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RIASSUNTI “RELIGIONE E POLITICA”

Cap. 1 - La polemica controrivoluzionaria del Principe di Canosa

I pensatori politici controrivoluzionari cercavano nella Chiesa cattolica i più validi e


concreti strumenti per istituire un saldo sistema di sicurezza e di stabilità da imporre
alla società. Il napoletano “​Principe di Canosa​” riteneva fondamentale l’alleanza tra
Chiesa e Altare, in quanto vedeva nella Chiesa e nelle sue istituzioni, la struttura di
base su cui rifondare quei principi sociali e morali che ormai gli parevano persi.
Canosa era solito atteggiarsi a paladino della cristianità secondo modelli che
potremmo definire medievali; infatti appariva spesso disposto ad incrociare le armi
contro chiunque osasse offendere i fondamenti della fede cattolica, riteneva di aver
ricevuto il compito di intraprendere questa missione dall’autorità divina. “L’uomo è
nato soldato e deve combattere contro i nemici di Dio e della sua legge”. Lo
strumento per la realizzazione di un progetto politico inteso a combattere qualsiasi
istanza rivoluzionaria veniva individuato dal Canosa nella Chiesa cattolica che
costituiva ancora un mezzo imprescindibile per mantenere il popolo nell'obbedienza.
Riteneva che la Chiesa deve essere indipendente dalla politica. Il credere diveniva in
questo modo una imposizione autoritaria, e un governo autoritario poteva allora
risultare un necessario rimedio alla miscredenza insinuatasi nella società.

La Spagna appariva al Principe di Canosa come il modello di Stato ideale perché


poco ricettivo ad ogni influsso della filosofia e della cultura moderna, ma anche
perché il fondamento cattolico della vita sociale non subiva limiti e condizionamenti
dalle istituzioni statali. Il Canosa apprezzava della cultura iberica quella tradizione
che s’impersonava nel mito di Filippo II, perfetto principe cattolico per la sua rigorosa
applicazione dell’autoritarismo politico-religioso. Ormai in Europa c’era un diffondersi
della miscredenza e del materialismo, sfociata poi nella Rivoluzione Francese, e il
Canosa lodava il sovrano spagnolo per aver preservato il Paese dal contagio
riformatore.

Il Canosa confidava in un sempre e più diretto intervento della Chiesa nelle questioni
pratiche della politica ma soprattutto nelle funzioni sociali: quella educativa ed
istruttiva in primis. Questo compito veniva inteso dal Canosa come uno strumento
fondamentale di controllo sulla collettività, e afferma che la religione fosse l’unica
possibilità in grado di correggere la naturale tendenza dell’umanità nel regredire
delle barbarie. Ogni passaggio del graduale procedere dell’umanità verso la civiltà
era merito del pontefice. Riguardo al tema dell’educazione popolare il Canosa
criticava la scuola laica perché “arbitraria e illegale”. Ancora più accanita la sua
critica contro le Università, specie quella di Bologna, perché “l’Ateneo è il principale
club rivoluzionario legale e fonte di perversioni politiche”, e visto che la circolazione
delle idee risultava pericolosa, il Canosa era favorevole ad una educazione svolta

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dalle autorità ecclesiastiche. Questi effetti risultavano indirizzati a fare
dell’organizzazione religiosa una istituzione finalizzata a conseguire i risultati di
conservazione rispetto ad eventuali svolte progressive. Ciò che spinse il Canosa a
farsi salde credenze religiose fu un grande evento politico: la Rivoluzione Francese.

Da parte sua il Canosa fu cosciente che la sua vita non fu quella di un buon
cristiano. ​Riteneva che la religione aveva il compito di rifondare le monarchie
legittime, ma le monarchie per conservarsi dovevano a loro volta affidarsi ad
un’unica religione e ad un’unica Chiesa, poiché sia il papato che le monarchie
risultavano le sole istituzioni che riunissero in sé le premesse per una ordinata
società: autorità, continuità, unità.

