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SOCIOLOGIA DELLO SPORT

Introduzione
Ma che cos’è la Sociologia? E a che serve la Sociologia dello sport e dell’attività fisica? Una risposta
argomentata potrà venire al termine del prossimo capitolo; nel frattempo si utilizzerà una definizione
provvisoria. Se la Sociologia è la scienza che ha per oggetto le relazioni sociali, e se queste emergono nelle
interazioni tra gli individui e poi si strutturano fino a divenire istituzioni e sistemi, allora l’approccio
relazionale può adeguatamente spiegare i fatti sociali nella condizione post-moderna. Se ciò è vero, ne
discende che adottare la sociologia relazionale arricchisce la capacità di comprendere i fenomeni sociali. Ad
esempio lo sport e l’attività fisica appaiono pratiche motorie che vengono svolte in ambienti sociali specifici
seguendo regole note e presupponendo un minimo di conoscenze tecniche, e avendo come proprio fine la
vittoria nel competere o anche il piacere del gioco e del movimento. Tali pratiche motorie (è questo il
contributo specifico dato dalla Sociologia relazionale) vanno analizzate come il prodotto emergente di
relazioni sociali. Questa prima definizione aiuterà il lettore ad orientarsi tra i numerosi approcci (almeno
cinque) che hanno guidato i molti studi e ricerche sulle pratiche motorie, apparse in Italia e all’estero. Al
termine il prossimo capitolo offrirà una definizione più precisa ed articolata, in quanto distinguerà fra
quattro tipi di pratiche motorie: sport professionistico, sport amatoriale, attività fisica organizzata e attività
fisica libera. La tipologia si offre come uno strumento interpretativo della ricca fenomenologia sociale che
questo campo alimenta e produce continuamente, così dimostrandosi uno dei più creativi della società
contemporanea. A controprova di ciò, i quattro capitoli seguenti offriranno analisi e approfondimenti
ulteriori. L’ordine dell’esposizione non è casuale: infatti i quattro capitoli seguono la prospettiva di analisi
relazionale di qualsiasi fenomeno sociale, nota come schema AGIL (prospettiva di analisi quadrifunzionale di
ogni fenomeno sociale, proposto da Talcott Parsons nel 1961, e quindi rielaborata da Richard Munch nel
1987 e da Donati nel 1993). Definito “la bussola dell’analisi sociologica”, AGIL infatti aiuta a vedere le
quattro funzioni che ogni fenomeno sociale svolge, ovvero:

(A) Adaptation: l’adattamento all’ambiente;

(G) Goal attainment: il perseguimento degli scopi, ovvero i fini dell’agire sociale;

(I) Integration: l’integrazione nella comunità;

(L) Latency: il mantenimento dei valori su cui ogni società si fonda.

Dal momento però che lo sport e l’attività fisica sono innanzitutto fenomeni socio-culturali, questo testo
segue lo schema AGIL nell’ordine della scala valoriale, ovvero lo legge come LIGA; quindi, procedendo nella
direzione inversa dello schema, le funzioni note si disporranno così: Latency, Integration, Goal attainment e
Adaptation.
1. Teorie e metodi
Proprio per la sua importanza, sono numerosi gli scienziati sociali che studiano lo sport e l’attività fisica. Essi
fanno ricerche per capire il peso delle pratiche motorie entro le culture e le società contemporanee,
collocandole ad uno o più dei seguenti tre livelli di analisi:

- A livello micro-sociologico (lo sport per le persone) -> cercano di capire il significato delle pratiche
motorie per le persone, distinguendo i diversi tipi di attività e le differenti motivazioni;
- A livello meso-sociologico (lo sport e le istituzioni sociali) -> si studiano i gruppi sportivi, associazioni
ed organizzazioni come ambienti che vengono costruiti socialmente intorno alle pratiche motorie e
in cui si sviluppano certi tipi di relazioni sociali anziché altri;
- A livello macro-sociologico (formazioni sociali globali: media, mercato, politica…) -> si interrogano
sul contributo che lo sport può dare al processo di civilizzazione e, più in generale, al cambiamento
sociale e culturale contemporaneo.

La Sociologia aiuta a svolgere questo tipo di ricerche perché è lo studio della vita in società, includendo in
essa tutte le forme dell’interazione sociale e le relazioni tra persone e gruppi. La Sociologia offre le risorse
cognitive, ad esempio spiegazioni utili per elaborare politiche sociali in questo campo, atte ad operare
trasformazioni positive del contesto sociale e a diffondere lo sport per tutti e l’attività fisica per la salute
della popolazione. Per poter raggiungere tali obiettivi conoscitivi occorre però acquisire competenze
specifiche di tipo epistemologico e metodologico, quali:

- Conoscere la logica della ricerca scientifica;


- Sapersi orientare fra le teorie sociologiche, conoscendone gli assunti e sapendo come si formulano
le ipotesi di ricerca;
- Conoscere quali metodi e tecniche di ricerca sociale sono le più adatte per raccogliere dati, in grado
di accertare o meno la valenza delle ipotesi formulate e, quindi, poter accertare la consistenza della
teoria, da cui le ipotesi stesse sono state dedotte.

In questo capitolo si cercherà di acquisire questi tre tipi di competenze. Nel primo paragrafo si offrirà un
panorama delle principali cinque teorie, impiegate dai sociologi per spiegare fenomeni e processi nel
campo dello sport e dell’attività fisica. Seguirà un altrettanto sintetica esposizione dei metodi e tecniche di
ricerca più frequentemente impiegate per studiare lo sport e l’attività fisica e, infine, si offriranno esempi,
tratti da tale campo, al fine di illustrare il circolo esistente fra teoria, ipotesi e dati.

1. Le teorie sociologiche

Lo Struttural-funzionalismo si basa sull’assunto che la società sia un sistema organizzato di parti tra loro in
relazione, tenute insieme da valori condivisi e da istituzioni, che contribuiscono a mantenere il tutto in
equilibrio dinamico. Famiglia, scuola ed università, economia, politica, religione, media, intrattenimento e
sport sono alcune delle principali istituzioni della società; ciascuna di queste svolge una o più funzioni
sociali e si basa su un nucleo di valori, seguendo i quali le persone potranno operare in maniera più fluida
ed efficiente. Già da questa impostazione diviene chiaro il nome di questa teoria: il suo oggetto sono sia i
valori (essi sono la struttura della società) sia le funzioni sociali (ciò che un’istituzione fa per la società e le
persone). Per l’approccio struttural-funzionalista i sistemi sociali operano con efficienza se i quattro
imperativi funzionali fondamentali vengono svolti efficientemente; in particolare:
- I valori comuni sono riprodotti nella cultura e interiorizzati dalle persone, formando le identità
personali e collettive (L);
- Tramite la socializzazione le norme e le regole della comunità sono conosciute e rispettate, e si
formano legami personali e di gruppo positivi, ovvero tali da assicurare l’ordine sociale e la
cooperazione (I);
- Gli obiettivi socialmente approvati sono chiari e le persone sono motivate a raggiungerli
impiegando mezzi legittimi (G);
- Le risorse disponibili sono utilizzate con efficienza e l’intera società si organizza per affrontare
minacce e rischi provenienti dall’ambiente naturale o da quello sociale (A).
I sociologi struttural-funzionalisti muovono dall’assunto che, qualora questi quattro imperativi funzionali
vengano soddisfatti, l’ordine sociale sarà mantenuto, la società si svilupperà e ognuno ne trarrà benefici.

Anche lo sport viene pertanto visto da essi in questa prospettiva.

Lo sport, in questo ambito, è ritenuto un’istituzione che svolge una funzione integrativa e socialmente
coesiva in riferimento alla crescita dei più giovani o all’inserimento di persone a rischio o svantaggiate.
Inoltre, tale teoria favorisce la scelta di soluzioni atte ad ottimizzare la dinamica di gruppi e delle
associazioni sportive per ottenere la massima prestazione e il massimo impiego delle risorse disponibili.
Pertanto questa teoria viene impiegata più frequentemente da chi è un allenatore o un gestore di società
sportive, ovvero da professionisti che mirano ad ottenere la massima prestazione possibile da parte della
squadra o degli impianti affidati. La teoria struttural-funzionalista vede nello sport un mezzo per il
mantenimento e la riproduzione di quei valori che conferiscono stabilità ed ordine alla vita sociale
(competitività, capacità di pianificare, formazione del carattere, rispetto delle regole, repressione della
devianza, legittimazione delle politiche sociali). Tuttavia, tale teoria presenta alcune debolezze. In primo
luogo è discutibile il presupposto dello struttural-funzionalismo, ovvero che lo sport sia una istituzione
relativamente stabile e che le funzioni da esse svolte assicurino l’ordine sociale. Un tale assunto trascura la
diversità fra gli sport, il fatto che alcuni favoriscono più frequentemente gli interessi dei potenti e dei ricchi
e assai meno gli strati sociali inferiori, e la possibilità che gli sport riproducano quegli squilibri sociali che
attualmente portano al malfunzionamento della società. In secondo luogo la teoria struttural-funzionalista
conduce a sovrastimare gli effetti positivi che lo sport e l’attività fisica hanno sulla società, e a sottostimare
invece quelli negativi. Ad esempio essa non aiuta a vedere che moltissimi (es. donne) sono svantaggiati
quando gli sport sono organizzati in modo tale da legittimare ed incoraggiare l’uso della forza fisica per
dominare l’avversario. Infine, la teoria struttural-funzionalista si basa sull’assunto che i bisogni di tutti i
gruppi entro la società siano i medesimi. Ciò nasconde l’esistenza di differenze materiali e di conflitti
d’interesse, sia tra i gruppi sociali, sia tra le persone, tanto che sono frequenti i casi in cui lo sport
avvantaggi alcuni, a svantaggio di molti altri.

La teoria del conflitto si caratterizza per l’assunto che le relazioni sociali sono regolate dai rapporti di forza
esistenti fra gli individui e fra i gruppi; tali rapporti si basano sulla proprietà delle risorse disponibili nella
sfera della produzione e, quindi, implicano conflitti per la loro redistribuzione. Nella formazione sociale
presente, la società capitalistica, i rapporti di forza sono regolati dal denaro e gli assetti sociali sono
condizionati dal potere economico. I teorici del conflitto hanno sviluppato le proprie ricerche con l’obiettivo
di denunciare le conseguenze negative che derivano dalle ineguaglianze presenti in tutte le sfere della vita
sociale. Lo scopo primario di tali ricerche è il medesimo dei sociologi struttural-funzionalisti, quello di
sviluppare una teoria generale capace di spiegare la società contemporanea e, più in generale, l’evoluzione
sociale; i mezzi invece sono molto diversi, perché i teorici del conflitto sostengono che un mutamento
radicale potrà avvenire solo quando i lavoratori prenderanno il controllo dei mezzi di produzione, quindi
auspicano e promuovono la rivoluzione dell’ordine esistente. In questo quadro, lo sport e l’attività fisica
vengono considerati degli espedienti per distrarre i lavoratori dal fine politico proprio della loro classe, la
rivoluzione. Gli sport, specie quelli più spettacolari, non solo sono passatempi alienanti, ma pure
perpetuano l’economia capitalistica e ne riproducono i valori e gli stili di vita basati sulla competizione, la
prestazione e il consumo. In pratica lo sport diviene un “oppio dei popoli” perché addormenta la coscienza
e distrae dallo sfruttamento economico subito. Inoltre, lo sport riproduce la società capitalistica e
contribuisce all’affermazione diffusa delle idee delle classi dominanti. Solo la rivoluzione dei rapporti sociali
esistenti potrà liberare la massa da questa ideologia e così restituire lo sport alla sua vera natura di gioco
per il tempo libero dei lavoratori. La teoria del conflitto è spesso impiegata dai sociologi per studiare i nessi
esistenti tra lo sport e gli squilibri di potere e di privilegio esistenti nella società contemporanea. L’obiettivo
principale delle loro ricerche è quello di denunciare le modalità mediante le quali lo sport e l’attività fisica
perpetuano le diseguaglianze sociali e producono conseguenze negativa nella vita delle persone; ciò al fine
di riscattare le pratiche motorie dall’uso ideologico cui sono asservite nella società capitalistica, e quindi
trasformarle in una sorgente di energia creativa e di benessere fisico, contribuendo pure al successo della
rivoluzione sociale. Si vuole riaffermare il carattere ludico dello sport scoraggiandone gli aspetti spettacolari
miranti ad ottenere profitto. La teoria del conflitto, dopo aver avuto una larga diffusione in Europa negli
anni ’70 ed ’80, è caduta in discredito. La gente, specie nei Paesi occidentali, si dimostra scettica di fronte
all’affermazione che possano avvenire radicali cambiamenti nell’organizzazione degli sport e, più in genere,
nella struttura economica della società contemporanea: il capitalismo, oggi, appare l’unica forma di
produzione propria della formazione sociale moderna. Molti intellettuali hanno quindi provveduto a
riformulare la teoria del conflitto, impiegando temi e approcci emersi nel pensiero contemporaneo; tra le
numerose proposte, qui si ricordano solo quelle più rilevanti.
- Teoria critica -> sport come prodotto della società capitalistica e consumistica. Prende origine dai
fondatori della Scuola di Francoforte (Horkheiemer, Adorno) che rielaborarono il pensiero marxista
alla luce della psicanalisi di Freud;
- Cultural studies -> sport come riproduttore delle idee della classe egemonica per conquistare e
mantenere il potere. È stato ripreso il concetto di egemonia di Gramsci. Egli ha spiegato
l’insuccesso della rivoluzione nei Paesi più industrialmente avanzati con il controllo culturale e la
persuasione, esercitata dalla borghesia sulla classe proletaria. Da questa analisi Gramsci trasse la
conclusione che quest’ultima, non ancora arrivata al potere, può però a sua volta condurre una
lotta culturale, affermando la propria ideologia e quindi, tramite l’egemonia così ottenuta,
conquistare il potere. Studiosi come Hall, Morley e Hughson hanno applicato questa riformulazione
nel campo dei mass media, dello sport e dell’attività fisica;
- Teoria dell’attore sociale -> sport come campo di competizione dove si affrontano attori con
interessi specifici legati alla posizione occupata, non solo di carattere economico ma anche
simbolico-culturale. È un terzo sviluppo dell’approccio conflittuale, avvenuto in ambito francese
grazie all’opera di Touraine e Bordieu. Solo il secondo ha però dedicato alcuni scritti allo sport;
fenomeno che egli propone come un campo di competizione dove si affrontano attori che hanno
interessi specifici legati alla posizione da loro occupata nel campo stesso. Al contempo Bordieu
rifiuta il determinismo economico proprio della teoria del conflitto, il quale collega gli attori
direttamente agli interessi di produzione; il sociologo francese ricorda che lo sport ha una propria
autonomia e quindi ha una propria storia evolutiva. Inoltre, introduce il concetto di “usi sociali del
corpo” e sottolinea la “natura simbolica delle pratiche sportive”;
- Teoria del capitale sociale -> sport come risorsa legata al possesso di una rete stabile di relazioni più
o meno istituzionalizzate di conoscenza e di riconoscenza reciproca. Formulata dal politologo
Putnam e dal sociologo Coleman, riprende la definizione data da Bordieu: il capitale sociale è
l’insieme delle risorse attuali e potenziali legate al possesso si una rete stabile di relazioni più o
meno istituzionalizzate di conoscenza e di riconoscenza reciproca. Tale rete di relazioni personali
può essere direttamente mobilitata da un individuo, al fine di perseguire i propri fini e migliorare la
propria posizione; però la forza di tale rete dipende dallo strato sociale di appartenenza, quindi
varia molto in dipendenza pure dell’istruzione ricevuta.

Sono quattro le principali debolezze di questa teoria:

- Mancano criteri per distinguere l’impiego dello sport a fini ideologici, dall’uso emancipativo e di
resistenza;
- È difficile distinguere ciò che è innovativo e liberante, da ciò che, al contrario, è deviante o,
addirittura, criminale;
- Manca l’analisi delle occasioni in cui lo sport è attività gratuita e non attività strumentale e rivolta al
profitto;
- L’assunto materialistico della teoria del conflitto porta a sottovalutare gli aspetti identitari, simbolici
e culturali di cui lo sport si fa invece oggi sempre più spesso portatore.

La Teoria interazionalista assume che le azioni umane sono guidate da significati e simboli, costruiti dalle
persone nelle interazioni sociali. Gli esseri umani non si adattano passivamente al mondo circostante; al
contrario essi attribuiscono ad oggetti e ad eventi un senso che oltrepassa i fatti, e che consente loro di
inserirli in una storia, personale e sociale. Per i sociologi che adottano tale teoria, l’intera realtà è il
prodotto di un’attività di costruzione sociale: l’interazione continua tra le persone conferisce alla realtà
quell’apparenza di solidità e regolarità, che tutti le attribuiscono; ma, in realtà, l’ordine sociale si regge su
un precario equilibrio ed è soggetto a continua negoziazione. In questo processo, le identità (“il senso di chi
siamo e di come siamo inseriti nel mondo sociale”) personali e collettive sono di continuo costruite e
ricostruite dalle persone, e ciò vale pure per lo sport e l’attività fisica. Le identità non sono definite una
volta per tutte, ma cambiano in dipendenza dalle relazioni sociali, dall’incontro con nuove persone e
situazioni. Le ricerche svolte dagli interazionisti nel campo dello sport e dell’attività fisica hanno cercato di
comprendere come la gente definisca le pratiche motorie e come essa si collochi attivamente negli
ambienti sportivi, trasformandoli. Di solito i ricercatori impiegano tecniche qualitative, ovvero fanno
osservazioni o realizzano interviste con atleti che appartengono a gruppi ben caratterizzati o a culture
sportive chiaramente riconoscibili. Il fine di tali ricerche è quello di sviluppare una comprensione in
profondità degli ambienti sportivi a partire dal loro interno, ovvero dalla gente che li costruisce e li
ricostruisce continuamente. Diversamente dai sociologi struttural-funzionalisti e dai teorici del conflitto, gli
interazionisti adottano un approccio “dal basso all’alto”, ovvero osservano i processi sociali a partire dal
livello “micro”. L’interazionismo è un approccio spesso usato per studiare l’esperienza sportiva, le relazioni
tra l’atleta e i membri della propria squadra o gli avversari, i modi in cui gli atleti definiscono e danno un
significato alla pratica sportiva o all’attività fisica. L’approccio interazionista soffre di due principali
debolezze. In primo luogo esso attira l’attenzione quasi esclusivamente sulle definizioni della realtà date
dagli attori sportivi, senza spiegare che a loro volta tali definizioni sono influenzate dal gruppo sociale, dalle
organizzazioni sportive e, più ampiamente ancora, dalla cultura dell’intera società. In tal modo trascurano
di osservano le dinamiche di potere e le diseguaglianze sociali, che influiscono pure sullo sport e sull’attività
fisica. In secondo luogo, soffermandosi sulla esperienza dei singoli atleti, sottovaluta gli aspetti legati agli
ambienti sportivi, all’organizzazione dello sport e dell’attività fisica.

