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Alla base di questo studio vi è l’analisi poetica del mito dafneo e delle varie versioni,
stilistiche e contenutistiche, poste all’interno del contesto letterario rinascimentale,
barocco spagnolo.
In particolare, si pone l’attenzione sui differenti ruoli che ha rivestito la materia
mitologica nel corso del XVI e XVII secolo in Spagna, un quadro estremamente
variegato che offre numerosi spunti di analisi.
Le motivazioni che mi hanno spinta ad approfondire tale tema è di duplice natura:
l’interesse nei confronti della mitologia greca è stato influenzato da una forte
curiosità di conoscere le storie e i singoli personaggi dell’Olimpo, ma soprattutto
individuare le caratteristiche e i simboli che incarna ciascun personaggio. Inoltre,
questo fascino per la mitologia è stato incentivato da alcune lezioni centrate sulla
mitologia nel XVII secolo in Spagna, che hanno permesso di arricchire le mie
conoscenze in materia. Dopo essermi documentata sugli studi condotti al riguardo,
l’analisi svolta sulla mitologia burlesca in Spagna ha rappresentato la base su cui ho
fondato la mia ricerca.
L’obiettivo di questa tesi è quello di fornire una visione dettagliata del ruolo della
mitologia nella letteratura spagnola, mettendo in evidenza le peculiarità lessicali,
stilistiche e contenutistiche rispetto al testo latino, le Metamorfosi.
La tesi è articolata in due capitoli: nel primo capitolo viene fornita un’introduzione
del fenomeno mitologico nel campo letterario, attraverso un excursus storico e
sociale, in particolare dal Rinascimento al Barocco. Segue un paragrafo dedicato
all’analisi dettagliata, attraverso la classificazione fornita da Rosa Romojaro, delle
differenti funzioni della mitologia. Lo studio delle fonti rinascimentali ha permesso
di rilevare il modo in cui gli autori hanno raccolto il sapere antico sottoponendo il
contenuto mitologico ad una lettura interpretativa, allegorica e, talvolta, satirica.
In questo modo il mito greco si attualizzò, permettendone una costante diffusione nel
corso della storia. Un ulteriore paragrafo è stato dedicato alla figura di Ovidio tra
tradizione ed innovazione. Grazie allo studio di Clizia Gurreri è stato possibile
comprendere la modalità attraverso la quale alcuni autori quali d’Anguillare e
Garcilaso, hanno scelto di trattare l’opera ovidiana. Inoltre, lo studio ha rilevato i
1
testi di diffusione delle Metamorfosi, e ha permesso di analizzare le motivazioni che
hanno portato a considerare Ovidio non solo una fonte enciclopedica della mitologia
antica, ma anche un modello di riferimento etico e morale.
Il secondo capitolo è stato dedicato, maggiormente, alla funzione satirico-burlesca
del mito, in particolare, l’analisi del mito di Apollo e Dafne presente nei due sonetti:
A Apollo siguendo Dafne, Dafne huyendo a Apollo, composti da Francisco de
Quevedo. A differenza degli altri autori, Quevedo mette in ridicolo i personaggi
dell’Olimpo smontando le loro storie, e dona ai momenti topici l’irrazionale,
l’assurdo e il bizzarro. In questo modo, le sue opere non sono solo frutto di ironia,
ma riflettono, dietro la burla, le realtà contemporanee, sociali e individuali, per
questo, è stato definito «autore di satira costumbrista».
Il capitolo si conclude con un paragrafo centrato sulla fortuna del mito dafneo nel
XVI e XVII secolo, in quanto rispecchia la volontà di ricercare l’utile e contemplare
la bellezza delle opere classiche. Il mito, dunque, si presenta in due versioni: nell’Età
Media Dafne rappresenta il modello di castità, nel Rinascimento incarna l’amore
tormentato, una relazione impossibile. Per lo studio letterario del mito dafneo, è stato
di particolare aiuto il testo di Ma Dolores Castro Jiménez, la quale ha condotto
un’analisi dettagliata ed elaborata del racconto latino.
Grazie a questo lavoro di ricerca è stato possibile analizzare alcuni importanti fattori
legati alle variazioni della materia classica, confrontando Quevedo con Ovidio e
Garcilaso, risultati che saranno esposti dettagliatamente nelle conclusioni finali di
questa tesi.
2
I. La visione del mito
Nella letteratura spagnola, a partire dal Rinascimento, si possono riscontrare
numerosi adattamenti e innovazioni della materia mitologica. Ciò è reso possibile da
una forte attrazione dell’uomo rinascimentale per la cultura greca e romana. Tale
ammirazione per il mondo antico ha come proprio obiettivo la ricerca di una nuova
immagine dell’uomo pur avendo come base le dottrine classiche. Questa
ammirazione non solo riguarda il campo letterario ma vede delinearsi anche una
nuova visione della vita che pone l’uomo al centro della scala di valori. Si assiste,
così, al passaggio da una visione teocentrica medievale ad una visione
antropocentrica rinascimentale del mondo e dell’uomo. Se il Rinascimento nella sua
concezione letteraria ed artistica ha come obiettivo principale la ricerca
dell’equilibrio, il Barocco, invece, ripropone i modelli rinascimentali sia artistici che
ideologici, come la mitologia, la poesia d’amore e la natura, ma sproporziona le
formule metriche e stilistiche. Gli autori del Siglo de Oro, infatti, trattano la materia
mitologica riadattandola.
Se nel XVI secolo i temi mitologici potevano essere utilizzati nel testo poetico per
esprimere i sentimenti dell’io lirico, nella poesia barocca, invece, si assiste ad un
processo di intensificazione di questi temi e modelli. Vi sono opere mitologiche che
esprimono la bellezza pura come Polifemo y Galatea di Góngora oppure vi sono
opere il cui obiettivo è esprimere una morale, come accade per i componimenti di
Carillo. L’elemento mitologico, quindi, perde il suo valore classico: «los dioses
salen a danzar en la mojiganga de la parodia». Lo stesso Góngora scrive Fábula de
Píramo y Tisbe, o Quevedo scrive sonetti dedicati al mito di Dafne e Apollo; altri
autori trattano episodi tragici come quelli di Ero e Leandro o Piramo e Tisbe che
vengono reinterpretati e subiscono, perciò, un processo di degrado cadendo nel
ridicolo.
3
I.1. Il mito classico nel Siglo de Oro
Antonio Ruiz de Elvira, autore spagnolo contemporaneo, fornisce una definizione di
mito basandosi su quella classica:
«un conjunto de las leyendas o mitos griegos y romanos que […] tuvieron vigencia
como tales leyendas en cualquier momento del ámbito temporal que va desde los
orígenes hasta el año 600 d.C.».1
Secondo tale definizione, persa l’origine primitiva del mito classico, la materia
mitologica viene esaltata come forma narrativa e riadattata dagli autori nei loro testi,
facendo riferimento alle sue diverse funzioni. Innanzitutto, l’obiettivo principale è
quello di riprodurre una morale, prendendo in considerazione le avventure degli dei
come exempla, affinché ciascuna divinità rappresenti un simbolo, una storia e una
morale. Tuttavia, se da un lato il Barocco è l’epoca dei grandi contrasti, dall’altro
lato nella funzione estetica emerge l’elemento burlesco e antieroico degli déi
dell’antichità. Da questa prospettiva ironica e burlesca, non si parla solo di un attacco
alla tradizione classica ma anche di una ripresa di vecchie formule per crearne delle
nuove. Prima di passare alla funzione satirico-burlesca del mito all’interno delle
opere di Quevedo, è possibile dare un breve sguardo alle diverse funzioni che
seguono un ordine di classificazione2, partendo da «apartamiento del tópico» iniziale
per giungere alla «destopificación y desmitificación» nelle formule della funzione
burlesca centrale negli autori del Barocco:
1. Función tópica-erudita
2. Función comparativa
3. Función ejemplificativa
4. Función re-creativa o metamítica
5. Función burlesca
1
A. Ruiz de Elvira, Mitología clásica, Madrid, Gredos, 1975, p.7.
2
R. Romojaro, Funciones del mito clásico en el Siglo de Oro: Garcilaso, Góngora, Lope de Vega,
Quevedo, 1998, pp. 12-13
4
– Nominación mitológica sustitutiva
– Perífrasis
– Locución sinonímica explicativa
– Alusión
– Apelación
– Mitologización (De la abstracción a la concreción mítica)
– Actualización (De la concreción mítica a la ruptura contextual)
– Hipóstasis simbólica
2. Función comparativa
– Símil
– Metáfora
– Alegoría
3. Función ejemplificativa
– Estructuras alusivas (El mito como «aviso»)
– Estructuras emblemáticas (El mito como apoyo doctrinal)
4. Función re-creativa o metamítica
– Re-creación estética
– Innovación mítico-literaria
5. Función burlesca (El mito al servicio del humor, la ironía, la parodia
y la sátira)
5
será desde el Antártico a Calisto3
Nei testi del Siglo de Oro emergono due forme perifrastiche relazionate al mito, una
chiamata «perífrasis» e l’altra «locución sinonímica explicativa». La differenza
principale tra le due forme si basa sulla diversa natura dei referentes; infatti, nella
perifrasi il referente non è mitico, mentre nella locuzione il referente si mantiene
mitico. Inoltre nella perifrasi il mito è esplicito, mentre nella locuzione si ha un
sintagma che all’interno del testo ha la funzione di sinonimo del termine emesso, che
il poema non menziona. Le strutture perifrastiche più frequenti ed elaborate sono
quelle che riguardano i vari momenti del giorno come l’alba o il tramonto, sostituite
dai nomi mitologici Febo e Apollo4 per il Sol, mentre l’Aurora, prima luce del
giorno, sarà la divinità incaricata di aprire le porte del cielo al carro del Sole.
