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Simone Penati
simone.penati@tiscali.it
Il metodo descrittivo
nelle opere di Howard Phillips Lovecraft
2004
1
Indice
Introduzione
Il mito di H.P.L.
Gli epigoni letterari
Le trasposizioni artistiche dei Miti di Cthulhu
Conclusioni
2
Introduzione
3
sua categorizzazione e alla sua definitiva affermazione come valore
positivo in sé, capace di procurare nel fruitore, secondo gli studi
psicanalitici di Freud, un sentimento misto di piacere e repulsione.
Viene affrontato il problema della rappresentazione del grottesco,
con riferimento al Laocoonte di Lessing e alla divisione delle arti da
esso attuata, per poi introdurre il concetto di visione aptica di Riegl.
Tale concetto viene rapportato nel capitolo successivo ai
simboli più forti e significativi del filone gotico: da Frankenstein al
dottor Jekill, passando per gli strampalati personaggi di Edgar Allan
Poe, si evidenzia la propensione alla descrizione tattile tipica della
letteratura del terrore. Una propensione che si ritrova intatta anche
nei racconti di Lovecraft, come viene sottolineato dai numerosi
esempi riportati all’interno di questo lavoro.
Nel capitolo quinto, però, si pone l’accento su quella che
questo scritto considera come la vera particolarità dello stile di
scrittura dell’autore americano: il brusco accostamento tra l’apoteosi
della descrizione realizzata dal parcellizzarsi della visione e il più
assoluto rifiuto di qualsiasi tentativo di render conto attraverso la
parola letteraria delle mostruosità affrontate nei racconti dei Miti di
Cthulhu. Viene sottolineata l’importanza dello scarto immaginativo
richiesto al fruitore dallo spazio lasciato al non detto, al non
disvelato, anche grazie alle caratteristiche peculiari del medium
scrittura.
Un “invisibile” reso ancora più evidente dal confronto
proposto, nell’ultimo capitolo di questo lavoro, con i tributi resi ai
racconti di Lovecraft attraverso arti e mezzi di comunicazione di
massa diversi dalla letteratura: attraverso l’esposizione di lavori
legati alla scultura, al fumetto e alla cinematografia ispirati ai Miti di
Cthulhu, il presente scritto si propone di sottolineare l’importanza
4
dell’approccio alla descrizione dello stile lovecraftiano per la
perfetta resa del sentimento della paura nella produzione artistica in
generale, e letteraria in particolare.
5
Capitolo 1 . La letteratura del terrore
La letteratura “gotica”
1
D. Punter, Storia della letteratura del terrore, trad.it. di O. Fatica, G. Granato,
Editori Riuniti, Roma 2000, p. 6
6
Il termine si è poi esteso col tempo anche a produzioni moderne
e contemporanee, quali la letteratura del grottesco psichico, ove la
caratteristica principale è rappresentata dalla deformazione degli
scenari causata dalle ossessioni psicologiche dei protagonisti, e la
narrativa dell’orrore.
Pur evolvendosi diacronicamente, il termine subisce in ambito
letterario solo variazioni marginali, mantenendo inalterate le sue
peculiarità: denota sempre un particolare stile di scrittura
particolarmente prolissa, un profondo richiamo all’inconscio, un
forte legame con il primitivo e con il proibito.
Le origini anglosassoni
7
Col passare del tempo questo tipo di creazioni artistiche prese
sempre più piede, non tanto e non solo nelle masse di lettori
borghesi, che all’epoca andavano ingigantendosi, ma anche e
soprattutto negli animi e nelle menti di celebri scrittori: Blake,
Coleridge, Shelley, Byron e Keats trovarono nel gotico degli
elementi da usare nelle proprie produzioni e, a loro volta, riuscirono
ad esprimere i principali simboli del terrore di un’epoca. Simboli
che, grazie a queste espressioni immaginative, avrebbero avuto
risonanza per tutto il XIX secolo. Uno di questi, il ricercatore di una
conoscenza proibita, si trasformò nel 1818 nel più significativo e
popolare dei moderni simboli della paura con la stesura di
Frankenstein: la durevolezza e l’influsso del libro di Mary Shelley
sono forse l’esempio più lampante del grado di penetrazione del
terrore gotico nell’immaginario popolare.
D’altra parte, per evidenziare e comprendere l’importanza e la
portata di questo filone, basta pensare alle produzioni del “gotico
decadente”, sviluppatosi sul finire del 1800 e capace di generare nel
giro di soli undici anni quattro dei più poderosi miti letterari
moderni: Dr. Jekill and Mr. Hyde (1886) di Stevenson, The Picture
of Dorian Gray (1891) di Wilde, The Island of Dr. Moreau (1896) di
Wells e Dracula (1897) di Stoker. Una vera e propria esplosione di
energia simbolica, caratterizzata dal problema della degenerazione e
quindi della perdita dell’umanità. In particolare, The strange case of
Dr. Jekill and Mr.Hyde, la più famosa storia di “ Doppelgänger”di
tutti i tempi, si presenta come il documento di una personalità scissa,
dilaniata dalla presenza latente nella psiche di un Io appassionato,
incontrollabile e violento; in Dracula questo conflitto tra due
pulsioni è rappresentato nella contrapposizione dei due personaggi
principali: da un lato il vampiro assetato di sangue, spinto
8
dall’insaziabile desiderio di soddisfacimento dell’inconscio,
dall’altra Van Helsing, portatore dei valori borghesi e rassicuranti
dell’ordine, del controllo e della sicurezza.
9
Capitolo 2. H.P. Lovecraft
La vita e le opere
10
dei primi esaurimenti nervosi, che gli impediranno di frequentare
regolarmente le scuole; a causa dei problemi fisici e della salute
cagionevole non riuscirà mai a conseguire il diploma di studi liceali.
Secondo molti biografi, si tratta di conseguenze dell’atteggiamento
asfissiante della madre.
Oltretutto, H.P. deve fare i conti con una situazione finanziaria
sempre più problematica; nel 1911 si assiste ad un vero e proprio
tracollo finanziario della famiglia a causa di alcuni investimenti
sbagliati da parte dello zio Edwin: l’autore non uscirà mai più dalla
povertà.
Per cercare di sopravvivere, inizia ad interessarsi del mondo del
giornalismo dilettante e, nel 1915, inizia quella che sarà la sua unica
attività lavorativa continuativa: la revisione di manoscritti altrui.
Primo cliente sarà il poeta e conferenziere Van Bush, un
ecclesiastico che si servirà della sua opera per oltre dieci anni.
I racconti scritti di suo pugno, invece, rimarranno per lo più
inediti sino alla morte; Lovecraft non ricavò significativi benefici
economici dal suo lavoro letterario: questo divenne un vero e
proprio oggetto di culto solo a partire dalla sua scomparsa.
Nonostante ciò, vi sono delle eccezioni: nel 1917, su invito di
W.P.Cook, curatore di varie riviste dilettantistiche, scrive i racconti
brevi The Tomb e Dagon.
Nel 1919 anche la madre, la cui sanità fisica e mentale subisce
un rapido declino, viene ricoverata nel manicomio di Providence,
dove morirà due anni più tardi. Liberatosi del giogo opprimente
esercitato dalla figura materna, a partire dal 1922 H.P. si apre al
mondo come mai era accaduto prima: viaggia negli stati del New
England, partecipa a conferenze, legge in pubblico alcuni dei suoi
racconti, viene nominato presidente della sua associazione di
11
giornalisti dilettanti. Si reca a New York, ospite di Sonia Greene,
vedova russa di sette anni più grande di lui con la quale intreccia una
relazione prima intellettuale e poi sentimentale.
Prosegue intanto l’attività di narratore; tra i vari racconti, scrive
The nameless city, dove per la prima volta cita il nome di Abdul
Alhazred. Una rivista semiprofessionale, “Home Brew”, gli
commissiona una serie di scritti. Nel 1923 arriva la prima
apparizione su una rivista professionale, il mensile dell’orrido
“Weird Tales” che pubblica Dagon nel numero di ottobre. Per due
anni collabora con il giornale; nel 1924 il famoso prestigiatore Harry
Houdini, socio della rivista, gli commissiona un racconto: da questo
lavoro nascerà uno dei lavori più interessanti di Lovecraft, Under
the pyramids, pubblicato col titolo di Imprisoned with the Pharaohs.
Purtroppo, nel 1925 il giornale incappa in un periodo di declino; le
difficoltà finanziarie spingono Sonia ad accettare un lavoro nel
Midwest, mentre Lovecraft decide, l’anno successivo, di tornare
nella sua amata Providence, ponendo fine a un matrimonio che
terminerà ufficialmente con il divorzio nel 1929.
Da allora tornerà a vivere in solitudine, circondato solo
dall’affetto un po’ morboso delle zie, uniche sopravvissute del
nucleo familiare, e dei suoi amici di penna, coi quali intrattenne
rapporti molto stretti fino alla fine. E’ in questo periodo che
compone alcune delle sue opere più importanti; nel 1926 scrive il
suo racconto più famoso, The call of Cthulhu; nel 1927 termina i
suoi primi due romanzi, The dream-quest of the unknown Kadath e
The case of Charles Dexter Ward. Sempre nello stesso anno
“Amazing Stories” pubblica uno dei suoi migliori scritti, The colour
out of space. Risale al 1930 uno dei suoi romanzi brevi più
importanti, The whisperer in darkness, mentre sono del 1931 due
12
opere capitali, The shadow over Innsmouth e At the mountains of
madness. L’ultimo racconto col suo nome è datato invece 1935, The
haunter of the dark: da allora usciranno solo collaborazioni o
revisioni.
Nel marzo 1936 viene ricoverato al Jane Brown Memorial
Hospital di Providence, dove gli viene diagnosticato un tumore
all’intestino in fase molto avanzata. Muore il giorno 15, alle sei del
mattino.