Anche la Teoria figurazionale muove dall’osservazione che la vita sociale consiste di reti di persone tra loro
interdipendenti; ma, a differenza dell’interazionismo, essa invita a concentrare l’attenzione sui processi
storico-sociali che portano all’emergere di apparati, capaci di connettere tra loro in modo stabile individui e
gruppi; tali reti o apparati vengono chiamati “figurazioni”. Quindi chi vuole studiare la società tramite
questo approccio deve concentrarsi sulle figurazioni sociali che si sono formate nel passato o che emergono
nel presente, perché esse connettono tra loro le persone. L’approccio figurazionale pone attenzione ai
processi di lungo termine, attraverso i quali le azioni relativamente autonome di molti individui e gruppi
sociali si influenzano reciprocamente. Lo sport ne è un esempio. Esso ha potuto emergere solo quando la
società inglese, nella prima metà del ‘700 ha sviluppato forme di regolazione pacifica delle lotte sociali ed
inoltre ha iniziato un rapido sviluppo economico, tale da consentire ad ampi strati della popolazione, per la
prima volta nella storia, di disporre di tempo libero e di volerlo utilizzare per realizzarsi come persone. In
breve lo sport e l’attività fisica sono un esito imprevisto, ma importante, del processo di civilizzazione,
ovvero dello sforzo di controllare la violenza e volgere l’aggressività propria degli esseri umani verso esiti di
civiltà. L’approccio figurazionale oggi è importante per il riconoscimento del carattere globale di alcuni
sport, in quanto inquadrati all’interno di fenomeni più ampi di tipo sociale, economico e politico. Il
contributo che può dare la teoria figurazionale si colloca a livello dei grandi quadri storico-sociali, tentando
una spiegazione dei fenomeni dello sport e dell’attività fisica attraverso il ricorso a grandi trasformazioni
che investono la società. Da quanto si è appena detto ne deriva che la forza della teoria figurazionale
(adottare una prospettiva di lungo termine) è pure il suo limite: l’approccio pertanto non aiuta ad
approfondire la vita quotidiana dei praticanti le attività motorie. Inoltre, finora i sociologi figurazionali
hanno trascurato l’importante tema dell’identità, specie quelle di genere, nello sport e nell’attività fisica.
Il primo assunto della Teoria relazionale è che la società è fatta di relazioni che costituiscono una realtà
speciale. Questa realtà immateriale sta fra i soggetti agenti e dà forma ai loro rapporti, così orientando
scelte e comportamenti. Il secondo assunto è che occorre considerare simultaneamente tre aspetti:

- La relazione in quanto riferimento simbolico-intenzionale (refero);


- La relazione in quanto nesso o legame sociale (religo);
- La relazione in quanto fenomeno emergente.

Mentre i primi due aspetti emergono da un’osservazione puntuale o sincronica, il terzo aspetto emerge solo
entro una prospettiva temporale o diacronica. L’intrecciarsi delle relazioni nel tempo, infatti, porta
all’emergere o al declinare di strutture, istituzione, configurazioni sociali. Nel primo caso si parla di
morfogenesi, nel secondo di morfostasi, ovvero di un cambiamento senza mutamento o con esito
regressivo. Ciascuna delle teorie sopra esposte ha dato una propria definizione di sport; qui se ne propone
una, che si basa su due assunti. Il primo è che sia lo sport sia l’attività fisica siano modalità di un unico
insieme, le pratiche motorie, e che la teoria relazionale sia in grado, meglio di quanto sia possibile fare
assumendo altri approcci teorici, di dar conto alla specificità di ciascuna modalità, pur offrendo al tempo
stesso una visione d’insieme. Per far ciò si ricorderà quanto si è detto sopra, ovvero che la teoria relazionale
invita a guardare lo sport e l’attività fisica, così come ogni altro fenomeno sociale, quale prodotto di
relazioni sociali, che presentano sempre un duplice aspetto:

- Refero  ogni relazione comporta un orientamento di valore e quindi può essere osservata in
riferimento al sistema simbolico-valutativo proprio di una società. Nella formazione sociale attuale
le pratiche motorie vanno viste in termini di crescente complessità simbolica. Così la figura
distingue, nell’asse delle ordinate, tra posizioni semplici ovvero a “bassa complessità simbolica”, e
posizioni più articolate, ovvero ad “alta complessità”;
- Religo  ogni relazione è ancorata a legami sociali esistenti tra gli attori e i gruppi, cui questi ultimi
appartengono. Come la figura mostra seguendo l’asse delle ascisse, a seconda della forza o
debolezza di tali legami, le relazioni si caratterizzano per una “bassa” oppure per una “elevata
contingenza dell’azione e delle sue conseguenze”.

L’intersezione tra i due assi che strutturano il campo dello sport e dell’attività fisica genera una tipologia
delle pratiche motorie:

- Sport professionistico o di alta competizione  il quadrante in alto a sinistra raccoglie le pratiche


motorie che al tempo stesso presentano un grado elevato di complessità simbolica e di contingenza
dell’azione, quindi hanno le seguenti quattro caratteristiche:
1. si svolgono in base a un sistema di norme e regole, il quale stabilisce con precisione le modalità
di svolgimento delle pratiche stesse;
2. prevedono l’impiego di abilità o competenze, sia fisiche sia intellettuali, a livello professionistico,
ovvero apprese come attività principale dell’atleta e quindi sua fonte di sostentamento;
3. hanno un carattere competitivo, ovvero si concludono necessariamente con la vittoria o con la
sconfitta;
4. le competizioni assumono la modalità organizzativa “grande evento sportivo”, ovvero sono
manifestazioni rivolte a pubblici di ampiezza eccezionale e avvengono in sinergia con altre
istituzioni sociali, quali i media e le aziende sponsor.
- Sport amatoriale o per tutti  il quadrante in alto a destra raccoglie le pratiche motorie che, a
somiglianza del tipo precedente, presentano un elevato grado di complessità simbolica; però
queste si distinguono per un grado inferiore di contingenza dell’azione. Pertanto, mentre lo sport
amatoriale condivide con lo sport professionistico la prima e la terza caratteristica, esso si
differenzia per altre due caratteristiche:
1. l’impiego di abilità o competenze, sia fisiche sia intellettuali, a livello amatoriale, ovvero
costituisce un’attività secondaria ed auto-telica: si compete per ragioni ludiche, non professionali;
2. le competizioni assumono modalità popolari od amicali.
- Attività fisica organizzata o collettiva  il quadrante in basso a destra raccoglie le pratiche motorie
che presentano un grado basso sia di complessità simbolica, sia di contingenza dell’azione. Rispetto
ai primi due tipi di pratiche motorie vengono meno la terza e la quarta caratteristica, ovvero la
competitività con avversari e, quindi, non c’è gara e neppure una conclusione nel segno della
vittoria o della sconfitta. Sono però presenti le prime due caratteristiche, anche se rimodulate sul
piano individuale; cos’ l’attività fisica è svolta in luoghi attrezzati, come la palestra o la piscina, e si
svolge:
1. seguendo norme e regole, però adattate alla persona;
2. prevendo l’impiego di abilità o competenze, sia fisiche sia intellettuali, in misura peraltro
orientata a soddisfare le esigenze personali.
- Attività fisica libera o individuale  il quadrante in basso a sinistra raccoglie le pratiche motorie
che presentano un grado basso di complessità simbolica, però uno alto di contingenza dell’azione.
Anche in quest’ultimo tipo di pratiche vengono meno le caratteristiche di competitività e di
conclusione con una vittoria o una sconfitta, e neppure si richiede la cornice dell’evento sportivo.
Rispetto al terzo tipo viene meno pure l’organizzazione e così emerge l’espressività: l’attività fisica
viene svolta liberamente, più spesso all’aperto e in luoghi poco o per nulla attrezzati. Qui viene
ridotto al minimo l’insieme di norme e regole e la pratica motoria viene vissuta in libertà. Però
l’impiego di abilità o competenze, sia fisiche sia intellettuali, varia molto, a secondo che l’attività
fisica si svolga entro certi limiti di normalità, o al contrario si cerchi di andare oltre il limite con
pratiche free-style.
2. Sport e modernità. Valori, identità e contese (L)
Lo sport è una istituzione nata con e nella società moderna; quelli degli antichi erano solo giochi. Nel suo
libro “Dal rituale al record” Allen Guttmann ha sostenuto in maniera argomentata e convincente che le
competizioni sportive attuali su differenziano dai giochi degli antichi per almeno sette aspetti:

- Secolarizzazione;
- Uguaglianza tra gli atleti;
- Specializzazione delle discipline sportive;
- Professionalizzazione dei praticanti;
- Razionalizzazione;
- Democratizzazione;
- Quantificazione delle prestazioni sportive.

Queste caratteristiche evidenziano che lo sport è una istituzione moderna, in quanto tali aspetti, che erano
assenti o poco sviluppati nell’antichità, sono invece propri della formazione sociale contemporanea.
Pertanto è anacronistico sostenere che le Olimpiadi hanno ripreso nel 1896, dopo oltre 15 secoli di
sospensione, in quanto le Olimpiadi moderne non sono affatto la prosecuzione dei giochi degli antichi.

1. Globalizzazione dello sport

In questo primo paragrafo si ripercorreranno in breve le sei tappe della globalizzazione, nel quale lo sport è
divenuto un fenomeno sociale diffuso in tutti i paesi. In “Global sports” Joseph Maguire, uno dei più noti
membri della Scuola sociologica all’Università di Leicester intorno a Norbert Elias, ha ricostruito il processo
di sportivizzazione. Tale periodizzazione si rifà esplicitamente all’opera di Roland Robertson e consiste di
cinque fasi:

1. durante la fase germinale (dal secolo XV alla metà del secolo XVIII) nei principali Paesi europei esistono
solo giochi popolari, non certo degli sport. Si possono distinguere i giochi tradizionali germanici, da quelli
propri dei Paesi nordici e, infine, da quelli anglosassoni; solo da questi ultimi però ebbe inizio il processo di
sportivizzazione, e ciò perché la società inglese per prima raggiunse nel secolo XVIII una configurazione
sociale stabile e pacifica, che incoraggiò la pratica di comportamenti più civili. In questo Paese la
“parlamentarizzazione dei conflitti” si affermò come un modo più civile per risolvere i contrasti; tramite
l’educazione e le buone maniere si cercò di incanalare l’aggressività e la violenza in forme meno cruente. In
breve in Inghilterra, per la prima volta nella lunga storia evolutiva dell’umanità, si realizzarono le pre-
condizioni sociali e culturali favorevoli alla nascita degli sport;

2. questi emersero nella fase incipiente della sportivizzazione (dalla metà del secolo XVIII al 1870 circa). In
questo periodo la caccia alla volpe, da gioco riservato ai nobili, fu trasformata in uno sport per gentiluomini.
Analogamente venne disciplinata e regolamentata la boxe e il cricket, e i giochi popolari di palla, violenti e
confusi, si differenziarono nelle attuali discipline: calcio e rugby. Dall’Inghilterra il processo di
sportivizzazione si diffuse dapprima nei Paesi europei, in sintonia con la modernizzazione di tutta la vita
sociale prodotta dall’industrializzazione e dai processi che accompagnano l’affermarsi degli stati nazionali,
quali la burocratizzazione, la scolarizzazione, la militarizzazione, ecc. La razionalizzazione dei passatempi
popolari e la loro trasformazione in sport si avvalse pure in maniera sensibile dei miglioramenti avvenuti nei
trasporti all’interno e all’estero, così come dalla tendenza a stabilire convenzioni internazionali al fine di
realizzare eventi di richiamo, quali le esposizioni universali (la prima si svolse a Londra nel 1851);
3. queste ed altre innovazioni avviarono il decollo della sportivizzazione. In questa terza fase (dagli anni
1870 a metà degli anni ’20) si consolidò il senso di appartenenza ad una comune umanità e ciò favori
l’internalizzazione dello sport: nacque il Movimento Olimpico e, a partire da Atene 1896, ogni quattro anni
vennero celebrate le Olimpiadi. Inoltre sorsero Federazioni sportive a raggio internazionale e si avviarono
tornei e competizioni, cui parteciparono atleti di differenti nazioni. Gli incontri sportivi internazionali però
non solo diedero occasione al cosmopolitismo di affermarsi, ma anche al nazionalismo poiché in questa
fase gli eventi sportivi vennero vissuti in chiave fortemente nazionalistica, in sintonia con le tensioni
politiche e sociali sorte dai problemi lasciati irrisolti dalla Prima guerra mondiale;

4. la tensione tra cosmopolitismo e nazionalismo contrassegnò la quarta fase, la lotta per l’egemonia (dalla
metà degli ’20 ai tardi anni ’60). Il tentativo dei regimi totalitari di strumentalizzare lo sport fu evidente nei
mondiali di calcio svoltisi a Roma nel 1934 da parte del regime fascista e nelle “nazi-Olimpiadi” di Berlino
1936 da parte del regime nazista. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale il processo di sportivizzazione
si estese ai Paesi emergenti dell’Asia e dell’America centrale (Tokyo 1964 e Città del Messico 1968). Accanto
alla universalizzazione di calcio ed atletica, in questa fase si notarono però fenomeni di resistenza delle
culture locali, le quali adattarono o reinventarono i giochi diffusi dagli inglesi: si pensi al calcio che, negli
USA, oggi viene chiamato soccer, mentre il più prestigioso termine football viene riservato a una variante
americana del rugby;

5. la fase dell’incertezza (dai tardi anni ’60 al 2000) presenta un duplice aspetto. Da un lato vi sono gli
aspetti positivi: per la prima volta in molti Paesi si è diffusa una prosperità mai raggiunta prima, e di ciò lo
sport si è avvantaggiato fortemente. Dall’altro lato in questa fase si profilano nuove tensioni e antagonismi,
sia tra gli stati e all’interno di ciascuno di essi, sia negli stessi ambienti sportivi;

6. Maguire non si è limitato a riformulare per lo sport le cinque fasi della globalizzazione individuate da
Robertson, ma ha offerto alcuni spunti interpretativi. A suo avviso lo sport è entrato in una fase ulteriore, la
millenial, in cui si dovrebbe realizzare la “creolizzazione delle culture sportive”. A suo avviso l’accresciuta
tendenza a deterritorializzare persone, mezzi ed iniziative favorirà l’incontro e la creatività collettiva. Più
che una omologazione al modello sportivo occidentale (o americanizzazione), secondo Maguire si va verso
una sintesi omogeneizzante, caratterizzata da minori contrasti e dall’aumento della varietà di stili e di
espressività negli sport, per realizzare la quale, tuttavia, occorreranno tempi assai lunghi.

2. Dalla modernità alla post-modernità

Ora si cercherà di capire le cause di tale diffusione. Approfondendo gli aspetti socio-culturali della
modernizzazione, si metteranno in evidenza i valori caratterizzanti lo sport secondo l’olimpismo – la
filosofia dello sport formulata nella prima modernità.

Come si è anticipato nell’esporre in breve la teoria figurazionale, il nesso tra sportivizzazione e processo di
civilizzazione è stato posto da Elias. Merito di Elias è stato quello di aver individuato le due funzioni che lo
sport svolge a livello “micro”-sociologico: la compensativa (occasione di gradevole eccitazione, libera
espressione di emozioni e piacevole divertimento) e catartica (scaricamento emotivo delle emozioni
accumulate nella vita quotidiana e lavorativa). Oltre alla compensazione e alla catarsi, che sono funzioni
svolte a livello “micro”-sociologico, lo sport svolge ulteriori prestazioni a livello “macro”, di cui una è di
rilevanza centrale per la stessa teoria elisiana del processo di civilizzazione: è la canalizzazione
dell’aggressività nella competizione sportiva, che consente di meglio controllare e pure di ridurre la
violenza nella società. In breve, un circolo sociale positivo tra fattori “micro” e fattori “macro”-sociologici ha
portato all’emergere della formazione sociale moderna, che in un breve arco di tempo ha sostituito in
Europa gli ordinamenti sociali medievali. Entro tale dinamica socio-culturale “virtuosa” – una morfogenesi,
per usare il concetto proprio della teoria relazionale- si colloca pure l’emergere dello sport come istituzione
moderna. Anche se Elias non si è soffermato ad elencare i valori propri dello sport, si può tuttavia supporre
che avrebbe condiviso i cinque principi dell’educazione olimpica di de Coubertin:

- Armonia -> sviluppare l’essere umano nella sua integralità (corpo e mente);
- Gioia nello sforzo -> l’atleta raggiunge la propria perfezione umana dando il massimo di sé nel corso
delle prestazioni sportive;
- Sportività -> il rispetto per gli avversari si esprime osservando le regole dello sport e assicurando
eguali opportunità nel competere, assieme a fermezza nel chiedere che tutti i partecipanti abbiano
assolto i relativi obblighi;
- Pace -> tra le rappresentative nazionali deve regnare accordo e buona volontà, così come rispetto e
tolleranza nei rapporti tra gli atleti di diversa nazionalità;
- Liberazione -> nello sport e attraverso di esso si muovono passi verso l’emancipazione.

A quasi un secolo di distanza la più recente versione della Carta olimpica (2007), pur con modifiche e
integrazioni, ripropone tali principi educativi. Peraltro essa indica la gioia nello sforzo come l’unico valore
caratteristico dello sport. Gli altri valori, come il rispetto delle regole e l’uguaglianza sono più correttamente
ricondotti a principi etici generali.

Si sosterrà ora che tali valori oggi vengono reinterpretati, in sintonia con il processo di accentuato
cambiamento sociale che caratterizza la “post”-modernità.

Ma come si spiega il fatto che di “gioia nello sforzo” atletico oggi non se ne sente più parlare? Sia
nell’importante ricerca sui valori e lo sport coordinata da Renato Grimaldi tra gli adolescenti piemontesi, sia
nell’elenco dei valori dominanti dello sport statunitense stilato da Harry Edwards, la “gioia nello sforzo” è
assente. Ronald B. Woods spiega il silenzio calato sulla “gioia nello sforzo” come l’esito non voluto della
continua esaltazione dei vincitori, fatta dai media sportivi; accanto agli aspetti positivi, tale copertura
mediatica può generare un effetto perverso, quello di convincere i giovani che ciò che conta nello sport è
vincere a tutti i costi, anziché gareggiare con impegno ed onestà. Il fatto è che nella seconda metà del XX
sec. si è affermata la distinzione tra due modelli di sport: quello per professionisti e “lo sport per tutti”. I
due modelli presentano caratteristiche molto diverse: il modello delle prestazioni elevate non solo limita
inevitabilmente il numero dei praticanti, ma è pure fortemente influenzato da fattori esterni; tra questi vi è
anche la forte richiesta di sport-spettacolo da parte dei media e della cultura dei consumi. In altre parole
l’avanzare della modernità, entrata nella sua fase radicale, ovvero l’ingresso in una formazione sociale
diversa, provvisoriamente chiamata “post”-modernità, sta avvenendo con una tale rapidità, da rimettere in
discussione valori che sembravano acquisiti definitivamente nel corso dell’evoluzione sociale. Si pensi al
dibattito in corso sulla spettacolarizzazione degli eventi sportivi: i sostenitori dell’American way of life
anche nello sport elencano i dati, molto positivi, sulla crescita dei praticanti sportivi e sull’aumento dei
profitti economici per tutti gli attori sociali coinvolti nel triangolo d’oro, formato da squadre e campioni
sportivi, dai media e dalle aziende sponsor. Al contrario gli oppositori dell’omologazione evidenziano il fatto
che la cultura consumistica attuale promuove solo “dis-valori” e sostengono la necessità di tornare a valori
puri proposti dall’olimpismo. Come mostra la figura, le trasformazioni in atto nello sport avvengono
all’interno di una serie di mutamenti di più ampia portata, che per comodità si possono individuare
distinguendo tra il piano “macro-sociologico” dell’analisi e quello “micro”. Nel primo caso si possono
individuare almeno tre processi di forte cambiamento:
- De-territorializzazione -> oggi flussi enormi di persone, merci e capitali attraversano sempre più
facilmente i confini nazionali. Pertanto le nazioni sono assai più permeabili alle imprese e alla
cultura del tardo capitalismo, di quanto fossero prima della prima modernità. Così le imprese
multinazionali possono operare in maniera autonoma dagli stati in cui sono sorte, de-localizzano i
propri impianti produttivi in altri Parsi in ragione dei costi di manodopera inferiore;
- De-statalizzazione -> stretto tra le spinte dal basso in direzione del federalismo o della
redistribuzione dei poteri centrali a vantaggio di rafforzate autonomie locali, e le pressioni dall’alto
per uniformarsi a leggi ed orientamenti su scala continentale, lo Stato-nazione oggi viene de-
potenziato e de-costruito, perde la propria assolutezza giuridica e riduce la propria rilevanza
sociale;
- De-industrializzazione e de-materializzazione della produzione.

