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CITTA’ (IN)VIVIBILI

INTRODUZIONE
1.-LA CITTÀ E I SUOI PROBLEMI
CITTA’: è un organismo in continua evoluzione. Dal momento della sua nascita si discute molto
sulla sua evoluzione, ponendo particolare importanza al processo di urbanizzazione e ai vari periodi
storici.
Uno spunto di riflessione importante si può cogliere analizzando l’opera di Kevin Lynch
“L’immagine della città” (1960), che fornisce una panoramica sull’immagine che ogni cittadino ha
della propria e delle altre città.
Per Lynch la città è una costruzione di vasta scala nello spazio, che viene percepita solo dopo
molto tempo, e le cui immagini sono fortemente legate ai ricordi e alle esperienze personali. Con
questa tesi si trova d’accordo anche il MIT, che dimostra come non esista un’immagine collettiva e
condivisa della città.
Questo studio mette in luce anche la difficoltà di creare analogie tra le varie città, e rende quindi
complesso individuare quali pratiche prendere come esempio e quali no.
“Le città invisibili” (Calvino) > è inutile cercare di capire se Zenobia rientri tra le città felici o tra
quelle infelice, perché in realtà la divisione che bisogna operare è un’altra:
1. Città che riescono, nonostante il passare del tempo, a dare forma ai loro desideri;
2. Desideri che riescono a cancellare la città o che sono cancellati. Esiste una città ideale?
ESEMPIO: Bhutan viene riconosciuto come il paese più felice al mondo. Qui, la qualità della vita
non viene misurata tramite il PIL pro capite, ma tramite un nuovo indicatore, il FIL (felicità interna
lorda). Questo indicatore non misura solo la produzione economica, l’impatto ambientale, il livello
culturale die cittadini, ma prende in considerazione aspetti nuovi, come l’uso del tempo, il
benessere psicologico dei cittadini, la cultura, la vitalità della comunità, l’educazione. Collegato a
questo abbiamo anche un altro indicatore > INDICE PLANETARIO DI FELICITA’ > BETTER LIFE
INDEX.
Naturalmente, il desiderio di vivere in una città ideale innesca dei processi di abbandono, con
conseguente decrescita demografica, e di questo le maggiori vittime sono i centri minori, i borghi,
con pochi abitanti e un’età media avanzata. Questo processo prende avvio in particolar modo nel
2° dopoguerra.
Questi fenomeni, però, in piccola parte possono essere contrastati, tramite la “riqualificazione”
delle città, ad esempio sviluppando una nuova immagine legata allo sport, al cinema, al turismo.
Un esempio lampante è quello di alcune regioni facenti parte del parco regionale delle Alpi
Marittime, che dopo molti anni di desolazione hanno vissuto un processo migratorio inverso, di
rientro nella terra d’origine (grazie alla costruzione di nuove infrastrutture, edifici e quant’altro).
La complessità dell’argomento “città” è data dal fatto che essa rientra negli studi di molte discipline
(geografia, antropologia, storia ecc) ed è quindi uno degli argomenti più discussi. Attualmente, il
dibattito si è fatto ancora più intenso a causa del nuovo turismo urbano, che si pone quale
obiettivo quello di valorizzare le aree meno turistiche delle città, le periferie, per cercare di liberare
un po’ i centri storici, molto spesso sofferenti. La città è al centro di ricerche recenti anche per la
sua capacità di resistere alle minacce esterne. L’esempio migliore è quello dei centri commerciali
nelle aree periferiche, che hanno portato a una progressiva desertificazione di centri storici.
La città come organismo ha un suo spirito di sopravvivenza, ed è questo che le permette di
riadattarsi continuamente alle esigenze e trasformazioni nel tempo, facendo fronte ai bisogni del
fruitore (il cittadino) e quindi modificando la propria offerta complessiva di beni e servizi.
Nella progettazione strategica in ambito aziendale, ma anche in quello urbano, si utilizza spesso
l’analisi
SWOT, data dall’esame di:
- Punti di forza (strenghts);
- Punti di debolezza (weaknesses);
- Opportunità (opportunities);
- Minacce (threats).

Tra le ultime, la pandemia da Covid-19 ha influito in modo pesante su tutte le attività urbane. Di
fatto, tutte le città, che già erano state colpite dalla crisi del 2007-2008 (bolla immobiliare), si sono
trovate nel peggiore degli incubi, ovvero il blocco di tutte le attività. Per la prima volta, le nostre
generazioni hanno potuto osservare delle vere e proprie città fantasma, e si sono trovare a vivere
una situazione comparabile a quella di una guerra.
Al contrario, in alcuni contesti, quelli delle smart city, l’organizzazione e la capacità di rispondere in
modo imminente agli imprevisti, ha permesso di mettere subito in modo un sistema comunicazioni
alternativo. Alcune aree delle città sono invece andate incontro a cambiamenti di natura sociale
➔ Gentrification = è un processo che parte da un singolo distretto, e che si espande
rapidamente fino a disperdere la maggior parte dei precedenti abitanti, ottenendo quindi il
cambiamento dell’intero sistema sociale.
Al giorno d’oggi, molte città italiane/europee, stanno subendo processi di gentrification, accentuati
dalla frequentazione di massa di locali notturni.
Gli studiosi si trovano quindi a dover attuare una riflessione circa questi processi, che portano
all’introduzione di nuovi temi, quali l’emarginazione sociale, la frammentazione dei legami col
territorio. Durante questi ultimi due anni, tutto il mondo ha sperimentato una “sospensione” di
legami, riti, pratiche all’interno delle città, che per alcuni si è rivelato un momento di cui approfittare
per NON incontrare gli altri, mentre per molti altri è stato un vero e proprio incubo.
➔ Si parla di pandemia di solitudine (N. Hertz), con casi di alienazione che hanno alimentato
fenomeni di depressione e disconnessione dalla realtà.

2.-STUDI DI CITTA’
La gentrification potrebbe anche essere avviata da processi di miglioramento ambientale, dalla
diffusione di soluzioni ecologiche. Da qui nasce il paradigma “Nature Based Solutions”, per
contrastare la degenerazione urbana, l’invecchiamento delle strutture, ma anche il cambiamento
climatico, grazie ad azioni sulla natura stessa che poi verranno tradotte in vere e proprie politiche
territoriali.
Purtroppo, però, questo fenomeno non fa altro che alimentare le diseguaglianze sociali, portando
alla green gentrification, per cui il naturale aumento dei costi delle aree rigenerate spinge coloro
con un reddito più basso a spostarsi verso altri luoghi.
➔ La città passa da essere un luogo inclusivo ad uno escludente.
A Torino, questo processo ha avuto inizio negli anni ’90, con il quartiere San Salvario e il
Quadrilatero Romano, anni in cui la città ha cercato di crearsi una nuova identità dopo il periodo
fordista, anche se ancora molte zone devono continuare questo processo.
Nella maggior parte delle città, ovviamente, esiste un’identità di quartiere, data da aspetti come
l’organizzazione degli spazi, dai rilievi socio-economici, dall’istruzione, dal livello del reddito. Le
identità dello stesso quartiere possono essere anche differenti, perché sono date da punti di vista
diversi, riferibili ai diversi fruitori, e persino all’interno degli stessi gruppi possono emergere
differenze.
➔ Concetto d’identità: è legato a quello di senso del luogo, introdotto dal geografo Tuan nel
’91. Secondo la sua visione, il compito del geografo è quello di studiare e capire l’origine e
l’evoluzione di un luogo.
Umberto Colombero, ad esempio, studia il caso della dieta nordica di Copenaghen, e l’utilizzo di
pratiche quasi del tutto scomparse, come il foraging > pratica di “andar per campi a cercar ebre
spontanee”.
Quest’idea fa parte di un progetto più ampio, ovvero la New Nordic Diet, che mira a cambiare la
visione della capitale danese, molto speso connotata da stereotipi.
Se le relazioni umane che tengono in vita una città si affievoliscono, con il tempo essa perde tutte le
sue funzioni urbane e va a morire. Non scompare fisicamente, ma rimane in qualche modo
cristallizzata durante i secoli.

3.-CITTA’ TRA PASSATO E FUTURO


Dai vari studi compiuti si può notare quanto sia importante il ruolo che ricopre la pianificazione, la
progettazione e la riflessione. Molto spesso è un’idea a determinare il successo, ma al contrario essa
può anche essere la causa del declino.
La salute della città è determinata sì dalla sua storia, dai monumenti importanti, ma anche e
soprattutto dalla capacità di governarla. Essa deve essere monitorata per elaborare in anticipo punti
di risposta alle criticità.
L’esempio più importante è quello del riscaldamento globale, che con i suoi effetti può mettere in
pericolo la vita dei residenti, ed è quindi necessario, attraverso una politica territoriale adeguata,
stimolare la rottura del legame tra ricchezza-emissione di gas serra.
GERICO: è ad oggi una delle città maggiormente minacciate dal cambiamento climatico. Le maggiori
problematiche derivano dalla salinizzazione delle riserve di acqua dolce e dall’inquinamento causato
dalla mancanza di controlli. Anche le pratiche agricole sono responsabili dell’accelerazione di questo
processo degenerativo.
Tutto questo ha portato a riflettere sulla vivibilità della città e sul suo futuro.

Inoltre esistono città che nel corso del tempo hanno subito fasi di declino importante, e che sono
state in grado di rialzarsi nel migliore dei modi: sono le cosiddette “città fenice”, come Catania, la cui
porta Ferdinandea della città riporta l’iscrizione “Melior del cinere surgo” (rinasco migliore dalle
ceneri). Catania è stata varie volte minacciata dalle eruzioni vulcaniche dell’Etna e distrutta dai
terremoti.
Una città fenice è anche Safed, città santa per l’ebraismo assieme a Gerusalemme, Hebron e
Tiberiade.

Grazie a tutti questi esempi, possiamo renderci conto di come le città seguano un ciclo di vita:
nascono, si sviluppano e possono anche avere una fine. Un fattore importante per lo sviluppo delle
città è sicuramente l’andamento demografico, che può anche essere deleterio. Difatti’ un’eccessiva
densità demografica può portare alla nascita di conflitti interni a causa della mancanza di risorse
adeguate, dello sfruttamento eccessivo e dell’accentuazione delle differenze sociali. Ed è proprio
questo che può poi condurre a ondate migratorie.

CAPITOLO 1: ALLA RICERCA DELLA CITTA’ IDEALE


1- UNO SGUARDO ALLE ORIGINI
Situata tra Ur e Babilonia, la città sumerica di Uruk è ad oggi considerata una delle città più antiche
della storia. Le sue origini risalgono al IV millennio a.C., ed è delimitata da 10 km di mura, la cui
costruzione venne attribuita a Gilgamesh. La città deteneva il record di essere la più grande del
mondo.
All’inizio. Uruk era costituita da due insediamenti:
- Eanna;
- Kullab
Che si erano poi uniti e rafforzati grazie al controllo egemonico sul territorio babilonese e allo
sviluppo economico dovuto all’innovazione tecnologica dell’epoca: campi lunghi, aratro seminatore,
slitta trebbiatrice.
Uruk aveva investito sullo sviluppo edilizio che rispondeva al crescente afflusso di cittadini verso la
città; l’aumento della popolazione richiedeva una progettazione architettonica per soddisfare le
esigenze primarie e secondarie.
Oltre alle dimensioni, Uruk era un centro culturale ritenuto “la culla della scrittura cuneiforme”.
All’epoca era consuetudine dividere le società preindustriali in 3 fasi evolutive:
1. Selvaggia;
2. Barbarica;
3. Civilizzata.
Il passaggio dallo stadio barbarico a quello civilizzato implicava l’uso di un sistema di scrittura, anche
se qui ci poniamo di fronte a due limiti:
- Non tutti gli abitanti di una città sono in grado di scrivere;
- Non tutti coloro che sanno scrivere vivono all’interno di un contesto urbano.
La crescita delle città coincise con una specializzazione delle attività artigianali, testimoniata anche
dalla presenza del lessico relativo ai beni, alla contabilità ecc.
L’impatto culturale della città si riscontra sia in Genesi, in cui Erech (uruk) è il 2° dominio del
cacciatore Nimrod, sia nella toponomastica del termine “Iraq”. Ad oggi rimane ben poco dell’antica
megalopoli e ciò si deve anche ad episodi recenti della storia irachena.
A parte poche eccezioni, lo sviluppo urbano e l’urbanizzazione sono fenomeni recenti.
1800: nemmeno il 2% della popolazione viveva in un contesto urbano, mentre solo 100 anni dopo
aveva già raggiunto il 10%. Per questo non desta stupore il fatto che gli studi di Geografia urbana
abbiamo avuto uno sviluppo recente, grazie anche all’apporto di discipline diverse, a partire dal
tentativo di Weber di offrire una definizione del termine “città”.