A partire da questo momento, tutti i suoi più intimi
corrispondenti epistolari inizieranno quel lavoro di recupero dei suoi
manoscritti che si rivelerà fondamentale per diffondere l’opera di
Howard Phillips Lovecraft nel mondo.
Morto l’uomo, nasce il mito.
Stile e tematiche
13
La produzione letteraria di Lovecraft si ricollega alla struttura
del gotico tradizionale sotto due aspetti fondamentali: la paura
inassimilabile del passato e l’empia aspirazione ad una conoscenza
proibita, simboleggiata da Lovecraft con la creazione 2 del
famigerato Necronomicon, grimorio dagli arcani e mistici poteri
inventato dal solitario di Providence. Le sue favole di degenerazione
si basano sulla credenza che questo nostro mondo fosse un tempo
abitato da un’altra razza, esiliata ora ai confini del mondo
percepibile, ma pronta a reimpossessarsi del pianeta e a rovesciare il
fragile regno dell’umanità, grazie al potenziale blasfemo dei rituali
magici custoditi nel libro maledetto.
In lui e nei suoi scritti tende a confluire il flusso sanguigno del
gotico americano dopo Edgar Allan Poe. Ma se quest’ultimo
ricollega la paura alla vita interiore, H.P. è, invece, totalmente privo
di interesse psicologico; comincia sin da subito a riconoscere
l’inutilità di qualsiasi psicologia differenziata; i suoi personaggi non
ne hanno alcun bisogno: basta e avanza un equipaggiamento
sensoriale in buone condizioni di funzionamento. Il loro unico
compito, infatti, è quello di percepire. Ogni tratto psicologico troppo
accentuato contribuirebbe a distorcere la loro testimonianza, a
offuscarne la trasparenza; usciremmo dal campo del terrore
materiale per entrare in quello psichico. E l’intento di H.P. è quello
di descrivere realtà ripugnanti, non psicosi. Aggrediti da percezioni
abominevoli, i personaggi agiscono da osservatori muti, immobili,
impotenti, paralizzati. Rimarranno inchiodati lì dove sono, mentre
intorno a loro l’incubo prende forma. Le percezioni visive, uditive,
2
Per saperne di più sulla genesi del Necronomicon, si veda Necronomicon, storia di un libro
che non c’è, a cura di S. Basile, Fanucci, Roma 2002
14
olfattive e tattili si moltiplicano e si dispiegano in un crescendo
raccapricciante, in un vero e proprio scatenamento di tutti i sensi.
Ciò a cui l’autore mira, d’altronde, è un terrore obiettivo, privo di
qualsiasi connotazione psicologica. Proprio per questo, egli
introduce nel racconto fantastico il vocabolario e i concetti dei più
disparati ambiti della conoscenza umana, creando un registro
verbale ricco di riferimenti alla scienza, all’anatomia, alla genetica,
alla matematica e alla meccanica quantistica: un universo linguistico
dove i più svariati campi del sapere convergono per creare quel
maelstrom poetico che accompagna la rivelazione di verità proibite.
Le scienze, quindi, nel loro incessante sforzo di descrizione obiettiva
forniranno a H.P.Lovecraft lo strumento di demoltiplicazione
visionaria che gli occorre.
Per la prima volta l’orrore spostava il suo centro di attenzione
dall’uomo (come nel caso di Stevenson, Wilde, Wells, Shelley e
Stoker) al cosmo, propugnando al fruitore un terrore proveniente in
tutto e per tutto da un altrove incomprensibile; una realtà altra,
estranea ed esterna all’uomo, che i protagonisti dei racconti di H.P.
cercano di esplorare e di comprendere per discostare il velo di Maya
che cela la verità agli occhi dei poveri mortali. Per questo motivo,
gli scritti del Solitario di Providence mantengono generalmente una
struttura investigativa, che ricorda per certi versi l’organizzazione a
spirale delle opere di Poe: basterà leggere Dagon, The Outsider o
Cool Air per notare come il finale shockante diventi il culmine
logico di tutte le suggestioni sparse attraverso il racconto, per vedere
come l’ultima frase, spesso scritta in grandi caratteri in stampatello,
riveli un dettaglio capace di fornire la pietra angolare per una
diversa costruzione degli eventi, colma di implicazioni sbalorditive.
I soggetti sono sempre uomini che sanno e vogliono sapere di più,
15
esploratori dell’ignoto che non pretendono di ridurre il cosmo a
propria immagine ma che anzi chiedono di modellarsi sulle
misteriose geometrie dell’universo; si può dire che, dal punto di
vista estetico, la narrativa di Lovecraft sia il tentativo di
abbandonare la forma umana per modellarne una diversa, inumana
o, meglio, non umana.
Per poter descrivere qualcosa di tanto alieno e grottesco, H.P.
sfrutta all’estremo le caratteristiche tipiche del medium d a lu i
utilizzato: grazie alla scrittura, infatti, può spingere la fantasia in
luoghi preclusi alle altre arti, indagando zone estetiche pervase da
abomini tanto orripilanti da far vacillare le menti di coloro che li
osservano.
Una presa di posizione precisa e cosciente, che trova piena
giustificazione nell’evoluzione del concetto di “brutto” all’interno
del dibattito estetico.
16
Capitolo 3: La scrittura come arte del
brutto.
3
M. Dessoir, L’estetica e la scienza dell’arte, in Estetica, i nomi, i concetti, le correnti, a cura
di M. Mazzocut-Mis, E. Franzini, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 271
17
del bello e il piacere che ne deriva e l’attenzione degli studiosi
viene spostata sul godimento estetico provocato da ciò che è
sgradevole.
4
V. Feldman, Estetica francese contemporanea, a cura e trad. it. di D. Formaggio, Minuziano,
Milano 1945, p. 185
5
E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, a cura di G. Sertoli, G. Miglietta, Aesthetica,
Palermo 1985, p. 114
18
per se stesso. Allo stesso modo, secondo Mendelssohn 6 il brutto non
è più rieducato dai principi imitativi del bello; al contrario, è proprio
il principio di imitazione che viene messo in discussione: svincolato
dal concetto di perfezione, viene pian piano ad includere tutto ciò
che i sensi sono in grado di rappresentarsi. L’estetica di
Mendelssohn (1757) centra dunque l’attenzione sulla relazione tra
l’oggetto e la sua fruizione e, poiché il brutto è in grado di stimolare
la nostra percezione sensoriale suscitando sentimenti misti di piacere
e ripugnanza, allora l’azione sgradevole, violenta, terrificante può e
deve essere rappresentata.
Oltre a queste giustificazioni di stampo estetico, non bisogna
dimenticare come il diletto derivante dalla sensazione di terrore sia
stato avvalorato anche da studi approfonditi nel campo della
psicologia: in questo ambito bisogna scendere a compromessi con
l’inconscio, incamminandosi sugli inestricabili sentieri della psiche
fino a giungere a quell’emozione conosciuta come paura.
In un articolo del 1919 7 , Freud introduce il concetto di
perturbante, un sentimento imparentato con affetti repellenti e
penosi quali la paura e l’angoscia, che, pur senza coincidere con
nessuno di essi, li suscita con la sua apparizione. Questo senso di
inquietudine appare contraddistinto da una corrente di stati d’animo
contradditori, in cui la repulsione è unita alla fascinazione, la voluttà
al terrore, il disgusto all’attrazione. Il perturbante sembra perciò
circoscrivere un’area ambigua dell’affetto, in cui non vi è solo pena
ma anche godimento. Il padre della psicanalisi sviluppa il suo
discorso sottolineando il legame del perturbante con il desiderio
interdetto. Scontrandosi con la proibizione, il desiderio si tramuta in
6
M. Mendelssohn, I principi fondamentali delle Belle Arti, a cura di M. Cometa, Aesthetica,
1989
7
S. Freud, Das Unheimliche, in Definire il fantastico, a cura di G. Rimondi, Greco & Greco,
Milano 2002
19
terrore, ma l’oggetto del desiderio conserva intatta la sua capacità
d’attrazione e la trasgressione il suo fascino: la “cosa” perturbante è
oggetto e fonte di un inquietante piacere, essendo un rappresentante
fantasmatico del nostro desiderio interdetto. Le figure che popolano
il fantastico non sarebbero che proiezioni di paure e desideri che
l’individuo non riesce a riconoscere in se stesso e che quindi colloca
al di fuori di sé. In altre parole, grazie alla rappresentazione della
paura, riusciamo ad esternare anche le nostre angosce e quindi a
liberarcene: se il terrore è lì, davanti a noi, allora non è dentro di noi.
Probabilmente è a partire da questo semplice presupposto che nei
miti e nelle forme artistiche di ogni civiltà umana troviamo traccia di
elementi atti a suscitare orrore e spavento. Creature mostruose e
soprannaturali, demoni e forze oscure animano l’immaginario delle
più antiche tradizioni popolari, occidentali e non. Un immaginario
che attinge dal fondo dell’animo umano, dalle sue zone d’ombra,
dove giace, mai sopita, un’inquietudine esistenziale per ciò che non
si riesce a dominare: il dolore, l’ignoto, l’irrazionale, la morte.
Questi elementi forniscono la materia prima di una moltitudine di
fiabe, poesie, dipinti, sculture e, ovviamente, racconti. Non c’è da
stupirsi, quindi, se un letterato americano del Rhode Island decise,
agli albori del secolo scorso, di cimentarsi nella narrazione di temi
angosciosi e terrificanti. In fondo fu proprio Howard Phillips
Lovecraft ad affermare: “Il sentimento più antico e profondo
dell’animo umano è la paura” 8 .