Sempre la figura elenca i tre mutamenti principali che avvengono nel piano “micro-sociologico”:

- Processo di individualizzazione con tendenza all’anomia e all’involuzione sociale;


- Rivalutazione della sfera emozionale;
- Cultura dei consumi.

Altri processi si pongono a livello “meso-sociologico”, come mostra la figura:

- Si registrano tendenze demografiche divaricate fra i Paesi già sviluppati, caratterizzati da una forte
denatalità o, comunque, da stazionarietà nel riprodursi della popolazione, e quelli in via di sviluppo,
in cui continua la crescita demografica; i primi sono oggi meta di immigrazione dai secondi, tanto
che le società europee sono sempre più multi-etniche e si pone il problema dell’integrazione dei
nuovi venuti;
- Le relazioni tra le persone si moltiplicano e si formano reti sociali sempre più ampie, in ciò
avvantaggiate dai media tecnologicamente avanzati (internet, cellulari…). Tuttavia, l’ampiezza di tali
reti appare inversamente proporzionale alla solidità dei legami sociali che le costituiscono;
- Migliorano le tecniche agro-alimentari, ma la distribuzione dei prodotti, specie nei Paesi poveri, è
rallentata da numerosi fattori sociali. Intanto la questione ecologica si aggrava per la mancata
applicazione degli accordi internazionali sul rispetto dell’ambiente naturale;
- Le scoperte scientifiche richiedono investimenti sempre maggiori;
- Il mercato è in grado di influenzare e di condizionare sia la politica, sia la cultura contemporanea.

Gli ultimi due cambiamenti in atto a livello “meso”-sociologico, così come qualche effetto di tali mutamenti
offerti dalla cronaca recente, possono essere interpretate dai sociologi che sostengono la continuità della
formazione sociale moderna come sintomi dell’avanzamento nella razionalizzazione, ovvero come segni di
cambiamenti che, a ben guardare, rientrano nella modernità stessa. Al contrario i sociologi che sostengono
la tesi della discontinuità scorgono nei processi sopra elencati altrettante cause di una radicale
trasformazione della formazione sociale moderna in una inedita società, che viene chiamata “post”-
moderna in attesa di aver meglio definito i suoi tratti caratteristici.
Pure lo sport e l’attività fisica sono influenzati dai cambiamenti caratteristici della “post-modernità”: il
campo si differenzia al proprio interno e emergono pratiche motorie differenti, che non sono tutte
interpretabili entro uno schema lineare modernizzante. Di certo rientra in questo schema lo sport-
spettacolo (moderno), il quale presenta i seguenti valori:

- Richiesta di eccellere;
- Richiesta del successo nel competere;
- Richiesta di cura dell’immagine pubblica.

Si tratta certamente di valori altri rispetto a quelli proposti dall’olimpismo; lo sport-spettacolo pertanto si
colloca nella linea di una modernizzazione come razionalità strumentale e performatività. Altri valori, però,
stanno emergendo nella “post-modernità” sportiva, come:

- Ricerca dell’equilibrio tra corpo e mente nella forma fisicamente attiva del fitness (eudemonisti);
- Il mantenimento di un buono stato di salute tramite attività fisica non competitiva nella wellness
(salutisti);
- Il desiderio di stabilire e/o di mantenere relazioni positive con gli altri tramite lo sport e l’attività
fisica come ambienti sociali (relazionisti).

Anche se la maggioranza dei praticanti si orienta allo sport-spettacolo è già ampia l’area dei praticanti che si
riconosce in pratiche motorie orientate da valori post-moderni. Sono oltre 7,5 gli italiani che preferiscono
queste pratiche motorie post-moderne, sui 17 milioni circa di praticanti lo sport nel nostro Paese. È quindi
evidente che pure lo sport e l’attività fisica si presentano quanto mai diversificati, traducendo al proprio
interno la complessità offerta dal mutamento socio-culturale in atto.

3. Contese tra le identità

Lo sport costituisce una importante risorsa identitaria per la società. Identità personali e collettive si
costituiscono attraverso assimilazione di valori, norme e regole proposte da altri significativi: genitori,
maestri, figure socialmente rilevanti. Lo sport favorisce gli esiti positivi del processo di socializzazione tra cui
la formazione di identità capaci di adattarsi all’ambiente socio-culturale della società contemporanea, senza
per questo rinunciare ai valori-guida della sportivizzazione. Tra questi, come si è visto prima, vi è il principio
di uguaglianza tra gli atleti, che comporta l’impegno a rimuovere i numerosi ostacoli socio-culturali che si
frappongono al libero accesso allo sport e all’attività fisica, favorendo l’integrazione sociale. Tuttavia,
permangono degli ostacoli alla realizzazione di questo principio in quanto anche nello sport penetrano le
tensioni e i conflitti presenti nella società. È proprio questo l’argomento di questo ultimo paragrafo del
capitolo, il quale offre una panoramica sulle tensioni e tra le identità, a partire da cinque temi sensibili:
genere, etnia, ideologia politica, religione e diversa abilità motoria. In via preliminare. È utile distingue tra
fattori ascritti, ovvero attribuiti alla nascita, quali il genere e l’etnia, e fattori acquisiti successivamente
dall’individuo, quali le ideologie politiche, la religione o le disabilità contratte a seguito di infortuni (se
queste ultime hanno origine genetica rientrano tra i fattori ascritti).

1. Tensioni di genere -> si potrebbe supporre che negli ultimi decenni, a seguito dei mutamenti socio-
culturali in atto e della minore diseguaglianza tra i sessi raggiunta in numerose società sviluppate, sia
divenuto facile per le donne accedere allo sport, e che quindi il numero delle atlete stia aumentando fino
ad eguagliare o quasi quello dei maschi. Questo è vero solo per lo sport di eccellenza (Olimpiadi) e per i
Paesi sviluppati, quelli in cui l’ideologia dominante ha favorito l’accesso delle donne al lavoro fuori casa e
quindi anche allo sport. In realtà, le donne praticanti lo sport risultano ancora di molto inferiori per
numero, e ciò avviene pure nei Paesi industrialmente più sviluppati. Anche in questi, infatti, l’uguaglianza di
accesso in base al genere è solo formalmente riconosciuta, mentre nella realtà socio-culturale persistono
differenti visioni del maschile e del femminile. In tema di identità di genere i pre-giudizi sono spesso in
agguato, e non derivano semplicemente dalla tradizione; analogo effetto nell’opporsi all’ingresso delle
donne nello sport ha pure il modello femminile proposto dai media. La donna alla moda appare un modello
altrettanto incompatibile, se non più, alla cultura dello sport e dell’attività fisica, di quanto non fosse la
donna angelo del focolare o la lavoratrice emancipata. Inoltre, la gran parte dell’attenzione dei media è
riservata alle imprese sportive compiute dai maschi, di cui si esaltano la potenza, l’aggressività e la
resistenza. le ragioni del modo diseguale di ritrarre la donna atleta nella stampa risiedono non solo nel
modo di pensare dei giornalisti, quanto nelle scelte del pubblico dei media. Dal momento che i clienti dei
quotidiani sportivi o dei network televisivi sono molto più frequentemente maschi, il processo di
produzione giornalistica dello sport si orienta ad accontentare tale clientela.

2. Tensione di razza ed etnia -> un discorso analogo si potrebbe fare per l’accesso diseguale allo sport in
base alla razza e all’etnia. Pertanto, anche se nel linguaggio comune spesso si usano indifferentemente, i
termini “razza” e “etnia” sono qui distinti. Si impiegherà il primo per indicare l’insieme dei caratteri
trasmessi per eredità biologica, di cui quelli somatici (colore della pelle, colore e forma degli occhi e dei
capelli…) sono immediatamente visibili e quindi possono venir impiegati come fattori di distinzione o anche
di discriminazione sociale. Il termine “etnia”, invece, qui designa le pratiche culturali che caratterizzano un
gruppo sociale e che lo distinguono da quelle proprie della maggioranza della popolazione in un dato
territorio. Con “razzismo” si indica invece la credenza che la razza determini comportamenti umani e che
l’eredità umana legittimi la superiorità di una sulle altre. ad esempio, molti sono convinti che se negli USA
gli atleti neri dominano il basket, il football, il baseball e le corse veloci, ciò sia dovuto a ragioni di
superiorità razziale nella prestazione atletica. La ricerca sociale ha dimostrato che tale credenza è inficiata
da pre-giudizi razzisti; in realtà le condizioni socio-economiche delle famiglie afro-americane inducono
moltissimi bimbi a praticare le quattro discipline sportive suddette (sport più popolari, mentre tennis e golf
per persone abbienti), nella speranza di affermarsi come giocatori eccellenti, così da guadagnare cospicui
salari e da elevarsi rapidamente nella scala sociale. Fin dagli anni ’70 ricerche sociologiche hanno accertato
che il predominio dei neri negli sport più popolari è il risultato di un processo di auto-selezione, che si avvia
nell’ambiente sociale in cui i bambini neri crescono. Quanto si è appena detto sulla funzione selettiva
nell’accesso allo sport, svolta dalle condizioni socio-culturali deprivate della famiglia di origine, vale pure
per le altre minoranze etniche presenti negli USA: latinos, pellirosse e gialli. La situazione dei figli della
prima etnia è identica a quella dei bambini neri e quindi anche essi abbondano negli sport elencati in
precedenza. Invece i figli di etnia indios autoctona (pellirosse) o asiatica tendono a non praticare lo sport,
visto solo come una perdita di tempo, e preferiscono dedicarsi alle attività professionali tipiche del proprio
gruppo sociale (commercio, ristorazione…) oppure si dedicano più frequentemente a discipline che
richiedono abilità e meno a quelle che richiedono forza e potenza e agli sport di combattimento che
rientrano nella loro tradizione culturale. Sono diverse le iniziative che vengono effettuate per rimuovere le
barriere razziali e culturali. Lo sport, in alcuni casi, riesce a svolgere funzioni di pacificazione etnica, o anche
di integrazione sociale dei minori appartenenti ad etnie svantaggiate.

3. Tensioni nell’ideologia politica -> già prima si è detto come nella quarta fase della sportivizzazione, la
lotta per l’egemonia, i regimi totalitari del secolo XX hanno manipolato i grandi eventi sportivi per
legittimare la propria volontà di potenza e per ribadire la superiorità della propria ideologia. Esempi di
strumentalizzazione politica sono, oltre ai Mondiali di calcio svoltisi a Roma nel 1934 e alle Olimpiadi di
Berlino nel 1936, le Olimpiadi di Mosca 1980 e Los Angeles 1984, i Mondiali di calcio svoltisi in Argentina nel
1978 e quelli svoltisi in Corea del Sud e Giappone nel 2002. Possiamo dire che, nelle situazioni sociali più
pesantemente controllate da regimi autoritari, l’accesso allo sport e all’attività fisica è limitato a chi
appartiene al gruppo al potere, mentre chi fa parte delle minoranze sottomesse ne viene escluso. Tuttavia,
come ha dimostrato la storia recente, vi può essere un’autonomia che passa attraverso la capacità dello
sport di organizzarsi in maniera economicamente indipendente. Pur non senza cedimenti e compromessi
con la politica, l’indipendenza economica è stata raggiunta dalle principali organizzazioni internazionali
dello sport, quali l’Ioc e la Fifa, grazie alla vendita dei diritti tv dei grandi eventi sportivi che organizzano
periodicamente. La sostenibilità economica e il quadro internazionale di inizio millennio fanno sperare che
oggi sia più probabile praticare lo sport e l’attività fisica senza più subire discriminazioni in base alle proprie
idee od orientamenti politici.

4. Tensioni di religione -> a prima vista sport e religione non sembrano dover avere rapporti: il primo si
occupa del corpo e il secondo dell’anima (questa è almeno la convinzione diffusa nella società moderna). In
realtà, questo modo di vedere i rapporti tra sport e religione è condizionato dalla modernità. Gli abitanti
delle formazioni sociali precedenti, così come ancora oggi le popolazioni di quattro continenti su cinque
(l’Europa fa eccezione) si dichiarerebbero convinti del contrario, ovvero che la religione ha una
fondamentale rilevanza pubblica, e che quindi anche nello sport e nell’attività fisica la dimensione religiosa
è importante. La sociologia moderna, elaborando la teoria della secolarizzazione, aveva interpretato la
caduta della pratica religiosa in Europa nel senso dell’avanguardia (come anticipazione di comportamenti
che si sarebbero estesi con la modernizzazione in tutti i Paesi in via di sviluppo; si era pertanto ipotizzato la
scomparsa della religione dalla sfera pubblica e, talora, la dissacrazione della società. Oggi l’esempio in
controtendenza offerto dagli USA e pure da molti Paesi emergenti negli altri continenti extra-europei fa
pensare che l’Europa sia un caso a sé. La sociologia contemporanea quindi non scarta la possibilità che, nel
passaggio alla post-modernità, la separazione posta dalla modernità tra identità secolari e religiose venga
rimesso in discussione. Ne sono esempi le atlete musulmane più intransigenti che hanno ottenuto di
correre portando il velo islamico alle Olimpiadi di Londra e la judoka Shaherkani che ha gareggiato con il
capo coperto da una cuffia. Loro hanno dimostrato la fragilità della contrapposizione tra sport e religione.
Ma quale apporto può dare alla religione allo sport? Si può distinguere due apporti a livello micro in
riferimento alle principali professioni in ambito sportivo:

- Favorisce la concentrazione, lo spirito di disciplina, la disponibilità a sacrificarsi per la vittoria e per


la squadra e altra virtù agonistiche;
- Allenatori e manager sportivi incoraggiano i propri atleti a seguire la religione, ritenendola una
risorsa utile a rinforzare i comportamenti corretti, così come un potente disincentivo ad assumere
droghe e alcool, e un freno alla violenza in campo o a disordini sessuali.

5. Tensione legate alle diversità di abilità motorie -> le persone che presentano difficoltà di movimento
sono raggruppabili in tre tipi: disabilità di tipo fisico, mentale e legata all’invecchiamento. Ciascun tipo di
impedimento ha una propria eziologia, a seconda che sia ascritto (dalla nascita) oppure acquisito nel corso
della vita. Le esigenze sportive proprie di queste tre categorie di disabili sono molteplici e assumeranno una
maggiore rilevanza sociale, con il previsto aumentare del loro numero nei prossimi anni; in modo
particolare crescerà il numero dei disabili del terzo tipo, in linea con il prevedibile aumento della
popolazione anziana, specie nei Paesi più industrialmente sviluppati. Pertanto le pratiche motorie
preventive già oggi sono, e in avvenire ancor più lo saranno, una risorsa utile a mantenere gli anziani il più
lungo possibile attivi e autonomi. Quelle adattate ai vari tipi di disabilità, poi, rappresentano di certo un
bene relazionale, in quanto operano inserendo il disabile entro una rete di relazioni sociali presenti nel
territorio. Il corpo disabile non appare più condannato ad una marginalità sociale. Questo grazie anche a
Paraolimpiadi, Special Olympics International e Deaflympics. Tuttavia, è ancora lungo il cammino da
compiere prima che nella società si diffonda la convinzione che le pratiche motorie adattate ai disabili
rappresentano una scelta di civiltà, capace di migliorare l’avvenire non solo di chi è svantaggiato sul piano
motorio, ma di tutti. Infatti, con l’aumentare della speranza media di vita, ciascuno di noi potrebbe trovarsi
ad avere i medesimi problemi di difficoltà. In breve, il principio di uguale opportunità di accesso allo sport
non riguarda solo i pochi disabili, ma appare un valore capace di tracciare una prospettiva di sviluppo per
masse enormi di anziani in tutto il mondo.

Conclusione

Per la sociologia i valori sono risorse fondamentali per i gruppi e per i sistemi sociali, in quanto le identità,
pur nel mutare delle mode culturali che sono fenomeni contingenti, si riproducono ispirandosi ad essi. In
questo capitolo si è cercato di mostrare questi cambiamenti dapprima delineando il processo di
globalizzazione e, al suo interno, il contributo specifico offerto alla civilizzazione dallo sport. Inoltre si è
distinto tra valori dello sport nella prima fase della modernità e quella della fase post-moderna. Infine si è
mostrato che le identità personali e di gruppo sono un terreno particolarmente conflittuale in cui i valori (ci
si è limitato al principio di uguaglianza tra gli atleti) nella transizione in atto verso una nuova formazione
sociale sono esposti a tensioni continue, che possono portare a definire le identità stesse. Il principio di
uguaglianza degli atleti è stato ed è continuamente messo alla prova sotto molti aspetti; per cinque di essi
qui si è brevemente delineato i termini delle attuali dispute tra le identità. La sociologia però si caratterizza
per un duplice sguardo: non solo essa cerca di ricostruire le cause dei fenomeni sociali e quindi guarda al
passato, ma anche mira a prevedere l’avvenire. Tuttavia è ancora presto per poter rispondere con un sì o
un no alla domanda “è vero che la globalizzazione è una minaccia per i valori dello sport?”. D’altra parte la
sociologia relazionale, anche se scarseggiano le evidenze per poter far previsioni fondate, possiede
ugualmente strumenti utili; ad esempio può offrire una panoramica dei possibili sviluppi dello sport entro il
processo di globalizzazione. La globalizzazione de-territorializza immagini pratiche e simboli sportivi, i quali
oltrepassano facilmente i confini nazionali o locali. Quali gli esiti possibili di questo processo? Per la
sociologia relazionale sono almeno quattro, tanti quanto sono gli scenari logicamente possibili a partire
dalle risposte che si ricavano dal porre in relazione due domande, che corrispondono ai due problemi
principali del pensiero sociologico: come assicurare l’ordine nella società complessa e così mantenere la
coesione sociale (religo)? E come dare risposta alla domanda di senso e orientamento per l’agire (refero)?

In merito alla prima risposta la futura società globale si orienterà a un gruppo omogeneo di valori
(monocultura) oppure troverà un orientamento in valori provenienti da una pluralità di culture? In merito
alla seconda domanda la globalizzazione porterà ad una società mondiale integrata e solidale oppure
prevarranno le spinte verso la frammentazione?

Se si combinano tra loro tali interrogativi si ottiene una matrice quadripartita: ciascuna delle quali delinea
uno scenario possibile dell’evoluzione sociale e culturale in atto.

1. Omologazione -> ovvero l’assimilazione al modello americano anche nello sport. La cultura consumistica
oggi dominante favorisce l’affermarsi dello sport, inteso come una competizione ad elevata spettacolarità e
capace di generare cospicue ricadute commerciali. Non è detto, tuttavia, che tale processo sia irreversibile,
né che l’esito sia sempre l’omologazione al modello offerto dagli sport professionistici americani;

2. Separatezza -> ovvero forme di resistenza al modello americano. Il secondo scenario dell’evoluzione
sportiva globale condivide con il primo il predominio della cultura consumista, ma ammette che i casi di
resistenza all’American way of life siano numerosi e, per lo più, siano tollerati, a patto che si adattino a
sopravvivere entro nicchie o isole culturali, ovvero che accettino di riprodursi senza intaccare il predominio
sociale dello sport-spettacolo. Si possono dare due casi:

- Ghettizzazione -> è il rifiuto del dialogo e della mescolanza tra gruppi culturali diversi, ciascuno dei
quali difende ad oltranza la propria identità pura, convinto della superiorità dei propri valori e del
modo in cui li ha inculturati (es. pelota basca);
- Dominazione -> è la sottomissione delle culture dominate alle priorità stabilite dalla dominante, ad
esempio di tipo economico, mentre per il resto esse si riproducono secondo le proprio tradizioni
(baseball da parte degli USA);

3. Integrazione pluralista -> le culture esistenti mantengono i propri caratteri originari, però in un contesto
sociale integrato e interdipendente, il quale favorisce scambi e porta e porta ciascuna cultura alla parziale
incorporazione di alcuni tratti, già di altre culture. L’integrazione pluralista è, infatti, l’unità nella diversità,
in questo scenario convivono omogeneità (nei valori di fondo) e differenze culturali (nei modi di esprimerli)
(es. calcio);
4. Omogenizzazione -> prevede l’emergere di una cultura mondiale che ha fuso in sé le culture esistenti e
formando un insieme unico e riconoscibile, diverso dalle unità di partenza. È l’esito a più elevata
integrazione sociale, che tuttavia inevitabilmente richiederà tempi molto più lunghi per potersi attuare.
Oggi questo scenario sembra ancora lontano nella prospettiva dell’evoluzione socio-culturale; però le
pratiche motorie possono essere un terreno fertile, specie le discipline free-style, in cui più informali sono i
contatti tra appassionati di varie nazioni e ciò favorisce l’innovazione e la creatività collettiva.