2- LO SVILUPPO DELLA GEOGRAFIA URBANA


La geografia urbana è un campo di ricerca interdisciplinare situato all’interno della geografia umana.
Secondo Blanchard, essa si occupa di 3 fattori principali:
1. Elemento fisico o umano che ha permesso la fondazione di una città;
2. Le vicende storiche legate allo sviluppo dell’insediamento urbano;
3. L’intreccio tra la vita urbana e le scelte politiche presenti.
Risulta complesso definire l’oggetto di studio della geografia urbana, la città. Il sociologo Werner
Sombart sottolinea la pluralità e relatività della definizione di “città” in base alla dimensione
considerata, evidenziando la dipendenza dell’insediamento umano rispetto a un lavoro agricolo
esterno. Max Weber sostiene come essa sia tale in presenza di un nucleo abitativo circoscritto e non
in relazione a case isolate. La città weberiana è parzialmente autonoma nella produzione di beni di
sussistenza.
In un dizionario viene definita anche come “grande centro abitato dove si svolgono attività
amministrative, economiche, sociali, religiose e culturali” descrizione simile a quella dell’Hoepli.
Il Cambridge Dictionary offre un elemento in più elevando al grado di città solo quelle town
britanniche aventi una cattedrale (quindi vale solo per UK e per tutti i paesi che hanno una quantità
cospicua di credenti cristiani).
Il Merriam Webster si concentra invece sul confronto tra le dimensioni della city e quelle della
town/village. In tutti questi casi, quindi, la dimensione sembra essere l’elemento caratterizzante. La
città potrebbe essere classificata come tale in base al n° di abitanti, ma questo presenta un limite
importante
➔ Quanti abitanti sono necessari per parlare di “città”?
A questa domanda non c’è una risposta univoca: per la Svezia bastano 200 abitanti, per il Giappone
ne servono invece 30.000.
Una volta messo da parte l’aspetto numerico, ci si comincia a chiedere quali siano le caratteristiche
che contraddistinguono l’avvitante di una metropoli. Secondo Georg Simmel (sociologo), chi vive in
una grande città svilupperebbe indifferenza, distacco. A questo proposito risulta importante il caso
di cronaca nera che coinvolse Kitty Genovese e da cui derivò la cosiddetta “sindrome Genovese”
➔ Una 19enne italo-americana venne accoltellata due volte, aggredita e stuprata nella totale
indifferenza dei suoi 38 vicini newyorkesi.
La città, essendo quindi un organismo complesso, mette in risalto alcuni aspetti tipici della ricerca
della scuola di Chicago, come lo sviluppo di spazi di segregazione, la figura dell’uomo marginale,
criminalità e delinquenza giovanile. Sono tutti campi di studio recenti.
La città è tale quando è abitata, caratterizzata da persone che interagiscono tra di loro all’interno di
un ambiente e lo modificano. La città attualmente è un’espressione dell’agglomerazione territoriale
delle attività umane in luoghi storicamente favorevoli, ma è anche il mezzo attraverso cui i territori si
collegano tra loro e si integrano. Ed è questa relazione che trasforma le città in centri di comando di
un mondo sempre più globalizzato e governato da un sistema a rete che collega tra loro i luoghi in
cui si svolgono attività analoghe. Basti pensare alle reti che collegano le capitali politiche e le sedi
degli organismi internazionali o delle attività finanziarie.

La geografia ha cercato di studiare in astratto gli aspetti volti a spiegare gli insediamenti urbani e le
relazioni fra città, attraverso aree di attrazione delle diverse funzioni. Un approccio diverso
comincerà a farsi strada solo con la svolta della geografia “umanistica”, che farà precipitare le
percezioni, le emozioni, il senso di appartenenza, nel cuore del discorso. Questo approccio troverà il
suo sviluppo negli studi di Yi-fu Tuan. Come afferma De Spuches
➔ Quest’ottica mostra come la città non sia solamente composta da artefatti materiali, ma
assuma l’immagine delle ideologie, valori, forme di potere che circolano al suo interno. Per
comprendere il significato delle città, quindi, dobbiamo sempre confrontarci con il contesto
culturale nel quale sono inserite.
➔ Da qui l’attenzione alla gentrification (movimento di popolazione che si concentra nei
quartieri centrali e storici, con la messa in atto di piani di rigenerazione urbana), alle gated
communities (aree residenziali limitate da recinzioni), agli spazi etnici, al paesaggio urbani.
Grazie a questi studi, gli amministratori stanno cercando di creare condizioni di vita migliori,
mettendo in atto politiche mirate al benessere degli abitanti (ad esempio riconversioni di aree
industriali dismesse, riprogettazione di aree abbandonate). Sono diversi anni che vengono anche
commissionati indagini volte a misurare la felicità degli abitanti dei diversi paesi e il livello di vivibilità
delle città. Purtroppo però, non sempre le metamorfosi urbane inducono il benessere in tutti gli
abitanti, a volte questi processi altro non fanno che aumentare le disuguaglianze.
Tuttavia, come ben sappiamo, la ricerca della città ideale ha origini antiche e ci riporta indietro nel
tempo.

3- CITTA’ UTOPICHE E CITTA’ IMMAGINARIE


“Utopia” > termine composto dalle radici “non” e “luogo”. La città utopica nasce dall’incontro-
scontro con la realtà, dalla volontà di proporre una società ideale in un contesto reale, e che per
questo non può essere impeccabile.
Un primo elemento ricorrente nelle città utopiche è la geometrizzazione morbosa degli spazi urbani,
indice di ordine, armonia, perfezione (alcuni spunti sono presi dalla pianta ortogonale di Ippodamo
da Mileto, così come la circolarità descritta ne “La città del Sole” di Campanella). La ricerca della
perfezione prende vita nei progetti architettonici rinascimentali: in Italia Filarete (Antonio Averlino)
propone Sforzinda
- Città progettata in onore del duca di Milano, caratterizzata da una pianta a stella a 8 punte.
L’austerità edilizia è indice di un progetto politico ben definito, come sono definite le
strutture che compongono l’assetto urbano; essa si riflette su un controllo della vita
comunitaria e delle attività lavorative che limita gli spazi personali dato che le porte si
aprono se spinte da una leggera pressione e le pareti delle case sono trasparenti. La
trasparenza data dalle pareti si ritrova anche in “Una casina di cristallo” di Palazzeschi.
La città cinta da mura alte e spesse presenta invece una contraddizione interna:
- Protegge i suoi abitanti, crea confini;
- Viola, aggredisce lo spazio personale.
Questa società che sembra egalitaria ricorda le ambizioni espresse dalla propaganda dittatoriale del
‘900, ma nelle società utopiche non esistono dissidenze, gli abitanti vivono una felice esistenza
preimpostata. Nelle città utopiche è tutto regolamentato, anche il tempo libero, e bisogna rispettare
una serie di norme che se trasgredite vengono sanzionate con la schiavitù. Ognuno sa cosa deve fare
perché è incasellato in un ruolo ben definito.
Le città utopiche sembrano essere la messa in atto delle teorie in cui la fantasia viene bandita in
nome di un controllo razionale della realtà. La società utopica è quindi chiusa di fronte
all’innovazione, riproduce e conserva modelli ideali consolidati.

4- ALLA RICERCA DELLA CITTA’ IDEALE


Città ideale > il nostro pensiero va ad Atene, quella città che emerge dalla descrizione che ci offre
Sofocle nel suo dramma “L’Edipo a Colono”.
Atene, città giusta a partire da chi la governa (Teseo) comincia la sua storia con un gesto di
accoglienza dei confronti del suo vecchio Edipo negli ultimi momenti della sua vita, nonostante
avesse ucciso il padre e provocato un’epidemia.
Da questo dramma sembra quasi che le virtù della città derivino dal suo ruolo di città rifugio, persino
nei confronti di un assassino.
➔ D’altronde Voltaire sosteneva che il grado di civiltà di un paese si misurasse dal numero
delle sue carceri.
Una simile riflessione ci conduce verso altre e più antiche città rifugio che per diverso tempo hanno
rivestito il ruolo di città ideale. In Genesi possiamo apprendere che Caino lasciò il Gan Eden per
trasferirsi a Oriente dal giardino stesso, nella terra di Nod e li fondò la città di Enoch (Uruk). Il primo
omicida biblico è quindi anche il fondatore della prima città descritta nella Torah.
Le altre 3 città sono invece parte di Canaan.
Un’altra interpretazione talmudica estenderebbe il ruolo di città rifugio a tutte le 48 città levitiche; tra
queste soltanto sei erano obbligate ad accettare un assassino, mentre le altre 42 erano libere di non
farlo in base alla decisione elaborata dal consiglio degli anziani.
Secondo il trattato talmudico Makkot 9b, per poter essere scelta come rifugio una città doveva
presentare alcune caratteristiche:
- Essere di medie dimensioni (evitare insediamenti troppo grandi/piccoli);
- Godere della presenza di risorse idriche, altrimenti si sarebbero dovute costruire;
- Presentare un afflusso continuo e costante di persone e mercati;
- Prevedere il divieto del commercio di armi.
In ultimo, Gerusalemme, Betel e Silo per il loro status (presenza del Tempio o del Tabernacolo) non
potevano svolgere il ruolo di rifugio.
Le 6 città rifugio
1. Bezer;
2. Ramot;
3. Golan;
4. Kedesh;
5. Sichem;
6. Kirjat Arba
Erano luoghi di accoglienza in cui colui che aveva commesso involontariamente un omicidio (per
l’omicidio doloso era prevista un’immediata condanna a morte) si ritirava fino alla morte del sommo
sacerdote, trovando quindi riparo da eventuali atti di vendetta da parte di familiari della vittima. Era
una tutela decisamente innovativa. A livello urbanistico esse presentavano strade spianate e agibili e
dovevano avere una chiara segnaletica indicante “rifugio” a ogni incrocio, in modo da agevolare
l’ingresso dell’omicida, che veniva accompagnato da due discepoli per garantirne l’incolumità.
La maggior parte dei residenti non era costituita da assassini, ma da anziani appartenenti alla tribù
dei Levi. L’ambiente era culturalmente vivace e stimolante: doveva fungere infatti da esempio per un
miglioramento personale. Ecco perché uno studente di Torah che aveva commesso un omicidio non
poteva essere abbandonato dal suo rabbino.
Con il tempo il concetto di città rifugio si è evoluto, fino ad arrivare ad una formalizzazione
attraverso una serie di Concili ecclesiastici risalenti al XI secolo. C’era però una differenza tra la città
rifugio biblica e quella offerta dalla Chiesa
➢ La chiesa accoglieva tutti in un ambiente ecclesiastico protetto e NON in una vera e propria
città adibita a rifugio, anche se rimane dubbio l’impatto educativo esercitato sugli assassini.
Però, ancor più drammatico è il ruolo delle carceri come ambienti di rieducazione, essi sono
isolanti, immersi in un contesto di privazione e assenza di modelli positivi.
Nella città ideale il carcere NON può esistere, ma piuttosto diventa il modello da imitare, basti
pensare al Panopticon > carcere inventato nell’età dei Lumi, omogeneo, razionalmente organizzato
e totalmente controllabile.
Sembra che il vero scopo delle città ideali fosse il controllo del potere. Un esempio tra i tanti > La
terra del Sole, creazione voluta da Cosimo I de’Medici nel 1564. Essa è una città architettonicamente
perfetta, nata come città ideale, ma che presentava al suo interno una cupa e impenetrabile prigione
e dove era conservato il più completo archivio criminale al mondo.

5- LE CITTÀ PIÙ VIVIBILI SONO ABITATE DALLE PERSONE PIÙ FELICI?


Calcolare statisticamente la vivibilità di una città o la felicità dei suoi abitanti comporta l’uso di
parametri che possono portare a risultati anche molto differenti tra loro.
Secondo una ricerca condotta dall’Economist, l’impatto della pandemia globale e le sfide che
questa ha comportato sono state variabili così importanti da poter ribaltare alcune posizioni che
parevano consolidate.
Sulla base di parametri quali stabilità, assistenza sanitaria, cultura, ambiente la città più vivibile è
risultata Auckland, seguita da Osaka, Adelaide (Australia), Wellington (N. Zelanda). Vienna, che lo
scorso anno era al primo posto, ora è al dodicesimo.
I dati per questa classifica sono stati raccolti in piena pandemia, ed è forse stato il motivo per cui i
ricercatori hanno rilevato che il punteggio medio globale di vivibilità era sceso di 7 punti rispetto a
quello pre-pandemia. La misura in cui le città sono state protette, la loro capacità di gestire la crisi
sanitaria e il ritmo con cui hanno lanciato le campagne vaccinali hanno determinato significative
variazioni nella classifica. Auckland risulta in testa proprio grazie alla sua capacità di contenere la
pandemia da Covid-19. Sei delle prime 10 città si trovano in Australia o Nuova Zelanda, dove i
controlli e le chiusure delle frontiere hanno permesso ai residenti di vivere una vita relativamente
normale. Molte città europee/canadesi sono scese nella classifica, poiché avevano imposto ai loro
abitanti severi lockdown, limitando gli eventi culturali e sportivi e chiudendo scuole e ristoranti.
La parte più bassa della classifica invece ha visto minori cambiamenti, con Damasco ancor
riconfermata come la città meno vivibile al mondo. In fondo alla classifica troviamo anche Lagos in
Nigeria, Port Moresby (Nuova Guinea) e Dhaka in Bangladesh. Si tratta di città in cui la stabilità è
incerta a causa di continui disordini civili e conflitti militari, le cui condizioni si sono aggravate poi a
causa del Covid (per mancanza di assistenza sanitaria).
Una differente indagine (marzo 2021), focalizzata sempre sull’impatto del Covid, ha mostrato risultati
in parte differenti. Forse perché volta alla ricerca non della vivibilità delle singole città
➔ Stiamo parlando del WORLD HAPPINESS REPORT, che ha visto quale nazione più felice la
Finlandia, seguita da Islanda, Danimarca, Svizzera, Paesi Bassi, Svezia, Germania ecc.
Dunque Nuova Zelanda e Australia che nella classifica precedente erano prime, si sono piazzate al
nono e dodicesimo posto in quanto a felicità degli abitanti. Il report aveva classificato anche le città,
ponendo Helsinki al primo posto come città più felice al mondo. Entrambe le ricerche si sono
sviluppate riguardo alla situazione post pandemia. Il World Happiness Report scava più a fondo nelle
emozioni per cercare di comprendere come gli ambienti sociali, urbani, si combinino per influenzare
la nostra felicità.
Le città hanno determinato nei secoli una crescita economica e un accrescimento per quanto
riguarda l’interazione tra gli esseri umani. Tuttavia l’emigrazione dalle aree rurali a quelle urbane ha
messo e mette tutt’oggi a dura prova le risorse e le infrastrutture. Comprendere le fonti della felicità,
secondo i ricercatori, non è una curiosità accademica, ma una questione di rilevanza fondamentale
per gli stessi amministratori e per le politiche da attuare nelle città stesse. Difatti, il rapporto non si
concentra sulla felicità degli abitanti di paesi diversi, ma confrontando abitanti dello stesso paese. La
felicità media dei residenti delle città è il più delle volte superiore a quella della popolazione
generale del paese.
Siamo certi che la vivibilità di una città o la felicità dei suoi abitanti possano essere compresi grazie a
parametri standard?
Il fatto che in N. Zelanda la pandemia sia stata controllata in maniera efficiente ha convinto molti a
pensare che quello fosse il miglior paese, tanto che alcuni neozelandesi che abitavano all’estero
sono ritornati nel paese d’origine.

