
un’adeguata conoscenza dell’azienda.
Ogni procedura di selezione deve fondarsi su una precedente analisi del lavoro (job analysis) che include la job description, cioè
la descrizione delle attività relative alla mansione, e la job specification cioè la descrizione dei requisiti che le persone devono
avere (conoscenze, abilità, competenze).
La Job Analysis si occupa della definizione delle mansioni e dei comportamenti richiesti ai lavoratori, descrivendone il compito, le
conoscenze e abilità richieste, allo scopo di fornire riferimenti su cui costruire il successive passaggio di reclutamento e selezione.
I metodi più diffusi per raccogliere informazioni per la comprensione e l’analisi dell’attività lavorativa sono:
 L’osservazione diretta.
Consiste nell’osservare per un certo periodo di tempi tutto ciò che una persona fa mentre lavora senza apportare commenti.
Permette di registrare un numero elevato di informazioni da una fonte diretta, ma va integrata con l’intervista. Il vantaggio
consiste nell’uniformità delle informazioni ottenute, a danno dei tempi e dei costi che sono assai elevate. Inoltre la presenza di
un osservatore potrebbe alterare i comportamenti prestati dai dipendenti.
 L’intervista.
È importante utilizzarla a completamento dell’osservazione. È effettuata da un esperto e può essere più o meno strutturata, a
seconda anche si segua o meno uno schema, e aiuta a reperire una notevole quantità e varietà di informazioni (opinioni
sull’ambiente, clima e cultura organizzativa dell’azienda).
Nonostante possa produrre una ricchezza accumulabile di materiale, consenta di approfondire argomenti importanti o poco
chiari, produrre risultati omogenei e attendibili, anche in questo caso tempi e costi sono elevate e inoltre richiede una specifica
preparazione.
 Episodi critici e diari di lavoro.
Viene chiesto agli esperti di una mansione di identificare gli aspetti critici della prestazione che conducono al successo o al
fallimento in una specifica attività. Un altro metodo è far tenere un diario ai lavoratori delle loro attività, che fa emergere gli
elementi lavorativi più significativi.
 Il questionario.
Elenco di compiti e di responsabilità a cui attribuire un punteggio ponderato. Richiede dei costi ridotti, essendo uno strumento
standardizzato, ma non garantisce flessibilità nell’analisi dei casi esaminati e richiede un’accurata preparazione e un’approfondita
conoscenza delle posizioni.

Chiaramente la combinazione di tutti gli strumenti può aumentare i vantaggi e assicurare maggiore validità.
Sulla base dei dati raccolti attraverso la job analysis è possibile definire gli elementi personali che assumono rilievo nello
svolgimento di specifici compiti.
L’insieme dei requisiti raccolti, oggettivi (es. Età o genere) e soggettivi (es. Motivazione), rappresentano lo strumento per
paragonare i nuovi candidati al profilo “ideale” tracciato e quindi identificare colui che potrebbe ottenere la mansione.

Reclutamento
Una volta definita la natura dell’attività da svolgere e i requisiti richieste prende avvio l’attività che consiste nel ricercare persone
con qualità tali da soddisfare le esigenze di sviluppo aziendale: il reclutamento.
Esso è composto dalle seguenti fasi:

 Raccolta delle candidature potenzialmente interessanti, attraverso canali interni o esterni all’azienda.
Il selezionatore può scegliere se procedere tramite un’inserzione sul giornale, un annuncio televisivo o radiofonico, ricerca nelle
università, consultare l’archivio. La scelta del canale di reclutamento viene fatta in base al tipo di candidato che si intende

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raggiungere e alle sue caratteristiche personali e anche in base alle possibilità di spesa dell’azienda.
I canali di reclutamento possono essere interni o esterni all’azienda: i canali interni sono indirizzati a lavoratori già assunti
nell’organizzazione mentre I canali esterni si rivolgono ai potenziali lavoratori che non sono ancora membri dell’organizzazione.

 Screening dei candidati.


Una volta raccolte le candidature, inizia la fase di screening dei curriculum, con lo scopo di verificare se le caratteristiche dei
dipendenti corrispondono a requisiti del candidato ideale.
A questo punto il selezionatore può decidere di condurre dei colloqui individuali o di gruppo, oppure di utilizzare dei test o altri
strumenti di valutazione, con i candidati che sono risultati più rispondenti alle esigenze e ai requisiti richiesti.

 Convocazione dei candidati.


Il reclutamento si conclude con la convocazione delle persone giudicate interessanti per l’organizzazione. Possono essere
convocati per altre analisi per ottenere informazioni aggiuntive sugli aspetti personali del candidato per presentare l’azienda e il
ruolo da ricoprire ( Importante nella formazione delle impressioni e dell’intenzione di entrare a fare parte dell’organizzazione).

Selezione
Le diverse metodologie di selezione vengono scelte in base agli obiettivi dell’azienda, ai requisiti da indagare, ai costi e ai tempi a
disposizione.
Le principali metodologie per la selezione sono l’intervista individuale, gli assessment center e i test. Il metodo più impiegato
nelle aziende è il colloquio individuale, perché è utile per raccogliere una buona quantità di informazioni ed è la tecnica di più
facile somministrazione.
Il selezionatore nell’ intervista (o colloquio) individuale si pone come obiettivo quello di individuare la personalità, gli interessi e
le motivazioni del candidato; a sua volta il candidato è interessato a capire se l’azienda e il lavoro offerto sono adatti alle sue
aspirazioni.
I colloqui di gruppo (assestment center) si rivelano utili per esaminare come l’individuo si comporta quando è inserito in un
gruppo a cui è stato affidato un compito, per valutare le sue capacità di relazione, di leadership e di problem solving. Il
selezionatore, il più delle volte, funge da osservatore durante le prove e non interviene nella discussione.
Oltre a queste due tipologie ci sono il colloquio in serie e il colloquio panel. Nel colloquio in serie il candidato sostiene diversi
colloqui con più selezionatori che integreranno i loro punti di vista. Nel colloquio panel invece, il candidato sostiene il colloquio
in presenza di più selezionatori che pongono domande alternandosi tra loro.
Anche attraverso l’uso di diverse tipologie di test è possibile valutare la personalità dell’individuo e comprendere meglio il suo
carattere. Devono essere valutati attentamente per essere adattati alle giuste situazioni e ben somministrati.
Dopo l’applicazione degli strumenti scelti, il selezionatore stabilisce una graduatoria dei soggetti maggiormente rispondenti al
profilo del candidato ideale, in base alle diverse informazioni che informazioni che ha raccolto.
È importante tenere conto che alcuni studi hanno rilevato che le valutazioni possono essere influenzate da alcuni fattori connessi
alle caratteristiche demografiche dell’esaminato, come ad esempio:
 il genere  I maschi sono di solito valutati meglio, hanno maggiori possibilità di essere assunti e uno stipendio più alto
rispetto alle donne;
 provenienza etnica  È stato individuato “l’effetto stessa razza”, secondo il quale l’appartenenza alla medesima razza
dell’intervistatore favorisce una valutazione positive;
 età  Alcune ricerche dimostrano che le similarità demografiche provochino degli errori di valutazione che favoriscono
i candidati più simili all’intervistatore.

Sarebbe opportuno che il selezionatore neutralizzasse l’influenza dei fattori descritti. Per questo la fase di selezione è il momento
più delicato della selezione del personale.
In particolare, durante la valutazione, il candidato è interessato a essere valutato positivamente, cercherà quindi di mostrare le
sue migliori caratteristiche, assumendo strategie come l’integration e la deception. L’integration è composto da quei
comportamenti verbali e non verbali che il candidato mette in atto in modo intenzionale per riscuotere un’impressione positiva
nei confronti del selezionatore. La deception è l’insieme di quei comportamenti che il candidato fa con l’intento di nascondere
quegli aspetti personali che egli considera negativi. È compito del selezionatore prestare attenzione sia ai comportamenti verbali
che ai comportamenti non verbali del candidato.
Una volta che il profilo professionale (esperienze professionali e attività svolte) e psicologico (comportamenti, caratteristiche
personali, valore e aspettative) del candidato e la valutazione sono state redatte, l’esito viene presentato alla committenza
affinché questa possa compiere una scelta fra i candidati proposti.

Accoglimento e inserimento
L’azienda sceglie infine il candidato da assumere e avvia le ultime fasi del processo di selezione, relative all’accoglimento e
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all’inserimento del candidato individuato. È interessante notare come nelle organizzazioni, spesso, venga data maggiore
importanza al processo di valutazione e venga invece trascurata la fase di inserimento, che, in realtà, rappresenta un
momento critico per il neoassunto in vista della sua futura integrazione aziendale e dell’assimilazione delle modalità
comportamentali tipiche dell’organizzazione.
L’accoglimento può essere definito come l’insieme di iniziative e contatti programmati volti a fornire al neoassunto tutte le
informazioni utili per il lavoro e le regole generali di convivenza.
L’inserimento consiste in un programma di azioni di formazione, addestramento e assistenza volto a consentire al nuovo assunto
la conoscenza e l’adeguamento alle procedure dell’azienda. Mentre l’accoglimento è volto a fornire al neoassunto tutte le
informazioni di tipo generale, l’inserimento consiste in un programma di azioni di formazione, addestramento e assistenza volto
a consentire l’adeguamento alle procedure, ai metodi di lavoro dell’azienda. Importante per ogni azienda per trasmettere la
cultura aziendale, le regole di convivenza, le conoscenze e le competenze relative al ruolo di ciascuno

Criticità e valutazione del processo di selezione


L’essenza del processo di selezione consiste nella previsione del futuro comportamento lavorativo del candidato. La
previsione porta con sé molte incertezze: anche quando il programma di selezione è ben progettato, non tutte le previsioni
sul futuro lavorativo dell’individuo possono essere corrette. Ci sono molti fattori sull’attendibilità della previsione: il numero di
informazioni che si possono ottenere dai candidati, l’accuratezza e della completezza dei dati forniti, la quantità delle variabili
capaci di incidere sulla prestazione lavorativa.
Data l’importanza del processo di selezione e valutazione svolto dal selezionatore, è auspicabile che, a distanza di tempo,
venga verificata l’efficacia del processo stesso.

Conclusioni
Gli specialisti che agiscono come consulenti della selezione possono offrire all’organizzazione tre contributi:
a) Partecipare alla progettazione e al miglioramento dei processi di selezione. In questo modo i manager possono venire
affiancati da consulenti esperti nel processo di selezione.
b) Facilitare il processo di valutazione. Si possono suggerire le modalità più idonee per raccogliere le informazioni, per
valutare e decidere quale alternativa sia preferibile.
c) Consigliare il management. Incontro tra la dirigenza è l’esperto dove può esprimere il suo punto di vista prima della
decisione finale.
Diversi studi hanno approfondito anche le possibili evoluzioni di questo processo nel futuro. Secondo Cook e Cripps assisteremo
a un incremento del numero di test psicologici, l’utilizzo del computer e di strumenti web, lo sviluppo del lavoro in team e uso di
test di abilità per valutare le differenze individuali dei candidati.
Secondo le previsioni proposte, in futuro sarà necessaria una maggiore contestualizzazione delle valutazioni individuali che si
vedranno, quindi, inserite e confrontate in un contesto più ampio, ed una maggiore integrazione relativa al rapporto tra ricerca
scientifica e applicazione pratica.

Capitolo 3. L’orientamento professionale


Il termine “orientamento professionale” si riferisce all’insieme di pratiche finalizzate a sostenere la persona, in qualunque età e
fase della vita si trovi, nelle sue scelte formative e lavorative e nella gestione della carriera.
La psicologia dell’orientamento si caratterizza quindi per la duplice tensione rivolta, da un lato, all’individuazione dei principi
esplicativi dell’evoluzione naturale della carriera delle persone e, dall’altro, allo sviluppo di pratiche di sostegno a questo processo.
Guardando l’evoluzione storica della disciplina, nei primi anni del novecento troviamo il modello diagnostico-attitudinale con un
approccio psicotecnico che ha messo a punto strumenti di assessment delle caratteristiche personali. Tra gli anni ’30 e ’50
insorge il modello caratterologico-affettivo che concentra l’attenzione sulla rivelazione degli interessi professionali, aprendo così
la strada ad un approccio di tipo clinico-diagnostico. A partire dagli anni 70 si affermano teorie con un modello di tipo
maturativo-personale che leggono l’evoluzione della carriera in relazione allo sviluppo personale.
Lo sviluppo dell’orientamento professionale va quindi letto secondo una prospettiva che vede il susseguirsi di varie fasi che
valutano un numero crescente di fattori.

Le origini della psicologia dell’orientamento

Il contributo della psicotecnica


La prospettiva psicotecnica prende avvio dagli studi sulle componenti psicosensoriali alla base delle prestazioni individuali.
L’obiettivo dell’orientamento è quello di scoprire il nesso tra le attitudini individuale e le caratteristiche richieste per l’esercizio di
una professione.
Nel suo trattato Choosing a Vocation , Parsons (1909) postula l’importanza di fondare le scelte di carriera sulla corrispondenza
fra tratti personali e caratteristiche del lavoro. In particolare sostiene che nella scelta professionale intervengono tre fattori:
una comprensione chiara di se stessi, delle proprie attitudini e capacità; una conoscenza articolata dei differenti ambiti lavorativi
in termini di requisiti richiesti, remunerazioni, vantaggi, svantaggi, ecc.; un’analisi attenta tra le relazioni che ci sono tra questi

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due fattori
Secondo questo approccio le scelte professionali sono compiute razionalmente, quindi lo scopo è di informare la persona rispetto
alle proprie caratteristiche per fornire gli elementi affinché egli compia una giusta scelta. Il soggetto è dunque passivo in quanto
c’è scarsa attenzione all’autorealizzazione individuale, mentre è prevalente il tentativo di sviluppare strumenti in grado di
collocare, con un sufficiente grado di precisione, l’uomo giusto al posto giusto.
È questo il momento che vede l’introduzione dell’analisi fattoriale e della psicotecnica anche in ambito professionale e di
orientamento. Questo portò alla costruzione di test ancora oggi utilizzati, in particolare sviluppati dagli studi statunitensi, ma che
sono stati tradotti in italiano.  Test usati: DAT (differential aptitude test) e GAT (General ability test).

Il ruolo dell’intelligenza
Similarmente a quanto tentato con le attitudini, si e cercato di associare le differenti dimensioni dell’intelligenza alle scelte
professionali, al fine di cercare “profili intellettivi” tipici per ogni occupazione. L’intelligenza è generalmente definita come
capacità adattiva di apprendimento, per questo si ritiene possa essere predittiva dell’adattamento ad ambienti formativi e
lavorativi.
Gli studi sull’intelligenza, storicamente, possono essere ricondotti a due orientamenti: uno che la vede come una capacità generale
(fattore g) e che si esplica in relazione ai molteplici fattori con cui entra in contatto, l’altro che la considera come multifattoriale.
Sulla base di questi concetti, Binet si dedicò alla costruzione di uno strumento per misurare le funzioni intellettive complesse che
prevedeva il confronto tra età cronologica ed età mentale per misurare il ritardo mentale. Il rapporto tra età mentale ed età
cronologica moltiplicato per 100 offre l’indice generale del Quoziente Intellettivo (QI).
Alla fine degli anni ’30 il metodo di misurazione unidimensionale dell’intelligenza fu messo in discussione; attraverso
l’applicazione dell’analisi fattoriale, Thurstone identificò diversi fattori, che chiamò abilità primarie.
Oggi i test utilizzati si dividono ancora rispetto all’approccio unidimensionale o multidimensionale dell’intelligenza. Nel campo
dell’orientamento, alcuni autori associano le differenti dimensioni dell’intelligenza alla possibilità di riuscita in differenti campi
professionali.

Il rapporto persona-ambiente
La teoria dell’adattamento al lavoro e la teoria d ella corrispondenza persona-ambiente (Dawis, 1996) rappresentano le
principali evoluzioni dello storico approccio introdotto da Parsons. Secondo questi autori, infatti, la soddisfazione lavorativa
può essere predetta dal grado di corrispondenza tra le caratteristiche della persona e quelle dell’occupazione. Nello specifico,
le caratteristiche della persona sono definibili in termini di abilità e bisogni. Riguardo alle caratteristiche del lavoro,
un’occupazione può essere descritta rispetto alle abilità richieste e alle ricompense previste per il suo svolgimento. Al momento
della scelta vocazionale, la persona deve individuare un’occupazione corrispondente alle sue abilità e bisogni. Quindi la
persona deve individuare un’occupazione corrispondente alle sue abilità e bisogni. Una volta intrapresa l’attività lavorativa, qualora
nel contesto si verifichi la corrispondenza tra abilità personali e abilità richieste e tra bisogni e ricompense, la persona svilupperà
un’esperienza lavorativa soddisfacente e di successo per sé stessa e per la propria organizzazione. Gli autori della teoria
dell’adattamento al lavoro si sono occupati anche dello sviluppo di strumenti di rilevazione delle caratteristiche personali e del
contesto lavorativo: Minnesota Importance Questionaire (misurazione dei valori individuali), Minessota Job Description (misurazione
del sistema di ricompense).
Tra i limiti principali di questa teoria, emerge una tendenza all’ipersemplificazione nelle descrizioni delle caratteristiche personali
e contestuali, ovvero ciascun contributo tende ad analizzare la congruenza, selezionando solo un fattore per volta. In più,
sembra emergere l’importanza di rilevare non solo le caratteristiche oggettive che caratterizzano la persona e l’ambiente, ma
anche la valutazione soggettiva che la persona fa delle stesse.

Gli approcci connessi alla psicologia della personalità


Nell’ambito della psicologia in merito all’orientamento, esistono due tipi di approcci: il modello disposizionale e il modello
interazionista.
Il modello disposizionale del comportamento identifica nella personalità una struttura latente interna, composta da un insieme di
tratti stabili che definiscono gli elementi costanti e stabili del carattere, che condizionano le manifestazioni psicologiche e i
comportamenti. Questi ultimi possono essere relativi al perché del comportamento, oppure relativi alle modalità del
comportamento.
Il modello interazionista sostiene che la personalità è il risultato dell’interazione tra variabili situazionali e variabili personali; questo
modello ritiene che le interazioni tra individuo e ambiente determinino il comportamento, ma nello stesso tempo l’individuo è sia
protagonista attivo delle interazioni con l’ambiente, sia determinante nel definire le modalità dell’interazione.
Si parla quindi di ambiente soggettivo per indicare come le persone interpretino la situazione in termini di opportunità rispetto ai
propri obiettivi.

L’approccio psicodinamico
Questo approccio si centra sulla definizione di tratti motivazionali-dinamici della personalità. La motivazione canalizza le
energie che sostengono determinati comportamenti diretti a una mera. Le scelte professionali sono manifestazioni del carattere.

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Le spinte motivazionali provengono dalla struttura di personalità profonda, che si caratterizza per bisogni inconsapevoli e
meccanismi mentali consolidati durante lo sviluppo
Il contributo maggiore delle teorie psicodinamiche alle pratiche orientative è rintracciabile nell’aver mostrato la funzione
motivante della spinta all’autorealizzazione e del bisogno di successo. Secondo Rogers lo sviluppo individuale si muove verso
l’autorealizzazione attraverso il passaggio dalla semplicità alla complessità, dalla dipendenza alla indipendenza: questo concetto si
basa sull’ accettazione di sé.
Atkinson ha dato un importante contributo a questo approccio, elaborando una teoria motivazionale secondo la quale quando la
speranza di successo supera la paura del fallimento, la persona è motivata ad agire e presenta una percezione più realistica delle
scelte.
Gli studi sul bisogno di successo hanno riguardato anche la relazione tra questo costrutto e il career commitment, ovvero la
motivazione a lavorare nel proprio ambito lavorativo e l’integrazione nel mercato del lavoro delle minoranze: per esempio il
bisogno di successo nelle donne è predittivo del campo e del livello della loro occupazione.
Anche la teoria di Jung sulla personalità viene utilizzata in orientamento a fini descrittivi e non esplicativi delle differenze
interindividuali. Secondo Jung la personalità si compone di due attitudini: l’attitudine estroversa (E) e l’attitudine introversa (I).
Il rapporto con il mondo esterno si fonda sull’acquisizione di informazioni, tramite percezioni elementari e l’attenzione al
presente (sensazioni S) o tramite l’apprendimento attraverso modelli e attenzione alle possibilità future (intuizioni I);
l’elaborazione delle informazioni avviene tramite due forme di giudizio: il pensiero (T), fondato sul ragionamento logico, e il
sentimento (F) basato sui valori. In sede decisionale, il soggetto può inoltre mostrare una preferenza per la percezione (P),
ovvero per una decisione presa su numerosi fatti, o per il giudizio (J), ovvero per una decisione presa su un numero imitato di
fatti.
È sulla base di questa teoria che è stato costruito l’MBTI, uno dei questionari di personalità più popolari e diffusi secondo il
quale, ogni tipo psicologico è predittivo della scelta dell’ambito occupazionale.

