Sei sulla pagina 1di 5

Introduzione

Tra il 1870 e il 1914 l’espansione coloniale occidentale non si ferma: tutto il mondo non occidentale, in
forma diretta o indiretta, finisce sotto il controllo dell’una o dell’altra gran-de potenza. Oltre alle storiche
presenze coloniali (Regno Unito, Francia, Olanda, Russia),altri Stati, anche di recentissima formazione, si
impegnano nella corsa alla conquista delle colonie (Belgio, Germania, Italia e Stati Uniti); un’antica potenza
coloniale esce quasi del tutto di scena (la Spagna); mentre un astro nascente orientale si unisce alle iniziative
dei più attivi Stati occidentali, dei quali ha in larga misura copiato le istituzioni (il Giappone).La
globalizzazione economica– già da secoli in atto – ne riceve una spinta ulteriore; parti intere del globo sono
sotto il controllo economico di imprenditori e finanzieri euro-americani. Il dato veramente nuovo è la
conquista politica e militare quasi integrale di almeno tre continenti: entro il 1914, tutta l’Oceania, tutta
l’Africa (a eccezione dell’Etiopia) e tutta l’Asia (con le parziali eccezioni della Penisola arabica,
dell’Afghanistan, della Cina, del Tibet e del Nepal) sono sotto il controllo dell’una o dell’altra fra le potenze
impegnate nell’espansione coloniale.Il dominio, adesso, è veramente integrale. Per rimarcare la novità in
questi anni entra in uso il termine imperialismo. Sembra un lemma estremamente appropriato, poiché
sottolinea un’aspirazione che le classi dirigenti dell’epoca (sovrani e uomini politici) sembra-no coltivare con
un’intensità testimoniata dal gran numero di Stati che in questo periodo assumono il titolo di «Impero»: sono
tali la Germania, l’Austria-Ungheria, la Russia, l’Im-pero ottomano, il Giappone. Vittoria, regina del Regno
Unito, nel 1876-77 viene proclamata imperatrice dell’India; mentre la Francia ha appena smesso di essere un
Impero con la caduta di Napoleone III nel 1870, sebbene una parte almeno della sua opinione pubblica non
cessi di coltivare sogni di rivincita neoimperiale in Europa e fuori dell’Europa. Oltre a questo aspetto formale
– nient’affatto trascurabile, perché indizio palese di una mentalità corrente – il termine indica comunque il
grande salto di qualità che appartiene all’espansione coloniale di fine secolo. Certamente esso è favorito dal
grandissimo divario tecnologico che si è creato dopo le due rivoluzioni industriali tra l’Occidente e il resto
del mondo. La storiografia tradizionale (Hobson, L’imperialismo; Lenin, L’imperialismo, fase suprema del
capitalismo) insiste sulla collocazione del fenomeno imperialista all’interno del contesto di una generale crisi
industriale, ovvero della grande depressione del 1873.
La grande depressione
Dal 1873 al 1896 le economie dei paesi industriali entrarono in una depressione economica (Grande de-
pressione) di portata ben più ampia rispetto alle crisi cicliche che si erano manifestate nel corso del XIX
secolo. Si trattò di un lungo periodo di costante ribasso dei prezzi dovuto all’eccesso di produzione, con
conseguente riduzione dei margini di profitto, disoccupazione e riduzione generale dei redditi .Le cause di un
evento di tale portata non possono essere che molteplici: a innescare il fenomeno fu il crollo dei titoli
borsistici di alcune società austriache e tedesche. Tutto ebbe origine dalla sconfitta della Francia nella
guerra con la Prussia e dalla pace siglata nel maggio del 1871, che prevedeva il pagamento da parte francese
di un risarcimento di cinque miliardi di franchi-oro per ottenere il ritiro delle truppe di occupazione tedesche.