Cap. 2 - Melchiorre Gioia

In seguito alle gloriose tre giornate del luglio 1830 che avevano portato sul trono
Filippo d’Orleans, si era aperto tra i rifugiati italiani un acceso confronto sulle sorti
future dell’Italia. Teatro della discussione fu la Giunta liberatrice italiana, istituita agli
inizi del 1831 con il proposito di dirimere i dissensi ideologici tra i diversi orientamenti
dell’emigrazione politica d’oltrealpe. L’ipotesi era federalista, nettamente
preponderante rispetto alla soluzione unitaria. Il ritorno nella capitale transalpina di
Buonarroti e la pubblicazione dei suoi ​Riflessi sul governo federativo applicato
all’Italia​ in cui si era schierato a favore di una repubblica con un governo unitario e
centrale, aveva dato un nuovo impulso ai sostenitori del programma unitario, che
sarà promosso anche dalla ​Giovine Italia​ di Mazzini.
Mazzini definirà Gioia “l’un solo degli scrittori politici italiani ad essersi schierato a
favore dell’unità politica”. Una valutazione errata perché la dissertazione gioiana fu
promossa la sua diffusione dai rivoluzionari dei moti divampati nei ducati padani e
nelle legazioni pontificie degli anni Trenta, con lo scopo di “eccitare in tutti gli animi
degli Italiani l’odio più accanito contro i sovrani legittimi”.

Gioia “pretende” di dimostrare che la repubblica una e indivisibile costituisca la forma


di governo più adatta alle condizioni dell’Italia e alla fine incita alla rivolta contro le
legittime monarchie.
Da un lato Gioia aveva accolto il principio rousseauiano della sovranità del popolare
quale perno di un regime democratico, dall’altro però si era mostrato dubbioso sulle
capacità politiche del popolo, quindi la forma di governo caldeggiata da Gioia si
discostava dalla democrazia “assoluta” teorizzata da Rousseau.

Le idee religiose di Gioia, come afferma il Consultore, istiga nei giovani il disprezzo
nei confronti del Papato presentato come corrotto e tirannico. Una relazione severa
ma che rispecchia fedelmente il contenuto della ​Dissertazione​ nella quale spicca una
dura requisitoria nei confronti della Chiesa di Roma, criticata per aver fomentato

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guerre e per appoggiato l’azione repressiva dei governi contro le aspirazioni
liberatorie dei popoli. Ma i contrasti tra Gioia e le autorità ecclesiastiche avevano
radici lontane quando lui criticò il Vaticano, accusato di essersi unito alla causa
monarchica.
Uno dei primi scritti ad essere sottoposti all’azione censoria fu ​La Teoria civile e
penale del divorzio ​che rianimò il dibattito sul diritto di famiglia e sul divorzio. Gioia
sosteneva che il bisogno di piaceri fisici e morali costituisce una costante nella vita
dell’uomo e il divorzio genere una maggior somma di piaceri e minor somma di
dolori. Infatti la sola libertà di divorziare genera effetti positivi sulla coppia in quanto
ravviverebbe l’amore. La pubblicazione di quest testo scatenò le ire dei vertici
governativi ed ecclesiastici, e l’Autore fu sollevato dall’incarico di storiografo della
Repubblica.

Nel saggio sulle ​Idee sulle opinioni religiose e sul clero cattolico​ Gioia aderisce al
filone del cattolicesimo democratico, composto da patrioti che ritenevano il regime
democratico quello più conforme ai valori del Vangelo e l’unico in grado di favorire
una rigenerazione spirituale della Chiesa romana. Infatti la Chiesa fu criticata perché
nel corso dei secoli si era discosta dalla dottrina cattolica per unirsi alla causa
monarchica, “contraria al Vangelo”.

Il ​Nuovo​ ​Galateo​ si presenta, invece, come un’opera prettamente politica che si


riallaccia alla pubblicistica comportamentale. La società d’inizio Ottocento, che si
stava definendo dalle ceneri dell’Antico Regime, richiedeva che il nuovo attore
sociale fosse un individuo pratico, in grado di affermarsi attraverso il lavoro e dotato
di un comportamento idoneo a seconda delle diverse specificità di “uomo privato”,
“uomo cittadino” e “uomo di mondo”. La moda invece per Gioia era un elemento
naturale legato al bisogno dell’uomo di novità.