Quale sarà l’esito finale del processo di sportivizzazione? Esso tradurrà nello sport l’esito che Elias ha
previsto per il più ampio processo di civilizzazione: da un lato diminuiranno i conflitti e cresceranno le
varietà; dall’altro si indebolirà la contrapposizione, ora forte, tra chi è nativo e quindi centrale in una
società, e chi proviene da un’altra ed è considerato un intruso. Applicando allo sport questa prospettiva
civilizzante, la Sociologia relazionale può prevedere che l’esito finale della globalizzazione dello sport sarà
l’omogenizzazione.
3. Sport e comunità. Socializzazione, comunicazione e devianza (I)
Lo sport e l’attività fisica contribuiscono alla buona riuscita del processo di socializzazione? In questo
capitolo si affronterà dapprima l’interrogativo su come avviene l’apprendimento di regole e norme sociali
tramite le pratiche motorie. Nel secondo paragrafo ci si chiederà quale impatto hanno i mezzi di
comunicazione sportiva sulla gente e, in particolare, sui minori. Infine ci si interrogherà sulle ragioni per cui
pare così diffusa la devianza e la criminalità nello sport professionistico. Questi ed altri aspetti rientrano
nella funzione integrativa (I) che lo sport e l’attività fisica svolgono per una comunità e, più in generale, per
la società più ampia. La funzione di socializzazione svolta dallo sport si evidenzia a due livelli:

- A livello micro-sociologico dove lo sport favorisce l’integrazione dell’individuo in una comunità;


- A livello macro-sociologico dove lo sport agevola la coesione del “tutto” sociale.

1. Socializzati dallo sport

Ogni anno si rinnova circa l’1% della popolazione del nostro Paese. Come cresceranno i nuovi nati? Lo sport
e l’attività fisica saranno per loro ambienti formativi? Innanzitutto, per divenire membri a pieno titolo di
una società, i nuovi nati devono almeno acquisire alcune competenze base: linguistiche, cognitive, affettive
e relazionali. In ogni formazione sociale ha luogo il processo di socializzazione, ma le modalità e i tempi
variano anche grandemente nello spazio e nel tempo, in dipendenza della complessità della formazione
sociale osservata. Nella formazione sociale moderna il processo di socializzazione si svolge in due fasi: la
primaria e la secondaria. Nella fase primaria il nuovo nato viene allevato in famiglia, la quale è quindi
un’istituzione fondamentale per la buona riuscita della socializzazione. La fase secondaria avviene fuori
dalla famiglia, in altri ambienti sociali. Ulteriori competenze e conoscenze vengono acquisite all’interno
delle agenzie formative presenti nella società più ampia: la religione è l’istituzione formatrice per eccellenza
ed è presente fin dalle formazioni sociali più antiche. A questa istituzione fondamentale si sono affiancate
altre agenzie socializzatrici emerse nella modernità: scuola, ambienti di lavoro, associazioni di volontariato
sociale, organizzazioni del tempo libero, mezzi di comunicazione, ecc. Sola la scuola, tuttavia, è un’agenzia
formale, ovvero opera la socializzazione in maniera esplicita, ma con tempi e modalità diverse da quelle
proprie della famiglia e della religione; però tutte e tre queste agenzie dichiarano esplicitamente di volersi
occupare dell’educazione dei nuovi nati. Le restanti agenzie sono, invece, informali, ovvero l’esito
socializzante è un effetto secondario e non dichiarato delle funzioni sociali manifeste, cui esse assolvono.

Attualmente sono più di 33 milioni gli italiani che fanno sport e attività fisica distribuiti in tre gruppi in base
all’intensità di pratica motoria:

- I praticanti sportivi, ovvero le persone di 3 o più anni che nel nostro Paese praticano almeno uno
sport. Nel 2011 erano quasi 19 milioni, ovvero il 32,1 % della popolazione italiana; nel 1995 erano
assai di meno, sia per numero (13,5 milioni), sia per percentuale sulla popolazione (26,6%). Tra
costoro è possibile poi distinguere i praticanti continuativi dai saltuari;
- Gli attivi fisicamente, ovvero coloro che, pur non praticando uno sport, facevano passeggiate di
almeno 2 km, nuotava, andava in bicicletta o altro ancora, invece, hanno continuato a diminuire dai
18 milioni nel 1995 (35,3 %della popolazione) ai 16 milioni nel 2011 (27,7 % della popolazione);
- I sedentari, nel periodo considerato, sono aumentati dai 19 milioni nel 1995 (37,8 % della
popolazione) ai 24 milioni nel 2011 (39,8 % della popolazione). Una crescita lineare e rapida cui
hanno contribuito diversi fattori sociali, a cominciare dal forte aumento della quota di anziani tra la
popolazione.
Altri studi hanno evidenziato l’elevato tasso di abbandono che inizia già nell’adolescenza e che si accentua
nella prima giovinezza. Sono circa 3 su 5 gli abbandoni che si verificano tra i 10 e i 24 anni. All’interno di
questa fascia critica si nota poi che la maggioranza degli abbandoni si registra tra i giovani (20-24 anni) e, a
seguire, tra i giovanissimi (15-17 anni). Nella fascia d’età critica le femmine abbandonano lo sport più
frequentemente dei coetanei maschi. Inoltre, l’abbandono avviene in età più precoce, ovvero più
frequentemente quando le femmine sono adolescenti (11-14 anni) o giovanissime. Le motivazioni relative
all’abbandono sono mancanza di interesse, pigrizia, mancanza di tempo e motivazioni economiche e/o
familiari. Ulteriori studi hanno evidenziato che certi programmi per la promozione dello sport, i quali fanno
una eccessiva pressione sui ragazzi affinchè ottengano risultati atletici a scapito del gioco e del
divertimento, portano all’abbandono precoce e che l’abbandono della pratica sportiva in età giovanile è
connessa a due fattori principali: la necessità di trovare lavoro per mantenersi e una valutazione realistica
delle proprie possibilità di avere successo nello sport.

Si cercherà ora di rispondere a tre domande frequenti sugli effetti socializzanti dello sport e dell’attività
fisica.

1. Lo sport forma il carattere dei bambini? Per più di mezzo secolo i sociologi ed altri scienziati sociali
hanno messo alla prova la validità di tale affermazione; essi hanno raccolto dati sui caratteri, sugli
atteggiamenti e sui comportamenti dei giovanissimi che praticano sport e li hanno comparati con quelli dei
non praticanti. Purtroppo i risultati non sono chiari, anche perché gli indicatori impiegati per misurare
l’effetto socializzante spesso sono diversi e misurano realtà differenti (quindi dalla comparazione non è
possibile ottenere risultati oggettivi). Infatti molto studi si basano su due assunti non veri:

- Tutti gli atleti hanno le medesime esperienze in tutti gli sport;


- Gli sport offrono agli atleti esperienze specifiche; perciò chi non pratica sport non può averle in
altro modo.

Questi due assunti non veri hanno indotto molti ricercatori a non dar perso alle evidenze seguenti:

- Gli sport offrono diverse esperienze, le quali possono essere positive per la socializzazione dei
minori, ma anche possono rivelarsi negative;
- Chi sceglie di praticare sport o chi viene selezionato per farlo ha tratti caratteriali differenti da quelli
che non lo praticano o che non vengono selezionati a tal fine. Ciò significa che i selezionatori si
trovano di fronte a persone con un carattere già formato in senso favorevole o contrario alla pratica
sportiva, senza che questa abbia contribuito a formarne il carattere;
- Le ricerche mostrano che atleti praticanti il medesimo sport vi attribuiscono spesso significati
diversi;
- I significati che la gente attribuisce all’esperienza sportiva cambia nel tempo; da grandi si vede il
mondo in maniera diversa da quando si era piccoli;
- La socializzazione avviene attraverso le interazioni sociali che accompagnano la pratica sportiva.
Perciò la rilevanza e l’efficacia educativa dello sport dipende dalle relazioni sociali che ciascuno ha e
dal contesto sociale e culturale entro cui si svolge la pratica di una disciplina;
- Gli effetti positivi della socializzazione tramite la pratica sportiva si possono avere svolgendo pure
altre attività formative, come il volontariato sociale o lo scautismo. Chi non fa sport può quindi
crescere positivamente, in modo simile a chi la pratica.

2. Lo sport fa bene alla salute? Negli ultimi anni si è raccolto sufficienti evidenze sul fatto che lo sport faccia
bene alla salute ed aumenti il benessere fisico, o almeno, la sensazione di sentirsi bene fisicamente. Però
non si è ancora arrivati ad una conclusione univoca sul tipo e la quantità di pratiche motorie necessarie ad
ottenere tali effetti positivi. Alcuni sociologi britannici hanno posto in discussione la tesi che lo sport faccia
bene alla salute. Ad esempio Waddington ha evidenziato l’elevato numero di traumi che si registrano tra i
praticanti lo sport competitivo. Il sociologo ha quindi concluso che la pratica motoria più salutare è
l’esercizio fisico regolare non competitivo. I benefici per la salute diminuiscono quando si passa allo sport
competitivo, i cui costi sono elevati, specie per il rischio di traumi; e diminuiscono ulteriormente quando
dagli sport competitivi, però non a contatto con gli avversari, si passa a quelli competitivi e a contatto: in
questi ultimi, infatti, i giocatori mettono a rischio continuo di traumi il proprio corpo.

3. Disordini alimentari ed altre storie. Molto utile appare studiare lo sport e l’attività fisica non solo come
pratiche motorie individuali, ma come ambienti sociali in cui si formano reti di relazioni. Lo dimostrano
varie ricerche svolte sull’anoressia o sull’obesità in età adolescenziale e sul contributo dello sport nel
combattere i disturbi alimentari. In realtà il nesso tra sport ed obesità appare materia complessa. Nelle
società sviluppate, fare sport è il consiglio dato più di frequente ai genitori per risolvere i problemi di
sovrappeso dei figli. In realtà i dati non confermano la tesi che la pratica sportiva faccia scendere il tasso di
obesità; infatti nelle società in cui lo sport-spettacolo attira grandi masse di spettatori, i tassi di obesità sono
aumentati. Ciò non dipende certo dallo sport in quanto tale, ma dal fatto che pochi spettatori sono stimolati
a praticarlo, mentre la maggior parte si limita a guardarlo (siano essi allo stadio, oppure seduti di fronte alla
televisione). Così, però, si incentiva la sedentarietà e si premia gli eccessi alimentari: il risultato è che
aumentano sia nel numero sia in percentuale sulla popolazione gli spettatori di sport-spettacolo, che hanno
problemi di sovrappeso. L’approccio relazionale si rileva utile per studiare pure l’anoressia e altri disturbi
alimentari negli adolescenti. A tal proposito, a volte alcuni sport contribuiscono a diffondere l’idea della
necessità di raggiungere modelli di corpi ideali, snelli ed agili, che sono inattingibili per la maggior parte
delle persone con conseguente frustrazione e crolli psicologici. Occorre prevenire gli eccessi di un corpo
ultra-socializzato in cui si percepisce la propria figura in modo condizionato eccessivamente dalle mode e
dalle immagini diffuse dai media. La sociologia invita pertanto a considerare lo sport e l’attività fisica non
solo come pratiche motorie, ma come ambienti sociali, in cui si formano relazioni sociali che sostengono o,
al contrario, che si oppongono a tale scelta.

2. La videosocializzazione sportiva

L’apprendimento di competenze sociali e l’adesione a regole e norme avviene grazie alle relazioni sociali
significative che sostengono e orientano il minore entro ambienti educativi o formativi; tra queste vi sono
club, piscine, palestre e circoli associativi, in cui si pratica sport e attività fisica. Ma questi sono gli unici
ambienti in cui avviene il processo di socializzazione alle pratiche motorie? O si deve ammettere che in una
società “mediata” anche il processo di socializzazione nello sport e l’attività fisica avvenga in modo
“mediato”? Per la Sociologia relazionale le ardue sfide che oggi devono affrontare le principali agenzie
socializzatrici formali sono tali, per ragioni che attingono assai meno alla potenza di tali tecnologie della
comunicazione, e assai più alla debolezza delle medesime agenzie e della società tutta. In effetti famiglia,
scuola e chiesa soffrono di una perdita di autorità nel trasmettere alle nuove generazioni il capitale
culturale della società. Il rarefarsi di relazioni significative in questi mondi della vita quotidiana crea un
vuoto simbolico e normativo che i minori riempiono attingendo con libertà e scarsa consapevolezza critica
all’enorme deposito di immagini, simboli ed informazioni che tv, internet, social pongono alla portata di un
semplice click del telecomando o del mouse. La trasmissione di regole e norme, finora compiuta tramite le
relazioni face to face con altri significativi presenti in famiglia, negli ambienti parrocchiali e a scuola, oggi è
divenuta una mediazione a distanza, in cui la sovrabbondanza di immagini e simboli nasconde a malapena
la scarsa capacità di orientare all’impegno e di sviluppare capacità critiche. La videosocializzazione tramite
lo sport e l’attività fisica presenta la struttura del triangolo SMS. Sport, media ed aziende sponsor, infatti,
negli ultimi due decenni hanno formato legami sempre più stretti, tanto da configurare una nuova struttura
sociale:

- Calciatori, squadre e atleti divengono celebrità sportive internazionali grazie al sostegno dei media
e si arricchiscono grazie ai proventi che derivano dal prestarsi come testimonial alla pubblicità di
beni e servizi;
- Mezzi di comunicazione attraggono facilmente maggior pubblico grazie alla notiziabilità di cui gode
lo sport e arricchiscono i proprietari grazie alla vendita di spazi pubblicitari nei propri palinsesti;
- Aziende multinazionali promuovono agevolmente i propri prodotti e servizi presso pubblici enormi
grazie alle campagne pubblicitarie condotte sul mercato globale, che si avvalgono del fascino
esercitato dalle celebrità sportive sul pubblico.

Questa inedita struttura sociale si regge grazie alle relazioni virtuose stabilitesi tra sport, media e aziende
sponsor. In effetti la capacità di ciascuna istituzione di raggiungere i propri fini è resa possibile dalla
parallela performatività delle altre due; tanto che l’accrescersi e l’espandersi di ciascuna favorisce lo
sviluppo delle altre, e pure dell’insieme. La Sociologia relazionale chiama morfogenesi un tale esito, che non
solo è recente, ma è pure soggetto a un divenire continuo. La struttura è resa dinamica dalla presenza di
una audience sterminata composta da praticanti lo sport e/o tifosi che al tempo stesso sono anche clienti
degli sponsor.

Esaminando nel dettaglio il triangolo SMS, fra le sue componenti si notano relazioni di dipendenza o
interdipendenza:

- La relazione di interdipendenza esiste solo tra sport e media: infatti ciascuna delle due istituzioni si
trasforma, in seguito a mutamenti avvenuti nell’altro campo;
- I media dipendono dalle aziende, in quanto la vendita di spazi pubblicitari per inserzioni/spot
pubblicitari costituisce un’entrata di importanza vitale per i bilanci delle imprese mediali;
- Le aziende dipendono dallo sport, che rappresenta un campo fertile di campioni e miti capaci di
promuovere con forza suggestiva i loro prodotti presso i potenziali clienti.

Al centro del triangolo vi sono le audience, le quali si pongono in rapporto con tutte e tre i sistemi sociali
suddetti ed i relativi attori; le rispettive relazioni sono tutte di dipendenza di questi dalle audience. Esistono
infatti relazioni forti e strutturate tra il pubblico dello sport mediato e:
- Il sistema dei media -> specie per la televisione, le audience sportive sono il pubblico più facile da
intrattenere ed i contenuti sportivi sono di grande attrattività. Inoltre le platee che si formano per
assistere ad un macro-evento sportivo a volte sono immense e attirano inserzioni pubblicitarie in
gran numero, disposte a pagare prezzi elevatissimi;
- Il mondo dello sport -> i cui campioni divengono celebrità note in molti Paesi del mondo; in essi si
identificano milioni di praticanti sportivi, per i quali i campioni rappresentano modelli da imitare;
- Le aziende sponsor -> in quanto le suddette masse enormi di praticanti sportivi e di tifosi
rappresentano altrettanti potenziali consumatori dei propri prodotti e/o servizi.

In futuro le stesse cause che hanno alimentato la convergenza fra i tre sistemi sociali potrebbero anche
produrre tensioni interne fino alla de-strutturazione del triangolo; ovvero lo sfilacciarsi delle relazioni e
l’indebolirsi, o meglio il moltiplicarsi dei triangoli SMS, alcuni dei quali, però, potrebbero avere gradi minori
di performatività e di capacità di influire sui comportamenti d’acquisto delle audience sportive.

Basti pensare ai nuovi comportamenti di consumo mediale, consentiti dall’offerta continua di prodotti
sempre più tecnologicamente avanzati nel campo della comunicazione mobile e wireless. Già oggi via
internet è possibile vedere e rivedere gratuitamente highlight e video delle partite di calcio; non solo
l’accesso diventa gratuito, e quindi non è remunerativo per i proprietari dei media, ma cambia anche il
modo stesso di fruizione. La logica della rimedazione che caratterizza internet, infatti, porta il
tifoso/consumatore di sport a divenire a sua volta anche il produttore di commenti e il fornitore di
immagini e/o informazioni, che entrano a loro volta nel racconto degli eventi sportivi, alimentando un ciclo
partecipativo potenzialmente infinito. In breve, le novità tecnologiche favoriscono comportamenti di
consumo mediale più attivi e, quindi, diversi dalla passività che ha caratterizzato finora la fruizione
televisiva, basata sul modello comunicativo unilaterale, che riproduce l’egemonia del centro sulla periferia.
Invece, l’attività delle audience, che i new media esaltano, si ripercuote con effetti potenzialmente
sconvolgenti sullo stesso triangolo SMS. La conseguenza più evidente è che risulta più difficile far vedere la
pubblicità ai tifosi/spettatori. Infatti, i new media si prestano assai meno facilmente della televisione ad
ospitare spot pubblicitari, o se li ospitano consentono di chiudere il pop-up e quindi di sottrarsi ad essa.
Pertanto gli internauti, potendo sottrarsi alle pubblicità più facilmente, risultano un pubblico meno
interessante per le aziende sponsor. In altre parole, il triangolo virtuoso rischia di rallentare il proprio ritmo
generatore di utilità per tutti e di divenire meno virtuoso. In breve il diffondersi nella società di sempre
nuove tecnologie della comunicazione favorisce il formarsi di tanti triangoli SMS, quanti sono i new media;
questi ultimi si distinguono a seconda che mantengano il modello comunicativo unilaterale, oppure
adottino il nuovo modello a rete. La figura mostra che la televisione continuerà ad attirare le audience
sportive; è tuttavia prevedibile che queste, anno dopo anno, calino di numero e si polarizzino nella
composizione (saranno sempre più composte da bambini e anziani, ovvero dai tipi di consumatori meno
interessanti per le aziende sponsor perché hanno minori bisogni e minore autonomia nello spendere). I
clienti più interessanti (25-45 anni) si stanno sempre più rivolgendo verso lo sport mediato dal pc on line,
oppure dal pc wi-fi, dal cellulare, ecc. I tre ruoli (tifoso, spettatore e consumatore) che la struttura sociale
emergente aveva de-differenziato, ora tendono a ridistanziarsi. Viene pertanto a indebolirsi la principale
ragione che aveva finora alimentato il circolo virtuoso instauratosi negli ultimi anni fra le tre componenti
del triangolo SMS: l’esposizione allo sport mediato, infatti, rischia di non tradursi più in persuasione del
pubblico all’acquisto di beni e/o di servizi commerciali. Nel prossimo avvenire la struttura sociale
emergente potrebbe quindi avviarsi verso una morfostasi, ovvero realizzare un cambiamento senza
accrescimento né strutturazione.

