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Decamerone del Mistero
a cura di
Dalmazio Frau e Andrea Scarabelli
In copertina: illustrazione di Virgil Finlay

Impaginazione formato elettronico: Alessandro


Colombo

© 2020 Edizioni Bietti – Società della Critica Srl,


Milano
© Autori per i singoli racconti
www.bietti.it
Introduzione
I F N
R
È decisamente singolare, per quanto mi riguarda, presentare un antologia come
quella che avete tra le mani – pardon, sui vostri schermi. Anzitutto perché mai
prima d ora mi era capitato di curare una raccolta di racconti, essendomi dedicato
esclusivamente alla saggistica. In secondo luogo, perché quest antologia viene
realizzata solo su e-book – strumento verso cui ho sempre nutrito, non tanto per
età quanto per abito (e conseguente pigrizia) mentale, una certa di denza.
D altronde, non credo ci sia altro modo per di ondere in questo momento un
libro del genere. Purtroppo, la realtà della piccola e media editoria è stata
gravemente penalizzata dall emergenza sanitaria in atto in questo Paese. Nella
realtà dei fatti, anche se ci fosse una tipogra a disposta a stamparlo (e non c è),
non ci sarebbe un distributore per portarlo in libreria. Se il distributore fosse
aperto, non ci sarebbero librerie disposte a prenotarlo, essendo tutte chiuse. E,
dulcis in fundo, se pure alcune librerie fossero disposte a ordinarlo, andarne a
comprare una copia comporterebbe una sorta di roulette russa, comprensiva di
multe salatissime e rischi di contagio. Ecco perché è disponibile solo in questo
formato, ancora libero di circolare, non essendo sottoposto a restrizioni di sorta.
Mentre scrivo queste righe, le misure atte a contenere la di usione dell ospite
inquietante che da qualche tempo a questa parte si è insinuato nelle nostre vite
non si sono ancora allentate, e il mondo della “cultura”, come viene spesso
chiamato, continua a risentirne. Non mi cimenterò in articolate analisi
politologiche a lungo raggio (non ne ho francamente le capacità, né se ne sente il
bisogno, dato che in questo periodo si a astellano già teorie su teorie, analisi su
analisi, profezie su profezie) su un fenomeno che innegabilmente ha messo a
nudo tutte le falle strutturali di una società improntata al globalismo, alla
delocalizzazione e alla merci cazione. Non è la ne del mondo, ma certo di un
mondo, di quel mondo. Da questo punto di vista, la svolta a cui stiamo assistendo
è epocale. È di cile prevedere quali saranno i frutti di questa Mezzanotte della
Storia.
Ma, ripeto, tutto ciò esula dalle competenze di chi scrive. Lo scopo dei curatori
e degli autori che hanno partecipato a Sguardi sull Ignoto è un altro, semmai, vale
a dire mostrare come il mondo della cultura indipendente non si sia a atto
fermato, ma stia provando a elaborare strategie per rispondere alla congiuntura in
cui ci troviamo a vivere. Strategie che forse, com è già accaduto in passato,
potrebbero anche essere mantenute quando la situazione si risolverà – o,
comunque, si attenuerà. Per fronteggiare questo momento, occorre insomma
adottare nuovi canoni nella produzione del sapere, nuove grammatiche più adatte
e aderenti al contesto in cui viviamo.
Sguardi sull Ignoto è nato da un idea dell amico Dalmazio Frau, che qualche
tempo fa ha proposto a una serie di autori di mettere a disposizione su Facebook,
gratis et amore dei, racconti già usciti altrove ma introvabili. Un “dono” fatto ai
lettori chiusi in casa, insomma. Non appena ho ricevuto l invito, ho rilanciato,
con l idea di farne un prodotto più organico e durevole, meno “volatile”, e in poco
più di una settimana è nato il libro che ora balugina sui vostri schermi. Anche
perché, oltre ai lettori, pure i curatori sono con nati a casa, e si annoiano, come
tutti – e pare non ci sia verso di fermarli… La realizzazione dell antologia, in ne,
è stata resa possibile dall aiuto di Edizioni Bietti, che ha accettato di pubblicarla,
mantenendo tra l altro l idea originaria della sua forma gratuita.
Il sottotitolo di questo e-book è tratto dall introduzione rmata da Gianfranco
de Turris e Sebastiano Fusco al romanzo di Arthur Machen I tre impostori, edito
da Fanucci nel 1977, nella traduzione di Roberta Rambelli. Decamerone del
mistero: così i due curatori de nirono il capolavoro dello scrittore gallese.
Un espressione che si attaglia perfettamente a quest antologia, considerando
l atmosfera generale nella quale sono stati raccolti. Nel Decameron di Boccaccio,
composto a metà del XIV secolo, per dieci giorni (δέκα, “dieci”, e ἡμερῶν,
“giorni”) altrettanti giovani – sette donne e tre uomini – si ritirano fuori Firenze
per sfuggire alla terribile peste nera che agellava il nostro Paese, raccontandosi
storie goliardiche, umoristiche e dissacranti. Allo stesso modo, i due curatori di
questa antologia si sono immaginati una serie di autori ritrovatisi, per sfuggire alla
situazione di questi giorni, in un luogo al riparo dal qui e ora, dal peso della Storia
che martella le nostre vite. A di erenza di quello immortalato da Boccaccio, è un
luogo che non esiste sicamente e, proprio per questo, è più importante e
fondamentale di tutti i luoghi esistenti. Come l Iperborea di Pindaro o l Atlantide
di Platone, l Arkham di Howard Phillips Lovecra o la Carcosa di Ambrose
Bierce e Robert Chambers. Ci auguriamo che anche i lettori possano farvi
accesso, mentre leggeranno i racconti che seguono.