La Francia pagò il debito in tempi molto più rapidi del previsto facendo affluire prima in Germania e poi nel
circuito finanziario europeo una grande quantità di capitali che furono investiti nelle ferrovie, nell’edilizia,
nella costruzione di impianti siderurgici e in altri settori. A questo punto nelle borse europee entrò in gioco la
speculazione: nella convinzione che gli investimenti effettuati potessero portare alla realizzazione di ingenti
profitti si scatenò una corsa all’acquisto che fece salire enormemente il prezzo delle azioni. Quando ci si rese
conto che i titoli azionari erano enormemente sopravvalutati, la gente cominciò a vendere facendo crollare il
loro prezzo. Il successivo settembre il fallimento di una tra le più importanti banche americane - la Jay
Cooke & Company - causò una ulteriore ondata di panico, a cui seguirono fallimenti a catena di banche e
imprese rimaste senza finanziamenti. La crisi statunitense nel giro di qualche tempo si riaffacciò in Europa,
colpendo paesi importanti come Francia, Germania e Gran Bretagna.
Il primo effetto della crisi fu uno sbilanciamento del rapporto tra domanda e offerta, sbilanciamento dovuto
anche alle innovazioni apportate ai cicli produttivi, divenuti più efficienti grazie alle innovazioni
tecnologiche nonché grazie alla parcellizzazione del lavoro.
Nel settore agrario, la crisi è acuita dalla concorrenza statunitense (vedi libro pagina 18).

Tra i maggiori sostenitori delle origini economiche del fenomeno dell’imperialismo troviamo Hobson, di
posizione socialdemocratica, nonché Rosa Luxemburg e Lenin, le cui spiegazioni dell’imperialismo possono
essere considerata marxiste poiché affondano le loro radici nelle contraddizioni strutturali del capitalismo
individuate da Marx nel Capitale.
Teorie socialdemocratiche
Hobson è un economista britannico che, analogamente alla storiografia marxista, individua nell'economia le
radici dell'imperialismo. Per Hobson la sovrapproduzione capitalistica è imputabile alla domanda
insufficiente del mercato interno, a sua volta legata ai bassi salari dei lavoratori. Secondo Hobson, sarebbe
stato tale meccanismo a spingere gli stati a cercare all’esterno sbocchi per le merci e i capitali. A differenza
dai marxisti, Hobson ritiene il superamento dell’Imperialismo non implichi un superamento del capitalismo.
Secondo l’economista, l’imperialismo può possa essere superato attraverso una serie di riforme economico-
sociali finalizzate all’espansione di un mercato interno, espansione che sostituirà dunque la ricerca di mercati
di sbocco per la produzione eccedente.
Rosa Luxemburg
La spiegazione dell'I. formulata da Rosa Luxemburg si fonda sull'inserimento nell'ambito dell'impostazione
marxista della teoria del sottoconsumo elaborata in precedenza al di fuori di tale orientamento teorico ad
opera soprattutto di Hobson. Si può riassumere la teoria del sottoconsumo nella versione della Luxemburg
dicendo che, poiché vi è una continua tendenza per la classe lavoratrice ad avere poco da spendere, i
capitalisti non possono vendere tutto il loro prodotto all'interno. Si sviluppa a questo punto una lotta per il
mercato internazionale che tende di tempo in tempo a culminare in una guerra. Il sistema capitalista ha cioè
un funzionamento imperfetto. Da un lato esiste il proletariato che aumenta continuamente di numero ma che
viene tenuto ad un livello di vita miserevole. Dall'altro esiste una ristretta cerchia di capitalisti che organizza
la produzione e si appropria del plusvalore generato dagli operai. Questo modo di produrre si inceppa se non
vi è nessuno in grado di acquistare tutta la produzione corrente. Poiché i lavoratori sono molto poveri ed i
capitalisti sono un numero limitato occorre una « terza persona », un compratore esterno, che consenta al
sistema di funzionare assorbendo il prodotto nazionale. Nei primi stadi dello sviluppo capitalistico questa
terza persona può essere fornita dall'economia rurale che ancora vive a fianco di quella capitalistica. Ma in
uno stadio successivo questa non basta più. I mercati interni sono ormai insufficienti per i capitalisti che
cercano uno sbocco alla loro produzione. La conquista delle colonie è il metodo più semplice per procurarsi i
mercati. Ci deve essere un mondo non capitalistico a fianco di quello capitalistico, affinché quest'ultimo
possa funzionare. Poiché le aree da sfruttare sono un numero limitato prima o poi il conflitto diventa
inevitabile, come inevitabile sarà la catastrofe finale del sistema capitalista quando anche i mercati esteri non
basteranno più.