Gli interessi professionali


Gli interessi professionali sono stati definiti come preferenze per classi di attività, ciascuna delle quali evoca professioni o
gruppi professionali differenti; essi vengono considerati espressione della personalità e per questo motivo rappresentano
l’espressione della personalità nella preferenza di attività lavorative, formative e ricreative (Holland).
Il processo di definizione e stabilizzazione degli interessi si conclude nel periodo tra i 15 e i 20 anni.
I primi studi sugli interessi professionali si sviluppano alla fine degli anni Venti e utilizzano un approccio di tipo psicometrico. Il
primo questionario sugli interessi professionali fu creato da Strong (1936) i cui studi gli permisero di individuare alcune scale
professionali, ovvero gruppi di item la cui preferenza accomunava i membri di determinati gruppi professionali.
Kuder ordinò gli interessi secondo le preferenze per aree professionali ed elaborò uno strumento, il Test degli interessi
professionali. Sul tema degli interessi professionali sono state sviluppate alcune teorie:
La teoria sugli interessi di Roe (1956) approfondisce sia la loro genesi sia la loro strutturazione. Secondo l’autrice, gli interessi
personali si fondano su bisogni innati, ma vengono modulati dall’intervento educativo dei familiari. Roe ritiene che le
occupazioni possano essere classificate secondo la dimensione “orientamento verso le persone” vs “orientamento verso le
cose”, affermazione che i risultati di alcune ricerche sembrano confermare.
Un’altra teoria è quella di Holland (1966, 1973). L’autore ritiene che gli individui cerchino e creino ambienti lavorativi atti
alla manifestazione dei loro tratti comportamentali e che quindi la loro scelta professionale possa considerarsi
un’espressione della personalità. Per questo motivo, i tipi professionali risultano costanti e hanno significato psicologico e
sociologico. Holland ha identificato sei aree di interessi professionali, note come il modello RIASEC, sulle quali egli costruì
sei tipi di personalità: realistica, intellettuale, artistica, sociale, intraprendente, convenzionale. Ogni tipo di personalità viene
descritto in termini sia di interessi professionali sia di tratti di personalità.
Ogni profilo personale può essere descritto rispetto a tre indici di strutturazione e chiarezza, ovvero la coerenza, differenziazione e
identità. Un profilo viene considerato coerente quando presenta i due massimi punteggi in aree contigue. Viene considerato
differenziato quando presenta uno scarto elevato tra punteggio più alto e punteggio più basso. Infine, la dimensione dell’identità si
riferisce alla consapevolezza che la persona mostra rispetto ai propri interessi. Il limite della teoria è l’aver assunto che la personalità
possa essere spiegata tramite i soli interessi professionali.
La teoria di Smart ha individuato alcune variabili predittive degli interessi: il sesso, lo status e il tipo di professione svolta dai
genitori, gli interessi e la scelta professionale iniziali, scuola frequentata e livello di selettività. Il limite di questa teoria è il voler
spiegare la personalità umana solo attraverso gli interessi professionali
Si può concludere riconoscendo a queste teorie una buona capacità predittiva delle scelte, ma non della riuscita in un campo
professionale.

I valori professionali
L’influenza dei valori professionali sullo sviluppo vocazionale è stata considerata solo a partire dagli anni ’50 e ’60. I valori
professionali sono caratteristiche o condizioni di lavoro corrispondenti ad aspirazioni personali che si possono soddisfare più o
meno indipendentemente dai diversi settori professionali. La classificazione maggiormente diffusa li distingue in valori di tipo
intrinseco (centrati sulla realizzazione di sé) e valori di tipo estrinseco (centrata sul valore strumentale del lavoro). Essi influenzano
le scelte di carriera indirizzando le persone verso alcuni ambiti professionali.
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Savig, analizzando la classificazione dei valori di Schwarz con i tipi di interessi di Holland, ha riscontrato che i valori relativi al
superamento di se stessi correlano positivamente con gli interessi investigativi, artistici e sociali, mentre i valori relativi
all’affermazione di sé correlano positivamente con l’interesse di tipo intraprendente. I valori relativi al conformismo correlano
positivamente con gli interessi convenzionali e negativamente con gli interessi artistici e investigativi. Gli interessi di tipo realistico, in
maniera singolare, non correlano con nessun valore. Anche se questa ricerca dimostra che i valori possono influenzare le preferenze
verso un campo professionale, non sempre le persone scelgono un’occupazione in base ai propri valori
Brown (1996) ha individuato quali sono le condizioni nelle quali può realizzarsi la corrispondenza tra valori e scelte
professionali. La prima condizione è che tra le scelte possibili che si presentano al soggetto ce ne sia almeno una in linea con i
propri valori; inoltre, il soggetto deve conoscere in maniera sufficientemente approfondita le opzioni lavorative per sapere
quale rispecchia i suoi valori; infine la scelta dell’opzione corrispondente ai propri valori deve implicare lo stesso grado di
difficoltà delle altre alternative.

L’interazionismo e la psicologia della personalità


La teoria socio cognitiva è forse l’esempio più conosciuto di approccio interazionista allo studio della personalità. Bandura
(1986) fonda la sua teoria su tre fattori di interazione tra loro: persona, comportamento e ambiente. Attraverso il
comportamento la persona agisce sull’ambiente e lo modifica, ma al tempo stesso
i risultati del comportamento modificano le cognizioni della persona. Le cognizioni sul Sé, costruite tramite le interazioni passate
con l’ambiente, costituiscono il sistema del sé. Un elemento centrale del sistema del Sé è l’autoefficacia. Le credenze di
autoefficacia influenzano le componenti cognitive, motivazionali ed emozionali dell’agire umano (ne sono le determinant
prossimali).
L’autoefficacia percepita non determina solo la gamma di opzioni che vengono considerate, ma influenza anche altri aspetti della
presa di decisione come per esempio, il tipo di informazioni che vengono raccolte e il modo in cui vengono interpretate e dotate
di significato. Oltre che dalle credenze di autoefficacia, la selezione degli obiettivi viene influenzata anche dalle aspettative di
risultato, ovvero le attese circa le conseguenze del comportamento.
La Social Cognitive Career Theory (SCCT) elaborata da Lent, Brown e Hackett (1994) risulta il tentativo più organico di
applicare i principi della teoria socio cognitiva allo studio dello sviluppo della carriera lavorativa. Secondo questi autori,
infatti, le esperienze di successo nello svolgimento di determinate attività indirizzerebbero fin dall’infanzia gli interessi
verso le medesime, ovvero la persona si interesserebbe ad attività per le quali si percepisce competente. Ad influenzare le
scelte professionali sono anche le variabili di contesto. L’influenza dei valori contestuali può essere di due tipi : quella prossimale che
riguarda l’effetto di moderazione di alcuni fattori di contesto nella traduzione degli interessi in obiettivi, quella distale che riguarda
quei fattori di contesto che in passato hanno influenzato le esperienze di apprendimento .
Nel processo di sviluppo della carriera è anche possibile individuare fattori ostacolanti denominati barriere (fattori di
contesto/ambientali). Il loro effetto dipende in gran parte dal significato attribuitogli. Infatti questa attribuzione è legata al coping
e alla efficacy personale: qualora la persona sia in grado di fronteggiare le barriere, queste eserciteranno un’influenza minore
sullo sviluppo di carriera.

Lo sviluppo dell’identità personale


Questo approccio considera l’orientamento un processo che segue l’intero arco di sviluppo della persona e che riguarda la
globalità dell’individuo, piuttosto che solo alcune sue caratteristiche.
A livello descrittivo l’identità vocazionale riguarda la rappresentazione del sé vocazionale come un agente attivo dei
processi di sviluppo della carriera, che include l’autopercezione degli interessi, delle abilità, delle credenze di autoefficacia e
delle aspirazioni riguardo alla sfera professionale. Il suo sviluppo segue quello dell’identità personale. L’identità determina sia il
senso che gli individui hanno della loro continuità nel tempo e nello spazio sia la consapevolezza della propria unicità
Il processo di maturazione delle scelte viene definito biologico. Questo concetto fu la base per lo studio di Dumora sulla
costruzione di aspettative riguardo al proprio futuro durante il periodo di sperimentazione compreso tra gli 11 e i 16 anni.
Secondo l’autrice, le aspettative si formano attraverso tre processi: 1) Il processo di riflessione comparativa che riguarda la
messa in relazione di elementi di sé e della professione e si fonda su un iniziale processo di identificazione con una persona che
svolge la professione che interessa. Si basa sull’identificazione con persone appartenenti al proprio contesto sociale. 2) La
riflessione probabilistica appare influenzata dall’esperienza nel contesto scolastico. 3) La riflessione implicativa prevede un
confronto tra i mezzi e i fini, per confermare o abbandonare l’interesse verso la professione.
Infine, per Gottfredson, lo sviluppo vocazionale è determinato dallo sviluppo cognitivo, che permette di costruire il concetto di sé
e una mappa cognitiva unica delle professioni definita mappa delle posizioni sociali e che si basa sul livello di prestigio e
mascolinità/femminilità.

La teoria di Super
Super elabora una teoria che sottolinea come la carriera si sviluppa attraverso un processo di costruzione del concetto di sé che
interessa tutto l’arco di vita e i differenti ambiti lavorativi ed extralavorativi.
Questa teoria si è evoluta lungo tre direttrici: un crescente riconoscimento dell’influenza dell’ambiente socioculturale nella
costruzione dei progetti di vita; una maggiore attenzione verso l’analisi contestualizzata dello sviluppo della carriera lavorativa
all’interno dell’articolazione di ruoli che caratterizzano il corso della vita nel suo insieme; una crescente valorizzazione delle
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rappresentazioni che l’individuo si forma di sé e la diminuzione del peso dato alle vallutazioni oggettive di interessi e attitudini.
La teoria è stata riformulata fino ad oggi dove si ritiene che l’esperienza lavorativa acquisti un senso all’interno dello sviluppo
globale della persona e dell’articolazione tra i differenti ruoli sociali che la persona riveste (bambino, studente, uomo o donna
nel tempo libero, lavoratore, padre o madre) e che hanno importanza in relazione all’età, alle preferenze, alle strutture sociali e
così via.
La carriera lavorativa è descritta come l’insieme dinamico dei cambiamenti che intercorrono nel rapporto tra individuo e
l’attività lavorativa, i quali producono ripensamenti sui propri ruoli sociali, che a loro volta richiedono aggiustamenti nelle
relazioni tra individuo e organizzazione, individuo e società, individuo e famiglia. La scelta professionale può essere descritta
come un processo teso all’adeguamento tra sé e il proprio ambiente; per questo il concetto di sé, in particolare il concetto di
sé professionale, acquisisce un ruolo centrale nella scelta. Naturalmente esercitano un’influenza importante anche le attitudini
ereditate, le esperienze di formazione, la sperimentazione di ruoli e la valutazione circa le capacità di ricoprire quei ruoli.
Oltre ai diversi fattori, la carriera è influenzata dal livello socioeconomico della famiglia di origini, dalle attitudini, dalle
caratteristiche personali , dalle occasioni e dalla maturità professionale.
Nel processo di sviluppo tracciato dalla teoria di Super si possono riconoscere alcuni stadi, ovvero dei periodi di equilibrio:
la crescita (fino a 14 anni), l’esplorazione (dai 14 ai 24 anni), la stabilizzazione (dai 25 ai 45 anni), il mantenimento (dai 45 ai 65
anni), il declino (oltre 65 anni). Il passaggio da una fase all’altra presume il superamento di alcuni compiti di sviluppo e
l’equilibrio fra i ruoli. Il costrutto della maturità vocazionale è definito come la prontezza dell’individuo ad affrontare i compiti di
sviluppo con i quali deve confrontarsi a causa del suo sviluppo biologico e sociale o a causa delle aspettative della società verso
le persone che hanno raggiunto quello stadio di sviluppo.
La maturità di carriera è caratterizzata da diverse dimensioni: pianificazione, esplorazione, raccolta di informazioni, decision
making e orientamento alla realtà. Per valutarla sono stati elaborati due strumenti: il Career Maturity Inventory e il Career
Development Inventory. Gli studi dimostrano che il livello di maturità aumentano con crescere dell’età e del livello di educazione.

I modelli di sviluppo di carriera in età adulta


I maggiori cambiamenti sembrano riguardare la fase centrale della carriera. Rispetto al periodo adulto Super, Thompson e
Linderman (1988) hanno introdotto nella teoria il concetto di recycling all’interno della normale traiettoria di sviluppo, per
indicare l’eventualità che la persona possa affrontare periodi di cambiamento sostanziale della propria carriera lavorativa anche
in età avanzata, ovvero un processo di adattamento che richiede di fronteggiare nuovamente le fasi di esplorazione e di
stabilizzazione per giungere infine al mantenimento. Il recycling durante la vita adulta rappresenta una modalità adattiva di
fronteggiare il cambiamento.
Oggi parliamo di protean career e boundaryless career riferendoci a nuove forme di contratto di carriera caratterizzate da percorsi
non lineari e gestite autonomamente.
In questa prospettiva, nello scambio tra individuo e ambiente le risorse personali determinanti sono quelle che definiscono
l’adattabilità ovvero la capacità di cambiare, senza grandi difficoltà, per rispondere alle nuove circostanze.
Altre ricerche hanno approfondito il concetto di recycling confermando empiricamente che gli adulti che cambiano campo
professionale riattraversano la fase di esplorazione che caratterizza il primo ingresso nel mondo del lavoro.
Murphy e Burk (1976) e Bejian e Salomone (1995) considerano un ulteriore stadio di sviluppo i carriera, definito rinnovamento
per indicare quella fase in cui gli adulti valutano il concetto di sé che sfocia nel riaggiustamento della propria carriera attraverso
l’investimento delle loro competenze.
Secondo il modello di sviluppo della carriera in età adulta di Power e Rothausen (2003) le differenze interindividuali
dell’andamento della fase centrale della carriera sono determinate dagli esiti di tre compiti di sviluppo: la definizione che la
persona dà al proprio lavoro, l’evoluzione che essa prevede nel proprio settore professionale e la direzione che imprime al suo
sviluppo di carriera, in termini di aspirazione a ricoprire un certo ruolo.
Le persone possono scegliere tra quattro possibili direzioni si sviluppo: decidere di aggiornare le proprie competenze mantenendo lo
stesso ruolo lavorativo (sviluppo diretto al compito); intraprendere un percorso di specializzazione tecnico-pratica (sviluppo
specialistico); oppure cercare di raggiungere un ruolo direttivo di nicchia o a sviluppo verticale (vertici dell’organizzazione).
A seconda della direzione scelta, possono esserci differenti livelli di sviluppo della carriera in età adulta:
 Lo sviluppo orientato al proprio posto di lavoro: consolidamento della propria posizione.
 Lo sviluppo orientato al mantenimento della propria attività lavorativa: aggiornamento finalizzato a mantenere stabile la
propria prestazione.
 Lo sviluppo orientato alla crescita professionale.

Il modello di self-construction di Guichard


Il modello di Guichard e Huteau (2003) propone una sintesi tra gli approcci individualisti e quelli sociologici allo sviluppo
dell’identità. Nello specifico, sono considerati tre aspetti della costruzione di sé: sociologico, psicologico e dinamico.
L’approccio sociologico si riferisce all’offerta identitaria di un determinato contesto sociale, ovvero al fatto che un individuo, in
quanto membro di una società, sviluppa un sistema di quadri cognitivi identitari che definisce la visione che l’individuo ha dei
gruppi sociali.

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Le strutture identitarie non sono pienamente coscienti, ma son fondamento delle forme identitarie che riguardano la
rappresentazione cosciente di sé e dell’altro. Alcune forme identitarie sono universali (l’essere donna ), altre sono tipiche di una
specifica identità (l’essere cattolico). In generale le forme identitarie sono variabili a seconda dei contesti in cui si interagisce.
L’aspetto psicologico fa riferimento al fatto che la costruzione del Sé si basa sulle strutture cognitive che la persona ha sviluppato
attraverso l’azione e l’interazione.
Dal punto di vista dinamico queste forme identitarie soggettive si costruiscono attraverso la relazione dell’individuo con il suo
ambiente sociale.
In quest’otica, l’intervento di orientamento diviene un momento privilegiato per riflettere sulle proprie forme identitarie
soggettive, ancorate al proprio sistema di frame identitari, e quindi per esplorare le possibili costruzioni delle forme
identitarie future.

Il processo di socializzazione professionale


In un’ottica psicosociale, la carriera lavorativa può essere considerata come un percorso di socializzazione professionale che
riguarda l’intero arco della vita. La socializzazione professionale concerne la fase di socializzazione adulta e descrive il processo
di sviluppo dell’identità professionale, attraverso l’acquisizione di un set disposizionale di valori, conoscenze, atteggiamenti, in
grado di guidare il comportamento individuale attraverso una serie di esperienze lavorative ed extralavorative.
Il processo di socializzazione professionale si articola in alcune fasi (prelavorativa, di ingresso, di assegnazione dei compiti, di
gestione del ruolo e di uscita) e si caratterizza per una serie di momenti significativi che connotano l’esperienza formativa e
lavorativa che la persona interpreta in riferimento alle risorse individuali e alle condizioni del contesto socio ambientale.
Questo approccio richiede due componenti: quella cognitive, volta a valorizzare e interpretare la situazione, e quella emotive, legata
ai vissuti soggettivi che il soggetto attribuisce all’esperienza vissuta.
Questo approccio psicosociale pone l’accento sull’identità professionale come componente dell’identità sociale; in quest’ottica, la
carriera viene definita come un percorso individuale, segnato da eventi e da scelte che caratterizzano l’interazione tra persona e
contesto lavorativo.
Le situazioni critiche che caratterizzano lo sviluppo della carriera possono essere definite come transizioni lavorative: esse sono
considerato il nodo cruciale e l’unità di analisi nello studio delle carriere, in quanto comportano uno stato temporaneo di
disorganizzazione che richiede al soggetto la capacità di attivarsi per superare una minaccia alla propria identità.
Secondo il modello di Hopson e Adams, la transizione che segue un evento negativo si caratterizza per uno stadio iniziale di shock; in
seguito attraversa una fase che tende a sottovalutare le conseguenze negative per poi passare a una fase depressiva caratterizzata
da scarsa fiducia in se stesso.
La bassa autostima induce la persona a pensare di non affrontare la situazione, ma il tentativo di superare la crisi porta il soggetto a
ristrutturare i propri significati e a ripristinare il proprio livello di autostima.
Questo processo di gestione autonoma della propria carriera matura attraverso l’acquisizione di competenze specifiche definite
“orientative”, acquisite lungo tutto l’arco della vita.
Secondo il modello di analisi delle transizioni di Schlossberg, le transizioni possono presentarsi come anticipate (avvenimenti
attesi), non anticipate (imprevisti) e mancate (assenza di avvenimenti attesi).
Le differenze interindividuali in merito alle modalità di fronteggiamento delle transizioni dipendono da una serie di variabili
riassumibili nel “sistema delle 4S”:
 La situazione  Fattori contestuali che caratterizzano il momento di transizione;
 Il sé  Comprende caratteristiche personali e le risorse personali;
 Il supporto  La presenza più o meno stabile di sostegno sociale;
 Le strategie  Le strategie di coping utilizzate per affrontare la transizione (comportamentali, cognitive, centrate sulla
gestione dello stress).

Secondo la Role theory l’importanza del ruolo lavorativo è in relazione agli altri ruoli ricoperto dalla persona, e del valore
soggettivo a essi attribuito. L’effetto che l’assenza di un ruolo lavorativo può produrre a livello personale è determinato da diversi
fattori, quali l’orientamento culturale ideologico della persona rispetto al lavoro, l’impatto oggettivo della mancanza di lavoro
sulla propria vita.
Le ricerche dimostrano che, ai fini del ricollocamento, le risorse personali determinanti nel favorire un approccio attivo al
fronteggia mento della disoccupazione sono: l’autostima, l’ottimismo, la percezione del controllo sulla situazione che aumentano
la probabilità che le persone scelgano strategie di coping centrate sul problema, e quindi aumentano probabilità di
ricollocamento.

Le pratiche di orientamento
La finalità delle pratiche di orientamento è quella di perseguire lo sviluppo personale e sociale dell’individuo e di promuovere la
sua capacità di maturare scelte consapevoli e far fronte alle transizioni.
Tali azioni fanno riferimento ad approcci teorici e metodologici diversi (information, guidance, counseling).

Educational and vocational guidance


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Con il termine “ guidance”, in Italia vengono identificate le azioni finalizzate a promuovere l’educazione all’auto-orientamento.
Questa tipologia di attività si propone principalmente lo sviluppo di competenze orientative, finalizzate a: preparare le persone
ad affrontare le scelte in modo autonomo; aiutare a monitorare i propri percorsi formativi ed eventuali esperienze di lavoro
al fine di prevenire insuccessi; accompagnare le transizioni fra cicli di studi, dalla formazione al lavoro e da un’esperienza
lavorativa all’altra.
Il riferimento teorico di questa tipologia di azioni è l’approccio allo sviluppo dell’identità vocazionale che considera l’esperienza
formativa e lavorativa come un percorso non lineare e la persona come depositaria competenze per imparare a orientarsi,
affrontando e gestendo con successo i momenti di scelta e di transizione di questo percorso. Il focus è posto sul metodo e sulle
strategie per riuscire a decidere cosa fare e come muoversi nelle situazioni di incertezza. È un approccio in grado di pianificare a
livello operativo una serie di obiettivi da raggiungere.
Queste pratiche enfatizzano il metodo di gruppo perché è nel paradigma del confronto sociale e dell’attivazione del conflitto
socio cognitivo che trovano i propri riferimenti teorici e metodologici per lo sviluppo delle competenze orientative. L’obiettivo
prioritario è quello di rispondere al bisogno della persona di essere supportata dal punto di vista metodologico nel
prefigurare e impostare correttamente una soluzione autonoma a un compito orientativo specifico.
Sapersi orientare in maniera consapevole ed efficace lungo tutto l’arco di vita richiede, lo sviluppo di alcune competenze che
facilitano l’attivazione di questo processo e ne aumentano l’efficacia. La maturazioni di tali competenze orientative è legata al
perseguimento di diversi obiettivi:

 il primo obiettivo è far acquisire alla persona un atteggiamento e uno stile di comportamento proattivo rispetto alla
gestione della propria storia personale (promuovere competenze orientative aspecifiche e propedeutiche) ;
 il secondo obiettivo è far maturare nella persona la capacità di tenere sotto controllo lo svolgersi delle esperienze in atto
(competenze di automonitoraggio);
 il terzo obiettivo è far sviluppare al soggetto la capacità di affrontare gli eventi decisionali attraverso una
progettazione di sé nel tempo, tali risorse, definibile anche come competenze orientative di sviluppo della propria
storia formativa e lavorativa, hanno a che fare con la capacità di darsi degli obiettivi di crescita.

La carenza di competenze orientative comporta un rischio di insuccesso.

Vocational an career counseling


L’attività di counseling si pone come obiettivo quello di accompagnare la persona in un percorso di risoluzione di un
problema orientativo, ma soprattutto di attivare un processo di ridefinizione e/o di riorganizzazione delle dimensioni e dei
fattori che permettono alla persona di gestire il suo rapporto con le criticità connesse all’evoluzione personale e
professionale. Questi interventi consulenziali sono collegati ai processi decisionali e alla definizione di progetti di sviluppo e/o
di cambiamento della storia formativa e/o lavorativa individuale, con particolare riferimento alle condizioni di intreccio con
altre sfere di vita e di coerenza con l’identità globale della persona. Quando si parla di counseling di orientamento e di carriera ci
si riferisce ad una ridefinizione del Sé professionale partendo dalle proprie esperienze personali e dalla sua evoluzione
progettuale e lavorativa.
Il termine “counseling di orientamento ” fa riferimento a un’utenza giovanile impegnata nella definizione di una progettualità di
lungo periodo; mentre il termine “counseling di carriera” fa riferimento alla gestione di una progettualità a breve o a medio
termine che intreccia esigenze di stabilità e di cambiamento, sia a livello personale sia a livello professionale.
Per affrontare questa esperienza è fondamentale la motivazione all’autoriflessione e la capacità della persona di farsi carico
attivamente e consapevolmente della propria storia formativa e lavorativa lungo tutto l’arco di vita.