8
Tutto Lovecraft, a cura di G. Pilo e S. Fusco, Fanucci, Roma 1987
20
Il Laocoonte di Lessing
9
G.E. Lessing, Laocoonte, a cura di M. Cometa, G. Spadafora, Aesthetica, Palermo 2000
21
di questa sua tesi è che la bruttezza della forma perde quasi
completamente il suo effetto ripugnante in virtù della trasformazione
delle sue parti da coesistenti a progressive. Nella pittura ciò non
accade, il brutto non subisce alcuna trasformazione ed è costretto a
presentarsi in maniera evidente, non filtrata, come in natura.
Per questi motivi, la bellezza visibile nella sua perfetta
proporzione e regolarità deve essere l’oggetto delle arti figurative,
mentre fulcro della poesia sarà l’espressione, nella quale rientrano a
pieno titolo la bruttezza e l’imperfezione. Con Lessing, quindi, si
radicalizza la divisione tra arti figurative e arti della parola; da un
lato la simultaneità che si evidenzia nello spazio, dall’altro i segni
successivi che si svolgono nel tempo.
Si potrebbe dire che la descrizione poetica, progressiva e
parcellizzata, ricorda il procedere tattile, presentandosi per scansioni
successive. Oppure, in altri termini, che l’aggettivo più adatto per
descrivere la metodologia descrittiva letteraria è: aptica.
La descrizione tattile
22
materia concretatosi in uno spazio specifico” 10 . Un corpo situato nel
mondo che esprime tutta una serie di valori soggettivi propri del suo
creatore, ma che per essere definita opera deve rientrare all’interno
di un universo estetico che presuppone un rapporto dinamico con il
fruitore, che necessariamente implica il farsi costitutivo dell’oggetto
e le modalità di conoscenza da parte del soggetto.
Per lungo tempo la supremazia della vista nell’ambito della
conoscenza e dell’indagine del mondo esterno ha regnato
incontrastata. I primi sintomi di un cambiamento si riscontrano nel
corso del XVIII secolo, grazie a studiosi del calibro di Berkeley e
Condillac. Per quanto concerne il primo, nell’opera intitolata An
essay toward a new theory of vision (1732) 11 si interroga
sull’interazione tra il senso del tatto e quello della vista: secondo il
filosofo, poiché vediamo in senso proprio solo ciò che appare, allora
dobbiamo sostenere che vediamo luci e colori, ma non la distanza
che ci separa dagli oggetti né la loro grandezza; esse, quindi, non
sono sensazioni visive. Se, d’altro canto, ci basta guardare un
oggetto per sapere quanto disti e quanto sia grande, si può
concludere che l’esperienza che ne abbiamo è frutto di un giudizio
che nella visione ha le sue premesse, ma non il suo fondamento. Con
la nozione di giudizio si allude qui a quel processo che fa sì che
alcune idee ne richiamino altre alla mente, ponendosi come segni di
quelle. Per questo motivo, ciò che non percepiamo immediatamente
può essere esperito mediatamente. L’opinione di Berkeley è che solo
le esperienze tattili possono accedere alla dimensione dello spazio
profondo che viene così configurandosi, nella sua realtà originaria,
come una dimensione essenzialmente dinamica, legata alla
10
H. Focillon, La vita delle forme, in Estetica, i nomi, i concetti, le correnti, a cura di M.
Mazzocut-Mis, E. Franzini, Bruno Mondadori, Milano 1996, p.189
11
G. Berkeley, Un saggio per una nuova teoria della visione, a cura di P. Spinicci, in Tatto e
passione, a cura di M. Mazzocut-Mis, CUSL, Milano 2001, pp. 94-119
23
molteplicità delle forme nelle quali si concretizza la prassi corporea.
Quindi, se osservando un oggetto sappiamo valutarne la distanza e
la grandezza, ciò accade perché vi sono esperienze visive che si
costituiscono come segni di esperienze tattili. L’esperienza può, in
quest’ottica, essere intesa alla stregua di un linguaggio: si avvale di
segni arbitrari per richiamare alla mente le idee che intende
suggerirci. Se possiamo credere di vedere la distanza e la grandezza,
è perché l’interesse della soggettività non è rivolto principalmente al
segno, ma al designato; ne segue che ciò che è propriamente visto
cede subito il posto all’idea tattile che suggerisce, tanto che la
seconda finisce per sovrapporsi al primo; la nostra mente non si
ferma alle immagini che la vista le porge, ma si spinge
inavvertitamente al di là di esse, verso quelle esperienze tattili che
fanno loro da sfondo e che ne integrano il significato.
Il discorso viene in seguito approfondito anche da Condillac nel
suo Trattato sulle sensazioni 12 ( 1754 ), nel quale afferma che il
riconoscimento dell’esistenza di un mondo esterno e la sua
esplorazione attiva dipendono da una preventiva esplorazione tattile
e in particolare dal concetto di impenetrabilità da essa derivato.
Attenzione, infatti, a non attribuire alla vista quelle idee che solo il
rapporto costante tatto-vista insegna a quest’ultima a fare sue. La
collaborazione tra i sensi è indispensabile all’apprendimento, un
apprendimento che passa prima di tutto attraverso il tatto, poiché
esso, scoprendo l’esistenza di un mondo esterno proprio attraverso il
ruolo che gioca l’impenetrabilità, libera il solipsismo. La vista, senza
l’aiuto del tatto, non fornisce nessuna idea di oggetto esterno: i suoi
oggetti sono solo luce e colori. Inoltre, non basta vedere per farsi
delle idee: bisogna guardare con ordine e con metodo. Bisogna che i
12
E.B. de Condillac, Trattato sulle sensazioni, in Tatto e passione, a cura di M. Mazzocut-Mis,
CUSL, Milano 2001, pp.135-142
24
nostri occhi analizzino, poiché non afferreranno l’insieme della
figura se non ne hanno osservato tutte le parti separatamente, l’una
dopo l’altra e nell’ordine in cui sono tra loro. Sforzandosi di far
derivare dalla pura sensazione la totalità del mondo intellettuale,
Condillac afferma che qualsiasi nostra conoscenza ha origine dai
sensi e, in particolare, dal tatto, grazie alla sua capacità di “istruire
gli altri sensi” 13 .
Come possiamo vedere, nella seconda metà del Settecento si
rompe la preminenza dell’occhio e viene istituita una gerarchia che
vede il tatto al vertice, capace di elaborare un mondo nel quale il
soggetto abbandona il proprio solipsismo aprendosi all’altro da sé.
La mano diviene la guida dell’occhio e riesce a far fissare
“successivamente la vista sulle differenti parti di una figura” 14 .
Insegna a tastare, a indugiare, a palpare. In altre parole, la mano
insegna all’occhio la progressione aptica.
13
Ibid, p.470
14
Ibid., p. 474
25
Capitolo 4: La descrizione aptica in
Howard Phillips Lovecraft.
26
mentre lo scrittore, operando nella dimensione temporale anziché in
quella spaziale, manterrà la sua visione “frammentata”.
Come ci insegna Lessing, questo tipo di approccio stilistico alla
descrizione è intrinseco alla natura stessa dell’arte letteraria. Basta
pensare alle scene dettagliate e alle minuziose ricostruzioni di un
Balzac o di un H. James per comprendere quanto il procedere aptico
sia intimamente legato al medium scrittura. La letteratura gotica, dal
canto suo, porta all’eccesso questa peculiarità: tutti gli autori del
terrore, infatti, presentano una predilezione quasi morbosa nei
confronti degli aggettivi, degli avverbi, delle subordinate. Per
un’opera, caratteristica imprescindibile per poter essere catalogata
come gotica sarà la dilatazione del tempo di lettura atta ad offrire
una visione frammentata dei suoi soggetti attraverso una
significativa abbondanza di descrizioni. Un’abbondanza presente
sin dalle origini di tale filone letterario. Dovendo scegliere
all’interno di un corpus narrativo assai vasto ed eterogeneo, ci
limiteremo qui ad illustrare tale concetto attraverso esempi tratti da
alcuni dei libri più famosi e significativi del terrore cartaceo.
Già in Frankenstein, or the modern Prometheus (1818) di Mary
Shelley possiamo notare la propensione per la rappresentazione
prolissa del macabro; queste sono le parole scelte dalla scrittrice per
raccontare la decomposizione dei cadaveri umani:
“ Per indagare le cause della vita, dobbiamo prima fare
ricorso alla morte. Dovevo studiare il processo della
decomposizione: vidi come la bella forma dell’uomo degenera
e si dissolve, vidi la corruzione della morte prender posto su
guance già fiorenti di vita, vidi come il verme rode le
meraviglie dell’occhio e del cervello” 15 .
Per non parlare delle descrizioni riservate al mostro:
27
“ La sua pelle giallastra nascondeva a malapena il
lavorio sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli
erano folti e di un nero lucido, i suoi denti di un bianco
perlaceo; ma tutti questi particolari non facevano che rendere
più orribile il contrasto con i suoi occhi acquosi, i quali
apparivano quasi dello stesso colore delle orbite, di un pallore
terreo, in cui erano collocati, con la sua pelle grinzosa e le sue
labbra nere e dritte” 16 .
Ancora:
“La statura gigantesca, il suo aspetto deforme, più
spaventoso di quello di qualsiasi essere umano. […]. Iil suo
volto esprimeva angoscia cui si univano sdegno e malignità,
mentre la sua mostruosa laidezza lo rendeva intollerabile a
occhio umano” 17 .
Si può notare qui una ricchezza di particolari e aggettivi
ammassati e ripetuti con il preciso intento di impressionare il
fruitore nel corso della lettura.
Un’abbondanza che caratterizza anche Tha strange case of Dr.