Racconti, tra l altro, dalle tematiche più disparate. Data la velocità con cui è
stato necessario allestire questo volume – lo diciamo n da subito, anticipando
obiezioni di sorta –, come già accennato, abbiamo chiesto agli autori di
recuperare vecchi lavori, magari usciti su riviste oggi introvabili o in libri fuori
catalogo (non mancano, comunque, racconti inediti…). Leggendoli e rileggendoli
tutti insieme, comunque, mi sembrano o rire un quadro unitario, sviluppando
tematiche a ni; quelle condensate nel titolo, Sguardi sull Ignoto, un Ignoto che
irrompe nella nostra prosaica quotidianità – oggi sospesa a tempo
(in)determinato. Per quanto ognuno abbia operato la propria selezione in totale
autonomia, senza consultarsi con gli altri, ci sono idee e atmosfere che si
rincorrono, tutte orbitanti intorno al mondo del fantastico o del bizzarro. Così,
abbiamo narrazioni connotate da elementi lovecra iani, abe nere, racconti di
fantastoria e altri con protagonisti personaggi storici (Antoine de Saint-Exupéry,
Lawrence d Arabia, Benvenuto Cellini…), ambientazioni oniriche, eventi
misteriosi, paesini di montagna che appaiono e scompaiono, pseudo-diari sfuggiti
alla Santa Inquisizione, sacri ci a Divinità Ignote, organizzazioni segrete e
singolari viaggi marittimi che portano in terre non presenti sulle mappe…
A dominare incontrastato è sempre il fantastico, insomma. Forse non è un caso,
in un momento in cui il reale, per come lo conosciamo, ha segnato una battuta
d arresto, è stato sospeso, ci è diventato ignoto. Sottoposta a pressione da parte
della Storia, l Immaginazione di questi sedici autori (anzi, diciassette) si è librata
in altri lidi, disancorandosi dal Naufragio della Realtà. Ma – anche questo è bene
precisare, per prevenire il sarcasmo degli sciocchi e dei bigotti – l Ignoto che
connota questi racconti non incita a un evasione, ma a una maggiore aderenza alla
realtà, al “noto”. Non è escapismo, insomma, come amano ripetere i difensori del
Fatto Compiuto, che se ne stanno con i piedi per terra (i quali, come i materialisti
nell indimenticabile canzone di Guccini, grufolano orgogliosi nel fango,
cercando le loro piccole verità come i maiali le ghiande), ma una rincorsa, per così
dire, nalizzata ad a rontare con sguardo rinnovato il mondo di oggi.
Rimanendovi in piedi, per quanto esso possa essere degradante e degradato. Un
nuovo modo per riguadagnare la realtà, insomma – e, insieme ad essa, l Ignoto,
sua ligrana occulta.
Andrea Scarabelli
Milano, marzo 2020
S
D
Gloria Barberi
L

Il Lightning P 38 volava nel cielo terso del mattino, cucendo un cirro all altro
con la sua scia.
Visibilità ideale per una ricognizione fotogra ca.
Il pilota eseguì una rapida veri ca della strumentazione di bordo.
Centoquarantotto dispositivi di controllo, da tenere sotto costante sorveglianza,
richiedevano l onnipresente vigilanza di un dio e la prontezza di ri essi di un
superuomo, e lui sapeva bene di non possedere né l una né l altra. Anche il più
piccolo gesto, ormai, gli costava una fatica spropositata. La spalla anchilosata,
indelebile ricordo dell incidente occorsogli in Guatemala sei anni addietro, lo
tormentava con la sua inutilità e un persistente dolore. E per quello, come per
tanti altri dolori sici e morali, sapeva di dover incolpare soltanto se stesso. Aveva
maltrattato quell ingombrante meccanismo che era il suo corpo almeno quanto
gli aerei; per eccesso di distrazione e passione, pretendendo troppo e dando anche
di più. uarantaquattro anni possono essere pochi per le creature che vivono
costantemente, corpo e anima, incatenate alla terra; ma costituiscono un peso
terribile per un paio d ali, anche quando sono di metallo, in grado di s dare il
gelo dei diecimila metri. Ma nessuno sarebbe riuscito a strappargliele, quelle ali.
No. Ci avevano provato, allo scoppio della guerra, dichiarandolo inidoneo al
volo. Ma lui si era battuto con l ostinazione di un bambino e la determinazione di
un adulto, per tornare a guadagnarsi il cielo; si trovava assegnato al Gruppo di
Grande Ricognizione Aerea 2/33, di stanza a Bastia-Borgo, Corsica. Era la sua
nona missione. Nove, tre volte tre, la perfezione della perfezione. Ma la missione
in se stessa era pura routine: fotografare la zona tra Grenoble e Annecy. Rientro
previsto: ore 12.30.
Il sole si riversava nella carlinga come uno sciroppo dorato e tiepido. Il mondo,
tra l azzurro del cielo e quello del mare, appariva totalmente – ingannevolmente –
quieto. Ci si poteva illudere che la guerra non fosse una ferita aperta e
sanguinante, ma soltanto un ricordo inscritto nei bordi madreperlacei di una
vecchia cicatrice… un escoriazione su un ginocchio, quando, a dieci anni, era
caduto da una bicicletta trasformata in un improbabile “macchina volante”
leonardesca.
Il pilota cominciò a canticchiare, a mezza voce, nella maschera a ossigeno; un
passatempo rischioso, ma la bellezza della mattina meritava una colonna sonora
che non fosse soltanto il rombo, per quanto musicale, dei motori del Lightning.
Il motivo era un ballabile vecchio di venticinque anni, che non gli era mai
neppure piaciuto. Ma quelle note ripetitive avevano, nella loro insulsa gaiezza,
una qualità del tutto particolare: l unicità di un ricordo. E non importava che
fossero sciape e inadeguate. Il caso le aveva indissolubilmente legate a un
determinato istante, rendendole perciò preziose.