Capitolo 4. La socializzazione organizzativa


Possiamo comprendere la socializzazione come un processo dove i soggetti sviluppano la propria personalità e allo stesso tempo
si appropriano dei valori sociali in interazione con il contesto in cui sono inseriti; essa suggerisce l’idea di un passaggio da uno
stadio iniziale a uno successivo più evoluto.
Sarchielli identifica la socializzazione come l’insieme dei processi con cui l’individuo acquista conoscenze, atteggiamenti e valori
di un gruppo sociale, in modo da vivere in modo soddisfacente.
Gli elementi di sovrapposizione, sono :

a) La ridefinizione cognitiva verso una situazione nuova.


b) L’interazione tra soggetto e contesto.
c) La presenza di alcune situazioni dove tale processo ha effetti più rilevanti.
d) La concezione di socializzazione come processo parzialmente prevedibile.

Con il termine socializzazione al lavoro, indicheremo quella fase di preparazione all’esperienza lavorativa dell’individuo,
riferendoci a un processo che approfondisce il cambiamento delle strutture psicologiche dell’identità personale. Per
socializzazione organizzativa si va invece ad intendere l’insieme delle interazioni che ci sono tra individuo ed organizzazione,
soprattutto nell’adeguamento alle norme e ai valori del gruppo.

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La socializzazione lavorativa
Nella fase di socializzazione pre-lavorativa ci sono delle figure significative come quelle della famiglia, della scuola e del gruppo
dei pari. Sono significative perché definiscono gli atteggiamenti verso il lavoro e il sistema di aspettative con il quale il soggetto
affronterà l’esperienza lavorativa. Tali esperienze sono le premesse per lo sviluppo dei valori relativi al lavoro e per le scelte che
ne possono derivare: in qualche modo tali opzioni lavorative possono definirsi l’esito di un lungo percorso di sviluppo e di
conoscenza di sé (Super, 1957).
Per quel che riguarda i tratti personali, Holland fece un modello teorico di successo dove associò le caratteristiche di sei tipi di
personalità (artistica, realistica, investigativa, imprenditoriale, sociale, convenzionale) con gli orientamenti di scelta lavorativa.
Altri tipi di studi sono quelli che legano le scelte lavorative ai processi di apprendimento degli individui.
Kolb propone lo studio dei processi di apprendimento definendoli cicli sequenziali di apprendimento che iniziano da una concreta
esperienza del fatto per terminare nell’applicazione pratica.
L’apprendimento prevede l’evoluzione di Quattro fasi: I) Dalla concreta esperienza di un fatto II) All’osservazione riflessiva, quindi
III) Per mezzo di un processo di astrazione sulla catalogazione concettuale, e infine IV) All’applicazione pratica.
Egli avanza l’idea di una tipologia di stili di apprendimento individuali che non vanno considerate come tratti immutabili della
personalità, ma come strutture mutanti che risultano dalla specificità individuale. Gli stili di apprendimento sono:
1. Diverger: orientato verso l’esperienza concreta e osservazione riflessiva.
2. Converger: abilità di apprendimento.
3. Assimilator: capacità di astrazione e osservazione riflessiva.
4. Accomodator: caratteristiche opposte al precedente ed è orientato verso l’esperienza.
Da un’altra prospettiva, si può rappresentare la socializzazione al lavoro come una transizione psicosociale e un’occasione di
sviluppo e cambiamento per la persona. Lewin spiegò questo concetto con la teoria del campo: le parti del campo si chiamano
regioni e rappresentano le componenti psicologiche della personalità di un individuo. Ogni cambiamento, porta la modifica dei
confini delle regioni; quindi davanti ad un cambiamento ci si trova a ridefinire i propri vissuti attuali e aspettative future.
Il modello di Lewin ci suggerisce che ogni trasformazione, e quindi ogni apprendimento, oscilla su tre fasi di scongelamento,
di cambiamento e di ricongelamento. I processi che accompagnano tali fasi mutano radicalmente la definizione di Sé, le
strategie di risposta alla nuova situazione e le relazioni che si vanno a creare.
Occorre poi considerare un altro fattore significativo per la persona in transizione, il concetto di aspettativa. Vroom, con le sue
applicazioni nella ricerca motivazionale, pone la teoria dell’aspettativa al centro degli interessi degli studiosi dei contesti
organizzativi. Le aspettative che si hanno verso il lavoro, l’organizzazione, i colleghi e verso le opportunità di crescita
professionale incidono sul livello di impegno profuso e le qualità della performance agita. Quando tali aspettative non vengono
soddisfatte c’è una bassa soddisfazione lavorativa, un basso commitment e un alto turnover.
Un ultimo elemento da esaminare è il tema del giudizio nella nuova situazione in cui la persona si viene a trovare. Sarchielli fa
notare come nella fase di ingresso nel mondo del lavoro ci si esponga di fatto a valutazioni formali e informali da parte
dei colleghi e dei superiori venendo meno il paracadute del sostegno affettivo e delle cure parentali che caratterizzava gli
stadi precedenti. La propria identità lavorativa e professionale diviene esposta al giudizio degli altri.

La socializzazione organizzativa
Gli scenari lavoratori e organizzativi moderni sono caratterizzati da profonde trasformazioni, che sortiscono i loro effetti sulla
società, sulle persone e sulle loro sfere di vita. In questo panorama, le transizioni legate al lavoro implicano la
negoziazione continua dei propri progetti, dei propri desideri, della propria identità personale e sociale.

Socializzazione e contratto psicologico


L’ingresso nel mondo del lavoro e il processo di socializzazione organizzativa rappresentano una tappa rilevante della storia di
una persona, configurando una situazione di passaggio sia interna all’individuo, con le sue dinamiche intrapsichiche più o
meno consapevoli, sia di interazione con il contesto organizzativo, con l’investitura di nuovi ruoli, i vincoli delle procedure, le
regole di convivenza formali e informali. La relazione tra individuo e organizzazione, fino a qualche tempo fa, era contornata da un
mercato abbastanza stabile e prevedibile. C’era quindi un senso di stabilità e sicurezza psicologica per i soggetti. Il contratto
psicologico che si stipulava comprendeva aspettative reciproche, convinzione di giustizia, equità ed interscambio.
Negli ultimi anni il contratto tra organizzazione e individuo ha subito dei cambiamenti. La percezione dello scambio tra
organizzazione e individuo viene a basarsi sulla valutazione istantanea della “appartenenza temporanea” sia nel soggetto sia
nell’organizzazione stessa. Il concetto di “sicurezza del posto” si evolve in quello di “ employability”, ovvero la possibilità di
contare sulle proprie competenze professionali per essere “impiegabili continuamente” nelle organizzazione, ove siano
valorizzati l’esperienza e l’apprendimento continuo e capitalizzato il proprio sapere lavorativo.

Dalla parte del soggetto


Nella relazione tra persona e contesto lavorativo, si valutano le ipotesi di integrazione e/o di adattamento di un polo nel rapporto
con l’altro. Esistono alcuni approcci che affrontano la fenomenologia dell’ingresso organizzativo dal punto di vista del soggetto.
Il modello di Nicholson (1987) prevede un soggetto che si attivi nell’affrontare e gestire tale passaggio e il processo viene
rappresentato come un ciclo transazionale in cui si mostrano i punti cruciali della relazione tra persona e contesto: I)
preparazione (aspettative, desideri, risorse) II) incontro (fronteggia mento e attribuzione di senso) III) adattamento
(cambiamento personale e di ruolo) e IV) stabilizzazione (coinvolgimento ed efficacia operativa). La fase di ingresso è mediata dalle
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aspettative del soggetto (da 1 a 2); si prendono le misure sui vincoli e sulle opportunità del proprio ruolo (da 2 a 3); si lavora sulla
consapevolezza e sulle attribuzioni di senso della nuova situazione e quindi su quali apprendimenti sono da registrare (da 3 a 4); le
correzioni effettuate tendono a stabilizzarsi (da 4 a 1). L’equilibrio raggiunto tenderà successivamente a destabilizzarsi di fronte a una
nuova fase di transizione che vedrà coinvolto il soggetto.
Nel lavoro di Louis (1980) troviamo una definizione di socializzazione organizzativa come un processo attraverso il quale un
individuo fa propri quei valori, abilità, comportamenti attesi e conoscenza sociale ritenuti essenziali per assumere un ruolo
organizzativo e per acquisire membership organizzativa. La socializzazione organizzativa è vista come il processo primario
attraverso il quale il soggetto esperisce il nuovo ruolo lavorativo. Questa dinamica prevede la presenza di tre elementi che
vorrebbero spiegare le strategie comportamentali del soggetto : il cambiamento, il contrasto e la sorpresa.
I punti chiave sono legati alla nozione di script, cioè quegli schemi mentali che sono costruiti sulle esperienze passate e che fungono
da copione per l’agire quotidiano. Quando gli script non funzionano, il soggetto deve ridurre tale dissonanza attraverso una
creazione di senso.
Jones presenta un lavoro che pone l’accento sull’asimmetria della relazione tra soggetto e organizzazione, ribaltando le ipotesi
sostenute da alcune impostazioni teoriche precedenti: il soggetto influenza la relazione esistente con l’organizzazione in
misura maggiore di quanto la struttura organizzativa possa fare verso il soggetto sesso. Il soggetto è visto come attivo, dotato di
autostima e in grado di gestire la situazione.

Dalla parte del gruppo


Nella relazione tra soggetto individuale e soggetto organizzativo, vi è una dimensione intermedia che svolge una funzione
cruciale, che possiede una sovranità sia fisica sia psicologica, che funge da leva nel passaggio tra i due poli della relazione, quella
del gruppo.
Spaltro, nella sua proposta dei vari livelli di funzionamento sociale, identifica la dimensione gruppale come quella in cui si
instaurano un tipo di relazioni non individuali ma collettive, in cui le persone interagiscono, si influenzano vicendevolmente
e vivono sentimenti di appartenenza. In questo clima i membri del gruppo accettano i nuovo arrivati e generano relazioni
sostegno/rifiuto, collaborazione/competizione, di intimità/distanza in una negoziazione continua delle soggettività “in campo”.

Dalla parte dell’organizzazione


Schein in un suo classico contributo definisce la cultura organizzativa come “un insieme di assunti di base, inventati, scoperti
o sviluppati dai membri di un’organizzazione per affrontare problemi di adattamento esterno o di integrazione interna che si è
dimostrato così funzionale da essere considerato valido, e conseguentemente, da essere indicato ai nuovi membri come il
modo corretto di percepire, di pensare, di sentire in relazione a quei problemi”. Ci sono due forze in campo: i soggetti che
mettono in atto meccanismi di apprendimento e l’organizzazione che rinforza alcuni tipi di comportamento ritenuti più congruenti.
Wanous elabora il modello RJB (Realistic Jofj Preview), sostenendo che nei processi di selezione e valutazione si tenda ad
eliminare soggetti incoerenti con la cultura organizzativa attraverso la comunicazione della realtà che dovrebbe vederli più
consapevoli della situazioni che devono affrontare.
Uno dei migliori tentativi per sistematizzare le differenti modalità con cui l’organizzazione interviene nel processo di
socializzazione è da ricondurre a Van Maanen e Schein. Tali autori propongono sei tattiche di socializzazione che il management
può utilizzare per influenzare l’esperienza di socializzazione organizzativa e l’orientamento al ruolo dei nuovi entrati. Ogni tattica
ipotizza un continuum bipolari con diversi livelli intermedi di posizionamento:
1. Collettiva vs individuale: implica la creazione di gruppi di neo entrati i quali vengono inseriti in un set di esperienze di
apprendimento comuni, piuttosto che preferire una esperienza isolata e differenziata.
2. Formale vs informale: consiste nel separare rigidamente i nuovi arrivati dai membri più anziani, creando come una
“camera di compensazione” che li prepara al successivo ingresso nel ciclo produttivo.
3. Sequenziale vs random: da una parte si prevede una sequenza di passaggi chiaramente identificabili che permettono
al soggetto di “vestire” il nuovo ruolo organizzativo, mentre dall’altra non è prevista nessuna precisazione circa l’iter di
inserimento lavorativo.
4. Fissa vs variabile: la prima prevede una precisa scansione temporale entro la quale il soggetto deve fare proprie
determinate acquisizioni relative al ruolo, mentre la seconda no.
5. Seriale vs disgiuntiva: presume che il neoassunto sia accompagnato da un membro con maggiore esperienza che funge
da modello di riferimenti, mentre all’opposto si prevede un soggetto che sviluppo autonomamente le sue modalità di
acquisizione del ruolo.
6. Investitura vs non-investitura: presuppone il riconoscimento esplicito dell’identità del soggetto entrante e delle sue
qualità umane, piuttosto che una disconferma delle sue caratteristiche personali e conseguentemente minimo supporto
sociale da parte degli altri membri.
Questa classificazione è stata ripresa da Jones il quale ha osservato che le tattiche collettive, formali, sequenziali, fisse, seriali e a
investitura incoraggiano i neoassunti a far propri i ruoli preconfezionati.
Queste tattiche, definite tatche istituzionali, generano un set di informazioni che riduce l’incertezza e le ansie legate al nuovo ruolo
ma riflettono un processo di socializzazione formalizzato e strutturato.
Le tattiche della polarità opposta del continuum (individuali, informali, random, variabili, disgiuntive e a non investiture) tendono a
sviluppare presso i neoentrati un approccio personalizzato e innovativo al ruolo, vengono infatti definite tattiche individuali.
Jones Individua così tre fattori che rappresentano le sei tattiche:
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1. Le tattiche sociali (influenzano l’apprendimento);


2. Le tattiche di contenuto (concernono le informazioni);
3. Le tattiche di contesto (riguarda il modo in cui si trasmettono le informazioni).
Una forma nota di ingresso al lavoro è quello del tirocinio o stage. Questa situazione è favorevole, perché si costruisce
lentamente la nuova identità dell’Io: l’io lavoratore, che si prende maggiori responsabilità e sperimenta ciò che ha studiato.
Ci sono almeno tre forme di sostegno alla transizione lavorativa:
a) Il coaching: si riferisce alla relazione che si instaura tra un lavoratore esperto e un neoassunto. Favorisce il processo
creativo della persona che gli sta di fronte.
b) Il mentoring: si riferisce alla relazione con una figura di riferimento dell’organizzazione che in qualche modo rappresenta
un interprete significativo della cultura e dei valori dell’organizzazione.
c) Il tutoring: si riferisce alla relazione tra neoassunto e un lavoratore professionista. Le funzioni del tutor sono di presidio,
di integrazione e di sostegno.
Sarchielli classifica gli esiti di una “buona socializzazione” organizzativa, che tiene conto di aspetti personali, interpersonali e
situazionali:
1) Le caratteristiche e la forma della traiettoria di carriera;
2) Il benessere psicologico;
3) Le capacità di prestazione;
4) Il livello di impegno e continuità nell’apprendimento;
5) Il tipo di identità personale e sociale;
6) Il tipo di interazione sociale sperimentata;
7) L’interazione con l’organizzazione.

Conclusioni
In un contesto lavorativo così mutevole e instabile continua, comunque, ad essere fondamentale la fase di ingresso in
organizzazione; per tale ragione si insiste sulla volontà di voler curare gli aspetti concernenti la dinamica della socializzazione.

Capitolo 6. La valutazione del personale


La valutazione del personale nasce come attività centrata sulla misurazione di aspetti connessi alle prestazioni lavorative
e al comportamento messo in atto dalle persone, focalizzata anzitutto sulla prestazione e sulla misurazione di fattori
strettamente individuali. La valutazione del personale viene utilizzata in campo organizzativo con differenti obiettivi connessi
all’acquisizione e alla gestione delle persone, che è possibile ricondurre schematicamente a due macroaree:
 la gestione delle risorse umane – con la corrispondente definizione di programmi di compensazione legati a
stipendi, premi, incentivi;
 lo sviluppo delle risorse umane – con la progettazione di interventi di formazione e crescita professionale.
Tuttavia, questo processo a volte comporta rischi, tra cui la possibile percezione di una maggiore pressione tra valutato e
valutatore.
Nel processo di valutazione ci sono 9 passi fondamentali:

– Definire gli obiettivi e gli oggetti di valutazione.


– Identificare i limiti e le influenze legate al contesto e alla cultura.
– Determinare chi svolgerà la valutazione.
– Selezionare i metodi adatti.
– Formare i valutatori.
– Osservare, documentare e raccogliere informazioni.
– Formulare la valutazione sulla base dei dati raccolti.
– Comunicare i risultati al valutato.
– Utilizzare la valutazione per le decisioni sul futuro professionale del valutato.

Gli oggetti della valutazione


Esistono tre tipi di valutazione: valutazione delle prestazioni, valutazione del potenziale e valutazione delle competenze.
La valutazione delle prestazioni si propone di stabilire quanto la persona abbia contribuito al raggiungimento dei risultati
aziendali. Essa prevede il confronto tra gli obiettivi prefissati e i risultati finali effettivamente raggiunti. È in genere
articolata in 4 fasi: il colloquio per l’assegnazione degli obiettivi, le verifiche periodiche, la valutazione dei risultati
conseguiti, la comunicazione della valutazione.
La valutazione del potenziale si concentra sulle caratteristiche possedute ma non ancora espresse nel ruolo ricoperto, perché non
richieste dall’attività svolta. Attraverso questa modalità valutativa si vuole comprendere quali possono essere le capacità presenti
“in potenza” nella persona.
La valutazione delle competenze si rivolge all’esame del patrimonio di conoscenze, qualità e capacità possedute e dalla loro
coerenza rispetto agli obiettivi organizzativi; in questa accezione le competenze rappresentano un insieme di dimensioni
individuali determinanti per il successo della prestazione lavorativa.
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La letteratura distingue inoltre, tra gli elementi che possono essere oggetto di osservazione e di valutazione: i tratti, i comportamenti
e i risultati.
La valutazione dei tratti si concentra su ciò che la persona è: l’attenzione è rivolta alle caratteristiche personali che sono
considerate rilevanti per il lavoro svolto. Alcuni studi dimostrano come un utilizzo responsabile e competente della
valutazione dei tratti possa incrementare la possibilità di prevedere la prestazione lavorativa, ottenendo conoscenze non
rilevabili mediante altri approcci.
La valutazione dei comportamenti messi in atto sul lavoro. In questo caso oggetto della valutazione sono elementi osservabili,
facilmente identificabili e documentabili con adeguata precisione. La valutazione dei comportamenti presenta alcuni vantaggi
legati alla maggiore semplicità con cui questi possono essere studiati e verificati rispetto ai tratti, ma non può essere esaustiva
quando uno stesso livello di prestazione è raggiungibile mediante comportamenti diversi.
In questo caso può essere maggiormente appropriato utilizzare un processo valutativo incentrato sui risultati ottenuti, quindi sugli
effetti ottenuti dai comportamenti messi in atto dalla persona.
Secondo questo metodo il responsabile definisce gli obiettivi da raggiungere nel periodo stabilito e che sono condivisi dal valutato e
dal valutatore. Al valutato è concessa poi ampia libertà sulle modalità da adottare per ottenere determinati obiettivi. Al termine del
periodo si realizza la verifica e la misurazione dei risultati raggiunti, sulla base dei quali verranno assegnati i premi stabiliti.

I metodi e gli strumenti della valutazione


Importanti sono i metodi utilizzati per raccogliere le informazioni necessarie per la valutazione del personale.

I metodi
Esistono molteplici metodi di misurazione della valutazione.
Il livello di formalizzazione che caratterizza la valutazione distingue tra metodi formali e informali.
Formali  Si può considerare la valutazione informale come una valutazione inevitabile, prodotto delle costanti interazioni
presenti sul luogo di lavoro.
Informali  La valutazione formale è al contrario caratterizzata dall’applicazione periodica e constante di metodologie stabilite
e di strumenti oggettivi per la rilevazione di dimensioni prefissate.
Una seconda classificazione distingue tra misure di valutazione oggettive e misure di valutazione soggettive.
Oggettiva  L’ambito delle misure oggettive è costituito dalla valutazione dei risultati: elementi chiaramente identificabili e
conteggiabili, che permettono di ricavare indicatori oggettivi.
Soggettiva Le misure soggettive hanno come oggetto della valutazione i comportamenti o i tratti degli individui.
Un ulteriore distinzione riguarda I metodi tradizionali e quelli distrifjutivi: in questo caso si considerano le fluttuazioni
caratterizzanti gli oggetti di valutazione.
Tradizionali e distributivi  I metodi di valutazione distributivi tengono conto della variabilità della prestazione individuale;
per ciascuna dimensione valutata il punteggio di sintesi ottenuto con i metodi tradizionali viene sostituito, nei metodi
distributivi, con il calcolo della frequenza dei differenti livelli di prestazione.
Un’ultima distinzione è tra metodi qualitativi e quantitative:
Qualitativi e quantitativi  Sono concentrati rispettivamente sulla qualità e sulla quantità dell’aspetto valutato. A questa
distinzione si aggiunge quella che concerne I metodi relativi, in cui I soggetti sono valutati in confronto con gli altri, e quelli assoluti,
in cui I soggetti sono valutati isolatamente.