Jekyll and Mr. Hyde (1886) di Robert Louis Stevenson; ecco come
l’autore introduce il misterioso co- protagonista della vicenda con
gli occhi del signor Utterson:
“Era basso di statura e vestito in modo dimesso e il suo
aspetto, anche a quella distanza, urtò fortemente la sensibilità
dell’osservatore. […]. Il signor Hyde era pallido e pareva un
nano, dava l’impressione della deformità, pur senza mostrare
alcuna effettiva deformazione, aveva un sorriso sconcertante,
crudele miscuglio di timidezza ed arroganza; parlava con voce
rauca, bisbigliante e talora rotta. […]. Non riusciva a
spiegare lo strano disgusto, il disprezzo e la paura che
incuteva. […]. Quell’uomo non sembra una creatura umana!
15
M. Shelley, Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno, trad. it. B. Tasso, Corriere della Sera,
Bergamo 2002
16
Ibid.
17
Ibid.
28
Ha qualcosa del troglodita. […]. Oppure si tratta della
semplice irradiazione di un’anima malvagia che traspare e
trasfigura l’involucro d’argilla? […]. Se mai io vidi il marchio
del diavolo su una faccia, è proprio su quella del signor
Hyde!” 18 .
Si discosta di poco la descrizione fatta dal signor Canyon:
“ Era piccolo, come ho già detto; fui colpito, oltre che
dalla terribile espressione della sua faccia, dalla notevole
mescolanza di grande forza muscolare e di grande debolezza
di costituzione e, cosa non meno notevole, dalla strana e
soggettiva sensazione di disagio che mi provocava la sua
vicinanza. […]. Quell’essere ( che sin dal primo momento del
suo ingresso aveva suscitato in me quello che posso descrivere
solo come una curiosità piena di disgusto) era vestito in
maniera capace di rendere ridicola qualsiasi persona
normale; i suoi abiti, sebbene fossero di fattura elegante e
sobria, erano enormemente ampi per lui in tutti i sensi: i
pantaloni gli pendevano sulle gambe ed erano rimboccati per
non toccare il suolo, la vita della giacca gli arrivava sotto i
fianchi, il colletto gli si allargava sulle spalle. Strano a dirsi,
questo grottesco abbigliamento era ben lontano dal farmi
ridere. Piuttosto, come c’era qualcosa di anormale e deforme
nella natura di quell’essere che mi stava di fronte, così quella
nuova stonatura pareva rinforzarne la singolarità” 19 .
Un insieme di segmenti diversi posti gli uni accanto agli altri,
dispiegati nel tempo per illustrare una visione terrificante attraverso
una somma di particolari.
La stessa cosa avviene nel romanzo decadente di Oscar Wilde
The picture of Dorian Gray, dove minuziose e dettagliate risultano
essere in particolar modo le sezioni dedicate alla presentazione dei
18
R.L. Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde, trad. it. O. Del Buono,
Corriere della Sera, Bergamo 2002
19
Ibid.
29
parallelismi e delle discrepanze tra il giovane protagonista e la sua
immagine dipinta:
“Un giorno, quando sarete vecchio, grinzoso e brutto,
quando il pensiero vi avrà solcato la fronte colle sue linee e la
passione vi avrà bruciato le labbra col suo fuoco. […]. Il
tempo è geloso di voi e ha mosso guerra alle vostre rose e ai
vostri gigli. Diverrete giallo, colle guance incavate, con
l’occhio smorto. […]. Le membra si infiacchiscono, i sensi si
deteriorano; degeneriamo fino a trasformarci in schifosi
fantocci. […]. Sarebbe venuto il giorni in cui il suo volto
sarebbe diventato rugoso ed avvizzito, i suoi occhi si
sarebbero fatti vaghi e scialbi, la grazia della sua figura
sarebbe stata infranta e deformata; dalle sue labbra sarebbe
scomparso lo scarlatto e dai suoi capelli il bagliore dell’oro.
La vita avrebbe distrutto il suo corpo. Sarebbe diventato
orribile, schifoso, goffo. […]. I suoi occhi oscurandosi presero
il colore dell’ametista e vi passò sopra una nebbia di lacrime.
Fu come se una mano gelida gli si fosse posata sul cuore. […].
L’espressione gli appariva diversa; si sarebbe potuto dire che
nella bocca ci fosse una sfumatura di crudeltà; l’espressione
strana che aveva osservato nel volto del ritratto sembrava
esserci tuttora, anzi, essersi ulteriormente intensificata. La
luce vivida e palpitante del sole gli mostrava attorno alla
bocca le linee crudeli, colla stessa chiarezza come se si fosse
guardato allo specchio dopo aver commesso qualcosa di
tremendo. […]. Il pittore vide il viso ripugnante che gli
sogghignava dalla tela. Nell’espressione di questo c’era
qualche cosa che lo riempì di disgusto e di schifo.
Quell’orrore, qualunque esso fosse, non aveva distrutto
interamente quella mirabile bellezza; nei capelli diradati c’era
tuttora un po’ d’oro e sulla bocca sensuale un po’ di scarlatto;
gli occhi deturpati avevano conservato alquanto della dolcezza
del loro azzurro; le nobili curve non erano ancora
30
completamente scomparse da quelle narici cesellate e da quel
collo plastico” 20 .
Descrizioni minuziose, che illustrano il passaggio dal bello al
brutto attraverso una ricostruzione parcellizzata delle diverse parti di
un unico soggetto.
Un altro grande scrittore si avvaleva dell’effetto drammatico e
terrificante derivante dalla trasformazione dei diversi particolari di
un elemento da coesistenti a progressivi: Edgar Allan Poe. L’autore
americano è famoso per l’uso abbondante degli aggettivi applicati
alle situazioni e ai personaggi più bizzarri. Si veda ad esempio King
Pest (1835):
“Di statura era sparuto e alto, e Legs fu stupito di
vedere una figura più scarna della sua. La sua faccia era
gialla come lo zafferano, ma nessun tratto del suo volto,
eccetto uno, era abbastanza accentuato da meritare una
descrizione particolare. Questo unico tratto notevole
consisteva nella fronte così insolitamente ed orrendamente
alta, da avere l’apparenza di un berretto o di una corona di
carne aggiunta sopra la testa naturale. La sua bocca era
increspata e corrugata da un’espressione di affabilità
spettrale, e i suoi occhi avevano una vitrea lucentezza dovuta
ai fumi dell’ubriachezza. Questo signore era ricoperto da capo
a piedi da un drappo di velluto di seta nera fastosamente
ricamata, avvolto negligentemente attorno al suo corpo alla
maniera di un mantello spagnolo. La sua testa era incoronata
di neri pennacchi da carro funebre; nella sua mano destra
teneva un gran femore umano, col quale pareva avesse appena
abbattuto qualche membro della compagnia per via di una
canzone” 21 .
20
O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, trad. it. E. Grazzi, De Agostini, Novara 1991
21
E.A. Poe, Re Peste, in Racconti, trad. it. M. Battaglia, F. Della Pergola, R. Ferrari, De
Agostini, Novara 1985
31
Altrettanto esemplificativo il brano seguente, tratto da The fall
of the house of Usher (1839):
“ Con difficoltà potei giungere ad ammettere l’identità
dell’essere esangue che mi stava di fronte. Una carnagione
cadaverica; un occhio grande, liquido e luminoso di là da ogni
confronto; labbra alquanto sottili e pallidissime, ma di una
curva incomparabilmente bella; un naso d’un delicato modello
ebraico, ma con un’ampiezza di narici insolita in simili
conformazioni; un mento squisitamente modellato che tradiva
nella sua mancanza di prominenza, scarsezza di energia
morale; capelli più soffici e tenui di una ragnatela; questi
lineamenti, a cui si aggiungeva una smodata espansione della
parte superiore delle tempie, gli davano un aspetto che non si
poteva facilmente dimenticare. Il pallore ora spettrale della
pelle, la lucentezza ora prodigiosa degli occhi mi colpirono
più do ogni altra cosa e perfino mi spaventarono. I serici
capelli, inoltre, erano stati lasciati crescere liberamente, e
siccome, nel loro strano aereo intreccio, più che scendere
fluttuavano intorno alla sua faccia, io non potevo, nemmeno
con uno sforzo, connettere la sua espressione rabescata con
una qualunque idea di semplice umanità” 22 .
Poe fa un uso abbondante degli aggettivi per descrivere
minuziosamente sensazioni e protagonisti fastidiosi, angoscianti ed
aberranti. Si ritrova anche in lui, quindi, una tendenza che possiamo
ormai definire intrinseca alla letteratura in generale, ma che si erge a
vero e proprio simbolo del filone gotico: prendendo spunto da questi
esempi tratti da alcuni dei libri- simbolo della letteratura del terrore,
si può affermare che la produzione gotica è da sempre stata
caratterizzata da un ritmo narrativo particolarmente lento, ricco di
subordinate, barocco nell’uso dei sinonimi e delle ripetizioni. Uno
stile particolare, identificativo di tutta una serie di tematiche legate
32
alla tradizione del terrore, sviluppatosi in diacronia con uno scopo
specifico: la rappresentazione del brutto, del deforme, del diverso. O
dell’Altrove, per dirlo con le parole di Lovecraft 23 .
22
E.A. Poe, Il crollo della casa Usher, in Racconti, trad. it. M. Battaglia, F. Della Pergola, R.
Ferrari, De Agostini, Novara 1985
23
H.P. Lovecraft, Dall’Altrove, in Racconti, a cura di G. Pilo, Mondadori, Milano 1989
24
Edward John Moreton Drax Plunkett, 18^ Conte di Dunsany, scrisse più di settanta libri, tra i
quali The Gods of Pegana, Patches of Sunlight e While the Sirens Slept.
25
Algernon Blackwood, scrittore inglese di Ghost Stories, famoso soprattutto per la pervasività
dell’orrore soprannaturale contenuto nel romanzo "The Willows”.
33
risultato è sconcertante e fuorviante: l’autore non fa altro che
formulare raccomandazioni precise e puntuali che lui per primo non
seguirà mai: arriverà persino a consigliare di non abusare di
aggettivi tipo “mostruoso”, “innominabile”, “indicibile”…Il che, a
leggere poi le sue opere, è a dir poco sorprendente.