3. Norme sportive, devianza e criminalità

Le opportunità offerte dalla videosocializzazione tramite lo sport e l’attività fisica sono numerose, ma
alcune sono fonte di preoccupazioni. Assistiamo infatti a notizie su devianze e criminalità nello sport
(Schwazer, Armstrong…). Entrambi i comportamenti, devianza e criminalità, incontrano resistenze nella
società e incorrono in sanzioni, però queste sono di natura diversa: più frequentemente informali e verbali
le prime, invece più spesso formali e, talora, penali le seconde. La maggior differenza è che gli atti criminali,
infrangendo la legge, sono sempre perseguibili e, spesso, sono pure condannati dal senso comune morale;
le devianze, invece, indicano che si tratta di comportamenti che deviano, ovvero che risultano diversi da
quelli che la società si attende; e tale diversità non è detto che sia sempre negativa o pericolosa per il vivere
civile. In breve, la devianza non è sinonimo né di illegalità, né di criminalità. Appare utile la distinzione tra
due tipi di comportamento deviante:

- La devianza primaria indica la violazione di norme occasionali e di poco conto, che hanno rilevanza
sociale modesta e conseguenze presto dimenticate da chi le compie (es. multa per eccesso di
velocità);
- La devianza secondaria, invece, è una violazione continuata delle norme sociali, che prefigura
un’abitudine a comportarsi in maniera illegale (es. tossicodipendenza abituale).

Altro ancora è la criminalità, ovvero i comportamenti devianti che, sanzionati dalla legge, sono definiti reati.
Tra devianza e criminalità si collocano poi zone grigie, formate dai comportamenti non conformisti. Queste
sono di due tipi: azioni che si collocano al di sotto delle aspettative sociali riguardanti lo sport e l’attività
fisica, però senza sconfinare nel vietato o nell’illecito; e comportamenti che si collocano al di sopra delle
aspettative, quali quelle dettate da un eccesso di zelo a favore dello sport, anche a costo di sacrificare la
propria salute o le relazioni familiari e sociali (es. traumi autoinflittisi dalle cheerlady nel corso delle
manifestazioni di sostegno alla propria squadra).

Devianza e criminalità sono fenomeni oggetto di riflessione fin dai classici della sociologia. Si può così
sintetizzare i principali apporti offerti dalle teorie sociologiche:

- Gli struttural-funzionalisti definiscono la devianza come il comportamento dell’individuo che non si


attiene alle norme e/o regole connesse al proprio ruolo; queste rinviano ad aspettative note, sia al
soggetto, sia agli altri, perché derivate dai valori che strutturano la società. Le norme discendono
dai valori, interiorizzati attraverso la socializzazione: esse vengono apprese nel corso del processo
di addestramento al vivere sociale, formano la personalità e preparano all’assunzione di ruoli che
vigono in altri ambienti sociali, come la scuola e il lavoro. In questa prospettiva il comportamento
deviante è uno scostamento dalle norme note e condivise che va corretta tramite sanzioni;
- Merton (funzionalista) ha sostenuto che la devianza è generata dalle situazioni in cui vi è tensione
tra la struttura culturale e quella sociale; la prima indica le mete culturali e i mezzi approvati per
raggiungerle, mentre la struttura sociale offre le effettive opportunità per arrivare a tali mete,
distribuendo agli individui i mezzi concreti per farlo. Merton individua cinque forme di adattamento
dell’individuo alla tensione che si può generare quando la distanza tra struttura culturale e struttura
sociale diviene elevata: sono la conformità, l’innovazione, il ritualismo, la rinuncia e la ribellione.
Comportamenti devianti possono essere i quattro ultimi perché rifiutano o le mete, o i mezzi; la
soluzione più radicale alla tensione è però l’ultima: nella ribellione, infatti, l’individuo rifiuta sia le
mete, sia i mezzi approvati socialmente. La ribellione offre al massimo grado di cogliere due
comportamenti opposti: la devianza propositiva caratterizza il profeta religioso (Gandhi o King). In
tale prospettiva il deviante è in realtà colui che anticipa con gesti non conformisti delle scelte, che
poi verranno tollerate o anche fatte proprie da ampi strati della popolazione, divenendo nel tempo
normali; e la devianza distruttiva che invece è propria del contestatore violento o del nichilista;
- Per i teorici del conflitto la devianza è una forma di protesta, individuale o collettiva, nei confronti
di una società, in cui la diseguale distribuzione della proprietà dei mezzi di produzione crea gravi
forme di sfruttamento, che sfociano spesso in proteste individuali o rivolte sociali;
- La teoria dell’etichettamento sostiene che l’individuo non è deviante in sé, ma è riconosciuto tale
da un gruppo; in altri termini la devianza non è qualità intrinseca ad un atto, ma è una etichetta
attribuita dalla società a un individuo;
- La teoria della subcultura deviante sostiene che la devianza è frutto di comportamenti appresi
nell’ambiente familiare o vicinato;
- La teoria della scelta razionale spiega i reati come frutto di una scelta intenzionale ed attiva presa
singolarmente. Essa vede l’individuo come un essere razionale, il quale persegue i propri interessi
applicando il calcolo utilitaristico; nell’agire egli si chiede sempre come massimizzare i propri
profitti e piaceri, e come minimizzare i dolori e le perdite. In breve, il divenire deviante è una scelta
razionale per l’individuo, se la prospettiva di guarda appare molto superiore al rischio di venire
scoperto e punito. Potenzialmente, secondo questa teoria, tutte le persone sono devianti (è
l’occasione a fare l’uomo ladro). In questa prospettiva l’unico freno che può limitare la devianza è
la certezza della pena: solo se il costo supera lo sperato guadagno l’individuo resta conforme alle
regole. Le sanzioni possono essere di tre tipi: costi esterni pubblici (pene previste dalla legge), costi
esterni privati (biasimo, mormorio, silenzio che familiari e conoscenti riservano al deviante) e costi
interni (rimproveri della propria coscienza).

Esempi del rapporto tra devianza e sport e attività fisica sono:

- Violenze compite dai tifosi del calcio -> Elias e Dunning individuarono le radici di tali episodi nella
sub-cultura propria del sottoproletariato inglese anche nell’involontaria funzione svolta dai media
nel diffondere notizie su tali episodi, favorendo la ripetizione. Negli studi successivi viene messo in
luce il legame esistente tra devianza ed emozioni nello sport. Dal Lago ha sottolineato la capacità in
particolare del gioco del calcio di rinfocolare antagonismi e contrapposizioni;
- La manipolazione dei risultati delle partite tramite un’organizzazione capace di controllare gli
attori del gioco -> come hanno dimostrato alcune ricerche svolte sulla devianza amministrativa, i
crimini commessi dai “colletti bianchi” sono assai meno visibili ma, spesso, risultano assai più
dannosi per la società (es. calciopoli);
- Il ricorso al doping da parte di atleti d’élite -> la prima domanda che viene da chiedersi a riguardo
è se l’uso di sostanze vietate sia una scelta individuale o collettiva. Alcuni sociologi si schierano a
favore della prima risposta, mentre altri, pur ammettendo che la scelta è in ultima analisi una
responsabilità individuale, mettono in evidenza il formarsi di reti organizzate per la devianza. Come
liberare gli sportivi da queste reti a delinquere? Si nota qua il grave limite della teoria della scelta
razionale, il suo individualismo; certo, si può convenire con essa che la decisione ultima di doparsi è
pur sempre presa dal singolo atleta, e che questi può essere disincentivato a farlo se si aumenta la
probabilità di venire scoperti. Ma tale impostazione mostra tutti i suoi limiti quando ignora
l’esistenza di reti sportive organizzate che esercitano pressioni sull’individuo. Per scoraggiare tali
pratiche organizzate occorre allora sostenere l’indispensabile attività di controllo e repressione che
la Wada e la magistratura devono continuare ed intensificare. Queste, però, sono le condizioni
necessarie, ma non sufficienti per far trionfare lo sport pulito; per estirpare la criminalità
organizzata nello sport è richiesta l’azione altrettanto organizzata della società civile. Sono molte le
forme possibili, dall’azione educativa di base, alle campagne di comunicazione sociale, alle clausole
rescissorie inserite nei contratti di sponsorizzazione che scattano alla scoperta della devianza.
Sport e politica (G)
La relazione fra politica e sport attraversa l’antichità, l’età medioevale e tutte le fasi della civilizzazione,
intesa come quella progressiva trasformazione del costume e delle mentalità che, secondo la sociologia
storica, culmina in Europa occidentale fra la metà del XIV secolo e la fine del XIX. Specularmente l’analisi
della relazione fra sistemi politici, pratiche sportive, propaganda e strategie di legittimazione simbolica del
potere interessa da vicino anche la stagione della cosiddetta tarda modernità. A costo di qualche
approssimazione, si può sostenere che le relazioni fra sport e politica rinviino a quattro prospettive
dominanti nella ricerca sociale:

- La prima prospettiva riguarda l’uso strumentale, spesso a fini esplicitamente politici, della passione
sportiva da parte di leader o aspiranti tali, ovvero di gruppi di pressione (es. Berlusconi con il
Milan);
- Sotto una diversa e più ampia prospettiva si collocano gli studi sulla funzione di coesione sociale,
che caratterizza la partecipazione attiva allo sport (gli atleti in competizione) e quella passiva (il loro
pubblico) nel corso di eventi e nella vita delle organizzazioni sportive. Le attività sportive sollecitano
sentimenti di appartenenza a una comunità, alimentano passioni e forme di legame sociale e danno
spesso vita a rappresentazioni simboliche ed emozionali particolarmente dense;
- Un terzo aspetto strategico interessa i movimenti di sport per tutti, ispirati alla filosofia della
cittadinanza sociale. Allo scopo occorre tuttavia distinguere fra sport per tutti, tradizionalmente
inteso come movimento orientato a dilatare il perimetro dei praticanti entro la logica organizzativa
e vincoli culturali dello sport di competizione, e sport a misura di ciascuno. Quest’ultimo esprime
piuttosto un variegato profilo di opportunità, competitive e non competitive, che si associano alle
pratiche motorie. Esse possono essere a loro volta ricondotte a tre tipi prevalenti: fitness, wellness
e cura per la salute. Si tratta di esperienze di vasto impatto sociale che hanno conosciuto, a partire
dagli anni Novanta, una crescente integrazione e interazione con le politiche pubbliche. In quanto
promotori di nuovi diritti di cittadinanza e protagonisti di una campagna per l’inserimento dello
sport nell’agenda del nuovo welfare, i movimenti sportivi nonprofit hanno strappato un
significativo riconoscimento con il Trattato di Lisbona dell’UE;
- In un’ottica ispirata alla comunicazione tra diversi, all’inclusione e una produzione di senso
solidaristica, lo sport aspira a migliorare la qualità della vita dei cittadini, soprattutto dei meno
favoriti, e a garantirne i diritti. Nella seconda metà del Novecento i Paesi più industrialmente
evoluti hanno progressivamente inserito lo sport nel sistema di welfare e in quello educativo,
sostenendone soprattutto la funzione di prevenzione sanitaria, di promozione di stili di vita e di
integrazione sociale.

Un approccio sociologico al rapporto tra sport e politica esige l’adozione di prospettive di analisi e di
strumenti d’indagine molteplici. In occasione delle prime ricerche comparative sui sistemi sportivi nazionali,
ci si concentrò in particolare sul modello dell’arena politica, ispirato dal lavoro di Benson. Quest’ultimo
sostenne che in qualsiasi sistema, si tratti dello stato o dell’impresa, di un club di èlite o di una tifoseria
sportiva, convivono sempre tre dimensioni fondamentali:

- La rappresentazione soggettiva, cioè come gli individui elaborano la percezione della loro vita in un
contesto sociale;
- La sfera relazionale, cioè quanto concerne la vita associativa di un gruppo organizzato;
- L’identità simbolico-culturale che distingue ogni organizzazione da tutte le altre.
Uno spazio sociale popolato da attori in competizione/cooperazione costituisce perciò un’arena politica,
perché dall’agire politico riproduce le dinamiche fondamentali, a cominciare dalla produzione di decisioni:
“l’arena politica è un costrutto sociale all’interno del quale si svolgono una molteplicità di giochi che, tra le
altre cose, consentono anche di individuare un comportamento finalizzato dell’organizzazione in quanto
tale”. Nell’arena movimenti informali, come le associazioni sportive amatoriali, possono trasformarsi in
istituzioni e attori decisionali, ma nessun attore organizzativo può essere analizzato separatamente dagli
altri. Le politiche di una singola federazione sportiva andranno esaminate, ad esempio, in rapporto alle
strategie del comitato olimpico cui la federazione appartiene, al tipo di intervento che le istituzioni
pubbliche promuovono in favore di quell’attività sportiva e alla presenza di reti organizzative alternative o
competitive.

Il modello dell’arena assegna importanza alla soggettività degli attori in gioco e alla sfera simbolica.
Richiede però di essere integrata da una credibile ricostruzione degli eventi e dei conflitti che interessano
un sistema come quello sportivo. L’indagine storica sul fenomeno sportivo vanta una tradizione significativa
in paesi come Gran Bretagna, Francia e Germania. Anche valenti studiosi italiani si sono cimentati con la
ricostruzione della genesi e degli sviluppi del sistema sportivo nazionale. Si tratta tuttavia di un processo
non lineare, nel quale si possono identificare tre modelli che richiamano altrettanti idealtipi di Stato
nazione:

- Modello inglese  fra l’unità e la Prima guerra mondiale la vera posta in gioco consiste nel profilo
politico e nella conseguente forma istituzionale da dare all’Italia unita. Guarda al modello
britannico la borghesia laica e liberale che si affaccia alla rivoluzione industriale e propugna la via
d’un capitalismo d’impresa. È questo il modello giolittiano, la via inglese osteggiata dal partito
conservatore e dalle gerarchie ecclesiastiche mobilitate contro lo Stato unitario. Fra i suoi modelli
culturali primeggiano i giochi di squadra che si acclimateranno rapidamente nei centri urbani del
Nord in via di industrializzazione e nelle città portuali, saldando in una inedita forma di passione
collettiva ceti popolari urbani e borghesia industriale. Nel modello giolittiano è presente una chiara
intenzione politica e pedagogica. I giochi di squadra inglesi insegnano le regole del gioco sociale
ispirate alla nazionalizzazione e all’industrializzazione, cementano forme inedite di lealtà collettiva,
esaltano in forma emozionale logiche di azione ispirate alla competizione retta da regole, al
rendimento e alla produttività tecnica che sono proprie del paradigma industriale;
- Modello prussiano  si identifica nell’archetipo dei Turnen tedeschi, facendo delle pratiche
ginniche non competitive un’allegoria del corpo collettivo e del disciplinamento. Essi preludono
all’uso coreografico e celebrativo dello sport di massa nelle manifestazioni politiche e nei grandi
eventi agonistici del Novecento. In Germania come in Italia, nella stagione della nazionalizzazione,
le associazioni ginnastiche e le nascenti associazioni polisportive hanno svolto un ruolo
politicamente cruciale conferendo un potente significato politico ai processi politici. L’esercizio
fisico si fa allegoria del corpo collettivo della nazione nascente e di un autodisciplinamento che
incarna le virtù e le speranze dell’intero popolo;
- Il modello francese  nella Francia rivoluzionaria e poi nell’esperienza napoleonica l’esercizio fisico
è in buona parte associato all’addestramento del cittadino-soldato secondo la filosofia della
Nazione armata. Le tradizionali abilità aristocratiche vengono popolarizzate, militarizzate e, in un
certo senso, democratizzate. La competizione allude alla fusione di esercito e popolo, come nelle
formazioni partigiane o in alcune esperienze nazionali fondate sul principio della difesa territoriale.
Nell’Italia risorgimentale e post-risorgimentale è il movimento garibaldino a interpretare più
coerentemente questo modello di sportività (Garibaldi presidente della società italiana tiratori,
Pisacane promotore della sportivizzazione della scherma).
1. Uso strumentale dello sport

La figura illustra la relazione tra le variabili storico-sociali che in Europa interessarono, almeno sino alla
Prima guerra mondiale, tanto la formazione dei sistemi sportivi, quanto gli sviluppi del processo di
nazionalizzazione. La dinamica si produsse attraverso quattro fasi cruciali:

- La prima, l’incorporazione, costituì un processo di natura eminentemente legale e normativa.


Attraverso di essi gli Stati nazione assunsero, inglobandole, funzioni e responsabilità nuove e più
ampie. L’incorporazione è all’origine della produzione di politiche pubbliche che emanano dallo
Stato in nome di un interesse collettivo. Nel campo organizzativo dello sport un esempio cruciale
del processo di incorporazione è dato dalla progressiva adesione delle formazioni pubbliche al
modello sovranazionale disegnato dal sistema olimpico. Già negli ultimi anni dell’Ottocento prende
così forma la piramide dello sport istituzione. Al vertice si collocano le istituzioni deputate del
Movimento olimpico (Ioc e organismi olimpici nazionali) e, a scendere, la rete delle federazioni di
specialità, il sistema delle società sportive amatoriali e, più tardi, i club professionistici commerciali;
- Il secondo processo è quello più direttamente ascrivibile alle categorie della politica e delle
istituzioni: è la mobilitazione popolare. Nei decenni grosso modo compresi tra il Risorgimento e la
Grande Guerra in quasi tutti i Paesi europei occidentali nacquero sindacati di classe e partiti di
massa. L’opposizione centro-periferia è all’origine di formazioni politiche più orientate alla
costruzione dello Stato nazione per diffusione dal centro, o viceversa, più inclini a sistemi
federalistici. È il modello che descrive l’avvento al potere politico delle borghesie urbane
assorbendo, almeno nel caso italiano, anche la frattura originata dal conflitto città-campagna.
Anche in questo caso lo sport in formazione fornisce applicazioni suggestive. Nei grandi agglomerati
urbano-industriali prendono piede due fenomeni rilevanti, come i giochi di squadra e una fruizione
dello spettacolo sportivo che esige impianti specializzati come stadi, ippodromi, velodromi. Un
aspetto propriamente politico-sociale della sportivizzazione dell’Europa consiste infatti nel ruolo
egemone delle città, che rapidamente metabolizzano, assorbono e spesso cancellano i retaggi dei
vecchi giochi popolari rurali. Tutto ciò ha dirette implicazioni politiche. In Italia sono i ceti emergenti
della borghesia industriale urbana a promuovere e finanziare club e impianti sportivi. All’opposto
prevale nelle leadership socialiste e sindacaliste l’idea che il dilagare della passione sportiva
rappresenti una potenziale minaccia per l’impegno rivoluzionario della classe operaia. Anche
l’opposizione tra Stato e Chiesa presenta delle ricadute nella formazione dei sistemi sportivi. In
Paesi cattolici come l’Italia, in cui la Chiesa negò a lungo la legittimità allo Stato nazione, anche le
reti associazionistiche riprodussero questo conflitto lacerante. L’associazionismo cattolico,
espressione del sistema degli oratori e delle imponenti reti parrocchiali e diocesane, tende a darsi
una configurazione separata dal resto del movimento sportivo;
- A cavallo della Grande Guerra si assiste a una generale burocratizzazione, che comprende il sistema
sportivo in gestazione. Fra il 1869, anno in cui si costituì la Federazione ginnastica, e il 1899, anno in
cui nacque la Federazione nuoto, presero forma le sette organizzazioni di specialità più importanti.
In qualche modo, seppur tardivamente e disordinatamente, anche il sistema sportivo nazionale
comincia a essere oggetto di burocratizzazione. Vale la pena ricordare, peraltro, come questa non
agisca solo nella sfera delle istituzioni pubbliche e nella governance del sistema sportivo. Essa
interessa anche le attività commerciali e l’incipiente produzione di un consumo di sport a scala
tanto locale quanto globale;
- Infine durante l’intero ‘900 si protrae un processo di sportivizzazione, durante il quale si sviluppano
i campionati di calcio, i giri ciclistici e i primi rally automobilistici. Lo sport agonistico accresce
inoltre il confronto tra le Nazioni e alimenta sentimenti di appartenenza. Si produce quella
caratteristica dello sport che consiste nel generare coesione attraverso opposizioni: competizione
vs cooperazione, selezione vs inclusione, successo particolare vs contesto globale. Infine la
sportivizzazione ha stimolato esperienze di comunicazione sociale del tutto inedite e in gran parte
- modellate sul profilo delle differenti tecnologie del settore.