CAPITOLO 2: DALLA MONTAGNA ALLA CITTA’: SPOPOLAMENTO,


DISCESE, RADICAMENTI

1- SPOPOLAMENTO IN MONTAGNA
La regione alpina ha conosciuto spesso modifiche di densità demografica in relazione a fattori e
cause politiche, religiose, psicologiche ed economiche diverse. Dal 19 sec le zone più colpite sono i
territori montani dell’Europa centro-meridionale, con modalità e tempi diversi a seconda delle zone.
Le Alpi italiane vengono interessate da questo fenomeno prima della prima guerra mondiale anche
se non in maniera eccessiva rispetto ad esempio alle Alpi francesi. Intorno al 1928 vengono messe in
atto delle iniziative per indagare dal punto di vista geografico e tecnico-economico l’estensione, le
cause ed i possibili rimedi del
fenomeno dello spopolamento delle zone montane in Italia. Un inchiesta fatta nelle zone interessate
a rivelato che alcune cause che hanno determinato la rarefazione demografica delle zone di
montagna:
• mancanza di strade,
• pesantezza dei tributi,
• disordini idraulici,
• politica vincolistica dei boschi,
• cattive condizioni edilizie,
• polverizzazione della proprietà
Il divario esisteva anche prima dell’800 se pur con tono minore. Quali possono essere i rimedi?
 Obiettivo primario: far sì che il montanaro trovi la convenienza, economica, psicologica e
culturale, a non abbandonare i suoi monti
 Necessario trasformare e innalzare il livello e la qualità della vita rurale alpina
 Mezzi principali proposti:
o agevolazioni fiscali
o bonifica integrale, specializzando il territorio con coltivazioni e
prodotti vincenti
o amministratori onesti e competenti
o miglioramenti infrastrutturali
o incentivi per l’istallazione di piccole industrie a tipo artigianale
o connesse con le produzioni locali
o industria del “villeggiante”

2- UNA VALLE, UN RE, SVAGHI REALI


Il Piemonte sud-occidentale in provincia di Cuneo, valle Gesso con i comuni di Entracque e Valdieri,
sono quei tipici territori un cui il clima, il paesaggio e la natura rappresentano un’attrattiva sui nobili
sabaudi. Territori oggetto di varie visite e soggiorni da parte degli aristocratici fin dal 15 sec. Inoltre,
nella metà del 19 sec alcuni territori sono stati concessi come riserva di caccia personale al re.
Questo portava ampi benefici per la popolazione residente e per il territorio:
- Manutenzione sentieri e strade
- Vigilanza e conservazione selva e fauna
- Benefici economici diretti e indiretti

2.1 – POPOLAZIONE E ATTIVITA’


Come si viveva in questi territori?
All’inizio dell’800 ad Entracque vivevano per lo più pastori ed agricoltori, i quali, nonostante i
territori limitati erano riusciti a rendere coltivabile la maggior parte del territorio impiantando un
sistema di manifatture tessili progettato per le cospicue risorse idriche a disposizione. Durante la
seconda metà del secolo le tre principali fonti di ricchezza:
- Pastorizia
- Lanifici
- Taglio dei boschi
Iniziano a risentire della crisi che sta colpendo tutta la regione. Decenni di estrazione e di tagli
abusivi di legname avevano ridotto i boschi. L’erosione del pascolo e delle selve aumenta con la crisi
agraria e di conseguenza ogni terreno viene sfruttato il più possibile coltivando soprattutto patate,
segale e fieno. Verso il 1870 si inizia a parlare di migrazioni su vasta cala, nel senso che non si
sarebbe trattato di una migrazione non più temporanea e stagionale, ma di un vero e proprio
abbandono della montagna.

3- GRANDI CONFLITTI
Il 900 inizia con la guerra italo-turca e con la seduzione del nuovo continente, mentre chi resta è
costretto a lottare con il razionamento alimentare, il caro viveri e la disperazione. La vita ad
Entracque, durante la prima guerra mondiale, trascorre come in tutte le altre città italiane, eccezion
fatta per le città prossime ai luoghi di combattimento, risentono soprattutto delle ricadute
economiche del conflitto. Il paese dopo un periodo di crescita demografica conosce una fase di
impoverimento sia demografico che zootecnico , nonostante avessero caratterizzato la struttura
economica e sociale per secoli. Quali possono essere le soluzioni per frenare lo spopolamento?
- Riforma della proprietà per impedire altri frazionamenti
- Miglioramenti a stalle ed abitazioni
- Si migliora la viabilità montana attraverso la costruzione di strade carreggiabili
- Si razionalizzano i metodi di agricoltura
- Costruzione di alberghi e piste per una meta di turismo invernale .

3.1 – PRIMO DOPOGUERRA E VENTENNIO FASCISTA


La ripresa economica del primo dopoguerra non è semplice, soprattutto nelle monatgne, ed il
governo lotta con la disoccupazione e con la difficoltà a reintrodurre i reduci di guerra. Ogni comune
fa tutto il possibile per aiutare la popolazione. Il paese o colpito da una carenza di beni di prima
necessità, si tratta di una crisi economica non solo locale ma anche mondiale.
L’ Avvento regimi fascisti in Europa
• In Valle scarse agitazioni e regime instaurato senza grosse violenze
• Liturgie laiche: parate, riti collettivi (il sabato fascista) con i quali lo stato fascista celebra
se stesso

3.2 – SECONDO CONFLITTO MONDIALE


Si percepisce nell’aria che lo scontro mondiale è alle porte tanto che vengono coinvolti anche i civili,
vengono migliorati gli apparati difensivi in quota, venogno distribuite delle carte per l’acquisto di
generi razionati si verifica un massiccio rientro degli emigranti dalla Francia.
Nei due anni precedenti allo scontro l’esercito è allo sbando, si verifica anche un ondata di
immigrazione degli ebrei che fuggono dalle persecuzioni. Gli ultimi venti mesi del conflitto sono
ancora più difficili in quanto si deve affrontare anche la scarsità di cibo.

4 – LA LIBERAZIONE
La Liberazione crea euforia ma allo stesso tempo la ripresa è durissima. Occorre ricostruire tutto
dalle abitazioni stesse alla vita stessa delle popolazioni.

4.1 – SECONDO DOPOGUERRA


Diventa sempre più difficile vivere di solo reddito di castagne e patate, e questo produce una fuga
verso la pianura e le zone industriali

5 – GLI ANNI DEL BOOM


Lo sviluppo economico che l’Italia consoce tra il 1949e il 1973 contribuiscono non solo ad una
crescita del reddito ma incentivano ancor di più le fragilità e gli squilibri tra Nord e Sud. Troviamo un
Italia polarizzata:
• da un lato, le grandi città, specialmente nel Nord, con posti di lavoro, servizi, attività
edilizia, infrastrutture
• dall’altro, zone rurali colpite da spopolamento, isolamento, marginalità economica e
sociale
Nelle grandi Città industriali, soprattutto al Nord:
• Casa e lavoro, fine della miseria
• Differenza culturali e identitarie
• Emarginazione tra due gruppi sociali da un lato i cittadini storici e quelli “arrivati prima”, dall’altro
gli ultimi arrivati.

5.1 – TORINO
Torino diventa una delle città emblema della ricostruzione e dello sviluppo dell’immediato
dopoguerra e rientra nel cosiddetto TRIANGOLO INDUSTRIALE insieme a Milano e Genova. Si
trasforma così da piccola città di provincia, anche nelle dinamiche interrelazionali, a grande città
industriale.
Fa fronte a:
 Rapido incremento dei residenti problematiche infrastrutturali e logistiche collaterali:
disponibilità, inadeguata alle esigenze, di alloggi e posti letto e di servizi atti a soddisfare le
necessità degli abitanti
 Quartieri di case popolari nelle periferie (le "barriere")
 Trasporti: rete in crescita, ma in ritardo rispetto alle esigenze
 Servizi alimentari:
o GDO – primo punto vendita della Grande Distribuzione Organizzata nel 1959
o Negozi di vicinato: latteria, panetteria, salumeria, macelleria, verduriere
 Latteria:
o un negozio frequentato giornalmente
o uno dei punti di contatto nel quartiere, per scambi di
opinioni, informazioni ed il gossip del tempo

6 – CONCLUSIONI

Gli abitanti della montagna, dalla montagna sono scesi in città per ricercare migliori condizioni di
vita.
Non avevano organizzazioni per agevolare gli spostamenti e gli inserimenti: spesso la migrazione era
frutto di scelte personali indipendenti, al massimo a seguito di "sentito dire ".
Nel tempo si sono integrati e sono diventati parte del tessuto attivo della città.
Seconde e successive generazioni  si verifica un meccanismo migratorio di ritorno: la diffusa
volontà di risalire la strada percorsa in discesa e ritornare nelle terre alte, adesso maggiormente
vivibili.
La montagna è cambiata: offre opportunità per le nuove generazioni, permette di cercare modelli di
vita innovativi e sostenibili, si propone come buen retiro per montanari di ritorno o villeggianti
stanziali.

CAPITOLO 3: INNOVAZIONE E RESILIENZA NELLA CITTA’


INTELLIGENTE. PRATICHE FIORENTINE AL TEMPO DELLA PANDEMIA

1-LA CITTA’ INTELLIGENTE


La città intelligente, conosciuta anche come SMART CITY, è un organismo che si trasforma
continuamente attraverso la tecnologia applicata alla comunicazione digitale, alla gestione e al
monitoraggio dei vari aspetti che contribuiscono alla salute della città (rifiuti, traffico, commercio,
cultura, ecc) e che tende alla sostenibilità ambientale, economica e sociale.
Gli obiettivi sono:
- garantire ai cittadini una migliore qualità di vita
- maggiori possibilità lavorative
- fornire agli utenti esterni (turisti, imprenditori, studenti, immigrati e pendolari un’esperienza
di qualità.
Per raggiungerli occorre una fase di pianificazione e investimenti in capitale tecnologico e nelle
risorse umane. In questo tipo di città il cittadino è centrale in quanto crea le basi sia per la
partecipazione attiva alle questioni pubbliche sia per la formazione ricevuta in quanto aiutano a
sviluppare nuove visioni e prospettive. Questo processo può richiedere diversi anni perché entrano
in gioco diversi fattori, da quello culturale a quello economico a quello strutturale. Questo fenomeno
è conosciuto come SMARTIFICATION.
Questo tipo di città si oppone alla DUMB CITY, detta anche città stupida, nel senso di una città
immobile, che non è aperta e non accetta i cambiamenti globali e tecnologici, e la si trova in quelle
zone dove l’indice di sviluppo umano è basso o dove ci sono forme di governo critiche nei confronti
della globalizzazione e alla modernità.
Una città esprime la sua dinamicità attraverso le funzioni urbane, definite come attività capaci di
attivare, controllare e mantenere le relazioni culturali, politiche ed economiche di cui è fatta la vita
sociale. Se conoscono 4 tipologie:
1. culturali  istruzione, teatro, festival, musei, conferenze
2. direzionali  governo del territorio, istituti di credito, difesa e forze dell’ordine
3. produttive  artigianato, imprese, mercato del lavoro
4. distributive  trasporti, commercio, turismo, servizi sanitari.
Si tratta di città che sono studiate fin dal 1990 grazie allo sviluppo delle TIC  TECNOLOGIE
DELL’INFORMAZIONE E DELLA COMUNICAZIONE.
Si tratta di un campo di studio in continua evoluzione e che prende in esame anche altre ricerche
come quelle relative alle strutture urbane auto poietiche, ovvero capaci di evolversi per soddisfare le
esigenze dei relativi cittadini per a creazione di comunità più resilienti. Queste città sono in grado di
affrontare la globalizzazione e i periodi di crisi molto meglio rispetto alle altre.
La pandemia ha limitato la possibilità di apprendere nuovi sistemi di comunicazione. Anzi, in molti
casi lo sviluppo delle interazioni a distanza ha dato la possibilità di:
- lavorare da casa  smart working
- seguire le lezioni da casa  e-learning/ e-teaching
- fare acquisti da casa e-shopping
- affidarsi anche alla sanità digitale e-health, in quanto offre servizi di prescrizione e
diagnosi a distanza.
Allo stesso tempo questo tipo di città ha smosso delle critiche, perché è come se obiettivi ed
esigenze tra i produttori e i cittadini non coincidano, nel senso che:
- il rischio è quello che i cittadini si debbano adattare in modo forzato a questi sistemi. In
questo senso ci si chiede se questo cambiamento debba essere imposto dall’alto (approccio
top-down) o debba partire dalle proposte dei cittadini (approccio bottom-up).
- Altra critica è data dal fatto che data l’età avanzata di una buona parte della popolazione,
essi non siano in grado e non abbiano la possibilità di accedere a questi servizi e di essere
ancor di più emarginati.
In questo senso possiamo dire che la pandemia ha favorito un passo in avanti della globalizzazione.