Per cercare di saperne di più sulle tecniche narrative utilizzate
dal Solitario del Rhode Island non c’è che un modo, peraltro il più
logico: immergersi nei suoi testi narrativi. Scopriremo allora un uso
abbondante degli aggettivi, delle subordinate, delle iterazioni,
centellinate e diluite all’interno del tempo della narrazione per
descrivere con dovizia di particolari le sue immagini visionarie. Un
classico esempio è la descrizione dei Grandi Antichi in At the
mountains of madness (1931):
“Dagli angoli interni della testa si dipartono cinque tubi
rossastri che terminano in protuberanze dello stesso colore;
queste ultime, se premute, si aprono su altrettanti orifizi a
forma di campana muniti di sporgenze bianche simili a denti
aguzzi, probabilmente facenti funzione di bocche. Nella parte
bassa del torso, troviamo la controparte rudimentale della
testa e delle sue appendici: pseudo- collo bulboso sprovvisto di
orecchie ma con un dispositivo verdastro a cinque punte.
Braccia muscolose e dure, lunghe quattro piedi: sette pollici di
diametro alla base due pollici all’estremità. A ogni estremità è
attaccata una membrana triangolare di otto pollici di
lunghezza. Trattasi di quella sorta di pinne che hanno lasciato
le impronte su una roccia vecchia all’incirca mille milioni di
anni. Dagli angoli interni del dispositivo verdastro a cinque
punte emergono tubi rossastri lunghi due piedi, con un
diametro di tre pollici alla base e di un pollice all’estremità,
terminanti con un piccolo orifizio. Suddette parti risultano
dure come il cuoio ma molto flessibili. Le braccia munite di
26
H.P. Lovecraft, Selected Letters volumi I, II, III, IV, V,, a cura di S.T. Joshi, Arkham House
34
pinne venivano sicuramente usate per gli spostamenti su terra
e in acqua. Si trovano diverse appendici nella parte bassa del
torso ripiegate esattamente come quelle della testa” 27 .
Anche dove il raciozinio scientifico cede il passo all’orrore
sensoriale puro e semplice, la descrizione si mantiene precisa ed
estremamente dettagliata, come in The horror in the museum (1932):
“ Si vedeva un torso quasi sferico dal quale uscivano
sette arti lunghi e sinuosi che terminavano a chela.
Dall’estremità superiore sporgeva un globo sussidiario a
forma di bolla con tre occhi da pesce disposti a triangolo. Era
munito di proboscide flessibile lunga una trentina di
centimetri, nonché di bargigli laterali spiegati che facevano
pensare a branchie; probabilmente, quella era la testa. Quasi
tutto il corpo era coperto da una specie di pelliccia che, ad
una osservazione più attenta, si rivelava un denso groviglio di
tentacoli scuri e sottili come filamenti, ognuno dei quali
terminava con una bocca che dava l’idea di un aspide. Sulla
testa e sotto la proboscide, i tentacoli tendevano ad essere più
lunghi e più spessi, e recavano anche delle strisce
spiraleggianti che facevano pensare ai mitici capelli della
Medusa. […]. Scalpicciando verso di lui, nell’oscurità, stava
arrivando la massa gigantesca e blasfema di una cosa nera
non completamente scimmia e non completamente insetto.
Aveva la pelle molliccia, e quella sua specie di testa rugosa
dondolava da parte a parte come quella di un ubriaco. Le
zampe anteriori erano stese con gli artigli spiegati, e dal suo
corpo emanava malvagità anche se la sua faccia era
assolutamente inespressiva. […]. Alto tre metri e mezzo
nonostante la posizione accucciata che esprimeva un’infinita
malvagità cosmica, apparve un mostro di un orrore
incredibile, seduto su un gigantesco trono d’avorio ricoperto
di grottesche sculture. Nella coppia centrale delle sue sei
zampe stringeva una creatura maciullata, contorta ed esangue,
27
H.P. Lovecraft, Le montagne della follia, trad. it. G. Pilo, Newton, Roma 1994
35
massacrata da un milione di punture, bruciata in diversi punti
da una specie di potente acido. Solo la testa stritolata della
vittima, che penzolava da una parte, rivelava che stava a
rappresentare quello che una volta era stato un essere
umano” 28 .
Spesso, all’interno dei suoi racconti, Howard Phillips Lovecraft
mostra sublimi esempi di enfatica ampollosità; numerosi sono i
momenti in cui l’autore perde ogni freno stilistico e aggettivi e
avverbi si accumulano fino all’esasperazione, arrivando a creare
esclamazioni di puro delirio, come, ad esempio, in Nyarlathotep
(1920):
“ Io non sono ormai altro che l’ombra di uno spettro,
che si contorce in mani che non sono mani, e rotea ciecamente
oltre le notti d’incubo d’un creato putrescente, oltre i cadaveri
di mondi morti sfigurati da piaghe che un tempo furono città,
tra venti d’ossario che sfiorano le pallide stelle e appannano il
loro splendore. Oltre i mondi, vaghi fantasmi di cose
mostruose; colonne appena intraviste di templi profani che
poggiano su rocce senza nome al di sotto dello spazio e si
allungano nel vuoto vertiginoso al di sopra delle sfere di luce e
di buio. E in quel rivoltante cimitero dell’universo risuona un
rullare soffocato, ossessivo, di tamburi, e un flebile, monotono
gemito di flauti blasfemi proveniente da cavità tenebrose e
inconcepibili al di là del Tempo” 29 .
I deliri verbali, d’altro canto, erano una componente intrinseca
della personalità dello scrittore americano, tanto che certi arabeschi
linguistici caratterizzano non solo le sue produzioni artistiche, ma
anche la sua corrispondenza privata. Ecco come descrisse il Lower
East Side di New York all’amico Belknap Long:
“Le cose organiche che infestano questa cloaca non si
potrebbe definirle umane nemmeno torturandosi
28
H.P. Lovecraft, L’orrore nel museo, trad. it. G. Pilo, Newton, Roma 1994
36
l’immaginazione. Erano mostruosi e nebulosi abbozzi di
pitecantropo e ameba, vagamente plasmati in qualche limo
fetido e viscoso prodotto dalla corruzione della terra, che
strisciavano e trasudavano sulle e dalle strade lerce, che
entravano e uscivano da finestre e porte con movenze da vermi
o da vergogne sortite dalle profondità del mare. La sostanza
degenerata in fermentazione gelatinosa di cui queste cose
erano composte sembrava essudare, filtrare e colare
attraverso le crepe purulente di quelle case orribili, la cui
vista mi faceva pensare a schiere di vasche ciclopiche e
malsane, piene fino al colmo di ignominie cancrenose pronte a
traboccare per soffocare l’intero mondo in un cataclisma
lebbroso di putrescenze semiliquide” 30 .
Possiamo vedere, dunque, come lo stile narrativo del Solitario
di Providence si inserisca all’interno di una tradizione letteraria
specifica, quella del terrore e del grottesco. I suoi scritti presentano
una delle caratteristiche tipiche dell’estetica del brutto: la
presentazione parcellizzata e progressiva degli eventi e dei
personaggi, atta a creare e mantenere uno stato di inquietudine
nell’animo del fruitore. Descrive gli abomini visionari prodotti dalla
sua fantasia distorta nel miglior modo possibile: attraverso la
descrizione aptica.
Eppure questo non basta per spiegare il suo enorme successo
postumo. La sua naturale inclinazione all’iperbole verbale e il
desiderio maniacale di precisione scientifica, uniti all’attrazione
quasi morbosa per le tematiche deliranti dei Grandi Antichi, fecero
di Howard Phillips Lovecraft uno dei più influenti maestri nel
campo della letteratura dell’orrore. Apprezzatissime dai suoi
corrispondenti, le su e opere ebbero un impatto enorme
29
H.P. Lovecraft, Nyarlatotep, in Tutti i racconti, a cura di G. Lippi, Mondadori, Milano 1989
30
Si vede M. Houellebecq, H.P. Lovecraft, contro il mondo, contro la vita, trad. it. Di S.C.
Perroni, Bompiani, Milano 2001
37
sull’immaginario di massa legato alla concezione della paura, tanto
da arrivare ad influenzare un’intera generazione di nuovi autori.
Numerosissimi sono, infatti, i suoi epigoni, non solo nel campo della
letteratura, ma anche in quelli della pittura, della scultura, del
fumetto e della cinematografia. Le sue visioni, i suoi mostri e le sue
paure hanno ispirato le creazioni di un numero impressionante di
artisti. L’abilità nel parcellizare e centellinare la presentazione delle
sue empie creature non è sufficiente a spiegare l’incredibile eco dei
suoi scritti. Per farlo, bisogna comprendere che la sua più grande
peculiarità risiede nel fatto di stimolare la fantasia del lettore.
Leggendo le sue opere, ci si accorge che viene richiesta la
partecipazione attiva del fruitore, spinto a sfruttare la sua capacità
immaginativa per completare la visione dei mostri lovecraftiani. Le
minuziose e particolareggiate descrizioni di H.P., infatti, terminano
sempre in maniera improvvisa per l’impossibilità di rendere conto
verbalmente degli abomini incontrati dai protagonisti dei suoi
racconti. Il bisogno e la volontà di razionalizzare, e quindi
verbalizzare, le orripilanti realtà disvelate nel corso della narrazione
vengono inesorabilmente annichilite dinanzi al caos assoluto, che si
pone allo scrittore, e di conseguenza al lettore, come qualcosa di
irrapresentabile.
38
Capitolo 5:Lovecraft e l’invisibile
39
quella raccapricciante contraddizione di ogni legge della
materia, dell’energia e dell’ordine cosmico” 31 .
