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Il piede di Charcot è l’esasperazione di un piede neuropatico.

Nel quadro clinico di un piede


neuropatico, abbiamo anche l’osteoartropatia neuropatica (Charcot). La definiamo
osteoartropatia e in genere riguarda un lato per volta: coinvolge ossa, articolazioni, muscoli.
C’è la perdita dei riflessi osteotendinei, della sensibilità propriocettiva e debolezza muscolare
conseguente a denervazione (l’indagine principale per quest’ultimo è la velocità di conduzione
nervosa sensitiva).

Il DMT1 che si ammala di NAC ha una storia più lunga di DM rispetto al DMT2. Gli obesi hanno
una maggior incidenza di NAC.

Il paziente con neuropatia vegetativa ha una simpaticectomia che dà vasodilatazione. Le vene


del dorso del piede sono turgide per un problema legato alla neuropatia vegetativa. Il sistema
simpatico è deputato a controllare la vasodilatazione di una vasta rete arteriolare e gestisce le
anastomosi artero-venose. Normalmente questi piccoli by-pass fisiologici sono chiusi. Nel
paziente diabetico con piede neuropatico, si ha la perdita del loro controllo e un 30% in più è
aperto rispetto alla normalità. Ciò dà luogo all’edema di tipo neuropatico, causato
dall’aumentata permeabilità dei vasi capillari ed eccessiva fuoriuscita di liquido che non riesce
ad essere gestita dai vasi linfatici. Il turgore è dovuto al fatto che nella neuropatia autonomica
gli shunt periferici sono sempre aperti e non fanno più da valvole. Quando gli shunt sono tutti
aperti perché non controllati dai riflessi, aumenta il ritorno venoso e con questa situazione nei
capillari abbiamo delle microemorragie in seguito alla loro rottura.

Nello Charcot l’osso diventa fragile perché l’eccessiva vascolarizzazione locale, determina
un’attivazione di osteoblasti e osteoclasti. L’osso è meno solido e il meccanismo di iperafflusso
fa sì da erodere l’osso. L’iperafflusso è causato dall’apertura degli shunt artero-venosi. Il
gestore di quelli chiusi non funziona bene a causa della perdita del controllo da parte del
sistema nervoso simpatico.

Storicamente sono state formulate due teorie inizialmente contrapposte che spiegavano la
patogenesi della CN: la teoria tedesca o neurotraumatica attribuita alla scuola di Volkmann e la
teoria francese o neurovascolare attribuita a Charcot.

Nella fisiologia, quando c’è una frattura, nell’ambito della crepa, si forma un tessuto di
granulazione vascolarizzato. Il meccanismo per cui alcune fratture non consolidano mai, è
perché rimane l’input dell’infiammazione; se la frattura non è bloccata, l’osso non consolida. La
mancanza di dolore, che è quella che fa mettere il piede a riposo, fa mantenere il fenomeno
della infiammazione. Tutto ciò viene avvertito dal periostio come un meccanismo continuo,
mettendo in atto dei fenomeni di rimodellamento dell’osso.

Dopo una frattura, il processo infiammatorio è relativamente di breve durata e l’aumento delle
citochine infiammatorie (quali TNF-alfa e IL1-beta) avviene nelle prime 48 ore; questo accade
probabilmente perché il dolore permette di mettere a riposo l’arto e di risaldare la frattura;
pertanto il rilascio di citochine infiammatorie si riduce e lo stimolo infiammatorio cessa. Ma in
mancanza del presidio del dolore, il piede affetto non viene immobilizzato e il trauma della
deambulazione comporta un perpetuarsi dell’infiammazione in un circolo vizioso. Questo
comporta una progressiva osteolisi documentata nella CN che aumenta il rischio di nuove
fratture e dislocazioni, fintanto che la malattia rimane attiva e non trattata, con due
conseguenze: spostamento del carico su altre ossa e articolazioni e inizio della cascata
infiammatoria. Pertanto l’immobilizzazione è necessaria non solo per ridurre i traumi su un
osso fragile, ma anche per spegnere il processo infiammatorio.

Recentemente si è focalizzata l’attenzione sul legame fra CN e infiammazione. Nella CN c’è uno
stato di “dis-infiammazione”, cioè una risposta infiammatoria locale prolungata ed esagerata in
risposta a uno stimolo infiammatorio che può derivare da un trauma accidentale, più o meno
riconosciuto dal paziente, ma in alcuni casi da interventi chirurgici sul piede inclusi interventi di
rivascolarizzazione o procedure ortopediche.