2- LA CITTA’ E IL TURISMO
Lo studioso Patrick Brouder ha equiparato la pandemia al reset avuto dopo gli attacchi terroristici del
2001 e alla crisi economica del 2008. Prendendo in considerazione il settore del turismo possiamo
dire che la pandemia ha dato la possibilità di valutare il grado di dinamismo, creatività e resilienza di
alcuni contesti urbani. In questo senso Klaus Kunzmann ha affermato che questa nuova competenza
digitale ha portato all’aumento delle prenotazioni digitali dei viaggi e delle strutture ricettive, e di
conseguenza, per creare un ulteriore passo in avanti nella società gli operatori e professionisti
devono creare una collaborazione con gli studiosi, questo perché il settore turistico rappresenta uno
dei settori chiave dell’economia mondiale.
La pandemia ha confermato ancora di più il fatto che viviamo in uno spazio fisico che è allo stesso
tempo virtuale. Negli ultimi anni occorre però dire che il gap tra la percezione di una città e la sua
reale consistenza si sia assottigliato grazie alle nuove modalità informatiche come le recensioni, le
webcam ad alta risoluzione ecc.

3- LE BUONE PRATICHE DI FIRENZE, CITTA’ INTELLIGENTE


In quest’ottica, ad esempio, Firenze è riuscita a destagionalizzare i suoi turisti, nel senso che ad oggi
son ben distribuiti nell’arco dell’anno e non in una particolare stagione, questo perché è stata
attivata la piattaforma di smart tourism “Feel Florence” il cui obiettivo è quello di proporre al turista
attrazioni meno conosciute e nuovi itinerari che siano in grado di valorizzare l’intero territorio senza
nessuna esclusione. Ad esempio molte strutture come i musei per fronteggiare anche le limitazioni
imposte dai DPCM sono riuscite a mantenere attivo l’interesse nei confronti della struttura attraverso
varie attività virtuali.

4- CONCLUSIONI
La pandemia ha dato la possibilità ad alcune città di dimostrare il grado di competitività raggiunto e
di diventare un modello di riferimento. Firenze è l’esempio di capacità nei contesti ad alto livello
tecnologico e di competenze di superare brillantemente alcune situazioni critiche, collaborando con
altre strutture a sviluppare e trarre beneficio dai nuovi canali multimediali.

CAPITOLO 5: LA RI-FUNZIONALIZZAZIONE DEGLI SPAZI URBANI

1-INTRODUZIONE
Lo spazio nel quale abitualmente viviamo e muoviamo i nostri passi quali “attori sociali” è sembrato
(fino alla diffusione del Covid-19 almeno) un qualcosa di scontato.
Lo spazio abitato è anche quello della memoria individuale e collettiva, all’interno del quale si
sovrappongono diverse appartenenze identitarie, soggettività diverse che definiscono e strutturano
paesaggi culturali.
Al senso di appartenenza ai luoghi può essere data una duplice lettura:
1. Un luogo può appartenerti
2. Tu puoi appartenere a un luogo.
Il senso di appartenenza è fatto in larga misura da memoria
➢ Per appartenere a un luogo devi legargli la memoria; per legare le tue memorie a un luogo
devi viverci esperienze memorabili.
È strano, però, che molto spesso le persone non riescano a distinguere tra ciò che è ordinario e ciò
che è straordinario, trasformando tutto in esperienza. Così troviamo persone che vivono in
condizioni di totale ordinarietà che trovano un forte senso di appartenenza.
Quello che realmente conta è l’intensità dei ricordi.
Il patrimonio identitario contribuisce a definire e riconoscere i segni impressi dalle vicende umane
sullo spazio del vissuto. Il rapporto tra memoria collettiva e identità comprende 3 fattori
fondamentali:
➔ Uno in particolare è un preciso riferimento spazio-temporale in cui oggetti, persone e
luoghi si relazionano tali da diventare elementi essenziali dello spazio e del tempo.
La memoria per poter essere tramandata e continuare ad esistere ha bisogno non solo di riferimenti
concreti, ma anche di supporti che rendono visibili quei legami nascosti.

2. LA CITTÀ SOSPESA
La città è un nodo di relazioni all’interno delle società e dello spazio che queste occupano > uno
spazio umano, che viene modellato e interpretato. Uno spazio di cui ciascun individuo, gruppo,
classe, dispone concretamente in una società, ne riflette il prestigio.
Si può affermare quindi che lo spazio si definisce in rapporto agli esseri umani che lo usano, che si
muovono al suo interno, che lo percorrono e lo dominano.
Già Evans-Pritchard sottolineava che, se è incontestabile che lo spazio è determinato dall’ambiente
fisico, ecco poi incorpora valori e dipende da principi strutturali. Non c’è dubbio che l’uso dello
spazio è strumentale ed espressivo. Interiorizzando l’ordine spaziale che il proprio gruppo di
appartenenza ha storicamente costruito, l’individuo interiorizza l’ordine sociale che ordinerà la sua
vita psichica e sociale.
I cambiamenti strutturali non hanno mai messo in discussione i caratteri fondanti della città, a partire
dalla centralità degli spazi. Tutto questo perché osservandone gli usi sociali è possibile cogliere gli
elementi identitari della città, le sue economie, il grado di attrattività.
Il concetto di spazi urbani quali veri e propri contenitori di idee, iniziative, risale ai primi decenni del
‘900 (1938), nello specifico con le riflessioni di Wirth che riesce ad evidenziare come solo le città
fossero in grado di produrre distinti mondi sociali.
Però, l’emergenza sanitaria per la diffusione del Covid-19 ha messo in crisi in poche settimane i
caratteri fondanti delle nostre città, a partire dai suoi spazi collettivi, adottando misure restrittive per
contenere il rischio di contagio, tra cui in primis l’inibizione della fruizione degli spazi pubblici e il
distanziamento fisico
➢ Annullamento di gran parte delle interazioni sociali. A livello pratico questo ha significato
mettere in lockdown circa 1/3 della popolazione mondiale.
➢ Da un punto di vista della sociologia urbana e territoriale tale evento ha condotto ad una
vera e propria SOSPENSIONE della città, concetto che può essere applicato in una
molteplicità di contesti, a cominciare dalla vita organizzata secondo fasi di attività diverse.
“Sospensione”: normalmente è un termine che fa riferimento ai momenti di stacco dal lavoro
(weekend o ferie), quando ci si può dedicare alla famiglia. Per la società, la sospensione periodica del
lavoro riveste tendenzialmente il carattere di svago e lo svago è distanziamento fisico e mentale da
tutti i problemi.
Ancora oggi, però, in molte società i momenti di sospensione non equivalgono allo svago. Pensiamo
ad esempio ai rituali di “iniziazione”, diffusi nelle società extra europee.
➔ Ciò che fa da collegamento è il comune carattere di “liminarità” > le città e i suoi cittadini si
trovano in una condizione liminare sotto il profilo spaziale, temporale e occupazionale. La
liminarità dei rituali di iniziazione è spesso privazione, sofferenza, esperienza di dolore.
Abitare (dal latino) significa vivere, occupare uno spazio determinato nel quale è possibile rilevare
tracce di un vivere permanente che sopravvive nella memoria di chi resta, nei luoghi, nella storia,
gettando le basi del senso di appartenenza e della creazione di identità collettive. Queste ultime
generano luoghi di memoria che assumono una dimensione spaziale e temporale in riferimento sia a
punti reali dello spazio, sia a rappresentazioni, perché investiti di un significato evocativo di
appartenenza.
Riflettendo suk pensiero di antropologi come Lévi-Strauss, De Martino e Bourdieu ci ricordiamo
come sia proprio il modo in cui abitiamo a plasmare il modo in cui viviamo il mondo, ecco perché
l’esperienza che il Covid-19 ci ha fatto vivere è importante, perché se i processi con cui plasmiamo
noi stessi sono influenzati dal modo in cui abitiamo lo spazio, una variazione di questo ci orienta
verso un diverso modo di dare forma alla nostra umanità.
Noi siamo passati da una molteplicità e libertà di accesso ai vari spazi a doverci limitare a spazi
riservati alla nostra sopravvivenza biologica. Siamo passati dalla relazione con i paesaggi condivisi al
ritiro nello spazio privato. Questo ritiro però, non è una libera scelta di eremitaggio.
Ci siamo ritrovati in case che non sapevamo più come abitare, indossando la giacca e la cravatta da
ufficio per rimanere in camera da letto o in salotto. La dimensione spaziale si configura anche nei
modi con cui viviamo le relazioni, nella distanza interpersonale. Viviamo una sospensione di quelle
che il sociologo canadese Goffman individua come “rituali di deferenza e contegno”
➢ Sono basati su scambi fisici in presenza, in ambienti predisposti, dove la fisicità è essenziale.
Ci siamo dovuti reinventare questa dimensione rituale che serve a riconoscere la sacralità dell’altro,
traducendola in quello che è lo smart working, dove i diversi ruoli che viviamo si trovano sovrapposti
nell’ambiente domestico. Nel telelavoro non è possibile esprimere la vicinanza consueta tramite
strette di mano, abbracci.
Ci siamo ritrovati quindi alle prese con una riorganizzazione collettiva dello spazio sociale.

3. LA CITTÀ E I SUOI RITI


La dimensione della socialità è costitutiva dell’uomo. Per questo, per quanto la trasformazione degli
spazi ci costringa ad un distanziamento sociale, la nostra creatività rielabora il patrimonio culturale
per inventare nuove forme di relazione.
Si possono riconoscere comportamenti ripetitivi, standardizzati, che vengono definiti in antropologia
come “riti”, che permettono facilmente di distinguere le varie occasioni.
Abbiamo assistito alla chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, dei teatri, dei musei e dei negozi,
ristoranti, bar ecc: tutto questo ha profondamente cambiato molte delle abitudini consolidate sia
negli spazi privati, sia in quelli pubblici. È stato interessante osservare come la comunità abbia
organizzato, nel primo periodo, momenti di socialità modificando le modalità di fruizione delle città,
mentre dopo l’estate il loro atteggiamento si sia modificato, generando confusione, rabbia.
➢ Febbraio 2020, Musillo ricorda che per i cittadini gli spazi pubblici (bar, ristoranti, locali)
diventano quasi un’estensione della loro abitazione. Aggiungiamoci poi anche la comodità
della delivery, grazie a piattaforme e internet, che permettono di lasciare immacolate le
cucine delle case rendendole quasi inutili.
Prima del Covid-19, quindi, la città dissolveva i propri confini nei confronti degli spazi urbani e
spostava al di fuori dello spazio domestico funzioni e riti.
Cosa succede adesso, nelle città dell’aperitivo post lavoro, delle passeggiate e delle chiacchierate,
con la chiusura delle attività?
Sappiamo che, se nel corso del primo lockdown gli spazi della città si erano in quale modo
riorganizzati, qualcosa dopo l’estate è cambiato.
Febbraio- marzo- aprile: in questi primi mesi nelle case i fornelli erano sempre accesi per cucinare,
il divano diventava la poltroncina del cinema casalingo. La casa, quindi, non era più soltanto un
luogo di passaggio, ma uno spazio che aveva saputo riappropriarsi delle sue funzionalità primarie,
riportando all’idea di casa come riparo. E fuori?
Facendo un passo indietro nel tempo, pensando agli anni ’50, la divisione fra spazio pubblico e
privato era ben chiara:
- Fuori dalle mura di casa = pubblico;
- Dentro le mura = privato.
Piano piano però, le cose sono cambiate e lo spazio pubblico è entrato in casa attraverso la radio, la
televisione, il cellulare. La socievolezza è quindi ampliata.
Le aree private e pubbliche sono definite dai riti. Lo spazio abitativo torna ad essere privato, ma resta
sempre e comunque aperto alla socialità, anche grazie allo smart working, che permette di svolgere
le attività d’ufficio da casa.
In situazioni di crisi i riti aumentano. Attraverso il rito si mette in comunione il dramma, si esprimono
le emozioni da esso generate, si cerca di attutire il dolore. Infatti, in questi momenti si perdono due
punti di riferimento:
1. Territorio, che viene distrutto;
2. Comunità, che viene sconquassata dalle morti improvvise, dallo sfollamento.
“Andrà tutto bene”: è un motto. Razionalmente sappiamo che NON va tutto bene, e ripeterlo non
farà cambiare le cose. Ma il rito NON si muove sul piano RAZIONALE, bensì su quello EMOTIVO >
quanto più i riti sembrano assurdi, tanto più sono necessari.