La stagione della nazionalizzazione si conclude convenzionalmente con la Grande Guerra. Essa coincide con
la prima ondata novecentesca della sportivizzazione. Si è osservato come l’incorporazione degli attori
politici nello Stato nazione avesse prodotto insieme la dilatazione della cittadinanza politica, soprattutto
attraverso l’affermazione delle democrazie parlamentari e l’espansione del diritto di voto, e la diffusione di
modalità di pratica sportiva e di fruizione spettacolare degli eventi che coinvolgevano ambienti sociali
urbani o comunque estranei ai tradizionali loisir aristocratici. Nel suo insieme, in Italia come in Europa, la
sportivizzazione appare come un processo prevalentemente modernizzante. Il fenomeno dà vita però a
un’arena politica in cui esercitano un ruolo non trascurabile ambienti ostili alla nazionalizzazione (in Italia
gran parte delle gerarchie cattoliche), ad essa estranei (socialismo) oppure nostalgicamente legati alla
vecchia aristocrazia e alla cultura dei passatempi di élite. Si tratta di esperienze accomunate da
atteggiamenti di integrazione negativa nei confronti della nazionalizzazione, così come della
sportivizzazione. In altre parole: ci si adatta ai processi di mutamento e di innovazione senza condividerne i
valori, talvolta sfruttandone le opportunità per preservare nicchie di attività di tipo sub-culturale. Nella
storia politica del primo Novecento non mancano esempi di movimenti di massa che praticarono forme di
integrazione negativa, inserendosi nel sistema sociale attraverso strutture autonome e autogestite. La
stessa pratica sportiva diviene per questi movimenti una strategia di rinforzo dell’identità culturale e una
pratica strumentale, orientata a una certa filosofia della salute o al perfezionamento delle tecniche militari
e paramilitari. Lo sport fascista rappresentò l’epilogo in chiave autoritaria di quella idea di patria sportiva
che era venuta germinando dalla tradizione risorgimentale. Per il regime lo sport fu prima di tutto un
poderoso strumento di controllo sociale. È possibile isolare due stagioni dello sport fascista. In una è
cruciale la formazione di una rete associazionistica di massa fidelizzata e direttamente controllata dal
regime, mentre vengono messe al bando tutte le organizzazioni non direttamente controllate dal partito
unico. In un secondo periodo, quando si diffonde la fruizione radiofonica e cinematografica come abitudine
di massa, sarà invece privilegiato il ricorso propagandistico alla mobilitazione. Va sottolineato il fatto che i
media contribuiscono a rivoluzionare la rappresentazione dello sport, facendone un ingrediente
dell’immaginario politico. Lo spettacolo sportivo indusse quella massificazione passiva o platealizzazione
che accompagnò la commercializzazione dell’agonismo professionistico.
2. Coesione sociale

Con l’avvento del mezzo televisivo, cruciale non è più la narrazione dell’evento e il ricorso a una regia
ispirata a intenzioni politiche, bensì la consumazione immediata dello spettacolo. L’obiettivo è suscitare
emozioni, stimolando quell’immedesimazione dello spettatore che è la principale risorsa del mezzo
televisivo. Il racconto televisivo può cancellare, come la cinematografia, la simultaneità tra l’evento e la sua
fruizione spettacolare, ma, a differenza del cinema, può anche esaltarla. Il ricorso alla diretta, in particolare,
produce nel tempo della comunicazione planetaria l’effetto del villaggio globale. Anche l’eccitazione
emotiva sollecitata nei pubblici del teatro globale può del resto rivestire significati politici. Si parla di una
ritrovata egemonia dell’occhio e dell’orecchio che consentirebbe un nuovo tipo di narrazione sportiva e,
con essa, forme più efficaci di trasmissione, tanto del messaggio commerciale quanto di quello politico.
L’arena dello sport diviene così sempre più un’arena mediatica esposta alle incursioni di narrazioni politiche
orientate. L’arena mediatica si confonde con quella politica. Avviene un uso politico dei media, così come
dello sport, anticipando tendenze e strategie comunicative che si ritroveranno più tardi e che serviranno a
legittimare governi autoritari o a celebrare la ritrovata democrazia, a manifestare la conquista di uno status
internazionale o a favorire la riconciliazione fra Stati e comunità.

Rubricata sotto la generica categoria di violenza sportiva, esiste unna forma specifica di violenza politica, di
cui sono più frequentemente protagoniste le tifoserie dei maggiori giochi di squadra. È purtroppo cronaca
ricorrente il caso di provocazioni a sfondo razzista contro giocatori di colore negli stadi calcistici europei.
Anche il ricorso innocuo a stereotipi etnico-culturali può essere indice di un connubio inquietante fra sport
e intolleranza politica. I giochi di squadra, come il calcio, sembrano possedere una enorme potenzialità di
incendiare l’immaginario dell’alterità e del rancore. Questa regressione culturale si ammanta spesso di
coreografie, slogan, simbolismi politici radicali, prevalentemente ispirati ai codici comunicativi e agli
apparati simbolici dell’estrema destra. Dagli anni Ottanta, anche in assenza di episodi di violenza o di
provocazione ideologica, la politicizzazione del tifo calcistico rappresenta una sorta di torrente carsico, che
episodicamente affiora in forme clamorose, ma che interessa molti Paesi e buona parte dei club. Spesso le
tifoserie sono associate a un colore politico, anche se tutte le ricerche condotte in Italia e altrove
concordano nel segnalare che la trasformazione della composizione sociale delle tifoserie ha modificato
anche le vecchie appartenenze sub-culturali (le squadre operaie, i club distintivi di élite). Finora si è
privilegiato il caso delle tifoserie calcistiche, ma la relazione tra tifoserie e mobilitazione politica può essere
estesa alla quasi totalità dei giochi di squadra e, più frequentemente, alle tifoserie dell’hockey su ghiaccio,
del basket e della pallanuoto. Non appare semplice istituire una relazione diretta tra sfera della politica,
attivazione attraverso la passione sportiva di apparati simbolici di natura ideologica, mobilitazione di
minoranze fanatizzate e sviluppo della violenza. La materia è sfuggente, ma quanto meno consente di:

- individuare una specifica arena politica, quella dell’espressività aggressiva;


- collegare le dinamiche emozionali del tifo a fratture sociali e culturali più o meno antiche;
- indicare gli stadi come spazi sociali politicamente critici.

Le curve calcistiche politicizzate traggono anch’esso vigore e visibilità del mezzo mediatico. Tanto gli
strateghi della comunicazione totalitaria quanto i disperati delle curve ultrà, in fondo, tendono a costruire e
a rafforzare la propria identità.
3. Cittadinanza sociale

Una funzione identitaria peculiare è assolta in alcuni casi dallo sport campionistico. Un esempio
interessante è fornito dai campioni di colore statunitensi nell’immaginario politico e sociale degli USA del
Novecento. Il loro successo è stato a lungo utilizzato come argomento per esaltare il mito dell’America
come “Terra delle opportunità”. Lo sport veniva proposto, in questa prospettiva, come un ambiente
favorevole alla mobilità sociale verticale: promuovendo i talenti individuali, esso conferma il sogno
americano. Con il tempo e sull’onda dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, anche i trionfi degli atleti
di colore hanno conosciuto una radicale mutazione di significato. Da forma di legittimazione surrettizia
dell’American Dream si sono trasformati in fenomeno politico, capace di mobilitare l’orgoglio e di
accendere le rivendicazioni della minoranza nera. Alcune personalità sportive sono divenute gli eroi
eponimi dei movimenti di protesta. Non pochi campioni di colore nordamericani sono stati protagonisti di
campagne e iniziative politiche di grande risonanza internazionale. È il caso di atleti come il pugile Cassius
Clay, convertitosi alla religione islamica con il nome di Mohammed Alì e attivista contro la guerra
vietnamita. Lo sport di vertice americano ha agito così secondo una doppia razionalità politica. Da un lato
dimostra il carattere aperto della società, fondata sull’American Dream e su una meritocrazia esigente ed
efficace. Da un altro punto di vista alimenta l’orgoglio nero e favorisce quelle rivendicazioni di diritti e pari
opportunità, di cui una parte dei campioni neri si farà interprete. Un caso nazionale che può essere
accostato a quello statunitense è quello australiano. Qui la funzione di volano identitario dello sport di
vertice ha interessato la minoranza aborigena, composta dai nativi colonizzati e in larga misura sterminati
dai bianchi anglosassoni. Basterebbe infine, per un esempio di un altro tipo, ricordare la nazionale francese
multicolore e tricolore, vincitrice dei Mondiali di calcio 1998, che alternò in squadra durante lo svolgimento
del campionato atleti di dodici diverse origini etniche o nazionali. Il rapporto tra sport e politiche sociali è di
particolare interesse per aggiornare il profilo dei sistemi di welfare. Per valutare la legittimità
dell’inserimento nell’agenda dello Stato sociale occorre però distinguere fra generiche politiche pubbliche e
politiche propriamente sociali. Tutte le politiche che emanano da autorità istituzionali sono riconducibili alla
sfera sociale in quanto incidono su equilibri, interessi e distribuzione delle opportunità all’interno della
comunità. Non tutte le politiche sociali, però, sono orientate a promuovere o a favorire l’esercizio di diritti.
Anche politiche orientate all’esclusione, come quelle segregazioniste (es. apartheid sudafricano) o
fondamentaliste sono, tecnicamente parlando, politiche sociali. La tavola dei diritti, d’altronde, evolve in
relazione al mutamento sociale, alle trasformazioni dei sistemi politici, alle risorse economiche disponibili e
alle stesse sensibilità culturali. Bisogna tuttavia guardarsi da un’interpretazione evoluzionistica dello Stato
sociale come quella attribuita a Marshall. Lo studioso britannico individua una sequenza di diritti collettivi
che procedevano alla conquista dei diritti civili, legati al rispetto della dignità fondamentale del cittadino,
alla promozione dei diritti politici (diritto di voto, libertà di associazione…) sino a sviluppare i diritti sociali
tramite specifiche politiche pubbliche. I diritti, però, come dimostra l’avvento nel corso del Novecento di
esperienze dittatoriali, non sono mai conseguiti una volta per sempre. Nel tempo mutano anche la
rappresentazione collettiva dei diritti e le priorità sociali loro assegnate. È il caso della dilatazione della
domanda di salute e di qualità della vita nelle società tardo moderne oppure della tematizzazione
dell’ambiente come bene comune cui dedicare politiche di nuova generazione. I sociologi delle politiche
pubbliche distinguono così tra due principali tipi di diritti. Il primo comprende i cosiddetti entitlement: diritti
garantiti in relazione all’universale riconoscimento della dignità umana. Il secondo tipo ha per oggetto le
provision, intese come benefici collettivi conquistati attraverso lotte, vertenze e negoziazioni. Nel linguaggio
della politica e della pubblicistica contemporanee le politiche sociali vengono di solito associate al
cosiddetto Stato del benessere (welfare state). I regimi di welfare si sono andati diversificando e
caratterizzate nel tempo in base a precise configurazioni. Nel contesto europeo, assumendo a riferimento
l’UE, si possono identificare quattro tipi di stato sociale:

- il primo caratterizza i Paesi scandinavi e viene denominato modello universalistico


socialdemocratico. Lo Stato garantisce a tutti i cittadini un esteso sistema di protezione sociale,
finanziato attraverso un’elevata e fortemente progressiva imposizione fiscale;
- il secondo tipo interessa le Isole britanniche. In questi Paesi, caratterizzati dall’economia di mercato
a regolazione liberistica, vige un sistema meno generoso di tutele sociali con una presenza
concorrenziale del settore privato nell’offerta di servizi. Anche in questo modello liberista, tuttavia,
i settori giudicati socialmente strategici (istruzione, sanità) sono affidati all’amministrazione
pubblica, con uno scarso coinvolgimento delle parti sociali;
- nell’area dell’Europa centrale, a regime di welfare corporativo-continentale, convivono politiche di
concertazione tra governi e parti sociali e pratiche di autogestione di categoria in diversi settori,
principalmente la sanità. Lo stato sociale privilegia il cittadino lavoratore e hanno grande voce in
capitolo le organizzazioni sindacali e di categoria, che gestiscono servizi sociali su delega dello
Stato;
- nell’area meridionale, caratterizzata da un welfare familistico, le parti sociali hanno un ruolo
importante di contrattazione con lo Stato in diversi settori, ma non nella sanità. Le politiche di
sostegno consistono spesso in provvidenze e detrazioni fiscali in favore delle famiglie.

Questa classificazione è difficilmente estendibile ai dieci Paesi post-comunisti che hanno fatto ingresso
nell’UE tra il 2004 e il 2007. Si tratta infatti di un contesto storico- sociale che ha ereditato la tradizione
statalistica e dei vecchi regimi socialisti senza avere ancora sviluppato regimi di welfare e politiche sociali
paragonabili a quelle vigenti nell’area occidentale dell’Unione. I riferimenti al profilo sociologico dei sistemi
di welfare non sono estranei alla problematica sportiva. Già il sociologo Myrdal aveva prefigurato
l’inevitabile transizione dal welfare state, ovvero un regime di tutele monopolistico, a quella che preferiva
chiamare welfare society, ovvero un sistema di diritti e tutele in costante espansione e cangiante sotto il
profilo delle priorità e dei contenuti. In esso, a garantire e promuovere politiche e buone pratiche, non
avrebbe provveduto soltanto lo Stato, bensì la società stessa.

4. Comunicazione tra diversi, inclusione e solidarietà sociale

Nella prospettiva appena delineata entra potentemente in gioco il ruolo degli attori del terzo settore, del
volontariato e dell’azione civica, espressione di quel sistema di offerta organizzativa e di esperienze
culturali che è stato definito sport non-profit. Va evidenziato, inoltre, come proprio il diverso peso
attribuito ai movimenti e alle organizzazioni non-profit in seno al sistema sportivo nazionale e in un
rapporto autonomo con le strutture dello sport istituzione, risulti rappresentare un fattore decisivo nel
favorire la diffusione delle pratiche motorie. Una ricerca ha evidenziato una relazione fra i differenti tipi di
welfare, l’estensione delle reti di sport per tutti e il tasso di attività fra i cittadini dei Paesi UE:

- un tasso di attività fisica particolarmente elevato (>80%) caratterizza i Paesi scandinavi, in cui
operano agenzie pubbliche per lo sport per tutti e le competenze delle istituzioni olimpiche sono
chiaramente differenziate e circoscritte all’alto livello);
- il sistema britannico riconosce un ruolo centrale agli sponsor commerciali, ma anche alla rete
dell’associazionismo volontario. Pur in assenza di organi istituzionali deputati, i poteri pubblici
esercitano responsabilità di incentivazione e regolazione. Le responsabilità di indirizzo si esprimono
soprattutto nella promozione di campagne a tema rivolte alla diffusione delle pratiche motorie
come educazione a corretti stili di vita, alla socialità, all’inclusione delle minoranze. La quota di
cittadini attivi oscilla attorno al 70% inferiore a quella scandinava ma superiore a quella dell’Europa
continentale;
- l’esistenza di istituti governativi dedicati allo sport (Francia) o, viceversa, un forte ruolo assegnato
alle autonomie locali (Germania, Spagna, Belgio) non sembrano influire in modo tangibile sulla
diffusione delle attività. Non esiste insomma un effetto virtuoso del federalismo istituzionale, ma
esiste certamente un effetto negativo sul tasso d’attività complessivo di politiche fortemente
centralistiche, che prevalgono nella maggior parte dei Paesi dell’Europa meridionale;
- là ove una tradizione di sport di Stato (Paesi ex socialisti) e/o una delega dello Stato alle istituzioni
sportive (Italia, Grecia, Portogallo), le risorse pubbliche per il settore sono monopolizzate dallo
sport di alta prestazione a scapito della promozione della pratica e dell’attività di base.

Le ricerche citate, tutte svolte nella seconda decade del 2000, concordano nel suggerire la nascita di un
nuovo rapporto tra politica e sport in società sviluppate e attraversate da significativi mutamente delle
sensibilità culturali. Si potrebbe azzardare l’ipotesi che l’acclimatamento delle pratiche sportive e la loro
destinazione a finalità sociali condivise (la prevenzione sanitaria, l’educazione comportamentale, la
diffusione di stili di vita attivi, l’inclusione delle minoranze, di anziani e soggetti svantaggiati e altri possibili
casi di buone pratiche, chiami in causa diversi e combinati fattori strategici. Riguarda innanzitutto, il ruolo
delle politiche pubbliche di settore e di quelle che, pur non specificatamente dedicate alla diffusione delle
attività, se ne servono per finalità sociali. Nella transizione da un modello imperniato sul welfare state a uno
centrato sulla welfare society, le politiche pubbliche per lo sport e l’attività fisica risultano tuttavia più
efficaci, là dove vengano coinvolti portatori di interessi non esclusivamente riconducibili allo sport di
prestazione. Ciò chiama in causa un altro fattore: la valorizzazione della risorsa rappresentata dalle
associazioni. Non solo quelle sportive: il ricorso alla pratica motoria come strumento di sperimentazione
civica, di educazione ambientale e di solidarietà coinvolge un numero di potenziali attori assai più ampio di
quelli compresi nel tradizionale sistema sportivo. Il ruolo virtualmente assolto dallo sport di cittadinanza nei
contemporanei regimi di welfare, infine, rinvia a una concreta applicazione delle nozioni sociologiche di
capitale sociale e quello di cultura civica, cui occorre fare brevemente cenno.

