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David Harvey.
“Solo quando la politica riconoscerà la produzione e la riproduzione della vita urbana come processo centrale da cui
origina ogni possibile impulso rivoluzionario sarà possibile mettere in atto lotta anticapitalista in grado di trasformare
radicalmente la vita quotidiana. Solo quando si comprenderà che coloro che costruiscono e sostengono la vita urbana
hanno un diritto immediato a quanto producono, e che tra le loro rivendicazioni c’è soprattutto quella al diritto
inalienabile di creare una città a misura delle loro esigenze, avremo una politica urbana degna di questo nome.
La città forse è morta? Lunga vita alla città!”.
“Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street” di David Harvey (ilSaggiatore,
2013) è una chiamata alle armi.
Se “Il Manifesto del partito comunista” di Karl Marx ha offerto una chiamata alle armi per i moti del 1848, l’uscita di
“Città ribelli” coincide con numerose insurrezioni, da Alto (in Bolivia) a Zuccotti Park (New York). Queste rivolte,
nate in luoghi sviluppati e non sviluppati, storici e contemporanei ci offrono importanti lezioni sui movimenti urbani
impegnati nel costruire alternative democratiche e anti-capitaliste. “Città ribelli” parte dalle idee che filosofo Henri
Lefebrve che nel 1967 elaborò nel saggio “Il diritto alla città” (Ombre corte, 2014) e cerca di capire come sia possibile
costruire “un’alternativa politica e sociale al funzionamento della legge capitalista”, attraverso un “cambiamento di
sostenibilità ambientale”, che abolisca “il rapporto di classe dominante, che sostiene e impone una continua
espansione della produzione e della realizzazione del plusvalore”.
Harvey inserisce il suo lavoro nel crescente interesse per questa idea non solo nell’ambito del mondo accademico ma
all’interno dei movimenti sociali urbani come il diritto alla città di Alliance e gli esperimenti di “bilancio
partecipativo” in Brasile. Per Harvey la lotta sul tipo di città che vogliamo non può essere distinta dal dibattito su che
tipo di relazioni sociali desideriamo. Il diritto alla città è anche, e soprattutto, un diritto collettivo, ne consegue che la
lotta per raggiungerlo – dall’autogestione della città esistente, alla sua trasformazione – deve essere collettiva.
“Città ribelli” è un libro denso di idee, parla di trasformazione e uso degli spazi urbani, di precariato, di
anticapitalismo democratico, e soprattutto di proposte concrete per mettere in atto politiche di lotta efficaci. Vediamo
come.
“Il diritto alla città, è molto di più di un diritto di accesso individuale o di gruppo alle risorse urbane è un diritto a
cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze. Il diritto alla città è la libertà di costruire e ricostruire le
nostre città e noi stessi è uno dei più preziosi tra i diritti umani e nondimeno è anche uno dei più negletti. Come si può
esercitare al meglio questo diritto?”.
Il libro inizia con una spiegazione del ruolo delle città nel capitalismo. Le concentrazioni urbane hanno sempre avuto
la funzione di reinventare modi per privatizzare, trasformare e assorbire le eccedenze di capitale e lavoro. Contraendo
gli spazi e i tempi (gli investimenti in edilizia favoriscono i monopoli spaziali e hanno una portata speculativa a lunga
scadenza) permettono un controllo e un orientamento efficace della capacità produttiva e di consumo delle persone.
Harvey dà il suo meglio quando descrive il modo in cui gli speculatori finanziari, i costruttori e le èlite politiche
urbane cercano “città di marca” , con un’alta densità di “prodotti culturali”, con “segni di unicità e di distinzione. La
cattura del plusvalore necessita di una negoziazione con ciò che viene valutato come “unico” perché non può avere
una “qualità speciale” a tal punto da risultare fuori dal mercato.
“Il quadro di Picasso deve avere un valore in denaro, lo stesso vale per per i reperti archeologici, gli edifici storici, i
monumenti antichi, i templi buddisti, il fatto di fare rafting nel Colorado, di essere a Istambul o in cima all’Everest”.
È per tentare di risolvere questa contraddizione che il marketing tende a creare un’omogeneizzazione delle qualità
uniche, come si vede nella gentrificazione dei quartieri e nella disneyficazione della cultura.
“Città Ribelli”, analizza come le città non servano a generare surplus ma anche a disporne. L’eccedenza in eccesso
prodotta dalla concorrenza capitalista deve essere assorbita da qualche parte, e gli investimenti nel rinnovamento
urbano e nella speculazione edilizia hanno esattamente questa funzione. Inoltre questa tipologia di investimenti
permette di ottenere rendimenti sul capitale investito modulandoli nel tempo.