Nell’Egloga II di Garcilaso, la perifrasi dell’Aurora, si riferisce al momento in cui
sorge il Sole:
Rispetto alle formule precedenti, si può ricorrere ad una semplice e diretta allusione
mitologica, consentendo allo scrittore di evocare dettagli narrativi e aspetti specifici
di un mito. Lo stesso Garcilaso la prediligerà nei suoi poemi, soprattutto per
accennare alla figura di Orfeo, intervenendo sia sull’area semantica del
3
Ivi, p. 146. Callisto, figlia di Licaone, seguace di Diana, appare nelle Metamorfosi (II, 409-530):
Callisto era una delle ninfe del seguito di Diana. Vedendola riposare in un bosco, Giove se ne invaghì;
decise quindi di sedurla assumendo le sembianze della Dea Diana. Dopo qualche mese Diana, stanca
per la caccia, decise di fermarsi con le sue compagne per farsi il bagno presso una fonte. Callisto, che
fino a quel momento era riuscita a nascondere l’accaduto, esitava a spogliarsi: le compagne allora le
sfilarono la veste scoprendo così la verità; adirata Diana la cacciò. Una volta nato il bambino, Arcade,
anche Giunone decise di vendicarsi trasformandola in un’orsa. In seguito Arcade, ormai quindicenne,
durante una battuta di caccia s’imbatté nell’orsa e proprio quando stava per ucciderla intervenne
Giove, che trasformò entrambi in due costellazioni, l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore. Giunone,
adirata perché la sua rivale era diventata una dèa, chiese al dio Oceano che le nuove costellazioni non
tramontassero mai.
4
Foibos (il Brillante) è un epiteto e spesso nome di Apollo. Secondo J. Pérez de Moya, Apollo ha
diversi nomi, tra cui Febo e Sol.
6
componimento, che sull’amore o sulla discesa agli Inferi alla ricerca di Euridice. 5Al
contrario, in Quevedo, il trattamento di questa formula allusiva è meno ricorrente
all’interno della sua poesia, infatti questi miti si ritrovano dietro la figura metaforica
di solamada, o allusioni ad Ícaro e Faetón , che emergono soprattutto all’interno di
poemi amorosi uniti ad elementi propri del racconto mitologico o ad elementi
quotidiani che accompagnano le immagini di un amore passionale.
Wolfgang Kayser6 parte dagli aspetti lirici fondamentali per arrivare a specifici
generi e forme di testi, per analizzare gli aspetti poetici fondamentali della lirica,
dell'epica e del dramma, i quali possono presentarsi in stato puro o combinati tra di
loro. Questi aspetti lirici emergono in determinate manifestazioni letterarie, tra cui
apóstrofe lírico, aspetto lirico-drammatico, nella quale la sfera spirituale e oggettiva
non si separano ma agiscono l’una sull’altra fino ad incontrarsi trasformando
l’oggettività in un tú. Diverse figure occupano semanticamente il tú, destinatario al
quale si rivolge (Parcas, Apolo, Musas etc...).Tra gli interlocutori mitologici più
frequenti appare Amor-Cupido, come nelle opere di Lope, in cui Amor appare come
amico, confidente o nemico del poeta:
5
Virgilio espone nelle sue Georgiche (IV, 493-527) il mito di Orfeo, quando Aristeo interroga Proteo
sull’improvvisa estinzione del suo sciame d’api, e riesce a scoprire la causa di questa moria: punito
per la morte di Euridice morsa da un serpente. Il cantore Orfeo, disperato per l’accaduto, era sceso
agli Inferi, grazie alla sua dolce musica, convinse gli dei Plutone e Proserpina a restituirgli l’amata, ad
una sola condizione: Orfeo, mentre tornava sui suoi passi, non si sarebbe dovuto voltare fino a quando
non avesse raggiunto il regno dei vivi. Ovviamente, Orfeo rompe questo patto perdendo per sempre
Euridice. In Ovidio nelle sue Metamorfosi (X, 1-85), non è presente alcun inseguimento di Euridice da
parte di Aristeo, ma nella versione ovidiana, Euridice vaga in compagnia delle Naiadi, quando un
serpente morde il suo tallone.
6
«El himno es una singularización determinada de la actitud básica general que hemos designado con
el nombre de apóstrofe lírico. En el himno, el “tú” representa poderes superiores, divinos, a los cuales
el yo eleva su canto emocionado» (W. Kayser, Interpretación y análisis de la obra literaria, Madrid,
Gredos, 1972, p.448)
7
quando l’antagonista sarà il disprezzo della dama sia come antagonista per opporsi al
processo amoroso, dunque nemico del poeta:
[…]
con ese palo, Amor, palo de ciego
[…]
tu bestia soy, Amor, dame de palos.
Infine, la figura mitologica Amore-Cupido agisce nella sfera deittica tra il poeta
emittente e l’interlocutore mitico, assumendo la sequenza di una struttura
sintagmatica che si può definire «hímnica»7, rispetto alla struttura sintagmatica
drammatica, in cui la figura mitologica sarà l’interlocutore «tú».
Rispetto ai nomi astratti, il nome mitologico, anche se magico o appartenente ad una
realtà indimostrabile, costituisce un elemento nominale concreto, e l’essenza del
nome mitologico lo si ottiene quando, attraverso l’acquisizione del nome concreto, lo
si spoglia del carattere comune. Dunque, si può definire mitologización: «la
adquisición de la singularidad que convierte a nombres comunes y abstractos en
nombres comunes proprios que personafican los actantes del mito». Questo tipo di
struttura che emerge maggiormente nei componimenti di Lope e Quevedo, è Amor,
la Muerte, la Fortuna, el Tiempo y la Fama, la cui caratteristica è la confluenza di
astrazioni mitologiche all’interno del discorso poetico. Ultima forma erudita è
l’ipostasi simbolica, attraverso la quale un elemento mitologico diventa la
rappresentazione simbolica di una categoria astratta mediante l’uso della metonimia,
come Venere rappresenta o simboleggia l’amore, o Marte il re della guerra. Dunque,
il poeta parte da una rappresentazione che concretizza una qualità astratta in una
figura mitologica, fino a giungere all’antonomasia, ovvero alla funzione del nome
proprio, portatore della qualità, che occupa all’interno del sintagma la posizione di
un nome comune o astratto. Uno degli esempi di questa struttura erudita
maggiormente ricorrente all’interno dei testi del Siglo de Oro è la personificazione di
Marte, Dio della guerra, che si contrappone alla figura di Apollo come
rappresentazione simbolica dell’arte, costituendo la dicotomia comune nella poesia
di questo periodo, ovvero armas vs. letras.
7
Ibid. p.448
8
I.3. La funzione comparativa
Nel suo significato retorico, la funzione comparativa consiste nel porre due elementi
a confronto, un oggetto o un evento reale con un’immagine. Inoltre, l’elemento
mitologico diventa metafora o similitudine con lo scopo di attribuirlo a un
personaggio o azione reale. Secondo Baltasar Gracián:
– Similitudine
– Metafora
– Allegoria
Per riformulare un mito servendosi della metafora, sono frequenti due strutture
sintattiche di apposizione, l’una esplicativa quando i termini vanno separati da una
pausa (A,B), l’altra determinativa, quando i termini sono in giustapposizione
(AB;BA), e in entrambi i casi l’elemento comparante (B) assume le funzioni
sintattiche dell’elemento comparato al quale va unito. Esempio è il Sonetto 137 di
Góngora, in cui l’elemento pavo real costituisce la metafora dell’ambizione umana:
[…]
humo te debe. ¡Ay, ambición humana,
prudente pavón hoy con ojos ciento,
si al desengaño se los das, y al llanto
[…]
Lo schema sintattico metaforico (A,B), si utilizza sia quando l’elemento comparato
funziona come vocativo o in casi di apposizione metaforica al soggetto poetico e
all’attributo. Nel primo caso si prenda ad esempio il sonetto di Tomé de Burguillos,
«Venció una dama cómica a otra, que presumía haberla vencido de sus Majestades»,
il cui simbolo dell’eternitá e della vita, el Ave Fénix, viene paragonato all’attrice-
estrella:
Invece, il secondo caso, viene riscontrato nel sonetto di Lope, «A una señora
manteniendo un torneo con otras damas», nel quale viene ricreato il mito della
discordia. Se nella competizione poetica tra attrici la vincitrice viene paragonata alla
figura del Ave Fénix, ad una stella o allo stesso sole, qui invece la vincitrice viene
paragonata alla dea vincitrice del giudizio di Paride, Venere, che armata, vince sulle
altre due dame, Giunone e Minerva:
11
La que venció desnuda, agora, armada,
Venus gentil, bordado el tonelete
de corazones de oro, y el copete
preso del pabellón de la celada.
Infine, ultima struttura metaforica che si incontra all’interno dei sonetti si forma tra il
comparante (AB) e il comparato (BA), vale a dire si passa dal reale all’immaginario,
e dall’immaginario al reale, e viene creata per ellissi dell’imperativo metrico o del
verbo copulativo. Esempio è il sonetto 53 delle Rimas di Lope, nell’enumerazione
dei disastri causati da Fetonte, e a seconda del verso, il verbo viene sottinteso:
Al contrario, l’allegoria può essere definita come una struttura di paragone, priva di
nessi logici tra la realtà e l’immaginario che occupa interamente o parzialmente il
poema. L’allegoria viene rilevata in diversi sonetti tra cui quello scritto da Gongora
nel 1606, «Al Marqués de Ayamonte, partiendo de su casa para Madrid». Il poeta
paragona il re Filippo III con Ave Fénix, le cui piume rappresentano i suoi regni, ed
esorta il Marchese affinché veneri il suo “nido”, il Palazzo Reale. Le ali di questo
Re-Fenice, i domini, si distribuiscono dall’Oriente all’Occidente:
[…]
pisado el yugo al Tajo y sus espumas,
que salpicando os dorarán la espuela,
el nido venerad humildemente
del Fénix hoy, que reinos son sus plumas.
¿Qué mucho, si el Oriente es, cuando vuela,
un ala suya, y otra el Occidente?
[…]
Secondo tali definizioni, il mito assume un fine concreto per agire sul destinatario
dell’enunciato oppure al servizio di un’idea o di un pensiero. Nei testi del Secolo
d’Oro emergono principalmente due modi che si pongono in relazione alle
definizioni del ejemplo: il mito come avviso, e la struttura emblematica quando il
mito assume una funzione dottrinale.