Nonostante le condanne dei Consultori, che non gli perdonarono il fatto di aver
abbandonato l’abito talare, Gioia sostenne sempre che le sue idee religiose fossero
conformi all’insegnamento di Cristo.

Cap. 3 - Leopardi

Il necrologio per Leopardi su “Il Progresso”, firmato da Antonio Ranieri, annuncia


l’ultima opera di Leopardi: “​I Paralipomeni della Batracomiomachia di Omero​”.
I Paralipomeni (letteralmente “cose tralasciate”) sono pensati da Leopardi come
integrazione del racconto antico, attraverso il quale riferirsi alle vicende della
rivoluzione napoleonica 1820-21, con un libro che viene giudicato “​terribile”​ : i topi
sono i liberali, le rane i conservatori e i grandi Austriaci. Dietro la favola si cela
l’amarezza per i tentativi infruttuosi d’unità degli Italiani.

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Leopardi considera il cristianesimo un “lugubre sudario” perché determina il trionfo
dell’astrazione sul concreto.
A Leopardi viene attribuito un ruolo centrale nel progetto giobertiano, perché esso
viene a costituire la guida intellettuale degli Italiani, ai quali il Poeta si era rivolto
invitandoli a prendersi cura della patria. Leopardi fu accusato di non essere coerente
con le sue idee, ma Gioberti scrive che proprio l’opera dei Paralipomeni è la prova
più fedele della coerenza leopardiana: è un testo nel quale derise i tentativi politici e i
sogni degli Italiani con un’amara ironia.

Leopardi dedica un’opera a Machiavelli e lo esorta come “guida di quelli moderni”.

Ranieri conosce Leopardi nel 1828, quando già era stato segnalato dalla polizia
borbonica. Nel 1839 viene affidato il compito ai funzionari di polizia di effettuare il
sequestro dei Paralipomeni. L’opera era nelle mani di Ranieri, allora il Cancelliere
austriaco ordina di rintracciarlo per evitare che il testo venga diffuso tra i
rivoluzionari.

Nell’anno della morte di Leopardi (1837), Mazzini si trova a Londra, dove pubblica un
articolo in cui spiega che nella letteratura italiana del tempo possono individuarsi due
scuole, una manzoniana e una foscoliana. Leopardi rientra nel terzo gruppo detto
“setta senza nome”. Sia in Italia sia tra i connazionali all’estero, Leopardi doveva
subire la condanna del partito rivoluzionario per la sua filosofia pessimistica che non
lasciava spazi di fiducia.
La distanza tra i due intellettuali è marcata dalla visione del passato; per Mazzini il
rivolgersi al passato rappresenta una decadenza istituzionale e civile, senza
prospettiva; invece per Leopardi il rapporto con il passato è un aspetto
fondamentale.
Mazzini, scrive Herzen, ce l’aveva con Leopardi perché “non poteva utilizzarlo per la
propaganda” e perché non aveva partecipato alla rivoluzione romana.

La forza propagandistica di Leopardi viene colta nella sua pienezza da Francesco


De Sanctis, che giudica sullo stesso livello la poesia dantesca e quella leopardiana,
come era negli auspici dello stesso Leopardi.

Cap. 4 - Luigi Polidori, scrittore e militante repubblicano

Polidori si forma e opera in un ambiente risorgimentale. Mostra sensibilità verso la


ricostruzione della tradizione degli studi storici e politici italiani. Con il suo sforzo di
studioso abbraccia la causa della formazione dello Stato nazionale con l’intento di
accendere speranze in favore di un’Italia libera, unita e senza occupazione straniera.
La convinta adesione ai principi liberali e patriottici lo spinsero a diventare parte
attiva della politica del tempo.