Se riesco a far camminare il paziente bloccando il piede, blocco lo Charcot. Il continuare a


camminare sul piede, manda avanti il piede di Charcot. Il piede va bloccato, fissato. I traumi
moderati e ripetitivi costituiscono una parte importantissima (scarpa a suola flessibile). I
carichi episodici (traumi, fratture) sono quelli che fanno cedere il piede prima che esso diventi
Charcot. Perché il piede crolli, ci deve essere un episodio di trauma acuto molto difficile da
ritrovare. L’osteoartropatia di Charcot è l’esito di una serie di traumi che convergono su un
piede neuropatico.

Non esistono dei markers specifici tipici del processo patologico e quindi mancano dei criteri
clinici e/o radiologici definiti su cui basare la diagnosi.

Il segno clinico più importante che permette di fare diagnosi di CN è la presenza di


infiammazione locale, soprattutto nelle fasi precoci quando la radiografia standard del piede
risulta ancora negativa. Il piede in questo caso è più rosso, edematoso e nella maggior parte
dei casi, più caldo del controlaterale. È l’infiammazione dell’osso che è associata ad osteolisi
che porta a fratture e dislocazioni. Quando la malattia si stabilizza, i segni dell’infiammazione
regrediscono e la normalizzazione dell’arto coinvolto rispetto al controlaterale è stato il criterio
usato fino ad oggi per autorizzare il paziente a riprendere il carico.

Anche danni dell’osso senza evidenti fratture (come l’edema della midollare) rappresentano un
criterio per attuare uno scarico in un piede neuropatico edematoso, poiché il persistere del
carico porta a un’evoluzione del quadro clinico con il manifestarsi di fratture complete.

L’unico trattamento dello Charcot in fase acuta senza fratture (aumentata temperatura che
deriva dal processo infiammatorio dell’osso) è l’immobilizzazione dell’arto interessato con uno
stivaletto rigido in gesso o in fibra di vetro che viene fatto per un periodo non inferiore a 90
giorni, da riconfezionare dopo una settimana dalla prima applicazione per adattarlo alla
riduzione dell’edema, al fine di garantire l’immobilizzazione e il contatto totale. Quando è
interessata l’articolazione della caviglia, il mesopiede o il calcagno, il tempo di immobilizzazione
può raggiungere 180 giorni prima che si ottenga la risoluzione della fase acuta ed il
raggiungimento della fase di quiescenza della malattia.

La durata media di trattamento per CN con fratture è di 20 mesi.

Durante questo periodo il paziente deve assolutamente evitare il carico sul piede durante la
deambulazione, anche se questa avviene con l’ausilio di stampelle o tutori.

L’eventuale necessità di prolungare il periodo di immobilizzazione deve essere valutata in


funzione della remissione dei segni clinici di flogosi locale. La persistenza di una tumefazione
eritematosa con cute calda più di 2° rispetto al piede controlaterale, suggerisce che il processo
infiammatorio non si è ancora spento e pone l’indicazione a prolungare il periodo di
immobilizzazione evitando il carico.

Limitazioni all’utilizzo di questa tecnica di scarico sono derivati dagli effetti collaterali descritti
in letteratura (rigidità articolare e ipotrofia muscolare secondari alla prolungata
immobilizzazione in un gambaletto rigido; lesioni ulcerative, infezioni fungine, abrasioni
causate dallo sfregamento a livello di salienze ossee) che arrivano sino al 20%. Tali dati si
riferiscono al TCC confezionato utilizzando la benda gessata di Parigi risultando rigido e
pesante. Se viene realizzato dal tecnico dell’ortopedia, bisogna fare al paziente la terapia con
anticoagulanti (calciparina) o Clexane, sennò può venire una embolia polmonare.

Il confezionamento dell’apparecchio di scarico (bende in vetroresine polimeriche a rigidità


differenziata) si realizza con due tipologie di bende in fibra di vetro: una morbida (softcast con
caratteristiche di flessibilità) e una dura (scotch cast che conferisce un’alta resistenza).

L’uso di questo materiale determina un abbattimento clamoroso del numero degli effetti
collaterali intorno al 5% pur mantenendo un’efficacia elevata; riduce il rischio di abrasioni e
viene così conservata la pompa muscolare, evitando l’edema da stasi venosa. Il gambaletto
così fatto è indicato anche nei pazienti anziani, che possono mantenere un certo grado di
mobilità, grazie alle caratteristiche di leggerezza dello stesso. Questo tipo di stivaletto risulta
meno rigido e meno pesante, caratteristiche che ne determinano anche una migliore
accettabilità da parte del paziente stesso.