“Ciò significa che il capitalismo riproduce di continuo il surplus produttivo richiesto dall’urbanizzazione. Ma vale
anche il contrario: il capitalismo necessita di processi urbani per assorbire l’eccedenza di capitale che costantemente
produce”.
Tra lo sviluppo del capitalismo e l’urbanizzazione emerge un’intima connessione. Le città sono luoghi cruciali
nell’assorbimento del surplus di capitale, in modo particolare attraverso la vendita o l’affitto speculativo di
appartamenti, con l’effetto di rendere precarie le condizioni di vita della popolazione meno abbiente che vive e lavora
in città.
Questa analisi è presente in altri libri di Harvey, come “Il capitalismo contro il diritto alla città. Neoliberalismo,
urbanizzazione, resistenze” (Ombre corte, 2012), ma in “Città ribelli” troviamo per la prima volta la descrizione
esplicita del progetto politico che ne consegue. Nel contesto urbano il suplus è legato a due ‘risorse comuni’ su cui si
fonda ogni forma di produzione: i lavoratori e la terra. I lavoratori cooperano nel processo di produzione; le comunità
collaborano per produrre gli spazi in cui vivono (la terra in cui abitiamo) e insieme generano un bene comune che è
disponibile per la rendita.
In “Città ribelli” compaiono tra le pagine le tesi di Saskia Sassen sulle “città globali” o quelle di Mike Davis sulla
privatizzazione dello spazio pubblico attraverso le città recintate. E tuttavia Harvey si concentra su alcuni aspetti
assenti nelle analisi di Davis e Sassen, cioè la produzione del comune. Lo dice senza mezzi termini che la metropoli è
il luogo per eccellenza della produzione di merci, ma anche di quel “comune” che l’attuale modo di produzione rende
produttivi.
Il capitale al contempo ama e odia i beni comuni – ama i processi collettivi che li creano ma odia i rapporti sociali
impliciti che li producono. È un passaggio che risulta decisamente chiaro a quanti si sono trovati nella situazione di
aver collaborato alla creazione di una vita di quartiere stimolante e ed è stato costretto con la forza a cederla alle
pratiche predatorie degli immobiliaristi, finanzieri e consumatori upper class privi di ogni immaginazione sociale
urbana. In Italia gli esempi degli ultimi anni sono ormai numerosi: l’Isola a Milano, il Testaccio a Roma, il quartiere
di Piazza delle Erbe a Genova, il Quadrilatero Romano a Torino, Santa Croce a Firenze…
“L’urbanizzazione è quindi da intendersi come l’intreccio tra la continua produzione di un common urbano (anche
nelle forme differite di spazi e beni pubblici) e la sua perpetua appropriazione distruzione da parte di interessi privati”.
L’opposizione a questo progetto è la lotta per il “commoning” (per i beni comuni).
“Al centro della pratica del commoning vige il principio che la relazione tra i gruppi sociali e quel particolare aspetto
dell’ambiente trattato come comune debba essere collettiva e non mercificata – esente cioè da logiche di mercato, di
scambio e di valore”.
Si tratta di un’innovazione importante che dà forma e sostanza ad argomenti che mettono al centro la questione
urbana, (non solo quella dei lavoratori), come questione centrale per una strategia rivoluzionaria.
In “Città ribelli” vengono raccontati diversi episodi di lotta di classe innovativa e continuativa. L’origine di queste
lotte è la Comune di Parigi del 1871.
“La classe operaia industriale è stata tradizionalmente concepita come avanguardia del proletariato, suo principale
agente rivoluzionario. Eppure, non sono stati gli operai di fabbrica a dare vita alla Comune di Parigi. Esiste per questo
un’interpretazione alternativa della Comune che sottolinea come non si sia trattato di una rivolta proletaria o di un
movimento di classe, ma di un movimento sociale urbano che rivendicava diritti di cittadinanza, e più in generale un
diritto alla città”.
E ancora.
“A tal proposito mi sembra che abbia un certo valore simbolico il fatto che i primi due atti della Comune di Parigi
siano stati l’abolizione del lavoro notturno nei forni (una questione lavorativa) e l’imposizione di una moratoria sulle
rendite (una questione urbana)”.
Gli attori al centro della lotta includono i lavoratori, ma anche molte altre categorie di attori urbani emarginati, alienati
dai beni comuni, sia dal lavoro che dalla città. L’implicazione strategica è che la lotta di classe deve essere condotta al
di là delle mura della fabbrica. In realtà Harvey sostiene che la maggior parte di lotte sindacali sono sempre state
condotte fuori dalle fabbriche.
“Per portare avanti le lotte dei lavoratori, l’organizzazione di quartiere si è rivelata tanto importante quanto quella sui
luoghi di lavoro”.