La maggior parte dei testi poetici sono strutturati a partire dalla struttura allusiva in
cui il mito assume la funzione esemplare, come rappresentazioni simboliche della
generosità, egoismo amoroso, oppure come avviso dell’audacia dell’amante e anche
della superbia. Oltre al disprezzo della dama, nei testi si incontra la materia
mitologica assieme agli elementi della natura, che fungono da esempio della fertilità
o della sterilità, come nel sonetto 14 delle Rimas di Lope, in cui si riscontra il
rapporto tra mitologia e natura, oltre alla materia del carpe diem:
In questo sonetto, Lope descrive gli elementi della natura offrendo degli esempi che
affermano la necessità di amare in tutti gli ordini, infatti parte dalle piante, dalla
terra, per arrivare ai fiumi e al mare. In queste sue affermazioni poetiche si riconosce
il modello della Historia Natural di Plinio il Vecchio, come allusioni all’effetto
9
DRAE, Diccionario de Autoridades, 21.a ed., Madrid, 1992, p. 561.
13
dell’amore sulla «gloriosa palma»,10 e del laurel.11In questo caso, Lope allude sia
alla sterilità del lauro che a Dafne trasformata in albero d’alloro per sottrarsi al
desiderio di Apollo.12 Per quanto riguarda Narciso, proprio all’interno del verso
emerge sia il mito che la descrizione del fiore, ovvero il giovane, innamorato di sé
stesso, getta la propria anima alle bianche foglie, compiendo il suo desiderio. Ultimo
riferimento mitologico è Anassarete, associata alla durezza di una pietra. 13Tutti questi
riferimenti mitologici servono al poeta come strumento per esortare la dama di nome
Lucinda, a non rifiutare l’amante, incitandola ad accettare l’amore dell’uomo prima
che il tempo possa marcire la giovinezza. Tuttavia, è possibile accostare la
letteratura-emblema, attraverso costruzioni narrative o descrittive di una sequenza
mitologica concreta. A tal proposito, si possono collocare i testi mitologici del Siglo
de Oro come l’emblema di narrazione o descrizione poetica di un mito oppure come
supporto ad una riflessione di carattere generale, e allo stesso tempo il poeta ne
descrive la situazione mitica. Esempio è il sonetto XIII di Garcilaso i cui versi finali
coincidono con ciò che viene definita una conclusione «epifonematica», 14 applicata
ad Apollo: piangere per una perdita ne accresce il dolore. Inoltre, la descrizione che
fornisce il poeta, immortala un momento della metamorfosi rendendola quasi una
rappresentazione visuale facilitandone la lettura del componimento:
15
H. Lausberg, Manual, II, cit., pp. 224 e 226.
16
R. Barthes, El efecto de la realidad, in AA. VV., Lo verosímil, Buenos Aires, Tiempo
Contemporáneo, 1970, p. 97.
15
Molti poeti, servendosi di questa funzione prevalentemente estetica, comporranno
poemi con una nuova narrazione, tra cui Garcilaso, in particolare nell’Egloga III.
Infatti, il poeta utilizza questa tecnica in modo esplicito, facendo tessere alle ninfe le
loro tele con fili d’oro della sabbia del Tago, rinnovando il mito di Orfeo ed Euricide,
Apollo e Dafne, Venere e Adone. Inoltre, i miti di Ero e Leandro, di Piramo e Tisbe,
furono maggiormente riadattati dai poeti del Siglo de Oro. Fu proprio Garcilaso che
introdusse per la prima volta in Spagna il tema mitologico di Ero e Leandro, in
particolare modo nel Sonetto XXIX, in cui già emerge il motivo agua-fuego. Quanto
al mito di Piramo e Tisbe, lo si incontra nelle Rimas di Lope, in particolare nel
sonetto 18:
17
J.M de Cossío, Fábula mitológicas en España, Madrid, Espasa-Calpe, 1952, p. 517.
16
In particolare, si può parlare di «innovación mítico-literaria» quando il poeta si
allontana dalla versione classica per introdurre elementi, personaggi e azioni che non
sono presenti all’interno della tradizione classica, dando forma a nuove narrazioni, i
cui personaggi mitologici agiscono assieme ai personaggi creati dal poeta. Un
esempio di questo tipo di narrazione emerge nell’Egloga II, in particolare il discorso
di Nemoroso che descrive l’urna mostrata da Tormes a Severo, sulla quale sono
iscritte le imprese degli antenati del Duca d’Alba. Alla nascita del futuro duca, Don
Fernando, ha luogo un pellegrinaggio degli déi che rendono omaggio al bambino. Ma
l’esempio massimo dell’innovazione mitico-poetica è l’opera gongorina las
Soledades. In esso, Góngora parte dalle Metamorfosi di Ovidio per offrire un testo
ricco di allusioni, metafore e allegorie. A proposito delle Soledades, John Beverly
dice che l’opera «refleja un desengaño de la Corte y del destino político de España, y
a la vez un deseo de construir algo que pueda contraponer a una realidad política que
ha llegado a ser opresiva»18 e segnala come questo autore «[…] el plan de las
Soledades equivalen a una transferencia al campo estético de cuestiones de ética
social y economía política que no se pueden “pensar” con el lenguaje y las categorías
que les son proprios»19. Si tratta, dunque, di un nuovo genere poetico che ha presente
la nuova realtà sociale e culturale, partendo dal pastorale e dall’epico, l’uno come
ideale e l’altro come memoria.
Una delle figure mitologiche maggiormente riadattate in questo periodo è quella di
Amore-Cupido. Oltre alla personalità di Cupido si inscrive nei testi il topico
dell’amor cortese, in particolare le norme previste dall’amor cortese concretizzate
nella prigionia amorosa e nel poeta come schiavo o vassallo al servizio del dio
mitologico, manifestandosi alleato della dama dinanzi ad un innamorato sofferente.
Non è un caso che le caratteristiche proprie della figura mitica Amore-Cupido
emergono nei componimenti del XVII secolo, perché servono ai poeti per esprimere
il sentimento amoroso del soggetto poetico. Inoltre, secondo E. Panofsky, si
presentano due forme di Amore, Cupido pagano e la personificazione dell’amore
come figura visionaria. Questa doppia personalità, emerge nel Sonetto 44 delle
18
L. de Góngora, Las Soledades, a cura di J. Beverley, Madrid, Cátedra, 1991, p. 23.
19
Ivi., pp. 23 e 26.
17
Rimas di Lope, in cui l’io poetico si rivolge a Lucinda e le spiega la differenza tra
l’amore passato e l’amore che prova verso di lei:
Altro elemento della poesia amorosa che viene reso oggetto della parodia è lo
specificare il momento in cui i due amanti si sono incontrati, come nel Sonetto «Dice
18
el més en que se enamoró», in cui Lope chiede alle Muse di non sconvolgersi per
aver lodato il sonetto prima di averlo portato a termine:
L’elemento parodico si basa sulla cosiddetta «suspención del respeto» 20, questa
perdita di rispetto è dovuta alla convivenza intima di due mondi tra loro contrastanti,
ciò viene anche affermato dal filosofo e critico letterario M. Bajtin: «Cuando dos
personas crean vínculos de amistad, la distancia que las separa, se aminora […],
pueden llegar a burlarse la una de la otra».21
In altri sonetti, si incontrano motivi e miti che vengono sminuiti, basti pensare ad
Amore-Cupido, a Venere, a Giove, sui quali incide la parodia, fino a giungere al
«realismo grotesco». Per Lope, il mito Apollo e Dafne, costituisce una narrazione da
cui emerge il disprezzo d’amore o il simbolo del trionfo poetico. Entrambi i valori
vengono riscontrati nel sonetto «A las fugas de Juana en viendo al poeta, con la
fábula de Dafne», nel quale Lope abbassa il tono del mito dal serio all’umoristico,
presentando l’amata Juana come una Dafne degenerata.
Il secondo tema che si serve degli elementi mitologici come oggetto di burla riguarda
la questione della creazione poetica. Spesso Lope assume una posizione di
superiorità inerente all’esercizio dell’ironia,22che si presenta sia sotto forma di
«conciliadora» rispetto alla situazione concreta dello strato creativo, oppure si parla
di «desprecio» verso il riconoscimento sociale dei valori poetici. Infatti, in questi
20
H. Morier, l’humour tourne au burlesque, cit., pp. 614-615. La expression humorística no solo
puede mostrar una reducción del sentido estético, e incurrir en «les fautes de goût», sino que a veces
llega a atentar contra la propia dignidad del individuo «suspensión du respect».
21
M. Bajtin, La cultura popular en la Edad Media y en el Renacimiento, Barcelona, Barral Editores,
1971, p. 31.
22
H. Morier, cit., pp. 574-579. Morier, riferendosi a colui che ironizza come un gioco e all’ironia
come «action de justice», afferma che «l’ironie s’accompagne d’un parfait sentiment de supériorité».
19
testi, il poeta arriva a ridicolizzare i topos mitologici della creazione poetica, quindi
Febo, Parnaso, le Muse, e con loro anche modelli letterari, quali Virgilio e Omero.
In maniera esplicita, la burla dei topos mitologici e dei tipi umani, rappresentati dai
personaggi dell’epoca, trova espressione nei sonetti di Góngora. Tuttavia, all’interno
dei romance Góngora offre un esempio significativo di antimito, partendo dal
contrasto tra stili e registri. Ciò viene riscontrato nel mito di Ero e Leandro, e quello
di Piramo e Tisbe, in «Arrojóse el mancebito». Qui Góngora arriva a burlarsi del
mito servendosi di un lessico degradante («charco», «pedorreras», «desatascar»).
Inoltre, nel 1610, Gongora riprende il tema nel romance «Aunque entiendo poco
griego», in cui emerge un tono diverso e una burla più acida, infatti il poema non si
burla solo del mito, ma di tutta la stirpe: quella degli scudieri e dei nobili venuti
meno.
Quanto al mito di Piramo e Tisbe, il primo tentativo del poeta di riscrittura risale al
1604, nel romance «De Tisbe y Píramo quiero». In questo componimento il poeta
offre un ritratto di Tisbe e dei dettagli della sua educazione, ricevuta dai genitori in
chiave parodica. Se nei precedenti componimenti il linguaggio è chiaro, in
quest’ultimo il linguaggio diventa complesso e si potenziano i misteri. In questo
modo emerge l’obiettivo chiaro del poeta, quello di far coincidere il suo stile colto
con quello popolare infatti riprende il linguaggio popolare e lo pone in
comunicazione con la più grande forma erudita e di alto grado del suo stile cultista.
20
dunque, in esame, la modalità che resero possibile la sopravvivenza dell’antica
matrice mitica in relazione alle esigenze stilistiche ed intellettuali del tempo.