Il paziente deve essere disteso, in posizione supina. La cute deve essere adeguatamente
idratata con un emolliente. Le dita devono essere separate da una garza morbida al fine di
evitare macerazioni. L’apparecchio deambulatorio di scarico in vetroresina non è removibile dal
paziente ed è confezionato utilizzando una calza tubolare in cotone dalla tuberosità tibiale sotto
il ginocchio al dorso delle dita in modo che copra abbondantemente le dita.
Si applica un nastro di cerotto gommato (microfoam) allo scopo di proteggere le protuberanze
ossee (malleoli, spina tibiale, dorso del piede in caso di equinismo accentuato), da possibili
frizioni con la sovrastante benda in vetroresina irrigidita.

Successivamente viene adattata una benda in cotone di Germania (a spirale elicoidale con
sovrapposizione del 50%), dalle dita fino alla tuberosità tibiale, senza lasciare aree scoperte ed
eliminando le grinze, con lo scopo di proteggere ulteriormente la gamba e il piede.

Si posiziona il paziente con piede a martello (90°) e il ginocchio semiflesso.

Viene bagnata con acqua (PRIMA) e applicata a spirale la prima delle tre bende soft cast in
vetroresina (la meno rigida), su gamba e piede (tempo di lavoro della benda di resina circa 5-
10 minuti).

Dopo avere ottenuto l’irrigidimento della struttura con acqua, che funge da catalizzatore, si
crea un supporto laterale e mediale sulla gamba e sulla faccia plantare del piede; si crea una
staffa con 3-4 passaggi della benda in vetroresina più rigida (scotch cast), applicandola da una
tuberosità tibiale all’altra passando in corrispondenza dei malleoli; si crea quindi una soletta
con la rimanente benda (3-8 strati proporzionalmente al peso); il tutto viene nuovamente
bagnato con acqua (DOPO) per irrigidire rapidamente le bende.

Si completa il gambaletto con un’altra benda di “soft cast” bagnata, rendendo solidale il resto
della staffa alla gamba.

Si rifinisce il tutto scollando con le apposite forbici fino a quattro dita sotto il poplite verso l’alto
e scoprendo il dorso delle cinque dita.

Si ribalta il cotone di Germania per 1-2 cm ed il tubolare di cotone per 5 cm, fermandoli con un
cerotto. Il paziente deve astenersi dal carico per almeno 5 ore, tempo necessario per il
consolidamento della struttura.

È inoltre necessario sollevare la suola della scarpa controlaterale per facilitare la


deambulazione che avverrà con l’aiuto di stampelle.

Durante tutto il periodo di trattamento deve essere posta particolare attenzione al piede
controlaterale per il rischio di insorgenza di un quadro acuto di Charcot, probabilmente
secondario al carico cui il piede viene sottoposto (calzatura protettiva con suola rigida a
dondolo e contrafforti di supporto della caviglia nella quale viene alloggiato un plantare su
calco per il riequilibrio delle pressioni plantari).

Per lo Charcot acuto, non si mette il tacco gommato in un gambaletto per il primo mese e
mezzo. Viene confezionato con le staffe, dal momento che permettono di lasciare l’intera
superficie plantare libera da pressione.
Un deterrente all’utilizzo del TCC è il costo che per il confezionamento di un solo gambaletto si
aggira sui 50-75 euro; pertanto il costo di un trattamento completo, considerando che il
gambaletto viene sostituito settimanalmente, può arrivare a 200-300 euro, contro i 150 del
gambaletto rimovibile e i 25-75 delle scarpe da lesione.

Una metodica di follow up è la Risonanza Magnetica, specie in assenza di fratture; infatti a


volte con il ritorno al carico, la RM evidenzia un residuo edema della midollare che non è
associato a rilevanti sintomi clinici. Pertanto la durata dell’immobilizzazione deve essere
determinata dalla RM e probabilmente dovrebbe essere più lunga di quanto suggerito dalla
clinica e dalla radiografia standard.

È consigliabile eseguire il passaggio ad un gambaletto rimovibile quando il gradiente


di temperatura cutanea tra piede affetto e controlaterale sia di 1° per due settimane
consecutive.

