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Sordello da Goito

Nato a Goito, nei pressi di Mantova, Sordello fu uno dei più noti poeti in lingua provenzale dell’Italia
Settentrionale. Nei primi anni della giovinezza, lavorò probabilmente come giullare. Trascorse un breve
periodo a Ferrara: qui imparò i primi rudimento dell’arte poetica. Successivamente si spostò a Verona, dove
fu alla corte di Rizzardo di San Bonifacio, qui, incaricato da Ezzelino III da Romano, rapì Vunizza, la moglie di
Rizzardo. In seguito sposò in gran segreto la nobile Otta di Strasso, la cui famiglia era contraria alle nozze.
Fu probabilmente per questo motivo che lasciò Verona e l’Italia: dopo aver viaggiato in Spagna e in
Portogallo e dopo aver soggiornato in diverse corti, si stabilì in Provenza. Alla morte di Raimondo, Sordello
passò al servizio del suo erede, Carlo d’Angiò, nuovo conte di Provenza.

All’interno del Canto VI del Purgatorio, Sordello assume un ruolo emblematico, se pensiamo che è proprio il
suo scenografico abbraccio con Virgilio a dare il la alla lunga invettiva dantesca nei confronti dell’Italia e di
Firenze, vero nucleo tematico del Canto. Sordello assume quindi il ruolo del personaggio esemplare, che ha
saputo giudicare i potenti del suo tempo e che guarda al passato e ai suoi valori con nostalgia, proprio come
Dante.

Versi 1-57. Dante si allontana dalle anime dei morti di morte violenta, che lo circondano chiedendogli
suffragi. Una volta liberatosi dalla pressa, sottopone a Virgilio un dubbio che lo attanaglia: nell’Eneide,
infatti, è chiaramente scritto che le preghiere non possono piegare la Volontà divina; è quindi vana la
speranza delle anime che chiedono a Dante proprio questo? Virgilio spiega al poeta fiorentino che le
preghiere, pronunciate con ardore di carità, possono abbreviare il tempo della pena ma non cambiano la
sentenza di Dio. Aggiunge, inoltre, che nell’Eneide la colpa non poteva essere lavata dalla preghiera perché
a pronunciare questa era un’anima pagana, quindi lontana da Dio. Infine, esorta Dante a porre questa
questione anche a Beatrice, che incontrerà sulla vetta del monte del Purgatorio.

Versi 58-75. Virgilio indica a Dante un'anima solitaria, che potrà loro indicare la via più rapida per salire. Lo
spirito, però, non risponde alla domanda dei poeti, ma chiede loro chi siano e da dove vengano. Non
appena Virgilio pronuncia il nome «Mantova», l’anima – che si presenta come Sordello da Goito, anch’esso
mantovano – si slancia per abbracciare l’autore dell’Eneide.

Versi 76-126. Al ricordo di questa scena, di questo affetto mosso solo dall’essere concittadini, Dante autore
pronuncia un’indignata invettiva contro la mancanza di pace dell’Italia, resa schiava e abbandonata da chi
dovrebbe prendersi cura di lei. L’accusa di Dante è rivolta ad Alberto d’Austria, che non si è curato del Bel
Paese, e agli ecclesiastici, che ne hanno approfittato per ottenere il potere temporale, che invece non
appartiene loro.

Versi 127-151. Dante autore si rivolge infine a Firenze: ironicamente, osserva come la città può sentirsi fiera
del non essere toccata da questa digressione. In realtà, l’apostrofe ironica è utile al poeta per elencare i
mali che attanagliano Firenze, come la mancanza di giustizia e i continui mutamenti politico-sociali. ù

Nel Canto VI del Purgatorio, in un seguendo di apostrofi, Dante – dopo aver paragonato l’Italia ad una
schiava, privata della propria libertà – rivolge la sua critica prima alla popolazione italiana, tutta volta a farsi
la guerra e quindi causa della mancanza di pace all’interno della penisola, per poi passare all’accusa verso la
Chiesa e verso Alberto d’Asburgo, colpevole di aver abbandonato l’Italia a sé stessa e di averla lasciata priva
di un imperatore. Infine, Dante prosegue con l’ironica invettiva a Firenze, exemplum massimo di instabilità
politica, di scissione interna, di popolazione in perpetua lotta intestina.
Secondo Dante, quindi, le cause dell’instabilità politica dell’Italia sono da ritrovarsi nella mancanza di un
imperatore, nella corruzione politica e nelle mire espansionistiche delle Signorie, e infine nelle ingerenze
della Chiesa volta ad ottenere il potere temporale senza riuscire poi ad esercitarlo.

Nel Purgatorio la preghiera assume un’importanza cruciale, tanto che ogni anima sottopone a Dante la
medesima richiesta: chiedere ai vivi, una volta tornato sulla Terra, di pregare per lei. Nel passo finale del
Canto III scopriamo la motivazione di questa supplica: è Manfredi stesso a dichiarare che, attraverso le
preghiere dei vivi (a patto che essi siano in Grazia di Dio), gli spiriti penitenti possono veder ridotta la
propria pena.

vv. 65-66, «ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa»: similitudine

v. 84, «di quei ch’un muro e una fossa serra»: perifrasi per indicare gli abitanti di una stessa città

v. 99, «arcioni»: sineddoche per indicare la sella

vv. 106, 109, 112 e 115, «Vieni»: anafora

v. 130, «e tardi scocca»: metafora per indicare la giustizia d’animo che viene manifestata

v. 139, «Atene e Lacedemona»: metonimia per indicare i legislatori delle due città greche, Licurgo e Solone

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