4. LA RICERCA SUL CAMPO


Le misure messe in atto nei vari Paesi sono state estremamente eterogenee, così come eterogenee
sono state le risposte alla crisi dei singoli individui
Sono state condotte in questi mesi moltissime ricerche, la prima parte tra marzo e aprile 2020. In
questo momento è stato interessante notare come fossero diversificati i racconti, come lo spazio
della casa prendesse forme differenti a seconda dei vissuti personali.
Il lockdown NON è stato uguale per tutti, difatti la nostra percezione della città, degli spazi in cui
si vive è legata all’approccio personale.
➢ C’è chi percepisce le pareti di casa come soffocanti e chi vivendo in campagna gode della
vista dei monti. C’è anche poi la distanza tra chi resta chiuso in casa ad eseguire la pulizia di
ogni singola piastrella e chi incontra i compagni dei corsi universitari tra le corsi dei
supermercati.
Si è notata una maggiore difficoltà nei confronti della sospensione della quotidianità da parte di chi
si è ritrovato chiuso in appartamenti molto piccoli, costretto magari ad una convivenza forzata con
più persone della famiglia.
E se in estate sembrava quasi tutto tornato alla normalità, a partire dall’autunno si impongono
nuovamente le restrizioni a causa dell’aumento dei contagi, dei ricoveri, dei decessi.
Ed ecco che la percezione cambia nuovamente: gli infermieri che fino a prima erano trattati come
eroi si trasformano in assassini, gli arcobaleni colorati sbiadiscono, nessuno esce sul balcone a
cantare. La rabbia e la disillusione prendono il sopravvento, e si trasformano in teorie del complotto,
ed è lì che le regole e i divieti vengono spesso non rispettati.
➢ Alla domanda circa la percezione della gravità del Covid-19: 60 % ha risposto di ritenerlo
molto grave;
11,8% grave;
27,6% lo ritiene una semplice influenza.
Interpretando i dati, quindi, non stupisce che alla domanda “dopo l’estate ha ancora seguito le
regole?” una buona parte abbia risposto di no.
Quanto alla DAD, gli universitari si sono suddivisi abbastanza equamente tra chi l’ha ritenuta
migliore e chi peggiore, oppure chi non ha riscontrato alcuna differenza. Parlando della
quotidianità, nel corso dell’intero anno quasi la metà della popolazione ha dichiarato di aver
sofferto per la mancanza di “movida”, altri per le ridotte possibilità di shopping, altri ancora per la
lontananza dai famigliari o dai fidanzati.
La convivenza per l’intera giornata con genitori/figli per il 35% ha migliorato le relazioni, mentre
per altri si è rivelato un vero e proprio inferno. La casa quindi per alcuni è stato un vero riparo,
mentre per altri un ambiente ostile.
Un’ulteriore riflessione è quella riguardante i vaccini: la stragrande maggioranza ha dichiarato la
propria volontà a farsi vaccinare, non ritenendo di trovarsi in “dittatura sanitaria”.

2. ALCUNE RIFLESSIONI CONCLUSIVE


Durante il lockdown l’abitazione è diventata luogo di studio, lavoro, svago, facendo emergere nuove
esigenze e questioni che sembravano risolte: dal sovraffollamento all’adeguatezza della casa. Sono
tutte questioni che mettono al centro la qualità abitativa e l’abitare di qualità, che influenzano altre
sfere in cui si accentuano le diseguaglianze > scuola, dove la diversa dotazione di uno spazio
adeguato e tecnologico può incidere sui percorsi educativi; la divisione di genere nei confronti delle
attività domestiche e cura dei figli; il diverso livello di benessere amplificato dalla presenza/assenza di
spazi esterni (giardini, balconi).
La città (in)vivibile può essere definita anche attraverso questi parametri: la pandemia da Covid-19
ha evidenziato la povertà urbana causata dalla perdita di lavoro, distanza sociale, che hanno
comportato un peggioramento delle diseguaglianze e della marginalità. È una condizione che si è
evidenziata maggiormente quando l’utilizzo dei dispositivi informatici è diventato fondamentale per
la DAD, per l’apprendimento.
È un’emergenza che è stata segnalata anche da Save The Children, denunciando l’aumento di una
povertà educativa causata dal disagio economico e abitativo. In molte città italiane, come Roma,
Milano e Torino, le scuole tramite le forze dell’ordine hanno consegnato a famiglie in difficoltà e che
ne erano sprovviste, computer, tablet per garantire l’attività didattica a distanza.
Per quanto riguarda gli universitari, la situazione è differente: già abituati ad utilizzare pc e tablet
che hanno sostituito la penna e il quaderno, hanno apprezzato maggiormente lo svolgimento delle
lezioni a distanza per la comodità di avere le lezioni sempre pronte all’uso, e senza doversi spostare
magari tramite lunghi viaggi in treno.
CONCLUSIONE: in questo particolare momento storico la città è diventata il luogo primario dove la
dimensione individuale prevale su quella collettiva, in cui la città si sta reinventando a favore del
singolo, dove predominano la fruizione della stessa e dove lo spazio aperto viene annullato dall’idea
di spazio vuoto perché momentaneamente “sospesa” la funzione sociale.
CAPITOLO 7: BORGO FILADELFIA: IDENTITA’ E GEOGRAFIA DI UN
QUARTIERE TORINESE
1-INTRODUZIONE
Borgo Filadelfia è un quartiere di Torino, delimitato a nord da Corso Bramante, a sud da corso
Giambone, a ovest da corso Unione Sovietica e a est dalla ferrovia. Ad oggi, da un punto di vista
amministrativo fa parte della circoscrizione 8 e la cui storia è legata a Borgo del Lingotto a causa di
continuità territoriale, tanto che molti torinesi li considerano come un unico quartiere.

2-UN PO’ DI STORIA


Borgo Filadelfia è stato uno degli ultimi quartieri a nascere nella fase di sviluppo urbano nel periodo
interbellico, e questo suo ritardo è dato anche dalle caratteristiche del territorio. I primi edifici che
vennero costruiti furono:
- Campo Torino,1926  conosciuto anche come Stadio Filadelfia (caro ai tifosi granata)
- Mercato Ortofrutticolo all’ingrosso (MOI), 1933  di cui oggi ne resta solo un blocco di
pietra che segnava l’ingresso nella struttura, e l’avvento dei mercati favorirà lo sviluppo
delle prime case popolari, la scuola e qualche piazza.
Lo sviluppo continua anche dopo la seconda guerra mondiale, ed è anche dovuta all’ondata
migratoria dal meridione, tanto che furono costruite nuove strutture per affrontare in qualche modo
la richiesta, e la crescita coinvolse tutti i settori.
Dal 2000 è iniziato un percorso di trasformazione che coinvolge anche il quartiere Nizza-Millefonti.

3- LE GRANDI TRASFORMAZIONI URBANISTICHE, OLIMPICO E POST-OLIMPICO


Il quartiere Nizza-Millefonti fu il primo quartiere a sentire l’esigenza di rinnovamento. Viene
dismesso lo stabilimento FIAT Lingotto e ci si inizia ad interrogare su come riutilizzare quel
territorio. Oggi il Lingotto è un centro polifunzionale che racchiude al suo interno un centro
commerciale, uffici, politecnico dentistico, auditorium, pinacoteca, rendendolo così un punto di
riferimento per la città.
Ad oggi rappresenta un esempio di urban resilience, vale a dire la capacità di un luogo di resistere
allo stress del tempo, plasmandosi e modificando la sua vocazione in favore di un’altra.
La sua ri-progettazione generale va di pari passo con altri due eventi:
- la decisione di trasferire i mercati generali fuori Torino
- l’assegnazione di Torino come luogo dei giochi olimpici invernali  si pensa di utilizzare la
zone degli ormai ex mercati generali come luogo pronto ad ospitare gli atleti.
Ma ben presto si ripresentò lo stesso problema di riqualificazione dell’area. Nel 2013 si pensò di
creare un museo per auto d’epoca e modellismo ferroviario, soluzione che non si è mai
concretizzata. Il degrado iniziava a prendere il sopravvento, e nel giro di poco quel territorio divenne
da polo commerciale a villaggio olimpico a terra di nessuno.

4- IDENTITA’ RICOSTRUITE E NUOVE VOCAZIONI


Il trasferimento dei mercati generali portò ad una crisi identitaria e si decise così di trovare una
struttura sulla quale spostare e ricostruire l’immagine del borgo. Si decise di ricostruire lo stadio
Filadelfia. Così come la scuola di management ed economia ha contribuito a ridisegnare la struttura
urbana, in quanto la frequentazione di studenti ha portato allo sviluppo di numerose attività come
copisterie, internet point, piadinerie, copisterie ecc.

5- CONCLUSIONE
Borgo Filadelfia è allo stesso tempo quartiere granata e quartiere studentesco, o meglio ancora poli-
identitario, qualsiasi tipo di soluzione si trova ancora in una fase iniziale nel senso che nessuna
prevale sulle altre tanto da creare un imprinting identitario così forte.

CAPITOLO 9: COPENHAGEN – VIAGGIO GASTRONOMICO NELLA


DIETA NORDICA
1. INTRODUZIONE

Copenhagen è la capitale della Danimarca, sorge su un territorio pianeggiante sulle isole di Zealand
e Amager. Il clima tipico è oceanico, le precipitazioni non sono abbondanti, ma ben distribuite.
Estate 2001: Copenhagen e la città di Malmö sono collegate da un ponte, e il risultato è che la città
danese è diventato il centro di una vasta area metropolitana tra Danimarca e Svezia.
Essa è stata classificata come la città più felice d’Europa.
Tradizionalmente, alla base della cucina danese ci sono il maiale, le patate, i formaggi, latticini. Sono
molto noti il morbradboffer (maiale fritto nel burro con salsa di panna), le frikadeller (polpette di
carne di maiale, latte, uova, cipolla e farina).
Copenhagen era ed è tutt’ora nota per i suoi rod polse, panini a base di salsiccia rossa che venivano
venduti soprattutto nei food truck introdotti in città nel 1920.
In altre parole, la dieta era tutto il contrario di quello che, a partire dal 2004, diventeranno vere e
proprie regole d’ordine: stagionalità, freschezza, benessere degli animali, giuste contaminazioni ecc.

2. LA NEW NORDIC DIET


Enogastronomicamente parlando, è noto come noi italiani tendiamo a percepire la nostra cucina
come “superiore” rispetto al resto del pianeta, questo perché siamo riusciti a mettere in relazione
sapore e benessere in maniera tale da poter soddisfare anche il nostro fabbisogno calorico,
utilizzando molta frutta, verdura e derivati dai cereali. La dieta mediterranea è il nostro vanto.
È evidente invece, come molti stati europei abbiano alla base della loro alimentazione prodotti di
origine animale, ad esempio nei paesi germanici, nelle regioni neerlandesi, dove la tradizione è
basata principalmente su carne rossa, prodotti vaccini ricchi di grassi saturi che portano
all’incremento di patologie come l’obesità e l’ipercolesterolemia (con annesso aumento di malattie
cardiovascolari, cancro ecc).
Come affrontare il problema?
Molto spesso le persone ritengono che il mangiare salutare sia buona pratica per il nostro corpo, ma
non altrettanto soddisfacente per il nostro palato: per questo motivo c’è chi si affida a prodotti
preconfezionati, senza immaginare che sia possibile combinare prodotti salutari e bontà allo stesso
tempo, esattamente come abbiamo fatto in Italia.
A partire dal 200, in Danimarca e in particolare nella capitale, cuochi ed esperti hanno deciso di
mettersi in gioco per rifondare una cucina ed una dieta basate sul benessere e sul gusto, sulla
sostenibilità e sull’identità nordica.
D’altra parte, Copenhagen ha fatto della salute e sostenibilità proprio il suo più ampio progetto per il
futuro.
Da 15 anni, dunque, Copenhagen si propone come paradigma di sperimentazione di politiche socio-
ambientali e programmi di riqualificazione urbana basati sulla convergenza di 3 fattori:
1. Verde;
2. Acqua;
3. Uomo.
Si tratta della NEW NORDIC DIET > nasce con il “The New Nordic Cuisine Manifesto” (2003). Esso
racchiude alcune idee culinarie e nutrizionali importanti: ad esempio un accento speciale viene posto
sul fatto che la cucina nordica debba ispirare gioia nel cibo. Indubbiamente, si tratta di un approccio
innovativo nei confronti della tradizione culinaria danese, che rinasce grazie ad una forte attenzione
alla salute.
Tra i 10 punti principali del manifesto:
- Esigenza di combinare sapori ottimi per il palato con la conoscenza del benessere
dell’individuo;
- Mantenere l’identità nordica attraverso l’autosufficienza locale dei prodotti del luogo;
- Unire tutti i piccoli artigiani della cucina (pescatori, agricoltori, allevatori).
Tra i vari cuochi firmatari del manifesto, ne troviamo uno molto importante: RENÉ REDZEPI.