La nozione di capitale sociale ha conosciuto sin dagli anni Settanta una certa fortuna nella letteratura delle
scienze sociali. La nozione non è peraltro priva di ambiguità. Il capitale sociale è considerato da alcuni autori
come un patrimonio morale e una riserva di opportunità a disposizione dell’intera comunità. Altri
ricercatori lo intendono invece come un bene collettivo, di cui i singoli attori si appropriano per trarne
benefici individuali. Per Putnam il capitale sociale va collocato in stretto rapporto con l’altra dimensione
cruciale della cultura civica. Invece Bordieu propone una declinazione del concetto nei termini della
valorizzazione del capitale umano. Coleman replica criticamente a Bordieu, ma ne riprende l’idea guida e
l’intuizione sociologica centrale. Fallk e Kilpatrick interpretano il capitale sociale come un bene relazionale
che permette lo sviluppo di comunità capaci di generare reti e di produrre benefici per l’intero corpo
sociale. In quanto interazione, lo sport, o meglio l’attività fisico-motoria che si ispira a stili di vita attivi,
costituirebbe un caso privilegiato di capitale sociale in quanto concorre al benessere e alla prevenzione
sanitaria. La declinazione offerta da Putnam è quella che ha riscosso maggiore interesse e che più
esplicitamente si lega all’esperienza sportiva. Putnam distingue infatti fra capitale sociale che produce
strategie di coesione e legami all’interno di una comunità (bonding) e capitale sociale che favorisce
relazioni tra gruppi diversi (bridging). Schematizzando, il capitale sociale di tipo bonding rende ragione del
valore dello sport come fenomeno di massa e riserva identitaria in rapporto alle ragioni di coesione interna
a una comunità (tifo per la nazionale o per il club calcistico della propria città). Il tipo bridging indica, invece,
la straordinaria opportunità che lo sport offre di mettere in relazione culture e sistemi sociali diversi. Da
osservare come la filosofia bridging implichi una torsione del significato rispetto alla classica cultura della
competizione. Al principio della selezione del talento si sostiene quella dell’inclusione che si rivolge a salute,
educazione, tutela ambientale, rispetto alle diversità. A un modello di attività, che vede l’atleta di
prestazione in funzione del risultato tecnico, oppone una sperimentazione del corpo che evoca
cooperazione e gratificazione immediata del praticante. Lo sport dei cittadini si propone come un bene
comune e, appunto, come un possibile nuovo diritto di cittadinanza, capace di gemmare buone pratiche a
servizio di una società solidale. Bisogna tuttavia sottrarsi alla tentazione di una rappresentazione manichea
dei sistemi sportivi contemporanei. Il tradizionale modello competitivo, la piramide dello sport istituzione,
rappresenta sicuramente una delle più interessanti esperienze sociali della modernità. Essa continua ad
animare la passione di milioni e milioni di donne e uomini, ad alimentare un imponente circuito economico
e a veicolare valori etici. Sebbene spesso contraddetti nella pratica (doping, violenza…), tali valori
conservano nella loro formulazione ideali significati morali e pedagogici meritevoli di essere preservati.
Viceversa il paradigma emergente dello sport di cittadinanza agisce su un territorio sociale composito. I
Paesi di welfare maturo hanno sin dagli anni Novanta inserito a pieno titolo la pratica amatoriale
nell’agenda dello Stato sociale. Il paradigma emergente dello sport per tutti agisce su un territorio molto
composito e la sua rappresentazione dal punto di vista sociale deve tener conto di tre aspetti:

- L’esperienza emergente dello sport dei cittadini si configura nella seconda decade del 2000 come
un movimento tendenzialmente autonomo dallo sport di performance e ancora bisognoso in alcuni
contesti di legittimazione sociale e istituzionale. È peraltro incontestabile che pure le attività non
competitive e le esperienze di sport a contenuto sociale sono spesso filiazione diretta di antiche o
recenti pratiche competitive, radicate in ambienti popolari. Una corretta descrizione sociologica dei
panorami sportivi nel tempo della globalizzazione non deve perciò accanirsi a riproporre
un’irriducibile contrapposizione di modelli eticamente contrassegnati. Deve piuttosto favorire una
visione pluralistica, in cui convivono legittimamente diverse culture e subculture delle attività;
- Anche l’associazionismo di cittadinanza o movimento grassroots non costituisce affatto un sistema
o sottosistema omogeneo. È anzi possibile distinguere tre distinti profili:
1. Il primo tipo è propriamente definibile come il tradizionale movimento di sport per tutti che si dà
come finalità prioritarie l’estensione delle pratiche e la democratizzazione del sistema, senza
inficiare il paradigma della prestazione e l’etica competitiva europea. Gli enti italiani di promozione
sportiva e buona parte delle associazioni di massa centro e nord europee appartengono a questa
categoria, che gode in non pochi casi di sostegno pubblico e di finanziamento diretto da parte degli
Stati.
2. Dallo sport per tutti ha avuto origine l’esperienza del vero e proprio associazionismo di
cittadinanza. Esso antepone alla logica del risultato finalità sociali, ispirate a una visione estensiva
del welfare europeo.
3. Non va dimenticato, infine, che la domanda di benessere, prevenzione sanitaria, relax ecc.
attraverso l’attività fisico-motoria ha dato impulso a una imponente offerta commerciale, anch’essa
a suo modo tendenzialmente a misura di ciascuno. La stessa rete associativa di sport per tutti ha
conosciuto una crescente contaminazione con il mercato. Si è così costituito un sistema di offerte
commerciale di dimensioni imponenti, come dimostra la proliferazione dei centri fitness e di
pratiche motorie di vario genere che si rivolgono ai tre sottotipi di attività del benessere: fitness,
wellness e health care.
- Le pratiche di fitness, wellness e health care, rigorosamente non competitive e ispirate alla
gratificazione immediata del praticante, sono ormai entrate a far parte di un sistema di offerta che
configura una coerente versione commerciale delle pratiche motorie a misura di ciascuno.

Le trasformazioni intervenute nell’arco di oltre un secolo nel sistema dello sport possono essere indagate
dalla ricerca sociale utilizzando una serie di possibili chiavi di lettura che, a loro volta, rinviano a importanti
contributi teorici. Per l’analisi dei movimenti di sport per tutti si è fatto cenno alle teorie del capitale sociale
(Bordieu, Coleman, Putnam), alla provocatoria analisi di De Knop sulla contestuale desportivizzazione dello
sport e sportivizzazione della società e, a più largo raggio, a quelle sociologie dell’azione collettiva che, a
partire dagli studi di Melucci e Touraine negli anni Ottanta, consentono di leggere anche l’associazionismo
sportivo come attore di una peculiare arena di conflitto. Se invece si sposta lo sguardo sul rapporto fra
pratica sociale dello sport e regimi di welfare occorre utilizzare le intuizioni di Marshall sulle trasformazioni
dei sistemi di cittadinanza in Europa. Bisogna però integrarli con la transizione dallo Stato sociale alla
Società del benessere di Myrdal e con la cultura civica di Putnam. Se invece ci si concentra sullo sviluppo di
un’offerta commerciale che ha saputo intercettare domande sociali e sensibilità culturali emergenti dal
post-materialismo, dalle stesse inclinazioni narcisistiche delle società affluenti di fine Novecento e,
viceversa, dall’idea di un’alternativa bodily democracy, occorrerà rifarsi alle teorie di autori come Lasch,
Inglehart ed Eichberg.

Per meglio comprendere la transizione fra i paradigmi individuati occorre tornare brevemente all’analisi del
capitale di Putnam. Più specificamente, alla ragione causale che spiegherebbe perché determinate
dinamiche producano effetti diversi in contesti nazionali o territoriali differenti. Putnam insiste
sull’importanza della cultura civica delle comunità, che, nel nostro caso, si mobilitano per favorire la
diffusione delle pratiche motorie. Nell’accezione originaria indicava l’insieme di sentimenti, valori e
atteggiamenti politici diffusi in una comunità e orientati ai principi di una democrazia della partecipazione.
Orientata al pluralismo, privilegiava il metodo del consenso e il rispetto delle diversità, rifiutando non solo
la violenza, ma anche qualsiasi forma di manipolazione dell’opinione pubblica. Priva di un preciso
contenuto ideologico, doveva secondo i ricercatori funzionalisti agire come un collante sociale capace di
collegare individuo e politica, difesa di interessi particolari e ragioni collettive. Il modello della cultura civica
può essere adottato in funzione di una rappresentazione schematica delle politiche sportive. L’esperienza
sportiva possiede una duplice valenza, razionale e simbolica, secondo le forme di socializzazione alle
pratiche motorie sviluppatesi nei diversi contesti. Nella figura, che delinea una tipologia delle pratiche
motorie in rapporto alla socializzazione politica prevalente, il quadrante 1 descrive un contesto di
socializzazione razionale promossa dalle istituzioni: è il caso dell’educazione motoria scolastica. Il quadrante
2 (origine spontanea entro un processo razionale) è quello che ospita le diverse metamorfosi dello sport di
cittadinanza. Nel terzo quadrante prevalgono elementi simbolici e origine spontanea: vi si possono
collocare tutte quelle esperienze che discendono da motivazioni ideali e da ispirazioni popolari, come nel
caso dello sport garibaldino. Infine, nel quadrante 4, si trova il caso esemplare dello sport di regime.

Conclusione

Nella modernità lo sport è stato gestito secondo sistemi di government, inteso come struttura formale che
produce decisioni secondo dinamiche verticistiche; nella tarda modernità si assiste invece al prevalere di
modelli fondati sul principio della governance, inteso come una pratica orientata alla coesione sociale e
assicurata da strumenti e procedure non soltanto e non necessariamente istituzionali. Non basta: in un
regime di governance opera una pluralità di attori organizzativi (multitaskeholder), portatori di interessi di
varia natura, la cui legittimazione deriva esclusivamente dalla capacità di intercettare e soddisfare bisogni
diffuse e domande emergenti.
5. Sport e ambiente sociale (A)
Nessuna analisi di un sistema organizzativo può prescindere dal contesto storico e dalla specifica arena
politica in cui l’oggetto di indagine si colloca. Nell’introdurre il tema delle organizzazioni sportive conviene
dunque prendere le mosse dall’esame di un concreto caso di studio. Esso è fornito da quel sistema dello
sport per tutti italiano che presenta caratteri marcatamente atipici rispetto al quadro internazionale.
L’esistenza di un forte tessuto di associazionismo volontario, che si è storicamente costituito nella forma
degli enti di promozione, e il monopolio delle attività fisiche e sportive esercitate dal CONI e dalle
federazioni agonistiche, costituiscono gli aspetti principali della anomalia italiana.

Un elemento peculiare del sistema sportivo italiano è rappresentato dalla presenza di un esteso
associazionismo di terzo settore che si identifica nel movimento di promozione sportiva. Questo sistema,
unico in Europa per numero di aderenti alle sedici reti organizzative riconosciute, è considerato una
filiazione del collateralismo politico e religioso nel secondo dopoguerra. In quegli anni, ripristinata la
democrazia e venuta meno la funzione di fiancheggiamento del regime fascista, svolta dall’imponente rete
sportiva o parasportiva, il sistema italiano delle attività sportive e fisiche conobbe una radicale
metamorfosi. Lo Stato democratico, quasi a rimarcare la distanza dall’uso politico che dello sport aveva
fatto il regime, si disimpegnò da qualsiasi responsabilità nel settore. Il CONI, di cui era stata prevista la
soppressione come ente fiancheggiatore del fascismo, fu mantenuto in vita per garantire una sponda
organizzativa alle società sportive e, tacitamente, un ruolo raccordo tra dirigenze olimpiche e sistema dei
partiti. Di fatto si assiste a una sostanziale delega al CONI da parte dei Governi e alla costituzione di un
sistema centrato sul primato e gli interessi dello sport di vertice. Prese così vita un sistema di supplenza
istituzionale e gestito direttamente dalle organizzazioni sociali di massa. Fra la fine degli anni Quaranta e la
fine degli anni Settanta quasi tutti i partiti, ma anche la Chiesa, Confindustria e varie organizzazioni di
interesse, laiche e religiose, diedero vita a organismi per l’incentivazione delle attività sportive amatoriali.
Questo esteso sottosistema viene rapidamente assumendo funzioni di supplenza rispetto a quei compiti di
incentivazione delle attività che erano esercitate negli altri Paesi da organi dello Stato, dal sistema
educativo o da agenzie specializzate. Si istituì anche un attivo regime di scambio politico tra il CONI e le
forze parlamentari, che, alla fine degli anni Settanta, ebbe come esito una specie di surrettizio
riconoscimento del ruolo sociale della promozione sportiva e la possibilità di ricevere una modesta frazione
dei finanziamenti derivanti dalle scommesse sportive. Una forma sui generis di sport per tutti trova così
anche in Italia parziale accoglienza nelle reti istituzionali. Con il trascorrere degli anni, gli enti di promozione
sportiva conobbero una massiccia crescita di tesserati e questo ebbe come effetto di rendere più evidente
l’anomalia del modello organizzativo dello sport italiano e la natura ambigua del movimento della
promozione sportiva. Esso rimaneva dipendente dal sistema olimpico, a sua volta oggetto degli appetiti di
un vorace ceto politico. Formalmente partner delle più avanzate organizzazioni europee dello sport di
cittadinanza, la promozione sportiva italiana riprodurrà un’offerta associativa ispirata più all’estensione
della pratica tradizionale (competitiva, interna al sistema amatoriale della prestazione e subalterna alla
filosofia organizzativa del CONI) che alla sperimentazione di un nuovo paradigma e di una qualità
dell’offerta davvero a misura di ciascuno, e non solo degli atleti di prestazione. Qualche fermento a favore
di un nuovo modello culturale, ispirato all’idea di sport come diritto di cittadinanza, si sarebbe avvertito fra
gli anni Novanta e Duemila. Nel 1990 era stata la Uisp a imboccare con più convinzione la strada della
emancipazione degli enti dalla subalternità al sistema della prestazione. Pur conservando il vecchio
acronimo, l’Associazione mutò il proprio nome in Unione italiana sport per tutti e fece proprio sul modello
scandinavo un programma per lo sport di cittadinanza che aveva a caposaldo il trinomio ambiente, diritti e
solidarietà. Sembrò così incrinarsi quella rappresentazione della promozione sportiva come semplice vivaio
di virtuali talenti per l’alto livello, cui l’associazionismo amatoriale era stato relegato in Italia
dall’indifferenza delle istituzioni e dall’egemonia del CONI sull’intero sistema delle attività. La tensione
indotta dalla rivolta della Uisp provocherà qualche lacerazione nel sistema della promozione sportiva e nei
suoi protettori politici. Per la prima volta, nell’Italia post-bellica, veniva sollevato la questione della
regolazione e della governance del sistema sportivo dal punto di vista dello sport di cittadinanza. Questa
stagione di mobilitazione animerà per un quinquennio, con alterne fortune, l’arena politica dello sport
amatoriale italiano. L’instabilità della scena politica, la divisione in seno agli enti di promozione, la
restrizione delle risorse pubbliche provocata dalla crisi finanziaria alla fine della prima decade del Duemila e
il prevedibile ostruzionismo delle dirigenze federali impediranno di ottenere più di qualche incremento dei
finanziamenti ai vecchi apparati della promozione sportiva e di qualche posto negli organigrammi federali
per i loro dirigenti. Eppure la filosofia dello sport per tutti come diritto di cittadinanza, proposto dalla Uisp,
continua a rappresentare un punto alto della riflessione sulle politiche per lo sport. Essa esprime una
virtuale e innovativa contaminazione fra i sottosistemi sociali e, al tempo stesso, un deciso
riposizionamento culturale e strategico dello sport per tutti italiano nel contesto internazionale. Una
rappresentazione culturale ispirata a quella cittadinanza attiva che lo sport per tutti rappresenta quasi
icasticamente, impone però di fare i conti con interpretazioni riduttive, approcci populistici e anacronistiche
subalternità. Per interpretazioni riduttive qui si intende l’equazione posta tra sport per tutti e sport sociale.
La partita del cuore, ad esempio, è sport spettacolo con finalità sociali, ma non ha niente a che fare con lo
sport per tutti, perché non mette in alcun modo in discussione la natura, la pratica, le modalità culturali,
tecniche e metodologiche dello sport di prestazione. Viceversa, lo sport per tutti non è per intero
riconducibile allo sport sociale. Il movimento dello sport per tutti interessa ambiti sociologici e modelli
culturali che possono essere orientati in senso individualistico, privatistico e persino narcisistico.

Dal punto di vista della ricerca sociologica è particolarmente importante concentrarsi sul sistema sportivo
come fenomeno organizzativo di vasto impatto sociale. A partire dagli anni Novanta l’associazionismo
sportivo è oggetto di speciale interesse da parte degli studiosi delle organizzazioni. Si tratta dell’effetto
inintenzionale sulla ricerca scientifica che hanno avuto le trasformazioni economiche e politiche seguite alla
fine della Guerra fredda, allo sviluppo della globalizzazione e alla transizione della vecchia economia delle
merci a un sistema basato sulla produzione dei beni immateriali. Tutte le principali teorie organizzative
prodotte dalla sociologia del Novecento, infatti, avevano assunto come idealtipi le due forme organizzative
affermatesi nella stagione della modernità industriale: il partito di massa (sistema organizzativo ispirato alla
razionalità orientata ai valori) e la fabbrica fordista (modello di organizzazione del lavoro applicato per la
prima volta da Henry Ford nella sua fabbrica di automobili che si caratterizza per la catena di montaggio e
per l’ingegneria della produzione). Questi modelli hanno costituito gli archetipi di tutte le forme di
strutturazione sociale della modernità occidentale. Entrambi, tuttavia, sono stati prima ridimensionati e poi
resi quasi del tutto inservibili dai processi di trasformazione dei beni, dalla rivoluzione delle tecnologie
comunicative e dalla stessa globalizzazione. Nasce da qui l’interesse dei ricercatori per l’associazionismo
dello sport come possibile modello alternativo. Il carattere del tutto volontario dell’agire sportivo lo
differenzia dal modello lavorativo e dal sistema di vincoli che vi presiede. Una costellazione di motivazioni
ispirate al principio individualistico (ma non particolaristico) della gratificazione del Sé ne fa un’esperienza
del tutto diversa da quella della militanza politica nel partito di massa. Si aggiunga a questo che il
paradigma organizzativo della società sportiva o del club presenta un’accentuata versatilità. Gruppi di
praticanti uniti dalla semplice e disinteressata passione per una determinata attività sportiva possono dar
vita nel tempo ad associazioni rette da imperativi e vincoli organizzativi più cogenti. La pratica sportiva
esprime anche una domanda di libertà che molto spesso elude le obbligazioni organizzative che derivano
dall’appartenenza a reti strutturate.
1. L’organizzazione sportiva come ambiente interno

Qualsiasi forma di partecipazione all’attività di un gruppo più o meno organizzato, come nel caso
dell’associazionismo sportivo, influenza la percezione della nostra individualità. Muovendo da questo
assunto Charles Cooley aveva promosso lo studio scientifico dei gruppi, ispirandosi al concetto del looking
glass self. Con questa espressione la psicologia sociale definiva il Sé riflesso, inteso come quella
rappresentazione dell’Io che si vuole comunicare ogni volta che si entra in contatto con gli altri, o che ci si fa
coinvolgere in una relazione di gruppo. Il Sé riflesso è un elemento importante nell’esperienza sportiva,
perché l’attività di gruppo condensa come poche altre una serie di altri significativi. Per il praticante
costituiscono altri significativi il campione ammirato, il tecnico che presiede alla preparazione, il compagno
di squadra che eccelle, i tifosi che militano nella stessa curva, o i migliori tra gli avversari. Il rapporto con
ciascuna di queste figure è retto da regole del gioco, da ruoli e dinamiche relazionali che concorrono a unna
duplice funzione: modellare l’identità personale e definire l’identità collettiva del gruppo. Per alcuni aspetti
importanti tutte queste reti relazionali richiamano processi della vita quotidiana in maniera più diretta e
significativa, di quanto non avvenga per altre esperienze associative di tipo lavorativo, politico o sociale. La
partecipazione sportiva genera inevitabilmente, nell’atleta come nel tifoso, appartenenze emotivamente
dense, calde e coinvolgenti. Implica la produzione di un sistema di lealtà che di solito non prevede
contropartite materiali, bensì incentivi di tipo simbolico. L’esperienza del collaborare e del competere, della
vittoria e della sconfitta, l’elaborazione razionale del successo e della delusione costituiscono metafore
efficaci della vita sociale. Qualche decennio più tardi, George Herbert Mead perfezionò l’approccio di
Cooley introducendo nell’analisi delle condotte individuali in seno a un’organizzazione la distinzione tra
quella che chiamò la sfera dell’Io (vale a dire il Sé identitario, incline all’azione e alla creazione) e la sfera del
Me. L’Io che si produce entro un gioco di ruoli disegnato dall’organizzazione è perfettamente esemplificato
da una squadra sportiva. In essa convivono ruoli formali specializzati (allenatore, dirigente, preparatore…),
ruoli semiformali, come quelli ispirati alle mutevoli tattiche e strategie di gioco, e ruoli del tutto informali
(tifosi). Per Mead la necessità di agire entro una simile rete di ruoli e funzioni può rendere l’Io dinamico, ma
anche vulnerabile. Un’organizzazione sportiva deve fare spesso i conti con fattori che riguardano il capitale
umano e la sua valorizzazione, per esempio contrastando l’inclinazione al narcisismo, l’incapacità di
cooperare, i sentimenti di inadeguatezza o forme di esasperata rivalità. Diverso è il profilo del Me che si
produce in seno a un’esperienza sportiva. Esso si sviluppa più lentamente dell’Io, è per definizione riflessivo
o riflettente. È oggetto più che soggetto del gioco organizzativo che si produce nella vita quotidiana, ma
risulta decisivo nell’assunzione dei ruoli. Questa dinamica ha origine nella prima infanzia (il bambino
giocando identifica sé stesso in personaggi reali o fantastici) e concorre a comporre una elaborata
costellazione di ruoli e di aspettative: ciò che gli altri si attendono da me. In questo modo si sviluppano le
esperienze sociali, e fra queste, in modo tipico, quella sportiva. Agli occhi di Charles Wright Mills lo sport
rappresenta un caso unico di fusione di due opposti modelli etico-comportamentali: quello della work
morality (la filosofia industrialistica del lavoro, della produttività, della gestione strumentale delle attività) e
quello della fun morality, intesa come lucidità espressiva e pratica del gioco che allude a più complesse
relazioni sociali. Il Sè è del resto multiplo per definizione. Questa sua molteplicità permette di assumere
un’infinità di ruoli sociali che, a loro volta, trasmettono la percezione di essere situati rispetto agli altri
significativi: i nostri avversari, i compagni di squadra, le persone che condividono le nostre esperienze
relazionali in seno a un’associazione sportiva. Le considerazioni elencate introducono una considerazione
importante ai fini del presente ragionamento. Quando ci si occupa di organizzazioni sportive non sono
sufficienti rappresentazioni morfologiche che si limitino a disegnare un profilo puramente strutturale
dell’organizzazione. In questo modo, ricostruendo organigrammi, diagrammi di flusso o forme gestionali si
descrive ma non si spiega un modello organizzativo. Si può al massimo rappresentare come è fatta e cosa
faccia un’organizzazione, non cosa sia. Solo l’analisi delle relazioni sociali, così ricche, dinamiche e fluide
nell’esperienza sportiva, consente di indagare le rappresentazioni mentali, le interpretazioni dei ruoli
assegnati e le aspettative che il praticante, il dirigente o il tifoso collegano al loro soddisfacimento.

