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Globalizzazione e spaesamento

Spaesamento: senso di smarrimento e di estraneità, provato da chi si trova in un luogo o in un ambiente


nuovo e sconosciuto.

di LUDOVICA PELLIZZETTI

La consapevolezza comune è che la globalizzazione imponga stress da cambiamento, sradicamento e


spaesamento, oppure è possibile rintracciare nelle vite di ciascuno le premesse per una riappropriazione del
proprio mondo?

«'L’essere a casa' sembra essere una delle


poche costanti della condizione umana»
Agnes Heller

Il mondo globalizzato è soggetto a trasformazioni costanti. Il rischio è quello di uno smarrimento diffuso.

Sebbene lo “stress da cambiamento” sia una costante della condizione umana, i mutamenti in atto risultano
particolarmente disorientanti perché queste trasformazioni cambiano radicalmente le due dimensioni
fondamentali dell’agire umano: lo spazio e il tempo.

Sullo sfondo di un mondo che cambia repentinamente le strategie per l’adattamento risultano molteplici pur
essendoci un denominatore comune che accomuna queste stategie. Ovvero che l’“essere a casa” sembra
essere una delle poche costanti della condizione umana. Il significato del “sentirsi a casa” é
proposto quale antidoto allo smarrimento prodotto da un mondo sempre più globalizzato.

La “casa” costituisce il punto d’arrivo di molte dimensioni eterogenee (non ultime quella emotiva, sociale,
politica ed economica). La pasrola “abitare” é un fenomeno che costituisce l’asse portante della vita
di ciascuno.

Globalizzazione e smarrimento

Il termine “globalizzazione” è senza dubbio un fenomeno estremamente complesso che presenta non poche
difficoltà analitiche. Nonostante i tentativi convergano sull’idea che il termine possa essere considerato un
fenomeno di «crescita delle reti di interdipendenza planetaria», le definizioni che ne vengono date riflettono la
sua natura multidisciplinare. David Harvey, per citare solo alcuni tra i più autorevoli autori sul tema, definisce
la globalizzazione in termini di «compressione spazio-temporale, Manuel Castells come «interconnessione in
rete (networking)», Anthony Giddens sostiene che si tratti primariamente di «azione a distanza».

La globalizzazione, inoltre, intrattiene un rapporto biunivoco con la modernità. Questa è interpretabile come un
prodotto di radicalizzazione di processi in atto da tempo; dall’altro, la globalizzazione ha creato «condizioni
favorevoli alla modernizzazione dei paesi in via di sviluppo, a cominciare dalla Cina e dall’India, facendo della
condizione moderna una condizione realmente globale».

Una prima contrapposizione a tale proposito è quella che vede confrontarsi ‘iperglobalisti’ e ‘scettici’.

I primi considerano la globalizzazione un fenomeno assolutamente nuovo e irreversibile,Gli scettici non


ritengono il fenomeno degno di nota, se non per un’ondata particolarmente intensa di internazionalizzazione dei
rapporti umani.

Una seconda divergenza di opinioni è quella tra neoliberisti e neomarxisti; questi ultimi sono convinti che la
globalizzazione produca gravi disuguaglianze in termini di giustizia distributiva e denunciano forti svantaggi
subiti dai soggetti più deboli coinvolti.

l contrario, i NeoLib sostengono invece che la globalizzazione dia luogo solo a benefici o che, comunque, questi
siano superiori ai costi sostenuti. Infine c’è chi ha parlato della globalizzazione nei termini di
“McDonaldizzazione del mondo”, volendo in questo modo sottintendere e stigmatizzare una crescente e
dilagante omologazione di stili culturali e standard di vita.