Il pilota chiuse gli occhi. Nessun lusso è troppo rischioso quando si a rontano i
ricordi.

***
Il ragazzo si era a acciato alla porta del salotto, gettando uno sguardo esitante
tutt attorno. Era il crepuscolo e le discrete luci delle appliques alle pareti non
riuscivano a dissipare l atmosfera malinconica della stanza. C era un che di
luttuoso nella tappezzeria che rivestiva muri e divani, certi violetti quaresimali e
rosa capaci di deprimere lo spirito più gagliardo. Dopotutto, quello non era un
albergo di lusso e certamente i suoi interni non erano stati progettati da uno dei
migliori arredatori parigini. Il ragazzo sentì vacillare la propria determinazione,
già incerta, quando scorse l uomo che cercava. Sedeva su uno di quei tristi divani,
intento ad annotare qualcosa su un taccuino, e gli parve estremamente distante,
addirittura alieno nella divisa da u ciale britannico; più alieno, persino, di
quanto non apparisse nelle fotogra e – il ragazzo ne aveva veduta qualcuna – che
lo ritraevano vestito del suo candido e uttuante costume arabo.
Se solo gli si fosse avvicinato, presentandosi… Ma cosa poteva dirgli? Che
avevano da spartire un ragazzo di diciannove anni e un eroe? Rischiava di
disturbarlo. Sembrava così assorto… Luccichii dorati dalla stilogra ca; luccichii
dorati sui capelli chiari.
Nel salotto non c era nessun altro. Il ragazzo sentì il coraggio scivolare via da lui,
con l inesorabilità del sangue che sgorga da una ferita mortale, così come già era
accaduto il giorno avanti, e quello prima ancora. Si ritrasse e girò sui tacchi, con
fretta improvvisa.
«Te ne vai già?» uelle parole, pronunciate in francese, lo arpionarono con il
loro punto interrogativo nale, strattonandolo all indietro. Il ragazzo barcollò
leggermente, voltandosi.
«Come?» balbettò.
L uomo aveva smesso di scrivere. Sotto la luce elettrica, i suoi occhi – uno
sguardo diretto e intenso come quello di un ipnotizzatore – apparivano di una
trasparenza cristallina.
«Sono giorni che mi ronzi attorno, come un tafano. È molto scortese, da parte
tua. E imbarazzante, per entrambi».
«Mi scusi». Il ragazzo era arrossito. «Non intendevo importunarla».
L uomo gli puntò contro la penna, come fosse un arma. «Dovresti almeno
presentarti, non credi? Vieni qui».
Il ragazzo obbedì e sedette sulla poltrona che il pennino della stilogra ca gli
indicava, proprio di fronte al divano. Tese la mano verso l uomo, che ignorò il
gesto di saluto e, con impazienza, chiese: «Chi sei?».
Il ragazzo si umettò le labbra aride, poi rispose d un ato: «Mi chiamo Antoine
de Saint-Exupéry, mi trovo qui a Parigi per studiare e, quando ho saputo che lei
avrebbe partecipato alla Conferenza della Pace…».
«Non hai saputo resistere alla curiosità di dare un occhiata all eroe del giorno».
Il tono ironico ferì il ragazzo. «Ho seguito le sue imprese, colonnello Lawrence,
e penso che quello che lei ha fatto sia…». Esitò, cercando una parola che sapesse
concentrare tutta l ammirazione che provava per quell uomo, ma non trovò nulla
di più e cace di «… grande».
«Grande…». Il colonnello Lawrence richiuse il taccuino con un gesto lento e
cauto, quasi le pagine fossero state fragili come quelle di un manoscritto antico.
«Tu non sai niente, ragazzo; e, se hai un minimo di saggezza, puoi capire che
questa è una bella fortuna. O, forse, sei anche tu uno di quei giovani incoscienti
che rimpiangono di non essere nati in tempo per la guerra, e sperano in una
prossima occasione per giocare agli eroi?».
Il ragazzo si sfregò l indice della mano destra dietro l orecchio, in un gesto
d imbarazzo. Non poteva negare l eccitazione con la quale aveva seguito i
bombardamenti dalle nestre del liceo, e il fascino di quel mortale spettacolo
pirotecnico si era sempre dimostrato più forte della paura.
«A volte la guerra è un male inevitabile, non è così? uando poi sia utile a
restituire la libertà a un popolo, e se si può avere l onore di essere arte ci di quella
libertà…».
«Ciò che io ho tentato di dare agli arabi è assai meno di quanto non abbia tolto
loro». L accento inglese, che scivolava attorno alle morbide consonanti francesi
come acqua gelida, conferiva alla voce dell uomo un tono distaccato.
Antoine ssò la punta delle proprie scarpe, sconcertato e confuso. Le imprese di
colui che il mondo chiamava “Lawrence d Arabia” avevano già acquisito tutti i
connotati dell epica. E il fatto che questa leggenda vivente si trovasse lì a Parigi,
con i suoi gradi di colonnello dell esercito britannico ma nuovamente al anco
dell emiro Feisal, determinato a lottare a nché il governo inglese mantenesse le
promesse fatte agli arabi, non poteva che accrescere lo splendore della sua aura
d eroismo.
Lawrence si mise in tasca il taccuino e si alzò. Antoine vide in quel gesto un
congedo, e si sentì talmente indispettito per la propria go aggine, incapace
d inventarsi un motivo per trattenere quell uomo eccezionale, che le lacrime gli
salirono agli occhi. Ma, inaspettatamente, il colonnello disse: «Usciamo a fare
due passi». E lasciò il salotto. Antoine, incredulo, non ebbe il tempo di
riprendere ato; lo seguì, con le guance in amme e il cuore in gola.
Attraversato il piccolo e scuro ingresso dell albergo, furono in strada.
La sera estiva stagnava sulla città con un odore d acque morte e una cupa luce
violetta che prometteva burrasca.