RENÉ REDZEPI E IL FORAGING


Redzepi > pilastro principale. Nasce a Copenhagen nel 1977 da madre danese e padre macedone di
religione islamica. Inizia gli studi per diventare cuoco, per poi finire in cucine molto prestigiose, ad
esempio a Montpellier.
2003: apre il suo ristorante “Noma”, assieme a Claus Meyer. Insieme mettono concretamente in
pratica i primi punti della dieta nordica.
Sarà questo connubio tra salute, gusto e riscoperta dei prodotti nordici di Copenhagen che porterà
alla scoperta del “Noma”, facendogli guadagnare due stelle Michelin.
Gli chef della nuova cucina hanno riscoperto una pratica gastronomica distintiva che ha assunto il
nome di foraging
➢ “Andar per campi alla ricerca di erbe spontanee”.
Questo significa riappropriarsi di una complessità culinaria perduta perché soffocata da schemi
troppo rigidi. Grazie al foraging si ha una vera a propria riscoperta del territorio. Utilizzando questo
metodo possiamo costruire il nostro sense of place, cioè quel sentimento di appartenenza che ci
lega ad un determinato luogo ed è determinato dalle emozioni che un luogo ci trasmette sulla base
delle nostre esperienze personali.
Se l’andar per campi può risultare faticoso ad alcune categorie di persone, come bambini ed anziani,
l’amministrazione comunale di Copenhagen ha posto rimedio pensando a un foraging a disposizione
di tutti. È quindi nata l’idea di ripensare il verde urbano in funzione della valorizzazione dei prodotti
autoctoni e dell’educazione alimentare, piantando in città alberi da frutti e cespugli di bacche
commestibili da cui raccogliere gratuitamente i prodotti per il consumo personale.
Ma in cosa consiste nello specifico la dieta nordica?
2012: un gruppo di esperti dell’Università di Copenhagen ha stilato le Linee Guida per la Nuova
Dieta Nordica > per migliorare la salute della popolazione è necessario proporre sulle tavole più
calorie vegetali che animali, più cibo proveniente dai laghi, tenendo presente che i prodotti devono
essere salutari, utilizzabili in ambito gastronomico e che mantengano una grande identità nordica.
➢ La questione identitaria è parte inscindibile dal progetto, anche perché i modelli alimentari a
gastronomici sono da sempre elementi forgianti le identità collettive. Qualsiasi
cambiamento, che non tenesse conto di questo aspetto, sarebbe destinato al fallimento.
Il cambiamento va nella direzione quindi di un aumento nel consumo di frutta e verdura e nel
consumo di pesce a discapito della carne. Tutto questo, oltre a portare benefici per la salute, riduce
anche gli effetti dell’inquinamento atmosferico, abbassando il numero di mezzi che attraversano
strade e autostrade danesi per il trasporto alimentare.
Pensando però agli alimenti provenienti dal mare, non si devono considerare solo le specie ittiche,
difatti a Copenhagen si è lavorato molto su un alimento poco valorizzato: l’alga.
Il loro utilizzo è molto frequente nelle culture gastronomiche asiatiche, e con il tempo entra a far
parte anche della cucina danese. Essa è un alimento composto da amminoacidi essenziali e con una
buona composizione di vitamine e fibre. È stata quindi effettuata una ricerca sulle alghe presenti nelle
acque danesi, per decidere quale fosse il tipo più adatto, e si è arrivati alla conclusione che la
Palmaria Palmata fosse quella che si appresta di più ad un utilizzo gastronomico.

Ovviamente, la New Nordic Diet è passata dall’astratto al concreto entrando nella cucina del
ristorante Noma, per poi espandersi fino a conquistare anche gli scaffali dei supermercati delle città
che proponevano, fino ad allora, quasi esclusivamente prodotti d’importazione.
Oltre al Noma, nel corso del tempo altri ristoranti si sono appropriati di questa tradizione, ad esempio
il Kadeau, la cui cucina si basa tipicamente sui prodotti dell’isola di Bornholm. Qui, troviamo l’utilizzo
di cavolo rapa, ribes nero, abete, granchio reale e il formaggio Havgus, il tutto in un ambiente
ristorativo elegante ma minimal.
Un altro locale è Radio. Anche questo, come il Noma, viene aperto grazie all’aiuto dell’imprenditore
Meyer. Il giovane chef di Radio pone grande attenzione al cibo biologico e prettamente nordico,
tanto che si procura le sue verdure direttamente da due ettari di terreno situati poco fuori la capitale.
Lo chef ama definire il Radio come un locale che serve “Food made from scratch”, ossia pietanze
create tentando di scartare e gettare il meno possibile di ogni prodotto, riutilizzando tutto ciò che è
possibile.

3. NEW NORDIC DIET A SCUOLA


Com’è ovvio, la nuova dieta deve essere accessibile ai più e sotto diversi aspetti. Per questo motivo è
stata condotta una ricerca specifica, l’OPUS School Meal Study, che mirava a portare i più piccoli alla
scoperta di questo nuovo modo di nutrirsi. Questo studio è stato condotto negli anni 2011 e 2012,
dove circa il 75% dei bambini consumava un pranzo che normalmente consisteva in un panino con
fette di carne o paté, accompagnato da latte.
I ricercatori hanno quindi provato ad introdurre nella dieta dei ragazzini del 3° e 4° anno di scuola la
Nuova Dieta Nordica. Lo studio è stato effettuato su 834 alunni, suddivisi per gruppi, ognuno dei
quali partecipata al programma per periodi di circa 3 mesi l’uno. Durante il programma una parte
degli studenti riceveva piatti cucinati a scuola basati sulla New Nordic Diet, mentre quelli del secondo
gruppo i soliti pasti preparati a casa. Nei successivi 3 mesi i gruppi si invertivano.
Ai bambini inseriti nel gruppo che avrebbe provato la nuova dieta nordica venivano offerti una
merenda a metà mattina, il pranzo e uno spuntino pomeridiano, il tutto prodotto da chef qualificati.
Gli spuntini e il pranzo erano pensati per soddisfare circa il 45% del fabbisogno energetico di un
ragazzino di 11 anni: erano stati progettati menù trisettimanali differenti, basati su ciascuna delle tre
stagioni e veniva servita da bere dell’acqua. Al termine dell’esperimento, la maggior parte dei
bambini (798) ha ottenuto un miglioramento nella valutazione dietetica. Durante questo periodo, i
bambini hanno assunto un apporto giornaliero significativamente inferiore di grassi totali, saturi e
insaturi, e un apporto più alto di proteine.
C’è poi da valutare anche l’aspetto scolastico. Difatti, si pensa che l’alimentazione possa migliorare
anche le prestazioni scolastiche dei bambini, ed è per questo che nel periodo sperimentale sono stati
somministrati test di attenzione, lettura e matematica, i cui risultati hanno dimostrato che l’intervento
sui pasti NON ha influenzato il rendimento di concentrazione o la velocità nello svolgere gli esercizi,
bensì ha portato a una diminuzione della percentuale di errori, così come ad un aumento nella
velocità di lettura.

Come tutti i progetti emergenti, anche la New Nordic Diet ha ricevuto delle critiche, soprattutto
rivolte a Meyer e ai cuochi firmatari del manifesto, affermando che per essere davvero nordici
avrebbero dovuto servire baby balene e altri animali in via d’estinzione. Sappiamo però, che partire
da zero è sempre difficile, tanto da sembrare impossibile.
Ovviamente lo scopo era quello di creare una dieta salutare basata sui prodotti agricoli, unendo
agricoltori e piccole aziende per definire un nuovo modo di pensare la cucina nordica, che non fosse
elitario, ma che entrasse nella cita quotidiana delle persone.
Ad oggi, nei vari supermercati sono presenti prodotti come il cavolo, la segale, le ortiche e altre erbe
selvatiche del territorio danese.
➢ Si tratta di riscoprire il proprio territorio, ciò che di buono e salutare possono offrire
Copenhagen e la Danimarca, al fine di mantenere uno stile di vita sano, potenziando al
contempo benessere e gusto.

4. MAD E VILD MAD


Con il passare degli anni ulteriori step si sono susseguiti: Claus Meyer ha esportato il progetto al di
fuori delle strade e cucine di Copenhagen, arrivando fino a NY, dove ha aperto l’Agern Restaurant,
per far conoscere Copenhagen e la sua nuova cucina al mercato nordamericano. Al tempo stesso,
chef Redzepi ha fondato l’organizzazione no profit Mad.
➢ In danese significa “cibo”. Si tratta di un insieme di iniziative tese ad avvicinare sempre di più
cuochi ed agricoltori all’utilizzo di produzioni agricoli ecosostenibili nel rispetto del
benessere umano e del nostro pianeta.
Quest’organizzazione si definisce come una comunità culinaria globale con coscienza sociale, senso
di curiosità e fame di cambiamento, in grado di ispirare cuochi, camerieri ed amanti del cibo al fine di
poter creare un cambiamento sostenibile.
Mad ha al suo interno una Academy, dove è possibile frequentare due corsi:
1. Leadership & Business;
2. Environment & Sustainability.
Viene poi organizzato ogni anno il Mad Symposium > evento costituito da vari workshop e
conferenze, interviste tenute da persone del mondo gastronomico ed agricolo di tutto il mondo, tutti
riuniti a Copenhagen per discutere e provare a creare un luogo di conoscenza e di ispirazione
ecologica e sostenibile per le nuove generazioni.
2015: lo chef ha anche creato Vild Mad, il cui obiettivo è l’insegnamento e la divulgazione del
foraging. Il cardine centrale è la possibilità di formazione al foraging, il che è possibile grazie
1. a lezioni di esperti;
2. alla consultazione di un catalogo (tramite App telefonica) contenente oltre cento piante e
ingredienti commestibili che si possono trovare in quell’area. L’app contiene anche un
ricettario per cucinare piatti con le erbe e i prodotti commestibili che si possono raccogliere
in natura, il tutto catalogato per mese e stagione.

5. CONCLUSIONI

Abbiamo provato a scoprire un altro aspetto che caratterizza la citta: il CORAGGIO DEL
CAMBIAMENTO. Un cambiamento che la Danimarca non ha avuto timore ad affidare al figlio di un
immigrato musulmano che ha sposato una ragazza ebrea (che collabora con lui).
La creazione e lo sviluppo della New Nordic Diet sono stati passi coraggiosi, si è avuto a che fare con
innovazione ed esperimento, riuscendo a ricreare da zero il modo di pensare il cibo. E questo anche
arrivando ad utilizzare elementi che fino a quel momento non erano stati considerati:
➔ la riscoperta di un territorio che ha dovuto confrontarsi con una memoria perduta è stata la
chiave del successo.
È così che Copenhagen, da città ai margini della ristorazione di livello, è riuscita a reinventarsi. Prima
di questo, il contatto tra agricoltori e cuochi era quasi nullo. Ed è stata proprio la coesione tra cucina,
agricoltori, produttori e foraging che ha trasformato Copenhagen, facendola diventare competitiva e
sostenibile.
La New Nordic Diet è andata nella giusta direzione dimostrando di saper essere esempio di
educazione alimentare, ma anche cultura e tutela dell’agricoltura locale.

CAPITOLO 11: GERICO, SVILUPPO URBANO E CRITICITA’ AMBIENTALI


1-INTRODUZIONE
Gerico è la città più antica del mondo conosciuta anche come Città delle palme e Città della luna (in
arabo Ariha  da Yarikh  dio cananeo della luna). Sorge nella parte bassa della Valle del Giordano
ed è bagnata da t 3 principali sorgenti: Ein Es-Sultan, Ein Deuk e Ein Nueima, e ciò la rese ancora di
più luogo ideale per l’insediamento di numerose civiltà. È spesso associata a vicende bibliche.

2- GERICO: BREVE STORIA DELLA CITTA’ E DEL SUO SVILUPPO


Recenti scavi archeologici hanno stabilito che il primo insediamento urbano riconducibile alla futura
Gerico sia sorto a Tell Es-Sultan e fu proprio la sorgente Ein Al-Sultan a svolgere un ruolo importante
perché la vicinanza all’elemento acquatico, dispensatore di fertilità ed abbondanza, era infatti
fondamentale per la sopravvivenza della comunità.