Gli strumenti
Ci sono un ampia varietà di strumenti da utilizzare per la valutazione. I principali sono:
 Conteggio  Utilizzato quando la valutazione ha per oggetto gli esiti del comportamento lavorativo, concretamente
riferibili ad ambiti quali la quantità del lavoro, la qualità del risultato, gli indici di presenza, la sicurezza.
 Ranking  È uno strumento che permette di classificare le persone in base a una valutazione globale.
Generalmente adottato per pochi soggetti, ma risulta meno utile con un grande numero di persone da valutare.
Nonostante ciò per superare tale difficoltà, è disponibile la tecnica del “confronto a coppie” dei valutati, in cui ciascun
soggetto viene singolarmente paragonato a tutti gli altri valutati. Una seconda variante è l’ “alternate ranking”, dove si
scelgono i soggetti con migliore e peggiore punteggio rispetto alla dimensione valutata; successivamente si individuano il
secondo e il penultimo, e così via. Un’ultima tecnica di ranking è la “distribuzione forzata”, che assegna percentuali di casi
prestabilite a ogni categoria di valutazione, pertanto non si può attribuire il medesimo giudizio a più di un certo numero di
valutati.
 Tecniche grafiche di ranking  Prevedono l’utilizzo di una lista generale di caratteristiche, di comportamenti o di
tratti di personalità, rispetto alla quale si valuta la persona su una fata scala, collocando graficamente il giudizio tra
due estremi; le caratteristiche valutate sono in genere molto ampie. Questa tecnica è stata criticata per essere
soggetta ad errori come l’effetto alone o l’eccessiva indulgenza. Per ovviare questo limite si usa la “scala di valutazione
ancorata ai comportamenti” che vede il valutatore indicare, lungo un continuum, quali tra i comportamenti presentati sono
tipici della persona valutata.
Un’altra scala adoperata è quella di “osservazione del comportamento”, in cui vengono riportati specifici esempi di
comportamento per ogni dimensione valutata e rispetto ai quali il valutatore indica la misura che riflette il comportamento
agito dal valutato.
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 Lista di controllo (checklist)  Consiste in un elenco di frasi espresse in forma descrittiva o interrogativa, in genere
specificamente riferite a precisi comportamenti o risultati e al particolare tipo di lavoro di cui intendono essere
rappresentative. Questa tecnica permette al valutatore di concentrarsi sugli elementi rilevanti per la valutazione. Una
variante di tale strumento è la lista di controllo a risposta libera , in cui il valutatore è libero di esprimersi senza dover
scegliere tra risposte codificate.
 Descrizione narrative  Prevedono da parte del valutatore, la libera descrizione delle osservazioni e delle valutazioni
effettuate. La destrutturazione di questo metodo può rappresentare un limite, poiché la ricchezza della valutazione
dipende dall’abilità ideativa ed espressiva del valutatore, e inoltre risultano difficili i confronti tra più persone.
 Eventi critici  Presuppone l’individuazione di precisi esempi di comportamenti adeguati o inadeguati, che
contribuiscono al successo o all’insuccesso in una determinata mansione, e il rilevamento nel valutato dei
comportamenti riferibili agli standard individuati.
 Assessment center  Consiste in una serie di prove comportamentali standardizzate, basate su diversi stimoli in cui il
comportamento attuato viene considerato come un indicatore del comportamento nel contesto reale di lavoro.
A queste tecniche si aggiungono strumenti più tradizionali utilizzati per fini valutativi:
 L’intervista di valutazione  Condotta sul singolo individuo o su gruppi, utilizza una traccia più o meno strutturata
circa gli elementi da approfondire nella valutazione. In tale tecnica, per salvaguardare l’oggettività e la completezza
della valutazione, di fondamentale importanza è la capacità del valutatore di instaurare un’adeguata relazione con
l’intervistato.
 L’osservazione diretta  Utile quando si valutano lavori semplici e/o ripetitivi.
 I questionari  Domande aperte o chiuse.
 I test  Danno la possibilità di condurre la valutazione su un elevato numero di persone e velocità di correzione e di
elaborazione dei risultati. Sono utili perché standardizzati e utilizzabili con un ampio campione.

Le fonti della valutazione


Un’importante dimensione è quella di “chi” si occupa di questa attività della valutazione, dunque dei soggetti che la svolgono.
Essi sono le “fonti della valutazione”, che possono essere rappresentate da diversi attori organizzativi:
 I superiori  Hanno un punto di vista privilegiato nell’osservazione ed elaborazione dei dati.
 I sufjordinati  Valutazione di tipo verticale. Utile per il miglioramento della relazione e della comunicazione tra capo e
collaboratore, e per i superiori che ottengono info utili per identificare i propri punti di debolezza.
 I colleghi  Valutazione di tipo orizzontale. Sono usate nelle organizzazioni che privilegiano i lavori di gruppo. Sono
funzionali ad incrementare la motivazione, l’efficacia e l’apertura al cambiamento ma possono creare delle ostilità tra I
membri nel caso di una valutazione negativa.
 Autovalutazione  È utile ma presenta più bias rispetto alle valutazioni esterne.
 Clienti / utenti  Consente la ricezione di una notevole quantità di informazioni. Può avvenire in forma diretta
(apposite indagini per valutare il servizio offerto) o in forma indiretta (reclami dei clienti).

Un approccio sempre più utilizzato all’interno delle organizzazioni consiste nella combinazione di differenti valutatori, si parla di
multi-source o multi-rater. Può essere una strategia utile per ottenere una valutazione a “360 gradi” ma bisogna fare attenzione
nel caso in cui la scelta dei valutatori, da parte del valutato, non sia pilotata al fine di ottenere valutazioni migliori.
Un tema importante è quello dell’anonimato, questo perché potrebbe incoraggiare alla formulazione di un giudizio meno
accurate, al contrario, quando la valutazione non è anonima, si incrementa la possibilità di formulare un giudizio maggiormente
accurate.

La comunicazione della valutazione


È importante che la valutazione si concluda con l’espressione di un giudizio e con lo svolgimento di un colloquio finale, che ha
lo scopo di condividere gli esiti della valutazione (feedback) e di impostare le azioni propositive per il futuro.
Il colloquio finale ha come obiettivo quello di ripercorrere il processo e gli esiti della valutazione in modo da considerare diversi
aspetti del futuro lavorativo del valutato.
Per giungere alla definizione di un programma di azioni per il futuro, capo e collaboratore dovrebbero discutere gli obiettivi –
delineando i risultati attesi e i tempi previsti per il loro raggiungimenti – e le strategie più adeguate da adottare per
realizzarli e inoltre considerare le aspirazioni di sviluppo professionale del valutato. Importante è quindi lo stile di comunicazione
adottato, che deve essere centrato sul comportamento e non sulla persona.
È fondamentale concordare il momento in cui avverrà la restituzione, riservando a essa un tempo programmato e non casuale,
oltre che un luogo stabilito. Sia il valutatore sia il valutato dovrebbero inoltre avere il tempo di preparare l’incontro. L’inizio
della vera e propria comunicazione della valutazione dovrebbe essere preveduto dalla condivisione con il valutato di
finalità e modalità della valutazione, dunque gli standard e dei criteri che l’hanno caratterizzata.
Altri aspetti di rilievo fanno riferimento allo stile comunicativo del colloquio che dovrebbe essere orientato allo scambio e
caratterizzato da una reale reciprocità. Dovrebbe essere centrata sul comportamento e non sulla persona e rivolta alla
descrizione dei comportamenti desiderati e di quelli indesiderati.
Inevitabilmente la valutazione potrà comprendere anche feedback negativi, ed è consigliato elencarli solo dopo quelli positivi
approfondendo anche il punto di vista del valutato.
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Valutare la valutazione
Molti studi si sono rivolti a capire quali siano gli elementi che determinano l’efficacia della valutazione e come limitare gli errori in
questa attività.

Le principali fonti di errore nella valutazione


Diversi studi hanno preso in esame gli elementi che possono influenzare la valutazione: distorsioni percettive e gli elementi del
contesto sociale dove viene effettuata la valutazione. Particolare interesse è stato rivolto agli “errori universali”, che possono
presentarsi indipendentemente dal sistema di valutazione utilizzato, perché legati a distorsioni percettive. Essi comprendono:
 Indulgenza e severità  Nel primo caso, per la manifestazione di generosità, nel secondo caso per manifestazione
di una certa durezza.
 Effetto alone  Un giudizio globalmente negativo o positivo in base a un singolo aspetto.
 Tendenza centrale  Uso prevalente dei valori medi della scala di valutazione tralasciando quelli estremi.
 Abitudine ed errori di memoria  Implicano la tendenza a non modificare i propri giudizi.
 Standardizzazione  Assegnare il medesimo punteggio ad ogni dimensione valutata.
 Pregiudizi e stereotipi.
 Somiglianza e contrasto  Tendenza a valutare meglio le caratteristiche più vicine a quelle della persona assunta come
modello di riferimento.
 Effetto dell’ordine temporale di raccolta delle informazioni  Tendenza ad attribuire rilevanza differente alle
informazioni raccolte nella fase iniziale o finale della valutazione.
 Proiezione  Attribuzione verso altri delle proprie caratteristiche.
 Coazione a giudicare  Difficoltà a separare la raccolta dei dati dalla valutazione, formulando giudizi precoci

Altri elementi ritenuti importanti negli ultimi anni sono i fattori del contesto sociale, il clima e la cultura organizzativi, gli sviluppi
tecnologici e gli obiettivi della valutazione.
All’influenza sulla valutazione, si aggiungono elementi legati alle caratteristiche del valutatore. Tziner e collaboratori (2001, 2002)
per “comfort and confidence” intendono infatti la capacità dei valutatori di gestire l’apprensione che può accompagnare la
valutazione per le conseguenze che essa comporta.
Anche l’autostima, l’autoefficacia e i tratti di personalità del valutatore possono influenzare l’attività (bassi livelli di autostima
portano a maggiore indulgenza).

I possibili rimedi
Vista la molteplicità di errori che possono occorrere è utile cercare interventi che a vari livelli si propongono di ridurne la frequenza e
gli effetti.
In riferimento alla situazione valutativa, alcuni accorgimenti possono essere efficaci per migliorare le condizioni in cui la
valutazione viene realizzata: prevedere e garantire la possibilità di condurre un’osservazione regolare e di lungo periodo dei
lavoratori, adottando un approccio multi-rater.
In riferimento agli strumenti operativi è importante un’attenta preparazione degli strumenti in modo che le dimensioni
rilevate siano chiaramente definite, significative e ciascuna corrispondente a una singola attività lavorativa.
Migliorare l’efficacia e promuovere l’accettazione della comunicazione attraverso l’incentivazione della partecipazione dei
valutati di esprimere, da parte dei superiori, supporto e comprensione verso il valutato; È utile, in relazione al ruolo del
valutatore, prevedere una formazione specifica per il valutatore in modo da diminuire gli errori attraverso percorsi di training
finalizzati ad esempio ad esporre i criteri da usare per valutare, esplicitare gli errori che possono interferire, sensibilizzare al ruolo
degli obiettivi da raggiungere.

I criteri
La correttezza delle valutazioni è legata anche al rispetto di determinati criteri.
I criteri psicometrici che considerano l’accuratezza della valutazione dal punto di vista statistico. A questi, si affiancano i criteri di
utilizzo che considerano la valutazione in quanto reale strumento per motivare e sostenere la crescita delle persone. Inoltre
vanno tenuti presenti gli aspetti psicologici e sociali connessi al processo di valutazione e, in particolare, gli attori che ne prendono
arte.
Gli studi dimostrano che la valutazione e la comunicazione risultano accettabili e determinano reazioni più positive quando vengono
percepite come accurate (fonte credibile, frutto di un processo parziale e reale)
Inoltre sono indicatori importanti la soddisfazione espressa per il sistema di valutazione e per la sessione valutativa e la percezione
di utilità, precisione e giustizia. La percezione di giustizia è fondamentale per sviluppare committment e reazioni positive verso
l’organizzazione.
È inoltre importante che la valutazione si caratterizzi per un adeguato livello di condivisione. La valutazione dovrebbe essere
riconosciuta dal valutatore e dal valutato come una pratica utile e vantaggiosa per la gestione e lo sviluppo delle persone.
Infine l’ultimo criterio utile è l’integrazione della valutazione con le altre attività di gestione del personale. È necessario che la
valutazione non sia isolata dagli altri processi gestionali, ma che invece sia integrata con le fasi precedenti e successive.
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Conclusioni
Va evidenziata l’influenza della cultura organizzativa sul processo di valutazione. Ad oggi si sta cercando di indirizzare la
motivazione verso gli aspetti che riguardano la motivazione e il raggiungimento degli obiettivi, l’impiego di tecnologie ad hoc e
l’integrazione di questo momento alle restanti fasi che caratterizzano la gestione delle risorse umane.
È possibile osservare alcune tendenze attuali verso cui la valutazione in ambito organizzativo si sta sempre più indirizzando:
 Orientamento verso obiettivi di sviluppo e motivazione (non solo remunerazione);
 Responsabilizzazione del valutato;
 Intreccio della valutazione con altri elementi del sistema di gestione delle risorse umane;
 Impiego di tecnologie.

Capitolo 7. Contratto psicologico

Contenuti immateriali e nuovi codici del lavoro


L’attuale configurazione del lavoro è improntata maggiormente alle necessità del settore terziario.
È in atto un generale cambiamento dei contenuti e del significato del lavoro, la formazione e la comunicazione hanno ruolo
centrale ciò che lega le persone al loro lavoro e all’organizzazione è di natura essenzialmente immateriale.
Non è tanto la disponibilità di spazi o di apparecchiature a “fare la differenza” quanto le disposizioni etiche e di volontà –
psicologiche – delle persone. In tale contesto, il coinvolgimento e di conseguenza la negoziazione di obiettivi, strumenti e
procedure, costituiscono fattori critici e centrali di successo. La contrattazione, classicamente incentrata sulle mansioni e sui
corrispettivi, deve sempre più tener conto delle dimensioni immateriali.

Origine, evoluzione e definizione del contratto psicologico


Nel nuovo contesto economico globalizzato e flessibile, il contratto psicologico costituisce una dimensione rilevante, dato che
il contratto giuridico formale non è più sufficiente per regolare i rapporti fra le parti.
Il termine specifico fu usato la prima volta da Argyris (1960) che si occupò di studiare il rapporto tra impiegati e datori di
lavoro; a sviluppare il concetto furono tuttavia Levinson e collaboratori i quali definirono come contratto psicologico
“quell’insieme di aspettative reciproche e mutamente accettate tra organizzazione e lavoratori”. Le aspettative sono presenti sia
a livello dell’individuo sia a livello dell’organizzazione.
Rousseau modificò la definizione di contratto psicologico e lo individuò nell’insieme delle credenze dell’individuo circa gli
obblighi reciproci esistenti tra l’individuo stesso e la sua organizzazione, specificando che esso ha origine quando la persone
inferisce promesse che generano tali credenze. Identifica l’elemento essenziale nella soggettività, affermando che il contratto
psicologico è una percezione individuale diverso da ciò che viene formalizzato dal contratto di lavoro. Questa visione tende a dare
meno rilievo alla prospettiva dell’organizzazione. Inoltre distingue i doveri, percepiti reciproci fra le parti, dalle attese della persona
rispetto al proprio lavoro.
Robinson, Turnley e Feldman hanno evidenziato che il lavoratore percepisce più negativamente il mancato rispetto degli obblighi
assunti piuttosto che l’insufficiente realizzazione delle proprie aspettative.
Guest. Critica la teorizzazione di Rousseau, sostenendo che il contratto psicologico non può essere limitato alla sola prospettiva
del lavoratore dal momento che si perderebbe l’elemento tipico della contrattazione, ovvero la reciprocità. Inoltre afferma che il
contenuto del costrutto può essere costituito da aspettative, bisogni, promesse e doveri, e in particolare, definisce l’aspettativa
come la congruenza fra ciò che il lavoratore si attende dal lavoro e ciò che effettivamente egli sperimenta.
Importante, valutando il contenuto del contratto psicologico, chiedersi quali possano essere le sue funzioni. Secondo McFarlane
Shore e Tetrik le principali funzioni del contratto psicologico sono:
1. Ridurre l’incertezza  Il contratto psicologico riempie di fatto il vuoto normativo, regolando in modo dinamico i
molteplici aspetti della relazione tra il lavoratore e l’azienda. I membri dell’organizzazione grazie a esso si sentono
rassicurati e agiscono basando il proprio comportamento su accordi mutamente compresi e sempre aggiornati.
2. Fornire un modello di comportamento  Il lavoratore compie le proprie scelte e indirizza le proprie azioni tenendo
conto di principi di equità percepita.
3. Offrire al lavoratore il senso della propria influenza su ciò che accade dentro l’organizzazione  In base agli accordi
informali assunti, il lavoratore si sente parte attiva nella definizione del rapporto lavorativo. In tal modo si
anticipano le future transazioni, si bilancia l’intensità dell’impiego e si rafforza la dedizione e l’appartenenza
organizzativa.

La teoria sociale di (Blau,1964) sottolinea il ruolo del bilanciamento e del livello degli obblighi e delle richieste.

La formazione del contratto psicologico


Il contratto psicologico prende forma: a) da uno schema, un modello, mentale relativamente stabile e durevole; b) da norme sociali
che spingono i lavoratori a cercare e rispettare un accordo in grado di rappresentare il loro rapporto con l’organizzazione.
Al processo di contract making partecipano fattori in gioco anche nella fase di socializzazione pre lavorativa, in cui l’andamento
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del processo è misurabile tramite due variabili principali: il grado di realismo con cui il soggetto si rappresenta la vita lavorativa in
un certo contesto, e il grado di congruenza tra aspettative e desideri, le capacità della persona e le risorse e opportunità offerte
dal contesto.
Lo step successivo avviene durante la fase di recruiting e di hiring: il patto in oggetto include la decisione di entrare a far parte di
un’organizzazione. In questa fase avviene una prima conoscenza tra lavoratore e mondo economico e valoriale dell’organizzazione.
Segue la fase della prima socializzazione sul lavoro dedicata al reperimento di informazioni, attraverso l’interazione con i
rappresentanti dell’organizzazione e la percezione della cultura organizzativa nelle applicazioni pratiche. La sfida per le organizzazioni
diventa quella di individuare le modalità più efficaci per gestire il nuovo contratto psicologico al fine di mantenere elevati il
commitment e la motivazione delle loro risorse umane.

Tipologie e contenuti del contratto psicologico


I contratti psicologici si distinguono in relazionali e transazionali, rappresentando gli estremi di un unico continuum. Ulteriori aspetti
che si intrecciano con questi termini sono rappresentati dalla strutturazione del tempo e dalle richieste di performance.
Secondo Rousseau la strutturazione del tempo e le richieste di performance sono gli aspetti che contribuiscono a distinguere fra
contratti a dominanza relazionale e quelli a prevalenza transazionale. Inoltre costituiscono variabili che hanno forte rilievo nella
caratterizzazione degli attuali contratti di lavoro.
Nei contratti psicologici transazionali si ravvisano elementi tipici come la durata limitata nel tempo e compiti ben specificati, con
basso investimento affettivo.
Nel contratto psicologico di transizione le richieste di produzione sono basse e ci sono scarse possibilità di guardare al futuro con
ottimismo, il lavoratore si trova quindi in uno stato negative e conflittuale.
Nei contratti psicologici relazionali, gli elementi tipici sono rappresentati dalla durata a tempo indeterminate e dalla minore
definizione dei contenuti del lavoro ; gli accordi si formano sulla reciproca fiducia e lealtà e le ricompense sono determinate dalla
prestazione.
Anche nei contratti psicologici bilanciati la durata è a tempo indeterminato, ma i contenuti sono meglio specificati e ci sono accordi
basati sull’andamento dell’organizzazione
Rousseau ha poi diviso le quattro dimensioni in altri sottodimensioni, in particolare quelle esplorate con il Psycological Contract
Inventory – PCI.
 L’accordo relazionale basato sulla fiducia e sulla lealtà, ha come elementi fondamentali la stabilità/sicurezza e la
fedeltà: al lavoratore viene chiesto di eseguire tutto ciò che la sua mansione può prevedere in cambio di un salario
stabile e di un impiego a lungo termine, sostenendo in ogni modo gli interessi dell’azienda.
 L’accordo bilanciato è caratterizzato dall’idoneità al lavoro esterno, dall’avanzamento interno e da performance
dinamiche. Il lavoratore sviluppa la sua carriera acquisendo nel contempo capacità spendibili anche nel mercato esterno.
L’avanzamento interno rappresenta la ricompensa per lo sviluppo delle abilità richieste. Se il lavoratore è tenuto a
raggiungere performance dinamiche e di successo, l’azienda s’impegna da parte sua a garantirgli formazione continua e
benefit.
 L’accordo transazionale si fonda su performance definite e sul tempo determinato: il lavoratore deve svolgere solo i
compiti assegnati e per cui è pagato; l’organizzazione fornisce la formazione specifica per lo svolgimento di quella
determinata mansione solo qualora ciò sia necessario. Il dipendente non ha alcun obbligo per il futuro.
 L’accordo di transizione è essenzialmente caratterizzato dall’incertezza sul futuro lavorativo del dipendente, sulla natura
dei suoi obblighi nei confronti dell’organizzazione e sulla diffidenza fra le parti. In questa situazione l’ambiente lavorativo
può determinare un logorio del lavoratore, legato a una visione pessimistica del suo futuro nell’azienda, con possibili
ripercussioni sulla qualità della vita.
Queste quattro dimensioni possono interagire fra loro nel corso di uno o più rapporti lavorativi. Quindi il contratto psicologico ha
diversi e mutevoli contenuti per il lavoratore.