«Sta per piovere» disse Antoine, più che altro per mettere alla prova la
fermezza della propria voce. Se doveva, come disperatamente desiderava,
conversare con quell uomo, voleva apparire maturo e sicuro di sé.
Lawrence sorrise. «La pioggia ti preoccupa?».
«No, tutt altro». Il ragazzo rise nervosamente e il ricordo si riversò dalle labbra
in parole frettolose. « uand ero bambino, i temporali d estate erano occasione
per un gioco che facevo con mio fratello e le mie sorelle. L avevamo inventato noi,
non ci piacevano i giochi degli altri. Be , abitavamo in un antica villa con un parco
immenso, l ideale per questo gioco. uando, dopo i primi lampi, sentivamo
sopraggiungere la pioggia, partivamo di corsa dal fondo del parco verso casa,
attraverso il prato. Il primo di noi che veniva colpito da una goccia doveva
dichiararsi vinto, e così, via via, tutti gli altri. L ultimo era considerato vincitore e,
no al successivo temporale, poteva fregiarsi del titolo di cavaliere Aklin. Una
specie di semidio, invulnerabile».
«Invulnerabile…» ripeté Lawrence, in tono sommesso. «Intoccabile. E non hai
mai barato, pur di essere il cavaliere Aklin?»
Antoine si sentì avvampare. «No!» esclamò precipitosamente. «Insomma…
Forse qualche volta, ma non me ne ricordo».
«Sei fortunato. Io invece ricordo perfettamente tutte le volte in cui ho
mentito».
Il ragazzo non seppe cosa dire. Sembrava che quell uomo celebre e potente, “il
re senza corona d Arabia”, si facesse be e di lui con la malizia di un bambino
dispettoso. Ma si sentiva disposto a seguirlo remissivamente, come, pensava, i suoi
guerrieri bedù, attraverso il deserto.
Parigi era ancora convalescente per le ferite della guerra, ma le scritte Rifugio
cominciavano a scomparire dagli ingressi del metrò e la pittura blu veniva grattata
via dai lampioni e dai nestrini dei tram. Gli squarci aperti dalla Grande Bertha e
dalle bombe nel corpo della Ville Lumière avrebbero richiesto più tempo per
essere sanati.
In quello scenario di lenta guarigione, sotto un cielo ingolfato di nuvole, il
ragazzo e l eroe camminavano anco a anco, ma divisi dal silenzio. Antoine
gettava al colonnello rapide occhiate, distogliendo spesso lo sguardo, per timore
che quell indiscreto esame fosse scoperto. omas Edward Lawrence lo
a ascinava.
La sua gura, tutt altro che imponente, non sembrava quella di un eroe («No,
sono io a essere troppo alto!»), il che lo faceva apparire più giovane dei suoi
trentun anni. Ma aveva i capelli di un biondo luminoso, da guerriero di una saga
nordica, e occhi turchini come il cielo d agosto dopo un temporale. Il suo sorriso,
però, era un enigma: sembrava accennasse a scusarsi di qualcosa, ma con un
sarcasmo intenzionalmente palesato in una leggerissima piega all angolo destro
della bocca. Comprenderlo era come cercare di trattenere tra le dita una manciata
di sabbia, la sabbia di quel deserto che lo aveva veduto principe senza corona.
Scivolava via in fretta, lasciando soltanto una sensazione bruciante.
La Senna non era lontana, la raggiunsero senza scambiarsi una parola.
Appoggiatosi al parapetto, Lawrence pose ne al silenzio. «Per quale motivo mi
trovi tanto interessante?» chiese, con lo sguardo sso sulla corrente del ume.
«Hai forse deciso di fare l eroe, da grande, e pensi io possa darti qualche lezione
di stile?».
«No, io… Certamente mi piacerebbe fare qualcosa d importante, chi non lo
vorrebbe? Ma, soprattutto… voglio volare, diventare pilota. È sempre stato il mio
sogno, n da bambino».
«Prima, quando hai parlato del cavaliere Aklin, mi hai ricordato che anch io e i
miei fratelli eravamo soliti fare un gioco speciale, tutto nostro. Fingevamo
l assalto a fortezze e castelli. I “buoni” vincevano sempre, naturalmente».
Lawrence si staccò dal parapetto e riprese a camminare. La sua voce era scesa di
tono. Non si rivolgeva più al ragazzo che gli camminava a anco ma a qualche
presenza più vicina, ria orata nel ricordo; o, forse, parlava soltanto a se stesso.
«Sognavo di essere un eroe. Sì, anch io. Intransigente e puro, avrei conquistato il
Graal. Ero ubriaco di Omero e Malory. Credevo davvero nei loro miti. Ma
bisognerebbe stare attenti a ciò che si sogna. Ora so che il Graal è sempre pieno di
sangue, e Dio sa se ho contribuito a farlo traboccare».
Lawrence scese una scaletta di pietra che portava all acqua, e per un istante la
sua voce fu inghiottita dal rumore della corrente.
«Una storia, ragazzo… puoi credermi, oppure no».
Antoine lo raggiunse di corsa. «Sì?».
Lawrence si voltò a guardarlo. Le luci della città, ancora parzialmente immerse
nel loro arti ciale languore bluastro, sembravano concentrarsi nei suoi occhi.
«Una storia accaduta due anni fa… sembrano passati secoli… in una fortezza di
pietra azzurra, con sei torri e una porta di basalto, ai con ni della desolazione. Ma
ti avverto: non è una bella storia. Vuoi ascoltarla lo stesso?».
«Sì» bisbigliò Antoine. «Certo che lo voglio».

***
Di giorno, il mondo appariva pressoché immobile, stroncato dalla calura. Solo
le mosche si agitavano inquiete, ubriache del profumo zuccherino dei datteri, e le
antiche pietre sembravano vibrare sotto il maglio del sole.