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Negli anni fiorentini contribuisce alla compilazione del ​Vocabolario della lingua
italiana e​ al ​Dizionario dei sinonimi, e
​ si mostra abile nel lavoro di ricerca sui
manoscritti dei testi. Polidori si occupò dell’edizione di molti testi e la collaborazione
con Le Monnier nacque grazie ad una collaborazione di un progetto culturale
comune (la collana ​Biblioteca​ ​Nazionale)​ finalizzato al recupero dei testi cardine
della tradizione italiana.
L’interesse per la storia repubblicana italiana fu sempre molto vivo in lui e nel 1848
ebbe modo di partecipare alle nuove vicende riformiste e all’esperienza della
repubblica romana, infatti accettò di buon grado la proclamazione della repubblica
romana (1849). Nel nuovo corso repubblicano Polidori ripose tutte le sue speranze
per un riscatto morale dell’Italia. Ma la repubblica romana ben presto si sgretolò e a
detta sua, oltre all’occupazione francese, causa della fine della repubblica fu anche
la crisi finanziaria. Tuttavia, anche al netto della sconfitta, emerge un quadro di
nuova speranza perché l’esperienza repubblicana ha dimostrato il valore civico e un
rinnovato impegno politico in Italia.

La fiducia nel valore della storia al fine della costruzione dell’identità nazionale
accompagnò i suoi ultimi anni di studioso. Infine seppe suggerire spunti di riflessione
sulla nuova funzione del papato e della religione cattolica a fronte del processo di
laicizzazione.

Cap. 5 - Prospettive conciliatoriste nel cattolicesimo italiano

All’indomani dell’Unità d’Italia (1861) si vennero a creare due correnti diversi e in


contrasto tra di loro, quella dei ​cattolici​ ​intransigenti​ (ostili verso qualsiasi novità, sia
dottrinale sia politica) e quella dei ​cattolici​ ​transigenti​ (favorevoli a forme di
collaborazione con il nuovo Stato e aperti nei confronti della modernità).
Verso un rafforzamento del primato assoluto del pontefice sull’episcopato e sulla
centralità della Santa Sede andava il ​non​ ​expedit​ del 1874, con il quale si vietava ai
cattolici di prendere parte alle elezioni politiche, imprimendo così una spinta alla
corrente integralista, che già da tempo sosteneva l’astensionismo. L’accentramento
politico e dottrinale voluto da Pio IX ebbe come effetto quello di irrigidire
l’atteggiamento della Chiesa verso la modernità; obiettivo della Chiesa era quello di
assicurare che la religione cristiana conservasse un ruolo dominante all’interno della
società italiana. Nel perseguire questo obiettivo, oltre alla riaffermazione della
centralità della Chiesa, le autorità ecclesiastiche avevano bisogno dell’appoggio di
entrambe le correnti.

Della corrente “transigente” una figura di spicco è quella di Carlo Maria Curci, che
sosteneva che la perdita del potere temporale dovesse considerarsi per la Chiesa un
fatto provvidenziale, poiché avrebbe permesso ad essa di rifarsi allo spirito cristiano

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originario. La Chiesa avrebbe dovuto accettare il ​fatto​ ​compiuto​, cioè la perdita del
potere temporale, e cercare una conciliazione con il Regno d’Italia. Nel 1878 Curci
espose le sue tesi conciliatoriste e sostenne la partecipazione attiva dei cattolici alla
vita politica, incoraggiato anche da Papa Leone XIII, aperto alle soluzioni
conciliatoriste. Nel 1878 il Papa scrive la sua prima enciclica e rivendica la
restituzione del “dominio temporale”. L’enciclica fu interpretata come un invito del
nuovo pontefice al Governo italiano a lottare insieme contro le minacce del tempo,
socialismo e comunismo.