Teoria leninista dell’imperialismo
L'ipotesi centrale della teoria di Lenin non poggia sull'impoverimento del proletariato e sulla sua incapacità
di consumare, ma riguarda invece la caduta tendenziale del saggio di profitto, ovvero del rapporto tra il
plusvalore prodotto ed il capitale investito. Nella sua opera “Il Capitale” Marx spiega come il capitale
investito si divida in costante e variabile. Il capitale variabile è quello investito negli operai, il cui lavoro in
eccedenza non salariato produce plusvalore; il capitale costante è invece quello investito nei macchinari. La
caduta tendenziale del saggio di profitto, nella teoria marxista, dipende dalla necessità da parte dei produttori
di investire grossi capitali in macchinari sempre più perfezionati per battere la concorrenza. Tuttavia, questa
risponde alla sfida, e ben presto le macchine in cui è stato investito denaro saranno obsolete. Sarà necessario
pertanto necessario il loro rinnovo per far fronte alla concorrenza. Questa lotta senza tregua sottrae profitti ai
capitalisti e qualche volta può portare ad un aumento temporaneo del tasso di salario, poiché i capitalisti sono
disposti a pagare di più i lavoratori per accaparrarseli. Lenin mette in evidenza come la crescente ed
inevitabile meccanizzazione della produzione provoca la concentrazione di questa nelle mani di pochi. A
mano a mano che il capitalismo si sviluppa si passa dalla forma del mercato concorrenziale a quella
monopolistica. Pochi individui, al limite uno solo, controllano dei complessi enormi con migliaia di
lavoratori. È questa la fase più avanzata del capitalismo. Naturalmente, con il crescere ed il rinforzarsi dei
monopoli si sviluppa pure la tendenza al controllo del governo dello Stato da parte del potere economico. La
politica nazionale non è altro che il risultato di questa influenza. In questa fase dello sviluppo capitalistico,
data l'organizzazione della produzione su scala mondiale, l'attività dei monopoli non può essere limitata
entro i confini dello Stato. Il « capitale finanziario » cerca di assicurarsi il controllo delle materie prime e dei
mercati su scala mondiale.
In prima istanza la spartizione dei diversi mercati venne delineata in modo 'informale' attraverso accordi per
zone, ma in ultimo questi approcci fallirono perché i capitalisti di un paese non si fidavano della buonafede
di quelli di un altro. A questo punto si rivolsero ai rispettivi Stati affinché con l'azione politica garantissero la
sfera degli interessi economici già esistenti in modo informale, e ciò portò alla formale divisione del mondo
in colonie prima del 1914, nonché alla revisione di tale assetto cui mirò successivamente ciascun belligerante
della prima guerra mondiale
Applicazione attuale della teoria leninista
La dottrina leninista dell'I. è la più diffusa fra i sostenitori del marxismo. Le ragioni per cui essa è stata
generalmente preferita a quella della Luxemburg si possono riassumere in sostanza
nelle seguenti tre considerazioni. In primo luogo la teoria leninista, non essendo fondata sull'ipotesi
dell'impoverimento crescente del proletariato, è parsa essere più aderente alla realtà storica, che già ai tempi
di Lenin, ma soprattutto negli anni successivi, ha sempre più inequivocabilmente contraddetto tale ipotesi. In
secondo luogo Lenin ha saputo criticare in maniera convincente la Luxemburg in relazione al fatto che gli
interessi imperialistici non si rivolgono solo ai paesi sottosviluppati, ma anche ad aree altamente
capitalistiche. Le guerre tra Francia e Germania per la conquista dell'Alsazia-Lorena ne sono un chiaro
esempio. In terzo luogo l'analisi di Lenin, pur essendo stata formulata come quella della Luxemburg in
un'epoca in cui la forma più usuale dell'I. era il colonialismo, essendo più elastica, ha una assai maggiore
capacità di accogliere nel proprio ambito esplicativo fenomeni imperialistici diversi da quelli dell'espansione
coloniale e delle guerre coloniali o fra potenze imperialistiche prodotte dall'espansione coloniale stessa. In
particolare tale analisi ha potuto con alcune integrazioni essere estesa al fenomeno del neocolonialismo,
tipico del periodo successivo alla seconda guerra mondiale, alle situazioni cioè in cui i paesi sfruttati hanno
un governo almeno formalmente indipendente dagli Stati sfruttatori.