Ciò detto, sembra ragionevole concordare sul fatto che è difficile, se non impossibile, giungere a una definizione
onnicomprensiva della globalizzazione, che ne racchiuda in maniera esaustiva la fisionomia, tanto in termini di
caratteristiche quanto di ricadute sugli aspetti della vita di noi tutti
Secondo il parere di due sociologi italiani la globalizzazione ha prodotto due livelli di criticità: il primo è quello
che si verifica da un punto di vista strutturale, su scala macroscopica; l’altro, invece, è quanto viene avvertito sul
piano della percezione soggettiva.

I due autori si concentrano su quelli che individuano essere i problemi generati dalla globalizzazione, così come
si evince dai principali studi sul tema.

A esser messo in crisi sembrerebbe in primis quello stesso Stato-nazione dove i suoi confini sembrano essere
troppo ristretti e si trovano ad essere erosi, insieme con la sua sovranità.

Al tempo stesso, i principali sistemi economici e finanziari muovono verso una progressiva integrazione su scala
mondiale. Soggetti trans-nazionali (FMI, WTO, multinazionali e finanziatori istituzionali), quindi, si affacciano
sulla scena mondiale, prendendo parte in modo attivo e consapevole alla costruzione di quello che viene
chiamato “mercato mondiale”.

Economia e cultura vanno quindi sganciandosi dai singoli stati nazionali, tanto che non sono i confini
territoriali, ma i codici e i programmi a delineare i confini veri e propri.Sembra quindi difficile che le varie sfere
della vita associata si riconoscano negli spazi istituzionali che prima le erano propri.

La dimensione micro: una sconnessione soggettiva

Che si voglia considerare la globalizzazione in senso rivoluzionario o meno, questa resta un fatto: nessuno può
chiamarsene fuori.

I cambiamenti che si verificano su un piano macroscopico-oggettivo, producono una vera a propria


riorganizzazione del piano soggettivo-microscopico; piano che costituisce la condizione dei rapporti tra gli
uomini.

Cruciale è stato l’avvento di Internet che, attraverso la possibilità di un’interazione sganciata dallo spazio e dalla
realtà materiale, ha provocato un vero e proprio shock esperienziale, se non addirittura una rivoluzione delle
esistenze.

Lo “spazio”appare sempre meno capace di conferire senso alla vita individuale: «si può dire che quando
l’immagine di Nelson Mandela ci diventa più familiare della faccia del nostro vicino di casa, allora qualcosa è
cambiato nella natura della nostra esperienza quotidiana».

«I nuovi scenari che si vanno profilando mettono in questione due caratteristiche-chiave, storicamente
indiscusse, della spazio-temporalità. La prima è la capacità che lo spazio fisico ha avuto sino a oggi di contenere
l’esperienza degli individui entro una dimensione delimitata con certezza […] tutelandola dal rischio di
dispersione. […] La seconda caratteristica è la capacità del tempo di sostenere un’idea di trascendenza, grazie
alla quale le singole biografie possono acquisire uno spessore temporale».

Questo contatto quotidiano con mondi plurimi - dovuto alle accresciute mobilità e velocità - ha prodotto un vero
e proprio “contraccolpo” sul piano della coscienza, con implicazioni identitarie e relazionali: trovare un senso
unitario risulta sempre più difficile.

Lo spazio fisico sembra sempre meno capace di conferire significato alle vite individuali e di costituire un
riferimento stabile che sia adeguato alle sfide del presente.

David Harvey, per esempio, arriva a dire che i«non possediamo ancora l’apparato percettivo per affrontare un
nuovo tipo di spazio in parte perché le nostre abitudini percettive si sono formate in un vecchio tipo di spazio».

Le trasformazioni continue del mondo in cui viviamo fanno sì che le relazioni sociali si estendono su una scala
spaziale molto più ampia. Le strutture astratte in cui operiamo permettono contatti tra persone completamente
estranee tra loro.