La notte invece era stelle, crepitio di fuochi e bisbigli. Si decidevano morte e
distruzione, perfezionando l arte della guerriglia. Lawrence sapeva di essere ormai
un semidio dai molti nomi: El Orens, Lawrence d Arabia… Alcuni dei suoi fedeli
lo chiamavano Principe dinamite, per la sua abilità nel far saltare ferrovie e treni;
altri Eblis, “demonio”.
Poi, nelle ore morte, tra la mezzanotte e l alba, scandite dal respiro degli uomini
addormentati e i sussurri delle sentinelle, le tenebre si riempivano di suoni arcani:
ululati lontani, un rumore simile al raspare di unghie contro la pietra.
«Sono i fantasmi dei cani dei Beni Hillal, i costruttori della fortezza» gli aveva
spiegato una volta Alì ibn el Hussein, con serena gravità. «Vagano da una torre
all altra, in cerca dei loro antichi padroni. Con loro di guardia, non abbiamo
nulla da temere».
A ascinante… gli dispiaceva aver perso la capacità di lasciarsi incantare dalle
leggende. uei rumori – purtroppo lo sapeva – erano prodotti dal vento che
s insinuava tra le innumerevoli crepe delle antiche mura e da tutti i furtivi animali
notturni che popolavano gli angoli bui della fortezza. Non c erano sentinelle
sovrannaturali cui a darsi. Doveva contare solo su se stesso, e sapeva di poterlo
fare. Si sapeva capace di cavalcare a lungo, quanto il migliore dei suoi uomini,
ammaestrati dalle sabbie, e sopportare la sete e il vento bruciante del deserto; si
sapeva capace di ferire e uccidere senza esitazione. In guerra, so erenza, crudeltà e
morte erano orrori inevitabili, spesso persino giusti cabili.
Ciò con cui non riusciva a scendere a patti era la menzogna del proprio ruolo, e
la consapevolezza dell inganno era un dolore sordo che non consentiva riposo.
uelle ore morte tra la mezzanotte e l alba lo vedevano camminare insonne per i
corridoi della fortezza di Azrak. Le mura di pietra si stringevano intorno a lui
come un mantello, ma non bastavano a proteggerlo dalla notte. uella notte che
un tempo aveva tanto amato, nell oscurità invernale di Oxford, tutta cristalli di
brina e trine di nebbia, con una luna appena intuibile in aloni pallidi tra le guglie
gotiche dello Jesus College. Era bello, allora, spadroneggiare nell oscurità come
un gatto; sentirsi tutto occhi e furtività, scalando i tetti che proteggevano i sogni
degli studenti addormentati o immergendosi, a bordo di una sottile canoa, nei
budelli fognari della città, scivolando al di sotto dei gloriosi edi ci dove avevano
studiato celebrità della politica e letterati. A volte, per condividere la bellezza
della notte con un altro essere umano, aveva strappato qualche compagno dal
caldo viluppo delle coperte e l aveva trascinato, ancora insonnolito, giù no al
laghetto. Spesso, per tu arsi, bisognava rompere una crosta di ghiaccio.
Notti lontane, irreali come in un sogno. Ma nelle notti di Azrak sembrava non
esserci spazio per i sogni. Erano concrete come le mura stesse della fortezza.
Tuttavia, una notte, un sogno riuscì a insinuarsi in una delle crepe che venavano le
pietre corrose. E Lawrence lo vide materializzarsi all improvviso davanti a lui;
dapprima soltanto occhi ardenti e un lieve ansimare, poi l oscurità si coagulò in
contorni de niti.
Aveva assunto le forme di un cane. Lawrence si fermò a metà del corridoio,
sconcertato. Non era certo incline a credere alle leggende di Alì, ma quel cane
materializzatosi dal buio non poteva essere arrivato da fuori. Attese, immobile,
cercando di comprenderne le intenzioni. L animale non ringhiava, sembrava
tranquillo, ma aveva un aspetto insolito: il corpo snello e un muso appuntito da
sciacallo; e non uno qualsiasi. Rammentava, pensò Lawrence, l animale simbolo
del dio egizio Anubi, messaggero dell Aldilà.
Gli si avvicinò e annusò cautamente il bordo del mantello bianco, poi corse via.
Nero, silenzioso, snello eppure possente. Non era certo uno degli sparuti cani dei
villaggi.
La sua corsa si fermò davanti a una parete parzialmente crollata. Tra le pietre si
apriva uno squarcio sulla notte. Un ombra si stagliava contro il cielo spolverato di
stelle.
«Awad?» bisbigliò Lawrence, credendo di ravvisare in quella sagoma incerta il
giovane sherari che faceva parte della sua guardia del corpo.
L ombra si mosse. La luce delle stelle scivolò lungo il suo viso come un liquido
argenteo, svelando un pro lo inconfondibile e un sorriso… Quel sorriso!
Lawrence comprese che l animale era davvero lo sciacallo di Anubi, messaggero
dell Oltretomba. Stava guardando il viso di uno spettro.
«Sto impazzendo…» bisbigliò a se stesso. Aveva sempre temuto che succedesse,
presto o tardi. Servire due padroni non è una farsa che si possa recitare a lungo
senza smarrirsi dietro la maschera.
«No» rispose l ombra in tono quieto e insieme ironico.
La sua voce. La voce di… «Dahoum!»
Dahoum. Il compagno delle dorate stagioni di Carchemish. Insieme avevano
scavato tra il fango lungo le sponde dell Eufrate, riportando alla luce i resti
dell antica Ur, scoprendo le tracce del diluvio universale. Insieme si erano divertiti
alle spalle degli operai indigeni e avevano giocato alle spie nel deserto del Sinai.