L’evoluzione di questi testi volgari, dal ‘300 al ‘500, vede realizzarsi un
allontanamento della matrice classica dall’interpretazione medievale a favore di una
cortese. Ciò rende possibile evidenziare due atteggiamenti differenti: il primo,
collocato nel Medioevo, vede la materia mitica come strumento per individuare una
morale all’interno delle favole antiche secondo la mutatio moralis; l’altro, invece, di
matrice rinascimentale, esalta la ricerca nel mito della dimensione estetica ed
edonistica in relazione ai nuovi modelli culturali.23
Dietro alle Metamorfosi e alle differenti interpretazioni allegoriche medievali,
emerge la particolare figura di Boccaccio con la Genealogia del 1452, inaugurando
la tradizione delle riscritture mitologiche, e così, diventare modello per gli autori
successi che si dedicarono alla traduzione del testo latino.
Oltre a quest’opera, si contano altre due traduzioni: la prima, in verso volgare, risale
al 1497 e pubblicata a Venezia ad opera di Giovanni dei Bonsignori; la seconda, del
1509 a Parigi, è l’opera intitolata Reductorium morale di Petrus Berchorius.
Queste traduzioni, seppur accomunate dalla matrice ovidiana, in realtà, presentano
una differente modalità di presentazione, oltre ai diversi modelli interpretativi
dell’oggetto classico. Ciascuno di questi autori tendono a sovrapporre le loro
interpretazioni alle favole antiche per individuare il sensus finalis del mito. Infatti,
Berchorius sembra assimilare il patrimonio classico con la dimensione teologica-
morale servendosi della reductio morali, vale a dire porre il racconto mitologico al
servizio del credo cristiano; Bonsignori propone un’interpretazione allegorica; e
infine, Boccaccio, autore di transizione tra la cultura medievale e quella umanistico-
rinascimentale, oltre ad allontanarsi dalla materia religiosa, ripropone «il senso
storico filosofico naturale e filosofico morale delle leggende mitologiche».24
Tali atteggiamenti coesistono, seppur in contraddizione, per tutto il XV e XVI
secolo. Quest’affermazione trova sua giustificazione nel fatto che Bonsignori, nella
23
C. Gurreri, De Ovidio Methamorphoseos in verso vulgare: Ovidio tra tradizione e innovazione, in
Moderno e modernità: la letteratura italiana, a cura di Clizia Gurreri, Angela Maria Jacopino,
Amedeo Quondam, Sapienza Università di Roma, 2009, pp.1-2.
24
Ibid.
21
sua traduzione, recupera un altro autore che si dedicò alla traduzione della materia
antcia, Giovanni del Virgilio.
Quest’autore diede, tra il 1322 e 1323, la sua traduzione in prosa, di impianto
didattico, dell’opera ovidiana; allo stesso modo, ha come suo modello il commento
allegorico alle Metamorfosi, quello di Arnolfo d’Orleans, che risale al XII secolo.
A partire dalla seconda metà del 500 si delinea il passaggio delle storie mitologiche
da obliquoe figurationes a dilettevoli istorie.25
Da quest’affermazione si rende noto in che modo si tende ad andare oltre
all’allegoria di matrice medievale, e così, assistere, allo stesso tempo, alla
trasformazione dell’archetipo, che si impone come nuovo modello formale. Ciò
ricade, in particolar modo, sulla questione della riscrittura del testo ovidiano; infatti,
seppur continuano a persistere le vecchie traduzioni di Bonsignori, il racconto
ovidiano viene più volte sottoposto ad un processo di riscrittura sul piano linguistico,
strutturale e contenutistico.
Se nelle precedenti riscritture l’obiettivo primario era quello di riproporre in volgare
il testo latino per permettere una divulgazione del testo maggioritaria; qui, invece,
oltre all’intento divulgativo, sembrano avere maggiore influenza le ambizioni
artistiche contemporanee riducendo così, il segmento tra traduzione moderna e
moderna originaris.
I rappresentanti di questo processo sono Niccolò degli Agostini, Lodovico Dolce e
Giovan’ Andrea dell’Anguillara.
Il testo di Agostini, Ovidio Metamorphoseos in verso volgar, pubblicato nel 1522 a
Venezia, consiste nella riscrittura in ottava rima della prosa di Bonsignori. In
particolare, Agostini inaugura una nuova trattazione del tema ovidiano prendendo
come schema la struttura del poema cavalleresco.
Infatti, oltre ai personaggi mitici, compaiono personaggi dell’ambiente di corte, quali
dame genitili e genitluomini, e anche tematiche e situazioni di poesia cavalleresca,
associati al racconto ovidiano: descrizioni ed espressioni del linguaggio amoroso
oppure motivi come il saluto e cortesia.
25
Ivi., pp. 3.
22
A differenza di Agostini, gli altri due autori si dedicano direttamente alla lettura dei
versi latini, affinché possano recuperare il modello ovidiano fornendogli una nuova
forma linguistica e stilistica. In particolare, Dolce e Anguillara furono influenzati
dall’epica, e nello specifico dell’Ariosto, in quanto rappresenta il genere letterario
per l’eccellenza dell’ambiente di corte del XVI secolo.
Dolce, ne Le Trasformazioni, evidenzia la volontà di voler riscrivere il testo latino
sulla base dell’Orlando Furioso di Ariosto, e farne un poema cavalleresco:
Dolce suddivide i cinque libri di Ovidio in trenta canti di cui ciascuno è introdotto da
un proemio. Le favole non subiscono alcuna interpretazione dal testo ma sono
raccontate così come Ovidio le aveva scritte; piuttosto sono decorate con artefici
linguistici e retorici 26
Allo stesso modo nella sua opera, Le Osservazioni della Vulga lingua, elogia in
particolar modo, la figura di Ariosto, e soprattutto, la stessa scelta metrica sottolinea
il ruolo dell’Ariosto nello studio di analisi del testo latino.
Diversa è l’opera in ottava rima di Giovanni Andrea d’Anguillara, pubblicata nel
1561, in cui si esalta maggiormente il modello del poema cavalleresco, assorbendo
integralmente la materia cavalleresca. Infatti, se Dolce, nella sua opera, riprende solo
i versi incipitari dell’Ariosto, quindi è possibile distinguere la materia classica da
quella moderna; invece, in Anguillara, la trama si presenta più fitta non solo
impedisce di distinguere i due modelli narrativi, ma riflette una rielaborazione delle
Metamorfosi su base della versione del Furioso.
Dolce e Anguillara rappresentano una generazione che non intende servirsi dei
classici per arricchire il topico genus humile, ma al contrario intende adattare i
26
Mettere citazione
27
C. Gurreri, De Ovidio, cit., p. 6.
23
modelli tradizionali alla letteratura nazionale, che proprio in quegli anni, incarnava il
desiderio collettivo di un’identità definita da opporre all’ingerenza straniera. 28
28
Ivi., p. 7.
29
V. Cristobal, Mitología clásica en la literatura española: consideraciones generales y bibliografía,
Cuaderno Filología clásica, Estudios Latinos, 2000, p.10.
30
Ma. Dolores Castro Jiménez, Presencia de un mito ovidiano: Apolo y Dafne en la literatura
española de la Edad Media y el Renacimiento, p. 201.
31
Ivi., p.202.
24
“fingiendo que los que la guardaban se convertían en árboles siempre verdes come
Daphne en laurel y Lotos e otro arbol así llamado».
Infine, si può concludere la questione ovidiana in letteratura, ricorrendo alla citazione
di Anselmi:
L’universo metamorfico ovidiano, parallelo e coessenziale agli altri universi letterari
europei, delinea una funzione complessivamente gnoseologica del poeta che non
ambisce a ricostruire la totalità, ma incessantemente tesse la tela di un’enciclopedia
letteraria, aperta e orizzontale.32
32
mettere citazione
25
II. Antimito
II.1. Francisco de Quevedo: vita33 e opere
Figlio di modesti funzionari di palazzo, originari della nobile montagna di Burgos,
Quevedo nasce il 14 settembre del 1580, studia (1580-1645) presso il Collegio
imperiale della Compagnia di Gesú a Madrid e successivamente all’Università di
Alcalá de Henares (1600), e forse a Valladolid. Nel 1601 la capitale spagnola viene
trasferita da Madrid a Valladolid. È nell’ambiente vivace della corte che emerge la
sua personalità, tanto che le sue composizioni verranno raccolte nell’antologia Flores
de poetas ilustres de España, curata tra 1603 e il 1605 da Pedro Espinosa. Nella corte
incontra un altro letterato illustre Luis de Góngora, con il quale avrá un confronto sui
diversi modi di fare poesia, su due concezioni della letteratura e del mondo. A questi
anni della corte risale probabilmente la prima redazione del Buscón, influenzato
dall’interesse verso la proposta del Guzmán de Alfarache di Mateo Alemán.
Nel 1605 la corte ritorna a Madrid. Fino al 1613 Quevedo opera nella capitale,
dedicandosi ad un’attività vivace e varia, mentre come uomo pubblico è protagonista
di avvenimenti e scontri: infatti, partecipa a feste, dispute letterarie, guadagnandosi
delle inimicizie come Luis Pacheco de Narváez, maestro di scherma, del quale si
prende beffa nel Buscón.
L’elemento satirico emerge nella redazione dei Sueños, iniziati nel 1605, ripresi nel
1608 e conclusi nel 1622. Tra la redazione del secondo e del terzo sueño, si dedica
33
M. Grazia Profeti (a cura di), L’età d’oro della letteratura spagnola: il Seicento, La Nuova Italia,
Firenze, 1998, pp. 331-338.
26
alla stesura di due opere: Paráfrasis y traducción de Anacreonte e il Discurso de la
vida u tiempo de Phocilide; e scrive un saggio, España defendida, specchio della
crisi spagnola e allo stesso tempo di una crisi personale. Se da un lato opera su un
autore della classicità avvicinandolo e reinterpretandolo secondo le linee del proprio
tempo, dall’altra, invece, esamina e difende la cultura spagnola. Di fronte alla
cacciata dei moriscos, nel 1609, Quevedo termina il terzo Sueño, e riunisce due
raccolte poetiche, le Lágrimas de Hieremias castellanas e El Heráclito cristiano.