A seguire si mette un tutore tipo stivale pneumatico AIRCAST, sempre conformato alla gamba
del paziente perché si gonfia. L’AIRCAST è un tutore in plastica rigida. Il vantaggio è di avere
delle camere d’aria che si gonfiano e riducono la possibilità di sviluppare lesioni.

VANTAGGI:
• scarico assoluto della lesione
• non traumatico
• abbastanza efficace
• permette un’autonomia motoria pressochè completa
SVANTAGGI:
• costo
• facilmente rimovibile
• dipende dalla compliance del paziente
• necessità di adeguato expertise

Non solo il piede con ipercheratosi plantari ha bisogno di calzature, ma anche il piede di
Charcot (nella sua fase acuta, va fatto l’apparecchio gessato); una volta stabilizzato, una volta
che il processo attivo si è arrestato e siamo nella fase di quiescenza, il paziente può cominciare
gradualmente a deambulare usando un gambaletto removibile e finalmente una calzatura
adeguata.

Il passaggio invece da un gambaletto removibile ad una calzatura definitiva richiede


la stabilità per un mese della temperatura dell’arto interessato confrontato con il
controlaterale.

Gli obiettivi del trattamento della fase cronica consistono nella riduzione delle pressioni
plantari, nel preservare l’integrità della cute, garantire la stabilità del piede, prevenire
l’ulcerazione del piede.

Una precoce ripresa del carico potrebbe causare la riattivazione della fase acuta nella stessa
articolazione o in altre adiacenti.
La calzatura ideale è costituita da una suola rigida ad angolo di battuta anteriore per
permettere il rotolamento del passo e ridurre il frizionamento a livello metatarso-falangeo. La
suola a barchetta serve per trasferire il carico e facilita nella spinta lasciando il piede immobile
(si toglie il carico sul piede nella fase di spinta). La suola biomeccanica ci permette di scaricare
il 25-30% delle pressioni plantari. Normalmente il massimo punto di propulsione viene dato
sulle teste. Con la suola biomeccanica esso si arretra di 8-10 mm rispetto ad una normale
battuta. La punta è rialzata proprio per fare arretrare il punto di propulsione.

La tomaia deve essere di pelle morbida, deformabile, senza cuciture interne, extra-fonda, con
un’altezza di almeno 4 cm nella regione anteriore per permettere l’alloggiamento delle dita a
martello. La calzatura deve essere allacciata con stringhe o con velcro affinchè sia ottimale la
presa sul collo del piede, evitando così lo scivolamento anteriore e il fisiologico sollevamento
del tallone durante il passo.

Tutti i piedi con osteoartropatia necessitano di controlli costanti e calzature adeguate per tutta
la vita, al fine di prevenire l’ulcerazione. Gli Charcot appena guariti vanno monitorati una volta
al mese.

L’ortesi plantare è un dispositivo medico realizzato interamente su misura che controlla,


corregge o accomoda un’anomalia strutturata o funzionale del piede. È un dispositivo che viene
inserito all’interno della scarpa, rimovibile, con funzione di ridistribuzione del carico. Il ruolo
delle ortesi plantari è quello di attenuare, piuttosto che correggere, le alterazioni
biomeccaniche del piede, in particolare gli ipercarichi patologici a livello delle teste metatarsali.

Il plantare ideale è costituito da:

 uno strato interno traspirante e anallergico fatto di materiale morbido, tale da assorbire
le pressioni del piede e cioè ridurre lo shock (forze perpendicolari) e lo stress (forze
trasversali); COPERTURA (NO PELLAMI MA TESSUTO, MICROFIBRA DI POLIESTERE E
POLIURETANO); il PPT a distanza di 22 giorni di trattamento perde le sue proprietà
irrigidendosi.

 uno strato intermedio, elastico e sufficientemente stabile nella forma anche sotto il
carico del peso (cioè dotato di “memoria”); SOLETTA (POLIETILENE + EVA: SHORE 35);

 uno strato esterno rigido per supportare forma e funzione del piede; BASE (EVA -
SHORE 50/60);

Il plantare deve avere uno spessore minimo per essere alloggiato in una calzatura e non è
corretto prescrivere l’uno senza l’altra.

Il plantare del paziente diabetico deve essere sempre fatto a contatto totale, su calco in gesso
dell’impronta stessa (ossia su misura), termoformabile , senza correzioni (guai a mettere gocce,
barre, cunei, perché si perde il concetto del contatto totale).

X RISCHIO RECIDIVA CHARCOT: STABILPRO (NO MODUS).