Dahoum, creatura selvaggia animata dalla erezza dei suoi antenati ittiti e dalla
scanzonata irriverenza dei suoi quindici anni. Dahoum, suo fratello di sangue, al
quale aveva giurato amicizia eterna e al cui popolo aveva promesso la libertà.
«Ma tu non mi hai aspettato. Sei morto».
E non in battaglia, ucciso da un pugnale o una pallottola, ma da una stupida
malattia.
«Tu andrai avanti comunque, non è vero, Ned? Libererai Damasco».
«Un giuramento è un giuramento».
«Anche se la persona cui l hai fatto è morta?».
«A maggior ragione».
Era un dialogo irreale e impossibile, ma la notte, ridisegnando i con ni tra realtà
e sogno, lo rendeva facile e naturale. L ombra dalle fattezze di Dahoum si
appoggiò al muro di pietra, incrociando le braccia. I suoi occhi splendevano come
gocce di mercurio.
«Stai progettando un incursione a Deraa. Non andare».
«Ho giurato che avrei portato la rivolta araba oltre le linee turche prima
dell ingresso del generale Allenby a Gerusalemme».
«Hai giurato. Ancora. El Orens non può venir meno a un giuramento, vero?
Altrimenti, cosa penserebbero i suoi fedeli guerrieri e i suoi superiori al Cairo?».
Parole intrise di sarcasmo e profonda tristezza. «E, tuttavia, ti dico: non entrare a
Deraa».
«Perché dovrei rinunciare?».
«La morte è una condizione privilegiata, ti permette di scrutare a piacimento in
territori più vasti di qualunque deserto, oltre l orizzonte».
«E oltre l orizzonte hai visto la mia morte. È così? Stai cercando di dirmi che se
andrò a Deraa verrò ucciso?».
«Sì».
Lawrence accettò senza sgomento il senso di sollievo che quell a ermazione
aveva seminato in lui, come una pioggia rinfrescante. Gli inganni, le menzogne…
Tutto stava per avere termine.
«Se così è scritto…».
«La morte che ti aspetta non è quella del corpo, Orens, bensì dell anima».
Parole inattese come chicchi di grandine. Una biblica grandine ardente.
«Che intendi dire?».
«I Turchi ti cattureranno, e ti piegheranno alla loro volontà…».
«No, mai! Nessuna tortura…».
«Per salvarti la vita, perderai la tua anima».
«Mai!» ripeté Lawrence e mosse un passo verso l ombra, tendendo una mano.
Le sue dita s orarono raggi di luna. «Mai».
«È scritto».
Lawrence scosse la testa, ostinato. « uesto no. Dio e gli uomini possono
decidere la mia morte, non la mia resa. Possono imprigionarmi, sottopormi a ogni
genere di tortura, ma non riusciranno mai a umiliarmi, né tantomeno a piegarmi.
Non glielo permetterò. Lo giuro».
L ombra emise un suono simile a un singhiozzo sommesso. «Non giurare più,
Orens. Non farlo».
«E tu non chiamarmi Orens».
«È quel che sei adesso. El Orens».
Lo sciacallo di Anubi sbadigliò. Anche se un messaggero dell oltretomba è
avvezzo all eternità, questo non gl impone di essere paziente. Aveva esaurito il suo
compito; e così l ombra.
«Addio, Orens».
Un attimo dopo non fu che la luce delle stelle.

***
Un tuono venne rotolando al di sopra di loro, lungo il percorso della Senna.
Lawrence attese che il rombo scivolasse via, portato dalla corrente, per poi
concludere: «Avrei dovuto ascoltare il suo avvertimento, ma mi sentivo così
sicuro di me stesso… Avevo cominciato a credere nella mia leggenda, e ho peccato
d orgoglio. Un peccato che nessun dio perdona a un mortale».
«Perché? Cosa… cosa accadde a Deraa?» chiese Antoine, esitante. Una prima
goccia di pioggia, portata da un vento obliquo, siglò quella domanda
stampandogli un bacio freddo sulla guancia destra; l asciugò automaticamente.
Notando il gesto, Lawrence rise sottovoce.
«Non sei più invulnerabile».
Il ragazzo trasalì. L impronta della goccia gli sembrò all improvviso ardente. Era
ferito, colpito a morte.
«Cosa accadde?» ripeté.
« uel che Dahoum mi aveva predetto. uando, da bambino, giocavo con i
miei fratelli a espugnare fortezze, tutto era luminoso e perfetto. Buoni e cattivi,
amici e nemici… sapevi sempre per chi e contro chi stavi lottando. Ma a Deraa,
quella notte, la cittadella della mia integrità, che avevo sempre ritenuto
imprendibile, fu irrimediabilmente perduta; perché il nemico si nascondeva tra le
sue stesse mura».
Antoine scosse la testa: non riusciva a capire. Lawrence sogghignò.
«Il bey che comandava la guarnigione di Deraa era un degenerato. Mi voleva
per il suo letto. Al mio ri uto ordinò che fossi frustato. All inizio, per restare
cosciente e non cedere al panico, cercai di contare i colpi… Ma a venti persi il
conto. In ne, il dolore e la paura della morte… quella paura che mi vantavo di non
conoscere… mi scon ssero. Avrei fatto qualsiasi cosa... qualsiasi, pur di porre ne
a so erenza e terrore».
Da qualche ca è sul Lungosenna proveniva il suono di un orchestrina. Il
motivo, stupidamente allegro, forniva un commento tragico e grottesco alle
rivelazioni di Lawrence. Eppure, nemmeno per un istante il ragazzo aveva messo
in dubbio una sola di quelle dolorose parole, poiché credeva di comprenderne lo
scopo.
«Mi ha raccontato questo perché non vuole essere considerato un eroe? Vuole
che la disprezzi? Ma la realtà di ciò che ha ottenuto non cambia».
«Ciò che ho ottenuto è la misura della mia fallibilità».
«Ma ha seguito il suo sogno, ha lottato per realizzarlo…».