Altri due volti noti della corrente transigente furono mons. Bonomelli e mons.
Scalabrini, entrambi provenienti dallo schieramento intransigente. Bonomelli “mutò
indirizzo” grazie agli spiragli con l’avvento del nuovo pontificato, e grazie all’incontro
con l’arcivescovo di Westminster, il quale invitò Bonomelli a non costringere la
nazione a dover scegliere tra “sentimento religioso” e “amor patrio”, poiché il popolo
in questa situazione “abbandonerà la religione e starà con la Patria”.
Quello dei transigenti è un fronte minoritario che nel corso degli anni lotterà affinché
la Chiesa torni a dialogare con lo Stato e provveda alla rimozione del ​non​ ​expedit​.
Nella corrente conciliatorista Leone XIII intravedeva il rimedio per porre fine al
contrasto con lo Stato italiano, la strategia della pacificazione serviva almeno a porre
fine allo scontro, così da permettere alla Chiesa di riacquistare nella società il ruolo
che riteneva dovesse competerle. Nell’enciclica del 1885, il pontefice indicava le
condizione della riconciliazione, senza perdere l’occasione di ribadire la supremazia
del potere ecclesiastico su quello civile. La colpa degli intransigenti era quella di non
voler stare al passo con i cambiamenti della società contemporanea. A loro
Scalabrini accusava di “opporre un Pontefice all’altro” (Pio IX con la politica
intransingente - Leone XIII politica cattolico-liberale). Netto era dunque il divario delle
due correnti, come nel caso della partecipazione cattolica alla vita politica, che se
dirette e disciplinate bene avrebbero portato solo vantaggi alla Chiesa. Lo scritto,
che venne autorizzato da Leone XIII, scatenò una reazione violenta da parte dei
cattolici integralisti tale da influenzare lo stesso Papa, e alla fine il ​non expedit​ non
solo non venne abrogato ma fu addirittura inasprito che lo trasformò in un vero e
proprio divieto di partecipazione, ​non​ ​licet​.
Anche se transigenti e intransigenti fossero opposti su tutto, su una cosa erano
d’accordo: la concezione di Stato. Mai inteso come un’entità autonoma, ma sempre
subordinato al potere religioso, e comune è anche il loro fine, quello di riaffermare
l’autorità suprema della Chiesa e di ristabilirne la centralità nella società moderna.

Cap. 6 - Protestantesimo politico e democrazia nella prima metà dell’Ottocento

Quando si parla di protestantesimo politico, ci si riferisce ai principi luterani del libero


esame dei testi sacri e del sacerdozio universale e la loro applicazione nella sfera
religiosa e politica. La principale artefice di questa translazione fu la dottrina

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teologica di Locke e in particolare il ​Right of private Judgment,​ che durante il ‘700,
sarebbe divenuto un diritto naturale intellettuale attraverso il quale rivendicare la
libertà politica e il suffragio universale per gli uomini.

Queste idee scaturirono forti preoccupazioni sia tra i cattolici sia tra i protestanti,
consapevoli dei pericoli che potevano scaturire dall’applicazione del principio del
libero esame a livello politico e si affermava che il diritto di esaminare gli atti dei
sovrani avrebbe portato alla frammentazione, creando caos. E secondo De Maistre
sarebbe stato proprio il protestantesimo politico ad aver spinto l’individualismo,
disgregatore delle istituzioni sociali, il protestantesimo “era il castigo della Francia e
dell’Europa”, e le idee di Locke “avrebbero prodotto la rivoluzione che stava
divorando il continente”.
Da una parte, un liberale come Constant riteneva che il libero esame avesse
risvegliato il sentimento dell'indipendenza intellettuale, dall’altra invece si usò la
parola “individualismo” per indicare l’insieme dei mali politici e sociali.

Per Saint-Simon la libertà civile e la libertà politica erano insufficienti per considerare
il fine dell’associazione umana. La libertà individuale era conseguenza della civiltà
ma non poteva essere lo scopo; la libertà politica, intesa come il diritto di occuparsi
degli affari pubblici senza una precisa condizione di capacità, conferito ad ogni
cittadino era la prova dell’incertezza delle idee politiche. I saintsimoniani avevano
assegnato alle varie libertà un valore strumentale: erano utili affinché dalle rovine del
passato religioso potesse erigersi un nuovo ciclo, il loro. Anche Comte e Mill furono
influenzati da Saint-Simon. Comte riteneva che i principi luterani portavano alla
disgregazione; Mill si augurava che attraverso la discussione si sarebbe giunti alla
scoperta delle “vere opinioni”, che avrebbe aperto una nuova epoca naturale.