Le entità che Lovecraft mette in scena sono e rimangono
oscure. La loro esatta natura sfugge a qualsiasi concetto umano. I
testi blasfemi che li glorificano e che ne celebrano il culto lo fanno
in termini confusi e contraddittori. Esse rimangono,
fondamentalmente, indicibili; noi riusciamo a percepire solo dei
fugaci sprazzi della loro orripilante potenza e gli umani che cercano
di saperne di più ci rimettono inevitabilmente il senno e la ragione,
finendo spesso per suicidarsi pur di sfuggire alle orribili visioni che
li accompagnano in ogni momento della loro maledetta esistenza.
“Dopo circa due ore dal calar della notte, Heaton era
tornato vacillando al paese, mettendosi a farfugliare cose
assurde in un monologo sconnesso. Urlava di mostri ed
orrendi abissi, di statue e di oggetti in legno spaventosi, di
catturatori inumani e di torture grottesche e di altre
allucinanti aberrazioni troppo complicate e fantasiose per
ricordale tutte” 32 . “Scrivo in uno stato di tensione
insostenibile. Fra poco sarà l’alba e io non esisterò più. Privo
d’ogni mezzo, privo della droga che, sola, mi ha consentito
fino ad oggi di sopravvivere ai miei incubi, non mi rimane
altro modo per sottrarmi al tormento: mi getterò dall’alta
soffitta, nella squallida strada sottostante.
finestra di questa soffitt
Tuttavia, io non sono un debole. Sono schiavo della morfina,
ma non sono un degenerato. Quando avrete finito di leggere
quello che, tra i brividi della febbre, sto scrivendo, forse
riuscirete a comprendere le mie ragioni” 33 .
La lettura delle descrizioni in Lovecraft dapprima stimola e poi
scoraggia ogni tentativo di adattamento visivo (pittorico o
cinematografico che sia):
31
H.P.Lovecraft, Il richiamo di Cthulhu, in I Miti di Cthulhu, trad. It. E a cura di G. Pilo e S.
Fusco, Newton, Roma 1995
32
H.P.Lovecraft, L’orrore sotto il tumulo, trad. it. G. Pilo, Newton, Roma 1994
40
“Titanica e repellente, la mostruosa creatura si lanciò
verso il monolite, poi lo cinse con le sue gigantesche braccia
coperte di squame, curvando la testa orribile ed emettendo
urla ritmate. Il suo aspetto grottesco e le sue dimensioni
bizzarre non oso descriverli…” 34 “Da quell’oscurità arrivò
zoppicando ritmicamente un’orda di creature ibride e alate,
addomesticate e addestrate, che nessun occhio sano avrebbe
mai potuto vedere interamente, e nessun cervello sano avrebbe
mai potuto ricordare interamente” 35 . “La cosa era
parzialmente umana, con delle mani e una testa affatto
antropomorfe, e il volto caprino, dal mento sfuggente, portava
impresso chiaramente il marchi dei Whateley. Ma il torso e le
parti inferiori del corpo erano una mostruosità teratolgica,
tanto che solo un abbondante abbigliamento poteva averle
permesso di camminare sulla faccia della terra senza venire
fermata ed eliminata. Sarebbe banale e non del tutto esatto
dire che nessuna penna umana potrebbe descriverla, però si
può dire correttamente che non potrebbe essere visualizzata in
modo tropo vivido da nessuno le cui idee relative all’aspetto e
alla figura siano troppo legate alle comuni forme di vita di
questo pianeta e delle tre dimensioni conosciute” 36 .
Cercando di figurasi le entità lovecraftiane, possiamo dire che
dalla coscienza affiorano alcune immagini, ma nessuna sembra
abbastanza smisurata: nessuna arriva all’altezza del sogno. O
dell’incubo.
Lovecraft era pienamete cosciente di trattare tematiche
aberranti e sconvolgenti, che risultavano essere inesprimibili e
inafferrabili nella loro oggettività così aliena al nostro comune modo
di pensare. I suoi racconti trattavano di argomenti che sembrano
33
H.P.Lovecraft, Dagon, in Tutti i racconti, a cura di G. Lippi, Mondadori, Milano 1989
34
Ibid.
35
H.P.Lovecraft, Il festival, in I Miti di Cthulhu, trad. It. E a cura di G. Pilo e S. Fusco, Newton,
Roma 1995
36
H.P.Lovecraft, L’orrore di Dunwich, in I Miti di Cthulhu, trad. It. E a cura di G. Pilo e S.
Fusco, Newton, Roma 1995
41
rifiutare una rappresentazione: in virtù di tale mancanza, l’evidenza
di questi contenuti non ha la possibilità di essere
intersoggettivamente tematizzata: q u in d i, le su e tematiche
“irrapresentabili” sono sempre sulla soglia di un solipsismo formale,
cioè di un piano dimostrativo che vieta un’espressività
comunicativa. Una dimensione non dialettica, dove l’irrapresentabile
respinge una rappresentazione intersoggettiva ed espressiva. Siamo
qui nel campo di ciò che non può essere comunicato: il contenuto
affettivo è così radicato nella soggettività individuale, così
profondamente costitutivo della psicologia invisibile del soggetto,
che non riesce a trovare le immagini che lo esibiscano, rendendolo
espressivo e intersoggettivamente fruibile.
Gli ammiratori che hanno cercato di dare “corpo”, attraverso
media comunicativi “plastici”, alle fantasie di Lovecraft hanno usato
la propria interiorità per trasportare il nucleo simbolico di quelle
visioni nella rappresentazione artistica, ma in tali genesi formative,
spesso il centro focale della rappresentazione stessa risultava non
comunicabile all’altro. Quegli epigoni del Solitario di Providence
non si sono resi conto che vi sono piani di evidenza che non possono
e non debbono essere rappresentati, per motivi intrinseci alla natura
stessa dei contenuti irrappresentabili. Quel che rende grandi ed
inimitabili gli scritti di H.P. è lo spazio riservato al “non detto”, al
“non disvelato”: il quid che eleva i miti di Cthulhu a vera pietra
miliare della letteratura del terrore, e che contemporaneamente ne
vieta la riproducibilità attraverso mezzi artistici diversi dalla
scrittura, è lo scarto immaginativo che viene riservato alla
ricostruzione fantasiosa del fruitore.
Per questo possiamo affermare che il vero nucleo delle
tematiche dei racconti di Howard Phillips Lovecraft fosse
42
l’invisibile. In fondo, è stato proprio lui ad affermare che la paura
più grande che l’animo umano possa conoscere sia quella
dell’ignoto 37 .
37
Tutto Lovecraft, a cura di G. Pilo e S. Fusco, Fanucci, Roma 1987
43
Capitolo 6: La reinterpretazione dei
Grandi Antichi
Il mito di H.P.L.
44
a pubblicarne l’opera dopo la morte lo hanno fatto fondando una
casa editrice che portava il nome della sua città immaginaria,
Arkham, ottenendo il risultato di gettare il dubbio sull’effettiva
esistenza dell’autore stesso e sulla finzione della sua cosmogonia.
Questa ambiguità ontologica che sin dall’inizio caratterizzò la figura
di Lovecraft e la sua produzione scritta contribuì senza dubbio alla
fusione tra realtà e leggenda, arrivando a creare quell’alone di
mistero che circonda un personaggio divenuto ormai Mito per la
folta schiera di appassionati fanatici.
38
August William Derleth, scrittore americano amico di HP, fu l’inventore del termine “Miti di
Cthulhu” riferito alla mitologia cosmica di Lovecraft
45
La devozione di quegli artisti, che avevano avuto la fortuna di
godere delle simpatie di H.P. quando questi era in vita e di ammirare
in anteprima le sue creazioni visionarie, sono una lampante
dimostrazione del notevole impatto emotivo ed artistico insito negli
scritti di Cthulhu. Un impatto che si propagherà a macchia d’olio
all’interno del mondo letterario, interessando non solo i fruitori, ma
gli stessi scrittori del terrore; il discepolo Derleth sarà uno dei primi
a formulare dei racconti situati all’interno della cosmogonia dei
Grandi Antichi, portando avanti un’ideale prosecuzione delle
tematiche di Lovecraft. Ma, insieme a lui, è possibile annoverare un
elevato numero di autori nel computo dei suoi epigoni, autori che
hanno consacrato tutta o buona parte della propria opera a sviluppare
ed arricchire i miti creati da H.P.L.: si pensi ad esempio a Frank
Belknap Long 39 , Robert Bloch 40 , Lin Carter 41 , Fred Chappell 42 ,
Donald Wandrei 43 … Una filiazione non furtiva, ma assolutamente
dichiarata, sistematicamente rinforzata dall’uso delle stesse parole,
degli stessi nomi, degli stessi riferimenti geografici, che vengono
così ad assumere un valore incantatorio ( le colline selvaggie a ovest
di Arkham, la Miskatonic University, la città di Irem dalle mille
colonne, R’lyeh, Sarnath, Dagon, Nyarlathotep e, soprattutto,
l’innominabile, l’empio Necronomicon, il cui nome può essere
pronunciato solo a voce bassa). In un’era che stima l’originalità
come valore supremo nelle arti, questo fenomeno ha qualcosa di
39
Frank Belknap Long, prolifico scrittore, poeta, editore. Iniziò la sua carriera nel 1923 con
“The Desert Lynch”, sua prima pubblicazione apparsa sulle pagine del magazine pulp “Weird
Tales”.
40
Robert Bloch, autore di più di duecento racconti e di ben ventidue romanzi, lavorò anche per
le produzioni cinematografiche Hollywoodiane: tra le sue opere ricordiamo il libro “Psycho”,
che divenne la base per la sceneggiatura dell’omonimo film di Hitchcock.