«No, credevo di seguirlo. Altro peccato di arroganza. In realtà, mi sono lasciato
trasportare da esso come dal vento. E questa è la sola saggezza che oggi posso
dispensare ai giovani sognatori come te: non lasciarti mai condurre dal tuo sogno,
ragazzo. Non crederti mai più forte, non sottovalutarlo. E, non appena dovessi
renderti conto che ti ha preso la mano, che sta sfuggendo al tuo controllo…
Piuttosto, distruggilo. Prima che sia esso a distruggere te».
Un lampo esplose all improvviso; la sua luce, ri essa dall acqua, li avvolse per
un istante. Fu come se la tempesta li avesse fotografati insieme, a bene cio dei
ricordi.
«E ora» chiese Antoine, «cosa pensa di fare?».
Il sorriso di scusa ricomparve sul volto di Lawrence. «Non lo so. Potrei
dedicarmi alle mie memorie. Una bella epica della guerra araba, a uso e consumo
dei sognatori incauti. Oppure potrei scrivere la verità, anche se sarebbe come
passeggiare nudo per Piccadilly. La vergogna potrebbe uccidermi. O redimermi.
Ma forse, più saggiamente, cercherò una tana in cui nascondermi, un
eremitaggio».
Un altro fulmine schioccò, scatenando un subitaneo diluvio. L improvvisa
risata di Lawrence si confuse con lo scroscio della pioggia.
«Ecco, cavaliere Aklin. Nessuno è invulnerabile».

***
Certamente. Lo sapeva da molto, forse n da quelle corse sotto i temporali
estivi. Ma non gli era stato possibile seguire il consiglio di Lawrence: Non lasciarti
portare dal tuo sogno… Perché il suo sogno era il vento, e la sua anima una foglia,
una piuma. Poteva considerarsi fortunato per le brezze gentili come per i cicloni,
per il privilegio di aver veduto il suo sogno crescere e divenire adulto, mutare le
delicate ali di seta dell infanzia con nuove ali di lucente metallo. Aveva fatto parte
dell epica dell aviazione, dagli avventurosi voli dei postali tra nebbie basse alle alte
quote dei ricognitori, e aveva scritto del cielo e del canto dei motori, del biancore
della luna rovesciato come latte sulle nuvole, dell angoscia di chi a terra attende
un ritorno, del desiderio di smarrirsi nell azzurro… Sorvolando ghiacciai e deserti.
Mitica e mistica età del vento. Magni ca e irripetibile. Presto il volo sarebbe
diventato una banalità quotidiana per migliaia di esseri umani scarrozzati da un
continente all altro su aerei di linea sempre più confortevoli e perfezionati, in un
cielo sempre più piccolo e familiare, ormai privo del proprio fascino e scopo.
Nessun bambino si sarebbe più stupito di ghiacciai e deserti. Forse, se un giorno
l umanità si fosse rivolta alle stelle, qualcuno avrebbe ricominciato a sognare più
vasti con ni. Ma questo ipotetico tempo era ancora lontano, e Antoine sapeva
che non sarebbe arrivato a vederlo. Ormai era un sopravvissuto, l ultimo del
gruppo originario dei piloti degli aerei postali. E c era un mesto orgoglio in questa
consapevolezza, come nel continuare a eseguire testardamente un dovere ormai
privo di senso. La guerra non è Bellezza. E neppure Avventura.
La limpidezza del mattino metteva in chiaro molte verità. Adesso comprendeva
perché Platone – o era Aristotele? – aveva posto il coraggio all ultimo posto tra le
virtù. Perché il coraggio si compone di sentimenti assai poco nobili: ostinazione,
ira, vanità… Ed era in nome di quella diabolica trinità che troppe volte si era
spinto al di là delle soglie del pericolo, lasciandosi s orare dalla morte. E in un
paio di occasioni aveva anche provato il desiderio di concedersi a essa. La prima,
quando, a seguito di un ammaraggio maldestro, il suo idrovolante si era inabissato
nelle acque verdastre della baia di Saint-Raphael. Allora, mentre l istinto lottava a
favore della vita, la ragione si era rivelata disposta ad accettare l abbraccio liquido;
ma l aveva spuntata l istinto. Poi era stata la sabbia a tentarlo, nel grande silenzio
stellato del deserto libico. La riserva d acqua era terminata, restavano soltanto
poche vene che gocce di rugiada raccolte sulla tela del paracadute, e nulla
sembrava ormai più sensato e meno drammatico della morte. Ma allora, sotto le
stelle acuminate, il delirio della sete gli aveva portato una visione: un bambino, un
piccolo principe in marsina azzurra, smarrito tra il silenzio e l immensità. I capelli
biondi e gli occhi turchini erano quelli di Lawrence. Ma Lawrence era morto
soltanto pochi mesi prima, dopo avere inutilmente tentato, per tredici anni, di
annullarsi in una sequenza d identità ttizie nei ranghi in mi dell esercito
inglese. Ad Antoine non sarebbe spiaciuto raggiungerlo. Sentiva di aver vissuto
più di quanto i suoi antichi sogni potessero sopportare.
Il piccolo principe aveva sorriso; si era seduto accanto a lui e gli aveva preso la
mano, mentre una carovana di beduini, ancora invisibile oltre l orizzonte,
navigava verso i naufraghi della sabbia. Con voce gentile, il bambino biondo gli
aveva cantato la ballata delle stelle, raccontandogli di un pianeta popolato da
insidiosi baobab e da un unica rosa; gli aveva insegnato come farsi amiche le volpi
e trovare, nel mezzo del deserto più aspro, un pozzo la cui acqua placava la sete
dell anima. Ma poi anche il piccolo principe se ne era andato, rapito dal morso di
un serpentello giallo, restituito al suo lontano pianeta dove lo attendeva la rosa
capricciosa e fragile, vestita di spine per pura malizia.
uanto a rose, e relative spine, Antoine ne aveva ricevute a fasci dalla vita. Le
donne che aveva amato: frivole e tenere, esigenti e surreali. E i compagni
d avventura e di silenzi, incapaci di perdonarlo per aver rivelato i misteri di quel
loro culto di vento e alte quote ai pagani che venerano la solidità della terra. Lo
aveva fatto con la foga ardente del predicatore, e di questo non poteva pentirsi.