Nel 1613 inizia un altro periodo nella vita di Quevedo, si reca in Sicilia, al seguito
del duca di Osuna, come suo segretario. Il periodo italiano si riflette in opere di
ispirazione storica e stoica, come le opere Lince de Italia; Mundo caduco; La bora
de lodos, e solo nel 1620 ritorna in Spagna, riprende intensamente la propria attività
letteraria, completando la prima opera a stampa Epítome a la vida de Fray Tomás de
Villanueva.
Con la morte del re Filippo III e l’incoronazione di Filippo IV, nel 1621 si assiste alla
nomina di ministro del conte duca di Olivares, mentre Quevedo viene allontanato da
Madrid. Nel tentativo di recuperare il favore della corte, invia al conte la propria
Política de Dios e stampa anche un’opera satirica El caballero de la Tenaza. Nello
stesso anno della Política de Dios, appare l’edizione non autorizzata del Buscón.
Nel 1639 viene accusato di essere confidente dei francesi, per questo viene arrestato,
sequestrati i suoi libri e le sue carte, e condannato a quattro anni di prigionia presso il
convento di San Marcos di León. Durante questo periodo di prigionia non gli era
permesso ricevere visite, ma soprattutto scrivere. Solo nel 1643, con la morte del
conte duca, si rende possibile la sua liberazione, ma ritornato a Madrid deve fare i
conti con una crisi militare, ma anche con sé stesso perché si ammala. Le ultime
lettere riflettono l’estrema consapevolezza della fugacità della vita e dell’inutilità
della politica. Muore l’8 settembre 1645.
27
II.2. La poesia satirica-burlesca
A differenza di Lope e Góngora, Quevedo mette in ridicolo i personaggi dell’Olimpo
e smonta le storie che ruotano attorno a questi stessi personaggi aggiungendo a
momenti topici l’irrazionale, l’assurdo e il bizzarro. In questo modo produce una
visione grottesca dei miti, e discute, allo stesso modo, dell’estetica propria del
Rinascimento e della funzione moralizzante del Barocco.
Inoltre, nelle sue opere emerge un aspetto altrettanto interessante, una critica
personale che, dietro la burla, lascia intravedere la satira e allo stesso tempo, riflette
28
l’idiozia del genere umano. In questo modo, la parodia di situazioni drammatiche
della mitologia sembra riflettere l’epoca quevediana.
Il fine principale di queste opere satiriche non è solo ironia ma anche evidenziare le
realtà contemporanee, sociali e individuali; infatti, Quevedo crea una satira
costumbrista del suo tempo, nella quale, in un modo o nell’altro, emerge un profondo
nichilismo. Per questa ragione, i miti d’amore ripresi nella prospettiva satirica-
burlesca, presentano il pensiero quevediano, secondo il quale le relazioni umane sono
mosse esclusivamente da interesse economico.
La funzione satirica burlesca del mito si può presentare in tre differenti tipologie: la
satira del mito che porta a svalutare il mito stesso; la satira di un referente non
appartenente al mondo mitologico; la parodia degli dei in relazione all’astrologia, e
infine la parodia del linguaggio e dei topoi letterari.
Una delle varianti, adottate dalla funzione burlesca, è quella di attaccare direttamente
il personaggio o il mito, sminuendo la materia classica. Tale variante è presente nel
romance 757, in cui Quevedo fa parodia della figura classica del Tempo e delle sue
funzioni. In primo luogo, la descrizione della divinità avviene per ironia grazie
all’uso di un linguaggio familiare e di un tono esagerato:
Lindo gusto tiene el Tiempo
notable humorazo gasta:
él es socarrón machucho,
él es figurón de chapa.
Il testo continua enumerando gli effetti negativi che impone il Tempo al corpo: le
cispe agli occhi, la difficoltà a mangiare dovuta alla perdita dei denti: la boca
masculla. Quest’ultimo elemento è fondamentale per la descrizione burlesca della
29
donna petrarchesca, servendosi della metafora perlas->dientes e di una similitudine
della bocca: alba risa. Infine, per indicare le rovine del Tempo ricorre al cazón, un
tipo di pesce che, una volta asciutto, può essere utilizzato come raspa e zapa (lija):
A los más hermosos ojos
se la paga de lagañas;
la boca masculla, que antes
de perlas mordió con sartas.
¿Qué es mirarla, escondida
entre la nariz y barba,
la que fue de la alba risa,
estar cocando de Marta;
y el ordeñar, como suele,
las manos y las gargantas:
que, quitándoles la leche,
quedan cazones y zapas?
34
Secondo il linguaggio della germanía, «greña» fa riferimento al «cabello revuelto», tipico delle
persone che non ha cura del capello.
30
Secondo Quevedo, il doppio volto protegge Giano dalle burle («ni las orejas blancas
mano burlona te imitó las ancas») e dalle corna, la cui espressione «luna jarameña» è
una perifrasi che si riferisce alle corna dei tori di Jarama.
Grazie al doppio volto, Giano scopre le pullas, ovvero le burle, parole mordaci e
oscene. Il sintagma «cogote lince» è una costruzione apositiva sintética, che allude
alla forma satirica del volto posteriore del dio, il quale è coperto dalla greña.
Si è solito riscontrare nei componimenti quevediani il mito di Narciso, che emerge
come elemento comparativo o metaforico di un soggetto poco gradito, come nella
canzone 622, A una dama hermosa y borracha. Ciò che accomuna Narciso alla dama
è la bellezza, mentre la dissonanza tra i due viene data per la contrarietà dei fatti: da
un lato Narciso non può cessare di specchiarsi nell’acqua, dall’altro la dama mostra
un legame con il vino. Il dilemma che vede la dama detestare l’acqua si manifesta nel
testo mediante l’allusione ironica della morte di Narciso. Tuttavia, l’exemplum che
presenta il personaggio della sbornia come primo termine di paragone, fa si che il
secondo termine, il personaggio mitologico, soffra anch’esso il processo di declino:
Tan linda te hizo el cielo,
que, porque no murieses cual Narciso,
con providencia quiso
que el agua aborrecieses en el suelo,
porque cansada, o con el sol ardiente,
no murieses cual él en otra fuente.
Altro elemento mitologico, che interviene con frequenza nella satira dei personaggi
sono le sirene che Quevedo introduce in realtà costumbriste degradate, insieme agli
aspetti osceni e lascivi35.
Esempio è il seguente frammento di una letrilla satirica 646, nel quale il soggetto
mitologico viene calato in un contesto di una corte prostibulario:
35
Oltre al trattamento burlesco, nei poemi seri di tema amoroso, l’elemento mitologico delle sirene è
un ricorso appropriato per alludere all’attrazione della dama.
31
donde se entró de rondón,
chitón.
33
dei ladri e dei truffatori. Il cuerno allude all’infedeltà. La toca possiede connotazioni
lussuriose, basate sull’odore e sull’eccitazione, intensificato dall’elemento del mirto.
Oropel è un qualcosa di poco credibile, falso. La gola è l’ingordigia di Marte. Il rayo
possiede connotazioni di timore e paura. E per ultimo, la corcova è un elemento che
in letteratura viene mal visto, non solo perché è indizio di vecchiaia, ma piuttosto
come deformazione fisica, frutto di una maledizione.
In particolar modo, è importante il romance satirico 680, in cui Quevedo presenta
diversi dei per farne parodia dei loro valori mitologici e astrologici. Alla base di
questo componimento astrale, vi era la convinzione che gli dei e gli astri sono la
causa della sua sfortuna. Infatti, secondo gli astrologi gli individui definiti
«mercuriales» erano proclivi alla poesia, alle attività artistiche e matematiche. Visto
che Mercurio è volato via, il poeta è libero dal suo influsso:
Mercurio se me voló,
diosecito de plumajes,
él, que lleva por el viento
pajaritos carcañales.
Grazie a una serie di meccanismi, posti al servizio della satira, Quevedo critica
maggiormente non solo il mito stesso ma fa parodia del linguaggio poetico e
dell’abuso di elementi, appartenenti al cultismo e dei topoi letterari che non solo si
riscontrano nei testi del Rinascimento, ma di quelli che furono utilizzati da Góngora
e da Quevedo stesso nella poesia d’amore.
Nella Culta latiniparla, Quevedo fa satira dell’abuso dei latinismi e dei referenti
mitologici. La parodia di questo stile cultista e ricercato fa si che i venti mitologici
alludino alle realtà ultraterrene:
«Por no decir: tengo ventosidades, dirá tengo colos o céfiros infectos»
La satira del linguaggio poetico di Góngora, viene riscontrata nel sonetto 832, scritto
in opposizione alla Fábula de Polifemo y Galatea. Il contrasto tra il linguaggio
utilizzato, eccessivamente elevato, e il referente escatológico al quale mira, riproduce
in chiave parodica l’imperfezione ciò che Quevedo critica nella poesia gongorina.
34
Nella prima quartina:
35
II.3. Apollo e Dafne
Il mito di Apollo e Dafne è tra i miti più popolari e maggiormente riadattati nella
tradizione spagnola. I poeti del Siglo de Oro sono affascinati da questa storia in
quanto sottolinea il desiderio in contrasto con un amore impossibile e la conseguente
sofferenza dell’amato disprezzato. È una delle storie mitologiche che si riscontrano
nelle opere quevediane37, particolarmente nelle opere satiriche-burlesche, dando
versioni differenti dello stesso mito e rispettando, allo stesso tempo, il racconto
ovidiano. Tuttavia, è soprattutto nei poemi satirici che si rileva un particolare
37
Nelle opere quevediane riscontriamo la materia mitologica, in particolare il mito di Apollo e Dafne;
nei poemi amorosi, infatti, si cerca di costruire un parallelismo tra Dafne e una dama schiva o sono
referenze, cui obiettivo è quello di costruire l’immagine del lauro.
36
riadattamento di questa storia, in particolare nei sonetti 536 e 537: A Apolo siguiendo
a Dafne e Dafne huyendo de Apolo.
Si possono osservare l’uno in relazione all’altro; nel primo il poeta si rivolge ad
Apollo, gli indirizza dei consigli affinché possa riuscire nel suo obiettivo, quello di
giacere con Dafne; nelle quartine e nella prima terzina del secondo sonetto si rivolge
direttamente a Dafne, mentre l’ultima terzina conclude il poema con un frammento
narrativo e termina descrivendo, in modo satirico, lo scioglimento dell’episodio
mitologico.