La giovane democrazia americana era diventata il laboratorio principale per misurare


il rapporto tra religione e politica. Chevalier ritiene che la democrazia americana “era
un regime che si sarebbe rivelato nemico di una qualsiasi nuova aristocrazia;
l’America era un Paese dominato dagli strati più bassi del popolo e l’opinione
pubblica era la loro opinione, il Presidente era il loro Presidente”.

Per Tocqueville invece il protestantesimo è una dottrina democratica che ha facilitato


l’istituzione dell’uguaglianza sociale e politica. Lui riteneva che l’uomo non potesse
fare a meno dell’autorità, sia politica sia religiosa. Tocqueville vide nella ragione
individuale l’arco portante della democrazia americana e l’America era quel Paese
che, ognuno, sin dalla nascita aveva ricevuto il diritto di auto-governarsi per cercare
la propria felicità. Se si concedeva a tutti il diritto di partecipazione al governo,
bisognava anche ammettere l’esistenza di opinioni diverse, questa è la ragione
principale per cui sovranità del popolo e libertà di stampa venivano considerate
correlate. Però, quando ognuno pensava a sé e vantava gloria personale andava a

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finire che gli uomini rimanevano legati solo dagli interessi. Lui sostenne che una
società per poter sopravvivere di dovesse riunire intorno ad alcune idee principali.

Carlyle, invece, non avrebbe espresso la stessa fiducia di Tocqueville nella società
americana. Eppure Carlyle disse che il progresso delle cose tendesse verso la
democrazia, ma la democrazia è un fenomeno che si auto annienta. Egli
riconosceva nel protestantesimo “il principio di una nuova sovranità” e che la lotta
per la libertà, l’uguaglianza, il suffragio elettorale era un “fenomeno temporaneo”.
Carlyle lodò i saintisimoniani perché avevano scoperto che “l’uomo è ancora
umano”, e non una cosa da scartare. Lui, infine, avrebbe manifestato la sua fede
nella venuta di una società organica basata su una nuova religione.

Cap. 7 - Spirito liberale e spirito religioso in Francia

Fu durante i quattro anni del secondo mandato da ministro di Villemain che esplode
la polemica sulla libertà d’insegnamento nelle scuole secondarie. Villemain scrisse,
nel 1841, un disegno di legge, ma prima delle proteste dei vescovi lo ritirò. Dopo altri
due anni di lotte, il governo ritenne necessario fare delle concessioni (alla Chiesa),
Villemain presentò un nuovo disegno di legge generando però una violente reazione
di parte liberale, con il rimprovero di aver lasciato l’istruzione pubblica alla Chiesa. Il
senso dei disegni di legge era di trovare un compromesso sulla libertà
d’insegnamento che offriva alle scuole cattoliche un riconoscimento da parte dello
Stato.

Tocqueville dichiara che la religione, in America, non s’immischia mai con il governo,
ma deve essere considerata come la prima delle loro istituzioni politiche; essi la
ritengono necessaria per la conservazione delle loro istituzioni repubblicane. per
Tocqueville “la religione è una forza che garantisce la libertà dei cittadini. Il “sogno” è
la riconciliazione fra spirito di libertà e spirito di religione.
La presenza della religione nella società è indispensabile perché si definisce società
un corpo unitario il cui collante è un complesso di credenze comuni. Le credenze
dogmatiche hanno una funzione sociale perché gli uomini non possono fare a meno
di esse, e fra tutte la più importante è proprio la religione.