Fra la metà e la fine degli anni Novanta la ricerca di nuovi approcci concettuali e metodologici all’analisi
delle organizzazioni va di pari passo con la produzione dei primi contributi teorici specificatamente dedicati
alle organizzazioni sportive. Ferrante e Zan propongono rappresentazioni suggestive ed elaborate dei
modelli e insieme si sforzano di fornire una chiave di lettura semplificata, che si concentra su tre caratteri
costitutivi di ogni organizzazione:

- Essere il prodotto di un’azione umana consapevole;


- Rivolgersi a un pubblico o a un’utenza, dando forma a un mercato;
- Possedere una struttura che consenta la continuità nel tempo dell’azione collettiva.

Quanto al primo aspetto, il prodotto caratterizza ciò che l’organizzazione sa fare, ciò che essa immette nel
circuito economico o nel sistema sociale. I suoi prodotti non sono necessariamente ed esclusivamente beni
commerciali cui venga conferito un valore economico convenzionale, secondo il modello proprio
dell’economia. Anche promuovere identità, valori, sentimenti di appartenenza a una comunità, apparati
simbolici significa generare una forma di prodotto organizzativo, il cui valore nel nostro caso è dato
principalmente dalle emozioni che riesce a mobilitare. Per questo è interessante associare una
rappresentazione simbolico-culturale all’esperienza sportiva. Senza dimenticare che un grande club
calcistico, ad esempio, può agire secondo una doppia razionalità. Come un attore economico tradizionale
essa vende o negozia diritti televisivi, merchandising, gadget, titoli azionari. Come produttore di beni
simbolici immateriali, il club sportivo mette in circuito emozioni, identità, sentimenti comunitari,
fidelizzazione delle tifoserie. In quanto creatrice di un mercato di tifosi, praticanti, utenti o veri e propri
clienti, un’organizzazione sportiva fornisce un altro esempio calzante all’applicazione del modello. Esso
riguarda la capacità di offrire un prodotto che differenzia i propri pubblici e dà vita a mercati di vario genere
(pay tv o pay per view, tifosi...). Infine, si soffermano sulla struttura dell’organizzazione che permette di
raggiungere i risultati che garantiscono la sopravvivenza dell’associazione o organizzazione stessa. La
struttura varia a secondo della tipologia e della finalità (federazione -> vincere medaglie olimpiche,
garantire elevati standard qualitativi dei propri atleti dotandosi di tecnici di qualità; club professionistico ->
produrre profitti anche potenziando l’efficacia della struttura manageriale…).

Nel 1997, a firma di Trevor Slack, venne pubblicato il più sistematico lavoro di sociologia delle
organizzazioni sportive. Slack sviluppa una comparazione fra cinque modelli principali, che dovrebbero
segnalare l’efficienza organizzativa delle esperienze selezionate. I modelli sono:

- Il modello del raggiungimento degli obiettivi, secondo il quale un’organizzazione è efficace se


raggiunge gli obiettivi prefissati;
- Il modello delle risorse sistemiche, per il quale è fondamentale la capacità dell’organizzazione di
accedere alle risorse di cui ha bisogno;
- Il modello del processo interno, che privilegia l’analisi di come un’organizzazione metta sotto
controllo stress e tensioni interne all’ambiente in cui opera;
- Il modello delle circoscrizioni strategiche, per il quale è fondamentale l’analisi degli attori che
esercitano influenza sull’organizzazione e che posseggono l’autorità per giudicarne i rendimenti;
- Il modello dei valori in competizione, in base al quale l’essenziale è far coincidere i risultati con le
finalità consapevolmente perseguite.
Muovendo da questa analisi, Slack si cimenta con le principali teorie aziendali e con i contributi più
accreditati emersi in sociologia delle organizzazioni degli anni Settanta in poi. Un’attenzione particolare è
dedicata al modello proposto da Mintzberg, che aveva proposto la fortunata distinzione fra tecno- e socio-
struttura; essa offre una spiegazione delle dinamiche organizzative proprie dello sport, in cui soci, quasi
sempre motivati da azione volontaria (socio-struttura), si confrontano quotidianamente con un sistema
gestito da specialisti e sempre più orientato alla professionalizzazione (tecno-struttura), come nel caso
esemplare dello sport spettacolo. L’analisi di Mintzberg conduce a distinguere cinque disegni organizzativi:

- Associazione a struttura semplice  come una società amatoriale, presenterà bassi livelli di
complessità (intesa come elevata articolazione di ruoli e differenziazione di funzioni) sia orizzontale,
sia verticale. Sarà solitamente poco formalizzata nelle procedure e nelle mansioni, ma molto
centralizzata. Farà uno scarso ricorso alle tecnologie, avrà dimensioni modeste e si muoverà in un
contesto ambientale relativamente semplice ma altamente mutevole. Le strategie d’azione saranno
intuitive e opportunistiche, cioè raramente fondate su una preventiva elaborazione;
- Macchina burocratica  presenta alti livelli di complessità, di formalizzazione e di centralizzazione,
dimensioni più grandi e un ricorso più ampio a tecnologie quasi sempre poco sofisticate;
- Management professionale  come una federazione sportiva presenterà un profilo tipologico
ancora diverso, che converge però sul primato assegnato al ruolo nevralgico degli operatori
professionali;
- Management divisionale  prevede un network di attori organizzati coordinati da un centro, che
sviluppa linee di comando e strategie di azione differenziate a seconda dei mercati cui si indirizza;
- Modello ad hoc  il più fluido, meno strutturato e il più prossimo a un sistema a rete. Tale, cioè,
da configurare un campo organizzativo finalizzato a un esclusivo obiettivo e in cui operano solo
strutture utili al suo conseguimento. Queste strutture sono reversibili e destinate a essere
cancellate una volta esaurito il loro compito.

Questi approcci presentano almeno due aspetti critici molto rilevanti. Il primo riguarda la capacità da parte
dei ricercatori di operazionalizzare i dati: come definire e, se possibile, misurare l’incidenza delle variabili
che concorrono a definire l’organizzazione e a valutare il suo prodotto? Il secondo concerne la rilevanza da
assegnare al rapporto tra l’organizzazione e il suo ambiente. Slack propone una rappresentazione a due
stadi dell’ambiente organizzativo, e usa la forma grafica dei cerchi concentrici: quello esterno è chiamato
ambiente generale ed è comune a tutte le forme organizzative che operano in un determinato contesto
temporale e territoriale. L’ambiente generale descritto si compone di sette elementi: politico, demografico,
economico, socio-culturale, legale, ecologico e tecnologico. Comprende insomma tutte le variabili
significative che possono spiegare le possibili fenomenologie e i cicli di vita di un’organizzazione. Slack invita
però a concentrare l’attenzione soprattutto sull’ambiente interno, in cui si sviluppa l’azione orientata agli
obiettivi propri di una organizzazione sportiva. Esso è per definizione unico e peculiare, è descritto dal
cerchio interno e si compone di cinque attori organizzativi o portatori di interesse:

- I gruppi di atleti in attività;


- I loro avversari;
- Il circuito di eventi;
- I fornitori di servizi o procacciatori di risorse;
- Le agenzie pubbliche che possono promuovere o disincentivare le attività sportive.

quanto all’operazionalizzazione delle informazioni, Slack se ne era occupato in occasione di una pioneristica
ricerca sul campo, dedicata al caso nazionale canadese. La figura illustra la procedura di analisi adottata dai
tre studiosi (Kikulis, Slack, Hinings) in rapporto alle due dimensioni giudicate cruciali nel ricostruire la
radicale metamorfosi conosciuta dal sistema sportivo canadese a partire da un grande evento sportivo: le
Olimpiadi di Montreal nel 1976. L’organizzazione di un mega evento come le Olimpiadi costituisce una
classica pressione esogena, cioè un impulso massiccio proveniente dall’esterno del sistema specifico (in
questo caso lo sport amatoriale canadese dei primi anni Settanta) capace di indurre in esso mutamenti
profondi. La prima riguarda l’appartenenza associativa (constituency), cioè l’insieme dei soci. La loro
composizione e le loro competenze mutano in rapporto a esigenze orientate alla specializzazione, che
produce differenziazione di ruoli e delle mansioni, alla standardizzazione, che sollecita al contrario regole e
procedure sempre più uniformi e rispondenti a protocolli, e alla centralizzazione, che esige una crescente
concentrazione di decisioni e responsabilità. Un altro caposaldo dell’analisi di Slack e collaboratori concerne
i valori dell’associazione sportiva. I ricercatori ne individuano quattro:

- L’orientamento dominante -> condiziona le esperienze di cooperazione e le strategie di


finanziamento;
- Il tipo di attività praticate -> riguarda i servizi ai soci e l’offerta commerciale e richiede una
misurazione della quantità e una valutazione della qualità delle prestazioni erogate;
- I principi sociali -> ispirano una maggiore o minore propensione alla cooperazione, all’osservanza di
gerarchie e allo sviluppo di una struttura propriamente professionale;
- I criteri adottati per valutare l’efficacia dell’offerta associativa.

2. L’organizzazione sportiva crea l’ambiente esterno?

Non è casuale che i principali contributi a una nascente sociologia delle organizzazioni sportive vengano da
lavori che risalgono agli anni Novanta. È quello infatti il periodo in cui, per effetto dei profondi cambiamenti
sociali a livello globale cui si è fatto cenno, si rende evidente il declino della capacità esplicative delle teorie
tradizionali. È anche la stagione intellettuale in cui nuove scuole di pensiero sfidano il primato della
sociologia struttural-funzionalista nordamericana. Stefano Zan ha riassunto i tratti salienti dei due principali
approcci all’analisi organizzativa, che si fronteggiavano in quella stagione.

Ogni organizzazione cessa di essere considerata come un fenomeno semplice (la simple structure di Slack)
e, soprattutto, viene meno il postulato secondo cui un’organizzazione è essenzialmente uno strumento per
produrre risultati perseguiti in forma di strategia intenzionale. Questa visione cede il passo a una
rappresentazione problematica, in cui agiscono logiche diverse e persino conflittuali (multirazionali), che
disegnano ciò che sopra si è chiamato arena politica. Essa non dipende più dall’ambiente in cui opera, bensì
concorre a costruire il proprio ambiente organizzativo. Per fare l’esempio più vistoso, proprio la crescente
salienza economica, la capacità di esercitare influenza politica e la visibilità di una società internazionale di
sport-spettacolo dimostrano che un attore organizzativo forte può costruire un proprio ambiente. Un club
professionistico di élite possiede canali televisivi, gestisce imprese che ne commercializzano il prodotto, è
proprietario di impianti sportivi di grande impatto urbanistico e valore economico. Non da ultimo, il club ha
la possibilità di sfruttare la propria icona come un brand, un marchio spendibile nel mercato del consenso
elettorale o della negoziazione politica. L’intuizione è che pure gli strumenti euristici della ricerca sociale
vanno orientati a comprendere i processi e non solo a descrivere le strutture funzionali. La memoria storica
della società è giudicata assai più importante per individuare le sue dinamiche di azioni presenti e future, di
quanto non sia l’algida e minuziosa ricostruzione di organigrammi, assetti di management e programmi più
o meno attendibili.

Ogni narrazione sportiva presenta passaggi ricorrenti, riepilogati nella figura.

Il primo è la fondazione, che non necessariamente coincide con l’atto legale di costituzione di una società o
di un club. Essa fissa piuttosto nella memoria associativa il momento in cui i fondatori (pionieri) individuano
la loro missione. Ogni missione prevede dunque finalità, ma un’organizzazione non necessariamente si
costituisce per raggiungere uno specifico obiettivo. Quello che autorizza a parlare di fondazione è invece
l’impegno rivolto a tessere relazioni sociali, a condividere valori e ad elaborare simboli capaci di mobilitare
emozioni. Questi elementi disegnano l’ambiente dell’organizzazione. La sua capacità di raggiungere
determinate finalità concorre piuttosto a fornire legittimità e continuità all’esperienza associativa.
Contribuisce anche a produrre quella che è stata chiamata mappa delle congruenze, cioè la coerenza che
l’appartenenza associativa impone ai singoli membri in rapporto al rispetto dei ruoli e delle logiche d’azione
e ai valori cui l’organizzazione si ispira. Nel caso di un’organizzazione sportiva viene spontaneo riferirsi
all’etica del fair play e della corretta competizione. Se questa viene violata (doping, manipolazione…) si
incrina il vincolo di solidarietà, e quindi le congruenze, che regolano i rapporti associativi. Il mito di
fondazione costituisce una sorte di epopea in cui compaiono eroi, pionieri e persino figure di dubbia
attendibilità storica. Essi però concorrono sempre a radicare l’esperienza associativa in un territorio fisico
(città, impianto sportivo), sociale (gruppo di riferimento, come la classe operaia per le vecchie tifoserie
calcistiche britanniche), culturale (identità condivisa) e simbolico (un corredo espressamente distintivo). I
fondatori localizzano anche un territorio propriamente organizzativo (sport di squadra o individuale,
professionisti o amatoriali, adesione a federazione o fai da te). Dopo la fase di fondazione, si analizzerà
quella della istituzionalizzazione. Essa riguarda tutte quelle esperienze organizzative che, in un determinato
momento della loro storia, decidono di aderire a una rete organizzata, assumendone regole e vincoli in
cambio di benefici attesi. È il caso di una società sportiva amatoriale che sceglie di affiliarsi a una
federazione o a un ente di promozione, potendo così inserirsi nei loro calendari competitivi e avvalersi delle
altre opportunità offerte dall’adesione alla rete. A differenza dei generici impieghi del tempo libero
individuale, la pratica sportiva promuove strutturazioni di tipo istituzionale, che Selznick ha definito come il
punto di incontro fra libera iniziativa di soci accomunati da una passione condivisa e assunzione di regole
del gioco. In questo senso, egli definiva l’istituzionalizzazione come “incorporazione di valori”. L’adesione a
una rete federale di specialità prevede condivisione di responsabilità e di criteri per la ripartizione delle
risorse all’interno di un sistema a piramide (government). I soci eleggono dirigenti locali che a loro volta
concorrono a esprimi i vertici territoriali, nazionali e internazionali delle federazioni di specialità, come nel
modello olimpico. Se un’attività mira invece a coinvolgere più portatori di interesse (stakeholder) – come
nel caso di un programma di sport in ambiente naturale che abbia anche finalità turistiche, commerciali
oppure intenti solidaristici – si svilupperà quella che si è prima definita una rete di governance. In questo
caso la società potrà meglio operare come una rete semistrutturata o a legame debole, anziché attivare,
come la piramide, linee di comando rigide e verticali di tipo top-down. Di interesse particolare per i
sociologi è il caso del cambio di paradigma. Si ha il cambio di paradigma quando un’attività modifica i
propri tratti costitutivi (es. windsurf, scherma). Il cambiamento può avvenire:

- Per dinamiche incrementali o per discontinuità -> una società amatoriale che, grazie a successi
competitivi, viene progressivamente indotta a mutare forma associativa, trasformandosi in un club
professionistico, sperimenta un processo incrementale di cambio del paradigma. Viceversa, se una
società viene inglobata da un centro fitness commerciale con finalità incompatibili o comunque
diverse rispetto a quelle originali, si assiste a una forma di chiara discontinuità;
- Per pressioni esogene o endogene -> l’esempio dei circoli amatoriali canadesi, che si trasformano in
strutture specializzate per effetto degli incentivi previsti dal programma olimpico di Montreal 1976,
rinvia a una pressione esogena (in questo caso proveniente dalle politiche dello Stato) che produce
cambio di paradigma. Una squadra di calcio che muti il proprio regime societario per valorizzare il
vivaio manifesta invece una dinamica endogena, stimolata da ragioni interne;
- Per innovazione di processo o prodotto -> l’innovazione tecnica e metodologica nelle pratiche di
allenamento riguarda il processo. L’introduzione del tie break per rendere più spettacolari e meglio
commerciabili nel circuito televisivo alcuni sport costituisce invece un’innovazione di prodotto.

Il mutamento può avvenire anche in riferimento a due aspetti:

- Vincoli sistemici -> sono imposti dalla costituzione associativa (una società amatoriale che gode di
qualche sostegno pubblico non potrà svolgere attività lucrative) e dalle norme che regolano i
sistemi: una federazione olimpica dovrà rispondere all’ente di riferimento dei propri bilanci;
- Dinamiche di stabilità o instabilità -> la stabilità della coalizione potrà essere minacciata da eventi
che si sviluppano in uno o più sistemi di riferimento. Le risorse attivate dagli attori organizzativi, che
si coalizzano secondo i principi propri dell’arena politica e i vincoli imposti dal sottosistema di
riferimento, costituiscono parametri relativamente stabili che possono però essere messi in
tensione da mutamenti che intervengono negli ambienti esterni. Nel caso italiano, ad esempio, il
riconoscimento delle società non-profit come enti di promozione sociale e il parziale finanziamento
pubblico dei loro programmi in quanto enti di promozione sportiva, costituiscono una forma di
stabilizzazione entro la coalizione.

Si può a questo punto abbozzare uno schema sintetico per l’analisi delle storie organizzative. Si possono
isolare dieci elementi cardine che compongono una possibile griglia di lavoro:

- Periodizzazione temporale;
- Individuazione attori significativi;
- Finalità dichiarate;
- Strategie e dinamiche di coalizione;
- Coerenza dei sottosistemi;
- Modelli culturali e produzione di identità;
- Caratteri dell’arena politica;
- Struttura organizzativa;
- Logiche di apprendimento organizzativo multi-razionale;
- Procedure di produzione di decisioni.

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