“Città ribelli” afferma in primo luogo che: “le lotte del lavoro… hanno probabilità di successo quando esiste un forte
sostegno popolare, che getta le radici nel territorio e nella comunità circostante”. In secondo luogo, “l’idea di lavoro
deve passare da un concezione limitata alla sua forma industriale al terreno decisamente più ampio e costituito dal
lavoro necessario per la produzione e riproduzione della vita quotidiana sempre più urbanizzata. In quest’ottica, ogni
distinzione tra lotte per il lavoro e lotte comunitarie inizia a dissolversi, come del resto l’idea che la classe e il lavoro
siano definiti sulla base di un luogo di produzione isolato da luoghi di riproduzione sociale come la famiglia”. Infine,
“lo sfruttamento del lavoro vivo nella produzione… deve ancora essere al centro di ogni movimento anticapitalista,
alle lotte dei lavoratori contro l’appropriazione e la realizzazione di plusvalore nei loro spazi di vita deve essere
riconosciuto lo stesso status, in quanto lotte per la produzione della città”.
Porre attenzione alla dinamiche complessive di accumulazione del capitale e alla capacità di organizzarsi non solo
attorno al lavoro ma anche a partire dalle condizioni dello spazio di vita, diventa cruciale. Le dinamiche sociali che si
sviluppano sul luogo di lavoro non coincidono più con quelle che caratterizzano lo spazio dove si vive, “in
quest’ultimo, infatti, distinzioni fondate su genere, razza, etnia, religione e cultura sono spesso più profondamente
incise nel tessuto sociale” e le dimensioni per le lotte dei beni comuni, si intersecano con le lotte sul posto di lavoro,
trasformando in modo significativo le modalità di azione e “l’agente rivoluzionario”. In questo nuovo contesto, il
precariato – se pur frammentato, itinerante, fluido e diviso nei suoi obiettivi e nelle sue necessità – ha preso il posto
del ‘proletariato’.
Un ponte, una coalizione, anticapitalista tra i luoghi di lavoro e la comunità, “funziona soltanto se le forze della
cultura e di una tradizione politica radicale… si possono mobilitare in modo da animare i cittadini-sudditi… dietro un
progetto radicalmente diverso di urbanizzazione rispetto a quello dominato dagli interessi di classe dei costruttori e dei
finanzieri”. Questo sforzo lo possiamo vedere in Occupy Wall Street e in movimenti simili, “le tattiche di Occupy
Wall Street sono di prendere uno spazio pubblico centrale, un parco o una piazza, vicino a dove molte delle leve del
potere sono concentrate, e, ponendo corpi umani in quel luogo, trasformare lo spazio pubblico in un common politico,
un luogo di dibattito aperto su ciò che il potere sta facendo e su quale sia il modo migliore per opporsi al suo
dominio”. Uno spazio aperto e democratico ha riunito molteplici esperienze in un’opposizione coerente e radicale.
Inoltre Harvey rileva che anche se i movimenti e le esperienze di resistenza locale sono quelli che hanno avuto
maggiore successo, è però indispensabile un salto di scala se si vuole contrastare il programma neoliberale.
“Qualsiasi mossa anticapitalista mobilitata attraverso successive ribellioni urbane, deve essere consolidata a un certo
punto su una scala molto più alta di generalità perché tutto ricade a un livello statale di un riformismo parlamentare e
costituzionale che può fare poco più che ricostituire il neoliberismo negli interstizi del continuo dominio imperiale”.
È su queste domande che “Città ribelli” ci invita a focalizzare la nostra attenzione: Come gestire con efficacia azioni
che rispondano a rapporti sociali e di cattura del plusvalore che nascono su scale diverse? (locale, metropolitano,
regionale, nazionale o sovranazionale). Come costruire una rete di confronto e scambio delle esperienze di resistenza
che nascono a questi differenti livelli? Come possiamo immaginare istituzioni che regolano l’accesso al comune?
Le città hanno un ruolo centrale nell’economia globale e sono profondamente integrate con i livelli di governo
regionali e nazionali, ma quelli che appaiono come buoni metodi per risolvere problemi su scala locale (ad esempio i
progetti che arrivano dall’organizzazione collettiva delle economie solidali) non necessariamente si traducono in
soluzioni applicabili su scale diverse (nazionale o globale). Inoltre, è difficile utilizzare strategie e accordi raggiunti
nei negoziati con organismi amministrativi e legislativi a livello locale applicandoli a livelli diversi. Quindi un lavoro
democratico e anticapitalista deve essere condotto su tutti i piani: urbano, tra più aree urbane, nell’hinterland e nelle
aree rurali, a livello nazionale e internazionale.
https://marioflaviobenini.org/2015/03/16/citta-ribelli-dal-diritto-alla-citta-alla-rivoluzione-urbana-david-harvey/