La tarda età del Bronzo (epoca in cui, secondo la Bibbia, si sarebbe verificato il crollo delle mura ad
opera di Giosuè) si caratterizza invece per la mancanza di rinvenimenti nella zona. La totale assenza di
resti relativi alle fortificazioni cittadine del periodo, non solo non consente di stabilire la veridicità dei
fatti biblici relativi ad esse, ma rafforza l’ipotesi secondo la quale “gli israeliti non immigrarono a
Canaan, né la conquistarono, ma emersero dal suo interno”. Gli scavi hanno tuttavia portato alla luce
la possibile origine della leggenda biblica circa il crollo delle mura al suono della tromba di Giosuè,
infatti le mura di Gerico, costruite secoli più tardi, sono state distrutte almeno 17 volte a causa di
guerre e terremoti. Il rinvenimento di ceramiche, luoghi di sepoltura, documenti e mikva’ot (bagni
rituali) ha comunque permesso di ricostruire in modo molto dettagliato le usanze ebraiche dell’epoca.
Con la caduta di Babilonia (539 a.C.), si inaugura il periodo persiano guidato dall’imperatore Ciro.
Durante questo periodo l’antico sito collinare venne progressivamente abbandonato, per far fronte al
crescente sviluppo urbano e gli insediamenti umani si spostarono lentamente nella zona ove
attualmente sorge il centro urbano. È proprio in questo periodo che il prestigio della città crebbe:
Gerico ricoprì lentamente il ruolo di “resort invernale per nobili e ricchi palestinesi”.
Sul finire dell’epoca romana la città di Gerico subì ulteriori modifiche, fino a raggiungere, nel periodo
bizantino (324-363 d.C) l’assetto urbano che ancora oggi la contraddistingue. Racchiusa da solide
mura e attorniata da folti palmeti, essa iniziò ad essere chiamata la “città delle palme”.
La storia della Gerico medievale è caratterizzata da un’economia florida, legata al suo ruolo leader
nella coltivazione, nella raffinazione e nel commercio della canna da zucchero. I resti di tre zuccherifici
crociati (uno quasi intatto) sono ancora ben visibili nell’area.
Il successivo periodo Ottomano (1516-1918) è tradizionalmente considerato come un lasso temporale
prosperoso per la città. Annessa al distretto di Al-Quds (Gerusalemme), essa era soggetta ad ingenti
tassazioni proprio in virtù della sua fiorente attività agricola e commerciale, come riportato da
numerosi scritti contabili e notarili dell’epoca. Questo porterà al progressivo abbandono dell’area di
Gerico, nonostante la fertilità dei terreni e la disponibilità di risorse .

3-GERICO NELL’ETA’ CONTEMPORANEA


Con il termine del mandato Britannico e con la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, un’ardua
stagione ha inizio. Le crescenti tensioni culturali e religiose, unite a rivendicazioni nazionaliste e al
rifiuto da parte della Lega araba di accettare la spartizione O.N.U., Gerico diventò dunque una città
giordana a tutti gli effetti e due campi profughi vennero istituiti nei suoi dintorni. Ad ogni modo,
Gerico rimase una città giordana sino al 1967 quando, dopo la Guerra dei Sei Giorni, l’intera
Cisgiordania viene occupata dallo Stato d’Israele. Il suo destino cambierà nuovamente nel 1993.
Infatti in seguito alla firma degli “Accordi di Oslo”, Gerico è la prima città cisgiordana a passare sotto
l’autogoverno dell’Autorità Palestinese. Oggi si presenta come una città a forte maggioranza islamica
(i cristiani sono l’1%) e priva di presenza ebraica. Numerose sono le infrastrutture create e gli
abbellimenti urbani apportati dall’amministrazione cittadina al fine di sviluppare e potenziare
ulteriormente il settore turistico, principale settore di rendimento economico assieme a quello
agricolo.

4-GERICO E I PROBLEMI AMBIENTALI: L’AUMENTO DELLA SALINITA’ NELLE FALDE ACQUIFERE


Il problema più grave per Gerico risulta la scarsità d’acqua. Un’agricoltura irrigua priva di particolare
attenzione e il recente sviluppo esponenziale dell’attività turistica, hanno comportato un sovra-
sfruttamento delle risorse idriche e annessi fenomeni di sovra-pompaggio, che parrebbero essere,
secondo recenti studi, tra i maggiori responsabili di ingressioni marine dal Mar Morto e di
salinizzazione delle falde. Le principali cause di tale disastro ambientale sono riconducibili
all’inquinamento. La falda da cui la città attinge è piena di impianti illegali. La mancanza di leggi volte
a regolare il rapporto tra azione umana e ambiente non è prerogativa del sistema idrico e fognario,
ma coinvolge anche il settore agricolo: ingenti quantità di fitofarmaci, fertilizzanti e pesticidi vengono
utilizzati nella zona, senza che restrizioni o sistemi di monitoraggio vengano attuati. Gli agenti chimici
rilasciati durante tali pratiche si riversano direttamente o indirettamente nel terreno, contribuendo ad
accelerare i fenomeni di deterioramento citati. L’Autorità Palestinese pare totalmente disinteressata al
riguardo. La concessione di acqua potabile fornita da Israele alla Cisgiordania (come pattuito
dall’Accordo di Oslo) non è in alcun modo sufficiente. Sarebbe inoltre necessario sensibilizzare
sempre di più i cittadini sulla tematica ambientale e, nello specifico, sui problemi legati alla siccità e
alla salinizzazione delle falde acquifere.

CAPITOLO 12: SAFED, LA CITTA’ FENICE


1- INTRODUZIONE
Safed, è un antico centro urbano nell’area settentrionale dello stato d’Israele,a nord del lago
Tiberiade., e fa parte delle 4 città più ricche di sacralità per l’ebraismo insieme a Tiberiade,
Gerusalemme e Hebron.

2- LE ORIGINI E IL MISTICISMO
La tradizione narra che fu fondata da Sem, uno dei figli di Noè, dopo il diluvio universale. Secondo il
talmud di Gerusalemme è uno dei luoghi in cui durante il periodo del secondo tempio venivano
accesi i fuochi per annunciare l’inizio delle festività o una nuova luna. A seguito dell’Inquisizione
spagnola gli ebrei che non si convertirono furono costretti a lasciare la città e molti scelsero proprio
Safed. Era considerata la città con il più alto tasso di misticismo per la sua vicinanza a Dio. La città fu
anche devastata dai terremoti che ne provocarono la morte di metà della popolazione e così
scomparve la città vecchia. La città venne ricostruita più a est ed in una posizione più elevata.
Oggetto di scontri anche dopo la prima guerra mondiale, fu invasa dagli arabi nonostante i raporti
fino a quel momento tra arabi ed ebrei erano molto tranquilli.

3- STORIA E STRUTTURA DELLA CITTA’


La città si presenta come un agglomerato di edifici bianchi piena di strade. La zona è divisa in due
aree:
- l’area antica che comprende il quartiere delle sinagoghe e il quartiere degli artisti  qui
troviamo la fortezza di Safed di cui oggi ne rimangono solo alcuni resti
- l’area moderna dove sorgono importanti infrastrutture come l’ospedale e l’università della
medicina.

4- CRITICITA’ DEMOGAFICHE E AMBIENTALI


Nella città è sempre stata costante la presenza della comunità ebraica specialmente dopo
l’inquisizione spagnola tanto da divenire uno dei principali centri della cultura ebraica. Questo portò
ad un processo di trasformazione della città con la costruzione di edifici nuovi dedicati allo studio e
alla preghiera.
Gli spostamenti della popolazione sono dovuti sia a questioni geopolitiche sia a questioni ambientali,
come i frequenti sismi. Sono in particolare 3 le occasioni in cui si registrano un calo demografico:
- 1578  epidemia di tifo
- 1742  peste
- 1812  sisma.
I danni della città sono dovuti anche alle frane e alle pessime condizioni del suolo. nel 1929 Husseini
mise in atto un vero e proprio pogrom perché accusò gli ebrei di minacciare i luoghi di culto islamici.
Quando nel 1948 gli inglesi lasciarono Safed, gli ebrei furono costretti a far fronte alla guerra
scatenata da coloro che non riconoscevano lo stato d’Israele come legittimo. Nel 2006 i razzi
provenienti dal Libano colpirono la parte nord di Israele tra cui Safed e l’ospedale (nonostante tutto ci
furono poche vittime).
Ad oggi il gap economico con le altre città è abbastanza notevole, tanto che il 30% della popolazione
vive sotto la soglia della povertà e la pandemia ha solo peggiorato ancora di più la situazione.

CAPITOLO 13: SOSTENIBILITÀ E SVILUPPO URBANO – I TERRITORI


PALESTINESI
1. INTRODUZIONE
La rapida urbanizzazione e gli elevati tassi di crescita della popolazione sono problemi tipici dei Paesi
in via di sviluppo. Le città offrono maggiori opportunità di lavoro e migliori condizioni di vita anche se
una forte espansione finisce con l’aumentare la pressione sulle infrastrutture, sul territorio e sulle
risorse.
Queste sono le sfide che anche le città palestinesi devono affrontare in questi ultimi decenni.
Sebbene i territori palestinesi non siano ancora configurabili come Stato, sono comunque
riconducibili alle due aree di:
- Cisgiordania;
- Striscia di Gaza
Che racchiudono al loro interno numerosi elementi atti a riflettere un ambiente caratterizzato da una
grande diversità nella sua topografia e nel paesaggio.
Cisgiordania > termine politico che identifica le regioni di Giudea e Samaria.
I periodi di maggiore sviluppo ed espansione delle città palestinesi sono piuttosto recenti. Le
aspettative di pace (dopo accordi di Oslo) hanno incoraggiato le attività edilizie e l’ampliamento delle
città è stato rapido ed erosivo dei terreni agricoli circostanti, il che ha portato con sé tutta una serie di
conflitti sociali, economici ed ambientali, che hanno finito con il peggiorare la qualità della vita dei
palestinesi.
Uno dei punti di fondamentale importanza è la richiesta palestinese del “ritorno” di circa 8 milioni di
profughi all’interno dei confini di Israele. Di fatto, questo è un problema piuttosto spinoso.
I rifugiati palestinesi sono da molto tempo in un rapporto di assistenza con l’agenzia UNRWA. Essa è
nata nel 1949 con un mandato di 4 anni per assistere e reintegrare i rifugiati nelle economie dei paesi
ospitanti attraverso progetti di lavoro.
Questo mandato temporaneo è stato rinnovato allo scadere di ogni 4 anni per più di mezzo secolo, a
causa della continua mancanza di una soluzione politica
➢ Impossibilità per i palestinesi di avere un proprio Stato.
In realtà, le città palestinesi non sarebbero state in grado di fornire ai propri cittadini un ambiente di
vita adeguato, così come nemmeno Israele ci sarebbe riuscito (territorio piccolo, per lo più costituito
da deserto). L’inserimento di ulteriori 8 milioni di palestinesi in territorio israeliano, quindi, avrebbe
portato gli ebrei a divenire una minoranza e alla creazione di 2 stati palestinesi nella regione,
entrambi in sofferenza per mancanza di infrastrutture e risorse.

2. I TERRITORI PALESTINESI
I territori palestinesi sono costituiti da due aree distinte:
1. Cisgiordania;
2. Striscia di Gaza.
Gli abitanti ammontano a poco più di 5mln 200mila, e la loro ampiezza è la stessa della città di
Torino, ma con il doppio degli abitanti > piccolo paese caratterizzato da una rapida crescita
demografica, il che determina un forte stress e una difficoltà maggiore nella creazione di sufficienti
posti di lavoro, infrastrutture ecc.
La popolazione è prevalentemente insediata in piccoli centri vicini alla costa mediterranea e nei
villaggi sull’altopiano, zona con una piovosità media, e dunque con un più alto potenziale di
produttività agricola. L’insediamento urbano vero e proprio riguarda solo pochi centri:
1. Gerusalemme Est;
2. Nablus;
3. Hebron;
4. Gerico;
5. Gaza.
1967: completa libertà di movimento fra territori e Israele, difatti moltissimi lavoratori avevano scelto
di lasciare i campi per andare a lavorare in Israele, ritenendolo più redditizio.
Secondo una ricerca, al momento della nascita dei territori, la forza lavoro complessiva era di 500mila
persone, ma cresceva a un tasso di 30mila unità all’anno. L’emigrazione di lavoratori palestinesi
verso stati petroliferi era cessata verso la metà degli anni ’80, mentre le scelte politiche della dirigenza
palestinese nella prima guerra del Golfo avevano causato l’espulsione di 250 mila palestinesi dal
Kuwait, causando un innalzamento di disoccupazione nei territori.
La società palestinese soffre particolarmente a causa della mancanza di sovranità, libertà e
indipendenza: la leadership attuale pare non riuscire a districarsi tra i tanti problemi che affliggono i
territori.
Lo stesso contesto economico è al collasso e l’economia palestinese continua a dipende in larga
misura dagli aiuti esteri e da Israele, il quale negli ultimi anni ha reso difficoltoso il commercio tra i
due Paesi gravandolo di un complesso sistema di permessi, tasse, controlli che hanno finito col
limitare la circolazione di beni e persone. Inoltre, la frammentazione geografica tra la Cisgiordania e
Gaza, come le chiusure all’indomani di ogni attentato, creano notevoli problemi e finiscono con
l’aumentare i costi di trasporto e produzione portando a un declino delle attività economiche.
È evidente che la mancanza di indipendenza sia il problema maggiore: molti aiuti non sembrano
essere utilizzati secondo finalità costruttive e pacifiche, ma è proprio l’assenza di pace a impedire il
raggiungimento dell’indipendenza e a creare continui scontri
➢ Tutto ciò ha portato al declino della capacità del popolo palestinese di soddisfare i bisogni
primari e ogni possibile crescita economica e indipendente viene preclusa.

3. AMBIENTE E SVILUPPO URBANO


Le condizioni ambientali nei Territori sono in continuo deterioramento. L’autorità palestinese per la
qualità dell’ambiente è poco efficiente e la sensibilità individuale è quasi nulla.
Ciò si traduce in carenza d’acqua, inquinamento atmosferico, incapacità di smaltimento dei rifiuti.