41
Linwood Vrooman Carter. Autore di grandissimo successo nel campo della letteratura del
fantastico. Tra le sue opere, ricordiamo la “Saga di Thongor”, la “Saga di Callisto”,o, ancora, i
romanzi “Beyond the gates of dream” e “The city outside the world”.
42
Fred Chappell, vincitore di numerosi premi per le sue produzioni poetiche, è autore anche di
opere come “Weird Tales “ e “Dagon”.
46
sbalorditivo. Occorre umilmente riconoscere che ci troviamo di
fronte a ciò che si usa definire un mito fondatore. Questa è la vera
grandezza del Solitario di Providence: essere un’immensa fonte di
ispirazione per i sogni, o meglio, gli incubi, di una moltitudine di
persone: una folta schiera di ammiratori nella quale, accanto ai
semplici lettori comuni, si possono trovare anche personalità di
spicco del mondo artistico, che con i loro tributi testimoniano
l’evidente eco degli scritti originali di Howard Phillips Lovecraft.
43
Donald Wandrei, autore della raccolta “Mysteries of Time and Spirit: The Letters of H.P.
Lovecraft and Donald Wandrei” e di racconti come “Dream-Horror”.
47
consiste nella presentazione di una visione d’insieme che risulta
totalmente assente nei manoscritti del Solitario di Providence.
Partiamo ad esempio dalla scultura. Per analizzare le differenze
tra quest’arte plastica e i racconti scritti dell’autore americano,
possiamo fare riferimento alle opere di un artista italiano, famoso
presso gli appassionati lovecraftiani di tutto il globo per la sua
dedizione ai Miti di Cthulhu: Andrea Bonazzi. Sin dal 1988 questo
scultore genovese ha dedicato le sue doti e le sue abilità alla
creazione di statue ed oggetti di varia natura direttamente ispirati
alle tematiche deliranti del Solitario di Providence. . Per Nuova
Metropolis ha illustrato il volume di saggi "H.P. Lovecraft: Sculptus
in Tenebris" (2001), mentre alcune elaborazioni fotografiche
illustrano il libro di Sebastiano Fusco “H.P. Lovecraft: storia e
Cronologia del Necronomicon” (I Libri di Mystero – Profondo
Rosso, 2002). Numerose sono state le sue partecipazioni ai meetings
internazionali organizzati per rendere omaggio alla memoria di H.P.:
possiamo ricordare la mostra “Paura” sul terrore tra cinema e
letteratura, tenutasi a Verona nel 1998, l’esposizione alla recente
European Game Industry Expo di Genova o, ancora, l’International
Lovecraft Film Festival tenutosi a Portland nel 2003. Le sue
riproduzioni hanno saputo convincere e interessare il difficile
pubblico dei fanatici adoratori di Cthulhu, senza riuscire però ad
eguagliare, nonostante l’elevato livello qualitativo, l’impatto
emotivo insito negli scritti di Lovecarft.
Osservando le immagini delle sue produzioni, i lettori di H.P.
non faranno fatica a ritrovare, in quei volumi così particolari, alcuni
squarci delle descrizioni visionarie del loro autore di culto: le masse
non definite, i tentacoli, le forme ibride di quelle creature d’incubo
sembrano essere appena uscite dalle pagine del Necronomicon,
48
dando corpo e consistenza tridimensionale ai mostri alieni ideati
dallo scrittore del Rhode Island. Le sculture che si possono
osservare nelle pagine seguenti, facenti parte dalla collezione
completa dello scultore italiano, riescono senza dubbio a riportare
alla mente ricordi inerenti le terrificanti creature provenienti dal
mondo contorto degli scritti originali. Nonostante questo,
l’impressione che si ha dinanzi a tali opere è quella di una piacevole
sorpresa, mista però ad una sgradevole sensazione di delusione.
Siamo contenti di poter vedere che le cose da noi sempre solo
pensate hanno preso finalmente corpo, ma è come se, pur riuscendo
a riconoscere dei particolari, identificabili con le parole di Lovecraft,
non riuscissimo ad accettare nella loro totalità le ricostruzioni fatte
dallo scultore. Sembra esserci qualcosa di non perfettamente
combaciante con quella che era la nostra idea di Cthulhu, con la
nostra personale immagine degli Shoggoth.
Il punto debole delle statue di Bonazzi sembra risiedere non
tanto in una lacuna artistica dello scultore, né in una sua mancanza
creativa, quanto nel medium da lui scelto per rappresentare i Miti di
Lovecraft. La visione dei mostri percepiti istantaneamente
dall’occhio nella loro integrità non sembra essere in grado di reggere
il confronto con le fantasie che gli orrori cartacei dei racconti
suggerivano alla mente del fruitore.
49
Figura 2: “Creatura a sei zampe”, Andrea Bonazzi, In Tenebris Sculptus.
50
Figura 4: “Urlo”, Andrea Bonazzi, In Tenebris Sculptus.
51
Cultures 44 e raccoglie alle matite il lavoro di numerosi artisti, tra i
quali Jacen Burrows e Juan Josè Ryp. L’approccio di questi due
disegnatori presenta una stupefacente serie di diversità. Osservando
le figure 5 e 6, possiamo notare come l’effetto di tali
rappresentazioni per il fruitore sia simile a quello suscitato dalle
sculture di Bonazzi: la figura del mostro metà uomo e metà capra,
protagonista di racconti come The Dunwich Horror, non riesce a
scuoterci nel profondo dell’animo come avviene invece per le
descrizioni di Lovecraft. La sua vista non riesce a inquietare il
lettore: l’essere descritto con tanta angoscia nelle produzioni
letterarie sembra perdere la sua capacità di suscitare terrore nel
momento in cui ce lo troviamo davanti. Spesso H.P. nei suoi
racconti afferma che certi orrori sono tali proprio perché
completamenti alieni ed estranei al nostro comune modo di pensare
e percepire le forme e i volumi: per questo i protagonisti, dopo
inutili tentativi di descrizione minuziosa e particolareggiata,
desistono dall’intento di fornirci una visione d’insieme delle creature
che incontrano. Nelle bozze di Burrows, invece, veniamo messi di
fronte ad immagini che si articolano in modo chiaro e diretto
attraverso forme di interpretazione “comuni”, mimetiche della realtà
ottico- retinica. Non troviamo, in esse, alcunché di fastidioso o di
angosciante. Tutto ci viene svelato dinanzi agli occhi nella sua
totalità, senza lasciare spazio ad alcuna mediazione immaginativa e
il risultato è una notevole e significativa perdita di fascino.
Mostrando ciò che Lovecraft non poteva né voleva mostrare,
l’incantesimo si spezza.
44
A. Moore, Yuggoth Cultures and other growths Necrocomicon , Avatar, 2003
52
Figura 5: “Recognition”, Burrows, Yuggoth Cultures
53
Figura 6: “Recognition”, Burrows, Yuggoth Cultures
55
Figura 7: “Cover”, Juan Josè Ryp, Yuggoth Cultures
56
Figura 8: “Cover”, Juan Josè Ryp, Yuggoth Cultures
45
Breccia-Lovecraft, I Miti di Cthulhu”, Comma 22, Milano 2003
46
Ibid.
58
grazie allo scarto immaginativo appositamente lasciato aperto dal
disegnatore, il mondo opprimente dello scrittore di Providence, le
sue allucinanti atmosfere, si riproducono intatte nell’opera di
Breccia.
59
Figura 10: “The call of Cthulhu”, Breccia, I Miti di Cthulhu
60
cosa non stupisce: il cinema è sempre stato attratto, sin dalle sue
origini, dalla messa in scena di tematiche legate al terrore e alla
paura, tanto da essersi posto agli occhi del pubblico di massa come il
principale fautore della fortuna del genere horror. La maggior parte
delle pellicole dichiaratamente dedicate alla trasposizione su grande
schermo dei Miti di Cthulhu non ha incontrato il favore del pubblico
né della critica, finendo per essere catalogata sotto il filone dei B-
movies, suscitando soltanto l’interesse, tra l’altro piuttosto limitato,
dei fanatici del genere. Per fortuna esistono delle eccezioni, prodotti
di qualità o veri e propri film d’autore capaci di rendere giustizia
agli scritti di H.P.; numerosi registi di caratura internazionale hanno
a più riprese affermato di essersi ispirati alle opere del Solitario di
Providence per la realizzazione dei loro film: Ridley Scott e H.G.
Giger, autori della pluripremiata serie di Alien, hanno un grande
debito nei confronti delle tematiche e dell’estetica lovecraftiane; la
famosa saga de La Casa prende spunto dai poteri arcani contenuti
nel Necronomicon, sottolineando il r u o lo di portale
interdimensionale svolto dal mistico grimorio, non senza un pizzico
di ironia ed umorismo, come in Army of Darkness (la Casa 3), del
director Sam Raimi, tornato recentemente alla ribalta grazie
all’adattamento cinematografico di Spider Man.