Rottura e violazione del contratto psicologico: principali antecedenti e conseguenze


Sono molto importanti i fenomeni che si verificano nel momento in cui il contratto psicologico viene rotto o violato.
Secondo Morrison e Robinson, la rottura (breach) è un fenomeno di natura essenzialmente cognitiva e consiste nella
constatazione da parte del lavoratore che l’organizzazione ha fallito nel adempire a uno o più obblighi nei confronti del
proprio contratto psicologico, non rispondendo i corrispettivi promessi in modo adeguata. La violazione (violation) è invece
un’esperienza prevalentemente affettiva di frustrazione, rabbia o risentimento vissuta dal lavoratore in conseguenza del
mancato rispetto da parte dell’organizzazione di una o più promesse relative al contenuti del contratto e degli effetti negativi
che ne derivano.
Secondo il modello di Morrison e Robinson, la rottura può essere descritta come un processo che si realizza in più fasi.
1) All’inizio il lavoratore percepisce che l’organizzazione non è più in grado di mantenere le sue promesse, per incapacità di
controllare i fattori ambientali o per riduzione delle risorse disponibili (reneging), oppure rileva una discrepanza tra le proprie
aspettative relative agli obblighi reciproci e quelle dell’organizzazione (incongruence).
2) Successivamente, segue un momento di ricerca del significato di quanto è accaduto e di riflessione su quello che andava
fatto per mantenere gli impegni assunti, sia da parte del lavoratore sia dell’organizzazione, giungendo a una vera e propria
dimensione di percezione della rottura del contratto psicologico. Le conseguenze principali della rottura sono rappresentate da
insoddisfazione lavorativa, ridotta fiducia nell’organizzazione, basi livelli di commitment, di cittadinanza organizzativa e di
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benessere psicologico, cali della performance lavorativa, aumento dei comportamenti di ritardi, assenteismo e intenzioni di
turnover.
3) Alla valutazione di tipo cognitivo (rottura) può seguire un processo interpretativo sulle cause e sulle modalità della
rottura stessa, che porterà verosimilmente a un’esperienza affettiva di disappunto, rabbia, frustrazione e risentimento, e quindi
alla violazione del contratto psicologico.
Non necessariamente alla rottura segue la violazione del contratto.
La probabilità di sperimentare un vissuto di violazione dipende da tre aspetti: monitoraggio (osservazione e reperimento di
informazioni), la dimensione della perdita percepita e la forza del legame tra organizzazione e dipendente.
Le possibili risposte dell’organizzazione alla percezione di una violazione del contratto psicologico da parte del lavoratore
sono rappresentate dal silenzio, nella speranza che la situazione si risolva spontaneamente, dal richiamo verbale o scritto, dal
licenziamento o addirittura dal mobbing strategico.

La misurazione del contratto psicologico


Rousseau e Tijoriwala (1998) individuano tre tipologie di misurazione:
1) La misurazione content-oriented (orientata alle contenuti) individua aspetti specifici, fra cui per esempio la sicurezza lavorativa o
la possibilità di acquisire nuove conoscenze, e propone classificazioni quali la distinzione fra contratti “transazionali” e
“relazionali”.
2) La misurazione feature-oriented (orientata alle caratteristiche) fa riferimento a configurazioni del contratto, fra le quali l’essere
esplicito o implicito, o ancora stabile o meno nel tempo, indipendenti dai suoi contenuti, ma comunque tali da poterne
causare la rottura o la violazione.
3) La misurazione evaluation-oriented (orientata alla valutazione) è basata sulle modalità di apprezzamento del contratto da
parte dei lavoratori e mette in luce l’esperienza soggettiva di ciascuna di essi rapportata al comportamento
dell’organizzazione. In particolare esplora le reazioni provocate dal fatto che l’azienda abbia mantenuto le promesse fatte
(fulfilment), le abbia violate (violation) o abbia cambiato il contenuto del contratto psicologico (change).
Conway e Briner (2005), in un lavoro di revisione della letteratura del settore, identificano sei tipi di misurazioni del contratto
psicologico:
1. I questionari self-report - rappresentano gli strumenti maggiormente utilizzati nella ricerca volta ad analizzare il contratto
psicologico. Sono diretti a rilevare le dimensioni del costrutto quali il contenuto, la rottura e le conseguenze. La maggior parte
dei questionari prevede la formulazione di item in termini di promesse e obblighi considerati dalla prospettiva del lavoratore: è
semplice somministrare questo tipo di strumento ma può risultare carente nel caso in cui non valuti dimensioni considerate
importanti.
La misurazione volta a rilevare i contenuti del contrato psicologico propone una lista di item in termini di reciproche promesse fra
lavoratori e organizzazione e hanno l’obiettivo di raccogliere le percezioni dei termini del contratto da parte dei dipendenti, cioè
chiede ai rispondenti di specificare se esse siano state mantenute, I vantaggi di questa misurazione sono la possibilità di
individuare le credenze considerate di maggiore importanza e dalla nota facilità di somministrazione dei questionari self-report;
Gli svantaggi consistono nel fatto che alcune dimensioni del contratto potrebbero risultare non esplorate dagli item proposti,
alcuni dei quali potrebbero essere percepiti come non rilevanti.
Per misurare la rottura del contratto psicologico vengono utilizzate tre tipi di scale: la prima propone una lista specifica di item in
termini di promesse e chiede ai rispondenti di specificare quante di esse siano state realmente mantenute dall’organizzazione; la
seconda consta di parecchie domande a carattere generale; la terza consiste in un singolo item, di carattere generale
Solitamente la rottura del contratto psicologico viene esplorata rilevando le percezioni dei lavoratori relativamente a quante delle
promesse dell’organizzazione siano state effettivamente mantenute. La misurazione è incentrata sul fulfilment piuttosto che sul
breach, infatti si rilevano le percezioni dei lavoratori relativamente a quante delle promesse dell’organizzazione siano state
effettivamente mantenute.
Un’altra valutazione di è proposta di misurarlo attraverso la misurazione delle conseguenze derivanti da mantenimento, rottura o
violazione, attraverso questionari volti a rilevare gli effetti di queste situazioni su particolari atteggiamenti lavorativi come per
esempio la soddisfazione e l’impegno organizzativi, su sentimenti ed emozioni positive o negative sul lavoro o su comportamenti
o intenzioni di comportamento, quali per esempio la cittadinanza organizzativa, la performance, l’assenteismo e in turnover.
Nonostante i questionari self-report siano gli strumenti più utilizzati, essi presentano alcuni limiti. Un limite è rappresentato dal
fatto che spesso non è specificato quando si sia verificata l’eventuale rottura e un altro è la generale esasperazione nel
presentare la discrepanza tra ciò che i dipendenti si aspettavano e ciò che hanno ottenuto dall’organizzazione. Questi strumenti
possono anche essere carenti nella definizione specifica di chi o cosa sia l’organizzazione, nella specificazione degli item e nella
pretesa che l’organizzazione adempia le sue promesse anche quando il lavoratore non lo fa.
2. I metodi basati sul ricorso a scenari per la misurazione del contratto propongono ai partecipanti la lettura di testi che
descrivono situazioni lavorative o storie di vita lavorativa relative a uno stesso contesto lavorativo, nelle quali sono coinvolti
diversi lavoratori fittizi. Sono usati in combinazione con questionari somministrati immediatamente dopo la lettura. Il vantaggio
nell’utilizzo di questo strumento è la possibilità di manipolare le variabili indipendenti. Il limite è che lo scenario potrebbe
apparire eccessivamente irrealistico rispetto a quello quotidianamente frequentato, inoltre può essere una tecnica assai onerosa.
3. La tecnica degli incidenti critici sia individuale sia di gruppo è utile per valutare il contenuto del contratto. Essa consiste nella
conduzione di un’intervista nella quale si chiede al lavoratore di selezionare e descrivere concrete situazioni lavorative,
particolarmente positive o negative per il mantenimento del contratto, nelle quali egli è stato coinvolto.
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4. Conway e Briner sostengono l’opportunità di ricorrere all’uso di diari giornalieri, utili soprattutto nello studio dell’esperienza di
rottura del contratto psicologico. Possono essere considerati un’alternativa metodologica all’utilizzo dei più consueti questionari.
Offrono la possibilità di ottenere descrizioni di eventi, comportamenti ed emozioni nel momento stesso in cui essi si
manifestano e in un modo relativamente non intrusivo.
5. Interviste in profondità possono risultare utili solo in combinazione con alti metodi per valutare l’esistenza di possibili
relazioni causali tra le variabili considerate e per la generalizzazione delle informazioni ottenute.
6. Il ricorso allo studio dei singoli casi è molto raro.

Il contratto psicologico nel lavoro tipico


Con il termine atipico si indica solitamente una realtà dalle molteplici dimensioni che interessa categorie molto diverse tra
loro: part-time, lavoro somministrato, collaborazioni a progetto, apprendistato, ecc. Il contratto psicologico dei lavoratori
atipici sembra, in generale, essere caratterizzato maggiormente dagli aspetti transazionali rispetto a quelli relazioni. È stata
riscontrata una diversità nella tendenza a percepire le violazioni del contratto tra i lavoratori atipici e quelli standard: i primi
colgono con minor frequenza degli altri eventuali rotture nel contratto psicologico.
Le violazioni percepite prevedono ripercussioni in termini di commitment e soddisfazione lavorativa ed uno spostamento verso il
polo transazionale.
Un ruolo cruciale è svoto dalla motivazione che spinge le persone a svolgere un lavoro atipico: chi lo sceglie volontariamente ne
coglie a valorizza l’aspetto transazionale al contrario di chi se ne serve seguendo comunque una prospettiva di future evoluzione:
in questo caso prevale l’ottica relazionale.
In un contesto così soggetto a cambiamenti, anche la valenza del contratto psicologico è mutata e si è adattata alla situazione.
Si avverte quasi il bisogno di creare tanti patti quante sono le tipologie di lavoro, nelle quali i lavoratori apportano competenze
specifiche di tipo pratico ma anche un bagaglio di vissuti esperenziali ed emotivi.
Employability: alla base di un nuovo contratto psicologico atto ad attrarre e trattenere i collaboratori migliori per l’azienda.
Lavoratori più attenti alla costruzione della propria crescita professionale, partnership strategica con l’organizzazione.

Conclusioni

Capitolo 9. Empowerment individuale e organizzativo


L’empowerment è un concetto multidimensionale “multilivello” che indica tanto un’esperienza soggettiva e psicologica delle
persone quanto le condizioni oggettive sociopolitiche entro le quali i soggetti sviluppano le loro esperienze.
Zimmermann (1999) individua tre concetti fondamentali attraverso i quali definire i diversi livelli di empowerment: il
controllo, la consapevolezza e la partecipazione. Il controllo si riferisce alla capacità, percepita o attuale, di influenzare le
decisioni. La consapevolezza critica consiste nella comprensione del funzionamento delle strutture di potere e dei processi
decisionali, di come i fattori in gioco vengono influenzati e le risorse mobilitate. La partecipazione rimanda all’operare per
ottenere risultati desiderati.

Le origini del costrutto


Il costrutto dell’empowerment si sviluppa tra gli anni ’50 e ’60 negli Stati Uniti, all’interno degli studi politici e del linguaggio
dei movimenti emancipatori e di lotta per i diritti civili delle donne e delle minoranze, accomunati dal motto di “dare voce
e potere a chi non ne ha”. In questo ambito il concetto richiama la possibilità, da parte di chi è socialmente e
politicamente emarginato, di emanciparsi da situazioni di opportunità limitate, e di passare da una condizione di passività e
dipendenza a una condizione di attività e protagonismo nel proprio contesto sociale e politico.
Negli anni ’70 il concetto di empowerment appare nella letteratura medica e psicoterapeutica, dove viene affrontato soprattutto
nella sua componente individuale, in relazione al processo di riduzione della dipendenza del paziente dalla figura del medico o del
terapeuta.
Nello stesso periodo anche nell’ambito della pedagogia degli adulti cresce l’interesse per l’empowerment: in un’ottica simile a
quella della relazione medico-paziente, qui il concetto si trova alla base del processo di autonomizzazione che libera il discente
dalla dipendenza del docente, e richiama inoltre, sia la possibilità di crescita e di apprendimento durante tutto il ciclo di vita
sia l’importanza per l’adulto di partecipare alla progettazione e all’attuazione di un percorso formativo.
Negli anni ’80 viene recuperato l’accento sul significato sociale dell’empowerment che Rappaport, uno dei primi psicologi a
sistematizzare la teoria sull’empowerment, definisce come “un processo intenzionale permanente, centrato sulla comunità
locale, che implica il rispetto reciproco, l’elaborazione critica, il prendersi cura di e la partecipazione al gruppo. Attraverso il
gruppo le persone che mancano di risorse, ugualmente condivise, acquisiscono un accesso e un controllo maggiore rispetto a
queste stesso risorse.
L’empowerment acquisisce rilievo, in un’ottica simile e negli stessi anni, anche negli studi organizzativi e manageriali, dove viene
analizzato in associazione “all’esercizio della leadership, all’attivazione di metodologie di lavoro di gruppo e allo sviluppo
organizzativo”.

Empowerment e potere

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Kanter (1977) definisce le persone disempowered come prive di potere. In questa prospettiva empowerment
significherebbe la ridistribuzione di un potere reificato: chi ne possiede troppo deve cederlo a che ne ha meno, o chi ne ha
meno deve toglierlo a che ne possiede troppo, incontrando presumibilmente delle resistenze.
Accanto alla concezione reificate del potere si trovano quelle che ne sottolineano la sua componente sociale e di
interdipendenza: il potere non esiste in sé, ma risiede nelle relazioni tra le persone. Questa posizione si incontra già in
Weber che definisce il potere come “possibilità di far valere, entro una relazione sociale, anche di fronte a una
opposizione, la propria volontà quale che sia la base di questa possibilità. Potere, qui, è l’influenza di una persona su un’altra.
Le due concezioni di potere discusse fin qui rimandano a una prospettiva ancorata all’idea di un potere su piuttosto che di un
potere con.
La prospettiva dell’empowerment, invece, ci aiuta a pensare al potere anche in termini positivi e processuali. La parola “potere”,
in quanto verbi, richiama la dimensione dell’opportunità e della possibilità del “poter fare”. Secondo questa concezione, avere
potere, essere empowered, significa non tanto detenerlo, quanto avere la potenzialità e la capacità di agire. In termini
relazionali, questo significa coniugare l’interdipendenza con la condivisione, la reciprocità, la mutualità e la solidarietà, e rimanda
alla dimensione partecipativa dell’empowerment, all’essere rafforzati dall’agire insieme con e non sugli altri.
Il rischio di questa prospettiva risiede nell’esaltazione del lato luminoso del potere, tralasciando al contempo quello
oscuro.
Chiudere gli occhi di fronte al lato oscuro del potere significa ignorare i meccanismi di sottomissione, esclusione ed
emarginazione presenti nelle nostra società.

Il processo di empowerment individuale e psicologico


A livello psicologico, l’empowerment può essere inteso sia come prodotto sia come processo, o meglio come processo
psicosociale che può portare al risultato di empowerment percepito. L’empowerment non rappresenta mai uno stato dato,
assoluto e oggettivo, ma rimane sempre oggettivamente e situazionalmente relativo.
I soggetti disempowered si sentono psicologicamente impotenti e dipendenti, passivi, pessimisti e rassegnati. Attraversare un
processo di empowerment significa riacquistare autoefficacia e un senso di locus of control interno.
L’empowerment individuale riguarda soprattutto i concetti di controllo e di consapevolezza critica e avvia cambiamenti a tre
livelli, cioè secondo tre stili interpretativi e costruttivi della realtà:
Il processo di attribuzione fa riferimento al modo in cui tentiamo di spiegare i nostri insuccessi o successi attribuendone le
cause a fattori interno o esterni.
Il processo di valutazione riguarda invece le nostre credenze rispetto agli standard con i quali valutiamo le nostre
prestazioni che, se troppo irrealistici, ‘portano a circoli viziosi di insuccessi percepiti e conseguentemente frustrazione.
Il processo di prefigurazione rappresenta il modo in cui immaginiamo, anticipiamo, visualizziamo il nostro futuro. Questo
processo oscilla tra una posizione di realismo pessimista e deprimente e un atteggiamento di ottimismo illusorio che però
sembra avere un ruolo adattativo significativo.
Divenire più consapevoli dei nostri schemi interpretativi della realtà e cercare di trovare una modalità per ridefinire il nostro
grado di controllo su di essa, significa acquisire un buon grado di autoefficacia, intesa come possibilità di controllo sulla nostra
vita senza essere né onnipotenti né impotenti.
Per realizzare il circolo vizioso dell’empowerment, ai vissuti di autoefficacia, alla presa di iniziativa e all’assunzione di
responsabilità, come esiti concreti di un processo di empowerment individuale, devono corrispondere il coinvolgimento nei
processi collettivi, progettuali e decisionali e la delega e la condivisione di responsabilità all’interno di relazioni di fiducia e di
sostegno reciproco.

Empowerment e organizzazione
Zimmermann parlando di empowerment organizzativo distingue tra “organizzazioni empowering” e “organizzazioni
empowering”. Con il primo termine si riferisce a quelle organizzazioni che prendono o influenzano con successo decisioni
politiche o che sviluppano reali alternative nell’offerta di servizi, cioè che compongono, insieme a singoli cittadini e istituzioni
pubbliche, il livello comunitario. Sono organizzazioni empowered, per esempio, le organizzazioni che si impegnano
attivamente nel contesto politico e sociale come le ONG o le organizzazioni non profit.
Le organizzazioni empowering invece sono quelle che forniscono ai propri membri strumenti per ottenere un controllo sulla
propria vita e sviluppare competenze, cioè organizzazioni che permettono e favoriscono processi interni di empowerment.
Generalmente si tratta di organizzazioni basate su una struttura democratica, all’interno delle quali viene permessa e
promossa la partecipazione dei membri sia ai risultati e alla proprietà, sia al controllo e al governo, attraverso processi
decisionali partecipativi e investimenti sull’autogestione, sulla comunicazione e sulla formazione.
Emerge qui la necessità di uno sguardo multidisciplinare in relazione al concetto di empowerment. In questo senso, da un
punto di vista psicologico, i contributi per studiare e promuovere le organizzazioni empowering si possono distinguere in due
approcci:
L’approccio psico-socio-politico – il destinatario dell’intervento volto all’empowerment è rappresentato ancora dall’individuo e
dalla sua emancipazione da una situazione powerless verso una condizione di empowerment. L’empowerment come sentimento
di autoefficacia e possibilità di autodeterminazione rappresenta in questa concezione il più alto grado di investimento
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motivazionale nell’organizzazione e di “cittadinanza organizzativa”.


L’approccio socio-organizzativo – si distingue dal primo soprattutto per il fatto che analisi e intervento non partono da una
presunta condizione di disempowerment dell’organizzazione e delle persone che la compongono, ma da situazioni
organizzative per lo meno potenzialmente empowered ed empowering.
I riferimenti teorici e metodologici di questo approccio sono da ricercare sia nella prospettiva socio tecnica del Tavistock
Institute di Londra sia nella scuola statunitense dell’OD.
L’integrazione dei due approcci suddetti crea un terzo approccio, quello etnoclinico, che integra analisi ed intervento vedendo
un’attiva partecipazione degli attori organizzativi.

Il futuro dell’empowerment tra psicologia organizzativa e di comunità: l’ipotesi del doppio empowerment
Mentre un’organizzazione empowering non deve per forza essere empowered (può non avere molta influenza politica ma offrire ai
propri membri l’occasione di sviluppare competenze e senso di controllo), essere empowering per un’organizzazione empowered
sembra sia fondamentale. Per favorire processi di empowerment di “terzi”, le persone che lavorano in organizzazioni empowered
necessitano di opportunità empowering tanto individuali quanto organizzative. Crediamo che questa esigenza valga
particolarmente per le organizzazioni di servizio alla persona o per le ONP.
È in questo ambito organizzativo che è stata sviluppata l’ipotesi del doppio empowerment da parte di soggetti
reciprocamente coinvolti in un processo di sviluppo individuale, organizzativo e comunitario, cioè l’ipotesi che l’empowerment
individuale dei soggetti disempowered possa realizzarsi solo in concomitanza con la costruzione di un funzionamento
organizzativo che consenta l’empowerment dei membri normodotati impegnati nel sostenere, accompagnare, facilitare, creare
le premesse organizzative per l’empowerment dei soggetti cui ci si rivolge e con cui si coopera e che sono,
contemporaneamente, destinatari e costruttori dei loro servizi.
Questa visione è auspicabile in tutte quelle organizzazioni che prevedono una relazionalità reciproca e funzionale al raggiungimento
del cambiamento.

Capitolo 10. Il career counseling


Attualmente nell’ambito del lavoro si è verificato un evidente spostamento, dal momento che, da lineare, prevedibile e con
percorsi di carriera tradizionalmente predefiniti qual era, è diventato incerto e caratterizzato da richieste di flessibilità. In
questo nuovo scenario, a maggiore ragione, acquista importanza e significato l’azione che il career counseling può svolgere
all’interno di un territorio professionale dai confini incerti, spesso minacciosi, o quantomeno non rassicuranti per le persone
chiamate a fronteggiare costantemente incertezza e cambiamento.
Nel XX° secolo le organizzazioni offrivano ai lavoratori un ambiente che si può definire “di contenimento”, assegnando loro una
determinata posizione organizzativa e offrendo un’ampia narrativa precostituita riguardo a come si sarebbero svolte le loro vite.
Nell’era postmoderna invece, i lavoratori sono chiamati a costruire essi stessi la loro storia professionale.
Nello sforzo di inquadrare le attuali caratteristiche del career counseling, molto utile e completa appare la rassegna dei punti di
forza e di debolezza, delle opportunità e delle minacce correlate alle specificità di tali interventi effettuata da Whiston
(2003). Riguardo ai punti di forza del career counseling viene sottolineata la sua ricca storia e il valido corpus di
letteratura su cui si può contare. In più, spesso nel career counseling continuano a essere presenti elementi volti ad assistere il
cliente nel conoscere se stesso, acquisire conoscenze riguardo al mondo del lavoro, integrare le informazioni su di sé e sulle
occupazioni. Inoltre, occorre evidenziare che i career counselor hanno cominciato a comprendere il processo di career
counseling e come strutturare il processo per assistere il cliente, dal momento che esistono consistenti risultati che
testimoniano come il career counseling sia altamente efficace e come alcuni interventi siano più idonei di altri.
Tra le debolezze del career counseling, Whiston (2003) individua l’esiguità delle conoscenze dei professionisti riguardo ai risultati
delle ricerche sulle strategie di intervento e la necessità di progressi in tali ambiti. Vale a dire che spesso il career counseling è
basato su un limitato set di pratiche comuni senza che ciò si collochi all’interno di un quadro teorico di riferimento. Ultima
debolezza segnalata è anche la mancanza di ricerche sul career counseling rivolto a diverse popolazioni.
Il processo di career counseling è stato approfondito da diversi autori presenti nella letteratura; si sono sviluppati anche metodi
diversi di applicazione (es. Individuale o di gruppo).
Di fatto però i modelli di ricerca studiati sono davvero pochi e le conoscenze a disposizione sono esigue.
Il vantaggio del career counseling è che esso può aiutare un ampio range di popolazione che si trova in una condizione di
difficoltà; oggi i classici modelli sono stati arricchiti dallo sviluppo di nuove ed avanzate tecnologie che vanno però utilizzate in
maniera congrua.