PROBLEMA IDRICO: è dal 2010 che non si è più potuta riunire la Commissione per la gestione
dell’acqua (a causa del rifiuto palestinese), un ente che era stato previsto dagli accordi di Oslo del
1995 per la gestione delle infrastrutture idriche in Cisgiordania.
Da allora l’autorità palestinese e il governo di Hamas si rifiutano di collaborare con Israele. In
particolare, gaza fa affidamento alla sua falda acquifera, la cui portata è sempre più scarsa e la cui
qualità è peggiorata nel corso del tempo.
Le strutture idriche palestinesi non sono sufficienti per soddisfare le esigenze della popolazione, con
conseguente scarsità d’acqua in alcune zone.
Nonostante Israele avesse approvato l’invio aggiuntivo di 10 milioni di metri cubi d’acqua a Gaza e 6
mln in Cisgiordania, il problema non era stato risolto e l’assenza di dialogo tra le parti sta sortendo un
effetto drammatico per la popolazione palestinese.
Nonostante ciò la Israeli Water Authority ha commissionato un piano pluriennale con l’obiettivo di
sistemare le infrastrutture idriche a beneficio di tutta la popolazione che vive in Cisgiordania.
A partir da Giugno 2019 ha avuto inizio la costruzione di un grande impianto di desalinizzazione in
grado di rendere potabile 55 mln di metri cubi d’acqua alla Striscia di Gaza e di migliorare il sistema
di gestione delle acque.
Per quanto riguarda lo sviluppo urbano è da notare che tradizionalmente la maggior parte della
popolazione palestinese viveva in piccole città/villaggi; essi erano circondati da terreni di proprietà di
agricoltori.
Durante il periodo di dominio giordano la popolazione è notevolmente aumentata, ma la situazione è
mutata a seguito della Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967.
Al momento dell’occupazione israeliana, né la città né i villaggi della Cisgiordania e neppure quelli di
Gaza avevano piani strutturali approvati. Di conseguenza è stato semplice avere mano libera nel
controllo dell’uso del suolo.
1971: a partire da qui, con l’emissione dell’ordine militare n° 418 vengono gettate le basi per la
pianificazione secondo le regole dell’autorità militare israeliana.
Questo decreto si è trasformato in un efficiente meccanismo volto a limitare la crescita urbana
palestinese, limitando l’edilizia, rifiutando i permessi di costruzione e riducendo il terreno destinato a
progetti industriali ed economici.

Con la costituzione dell’Autorità Palestinese (1994), le responsabilità di pianificazione sono diventate


appannaggio dei ministeri. I compiti sono stati suddivisi tra:
- Ministero della Pianificazione e Cooperazione Internazionale (MOPIC);
- Ministero del governo locale (MOLG).
Il MOPIC ha ritenuto essenziale stabilire un piano regionale per il coordinamento del futuro sviluppo
urbano e rurale.
Nella realtà, il lavoro di entrambi gli enti non pare aver sortito successo e ciò a causa di mancanza di
personale qualificato.
Dunque, l’assenza di accordi stabili e la ripresa delle ostilità hanno portato nuovamente i palestinesi
in una situazione di precarietà e scontri che ha coinvolto anche l’edilizia.
La pace ha spinto molti palestinesi ad iniziare la costruzione di case senza richiedere alcun permesso
e senza rispettare alcun requisito urbanistico.
Le strutture palestinesi vengono edificate nelle Aree C della Cisgiordania che dovrebbero essere sotto
il controllo esclusivo di Israele, ma analoghi edifici proliferano anche in molti quartieri e villaggi che
circondano Gerusalemme, per poi espandersi verso Ovest, andando a formare una sorta di anello. Di
recente, sono poi sorti quartieri arabi intorno a Gerusalemme caratterizzati da palazzoni addossati
l’uno all’altro, spesso sprovvisti di idonee reti fognarie.
➢ Abusi edilizi forse dettati anche dalla necessità, infatti i piani urbanistici per le aree
palestinesi
vengono mantenuti in sospeso per lungo tempo, mentre la rapida crescita demografica palestinese
richiede l’ampliamento delle abitazioni, anche con l’aggiunta di piani.
Uno dei problemi più grandi per i palestinesi di Gerusalemme Est sta nel fatto di essere residenti, ma
di aver scelto di restare cittadini giordani
➢ Possessori di carta d’identità israeliana ma passaporto giordano. Questo implica
l’impossibilità di accedere ai prestiti e una maggiore difficoltà nell’ottenimento di un alloggio
popolare.
Il settore orientale di Gerusalemme, contenente i luoghi più sacri per l’ebraismo, come il Kotel e il
Monte del Tempio, era rimasto inaccessibile agli ebrei per 19 anni, fino alla conclusione della Guerra
dei sei giorni. Infatti, tutti i luoghi ebraici della Città Vecchia erano stati occupati dalla Giordania.
La situazione cambia quando Israele conquista e annette Gerusalemme Est e i territori ad essa
adiacenti, creando un unico grande comune con un’importante minoranza di popolazione
palestinese.
Gerusalemme Est è sempre rimasta un centro metropolitano distinto da Gerusalemme ovest.
Guardando alla città nel suo insieme non possiamo fare a meno di notare le profonde divisioni
etnico-nazionali, religiose, sociali, economiche, politiche e geografiche al suo interno. Il sindaco di
Gerusalemme, Teddy Kollek, non è mai riuscito a trasformare queste divisioni in positivo
multiculturalismo ed ha cercato di superare il divario che esisteva in settori come la scuola, le strade,
l’assistenza sociale, le fognature.
Tuttavia, il governo nazionale ha sempre fornito fondi insufficienti per poter realizzare queste opere,
tanto che la maggior parte delle migliorie derivarono dagli effetti secondari dello sviluppo delle
infrastrutture dei nuovi quartieri ebraici.
Anni ’70: Israele ricostruisce e ingrandisce il quartiere ebraico della Città vecchia e crea una serie di 5
agglomerati urbani per collegare la parte occidentale della città al monte Scopus su cui sorge
l’Università Ebraica.
Anni ’80: vedono la luce nuovi quartieri ebraici intorno a Gerusalemme Est, costruiti per cercare di
rendere più difficile il ritorno della città sotto il controllo arabo.
Tutto ciò garantisce alla minoranza palestinese, sia islamica che cristiana, libertà religiosa e accesso ai
luoghi santi e di fede, oltre che i diritti dei singoli cittadini.
➔ Quella stessa minoranza è percepita come una minaccia, pertanto si cerca di limitarne l’espansione.
Fine anni ’90: la situazione demografica cambia, vede quasi una parità a Gerusalemme Est.
La prima e la seconda intifadah contribuiranno a rendere la situazione ancora più invivibile, e da qui la
necessità di trovare una soluzione che difficilmente arriverà.

4.-PEACE TO PROSPERITY E PEACE VISION


Alcuni Paesi (Iran in particolare) sembrano NON dimostrare alcun interesse a stabilire relazioni
diplomatiche pacifiche con Israele, altri hanno mutato atteggiamento nel corso degli anni.
➢ Pensiamo agli Accordi di Abramo, siglati dalla casa Bianca (2020) tra Israele, Emirati Arabi,
Bahrein, e all’ultima proposta, ossia quella del “piano Trump”
➢ Piano che avrebbe permesso ad Israele di annettere i suoi insediamenti in Cisgiordania (oltre
alla valle del Giordano). Riannessione che Israele aveva già scelto di NON attuare per poter
firmare la storica pace con gli Emirati e con il Bahrein.
Il piano avrebbe comunque consegnato ai palestinesi uno stato sovrano, per di più con il
conseguente ritorno dei prigionieri, un collegamento tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, l’accesso
ai porti commerciali di Haifa e Ashdod, la possibilità di creare resort turistici sul Mar Morto, equità
nell’ approvvigionamento idrico ecc.
Tutto questo avrebbe naturalmente condotto al raddoppiamento del PIL in 10 anni, un milione di
posti di lavoro in più, la riduzione del 50% della povertà
➔ Sicuramente NON si tratta dell’accordo del secolo, ma neppure di una resa degradante. Sarebbe
stato un accordo di portata sicuramente inferiore di quello proposto da Clinton, ma comunque
accettabile.
Infatti, lo scopo di uno Stato palestinese dovrebbe essere quello di offrire prospettive di vita migliori
(non dimentichiamo che se lo stato d’Israele esiste è perché Ben Gurion fu disposto ad accontentarsi
di meno di quanto desiderava).

Bassem Eid è un’attivista palestinese per i diritti umani che ha ipotizzato un piano di pace che muove
le proprie mosse partendo dal presente.
➢ Peace Vision è un documento che interpreta “da dentro” i contrastanti sentimenti della
popolazione palestinese ed è riassumibile nell’idea che NON si possa tornare alla trattativa
riesumando le posizioni del passato.
La sua proposta è quella di creare una confederazione, la Grande Palestina, che possa racchiudere al
suo interno 3 Stati sovrani e indipendenti: Israele, Palestina, e Striscia di Gaza, col riconoscimento di
Israele quale Stato ebraico. L’unico esercito sarebbe quello d’Israele. Gerusalemme diventerebbe la
capitale della confederazione e resterebbe anche capitale d’Israele, la parte Est verrebbe riconosciuta
invece come capitale della Palestina, mentre Gaza come capitale della Striscia.
Le autorità Palestinese e Hamas sono ormai difficilmente riconosciute come rappresentative e
credibili, pensiamo solo al fatto che le ultime elezioni si svolsero nel 2006.
Intanto, la pace ha cominciato a muovere i suoi passi attraverso gli “Accordi di Abramo”, verso un
futuro sostenibile in Medioriente.
Gli scontri avvenuti a maggio 2021, in seguito all’ipotesi di sfratto di alcune famiglia del quartiere
Sheikh Jarrah di Gerusalemme est non sembrano andare verso la giusta direzione.

5.-IL CASO SHEIKH JARRAH


I media di tutto il mondo hanno riportato la notizia, ma la complessità della situazione non ha
permesso una piena comprensione dei fatti.
Tutto ha avuto inizio con il Ramadan di aprile 2021, quando i palestinesi avevano visto come una
limitazione della loro libertà le transenne che la polizia israeliana aveva piazzato per limitare gli
assembramenti (causa Covid) che si verificavano dopo il tramonto per le cene dell’iftar.
Successivamente si è inserita la questione degli sfratti di 3 famiglie palestinesi che abitavano il
quartiere di Sheikh Jarrah e infine i missili lanciati dalla Striscia di Gaza su Israele.
Sheikh Jarrah > quartiere arabo fondato nel 1865 nella parte orientale della città di Gerusalemme.
“Jarrah” significa “guaritore” e fa riferimento a una leggenda secondo la quale nel quartiere vi è
sepolto il medico del Saladino.
1875-1948: è esistito al suo interno anche un settore ebraico. Infatti gli ebrei possono vantare in
quest’area la presenza di una sepoltura illustre: quella del rabbino Shimon Hatzadik. Su tutti questi
terreni vennero costruiti alloggi per le famiglie di ebrei in stato d’indigenza.
1946: le ONG ebraiche fecero registrare l’atto di proprietà presso le autorità di quella che allora era la
Palestina Mandataria, ma con la guerra del ’48 e l’occupazione militare di Giudea/Samaria, anche la
parte orientale di Gerusalemme e il quartiere Jarrah finirono in mani arabe.
La Legione cacciò tutti gli ebrei dai territori conquistati e le case ebraiche vennero assegnate a
profughi palestinesi. A quanto risulta, costoro iniziarono a pagare un affitto alla Custodia Giordana
delle Proprietà del Nemico.
1967: Israele conquista Giudea/Samaria e riunifica Gerusalemme. Dal 1970 una legge israeliana
permette ai profughi ebrei di tornare nelle loro case, purché si sia in possesso dei documenti
comprovanti l’avvenuta confisca.
1973: gli immobili in questione vengono registrati presso le autorità israeliane come proprietà delle
organizzazioni Va ‘ad Eidat HaSfaradim e Va ‘ad HaKlali L’Knesset Yisrael.
1982: un certo numero di residenti arabi convennero in tribunale che le due organizzazioni erano le
proprietarie legali.
2003: le due ONG hanno venduto gli immobili ad un’organizzazione NO PROFIT ebraica. Tuttavia, i
palestinesi che occupavano le abitazioni vennero autorizzati a continuare ad abitarvi, godendo dello
status di residenti “protetti”.
Ottobre 2020: il tribunale di Gerusalemme si è pronunciato a favore dell’organizzazione Nahalat
Shimon. Febbraio 2021: il tribunale ha confermato la decisione di ottobre, chiedendo ai residenti in
questione di sgomberare le proprietà entro il 2 Maggio 2021.
Gli occupanti hanno presentato ricorso alla corte Suprema, che ha esortato a trovare un accordo mai
arrivato.
Nel frattempo, da aprile, i militanti di Hamas, dalla Striscia hanno cominciato a colpire con lancio di
razzi diverse città d’Israele, tra cui Tel Aviv, Ashkelon, Gerusalemme.
Hamas e la Jihad Islamica hanno sparato oltre 4000 razzi su postazioni civili israeliane, causando
vittime e feriti. Bilancio che sarebbe stato molto più grave se Israele non avesse messo a punto il
sistema Iron Dome, che è riuscito a neutralizzare la quasi totalità dei missili.

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