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Civile Sent. Sez. L Num.

15512 Anno 2023


Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: MAROTTA CATERINA
Data pubblicazione: 01/06/2023

Oggetto: Pubblico

Corte di Cassazione - copia non ufficiale


impiego -
licenziamento –
decadenza da
impugnativa

SENTENZA

sul ricorso 10776-2022 proposto da:


LUISO ANTONIO, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la
CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso
dall’avvocato MIRRA ANTONIO;
-ricorrente-
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro tempore,
domiciliata ope legis in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI N. 12 presso gli uffici
dell’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che la rappresenta e difende ex lege;
-controricorrente-
avverso la sentenza n. 4537/2021 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, pubblicata il
20/10/2021 R.G. n. 60/2021;
udita la relazione della causa svolta nella udienza pubblica dell’1/3/2023 dal
Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Dott. STEFANO VISONA' visto l'art. 23,
comma 8 bis del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137, convertito con modificazioni nella legge
18 dicembre 2020 n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
1. con sentenza n. 4537 del 2021, la Corte d’appello di Napoli confermava la
pronuncia n. 3044 del 2020, con la quale il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere

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aveva rigettato il ricorso proposto da Antonio Luiso, dipendente dell’Agenzia delle
Entrate-Direzione Regionale della Campania, inteso ad ottenere la declaratoria di
illegittimità del licenziamento senza preavviso intimatogli, la reintegrazione nel posto di
lavoro ed il risarcimento del danno di cui all’art. 18 L. n. 300/1970, nella versione
antecedente la riforma del 2012.
2. L’oggetto della lite era rappresentato dall’irrogazione da parte
dell’Amministrazione, il 12 giugno 2018, della sanzione disciplinare del licenziamento,
ai sensi degli articoli 55-quater, co. 1, lett. a), del d.lgs. 165/2001 e 2119 cod. civ., in
applicazione degli articoli 55-bis e ter del d.lgs. 165/2001.
Il recesso datoriale trovava origine in un’ordinanza - emessa il 6 marzo 2018
nell’ambito del procedimento penale n. 12307 del 2016 - applicativa di una misura
coercitiva ex art. 292 cod. proc. pen. sulla base del cui contenuto l’Amministrazione
contestava al lavoratore, la falsa attestazione della presenza in servizio per un totale di
oltre 56 ore di assenza.
Tale condotta, nonostante l’opposizione del dipendente, la chiusura delle indagini
penali e l’annullamento della misura coercitiva disposta dal Tribunale del riesame, era
secondo l’Agenzia delle Entrate, rilevante ai sensi dell’art. 55-quater, co. 1, lett. a) del
d.lgs. 165/2001 e un’ipotesi di giustificato motivo di licenziamento senza preavviso.
A seguito del provvedimento disciplinare, il Luiso aveva proposto impugnativa
stragiudiziale in data 7 luglio 2018 provvedendo, poi, a depositare il ricorso giudiziale il
successivo 4 gennaio 2019.
3. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva respinto il ricorso per
intervenuta decadenza ex art. 6 della l. n. 604/1966 (ricorso giudiziale depositato oltre
i 180 giorni dall’impugnativa stragiudiziale).
4. Il Luiso aveva impugnato tale decisione dinanzi alla Corte d’appello di Napoli.
L’Amministrazione aveva resistito e presentato appello incidentale condizionato
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relativo al rito applicabile, non avendo il primo giudice erroneamente dato ingresso al
c.d. rito Fornero.

R.G.N. 10776/2022
5. La Corte territoriale confermava la statuizione di prime cure quanto
all’intervenuta decadenza.
Rilevava che, ai sensi dell’art. 6 della L. n. 604/1966 l'impugnazione è inefficace se
non è seguita, entro il termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella
cancelleria del Tribunale.
Riteneva, sulla base del generale principio di cui all’art. 155 cod. proc. civ.,
secondo il quale dies a quo non computatur, mentre dies ad quem computatur, ai fini
del rispetto del termine decadenziale previsto dalla norma per l’impugnativa giudiziale