Prospettive teoriche e applicative


Il career counselor presumono che i clienti dovranno inevitabilmente confrontarsi, nel corso della loro vita, con transizioni
professionali, sia volontarie sia involontarie, che possano derivare da perdita del lavoro, cambiamenti delle circostanze di vita
o semplicemente da una naturale progressione di carriera, e che saranno pertanto indicate con le seguenti etichette
linguistiche: perdita di lavoro, rientro e career pathing.
Il primo compito fondamentale del career counselor è organizzare l’informazione complessa che fornisce il cliente, spesso
caratterizzata da molte sfaccettature. Facendo questo, l’informazione deve essere inserita in un quadro concettuale che

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identifichi i problemi salienti, gli esiti desiderati e il piano di azione, per arrivare a un accordo condiviso tra career counselor e
cliente e al relativo impegno di perseguire le azioni concordate.
In relazione all’approccio del counselor, Bobek e Robbins sottolineano che sono le teorie sullo sviluppo personale e di carriera ad
essere di aiuto nel:
– Far emergere le connessioni critiche tra il punto di vista del counselor e le azioni intraprese per aiutare i clienti.
– Rinforzare il bisogno di consistenza concettuale e teorica nell’azione.
– Integrare le questioni personali e professionali quando ci si occupa dei bisogni degli adulti.
Gli autori, a riguardo, delineano quattro teorie di sviluppo professionale per comprendere lo sviluppo di
carriera. Le quattro teorie di sviluppo professionale, conducono all’identificazione di questioni personali e
professionali e a stabilire esiti chiari e misurabili per il cliente.
 La prospettiva di adattamento Persona-Ambiente  tale approccio si concentra essenzialmente sull’applicazione di
abilità e conoscenze al nuovo contesto di lavoro. Un tema importante è quello del trasferimento delle competenze
acquisite in passato in un nuovo ambito lavorativo. Utilizzando questo approccio, elementi di criticità risiedono nella
possibile sensazione di ridotta autostima dovuta a perdite personali e professionali, unita all’indecisione e all’ansia
relativa al futuro incerto, che devono essere prese in considerazione e risolte per un adeguato svolgimento
dell’intervento.
 La teoria dello sviluppo professionale di Super  In questa teoria è fondamentale comprendere gli stadi della vita e i
ruoli degli individui per aiutali a inquadrare bisogni e aspettative.
L’attenzione agli interessi professionali include sia lo sviluppo di chiare mete lavorative sia lo sviluppo della
consapevolezza riguardo alle competenze necessarie per competere con gli altri in ambito professionali.
Quindi gli interessi personali chiamano in causa, per i clienti, l’accettazione dei propri limiti e l’assunzione di nuovi
ruoli.
 La teoria socio cognitiva  Enfatizza i fattori motivazionali, come le credenze di autoefficacia e le aspettative di risultato
per spiegare il processo di sviluppo professionale
 Le teorie dello sviluppo degli adulti  A questo proposito vengono segnalate due teorie. La teoria di Baltes sostiene
che con l’età le persone mostrano una considerevole plasticità o comportamento compensatorio di adeguamento,
evidenziando da un lato l’importanza della valutazione realistica e dall’altro il valore delle energie adattive creative, per
utilizzare nel miglior modo sia le competenze attuali sia le precedenti in un nuovo contesto con nuove richieste.
La teoria della continuità di Atchley riflette l’enorme enfasi che la letteratura evolutiva attribuisce al mantenimento di
uno scopo nella vita o al mantenimento di significato durante i momenti importanti di transizione della vita: mezza
età, passaggio da giovane ad anziano, da anziano a vecchio. Fare scelte adattive o realistiche dipende dal riuscire a
connettere il precedente lavoro e il nuovo nel contesto dei cambiamenti esterni o interni. A livello personale, ciò
richiede rischio emotivo e supporto sociale.

Le transizioni dell’età adulta: percorso di carriera, perdita del lavoro e reinserimento


Le transizioni di carriera nell’età adulta (dai quarant’anni in avanti), appaiono complesse per le implicazione intrinseche che le
caratterizzano e che di solito richiamano alle modificazioni del percorso professionale, risposte alla perdita del lavoro e il rientro
nel mercato del lavoro.
 Career Pathing. Il Career Pathing si occupa di sviluppare processi e risorse finalizzati ad aiutare gli individui a far si che i
loro contributi siano sempre più soddisfacenti e significativi. A livello individuale, viene considerata la sequenza
programmata e non programmata delle posizioni occupazionali di un lavoratore nel tempo. Il primo elemento da
identificare è la meta (es. l’individuo desidera uno spostamento verticale o laterale). Dopo l’identificazione della meta si
passa a un accertamento di abilità, di esperienza e di fattori come la motivazione e il livello di energia per favorire
un’autovalutazione realistica da parte dell’individuo. Sotto il profilo occupazionale, invece, si procede con una disamina
delle opportunità di lavoro disponibili, delle competenze richieste e delle aspettative di performance, in modo da poter
effettuare un confronto tra tali aspetti occupazionali e ciò che l’individuo adulto presenta come caratteristiche e
background. Gli step successivi consistono nell’individuare quali azioni e quali strumenti siano più adatti per raggiungere
la meta. È necessaria una varietà di azioni e strumenti in quanto c’è la necessità di porsi in maniera creativa. Inoltre,
per gli individui in transizione di carriera, la selezione delle azioni e degli strumenti più consoni ai loro bisogni
individuali e professionali favorisce una transizione con esito maggiormente positivo. Il career counselor che lavora
con gli adulti deve conoscere tutte le problematiche che possono limitare l’efficacia di specifiche azioni o metodi di lavoro.
 La perdita del lavoro. La transizione di carriera che sembra avere, potenzialmente, le conseguenze più critiche è la
perdita del lavoro. La perdita del lavoro e la disoccupazione continua possono avere serie ripercussioni per gli adulti,
considerando anche solo i seguenti aspetti: quando sono alla ricerca di un lavoro, generalmente impiegano più
tempo dei giovani a trovarlo; per gli adulti con basso livello di istruzione trovare un nuovo impiego risulta ancora
più difficile. All’interno delle organizzazioni, inoltre, può esserci una schiera di adulti di mezza età la cui prospettiva è
di non trovare una posizione di status comparabile a quella che avevano, senza tuttavia essere pronti al pensionamento.
Sotto il profilo delle ricadute, la perdita del lavoro può determinare la compromissione della salute fisica e mentale
della persona, risultando associata ad aumento di ansia, depressione, sensazione di isolamento, di fallimento e di rifiuto,

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e inoltre a bassa autostima e fiducia, e a disturbi somatici legati allo stress. L’azione del career counselor, per
controbilanciare tali effetti negativi della perdita del lavoro, è volta a coinvolgere l’adulto nella ricerca attiva.
 Rientro. Si riferisce a individui che hanno focalizzato il proprio tempo, di solito numerosi anni, e considerevole energia
su ruoli diversi da quello del lavoro salariato. Sono le donne ad affrontare più frequentemente transizioni di
carriera. Il rientro può essere motivato da fattori vocazionali, familiari o finanziari e può implicare tanto il desiderio
di avere una carriera quanto quello di diventare autosufficienti, tenendo presente che molte donne “continuano a
rimandare la formazione del loro ruolo vocazionale a 35 anni, quando hanno stabilito i loro ruoli familiari”.
Possono pertanto sperimentare conflitti di ruolo e problemi emotivi, tentando di bilanciare le richieste della
famiglia e gli obblighi lavorativi, così come altre difficoltà comuni riscontrate, per esempio la scarsa autostima, la
sottovalutazione delle proprie abilità e autonomia, la minor assertività rispetto alle donne in carriera. Un career
counseling efficace, in riferimento a tale target di intervento, richiede agli operatori di tenere nella giusta
considerazione tutti i fattori menzionati e di considerare le adeguate prospettive teoriche ed empiriche, in grado di
intensificare la comprensione di tali lavoratori adulti e di guidare positivamente il processo di assistenza nella transizione
di carriera.
 Problemi frequenti dei clienti. Punti in comune nelle istanze sottoposte al counselor dagli adulti che attraversano
transizioni di carriera: stabilire un’autovalutazione realistica delle proprie competenze e abilità; fronteggiare la
perdita economica e l’ansia, la perdita della sicurezza del lavoro, dei colleghi, dell’identità, la mancanza di fiducia e
autostima e la paura del fallimento; reagire gli svantaggi legati all’età.

Tra le nuove proposte: il transition counselor


Krumbolts e Chan (2005) delineano una visione ampliata del career counseling, che non soltanto tenga conto del nostro
mondo del lavoro ormai globale e guidato dalla tecnologia, ma che addirittura lo abbracci e se ne sostanzi. In tal senso, per
ratificare il cambiamento e in qualche modo celebrato proficuamente, essi propongono il concetto di transition counseling. Per
attuare tale visione appare necessaria una tipologia di intervento focalizzata su 5 specifici cambiamenti:
1. Espandere l’obiettivo dell’intervento. L’obiettivo non è più semplicemente aiutare i clienti a prendere una
decisione di carriera, ma è piuttosto quello di aiutare i clienti a creare e dar corpo a esistenze che risultino per
loro soddisfacenti.
2. Includere tutti gli aspetti della vita. Il career counselor non possono più ignorare i temi personali e connessi
all’ambito familiare dei loro clienti. Le carriere hanno profonde influenze sulle amicizie, le famiglie e il senso
dello scopo della propria vita.
3. Predisporre training più ampi e comprensivi di maggiori abilità. Il training del transition counselor del futuro
dovrà essere molto più inclusivo, prevedendo l’abilità dell’operare di confrontarsi con sensibilità ed efficacia
con clienti appartenenti a diverse culture, che di conseguenza presentano complessi problemi sociali, finanziari
e interpersonali.
4. Confrontarsi con tutte le transizioni. Attualmente, la vita reale può presentare un numero consistente di
transizioni definite maggiori e un numero indefinito di transizioni definite minori. Nel futuro i transition
counselor dovranno aiutare i loro clienti con diversi tipi di transizioni, come per esempio dal lavoro alla
disoccupazione, ma anche dalla vita da single alla vita coniugale o viceversa, etc.
5. Costruire una relazione a lungo termine. Attualmente un tipico intervento di career counseling può
prevedere una durata anche solo di tre sessioni. Quando la decisione di carriera è raggiunta, il counseling si
considera solitamente terminato. Nel nuovo modello il counseling prevede una relazione che prosegue
dal momento che, andando avanti nella vita, le persone si trovano a fronteggiare nuovi problemi e nuovi
cambiamenti e hanno frequentemente bisogno di qualcuno che li aiuti a pensare e a riflettere tra le varie
alternative, a pianificare un corso di azione e a passare all’azione solo dopo un’attenta riflessione.

Secondo Krumboltz e Chan, il transition counseling non è un intervento a unico atto, bensì un processo continuo attraverso la
vita, sulla base dei bisogni del cliente.
La ricerca empirica come direttrice di riferimento per intervento di career counseling efficaci
Nonostante siano stati formulati modelli teorici e realizzate numerose ricerche sul processo di counseling personale, siamo solo
agli inizi, ad oggi, infatti, Heppner ritiene che mancano degli studi specifici che evidenzino gli ambiti di ricerca su cui bisogna
lavorare e la stimolazione affinché vengano realizzate.
Da alcuni dati emersi di recente, emerge comunque l’esigenza di preparare il counselor secondo una formazione olistica che
tenga conto di tutti I fattori che contraddistinguono i soggetti e i contesti in cui sono inseriti.
All’efficacia del counseling è opportune affiancare l’uso di microtecniche, come esercizi scritti, interpretazioni individualizzate,
modeling.
La ricerca sul career counseling può proseguire efficacemente identificando tre tipi di variabili: di processo, input e di risultato.

Capitolo 11. La conciliazione tra lavoro remunerato e resto della vita


L’intreccio tra lavoro e famiglia rappresenta un tema di interesse per gli studi psicologici in relazione ai significativi cambiamenti
della forza lavoro; in particolare la tensione fra questi due ambiti può essere causa di stress e malessere psicologico e/o fisico

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per la persona.
L’aumento di interesse per il tema risale agli anni ’70 va certamente a Rosabeth Kanter (1977) il merito di aver smantellato il mito
dei “mondi separati”, e ai lavori di ricerca di autori di quel periodo il merito di aver avviato un fertile filone di studi. È però
negli anni ’80 che il numero dei lavori di ricerca, in particolare sul tema del conflitto tra lavoro e famiglia, ha iniziato ad
aumentare in maniera significativa. Il corpus di studi sul tema suggerisce come la tensione tra ruoli familiari e lavorativi possa
configurarsi come una fonte di stress, responsabile di una diminuzione del benessere psicologico e fisico alla persona.

I principali modelli teorici


Sono molti i modelli utilizzati per rendere conto della relazione tra ruoli lavorativi e ruoli familiari: conflitto, spillover e
arricchimento, compensazione, identità e impegno di ruolo, equilibrio, strategie di gestione dei confini.

Il conflitto lavoro-famiglia
l costrutto di conflitto tra lavoro e famiglia (CLF) trova le sue origini nella teoria del ruolo e nell’ipotesi del role strain di Goode
(1960). Dalla definizione di Greenhaus e Beutell emerge che il conflitto lavoro-famiglia viene considerato come una forma di
conflitto dove la partecipazione al ruolo lavorativo (o familiare) è resa più complicata dalla partecipazione al ruolo familiare (o
lavorativo).
Il costrutto CLF è bidirezionale è può essere asimmetrico (quando per esempio un soggetto sente che il lavoro interferisce con la
vita famigliare, ma non viceversa) o reciproco (quando per esempio un soggetto sente che il lavoro interferisce con la vita
famigliare e viceversa). La distinzione tra conflitto Lavoro  Famiglia e conflitto Famiglia  Lavoro è sostenuta dalle
evidenze di ricerca, che segnalano che gli individui dichiarano di percepire generalmente un maggiore conflitto nella direzione L
 F rispetto a quella nella direzione F  L.
Gli antecedenti del CLF identificate da P’Driscoll, fanno riferimento a:
– Richieste legate a ciascun ruolo, familiare e/o lavorativo;
– Alla personalità;
– Alle strategie di coping;
– Alla presenza di “persone a carico”;
– Al supporto sociale distinto da quello familiare e quello organizzativo.
La ricerca evidenzia inoltre che il vissuto di CLF può essere causa di insoddisfazione sul lavoro, e una delle possibili cause
dell’assenteismo e dell’intenzione di cambiare impiego.
Per questi motivi è un costrutto importante da valutare, infatti la ricerca si sta investendo per la costruzione e la validazione di
scale CLF. In generale le misure CLF sono basate sul modello di Greenhaus e Beutell. La maggior parte degli strumenti vuole
rilevare il grado in cui il lavoro (o la famiglia) interferisce con specifici elementi dell’altro dominio.

Dallo spillover all’arricchimento


Il modello dello spillover ha alla base l’idea di una maggiore permeabilità dei confini tra i diversi domini della vita, una
permeabilità che non necessariamente conduce a conseguenze negative. La ricerca ha considerato lo spillover in termini di
sentimenti, valori, abilità, comportamenti che da un contesto “scivolano” nell’altro, anche se le ricerche principali si concentrano
sullo spillover emotivo. Alcuni autori fanno riferimento più che altro all’idea di “contagio” (Stevens, 2006), distinguendo tra
forme di influenzamento che riguardano il singolo che transita tra due contesti e forme di influenzamento crossover, quando i
vissuti di un soggetto in un contesto arrivano a influenzare i vissuti di altri soggetti in un altro contesto.
Nel corso degli ultimi anni al costrutto di spillover si è associato quello di arricchimento, che coglie soprattutto gli aspetti di
influenzamento positivo: le multiple apparenze possono avere influenza positiva sul benessere individuale, e questa
considerazione ha spinto i ricercatori a leggere la relazione tra lavoro e famiglia in termini maggiormente positivi.

La compensazione
La compensazione fa riferimento a una relazione tra i due domini (lavoro – famiglia) che prevede il tentativo da parte del
soggetto di rimediare alle “difficoltà o mancanze” in un contesto attraverso un maggiore investimenti in un altro ruolo. Le
persone possono ridurre l’importanza che attribuiscono a quel ruolo, o possono cercare riconoscimenti in un altro contesto o
investire più tempo in un ruolo alternativo.

La strumentalità
Il modello della strumentalità ipotizza che un contesto sia strumentale al raggiungimento di risultati nell’altro contesto
(Evans, 1984). La strumentalità, come i costrutti precedenti, può essere pensata in entrambe le direzioni (il lavoro
strumentale per mantenere la famiglia, la famiglia strumentale per mantenere il lavoro in termini di sostegno emotivo e concreto).

Dall’identità all’impegno di ruolo


Un’ulteriore cornice entro cui leggere la relazione tra lavoro e famiglia è quella dell’identità di ruolo e dell’identity navigation
tra i diversi ruoli. La letteratura di riferimento poggia sulle teorie dei processi di identificazione di ruolo e partecipazione di ruolo.
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L’identità lavorativa e l’identità familiare, riflettono il concetto di sé, contribuiscono all’autorealizzazione e sono predittive delle
prestazioni di ruolo.
Gli individui tenderebbero a investire risorse nel ruolo associato all’identità con maggiore importanza, con l’obiettivo di
consolidare la propria autostima: per esempio, individui con una forte identità di carriera investono una maggiore quantità
di energie e risorse nel percorso di carriera rispetto a coloro che possiedono una debole identità lavorativa. L’identificazione con il
ruolo lavorativo determina una diminuzione di tempo disponibile per la famiglia, così come l’identificazione con il ruolo familiare
determina una diminuzione di tempo per il lavoro. Tuttavia è riduttivo pensare che un maggiore investimento da una parte causi un
minore investimento da un’altra.
La teoria dell’identità di ruolo si collega agli studi che si concentrano sul concetto di engagement in multiple roles,
definibile come l’impegno richiesto da ciascun ruolo assunto, lavorativo e famigliare, in termini di attenzione e “assorbimento”.
L’esito in termini di relazione tra lavoro e famiglia, dell’impegno richiesto dall’assunzione dei diversi ruoli può essere infatti
un vissuto negativo di “svuotamento” (depletion) oppure un vissuto positivo di “arricchimento” (enrichment) nella duplice
direzione LF e FL. Il concetto di svuotamento si basa sull’assunto secondo cui le persone possiedono una quantità limitata
di risorse psicologiche e fisiche, e che quindi le richieste provenienti da un ruolo possono interferire con le richieste provenienti
dall’altro ruolo, generando vissuti di malessere. Di contro il vissuto di arricchimento di verifica quando il commitment legato
all’assunzione di un ruolo genera un’espansione di energie e risorse a beneficio dell’altro ruolo. La risposta emotiva (positiva o
negativa) dell’individuo all’impegno assunto in un ruolo (lavorativo o familiare) è centrale, perché determina l’impegno
nell’assunzione dell’altro ruolo (lavorativo – familiare).
Dalle ricerche svolte sembra che le donne, rispetto agli uomini, tendino a integrare maggiormente i due contesti e di conseguenza i
due ruoli.
A questa considerazione si aggiungono i dati riportati dalle ricerche, per cui sembrerebbe che gli uomini vivano con maggiore
difficoltà la possibilità di conciliare più ruoli sottraendosi, dunque, al conflitto.

L’equilibrio
Spesso le ricerche in tema di equilibrio rilevano il CLF e assumono che una riduzione di CLF coincida con un maggiore
equilibrio. Tale posizione non appare però del tutto condivisibile, poiché l’equilibrio è uno stato psicologico significativamente
diverso dall’assenza di CLF.
Reiter propone di distinguere tra definizioni di equilibrio:
 Assolutiste, per cui l’equilibrio sarebbe il miglior risultato possibile indipendentemente dalle caratteristiche della
situazione o del soggetto;
 Situazioniste, che considerano l’equilibrio come strettamente dipendente dalle situazioni;
 Soggettiviste, per cui l’equilibrio sarebbe basato non tanto su principi universali quanto su valori personali;
 Eccezionaliste, per cui l’idea di equilibrio fornita da qualche soggetto diviene la definizione di riferimento per
impostare un disegno di ricerca.
Secondo la riflessione di Reiter, la prospettiva situazionalista risulta essere la più adeguata per la ricerca.

Le strategie di gestione dei confini


Altri contributi si concentrano sulle strategie di gestione dei confini, tenendo conto delle preferenze dei singoli, tra integrazione
e segmentazione/separazione.
L’ipotesi della segmentazione, intesa come assenza di una relazione sistematica tra ruoli lavorativi e non lavorativi, inizialmente
era considerata come l’esito inevitabile della divisione tra lavoro e famiglia, dovuta alla separazione fisica e temporale dei
due ruoli e alle loro funzioni naturalmente diverse. In tempi più recenti, in considerazione della prospettiva secondo cui lavoro e
famiglia sono domini della vita più vicini di quanto non si pensasse un tempo (Kanter, 1977), l’ipotesi della segmentazione è
stata rielaborata come un processo psicologico attivo che le persone possono scegliere per mantenere un confine tra i
due contesti. Tale scelta riflette preferenze personali, ma può essere anche ricondotta ad alcuni tipi di lavoro che, con
maggiore frequenza di altri, conducono a scelte di integrazione e di separazione.
Una questione di genere?
Una recente ricerca di Carr (2002) ha evidenziato che le strategie adottate da uomini e donne per far fronte ai problemi di
conciliazione stanno divenendo sempre più simili, anche se sono ancora soprattutto le donne a farsi carico delle responsabilità
familiari, scegliendo soluzioni quali il tempo parziale o il telelavoro.

Determinanti, conseguenze e ruolo dell’organizzazione


La ricerca, pur non avendo determinato in modo coerente i legami di causalità, ha evidenziato che il conflitto lavoro-famiglia
ha un ruolo nel predire:
 L’insoddisfazione per il lavoro e la propria vita;
 La diminuzione del coinvolgimento organizzativo, delle risorse impiegate sul lavoro, della prestazione lavorativa;
l’aumento della conflittualità, dell’ambiguità di ruolo, dell’assenteismo, dei ritardi;
 L’insoddisfazione per la vita familiare e il peggioramento nella prestazione relativa ai ruoli familiari;
 Il peggioramento delle relazioni coniugali;
 Lo stress psicologico, il peggioramento della salute fisica, alcuni problemi cronici di salute.