Dobbiamo ormai tentare di sintetizzare quanto sin qui abbiamo detto intorno
all'imperialismo e di concludere. L'imperialismo sorse dall'evoluzione e in diretta
continuazione delle qualità fondamentali del capitalismo in generale. Ma il capitalismo
divenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato ed assai alto grado del suo
sviluppo, allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo cominciarono a mutarsi
nel loro opposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono i sintomi del
trapasso ad un più elevato ordinamento economico e sociale.
In questo processo vi è di fondamentale, nei rapporti economici, la sostituzione dei
monopoli capitalistici alla libera concorrenza. La libera concorrenza è l'elemento
essenziale del capitalismo e della produzione mercantile in generale; il monopolio è il
diretto contrapposto della libera concorrenza. Ma fu proprio quest'ultima che cominciò
sotto i nostri occhi a trasformarsi in monopolio creando la grande produzione,
eliminando la piccola industria, sostituendo alle grandi fabbriche altre ancor più
grandi, spingendo tanto oltre la concentrazione della produzione e del capitale che da
essa sorgeva e sorge il monopolio, cioè i cartelli, [...], i trust, fusi con il capitale di un
piccolo gruppo di una decina di banche che manovrano miliardi. Nello stesso tempo i
monopoli, sorgendo dalla libera concorrenza, non la eliminano, ma esistono con essa e
al disopra di essa, originando così una serie di aspre e violente contraddizioni, attriti e
conflitti. Il sistema dei monopoli è il passaggio dal capitalismo ad un ordinamento
superiore. Se si volesse dare la più concisa definizione possibile dell'imperialismo, si
dovrebbe dire che l'imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo. Tale
definizione conterrebbe l'essenziale, giacché da un lato il capitale finanziario è il
capitale bancario delle poche grandi banche monopolistiche, fuso col capitale delle
unioni monopolistiche industriali, e d'altro lato la ripartizione del mondo significa
passaggio dalla politica coloniale, estendentesi senza ostacoli ai territori non ancor
dominati da nessuna potenza capitalistica, alla politica coloniale del possesso
monopolistico della superficie terrestre definitivamente ripartita.
V. I. Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1964,
pp. 160-161

Sebbene le osservazioni formulate da queste prime opere teoriche siano ancor oggi molto utili per descrivere
correttamente alcune delle più importanti vicende coloniali del primo Novecento (fu di natura
eminentemente economica, per esempio, l’iniziativa imperialistica da parte della Gran Bretagna in Egitto.
(riferimento al documento di Laterza)); la storiografia più recente contesta la conclusione secondo la quale la
politica imperialista sia riconducibile eminentemente a cause di natura economica. Difatti, viene sottolineato
come il reperimento di materie prime non richiedesse necessariamente il controllo politico di un territorio, il
fatto che le colonie avevano popolazioni troppo scarse o povere per rappresentare un mercato allettante.