Quello che rende inconciliabile il rapporto fra cattolici e liberali è il contrasto tra
principi generali, essendo il liberalismo “una nuova filosofia dell’uomo” e non una
concezione politica. E’ questo il punto di rottura. Venne indicata un’affinità fra la
concezione di Tocqueville e quelle dei comunisti cattolici che volevano distinguere
l’aspetto filosofico del marxismo da quello politico, come Tocqueville cercava di
separare il liberalismo politico dalle dottrine filosofiche del ‘700.

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A proposito della sconfitta parlamentare subita sulla libertà d’insegnamento, le
ragioni del suo fallimento sono legate alle divergenze ideologiche esistenti tra
Tocqueville e gli uomini liberali, che vedevano in lui un personaggio scomodo.

Cap. 8 - Slancio missionario nella Guyana francese

Nella prima metà del XIX secolo, la Guyana si presentava come la più vasta e meno
sviluppata colonia francese. La Rivoluzione, la soppressione di ordini religiosi
avevano duramente colpito le opere missionarie. Questo spinse il prefetto apostolico
della Guyana a chiedere l’invio di nuovi missionari incaricati di risvegliare la vita della
colonia. Napoleone s’impegnò nell’opera di riorganizzare delle missione nelle colonie
francesi, convinto che se poste sotto il suo controllo potessero rappresentare gli
interessi nazionali. Napoleone si attribuì la nomina dei prefetti apostolici riservando
all’arcivescovo di Parigi la missione ordinaria, il decreto fu esteso a tutte le colonie.
Solo la missione episcopale sarebbe dipesa dal Papa. Pio VII protestò contro il
decreto napoleonico, contro la distinzione di missione. Operò (Pio VII)
immediatamente per ridare nuovo impulso alle opere missionarie e così la Chiesa
attuò un’opera di cristianizzazione dei neri, con l’abolizione della tratta e con il
miglioramento delle condizioni degli schiavi. A tale compito di diffusione del
cristianesimo contribuirono congregazione femminili, tra le protagoniste vi fu
Javouhey, fondatrice delle suore di Saint-Joseph de Cluny.

Dopo aver preso i voti, nel 1807, decise di dedicarsi all’educazione dei bambini
poveri ispirandosi all’azione di Santa Teresa. Presentò un progetto ispirato a un
cristianesimo delle origini come principio guida del lavoro e dell’approvvigionamento
del cibo, nel quale l’isolamento e l’emancipazione progressiva avrebbero educato i
neri a diventare cittadini responsabili. La missione delle suore di Saint-Joseph
doveva contribuire ad accompagnare lo schiavo in un percorso liberatorio.

Il pieno possesso della Guyana nel 1817 coincideva con l’abolizione della tratta che
vietava il reclutamento degli schiavi nelle coste africane, questo aveva sollecitato il
governo a incoraggiare nuove forme di colonizzazione che potessero garantire mano
d’opera. Questa necessità aprì il dibattito di inviare coltivatori europei in Guyana che
col tempo si sarebbero sostituiti ai lavoratori di colore. Nel 1823, 164 persone si
stabilirono sulle rive del Mana fondando un primo stabilimento con lo scopo di
disboscare la foresta e costruire case destinate alle famiglie francesi. Ma la non
autosufficienza della piccola comunità, la miseria e la morte costrinsero le famiglie al

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rientro in Francia. Questo non scoraggiò il governo e Javouhey decise di continuare
l’opera di Mana con lo scopo di creare una comunità di uomini e di donne che
vivessero sotto la legge di Dio in famiglie cristiane. I lavoratori europei si sarebbero
impegnati per tre anni a lavorare per la comunità. A conclusione dei tre anni, gli
immigrati avrebbero potuto rinnovare il contratto oppure trasferirsi in un piccolo
terreno concesso dalla Congregazione. Nel 1827 il progetto venne accolto. Mana
così sarebbe diventata una comunità di cristiani e Javouhey stabilì la ripartizione del
lavoro giornaliero e degli esercizi religiosi. Ma questo progetto allarmò gli altri
consiglieri coloniali perché paurosi che Mana superasse nel sviluppo Cayenna. Gli
stessi consiglieri allora chiesero di porre fine alle sovvenzioni alla comunità, anzi
chiesero che tali sovvenzioni fossero trasferite a Cayenna.