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Il ruolo dell’organizzazione nel sostenere la conciliazione: Thompson e collaboratori hanno definito la cultura work family
come caratterizzata da “assunzioni condivise, credenze e valori relativi alla tendenza dell’organizzazione a sostenere e valorizzare
l’integrazione tra vita lavorativa e familiare delle persone”. Un’altra impostazione è l’organizzazione family friendly che fa
riferimento al fatto che l’organizzazione è effettivamente impegnata a sostenere i dipendenti nella gestione delle loro
responsabilità familiari affiancando all’accessibilità delle soluzioni pro conciliazione la presenza di una classe dirigente sensibile e
attenta. Nelle aziende in cui la percezione di supporto è maggiore, è più elevato il senso di appartenenza, il commitment e il
desiderio di continuare la propria carriera all’interno dell’organizzazione.
Un’organizzazione è family friendly quando sono presenti capi che offrono sostegno di fronte ai problemi di conciliazione; il
ricorso a forme istituzionali di supporto alla conciliazione non dà origine a conseguenze negative sul fronte della carriera; le
richieste di tempo sono commisurate rispetto alle implicazioni di ruolo.
Questi elementi favoriscono la presenza di una cultura supportiva, che sembra essere una condizione necessaria affinché le politiche
a sostegno della conciliazione siano positivamente accolte dai dipendenti e le soluzioni o le iniziative proposte siano effettivamente
utilizzate e apprezzate come strumenti utili per un miglior equilibrio tra lavoro e vita.
Ci sono varie direzioni che le organizzazioni possono seguire per migliorare la qualità di vita percepita dai dipendenti, attivando
strategie family-friendly. I livelli di intervento possono riguardare:
 Le forme di contratto (es. flessibilità di orario, lavoro a distanza, ecc. );
 Le azioni di sostegno e sviluppo a carattere formativo e/o consulenziale;
 Le agevolazioni economiche e i servizi direttamente offerti all’interno delle strutture aziendali;
 Le politiche, le procedure gestionali e l’organizzazione del lavoro (per esempio il lavoro di gruppo per condividere le
responsabilità).
Tali iniziative sono rese disponibili da molte aziende di grandi dimensioni (anche per proteggere la propria immagine).
Questo tipo di organizzazione, dunque, si presenta come particolarmente attento ai bisogni e alle differenze degli individui e
dei contesti di lavoro. Le conseguenze possono essere certamente positive in quanto profondamente supportive, tuttavia non
si può ignorare l’aspetto economico che va affrontato, l’esigenza di un feedback positive e l’obbligo di precedere questo
processo attraverso un’analisi dei bisogni di conciliazione dei dipendenti.
Attivare programmi family-friendly significa dunque tenere conto di molteplici dimensioni:
 Le differenze individuali;
 La presenza o l’assenza di supporto sociale;
 Le caratteristiche del lavoro;
 Il mercato del lavoro;
Il monitoraggio delle iniziative family-friendly, infine, dovrebbe riportare la valutazione degli effetti non solo a livello
organizzativo, ma anche a livello familiare.
Dal momento che frequentemente è possibile imbattersi nell’errore di voler allineare queste iniziative ad quelle proposte da
aziende esterne, sarebbe più opportuno valutare il lavoro in base alla qualità facendo in modo che gli impegni familiari non
penalizzino il percorso lavorativo, e lasciare che l’organizzazione sia gestita da superiori che ascoltano e sono attenti ai temi di
supporto.
Accessibili ed efficaci sono le soluzioni proposte da contesti organizzativi caratterizzati da una cultura in cui:
 Il lavoro è valutato in base alla qualità e gli impegni familiari non penalizzano i percorsi;
 I superiori sono capaci di ascoltare, sensibili ai temi della conciliazione, comprensivi rispetto alle responsabilità
extralavorative di ciascuno, orientati a informare e sostenere le iniziative di welfare.

Capitolo 13. Diversity management


Gestione della diversità nelle organizzazioni.

Nascita e caratteristiche del diversity management


Il diversity management (DM) è un approccio teorico-praticio che si propone di:
1) Indagare i processi che, nei contesti lavorativi, generano conflitti sulla base della percezione della reciproca diversità fra le
persone;
2) Intervenire per modificare gli effetti indesiderati di tali processi sulla produttività, il clima di gruppo e il benessere
lavorativo;
3) Potenziare i comportamenti creativi e innovativi dei gruppi diversificati, che generano profitto e benessere.
Il diversity management ambisce a essere una nuova via nelle politiche di riduzione della discriminazione: non mira solo a
introdurre programmi che fungano da rimedio alle iniquità sociali, ma è anche attento alle necessità di business e al
riconoscimento del valore della diversità. Il DM non include, pertanto, il concetto di tolleranza, spesso presente nelle politiche
di pari opportunità, in quanto intende favorire la comprensione delle differenze per rendere possibile la costruzione di nuovi
significati condivisi.
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Pur tenendo presente l’importanza delle diverse identità di ciascun individuo e la loro salienza nel contesto, si può
comunque correre il rischio di annullare le differenze: ognuno nella sua specificità, può essere considerato diverso da chi lo
circonda, riducendo, in tal modo, la diversità a “null’altro che un concetto benigno, ma privo di significato”. Bisogna ricordare
che la diversità non concerne le differenze antropologiche che rendono gli individui speciali per la loro unicità, ma riguarda
l’essere suscettibili di subire un trattamento diverso e di avere opportunità differenti come conseguenza dell’appartenere – o non
appartenere – a determinate categorie sociali.

Risorse umane diversificate: costi e fjenefici


Il DM implica la potenzialità ma anche la complessità che comporta gestire risorse umane diversificate. La sua potenzialità
risiede nell’energia e nella possibilità offerta dalla disomogeneità che può generare innovazione. La complessità risiede invece
nei processi, ampiamente noti in psicologia delle relazioni interpersonali e intergruppi, che generano conflitto fra le persone
che si percepiscono come diverse in quanto appartenenti a gruppo sociali diversi. Due filoni teorici hanno cercato di spiegare se
la diversità sia proficua o meno:
– La social category diversity di Van Knippenberg e collaboratori, che include i processi di categorizzazione sociale e di
categorizzazione del sé, i fenomeni di favoritismo dell’ingroup e le rappresentazioni stereotipiche.
– La prospettiva information/decision che si concentra sui vantaggi dell’omogeneità vs omogeneità dei team e i relativi
effetti sulla produttività, il benessere e il turnover.

Social category diversity


Secondo questo approccio non sempre l’appartenenza all’ingroup o all’outgroup è cosi chiara e consapevole. Sono piuttosto le
situazioni in cui l’appartenenza categoriale diventa saliente a far distinguere fra un “noi” e un “voi”.
I membri di un gruppo usano le somiglianze tra di loro e le differenze percepite dell’outgroup come caratteristiche salienti per
fare paragoni, che spesso favoriscono il proprio gruppo. Tale processo serve per ridurre la minaccia percepita all’integrità della
propria identità personale, serve cioè a preservare intatta e positiva l’immagine del proprio gruppo d’appartenenza, e quindi
di se stessi, come membri di quel gruppo. Gli approcci da laboratorio forniscono importanti indicazioni su come sia possibile
moderare gli effetti negativi del contatto intergruppi. L’adozione di tecniche sperimentali non garantisce però che, una volta
rientrati al lavoro, i partecipanti siano in grado di conservare nel tempo le stesse strategie di riduzione del conflitto.
Nelle organizzazioni, le differenze intercategoriali possono attestarsi su tre livelli: dell’individuo, dell’organizzazione e dei
sottogruppi. Esistono poi differenze di status, potere e risorse, strumentali al loro funzionamento, che possono ostacolare la
riduzione del conflitto. Un ulteriore aspetto da prendere in considerazione è che, quando si introducono situazioni
cooperative che eliminano le differenze intergruppi, ci si espone al rischio di minacciare l’identità distintiva e positiva dei
componenti del gruppo. Possono quindi risultare proficui gli approcci che creano una sorta di compromesso.
Una proposta di compromesso sarebbe, mantenere la salienza dell’identità distintiva dell’ingroup a un livello tale da non
far emergere conflitti ingroup-outgroup, preservando contemporaneamente le peculiarità di ciascuno.

Information/decision making
Questo approccio si focalizza sulla diversità intesa in termini funzionali e informativi, ossia sulle caratteristiche del lavoro, della
posizione, delle funzioni di ciascun contesto organizzativo. Questa prospettiva afferma che è proprio la disomogeneità a
favorire le migliori performance. I gruppi diversificati, infatti, sarebbero in possesso di una più ampia gamma di
conoscenze utili allo svolgimento dei loro compiti. In particolare, la diversificazione dei punti di vista solleciterebbe il gruppo
ad analizzare più approfonditamente le alternative di scelta, producendo un maggior numero di idee rispetto a un gruppo
omogeneo. Sarebbero le organizzazioni o le unità di lavoro impegnate in compiti innovativi a giovarsi di più della
diversificazione.
Dallo svolgimento di alcune ricerche è emerso come non vi siano relazioni significative tra tipo di diversità ed outcome positive
di performance o relazionali nell’ambiente di lavoro.
Un modello integrato
Ci sono modelli che integrano le due prospettive. La diversificazione, di per sé, sarebbe in grado di accrescere la performance,
ma tale successo può essere contaminato dai processi di categorizzazione.
Van Kinppenberg e collaboratori (2004) hanno proposto un modelli integrato, il “Caterization-Elaboration Model” (CEM). Secondo
il CEM, la diversità nei gruppi è in grado di favorire l’elaborazione di idee creative e propositive differenziate che aiutano a
svolgere al meglio le mansioni, se sussistono le seguenti condizioni nel gruppo:
1) Elevate capacità di elaborazione delle informazioni e di decision making;
2) Alta motivazione e alta capacità di elaborare informazioni rilevanti per lo svolgimento delle mansioni.
Queste condizioni possono dar luogo a fenomeni di favoritismo o di assenza di favoritismo tra i gruppi:
1) Accessibilità cognitiva, ossia la facilità con cui il processo di categorizzazione si attiva a causa della differenza
percepita;
2) Normative fit, vale a dire quanto della categorizzazione è soggettivamente rilevante per i membri del gruppo;
3) Comparative fit, ossia quanto la categorizzazione dà origine a sottogruppi distinti sulla base di un’altra omogeneità
interna e di elevate differenze intergruppi.
Secondo il modello CEM l’elaborazione di informazioni e i processi di categorizzazione sociale interagiscono e, in particolare, I
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bias intergruppi possono interferire sulla corretta elaborazione di informazioni utili a svolgere le mansioni.

Interventi per gestire la diversità nelle organizzazioni


In generale, lo scopo di tali interventi è fornire una soluzione a relazioni lavorative complesse, liberando il potenziale insito nella
diversità al fine di migliorare l’efficacia organizzativa. Si possono identificare differenti strategie per aumentare i benefici e
ridurre i costi della diversificazione delle risorse umane. In particolare, esistono politiche e pratiche legate alla gestione delle
risorse umane che non sono specificamente dedicate al diversity management, ma che possono influenzarlo: per esempio
i programmi di compensation e benefit o di selezione/pianificazione delle RU. Esistono inoltre politiche specifiche, per
esempio il supporto manageriale.
Il tema della diversità implica un sostegno e un investimento di risorse umane ed economiche da parte delle organizzazioni che,
agendo a livello di iniziative locali e internazionali, tendono a modificare le rappresentazioni della diversità presso la leadership
aziendale.
A mediare gli effetti che le politiche di gestione hanno sull’organizzazione e sugli individui, intervengono variabili come quelle
psicosociali o quelle legate al modo in cui, in quella specifica organizzazione, siano stati considerati e gestiti diversità e i vari tipi di
diversità.
La forma più nota e diffusa per il DM nelle organizzazioni è il diversity training. Si tratta di una serie di attività che tendono, con
tecniche differenziate, a rendere consapevoli manager e dipendenti degli errori sistematici di valutazione che compiono sulla
base di processi automatici di pensiero.
Questa formazione si basa sul fatto che l’espressione delle cognizioni o delle emozioni connesse alla diversità consenta di superare
l’ignoranza, e che tale consapevolezza genererebbe apertura al diverso. La pianificazione attenta degli interventi appare però
indispensabile, per evitare che l’aumento della consapevolezza generi un irrigidimento delle concezioni stereotipiche sull’outgroup e
conseguenti pregiudizi.
Avendo vocazione prevalentemente applicativa, queste tecniche sono spesso impiegate senza un inquadramento teoria alla
base. Ciò impedisce sia di elaborare ipotesi sugli specifici effetti prodotti del training sia di verificare puntualmente gli esiti.
Ivanevich e Gilbert delineano alcune strategie alternative utili a fornire indicazioni funzionali a definire I criteri di valutazione per
un monitoraggio efficace:
 La partnerership fra studiosi e uomini di impresa;
 L’analisi di obiettivi ed esiti del training operata da terzi per restituire una visione più obiettiva della coerenza ed efficacia
degli stessi.
Anche il mentoring e il networking si possono profilare come strumenti utili alla gestione delle diversità. Si tratta di incontri reali
o virtuali, organizzati dai responsabili delle risorse o dagli stessi dipendenti, per favorire, fra pari, lo scambio d’informazioni
utili per l’avanzamento di carriera.

Sviluppi futuri
La prospettiva migliore sarebbe quella di ricollocare il tema della diversità al livello della gestione organizzativa, facendo
attenzione alla fase di selezione, fidelizzazione, creatività, innovazione, problem solving.
Le leve della gestione aziendale sulle quali agire per ottenere vantaggi della diversità nell’organizzazione sono:
 La selezione;
 La fidelizzazione delle persone;
 L’atteggiamento dei collaboratori;
 La creatività e l’innovazione;
 Il problem solving di gruppo.
In che misura un’organizzazione è in grado di compenetrare nella sua politica complessiva il diversity management può essere
data da alcuni indicatori significativi:
 Il commitment del top management;
 La composizione della forza lavoro;
 La pianificazione in termini strategici;
 I benefit correlati al DM;
 Gli incentivi al management per la gestione della diversità;
 Le strutture;
 Il monitoraggio delle iniziative;
 La comunicazione interna ed esterna di messaggi che includono il tema;
 Le iniziative di supporto;
 La formazione mirata;
 La misurazione della produttività pre e post diversificazione;
 La cultura organizzativa.

Se il diversity management coincide con le politiche del personale, esso rappresenta un nuovo modo di considerare le persone in
organizzazione seguendo un’ottica molto più ampia; inoltre questo garantirà il rispetto delle pari opportunità sancite dalla legge.
Il DM appare un settore in cui gli esperti delle risorse umane possono offrire un contributi significativo sia per comprendere i
fenomeni psicosociali alla base del conflitto e delle costrittività organizzative, sia per la progettazione e l’applicazione di
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interventi mirati alla performance che si inseriscano in politiche di gestione del personale di più ampio respiro.

Capitolo 14. Outplacement

Il profjlema
È un’attività che si occupa di accompagnare persone uscite da un’azienda in un’altra situazione lavorativa; si tratta di un tema
assai delicato, data la flessibilità e instabilità del nostro periodo storico.
Nel contesto odierno, il tema dell’outplacement assume una connotazione negativa e riparatoria, laddove, in una prospettiva
positiva e propositiva, la connotazione è quella dello sviluppo, della valorizzazione, del riposizionamento che il processo di
cambiamento e miglioramento continuo implicano e determinano.

Le origini
Le due date di nascita nell’outplacement fanno riferimento: la prima, alla gestione della transizione che interessa i veterani da
reinserire nel nuovo mercato del lavoro trasformato a seguito della fine del conflitto; la seconda, a partire dagli anni ’60, alla
gestione dei processi di trasformazione e di dowsizing delle imprese americane, che implicano la fuoriuscita dal mondo del
lavoro di risorse di medio posizionamento. Si può, al riguardo, proporre un diverso livello di lettura di questa doppia nascita.
Nel 1944, il Bill Act attuato dal presidente Roosvelt facilitò la transizione e il reinserimento dei veterani della seconda guerra
mondiale che, tornando, trovarono un contesto lavorativo che si trovava in rapida evoluzione. Il GI Bill Act del 1944 ha come scopo
quello di riqualificare e reinserire risorse che hanno sviluppato competenze non del tutto allineate con il nuovo assetto del
mercato del lavoro in forte espansione e riconversione – dalla produzione di guerra alla produzione di massa e per il
benessere – secondo un disegno di forte recupero dell’occupazione,
Le linee di azione previste dal GI Bill Act sono:
 Interventi di formazione e qualificazione;
 Supporto finanziario per l’acquisto di abitazione;
 Supporto economico per la gestione della transizione dall’occupazione militare a quella civile.
Gli anni ’60 connotano una dinamica occupazionale inversa, incentrata sull’espulsione di forza di lavoro in esubero a motivo delle
restrizioni del mercato del lavoro e delle opportunità, dei processi di downsizing generati dal radicale riposizionamento dei
sistemi produttivi per effetto del nuovo assetto del mercato e degli stili di consumo.
Ad accompagnare questo processo di nascita e rinascita dell’outplacement vi è una figura che partecipa alle fasi di fondazione
e sviluppo delle pratiche di intervento; si tratta di Bernard Haldane, che realizza il suo primo intervento operando come
pioniere nel programma GI Bill Act con i veterani della seconda guerra mondiale fino al 1947 e che realizza il progetto di
outplacement all’approssimarsi della crisi degli anni ’60 e ’90 fornendo la sua consulenza per la Humble Oil Company, a partire
dalla fine degli anni ’60.

I confini dell’outplacement
A partire dalla storia originaria, l’outplacement può essere definito come l’impegno delle organizzazioni a realizzare interventi di
sostegno a fronte di una disconferma o rottura del contratto psicologico implicito tra dipendente e organizzazione. Al
momento dell’assunzione, l’aspettativa è stabilire un contratto a tempo indeterminato. Se esigenze organizzative impongono una
riduzione di personale, ciò determina una sorta di tradimento e comporta la messa in campo di strategie e interventi di
consulenza necessari per gestire la fuoriuscita dall’organizzazione e la ricerca di possibili opportunità occupazionali sostitutive:
l’outplacement.
Alla radice di tutta la problematica che dà ragione dell’esistenza delle strategie di outplacement, va collocato il tema del
rapporto individuo-posto di lavoro, per quel che attiene alla dimensione contrattuale, le implicazioni relative alla stabilità e alla
sicurezza. L’attuale dinamica del mercato del lavoro prospetta una sorta di slittamento di significato che va dalla cultura della job
security a quella della work security, in allineamento con i processi di destrutturazione dei sistemi organizzativi.
La work security riguarda la gestione del proprio processo di apprendimento continuo (continual learning) e della propria abilità di
gestione del trasferimento della capacità di occupabilità da un contesto di lavoro a un altro. Tale questione è stata più volte
connessa al tema della employability. Il commitment e impegno individuale sono funzione dell’apprendimento continuo, della
preparazione costante per la successiva esperienza di lavoro.
L’affermazione della cultura e della pratica dell’outplacement va collegata alle trasformazioni della natura del rapporto di lavoro –
dalla job security alla work security – implicando lo sviluppo di un insieme di servizi che le organizzazioni offrono ai propri ex
collaboratori per fronteggiare la perdita di lavoro e la conseguente gestione del processo di transizione per una nuova
opportunità occupazionale.

Le linee di tendenza dell’outplacement


L’outplacement emerge per rispondere all’esigenza di risolvere questioni di redditività e problemi sociali connessi agli interventi
di riallineamento organizzativo necessari per essere competitivi in un nuovo scenario sempre più globale.

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L’esigenza è quella di competere in un mercato sempre più globale e di rispondere alla necessità di inglobare l’innovazione
tecnologica negli assetti organizzativi. È un cambiamento del mercato che ha generato riposizionamenti delle agenzie di
outplacement.
In questa prospettiva, le modalità e le ragioni per cui le organizzazioni fanno ricorso all’outplacement registrano un cambiamento
a partire dalle impostazioni originarie: si tratta di un cambiamento del mercato che ha generato riposizionamenti nella mission,
nelle funzioni, nelle modalità operative e negli assetti organizzativi delle agenzie di outplacement. Le linee di caratterizzazione di
tali trasformazioni sono le seguenti:
 Da un servizio “sconosciuto” a una “corporate commodity” alla promessa di un’occupazione duratura, di un posto di
lavoro sicuro, di una confortevole prospettiva di pensione si sostituisce l’offerta, da parte dell’organizzazione, di servizi
di consulenza, di accompagnamento e di formazione necessari per fronteggiare l’eventualità di un licenziamento e
l’opportunità della ricerca di un nuovo lavoro;
 Dal contenzioso giuridico-sindacale sul lavoro ai servizi di outplacement. Per fronteggiare senza conflitti questa
situazione, le imprese incoraggiano con incentivi le dimissioni volontarie e quindi intervengono offrendo servizi di
outplacement per accompagnare e gestire il percorso di licenziamento o di dimissione con la possibilità di
individuare nuove opportunità di business occupazionali;
 Dal contesto locale a quello nazionale/internazionale. I servizi si affermano anche in relazione al contesto di riferimento che
vede la globalizzazione come un fenomeno sempre più in evoluzione.
 Corporate efficiency, riduzione dei costi e cambiamento dei valori. All’espansione della domanda, da parte degli utenti
maggiormente consapevoli e responsabili, la risposta organizzativa è quella di spalmare gli interventi di consulenza e di
sostegno al fine di ridurre i costi e l’impatto delle azioni di outplacement sui programmi e sul budget aziendale;
 Cambiamento della natura dei servizi di outplacement. dall’approccio di consulenza individuale a una prospettiva
operativa; dal target di utenza rappresentato dagli alti livelli del management agli executive e alla dirigenza di livello
intermedio; dai piani di intervento standard ai programmi di durata variabile customizzati; da un approccio di
consulenza personale all’introduzione di strumenti informatici in linea con la nuovo filosofia di intervento basato su
strategie di technology based job replacement;
 Cambiamento delle domande degli utenti: questi ultimo risultano più competenti e informati circa I vari ambiti e le
molteplici variabili che condizionano il contesto organizzativo.
 Linee di tendenza attuali delle attività di consulenza per l’outplacement che integrano molteplici aspetti dei contesti
organizzativi.
– Servizi di career transition/outplacement integrati con interventi di career management e organizational
consultino service;
– Servizi di outplacement agiti in parallelo con attività di erogazione di lavoro temporaneo e di forme di
occupazione ad interim;
– Servizi di outplacement che prefigurano posizionamenti e connessioni con attività di International executive
coaching;
– interventi di outplacement integrati con un set comprensivo di servizi di human resource consulting in un
sistema di internazionalizzazione delle organizzazioni.