Iniziando dal primo sonetto 536, si rappresenta in modo chiaro e lineare il momento
dell’inseguimento di Apollo nei confronti di Dafne:
A Apolo siguiendo a Dafne
Questo sonetto stabilisce un dialogo tra il poeta e Apollo, nel quale l’io lirico gli dà
dei consigli: se il suo obiettivo è quello di giacere con la ninfa non deve fare altro che
pagare i suoi favori, così come fece Giove con Danae 38 o Marte con Venere; ma il
componimento si conclude con il rifiuto della ninfa perché Apollo non può offrirle
del denaro. In questo modo, Quevedo ricorre agli exempla di altre narrazioni
38
Ovidio, nelle Metamorfosi (IV 610-611), presenta il mito di Giove e Danae: A Danae, figlia di
Acrisio e Aganippe, era stato predetto che il figlio da lei partorito avrebbe ucciso Acrisio; allora il
padre, temendo che la profezia si avverasse, la rinchiuse in una prigione dai muri di pietra. Ma Giove,
mutatosi in una pioggia d’oro, giacque con Danae; da quell’amplesso nacque Perseo.
37
mitologiche, ma le reinterpreta in modo satirico per dimostrare gli stratagemmi con i
quali le altre divinità sono riusciti in simile impresa; quindi, il poeta sottolinea l’idea
che l’aspetto economico presiede la relazione tra i due amanti.
Inoltre, la struttura del componimento si presenta irregolare, in quanto non presenta
né la forma narrativa né quella dialogica, ma ciò che risulta particolarmente
importante è il monologo, ben due, messi al servizio del poeta, affinché possa dare
una sua interpretazione satirica della materia mitologica. L’obiettivo fondamentale è
quello di enfatizzare l’inutilità del volere di Apollo «seguir a Dafne», quando la
soluzione al suo problema è altra: «pagar los favores de la ninfa».
Sin dal primo verso il tono e il registro linguistico viene messo al servizio di un
processo di «desvalorización» di Apollo, infatti si presenta il personaggio mitologico
facendo ricorso a degli aggettivi negativi: «platero judío, poco fiable, pelirojo,
excitado». In questo modo, invece di trovare l’epiteto «rubicondo» che designa
Apollo, si riscontra l’aggettivo «bermejazo», che fa riferimento alla dimensione del
sole, ma allo stesso tempo enfatizza le connotazioni negative per la presenza del
colore «pelirrojo» perchè secondo la tradizione occidentale il colore rosso designa
una persona malvagia, ingannevole ed era il colore che veniva generalmente
attribuito a Giuda. Con solo pochi versi iniziali Quevedo ha dato un’immagine
degradata di Apollo, considerandolo un personaggio falso e vano, perverso e
malizioso «bermejazo».
Nei versi successivi, continua questa volontà di voler presentare Apollo in maniera
negativa; infatti, il poeta gli attribuisce una funzione totalmente bassa: «alumbrar a la
canalla39 para que se espulgue40».
Si può considerare il terzo verso la chiave del processo di «desmitificación» al quale
si assiste, e allo stesso tempo presenta il personaggio della ninfa dopo aver introdotto
il termine «a la canalla»; infatti, la rima interna tra «se espulga- afufa» rafforza
l’unione tra le due parti; l’espressione «la ninfa Dafne» non ha connotazioni elevate,
39
M. E. Barnard, Myth in Quevedo: The serious and the Burlesque in the Apollo and Daphne Poems,
p. 513. «Barnard observa en este vocablo un juego basado en la animalización que afecta a la primera
sílaba (can), lo que manifiesta la fusión del mundo humano con el animalesco».
40
S. G. Salazar, La parodia quevediana de los mitos: mecanismos léxicos, Malaga, Universidad de
Malaga, 2002, p. 334. «El término espulgarse (quitarse las pulgas) manifiesta el gusto de Quesendo e
recrearse los detalles repulsivos que denuncian la inmundicia. La luz del sol se nos presenta, por tanto,
no como un elemento ennoblecedor, sino como la causa alumbradora de la miseria humana».
38
ma la chiama ninfa in un gioco dialogico che, nel linguaggio comune, allude a
«prostituta tributaria de un rufián». In particolare il verso 4 presenta in modo
esplicito l’immagine di Dafne come ninfa-prostituta. Nel Siglo de Oro la parola
«gozar» assume il significato di «copular»: «gozar una mujer es copular con ella» 41, e
quando si desidera giacere con una prostituta, la strategia che l’io lirico suggerisce è
diretta e brutale: «paga y no alumbres».
Nell’ultima terzina, si inserisce la satira alla «dueña», completando gli elementi
costumbristi emersi sin dall’inizio («el lenguaje de germanía, el tópico de los
bermejos, el dinero, etc.»). Il termine «estrella» si riferisce al contesto del cielo, ma
anche a fato o destino; in questo modo le costellazioni influiscono nel bene o nel
male sulla sorte degli amori. Il poeta suggerisce al sole di comprare una dueña,
grazie all’astuzia, affinché possa congiungersi con la ninfa. Alla fine del
componimento lo incita in modo esplicito: «si eres el rey de las estrellas, puedes
servirte de ellas», dunque Febo, essendo dio sole, e di tutte le stelle, può servirsi di
una delle stelle per riuscire nel suo intento: conseguir gozar a Dafne.
Il sonetto 537 segue l’obiettivo del sonetto precedente, quello di sminuire la materia
mitologica. Entrambi costituiscono la stessa unità: se nel 536 si consiglia ad Apollo il
modo per poter conquistare Dafne, il 537 mette al corrente la ninfa delle intenzioni
del dio e mostra la sua proposta:
A Dafne huyendo a Apolo
41
I. A. Ayuso, Dos sonetos mitológicos: Apolo siguiendo a Dafne, A Dafne huyendo de Apolo, in
Comentarios a la poesía satírico burlesca de Quevedo, Madrid, 1998, pp. 45.
39
De laurel se ingirió contra sus tretas,
y, en escabeche, el Sol se quedó a escuras.
Il sonetto si centra sulla figura di Dafne e sulla sua metamorfosi. La satira si presenta
in due modalità: i primi undici versi sono un discorso diretto di natura drammatica,
indirizzato a Dafne e poi segue una presentazione del personaggio di Apollo. Il
processo graduale di «desmitificador» emerge particolarmente nell’ultima terzina, di
natura narrativa, nella quale si presenta la trasformazione della ninfa nel lauro e si
descrive la reazione di Dafne dinanzi al messaggio contenuto nei versi precedenti.
In questo componimento, Apollo viene presentato come «alquimista» (Quevedo lo
utilizza per descrivere una persona ingannevole e falsa), in quanto, essendo re sole,
possedeva il potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava con i suoi raggi 42.
«Tildar al astro» dell’alchimista ricorda la volontà del poeta di voler presentare
Apollo in maniera negativa, e viene già espresso nel sonetto precedente con
«platero». Dall’altro, invece, alchimista rende ancora più esplicito il fallimento di
Apollo nella sua impresa, che non riesce a giacere con la ninfa. Inoltre, l’immagine
di Apollo che rincorre Dafne sottolinea maggiormente l’obiettivo di Quevedo di
voler sminuire la materia mitologica, in quanto Apollo viene meno al suo ruolo di dio
sole onnipotente. Apollo, infatti, in genere rappresenta il sistema tolemaico, teoria
contemporanea a Quevedo, secondo la quale era il sole che si muoveva intorno ad un
punto, qui invece, il sole si presenta come un tipico seduttore innamorato che si
lascia trasportare da desideri carnali.
A partire dal secondo verso, si presenta la figura di Dafne in maniera particolare,
ovvero il poeta ricorre ad una interrogativa diretta: «¿ y vos tan cruda?», dalla quale
emerge l’elemento cruda, attribuito a Dafne; infatti, se da un lato assume il
significato di cruel, dall’altro continua la parodia della materia alchimista. Infatti
ricorda una delle pratiche dell’alchimista, la calcificazione: dunque, si costruisce
un’immagine contrastante, in quanto è raro che Dafne, inseguita da un alchimista il
cui obiettivo è quello di «meter en horno», si mantenga cruda. La parola cruda
42
S. G. Salazar, La parodia quevediana de los mitos: mecanismos léxico, cit., p.338. «Se llama al Sol
alquimista, pues con su luz parece hacer oro de todo, como pretendían los alquimistas que marchaban
tras el hallazgo de la piedra filosofal, la cual, puesta al sol, se decía que trasformaba en el metal
preciado toda la materia».
40
prevede un doppio significato: oltre ad appartenere al campo lessicale e semantico
culinario (non è un caso che Quevedo si rifaccia a questo tipo di lessico per
intensificare la satira della materia mitologica; si ricordi che il mondo culinario è di
tipo carnevalesco e rappresenta il basso tra le convenzioni dell’epoca), se la si
considera come appartenente al campo lessicale amoroso, assume il significato di
«desdeñosa».
Questione importante è una pratica corrente durante il Siglo de Oro, che consiste in:
«introducir una trasformación que no estaba en la fábula original» 43, e Quevedo ne fa
uso nel terzo verso attraverso una metafora «murciégalo» 44 per giustificare la fuga di
Dafne da Apollo. In questo modo, identificando la ninfa con un «murciégalo», si
intensificano le connotazioni negative di questo personaggio; infatti il pipistrello era
considerato un uccello notturno delle arpie, ma era anche simbolo del malfattore che
si nascondeva nell’oscurità. Dunque, si può notare come il processo di degradación
avvenga per un fenomeno di «animalización»: la fuga di Dafne dalla persecuzione di
Apollo viene paragonata con la figura del pipistrello che fugge dalla luce del giorno.
Particolarmente importante è il verso settimo, «su alijaba suena, està su bolsa muda»,
in quanto rappresenta l’elemento di congiunzione con il sonetto precedente: il
cosiddetto «silencio de bolsa» crea un’antitesi burlesca. Da un lato, al correre di
Apollo le frecce si colpiscono tra di loro nella faretra, ovvero si tratta di un
cacciatore poco fortunato, dato che non ne ha fatto uso; dall’altro, invece, la
«bolsa45» è in silenzio perché non contiene denaro o non vuole concederne. In questo
modo il personaggio mitologico viene parodiato, rendendolo un cacciatore che
rincorre la sua preda e come uno sbruffone ridicolo pretende di ottenere i favori di
una prostituta. Quest’immagine si intensifica maggiormente nel verso successivo,
quando Quevedo identifica Apollo con l’immagine del cane, in questo modo non
solo presenta il dio come vittima della passione, ma afferma l’idea che Apollo non
43
Ivi, pp. 339-340.