La globalizzazione, dunque, viene configurandosi come un processo di progressiva astrazione dello spazio che si
traduce, attraverso la creazione di reti, in nuove modalità di connessione fisica. I nostri mondi di vita, infatti,
vengono di continuo invasi da eventi, relazioni ed esperienze distanti: entriamo costantemente in contatto con
mondi simbolici e culturali che esulano completamente dal nostro raggio d’azione, relazionandoci con gli altri,
anche quando questi non sono fisicamente presenti.
Gli orizzonti temporali si accorciano e vengono compressi a tal punto da pensare che “il presente è tutto ciò che
c'è», trasformando la nostra sensibilità e la rappresentazione che abbiamo del mondo.

Come effetto di tale compressione - qualcuno ha parlato di “fine della geografia”, almeno così come la
conoscevamo. Zygmunt Bauman, in particolare, dà una lettura di questo fenomeno in termini negativi, «Quando
la velocità del movimento del capitale e dell’informazione eguaglia quella del segnale elettronico, l’annullamento
della distanza è praticamente istantaneo e lo spazio perde la sua materialità, la sua capacità di rallentare,
arrestare, contrastare o comunque costringere il movimento; tutte qualità che sono normalmente considerate i
tratti distintivi della realtà».

Questa pluralizzazione dei mondi della vita ci impone ad essere qui e allo stesso tempo altrove.

Il mondo sembra restringersi in un click: le distanze diminuiscono per effetto della drastica riduzione del tempo
che occorre per attraversarle, non solo fisicamente ma anche virtualmente.

Il tempo peró, costituisce il metronomo delle esistenze individuali; scandendo il susseguirsi delle ore e dei
giorni, permette all’Io di riconoscersi uguale a se stesso nel prima e nel dopo. Attraverso la connessione di
passato, presente e futuro svolge un ruolo attivo nella costruzione delle identità.

La globalizzazione, come si è visto, ha prodotto profondi mutamenti nel modo di vivere e interpretare lo spazio;
non diversamente accade per il tempo che ad esso è indissolubilmente complementare.

Tanti spazi e nessuno: S.O.S smarrimento

(senso di estraneità, provato da chi si trova in un luogo o in un ambiente nuovo e sconosciuto)

L’attuale e ineludibile delle coordinate spazio-temporali produce una serie di ricadute sul rapporto che gli
individui intrattengono con quanto li circonda e, di conseguenza, anche con se stessi.

In linea con quanto sostiene Hartmut Rosa nel suo recente Accelerazione e alienazione, è possibile individuare
la principale di queste conseguenze negative in una sorta di “alienazione iperbolica”, ovvero in un atteggiamento
– che è in primis vissuto – di estraneità, talvolta indifferenza e frustrazione), che non risparmia nessuno dei vari
livelli dell’esistenza.

Siamo alienati nei confronti dello spazio, poiché perdiamo costantemente intimità nei confronti degli ambienti
circostanti; siamo alienati nei confronti del tempo stessodal momento che siamo disincentivati (se non
impossibilitati) a fare investimenti emotivi a lungo termine; siamo alienati, in definitiva, da noi stessi in quanto
il mondo si fa sempre più freddo, oggettivo, distante.

Lo sradicamento, che questa alienazione comporta e allo stesso tempo riproduce, è quanto già Simone Weil
individuava come vera e propria patologia dell’Occidente: si vanno smarrendo punti cardinali fermi e, con
questi, fonti di appartenenza e identità. Il passato – così come il futuro – costituiscono i fondamenti di quello
che rappresenta «il più importante e misconosciuto bisogno dell’anima umana»: il radicamento

Esiste tuttavia un luogo del radicamento in cui è possibile rielaborare gli spunti individuali, sociali e culturali.
Uno spazio simbolico comune all’umanità intera: la casa.

La casa costituisce per il soggetto contemporaneo un luogo antropologico, un centro di stabilità e continuità,
sicurezza e prevedibilità, in un mondo sempre più complesso, dinamico, incerto».

Da qui la necessità di indagare cos’è che “fa casa” e in che forma questo sentimento si realizzi nelle sue varianti
contemporanee.