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del licenziamento, il computo dei centottanta giorni vede come termine iniziale il giorno
successivo all’avvenuta impugnazione – dunque, nel caso di specie, l’8 luglio 2018 – e
come termine finale il centottantesimo giorno, ossia il 3 gennaio 2019 (considerando, a
tal fine, 24 giorni di luglio, 31 di agosto, 30 di settembre, 31 di ottobre, 30 di
novembre, 31 di dicembre e 3 di gennaio, per un totale di 180).
Riteneva, pertanto, tardiva l’impugnativa giudiziale del 4 gennaio 2019.
6. Avverso tale decisione Antonio Luiso ha proposto ricorso per cassazione,
affidato a sei motivi.
7. L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. con il primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di
norme di diritto ex art. 360 n. 3, cod. proc. civ. in relazione alla mancata applicazione
del rito di cui all’articolo 409 cod. proc. civ.
In particolare, contesta l’applicazione del rito di cui all’art. 1 co. 47 ss. L. 92 del
2012, in luogo di quello ordinario disciplinato dagli articoli 409 ss. del cod. proc. civ.
2. Con la seconda censura, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione
di norme di diritto ai sensi dell’articolo 360 n. 3 cod. proc. civ., in relazione alla falsa
applicazione dell’articolo 6 della L. 604 del 1966.
Rileva la legittimità del proprio agire in conformità della norma di legge, sulla base
di due distinte argomentazioni.
Afferma che il deposito del ricorso è avvenuto il 4 gennaio 2019, ossia
esattamente il centottantesimo giorno, l’ultimo giorno utile a partire dal 8 luglio 2018.
Sostiene che il termine de quo, in assenza di una specifica qualificazione da parte
del legislatore, deve essere considerato come termine libero e, quindi, il giorno di
effettiva decadenza dall’impugnativa del licenziamento coinciderebbe con il 7 gennaio
2018.
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3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione di


norme di diritto ai sensi dell’articolo 360 n. 3 cod. proc. civ., in relazione alla errata
applicazione dell’articolo 55 d.lgs. 165 del 2001.

R.G.N. 10776/2022
Assume che l’Amministrazione ha violato lo specifico procedimento previsto
dall’articolo 55-bis d.lgs. n. 165 del 2001, nel senso che non ha fornito la prova
dell’esecuzione di questo procedimento posto a tutela del diritto di difesa del
ricorrente.
Rileva che, prevedendo disposizione in esame che il procedimento disciplinare
deve iniziarsi “senza indugio”, mentre fu avviato dopo tre anni dalla commissione dei
fatti, l’adottato provvedimento risulta intempestivo e viola il requisito imprescindibile
dell’immediatezza della contestazione.

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4. Con il quarto rilievo, il ricorrente invoca la violazione e falsa applicazione di
norme di diritto ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., in relazione alla errata
applicazione dell’art. 55-bis d.lgs. n. 165 del 2001.
Assume che, ai sensi dell’art. 55-bis d.P.R. 165 del 2001, il provvedimento si
sarebbe dovuto concludere entro 60 giorni dalla contestazione degli addebiti.
Nel caso di specie, invece, la contestazione è stata notificata il 6 aprile 2018,
mentre il provvedimento è stato concluso in data 12 giugno 2018; quindi, oltre il
termine perentorio previsto dal legislatore e, perciò, l’atto di risoluzione del rapporto di
lavoro è da considerarsi inesistente e/o nullo.
5. Con il quinto motivo, il ricorrente insiste nella violazione e falsa applicazione di
norme di diritto ai sensi dell’articolo 360 n. 3 cod. proc. civ., in relazione alla errata
applicazione dell’articolo 18 della L. 300 del 1970.
In modo particolare, sostiene che al caso in esame vada applicato l’art. 18 della L.
300 del 1970 così come previsto prima della c.d. riforma Fornero, in quanto per
consolidata giurisprudenza di legittimità le modifiche apportate nel 2012 non si
applicano ai licenziamenti operati dalla p.a.
Alla luce di queste considerazioni, invoca, a fronte dell’illegittimità del
licenziamento, la reintegra e il risarcimento dei danni pari a tutte le retribuzioni medio
tempore maturate.
6. Infine, con l’ultima censura, il ricorrente contesta la violazione e falsa
applicazione dell’art. 2119 cod. civ. (p. 25 ricorso).
Sostiene che i motivi addotti dall’Amministrazione nel provvedimento di
licenziamento, non integrano una “giusta causa” di recesso ai sensi della norma in
epigrafe, tale da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto e ciò in
quanto il Luiso è risultato non colpevole ed estraneo ai fatti così come ricostruiti in
sede penale.
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7. Il primo motivo è inammissibile.


Innanzitutto, non risulta dalla sentenza impugnata che sia stato applicato il c.d.
rito Fornero.

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Inoltre, la scelta di un rito in luogo di un altro assume rilevanza invalidante
soltanto se la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi lo specifico
pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito
diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio
e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (v. Cass. 27 gennaio
2015, n. 1448; Cass. 10 marzo 2020, n. 6754), situazione, questa, insussistente nel
coso in esame.
8. Il secondo motivo è infondato.