44
I. A. Ayuso, Dos sonetos mitológicos, cit., pp. 51. «Murciégalo: forma usual de la época, más cerca
de la etimología –mur- ciego “ratón ciego”- que la actual murciélago, proveniente de metátesis»
45
S. G. Salazar, La parodia quevediana de los mitos: mecanismos léxicos, cit., p. 340. «Silepisis que
se refiere tanto al zurrón del cazador como al bolsillo»
41
può pagare la donna e la inganna; dunque il verso «dar perro muerto» allude alla
frase: «irse con una prostituta y no pagarle».46
Infine, i versi finali reinterpretano satiricamente il motivo del lauro, la pianta nella
quale si trasforma Dafne secondo il mito: l’espressione «en escabeche» evoca
nuovamente il mondo culinario47. In questo modo, il simbolo del lauro si presenta
agli occhi di Quevedo desgastado, per il quale preferisce sperimentare un finale più
costumbrista. Questo componimento burlesco, come ad esempio l’immagine del sole
posto nell’oscurità presenta Apollo come personaggio ingenuo, un picaro fallito che
si sorprende dinanzi all’improvvisa trasformazione della ninfa.
Dietro a questo momento in cui Apollo si lascia trasportare dalla passione, nelle
metamorfosi ovidiane si sottolinea il dolore del dio per la trasformazione dell’amata,
mentre Quevedo, senza ricorrere all’atmosfera drammatica, inserisce il personaggio
all’interno di un semplice recipiente di escabeche e inserendolo nell’oscurità. Il
finale si presenta come castigo per Apollo, in quanto non ha saputo mettere in atto il
consiglio datogli nel sonetto precedente.
46
Ivi, p. 341.
47
Ivi, p. 343. Escabeche: condimento a base di lauro. «género de salsa y adobo que se hace con vino
blanco y vinagre, hojas de laurel, limones cortados, y otros ingredientes, para conservar lo pescados y
otros manjares» (Diccionario de Autoridades).
48
Ma. D. C. Jiménez, Apolo y Dafne en sonetos del Siglo de Oro, Studi Ispanici, N°.35, 2010, p. 79.
«Pero Apolo a ésta, incluso transformada, la quiso tanto que la puso bajo su tutela e hizo que por
haber conservado su virginidad se mantuviera siempre verde»
42
amore tormentato, di una relazione impossibile e, allo stesso tempo, simbolo di un
buon esito letterario. Tuttavia, quest’ultime ideologie, già presenti in Ovidio,
verranno riadattate da diversi autori e spesso ridotte al trattamento burlesco.
Diverse sono le opere che sviluppano le tematiche di un amore tormentato e di u
trionfo poetico partendo dalla materia classica.
In primo luogo, emerge la figura di Juan de Argujo, il quale riprende in due sonetti
l’episodio della fuga, della persecuzione e della metamorfosi, aggiungendo la
descrizione della trasformazione; entrambi hanno la sola funzione narrativa.
Il sonetto XXII anticipa la tematica del sonetto successivo riproponendo l’immagine
di Apollo abbracciato al lauro, così come nel poema ovidiano: «a la dura / corteza
asido»:
43
L’ultimo concessione «del rayo ardiente vivirás segura» non appartiene alle
Metamorfosi, ma Argujo lo ricava da un’altra opera classica, le Naturalis Historia di
Plinio il Vecchio.
Infine, il sonetto si conclude analizzando le possibili cause della trasformazione che
si rivelano essere elemento di novità rispetto alla narrazione classica.
Diversa è la tematica del sonetto XXIV, in quanto il poeta dedica il componimento
alla descrizione dell’episodio della fuga della ninfa e della sua persecuzione e si
conclude con lo scioglimento dell’aneddoto con qualche accenno alla metamorfosi:
«trocando en árbol mortal belleza».
Inoltre, i due sonetti sembrano avvicinarsi tra loro per l’uso di responsione: la
delusione di Apollo, «el burlado Cintio», «burló sus brazos»; e l’indifferenza di
Dafne, segnalata come «esquiva», «rigor» e «dureza» e l’espressione «¡Dafnes fiera,
mármol fríos!» e, infine, l’immagine di Apollo che viene consumato dal fuoco del
suo amore inserita alla termine di entrambi i componimenti.
È altrettanto importante sottolineare la modalità con la quale Lope de Vega ha
utilizzato la materia mitologica; in particolare, nei suoi sonetti si riscontrano due
motivi della favola ovidiana: la persecuzione della ninfa e la sua trasformazione in
lauro, utilizzati tenendo presenti due aspetti: da un lato, la gloria e il trionfo poetico,
dall’altro il rifiuto di Dafne e la sua trasformazione. Tali aspetti rispecchiano «el
motivo ejemplificador», comune nella sua epoca, necessario per vincere
poeticamente il rifiuto dell’amata. Questo tema lo si rinviene nel seguente
componimento:
Vierte racimos la gloriosa palma
y sin amr se pone estéril luto;
Dafnes se queja en su laurel sin fruto,
Narciso en blancas hojas se desalma.
Está la tierra sin la lluvia en calma,
viles hierbas produce el campo enjuto;
porque las conchas aman el rocío
quedan de perlas orientales llenas.
No desprecies, Lucinda hermosa, el mío,
que al trasponer del sol, las azucenas
pierden el lustre, y nuestra edad el brío.
Nella prima parte e in quella centrale prevalgono i temi della tristezza, della sterilità
della natura priva d’amore, riproponendo i temi mitologici come Dafne, Narciso e
Anaxárete. Una volta convertiti rispettivamente in lauro, fiore e pietra, si lamentano
della loro situazione desdeñosa: «se queja», «se desalma», «gime».
Successivamente si assiste ad un momento di transizione dovuto all’amore, in quanto
le unioni producono “bellezza” in natura, in particolare materiali preziosi quali l’oro
e perle. Inoltre, il poeta conclude con un commento personale ed esorta l’amata ad
accettare il suo amore. Altra caratteristica importante della sua poetica è dettata
50
Jiménez, Apolo y Dafne en sonetos del Siglo de Oro, p. 79.
45
dall’alter ego del poeta che si nasconde dietro la figura di Tomé de Burguillos per
raccogliere dei sonetti dal tono burlesco in un Cancionero dedicati ad una donna di
nome Juana. In questo modo, Lope fa parodia dei topoi della poesia del XVI e XVII
sec. Un esempio è dato dal componimento «A las fugas de Juana viendo al poeta, con
la fábula de Dafne», nel quale emerge un tono ironico messo al servizio di una
similitudine: l’immagine di Apollo che insegue Dafne rispecchia la figura di un
atleta, e Juana, inseguita dal poeta fugge come Dafne:
Infatti, l’intero sonetto si costruisce sulla similitudine tra il poeta e l’amata, e gli
amanti mitologici: «en los dos cuartetos está la anéctota mitológica: sus protagonistas
(Dafne y el fúlgido planeta), la persecución (v.4), la hermosa, la castidad y la
metamorfosis (vuelto en laurel su hermoso cuerpo honesto) y, por último, el laurel
como símbolo del trionfo (corona al capitán, premio al poeta)» 51, e si conclude con la
speranza che si avveri la trasformazione in lauro, affinché possa cingere la propria
fronte con la corona.
Altro poeta che si occupó di proporre una nuova versione di questo mito è Luis
Martin de la Plaza, il cui obiettivo è di riscrivere il mito dafneo conferendogli una
funzione argomentativa. Si dimostró non solo essere fedele alla fábula ovidiana, ma
ricorda la canción di Góngora, intitolata «Corcilla temerosa».
51
Ivi., p. 85.
46
In particolare, il modello ovidiano e gongorino emergono nella prima quartina con
l’episodio della fuga di Dafne e si conclude con il tema della speranza nella terzina
finale:
54
Ivi., pp. 5-6. «La valencia significativa de este modelo ya venía explicitada en los tratatdos
mitográficos de la época. Fray Baltasar de Vitoria proporciona una clave esencial para la lectura
alegórica del mito, asimilable al madrigal del poeta granadino: Apollo hizo todas sus diligencias para
granjear la voluntad de Dafne, pero todas servían de indignarla, y de aborrecerle, a él más, y así no
quería escucharle sus razones; y viendo él, que no bastaban las muchas que ella tenía para pagarle su
gran voluntad, determinó de alcanzar por fuerza lo que no podía por gracia».
55
Ivi., p. 8.
56
Ivi., p. 10.
48
ilumina el itinerario amoroso, que nos lo muestra como persecución de una muerte
espiritual, si no fisisca»57.
Diverso è il tema del madrigale che ha come soggetto poetico la fuga di Dafne da
Febo, analizzato da una prospettiva per la quale il modello ovidiano si presenta come
lejano referente, dal momento che Soto non si comporta come un critico oggettivo di
un’azione. Particolarità più importante in questo componimento è la struttura, perché
si costruisce sui due sonetti quevediani:
«ya no se trata de una narración, sino de dos monólogos dirigidos, puestos en boca
del poeta que, como supuesto testigo, degrada con su visión interpretativa personale
la acción que presencia».
L’obiettivo principale è quello di riproporre una delle tematiche quevediane, vale a
dire la inútil persecución. A tal proposito, María Pilar Palomo, analizzando il mito
dafneo nei sonetti di Quevedo, ha notato che il punto di partenza del poeta fosse
quello di introdurre una prospettiva degradante con Dafne in veste di prostituta,
inseguita e perseguitata da Apollo.
In realtà, Dafne non fugge da Apollo, bensì è l’effetto terrificante dettato da un
amore «armado»:
Infine, se Quevedo consiglia Apollo di pagare affinché possa giacere con la ninfa,
qui invece, emerge una combinazione tra rassegnazione, tipico atteggiamento
57
Ivi., p. 11.