Dei pazienti con Charcot, il 20-30% muore dopo tre anni e la mortalità è legata alla tendenza
alle aritmie e blocco respiratorio (apnee notturne).

SOSPETTO CHARCOT: indagine radiologica (in antero-posteriore, obliqua, latero-laterale)


PIEDE E CAVIGLIA

RMN: DIAGNOSI DIFFERENZIALE CHARCOT/OSTEOMIELITE

No RMN dopo interventi chirurgici per l’edema che persiste (falsi positivi)

IN CASO DI PACE-MAKER: TAC (NON RMN)

Plantare MODUS (STABIL-D) richiede codice plantare

È possibile inquadrare l’osteoartropatia di Charcot utilizzando:

 una classificazione clinica (classificazione di Eichenholz), che descrive l’evoluzione della


patologia nel corso del tempo;

 una classificazione anatomica (classificazione di Sanders e Frykberg), che tiene conto


delle aree anatomiche del piede interessate dai processi degenerativi ossei e articolari.

CLASSIFICAZIONE RADIOLOGICA DEL PROCESSO EVOLUTIVO DELLA NAC

Per classificare, dal punto di vista osseo, le fasi dell’evoluzione del processo fratturativo,
Eichenholtz ha diviso il processo patologico in quattro stadi:

STADIO 0: INFIAMMAZIONE, fase caratterizzata da eritema, edema e calore, senza


anomalie strutturali. Il primo esame radiografico eseguito a pochi giorni dall’insorgenza del
quadro acuto può anche risultare negativo. Tuttavia, se l’instabilità, lo stress meccanico e
l’infiammazione persistono, questa fase può passare immediatamente a quella successiva.

1° STADIO: DISSOLUZIONE OSSEA (Durata: 3-6 mesi), rappresenta la fase acuta della
patologia. Rappresenta la fase iniziale di maggiore difficoltà diagnostica e di conseguenza
spesso misconosciuta. Il quadro clinico dell’osteoartropatia di Charcot nella sua fase acuta si
caratterizza per la presenza di segni specifici di infiammazione. Il piede coinvolto dal processo
osteo-articolare presenta i segni di flogosi locali quali edema del piede con tumefazione
arrossata, aumento della temperatura cutanea locale con differenza di almeno 2°C verso il
controlaterale. La differenza di temperatura può arrivare anche a 10°C.

Si può o meno associare una sintomatologia dolorosa locale, sia a riposo sia durante il carico,
seppur in presenza di neuropatia periferica. Il dolore profondo nella neuropatia distale e
simmetrica è spesso conservato: questo spiega perché a volte l’osteoartropatia di Charcot in
fase acuta si presenta con un certo grado di dolore. Il dolore, che non è un sintomo costante,
quando c’è non è proporzionale all’entità dei segni di flogosi presenti.

Lo studio radiografico evidenzia un riassorbimento osseo, erosione della cartilagine e dell’osso


subcondrale, detriti ossei e cartilaginei; possono essere presenti microfratture o fratture anche
gravi che possono provocare fin dall’inizio severe deformità del piede ed instabilità.

2° STADIO: COALESCENZA (Durata: 6-12 mesi), si caratterizza per la riduzione dei segni
di flogosi e dell’edema.

Lo studio radiografico mette in evidenza il riassorbimento dei detriti ossei più piccoli e l’iniziale
consolidamento osseo in sede di frattura.

3° STADIO: RIMODELLAMENTO (Durata: 12-24 mesi) avviene la riparazione finale e


definitiva delle fratture (consolidamento), nel tentativo di ripristinare la stabilità del piede,
indipendente dalla deformità alla quale è giunto il piede alla fine del processo evolutivo.

La normale architettura del piede può essere conservata, in particolar modo se il trattamento
protettivo è stato applicato correttamente e precocemente, oppure possono residuare
deformità strutturali e instabilità articolari di diversa severità.

Le gravi deformità che caratterizzano la fase finale del processo evolutivo possono
accompagnarsi a lesioni plantari che possono interessare diverse zone della superficie plantare
e che si caratterizzano per la presenza di abbondante callosità perilesionale, con una scarsa
tendenza alla guarigione, anche se correttamente trattate.
CLASSIFICAZIONE DI SEDE DELLA NAC (DA SANDERS E FRYKBERG) E RELATIVO
RISCHIO AMPUTATIVO

Sempre dal punto di vista radiologico, nel 1991 Sanders e Frykberg hanno proposto una
classificazione dell’interessamento osseo ed articolare del piede di Charcot nella fase di
coalescenza.