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La tesi del ricorrente, secondo la quale nel computo dei giorni previsti a pena di
decadenza andrebbero scomputati tanto il dies a quo quanto il dies ad quem non trova
riscontro nell’assetto normativo nel quale la vicenda si inquadra.
Il quadro normativo di riferimento è costituito dall'art. 6, commi 1° e 2°, legge n.
604 del 1966, che nel testo originario così disponevano: «1. Il licenziamento deve
essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua
comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota
la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale
diretto ad impugnare il licenziamento stesso. 2. Il termine di cui al comma precedente
decorre dalla comunicazione del licenziamento ovvero dalla comunicazione dei motivi
ove questa non sia contestuale a quella de/licenziamento».
L'art. 32, comma 1, della Legge 4 novembre 2010, n. 183 e successivamente l’art.
1, comma 38, della Legge 28 giugno 2012, n. 92 hanno sostituito i primi due commi
dell'art. 6 come segue: «1. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di
decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma
scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non
contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la
volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale
diretto ad impugnare il licenziamento stesso. 2. L'impugnazione è inefficace se non è
seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella
cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla
controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la
possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la
conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo
necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena
di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».
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La ratio della modifica è stata individuata nell'esigenza di garantire la speditezza


dei processi, attraverso l'introduzione di termini di decadenza ed inefficacia in
precedenza non previsti, in aderenza con l'art. 111 Cost., operando un non

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irragionevole bilanciamento tra la necessità di tutela della certezza delle situazioni
giuridiche e il diritto di difesa del lavoratore (cfr. Cass. 5 novembre 2015, n. 22627).
Infatti, è stata creata una nuova fattispecie decadenziale, costruita su una serie
successiva di oneri di impugnazione strutturalmente concatenati tra loro e da
adempiere entro tempi ristretti (cfr. in motivazione Cass. 9 novembre 2015, n. 22824)
e le novità introdotte vanno certamente analizzate nel contesto normativo in cui si
inserisce la disposizione.
È stato così previsto un termine di decadenza fissato in 180 giorni dall’impugnativa

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di cui al medesimo art. 6, comma 1.
Trattandosi di termine di decadenza ‘a giorni’ non può che farsi applicazione della
norma generale di cui all’art. 155, comma 1, cod. proc civ. secondo cui: «Nel computo
dei termini a giorni o ad ore, si escludono il giorno o l'ora iniziali».
Quindi, i termini a giorni o ad ore si computano escludendo il giorno o l'ora iniziali
(dies a quo non computatur in termino) e considerando invece quelli finali (dies ad
quem computatur).
Nello specifico, pacifico essendo che la data dell’impugnativa stragiudiziale era
quella del 7 luglio 2018, il termine, calcolato dall’8 luglio 2018, scadeva il 3 gennaio
2019 (giovedì).
Il ricorso giudiziario depositato il 4 gennaio 2019 era, dunque, tardivo.
Né fondatamente si sostiene che i termini suddetti dovessero considerati ‘liberi’
(per i quali non vanno tenuti in considerazione né il dies a quo né il dies ad quem) in
quanto tali sono solo quei termini espressamente qualificati come liberi.
Come da questa Corte già affermato (v. Cass. 23 maggio 2011, n. 11302), in
tema di computo dei termini processuali, qualora la legge non preveda espressamente
che si tratti di un termine libero, opera il criterio generale di cui all'art. 155, comma 1,
cod. proc. civ., secondo il quale non devono essere conteggiati i giorni e l'ora iniziali
computandosi invece quelli finali (si veda anche la più recente Cass. n. 18635/2021,
per la quale: “la non computabilità sia del giorno iniziale che del giorno finale
(cosiddetto termine libero o "di giorni liberi") rappresenta, infatti, una ipotesi
eccezionale, limitata a casi espressamente previsti dalla legge (cfr. Cass. Sez. 2,
27/03/1969, n. 995)”).
9. Gli altri motivi (che non riguardano statuizioni della sentenza impugnata) sono
inammissibili e comunque assorbiti dalla decisione di cui ai motivi che precedono.
10. Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato.
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11. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle
spese del giudizio di legittimità.

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12. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello prescritto per il
ricorso, ove dovuto a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore
dell’Agenzia controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida
in euro 200,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi professionali oltre accessori

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di legge e spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso,
a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 1° marzo 2023.

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