Ciò che è indubbio è il fatto che “in casa” le cose che ci circondano raccontano qualcosa di noi e, attraverso
queste, siamo in grado di riconoscerci. Nella dimensione privata ritroviamo, infatti, una risposta alla ricerca di
una rappresentazione fedele dell’essenza della nostra psiche e dei nostri sentimenti, di ciò che siamo.

Poiché, incontrovertibilmente, «il contrario di sentirsi alienati è sentirsi a casa».

L’oikosofia di Martin Heidegger


L’uomo non è l’unico a realizzare ripari, rifugi, case. Esiste, tuttavia, una specificità tutta umana, la quale fa sì
che si possa dire che soltanto l’uomo abita il proprio mondo: questa è la sua capacità di conferire significati allo
spazio e di connotarlo affettivamente. L’abitare può essere considerato come la “matrice dell’essere umano
dell’uomo”; quanto ci rende ciò che siamo e descrive il nostro modo di stare al mondo. ‘E in questo luogo che le
fratture dovute alle trasformazioni spazio-temporali si possono ricomporre.

La semantica di “casa” rimanda a un insieme eterogeneo di fenomeni che non hanno - in italiano - un
riferimento concettuale e linguistico specifico analogo alla distinzione anglofona tra house e home. (casa y hogar
nota de Giovanni) Con il primo termine, infatti, ci si riferisce all’edificio che costituisce una «testimonianza
tangibile di uno stile di vita o di uno status». Con home, si intende sia uno spazio fisico, caratterizzato da valenze
affettive, sia uno spazio simbolico, condizione di familiarità, riconoscimento e appartenenza. Quindi, lo spazio
del radicamento per eccellenza.

La casa vissuta

Ma cos’è dunque che “fa casa”?

Secondo Agnes Heller «la familiarità è l’elemento più importante del sentimento di sentirsi a casa».

Il primo riferimento va indubbiamente alla sfera della consuetudine, delle pratiche abituali: ciò che mi è
familiare è qualcosa che conosco, qualcosa che si ripete nel tempo e che ho interiorizzato. Che fa parte di me.

A essere familiari, secondo questo significato, sono le persone, le cose e persino gli elementi sensoriali.

Sempre secondo Agnes Heller il sentimento di familiarità legato al sentirsi a casa è sostenuto da una serie di
elementi, i primi dei quali sono esperienze sensoriali: suoni, odori, colori. Chiunque di noi potrebbe dire che
odore ha l’ingresso della propria casa o la torta che solo la nonna sfornava in un certo modo. Ma anche di cosa sa
Natale per le vie in cui si passa abitualmente, o qual è il fruscio della fotocopiatrice nell’ufficio in cui si lavora da
tempo, ovvero la riconoscibilità di certi elementi, che non possono essere confusi e che alimentano quel senso di
sicurezza necessario all’individuo per radicarsi nel mondo.

Concludendo

La casa può dunque essere letta come la metafora di un testo scritto dai suoi abitanti.

Si potrebbe dire che la casa rappresenti il “pieno” in cui si condensano esperienze e speranze.

Quel “pieno” in cui lo spazio e il tempo, da dimensioni astratte e assolute, si fanno proprie, tangibili.

Infine una forma di radicamento trasversale, tanto in senso spaziale che generazionale, definibile come
“radicamento 2.0”, oggetto di ricerca di una certa avanguardia antropo-sociologica. Ciascuno di noi, infatti,
arreda le proprie pagine social in modo che esse raccontino qualcosa di ciò che amiamo, vogliamo, siamo.
Queste, insieme agli indirizzi e-mail (spesso indicati come unico recapito al posto di quello di casa), possono - a
pieno titolo - rappresentare un posto da abitare, in cui sentirsi a casa.

Il diritto al radicamento é un diritto individuale quanto mai vitale in epoca di grandi trasformazioni, e
costituisce - pur nelle varie declinazioni e sfumature che assume - il destino comune all’umanità intera, di con-
dividere la terra.

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