Tornata in patria, con la nuova monarchia orleanista, l'obiettivo di Javouhey fu di


impegnare la Congregazione di Saint-Joseph nell’emancipazione dei neri che con
l’illecito della tratta erano stati condotti in Guyana. Mana così sarebbe diventata il
luogo nel quale il governo orleanista avrebbe potuto sperimentare il processo di
emancipazione dei neri. Il governo orleanista, nel 1835, affidò alla Congregazione
circa cinquecento uomini neri “sequestrati”, che secondo la legge sarebbero diventati
liberi dopo un ingaggio di sette anni. La comunità di Mana non doveva avere alcun
contatto con i bianchi perché la fondatrice confidava nella formazione di un clero
indigeno. Tutto era finalizzato a garantire l’autosufficienza dei nuovi nuclei familiari
che si sarebbero formati attraverso matrimoni legittimi. A ogni nucleo familiare fu
assegnata una casa e così Mana era diventata una società, Mana era il simbolo di
“un’opera di carità”. Il progetto di Mana non era stato gradito dall’amministrazione
locale, soprattutto per il fatto che Mana potesse essere guidata da una donna, senza
l’aiuto della gendarmeria, mantenendo l’ordine con la sola persuasione. Per il
Consiglio di Cayenna, Mana rappresentava solo una realtà improduttiva e la
presenza di neri liberi poteva creare solo confusioni. Questi desideravano la
rescissione dell’accordo tra la Congregazione e il Ministero della Marina. E tutto ciò
costrinse il governo francese a ridurre i privilegi di cui godeva Mana. Nel 1843
Javouhey abbandonò Mana e consegnò la guida alla nuova superiora, Marion. Nel
1846 un’ordinanza ministeriale affidò al governo la direzione di Mana.

La missione di Javouhey non si discostò mai dal suo scopo, individuato nel
messaggio religioso di solidarietà verso i più bisognosi.

Sotto i colpi della Rivoluzione del 1848, la schiavitù venne dichiarata abolita e così
tutti gli schiavi di Mana divennero liberi. Ma ben presto i “nuovi cittadini” dovettere fre
i conti con il colpo di Stato di Luigi Napoleone deciso ad abolire il suffragio
universale, la rappresentanza parlamentare, e a trasformare Guyana in colonia
penitenziaria.

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Cap. 9 - Religione e politica in Carl Schmitt

In ​Cattolicesimo romano​ Schmitt analizza l’opposizione della Chiesa al mondo


“moderno della tecnica” in cui le forze dominanti sono il capitalismo e il socialismo.
La Chiesa è disegnata come la più netta alternativa all'individualismo liberale e
dall’ideologia comunista. La Chiesa di Roma immagina che la politica debba
svolgere una funzione unificatrice.
In ​Teologia politica,​ la rappresentazione della Chiesa è assente, perché Dio è
assente. E Dio è assente perché nel mondo esiste il predominio dell’individualismo,
dove ognuno insegue il proprio disegno e non c’è più una società cristiana e unita,
ma questo non significa che non esiste la necessità di ricostruire. Questo compito
Schmitt l’affida al Sovrano, colui che sa salvare il mondo dalla caduta. Il Sovrano è
l’unico che più decidere di sciogliere lo “stato d’eccezione”: quindi dare ordine a ciò
che ordine non è.

Lo “stato d’eccezione”, per Benjamin, è la regola del “tempo in cui viviamo”. Quindi la
possibilità di re-indirizzare la storia viene affidata ad un evento che rovescia il
continuum della storia.
Qui la differenza tra Benjamin e Schmitt: nel primo vale una dimensione
escatologica. Nel secondo prevale la necessità della decisione politica in grado di
opporsi al non ordine, che sta caratterizzando la modernità.

Dimensione escatologica:​ ​si indica una dottrina tesa a indagare il destino ultimo del
singolo individuo, dell'intero genere umano e dell'universo; in quanto legata alle
aspettative ultime dell'uomo

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