Le linee di sviluppo dell’outplacement assumono quindi le seguenti direzioni:


– Espansione dei nuovi mercati potenziali in Europa e nell’Asia del Pacifico;
– Focalizzazione su nuovi brand di riferimento, come l’high-tech, la finanza, i servizi (utilities) ecc., principalmente per
effetto di processi di merge, acquisizioni e ristrutturazioni;
– Costituzione di un gruppo ristretto cluster di global outplacement firms in grado di gestire e indirizzare, in una
prospettiva globale, le dinamiche del placement.

La professione di consulente per l’outplacement


Il fondatore della professione si ritiene sia Bernard Haldane che definisce le modalità e gli strumenti d’intervento per
promuovere il reinserimento dei veterani di guerra nel nuovo scenario organizzativo del mondo del lavoro alla ripresa dello
sviluppo socioeconomico del dopoguerra.
Il processo di Haldane, il “System to Identify Motivated Skills” (SIMS), consente ai veterani di individuare le potenzialità motivate
attraverso la valorizzazione delle passate esperienze e l’individuazione di una strategia di utilizzazione di questa consapevolezza
per la ricerca di posizioni lavorative di successo e soddisfacenti.
Il ruolo del consulente per l’outplacement si delinea come quello di un esperto che accompagna il soggetto
nell’individuazione delle esperienze professionali di successo.
In parallelo con l’evoluzione della domanda di consulenza da parte delle organizzazioni, il profilo di competenze del
professionista dell’outplacement deve rispondere a un insieme di richieste riguardanti:
 La consulenza per il livello corporate/organizational client per la gestione dei processi di pianificazione delle attività in
fase di prelicenziamento;

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 La consulenza individuale o di gruppo per i candidati al licenziamento;


 L’assessment relativo alle esperienze dei candidati, rilevazione di misure standardizzate di ricognizione delle
competenze critiche ed elaborazione di strategie di azione;
 La formazione alla ricerca di lavoro attraverso la pianificazione di campagne di job search;
 La consulenza per lo sviluppo di piani di carriera individuali – work-life balance;
 Le attività di executive coaching dedicate ai profili di livello medio alto.
 Gli interventi finalizzati a gestire I vari percorsi di carriera.

Il profilo di competenze del consulente per l’outplacement, così come stabilito dalle linee guida dell’International Board of
Career Management Certification (IBCMC) include un ampio set di competenze, distinto in core competencies e selected
competencies che riguardano i seguenti ambiti:
 Conoscenze del mondo delle imprese e delle organizzazioni produttive;
 Competenze nel counseling psicologico e nelle pratiche di sviluppo e formazione professionale;
 Conoscenze specialistiche relative ai settori e brand di intervento;
 Competenze specifiche nel career management e career development.

L’Institute of Career Certification rappresenta proprio l’accertamento della presenza di qualità professionali dei consulenti che si
occupano di tali transizioni lavorative.
In Italia ci sono l’APRO e l’AISO, due associazioni che si occupano di accreditare I professionisti.

Modelli di outplacement
Le implicazioni che scaturiscono dal livello di coinvolgimento del soggetto rispetto alla propria carriera e al proprio destino
professionale rendono necessari interventi di consulenza per l’outplacement a fronte di:
 Persistenza di sentimenti di colpevolizzazione e recriminazione per la perdita del lavoro;
 Emergenza di risposte individuali alla perdita di lavoro tradotte in manifestazioni di ansia, paura, abbassamento della
stima personale ecc;
 Persistenza di una cultura aziendale di squalifica del soggetto che ha perso il lavoro ed è in cerca di nuove opportunità
occupazionali;
 Difficoltà a recuperare le stesse condizioni salariali e di status dopo la perdita di lavoro;
 Pressione familiare e sociale per il ripristino delle condizioni occupazionali in ragione delle esigenze esistenziali e di
mantenimento dello status;
 Incapacità personale di attivare e valorizzare competenze di ricerca attiva di lavoro;
 Emergenza del divario generazionale nelle situazioni di ricerca di lavoro.
Il servizio di outplacement prevede la presenza di diversi modelli di lettura, ognuno specificamente collegato ad un dato
momento con caratteristiche sociali ed economiche uniche.
Le implicazioni emotive che animano il soggetto rispetto alle proprie transizioni di lavoro richiedono la presenza di questo
servizio, volto a far fronte a sentimenti di colpevolizzazione, ansia, paura, pressioni familiari, emergenza del divario generazionale
nelle situazioni di ricerca di lavoro, incapacità di valorizzare le competenze di ricerca etc.
La presenza di questo servizio aiuta il soggetto a gestire la propria personal transition, e le sue correlazioni emotive a stampo
negativo, e consente all’organizzazione di migliorare la propria immagine in quanto fornitrice di una soluzione al momento critico
della perdita del lavoro.

Career Growth Model (Latack, Dozier, 1986)


Gli autori mettono in relazione il processo di sviluppo e di crescita nella carriera con il livello di stress associato alla perdita di
lavoro; un basso livello di stress consente di gestire il percorso di sviluppo della carriera in maniera corretta e congrua. In
situazioni di perdita di un lavoro un moderato livello di attivazione e di stress consente all’individuo di utilizzare strategie di
esplorazione e di focalizzarsi, senza particolari ansietà, sulle opportunità e sul proprio futuro professionale.
Le dimensioni rilevanti che definiscono questo modello di outplacement riguardano:
 Le dimensioni di caratterizzazione del individuo;
 Il contesto sociale e occupazionale di riferimento;
 Le modalità di gestione del processo di transizione in cui è implicato.
Il punto di forza del modello riguarda essenzialmente la centratura sul vissuto e sulle modalità di risposta del soggetto.
Le dimensioni individuali spesso confluiscono nel generare una sorta di stress che favorisce la risposta strategica funzionale
all’organizzazione e pianificazione della propria vita professionale.
I fattori riconducibili al contesto sociale riguardano invece l’insieme delle condizioni di natura economico-finanziaria: la perdita
del lavoro si associa al disagio economic e personale. Questa situazione fa insorgere sentimenti di depressione che si associano
a una minore disponibilità e proattività nella ricerca di nuove opportunità.
L’altra componente è il supporto sociale disponibile per il soggetto che perde il lavoro.
Il punto di forza del modello riguarda la centratura sul vissuto e sulle modalità di risposta del soggetto e l’intervento di
outplacement è proprio finalizzato a favorire risposte proattive a situazioni così stressanti.

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Stage of Transition of Counseling Model (Mirable, 1985)


Il modello proposto da Mirabile focalizza l’attenzione sul ruolo e sull’attenzione dell’outplacement counselor, evidenziando le
strategie e le attività che più opportunamente concorrono alla realizzazione dell’obiettivo del reinserimento occupazionale.
Il modello identifica cinque diverse fasi di gestione della transizione verso una nuova condizione occupazionale per il soggetto
disoccupato:
– La fase di Comfort  Finalizzata per superare gli effetti del trauma del licenziamento,
– La fase di Reflection  Focalizzata sulla prima fase della ricerca attiva di nuove opportunità;
– La fase di Clarification – Rappresenta a svolta verso la progettualità;
– La fase di Direction  Riguarda il momento di esplorazione del mercato di lavoro;
– La fase di Perspective shif  Ratifica il cambiamento proiettato verso la ricerca consapevole di nuove opportunità
occupazionali.
Il modello risulta incompleto in quanto appare vago sia per l’assetto metodologico che per i riferimenti teorici.

Holistic Outplacement Model (Kirk, 1994)


Il modello olistico di outplacement proposto da Kirk prende in esame il processo di reinserimento nel mercato del lavoro
assumendo una prospettiva di analisi e di intervento ancorata alla dimensione del coping, cioè del fronteggia mento della
situazione di criticità in cui si trova il soggetto. Le fasi che caratterizzano il processo sono:
– La fase di regaining equilibrium: promuove il recupero del proprio equilibrio attraverso la riduzione dell’ansia.
– La fase di career development: momento costruttivo di fronteggiamento della situazione.
– La fase di job hunting: sviluppo delle competenze distintive di placement.
È un modello altamente operativo, ma non tiene conto della specificità in cui si trova un soggetto che ha perso il lavoro.

Aquilanti Integrated Model (Aquilanti, Leroux, 1999)


La perdita del lavoro rappresenta un evento cruciale nella vita di un individuo e i processi di gestione della propria carriera
professionale sono ancorati a interventi di riconfigurazione della propria vita che implicano il recupero dell’assetto
occupazionale e personale precedente e l’elaborazione di una nuova configurazione delle risorse, aspettative, interessi per
nuove opportunità di inserimento lavorativo.
Questo modello approfondisce la nozione di life design intendendola nei termini di riconfigurazione della propria vita: si tratta in
effetti di un aspetto compreso nella perdita del lavoro che, oltre a generare ansia, implica anche una riconfigurazione che non
comprende solo l’aspetto lavorativo.
Super riprende anche il termine career adaptability nei contesti di instabilità e precarietà. Questo processo chiama in causa i valori
lavorativi, le abilità gestionali, l’accesso alle informazioni etc.

Grief Theory (Kubler – Ross, 1969)


L’approccio di Kubler – Ross focalizza l’attenzione sugli effetti negativi a livello individuale di una situazione di perdita di
lavoro proponendo l’immagine del disoccupato come “morto vivente” che deve affrontare un percorso di elaborazione delle
criticità conseguenti al licenziamento e di riposizionamento rispetto alle opportunità offerte dal mercato del lavoro. Gli autori
identificano 5 diverse fasi: negazione e isolamento, rabbia, occasione, depressione, accettazione.
1) Negazione e isolamento  Strategia di difesa temporanea rispetto all’evento inatteso;
2) Rabbia  Riconoscimento dell’inutilità della negazione e dell’isolamento e l’identificazione di oggetti esterni –
nemici – verso cui focalizzare la reazione, il risentimento e la gelosia;
3) Occasione (bargaining)  Presuppone la generazione di una speranza, di una opportunità di superare la
situazione attuale modificando l’attuale situazione di esclusione;
4) Depressione  Rappresenta la reazione consapevole alla propria situazione caratterizzata dalla perdita di
coinvolgimento affettivi e relazionali, dal rifiuto dell’azione e dell’impegno;
5) Accettazione  Corrisponde alla piena elaborazione della propria condizione attuale e alla disponibilità a
individuare e ricostruire nuovi percorsi di recupero.
La sequenza delle fasi non deve essere per forza questa, gli individui, nell’elaborazione della perdita del lavoro, possono
saltare alcune fasi e/o ripercorrere ciclicamente alcune già sperimentate in base alla situazione.
Questo modello è un utile supporto per interpretare la risposta emozionale ma è scarsamente efficace nella valorizzazione
delle risposte proattive per il recupero di una posizione occupazionale soddisfacente ed il consolidamento della propria
identità personale e professionale.

Transition Curve Model (Parker, Lewis, 1981)


Il modello recupera in pieno la proposta di Kubler – Ross per quanto riguarda le modalità di risposta alla perdita del lavoro,
assimilate al processo di lutto e di esperienza degli istanti terminali della vita. Il riferimento al meccanismo di difesa della
negazione rappresenta il perno dell’elaborazione che il soggetto realizza a seguito della rottura del rapporto di lavoro. Parker e

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Lewis propongono un modello composto da sette fasi di transizione che segnano la perdita del lavoro come momento di lutto; le
prime quattro fasi coincidono con il modello di Kubler-Ross ma vengono diversamente etichettate.
a) Immobilization – Shock derivante dal disallineamento tra realtà e aspettative;
b) Denial of change – Negazione e minimizzazione degli effetti del cambiamento di stato;
c) Incompetence – Esperienza e consapevolezza dell’inadeguatezza per la nuova situazione;
d) Acceptation of reality – Accettazione e disponbilità ad agire nella nuova realtà;
e) Testing out – Individuazione e scoperta di nuove opportunità nella nuova situazione;
f) Search for meaning – Internalizzazione della situazione;
g) Integration – Cambiamento del punto di vista e incorporazione del significato attraverso i comportamenti.
Ogni soggetto elabora e struttura la propria modalità di gestione della transizione che sembra corrispondere a tre stili:
a) Reattivo – L’individuo nega la necessità di cambiamento;
b) Ingenuo – L’individuo rifiuta ogni cosa della passata esperienza;
c) Confronto personale – L’individuo si serve delle proprie capacità per adattarsi alla nuova situazione.

Modelli di intervento di outplacement


L’outplacement si colloca in una zona neutra tra ciò che l’individuo è stato e ciò che dovrà diventare, accentuando e
valorizzando il ruolo del soggetto nella presa in carico della propria carriera professionale e lavorativa.
L’originale approccio di Haldane si basa su un modello di job search counseling, finalizzato a formare l’individuo alla ricerca del
lavoro gestendo in maniera ottimale le strategie di cui dispone. La realizzazione di questo approccio viene denominato Corporate
Outplacement Servie (COS) e vede tre fasi:
 Fase 1: il consulente interviene per formare e qualificare i manager e i responsabili delle risorse umane
interessati alla gestione appropriata degli interventi di licenziamento.
 Fase 2: lo specialista fornisce ai lavoratori licenziati consulenza individuale, interventi di training per gestire la
ricerca del lavoro.
 Fase 3: il professionista svolge una funzione di consulente e coach per i lavoratori.

Consulenza prelicenziamento: un processo di consulenza personale


In questa fase l’attenzione è rivolta ai manager e ai responsabili delle RU e risponde alla necessità di formare e consolidare
le loro competenze per la gestione appropriata del processo di licenziamento. Le modalità operative che caratterizzano questa
fase sono:
 Corporate pre-lim: presa di contatto con la committenza per discutere le circostanze che motivano la decisione di
licenziare;
 Ricognizione delle eventuali alternative alla soluzione del licenziamento – Corrective counseling;
 Interventi di formazione per i manager e i responsabili coinvolti nella gestione dei processi di licenziamento, nella
conduzione dell’intervista di licenziamento e nella gestione della comunicazione alle unità operative del licenziamento in
atto – Termination meeting: intervento di formazione per i manager e i responsabili coinvolti nella gestione dei processi di
licenziamento e nella gestione della comunicazione.
 Esplicitazione del ruolo dell’organizzazione durante la fase di ricerca del lavoro da parte del licenziato: corporation
accountability. Questo ambito riguarda la messa a disposizione di informazioni e supporti necessari per la gestione della
fase di transizione e la ricerca attiva del lavoro.

Programmazione di interventi di prelicenziamento: funzioni di Project Management


A partire dagli anni ’80, il focus sulla fase di consulenza prelicenziamento si sposta da una prospettiva di pre-lim meeting a una
di project management consulting assignment. La trasformazione più radicale è imputabile alla maggiore consistenza dei
licenziamenti e dimissioni del personale e alla necessità di affrontare gruppi di lavoratori che dipendono da multinazionali e
che devono fronteggiare anche problematiche di natura sindacale.
In questa prospettiva, il ruolo del consulente per l’outplacement cambia significativamente; dopo la comunicazione del
licenziamento, effettuato in gruppo dal manager, entra in gioco il consulente che prende in carico la situazione allo scopo di
presentare le opportunità e i servizi di outplacement disponibili organizzando incontri di gruppo denominati orientation meetings,
utili per promuovere e facilitare la discussione, il confronto circa le ragioni della riduzione del personale.

Preparazione alla ricerca del lavoro attraverso la consulenza personalizzata


Si tratta della fase operativa di consulenza, formazione e supporto necessaria perché il soggetto sia in grado di progettare e
realizzare una “campagna di ricerca del lavoro”. Le modalità operative di rilievo sono le seguenti:
 Orientation meeting  Ha lo scopo di attenuare le reazioni all’annuncio del licenziamento e focalizzare l’attenzione sulla
future ricerca di un nuovo lavoro.
 Career assessment  Attraverso l’uso di strumenti dedicati, il consulente guida il licenziato attraverso un processo di
ricognizione strutturato. Ciò consente di individuare i punti di forza e di criticità che permettono di delineare gli
obiettivi occupazionali futuri, ancorati ad aspettative lavorative e di remunerazione compatibili e soddisfacenti;

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 Replacement candidate  Il lavoratore, da risorsa in esubero per l’azienda, si riposiziona come candidato per una
nuova occupazione, attraverso un processo di formazione e consulenza finalizzato alla redazione di un curriculum
dedicato e all’organizzazione di una strategia di “marketing” presso potenziali datori di lavori. Si tratta di un insieme di
interventi di riqualificazione delle competenze del candidato necessarie per affrontare le opportunità e le complessità del
mercato del lavoro:
 Accesso ed esplorazione dei database relativi al mercato dell’offerta di lavoro.
 Sviluppo di capacità di placamento relativamente al mercato di lavoro disponibile. Si tratta di sviluppare capacità
nel condurre network meetings, nel rispondere agli annunci di lavoro e fornirsi di nuovi contatti.

Preparazione per la ricerca del lavoro: programmi e apprendimenti di gruppo


L’esigenza di fronteggiare gruppi di collaboratori in esubero nell’organizzazione induce il management interessato a richiedere
interventi di outplacement differenziati per livello, per una pluralità di profili professionali, per target anagraficamente diversi.
Gli strumenti e le pratiche di preparazione per la ricerca di opportunità e l’inserimento lavorativo sono:
 Group Learning  I vantaggi dell’apprendimento attraverso l’esperienza di gruppo possono essere occasioni di
apprendimento reciproco/cooperativo; si sperimenta così un minore isolamento e si facilita il passaggio di informazioni
e la creazione di un network circa ipotetiche possibilità future.
 Programmi “su richiesta”  Lo si fa personalizzando la consulenza rispetto alle esigenze delle imprese e dei
target proposti. Per quanto concerne la durata di questi servizi, si tende sempre ad equilibrare le esigenze
dell’azienda con quelle dell’individuo che spesso sono divergenti.
 Group Workshop (per lo sviluppo di skills di ricerca del lavoro)  Si risponde alla necessità di differenziare il servizio
rispetto al target coinvolto (senior executive manager, middle management, non professional) e a creare dei percorsi
maggiormente individualizzati.
 Job replacement activity (accedere alle banche dati, ai servizi segretariali e amministrativi e ai nuovi strumenti di
contatto con i potenziali datori di lavoro)  Lo sviluppo delle nuove tecnologie determina una trasformazione anche
nell’attività di consulenza per l’outplacement. Ciò comporta per le agenzie di outplacement la fornitura di materiali e
servizi di formazione per l’uso delle tecnologie infotelematiche che creano vantaggi sia per l’utenza che per
l’organizzazione.

Realizzazione delle atvità di ricerca del lavoro


Una volta completata la fase di preparazione e acquisite le competenze necessarie, l’avvio della fase di job searching si
definisce come un’attività a pieno tempo, considerando come quartiere generale l’outplacement office, presso il quale si
svolgono tutte le attività di contatto e di networking necessarie, previste nel piano di azione.
Il consulente svolge una funzione di supporto e di accompagnamento; supporta il candidato nella gestione della
contrattualizzazione e quando il candidato sarà inserito nella nuova posizione, il consulente parteciperà all’elaborazione e
all’implementazione del piano d’inserimento nel nuovo contesto.
Nelle situazioni di contatto e di negoziazione il consulente supporta il candidato nella gestione della contrattualizzazione,
delle condizioni di lavoro e, quando il candidato sarà inserito nella nuova posizione, il consulente parteciperà all’elaborazione e
all’implementazione del piano di inserimento nel nuovo contesto, identificando gli obiettivi da perseguire.
Tante agenzie di consulenza organizzano “landing parties” (party) per il cliente che ha trovato una nuova posizione al fine di
consentire la socializzazione delle esperienze realizzate durante la job searching.
Questa è una delle fasi più critiche nell’attività del consulente per l’outplacement, in quanto è in questo momento che il
candidato rischia di sperimentare situazioni di scoraggiamento, rinuncia, inattività, tali da indurlo ad abbandonare la ricerca; la
competenza del consulente deve emergere attraverso interventi di sostegno, incoraggiamento, rifocalizzazione del piano e
riposizionamento degli obiettivi da raggiungere.
Nel tempo si è definita anche l’esigenza di guardare ai dipendenti come maggiormente consapevoli e coscienti delle proprie
capacità e competenze , più in grado di gestire le proprie transizioni di lavoro.

Gli interventi dedicati e l’innovazione


Negli anni sono stati delineati diversi modelli personalizzati per specifici richiedenti.
Una delle proposte di maggiore successo nella consulenza è quella rivolta ai senior ecexutives licenziati dalle grandi corporation.
Sessioni di counseling di tipo residenziale della durata di tre-cinque giorni vengono proposte ai soggetti e alle rispettive consorti.
Il ruolo del/della consorte è quello di condividere l’impatto e le implicazioni psicologico-sociali della perdita del lavoro sul
sistema familiare e di coppia.
Possono essere citate le esperienze del tipo “key executive conference”, organizzate per promuovere scambi e relazioni tra
candidati e opportunità occupazionali nello scenario internazionale.
Di tutt’altra rilevanza sono gli interventi che hanno come obiettivo la ricollocazione di soggetti che hanno abbandonato il posto
di lavoro volontariamente o per raggiunti limiti di età: importante in questo ambito è il progetto ReServe che nasce nel 2007 con
lo scopo di reclutare e gestire persone di età superiore ai cinquant’anni che desiderano impegnarsi in attività a forte rilevanza
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sociale.
I ReServist sono pensionati o lavoratori che hanno intenzionalmente abbandonato un posto di lavoro e che intendono
valorizzare le loro potenzialità e le loro risorse per una nuova opportunità di impegno sul piano sociale, attraverso opportune
forme di consulenza di outplacement.
La consulenza per l’outplacement, quindi, si definisce come un sistema di servizi e risorse che tendono a riparare il momento
negative caratterizzato dalla perdita del lavoro valorizzando le risorse e potenzialità del soggetto a favore di una future
ricollocazione.

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