Questa classificazione ha il pregio di proporre una suddivisione radiologica che indica


chiaramente la genesi delle deformità strutturali del piede che si accompagnano a lesioni
ulcerative plantari e instabilità articolari, correlate (attraverso l’osservazione clinica) con il
grado di rischio amputativo maggiore.

AVAMPIEDE (instabilità articolare bassa, rischio di amputazione basso): articolazioni


interfalangee, falangi, articolazioni metatarso-falangee, teste metatarsali.

Si accompagna spesso a una lesione ulcerativa plantare in corrispondenza delle teste


metatarsali e si complica frequentemente, se non correttamente e precocemente trattata, con
una osteomielite.

Il riassorbimento parte dalle metafisi ed è a carico delle epifisi distali. La neuropatia a livello
delle ossa del piede, dà assottigliamento delle metafisi, che si assottigliano con aspetto a punta
di matita temperata. Un’aumentata forbice tra I e II metatarso, è uno dei segni con cui più
precocemente possiamo riconoscere lo Charcot iniziale. Il rimaneggiamento dell’osso appare
radiograficamente con margini delle articolazioni frastagliati e non lineari.

L’aspetto esasperante è una rarefazione dell’osso, autodistruzione e autoassorbimento


concentrico totale quasi sempre dell’ultima falange (che acquista il classico aspetto “a
clessidra”), fratture delle teste metatarsali in seguito alle quali si formano osteofiti.

MESOPIEDE 1 (instabilità articolare alta, rischio di amputazione alto): coinvolgimento


delle articolazioni a livello tarso-metatarsale (articolazione di Lisfranc).

Se l’osteoartropatia è a livello del mesopiede, c’è un sovvertimento del piede che diventa
concavo invece che convesso (caratteristica forma “a dondolo” con inversione della volta
plantare per frattura delle ossa del tarso), che predispone alla comparsa di lesioni ulcerative
plantari in corrispondenza dei cuneiformi e del cuboide e si sovverte la dinamica del passo.

MESOPIEDE 2 (instabilità articolare alta, rischio di amputazione alto): l’osso


compromesso in una situazione di questo genere è lo scafoide, schiacciato dall’astragalo che
può arrivare a prendere anteriormente rapporto coi cuneiformi.
Il quadro clinico è rappresentato dall’interessamento delle articolazioni:

 astragalo-scafoidea

 scafo-cuneiforme

 calcaneo-cuboidea

Nello Charcot intratarsale il piede è leggermente edematoso ed eritematoso senza evidenti


deformità che invece compaiono allorquando al paziente viene concesso di camminare senza
protezione.

Anche in questo caso si osserva un cedimento del piede mediano (deformità del piede “a
dondolo”), che pone il paziente a grave rischio di ulcerazione plantare in corrispondenza della
protrusione del cuneiforme mediale, cuboide, scafoide, con successivo rischio di
osteomielite.

CAVIGLIA (instabilità articolare altissima, rischio di amputazione altissimo)

La lassità legamentosa che caratterizza le fasi iniziali della patologia, peggiora gradualmente
con il carico durante la deambulazione che avviene senza dolore.

La tibia e il perone, non più contenuti dall’apparato legamentoso, crollano sull’astragalo,


provocandone la distruzione e la tibia poggia direttamente sul calcagno, creando una pseudo-
articolazione (deformità in varismo del piede per frattura dell’astragalo).

Frequentemente il quadro clinico è caratterizzato da una protuberanza laterale, il malleolo


fibulare, con medializzazione del piede e successiva ulcerazione a livello del malleolo fibulare
che può protrudere all’esterno con grave rischio di osteomielite.

CALCAGNO (instabilità articolare bassissima, rischio di amputazione bassissimo, sede


di lesione ulcerativa calcagno)

La frattura di quest’osso si caratterizza per l’avulsione del tubercolo posteriore, da ascrivere


alla forza esercitata dal tendine di Achille sul tallone durante la fase di contatto con il suolo
che, a causa della neuropatia, avviene con maggiore intensità.

Dal punto di vista clinico il paziente si presenta all’osservazione per la comparsa di una
tumefazione che interessa la zona calcaneare ma che può estendersi sino al mesopiede ed alla
caviglia. L’impotenza funzionale è scarsa così come il dolore può essere lieve. Saltuariamente il
paziente riferisce di avere avvertito durante il cammino un rumore sordo accompagnato da un
dolore acuto sul retro del tallone.

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