America Latina ed Egitto sono casi nei quali le ragioni economiche dell’imperialismo appaiono piuttosto
evidenti. Tuttavia l’espansione coloniale di fine Ottocento-inizio Nove-cento riguarda anche zone
economicamente non molto appetibili, come l’Africa settentrio-nale o diverse aree dell’Africa centrale, o
l’Afghanistan, o la Mongolia. Si tratta di un aspetto che induce a considerare, oltre all’interesse economico,
altri due fattori che danno ragione dell’espansionismo occidentale in tutti i suoi elementi:
a. in primo luogo possono esserci motivazioni di carattere strategico, che spingono a voler occupare anche
zone economicamente prive di rilievo (per esempio, i britannici vorrebbero controllare l’Afghanistan per
proteggere l’India dalla possibile minaccia dell’espansionismo russo).
b. in secondo luogo, e in termini più generali, sia la conquista coloniale di terre economicamente poco
appetibili sia l’espansione in zone economicamente interessanti devono essere spiegate considerando le
ragioni di politica interna che muovono i governanti. A seconda delle dinamiche nazionali, un governo può
aver interesse a enfatizzare la propria forza, autorità ed efficienza, offrendo alla propria opinione pubblica i
risultati di una buona politica coloniale, poiché da ciò ci si può aspettare un forte consolidamento immediato
del prestigio del governo e, sul più lungo periodo, un rafforzamento della stessa coesione nazionale.
Imperialismo come espressione di alcune tipiche strutture sociopolitiche dei paesi che esercitano il
dominio
Il più noto esponente dell'interpretazione sociopolitica dell'imperialismo è stato l'economista e sociologo
viennese Joseph A. Schumpeter che rielaborò alcune idee del suo maestro Max Weber. Nel 1919 egli
pubblicò un saggio che nasce da una riflessione sulla prima guerra mondiale e sulle argomentazioni marxiste
di Rudolf Hilferding, Rosa Luxemburg e Nikolaj Lenin. Schumpeter sosteneva che alcuni tipi di sistemi
sociopolitici, e in modo particolare i gruppi in essi dominanti, sono imperialisti per natura, poiché essi
perderebbero la loro ragion d'essere e probabilmente il loro potere, qualora agissero in modo diverso. Più
precisamente l'imperialismo è sempre stato una caratteristica delle monarchie assolute e delle aristocrazie
militariste, in quanto per le une come per le altre prestigio, ricchezza e potenza derivano da continue guerre e
conquiste. Inoltre conquista ed espansione territoriale, diceva Schumpeter (v., 1919; tr. it., p. 69), erano
"tendenze 'prive di oggetto' all'espansione violenta, ignara dei limiti utilitaristicamente definiti - cioè
inclinazioni arazionali e irrazionali, puramente istintive, alla guerra e alla conquista". Tali tendenze erano
evidenti in tutti gli imperi del mondo antico, nel Medioevo e nella prima epoca moderna, e hanno
semplicemente continuato ad agire anche nel XX secolo. Furono esse le vere ragioni per
cui Germania, Austria e Russia ebbero una forte tendenza espansionistica alla fine del XIX secolo ed
entrarono in guerra nel 1914, mentre invece Stati borghesi come Gran Bretagna e Francia non erano
intrinsecamente imperialisti. Essi attuarono una politica imperialistica solo in risposta all'imperialismo altrui.
Schumpeter può pertanto giungere alla conclusione che « l'I. è un atavismo», e confidare quindi in un suo
progressivo superamento in conseguenza del pieno sviluppo del capitalismo. Perciò l'imperialismo sarebbe
scomparso se, e solo se, la democrazia egualitaria si fosse sostituita ovunque all'irriducibile militarismo delle
monarchie e delle aristocrazie.
Questa spiegazione 'atavistica' del moderno imperialismo è niente altro che un approccio sociopsicologico al
fenomeno, la cui debolezza risulta evidente se si considera il caso della Francia dopo il 1871. Quantunque
borghese, democratica, antimonarchica essa fu, cionondimeno, uno degli Stati più aggressivi ed
espansionisti.

Potrebbero piacerti anche