Ma i lavori che più di tutti gli altri riescono a ricreare sul
grande schermo le atmosfere angoscianti e disorientanti delle opere
dello scrittore americano sono senza dubbio le pellicole di John
Carpenter. Regista acclamato dal pubblico amante dell’horror
cinematografico, ha saputo mantenere integra l’essenza della paura
lovecraftiana nei suoi lavori. Egli stesso dichiara, nell’introduzione a
Lovecraft, graphic novel dedicata ad H.P. pubblicata nel 2003 dalla
Dc Comics-Vertigo: “Molte persone, guardando i miei film,
61
riconosceranno tracce degli scritti di Lovecraft. Dai riferimenti a
Innsmouth in The Fog 47 , alle premesse generali di In the Mouth of
Madness 48 , ho voluto usare i mezzi cinematografici per dare il mio
contributo ai Miti lovecraftiani 49 ”. Il mezzo di produzione artistica
scelto da Carpenter è dunque quello filmico: un mezzo di
comunicazione che fa della rappresentazione del movimento e della
visione ottico- retinica il suo punto forte. Eppure il regista è abile nel
mantenere pressoché intatta l’essenza della concezione del terrore
propria dello scrittore del Rhode Island. Per non rovinare la
suspense derivante dalla mancata rivelazione dell’orrore nella sua
totalità, egli adotta degli éscamotage. Partiamo dal primo dei due
esempi citati dal regista. In The Fog il trucco è indicato dal titolo
stesso della pellicola: l’onnipresente nebbia ci impedirà per tutto il
corso della vicenda di farci un’idea chiara, precisa e definita delle
orripilanti e pericolose creature che si nascondono alla vista dei
protagonisti, enfatizzando il senso di angoscia proprio grazie al
mistero sull’esatta natura della minaccia. Come nei racconti di H.P,
non riusciamo a conoscere i mostri che ci perseguitano nella loro
totalità: ciò che più ci spaventa è proprio ciò che non vediamo, ciò
che riusciamo solo ad intuire. Il medesimo effetto lo si ritrova nel
secondo film citato da Carpenter: ne Il Seme della Follia (traduzione
italiana del titolo originale) per buona parte della narrazione gli unici
contatti che abbiamo con gli Antichi provenienti dall’Altrove sono
mediati dalle descrizioni allucinate contenute nei libri di uno
scrittore ritenuto pazzo. Ma il vero tributo a Lovecraft avviene nel
momento in cui le entità aliene “bucano” letteralmente le pareti
cartacee che narrano delle loro gesta per riversarsi nel nostro mondo.
47
J. Carpenter, The Fog, USA 1980
48
J. Carpenter, In the mouth of madness, USA 1995
49
H. Rodionoff, E. Breccia, K. Giffen, Lovecraft, Vertigo, NY 2003
62
A questo punto la riproduzione mimetica della realtà ottico- retinica,
che fino a quel momento ci aveva accompagnato per tutta la
pellicola, lascia spazio ad un susseguirsi sincopato di fotogrammi,
che mostrano nel dettaglio diverse parti dei corpi immondi delle
creature, senza però fornirci una visione d’insieme. Come il
Solitario di Providence fa nei suoi scritti, così qui Carpenter sembra
suggerirci che nessuna immagine potrebbe rendere l’idea della
diversità delle forme di queste empie mostruosità. La riuscita dei
film di questo regista dell’orrore, soprattutto nel momento in cui si
confronta con la capacità letteraria di Lovecraft, sta nell’essere
riuscito a trovare un modo per riproporre nel linguaggio
cinematografico l’angoscia suscitata dalle descrizioni aptiche dei
Miti di Cthulhu.
63
Figura 12: "The Fog", Carpenter
64
Figura 14: "The Fog", Carpenter
65
Figura 16: "In the mouth of madness", Carpenter
66
Conclusioni
67
sezioni, affiancandole le une alle altre in una simulazione del
processo conoscitivo tattile, per poi ammutolirsi improvvisamente,
senza preavviso e in modo definitivo. Con il risultato di sconcertare
il lettore, di disorientarlo, di provocare in lui un senso di curiosità
morbosa misto però ad un senso di angoscia e di timore. Proprio
come i protagonisti dei suoi libri, cercatori allucinati di una
conoscenza proibita che li condurrà sull’orlo del nichilismo. Questo
accostamento violento tra il disvelato e l’invisibile ha portato alla
creazione di una tecnica letteraria di notevole fervore, capace di
coinvolgere il lettore nella ricostruzione attiva delle immagini
evocate da Lovecraft: uno scarto immaginativo che viene alimentato
dagli squarci visionari concessi dallo scrittore nelle lunghe sezioni
descrittive, guidato quasi per mano dai suoi accenni, dalla sua
progressione parcellizzata, dal suo palpare esplorativo, ma mai
soffocato; anzi, stimolato. In questo modo, ogni singolo lettore potrà
aggiungere alle masse non definite, mai rivelate nella loro totalità, i
propri timori, i propri incubi personali. Questo particolare rapporto
con il fruitore è ciò che rende gli scritti del Solitario di Providence
indimenticabili. Difficilmente, dopo aver letto il suo ciclo di
racconti, ci si dimentica dei suoi orrori. Perché sono costituiti, in
parte, anche dalle nostre paure.
Quegli artisti che sono stati in grado di comprendere questo
particolare aspetto della poetica lovecraftiana, indipendentemente
dal medium artistico utilizzato, hanno cercato di mantenere
inalterata l’essenza dei Miti di Cthulhu proprio riproponendo la
compresenza tra ciò che è percepito e ciò che deve essere lasciato
alla ricostruzione immaginativa del fruitore. Un approccio che, se
anche può essere riproposto con successo all’interno di diversi
media comunicativi, sembra essere facilitato dall’utilizzo della
68
scrittura, che si propone come il miglior medium per comunicare
qualcosa di incomunicabile, poiché, a differenza di altre arti, lascia
spazio all’ invisibile.
Se poi questo mezzo di comunicazione artistica viene affidato
nelle mani di un incredibile sognatore come Howard Phillips
Lovecraft, allora il risultato non potrà che essere la creazione di una
vera e propria cosmogonia, capace, attraverso l’immaginazione
contorta del Solitario di Providence, di creare suggestioni di sublime
potere.
69
Bibliografia primaria
DAGON (Dagon)
70
1. Luglio 1917
2. The Vagrant, novembre 1922
3. Weird Tales, ottobre 1923
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1. Maggio 1918
2. The Philosopher, dicembre 1920
3. Weird Tales, dicembre 1937
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1. 1919
2. The United Co-operative, giugno 1919
3. Nel volume Beyond the Walls of Sleep (Arkham House, 1943)
4. Racconto "ripudiato" dall'autore
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1. Dicembre 1919
2. The Vagrant, maggio 1920
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CELEPHAÏS (Celephaïs)
1. Novembre 1920
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3. Weird Tales, giugno-luglio 1939
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1. Dicembre 1920
2. The United Amateur, datato novembre 1920 ma uscito in ritardo
3. Nel volume Beyond the Walls of Sleep (Arkham House, 1943)
4. Racconto "ripudiato" dall'autore
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1. Marzo 1921
3. Weird Tales, giugno 1926
HYPNOS (Hypnos)
1. 1 maggio 1922
2. The National Amateur, maggio 1923
3. Weird Tales, maggio-giugno-luglio 1924 (numero unico)
AZATHOTH (Azathoth)
1. Giugno 1922
2. Leaves II, 1938
3. Nel volume Marginalia (Arkham House, 1944)
4. Frammento incompiuto; doveva essere l'inizio di un romanzo, mai scritto
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2. Home Brew, in quattro parti dal gennaio all'aprile 1923
3. Weird Tales, giugno 1928
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------------------------Lippi, G.(a cura di), H.P.Lovecraft. Tutti i
Racconti. 1897-1922,Mondatori, Milano 1997
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CENERI (Ashes)
1. 1923
3. Weird Tales, marzo 1924
4. Revisione per conto di Clifford M.Eddy jr. Apparso su Weird Tales a firma
di quest'ultimo
LUI (He)
1. 11 agosto 1925
3. Weird Tales, settembre 1926
76
DUE BOTTIGLIE NERE (The Black Bottles)
1. Luglio-ottobre 1926
3. Weird Tales, agosto 1927
4. Revisione per conto di Wilfred Blanch Talman. Apparso su Weird Tales a
firma di quest'ultimo
IBID (Ibid)
1. 1928 (?)
3. Nel volume Beyond the Wall of Sleep (Arkham House, 1943)
4. Raccontino umoristico
78
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------------------------Lippi, G.(a cura di), H.P.Lovecraft. Tutti i
Racconti. 1927-1930,Mondatori, Milano 1997
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------------------------
80
IL COMBATTIMENTO CHE CONCLUSE IL SECOLO (The Battle that
Ended the Century-Ms Found in a Time Machine)
1. Giugno 1934
2. Fascicolo ciclostilato di due pagine, giugno 1934
3. Nel volume Something About Cats and Other Pieces (Arkham House, 1949)
4. Collaborazione. Lovecraft corresse lessico e punteggiatura di un racconto
parodistico di Robert H.Barlow, che in seguito lo ciclostilò. Si devono a lui tutti
i buffi nomi su cui è fondata la storia
81
4. Storia scritta a più mani, nella quale ogni capitolo è di un autore diverso. La
successione degli autori è la seguente: Catherine L.Moore, Abraham Merritt,
H.P.Lovecraft, Robert E.Howard, Frank Belknap Long
82
------------------------------------------------------------------------------------------------
------------------------Lippi, G.(a cura di), H.P.Lovecraft. Tutti i
Racconti. 1931-1936,Mondatori, Milano 1997
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• Pilo, G. e Fusco, S. (a cura di), Tutto Lovecraft, , Fanucci, Roma 1987
• Pilo, G. e Fusco, S., << Di Grandi Antichi e di altre cose>>, in Lovecraft. I miti
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• Poe, E. A., Racconti, trad. it. M. Battaglia, F. Della Pergola, R. Ferrari, De
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• Punter, D., The literature of terror. A history of gothic fictions from 1765 to the
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Longman, s.l. 1996(trad. it. di Fatica, O. e Granato, G., Storia della letteratura
del terrore. Il
gotico dal settecento a oggi. Nuova edizione ampliata, Editori Riuniti, Roma
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• . Shelley, M., Frankenstein, or the modern Prometheus,( trad. it. B. Tasso,
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O. Del Buono, Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde, Corriere della
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www.intercom.publinet.it
• Senza autore, La storia dei mostri: dal mito alla letteratura,
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• Senza autore, H.P.Lovecraft: la fantasia fa paura, www.merraigan.it
• Senza autore, Biografie degli scrittori dell’orrore, www.creative.net
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-Trasposizioni
85