49
dell’amante cortese, che non viene corrisposto e costretto a soffrire in segreto;
dall’altro, invece, vi è un chiaro riferimento al cosiddetto sustrato neoplatónico: «en
el que se deja traslucir que la huida no la procuran los amores, sino los rigores de sus
atributos, arco y flechas; y, por último, un componente neoestoico en el que se le
pide al amante la renuncia y el despego de la carrera y de las armas del amor como
requisito previo para la obtención de un sentimiento nuevo, una nueva ciencia, en la
que el poeta se declara maestro»:58
Conclusioni
I sonetti di Quevedo «A Apolo siguiendo a Dafne» e «A Dafne huyendo de Apolo»
sono contrassegnati da uno stile involuto e grottesco, e in aggiunta, si prestano a
letture che, ponendo in parallelo il componimento e il contesto storico dell’autore, si
caricano di una funzione quasi allegorica-politica.
Tuttavia, è indispensabile evidenziare la posizione di Quevedo rispetto alla tradizione
classica, il cui rappresentante è Ovidio, e alla mitologia di stampo petrarchista,
secondo l’uso che ne fa Garcilaso.
Diversi sono stati i critici che hanno espresso un’opinione rispetto alla questione
quevediana, in particolare Ignacio Arellano e Juan Manuel Oliver. Infatti, secondo
Ignacio Arellano, l’elemento di discontinuità tra Garcilaso e Quevedo è dettato dalla
differente scelta stilistica, e, quindi, in una «placidad sensorial» per Garcilaso in
opposizione ad uno stile ricco di giochi di parole, in consonanza con il costumbrismo
58
Ivi., p. 12.
50
dell’epoca.59 Diversamente, Juan Manuel Oliver pone attenzione al processo che
vede come risultato il passaggio dal mito all’antimito:
59
I. Arellano, Comentarios a la poesía satírico burlesca de Quevedo, Arco Libros, Madrid, 1998, pp.
55-56. «Lo que me parece más significativo es el cambio de una expresión conceptista, que sustituye
la sensorialidad de directa percepción, por una serie de juegos mentales y verbales: alusiones, dilogías,
rupturas de frases hechas, metáforas degradatorias con mezla de otras formas de agudeza, conceptos
de ponderación misteriosa, alternancia de registros, lenguajes y tradiciones poéticas, con atracción del
mito a la cotidianeidad costumbrista de ambiente apicarado y de germanía».
60
J. M. Oliver, Comentarios a la poesía de Quevedo, Sena, Madrid, 1984, p. 145.
61
Ibid.
62
J. M. Araque, Apolo y Dafne en los sonetos de Quevedo: el antimito y su lógica productiva,
Universidad de Granada, p. 221.
51
vendetta nei confronti di Cupido e soprattutto contro il suo ruolo e l’uso del suo
arco.63
Vicino alle Metamorfosi ovidiane è Garcilaso, in particolare nel sonetto XIII emerge
l’elemento comune: tutto il sonetto si costruisce a partire dalla questione amorosa.
La metamorfosi finale, seppur di matrice drammatica, nel sonetto di Garcilaso si
lascia spazio alla bellezza, mentre in Ovidio vede realizzarsi una promessa di gloria
eterna. In Garcilaso, si partecipa alla metamorfosi e alla fase dell’innamoramento
come qualcosa di credibile, dotando i personaggi di una vita propria. Inoltre, la
poesia dá attenzione allo stato d’animo degli amanti, la cui anima è segnata
dall’amore e dall’odio.64
Il tema di questo sonetto è frutto dell’influenza della lirica petrarchista, che è stato
non solo modello per Garcilaso, ma di tutta una corrente di ispirazione lirica
sviluppata in Europa durante il Rinascimento. Questa lirica ha come suo fondamento
una nuova filosofia dell’amore influenzata dal platonismo. In particolare, nel
Canzoniere, il poeta narra del suo amore per una donna descrivendo un’evoluzione
63
Ovidio, Metamorfosis, IV, 7, citato da J. M. Araque, Apolo y Dafne, cit., p. 221. Cupido decide
someter a Apolo al yugo de sus flechas y le hace saber que, cuanta más gloria alcance, más prestigio
obtendrá él por tenerle bajo su dominio. La flecha de amor que atraviesa a Apolo causa su
enamoramiento inmediato de Dafne. Ésta, a su vez, ha recibido un flechazo de plomo, que causa el
efecto contrario. Apolo, ardiente de amor, engañado por sus oráculos, comienza la persecución. No se
declara enemigo sino simple enamorado. Incluso se preocupa por las posibles heridas que pueda sufrir
Dafne, en su apresurada marcha, y no quiere ser el causante de las mismas. Hasta tal punto llega la
preocupación que le implora que huya más despacio, que él ralentizará también su paspo. Apolo
también intenta ganarse su amor haciendo alarde de todos sus atributos y de su linaje. En este punto,
reconoce la superioridad de las flechas de Cupido y la imposibilidad de curación de su amor, pese a
sus poderes sobre las hierbas y a ser el padre de la medicina. La belleza de la ninfa, que se va
acrecentando con la carrera, hace que Apolo pierda la paciencia y, pese a lo dicho, deje las palabras a
un lado y acelere para atraparla, ayudado por las alas del amor. Dafne, en su último aliento, ruega a su
padre que le haga perder esa bella figura, por la cual es perseguida, y se produce la transformación de
la delicada ninfa en raíces, cortezas y ramas. A pesar de esto, Apolo sigue siendo fiel a la ninfa, cuyo
corazón todavía puede escuchar bajo el tronco. El dios tomará las hojas del árbol como su símbolo
eterno de fidelidad a una idea y a una juventud perennes, como las hojas del laurel.
64
Araque, Comentarios, cit., p. 222.
52
dall’amore sensuale a quello spirituale, musa ispiratrice del quale diventerà modello
dell’amata nella lirica di stampo amoroso.
Tuttavia, tutto ciò viene particolarmente valorizzato da María Dolores Castro:
Laura tiene todas las características de la domina del Dolce stil novo, la
donna angelicata: de dulce rostro, pero altiva fría y distante, a quien se
aprecia por los ojos, la boca, los cabellos (siempre rubios) y las manos. A
través de Petrarca, Dafne adquiere las características del ideal de mujer
renacentista que se suman a la esquivez propria de la ninfa que se ajusta al
tema, constante renacentista, del amore inaferrable.65
Il mito dafneo aveva acceso la fantasia del poeta fin dal primo momento, in
cui, nello studio attento e assiduo di Virgilio ed Ovidio, s’era estasiato nelle
figurazioni della mitologia classica. Ben presto scoprí la perfetta
corrispondenza tra l’amor suo e per Laura fuggente e la favola stupenda di
Dafne, che si trasforma in Lauro.66
Dunque, Garcilaso incorpora la materia mitologica alla poesia tenendo presente le
differenti correnti dell’epoca e, in particolare, si identifica con il personaggio
mitologico, come Petrarca. Basatosi su questo modello, durante il periodo napoletano
compone il sonetto XIII rispettando il racconto ovidiano e la sua esperienza
personale. È un sonetto che inizia in medias res e si concentra sull’episodio
mitologico, in particolare sull’istante della metamorfosi, diventando a sua volta un
modello per gli autori successivi.
Diversamente accade in Quevedo. Egli infatti è un poeta che rifiuta qualsiasi fonte
classica e distrugge la belleza di Garcilaso:
65
M. D. Castro Jiménez, Presencia de un mito ovidiano: Apolo y Dafne en la literatura española de
la Edad Media y el Renacimiento, en Cuadernos de filología clásica, 24, 1990, p. 210
66
Tonino. T. Mattucci, (a cura di), F. Petrarca, Bucolicum Carmen, Giardini, Pisa, 1971, p. 77
67
Araque., op. cit., p. 223.
53
La parodia dei sonetti quevediani consiste nel presentare membri della nobiltà come
rappresentanti del vulgo, servendosi di differenti forme.
In particolare, in questi sonetti sono importanti le immagini che Quevedo utilizza.
Infatti, se Apollo viene identificato come «platero», si viene a creare, allo stesso
tempo, un parallelismo della figura divina con l’artigiano per far emergere
un’immagine burlesca. Successivamente, Quevedo lo identifica anche come
alchimista, e l’alchimia rappresenta altro elemento negativo, oltre a quello della
nobiltà.
Basti pensare all’attività degli alchimisti: «los alquimistas cambiaban las sustancias
naturles de las cosas, pervertían el orden de la naturaleza y la naturaleza estaba
marcada por lo divino, estaba escrita de antemano por la creación divina. De todos
modos, es la acción del dinero lo que vertebra todo. El “paga y no alumbres”, los
ejemplos de la venta de las armas de Marte, la transmutación en oro de Júpiter, la
bolsa muda o la comparación con el buhonero son ejemplos de un mismo efecto».68
Dunque, Quevedo non puó imitare Garcilaso perché non è interessato ad esaltare
l’amore di un individuo e, allo stesso tempo, non può essere fedele a Ovidio perché
la volontà divina si presenta corrotta per gli effetti del denaro che ha sul mondo.
Quevedo vede nella materia mitologica uno strumento per criticare la nobiltà che non
soddisfa il proprio ruolo.
A tal proposito è importante ciò che viene espresso da Javier Maldonado Araque:
68
Ibid.
69
Ivi., pp 223-224.
54
Inoltre, diverse sono le analogie tra la materia mitologica, in particolare la storia di
Apollo e Dafne, e il contesto storico in cui vive Quevedo.
In primo luogo, Apollo si presenta come re Sole che deve poter governare contando
sull’appoggio dei suoi sudditi; ciò non rispecchia il contesto sociale del poeta, che
critica fortemente la mancanza di fedeltà tra il signore e il servo, tipico dell’Età
Media e che si intensifica maggiormente con la nascita della borghesia,
scombussolando così l’assetto sociale.
In questo modo, si puó considerare Quevedo un autore che è cosciente dell’esistenza
di una degradazione sociale. Critica la nobiltà facendo uso di un elemento di gran
prestigio, la tradizione classica, per paragonarla al grado più basso della società, la
plebe. Si serve di un tono grottesco, giocoso, che si basa sul costumbrismo e la
«germanía»: ambiente picaresco.
Infine, Quevedo non puó essere fedele a Ovidio perché la volontà divina, in
particolare quella pagana, non è più presente nel XVII secolo spagnolo; non può
essere fedele neanche a Garcilaso per l’impossibilità, in lui, di vedere positivo il
nuovo assetto sociale:
70
Ivi., pp. 224-225.
55