A conti fatti, la vita, che spesso gli era apparsa complessa e sviante come
l enigma della S nge, poteva essere riassunta in quelle cose semplici: rose, spine e
vento. Così poco, così tanto. O stava dimenticando qualcosa? Ah sì, certamente.
Sorrise, nella sua maschera a ossigeno. Tartu di cioccolato.
All improvviso, una piccola nuvola occosa balzò su dalla curva dell orizzonte;
un bioccolo di spuma sollevato dal colpo di coda di una sirena. Il sole la spolverò
d oro.
L oro dei capelli del piccolo principe.
Il mare, specchio del cielo, aveva lo stesso azzurro degli occhi di Lawrence.
Distruggi il tuo sogno, prima che sia esso a distruggere te… Ma non c è nulla di
male nel lasciarsi trasportare dai propri sogni. Il solo errore è dubitarne. Bisogna
invece abbandonarsi con ducia, come il piccolo principe con il serpente giallo. I
sogni sanno sempre dove andare, conoscono la rotta.
Antoine diresse il muso del Lightning verso la nuvola, si tu ò nell oro e
nell azzurro.
Rose, spine, vento e tartu di cioccolato. Cos altro si può chiedere alla vita?

***
Il tenente Vernon Robinson, u ciale di collegamento assegnato al gruppo
2/33, terminò di compilare il rapporto. Poche scarne note dattiloscritte: Pilota
non rientrato. Presumibilmente disperso.
Si alzò, andò alla nestra e guardò il cielo, anche se non c era alcuno scopo in
quel gesto. Il Lightning doveva aver terminato il carburante da almeno un ora.
Tuttavia, il cielo restava inesplicabilmente limpido.
«Sotto i mari di nuvole, c è l eternità»
(Antoine de Saint-Exupéry, Terra degli uomini)
Vitaldo Conte
R

Ivano intende accettare gli incontri con l imprevisto attraverso le pulsioni del
suo sguardo. Vuole abbandonarsi al uire del desiderio per aprirsi a un mondo di
presenze e contatti oltre il tempo e gli spazi. uesti possono costituire un limite
dell essere, quando delimitano le possibilità dell eros di trascendere, entrando in
contatto con l invisibile.
La ricerca dello sguardo come lingua palpitante lo induce a entrare nelle
alchimie del suo magnetismo. I uidi energetici possono passare, attraverso questa
comunicazione, segreti vibrazionali.
Ivano ricorda, a proposito, alchimie e leggende sul potere dello sguardo.
Secondo il sapere di antiche tradizioni estremo-orientali, può destarsi
reciprocamente nelle profondità di un uomo e di una donna, che si frequentano
anche senza rapporti sici, uno speciale uido immateriale. Maggiore sarà
l energia di questa polarità, tanto più selvaggia sarà la forza del magnetismo.
uesto si accende inizialmente attraverso lo sguardo. Da quel momento, l amante
porta dentro di sé l altro con il suo sguardo, incurante della distanza che
eventualmente può separarli. uando questa energia si allontana, cessa anche
l attrazione fra gli amanti. Come accade nel passaggio alchemico della rosa rossa
nella stagione del suo desiderio.

N L

1
Uscendo da casa, qualche giorno dopo, all uscita di una fermata della
metropolitana Ivano incontra Lidia. L aveva conosciuta qualche sera prima a una
serata letteraria. L incontro imprevisto genera in lui una reazione di benessere,
immediato e istintivo. Lo sguardo, che incontra simultaneamente il suo, gli
comunica una vibrazione di calore.
Il loro colloquio, nell a ollamento anonimo delle persone intorno, è costituito
da frasi di circostanza. uello autentico passa attraverso il uire dello sguardo. I
loro occhi si cercano, s insinuano nello sguardo dell altro. Gli occhi di lui
cominciano a palpitare come se fossero in sintonia con il respiro. Le pupille di
Lidia si dilatano: sembra che vogliano farlo entrare dentro di lei.
Ivano è colpito dall aspetto sico di Lidia. I suoi lunghi capelli biondo-rossi
sono trattenuti da un fermaglio. La carnagione pallida emerge con il suo
comportamento altero. Risulta una inconsueta astrazione, nonostante
l esposizione generosa delle gambe: ben scolpite, carnose. ueste si di erenziano
dall esilità del busto e dalla magrezza del volto.
«La tua arte in questo periodo sta esprimendo la lingua del desiderio?»
domanda Lidia, all improvviso, con un sorriso ammiccante.
«La mia arte» risponde Ivano, con immediatezza, «è anche nello sguardo.
Ricerca il suo possibile specchio, che io vorrei trovare negli occhi di una donna».
«Mi piacerebbe che il mio sguardo potesse costituire questo desiderio per un
uomo. Potrei essere un tuo specchio?».
«Tu sei già un ri esso nello specchio del mio sguardo».
«Allora voglio venire a vedere i tuoi quadri e il laboratorio del tuo desiderio,
dove animi la tua arte. Forse potrà essere un modo anche per comprendere le mie
oscurità».
Lui intuisce che lei desidera entrare nel suo studio per spiarlo, annusarlo come
un animale quando studia la preda. Lo ritiene, o le piace pensarlo, uno spazio per
rituali erotici e un laboratorio di morbose analisi psichiche. Vuole entrarci per
carpire i suoi segreti percorsi.
Ivano, osservandola, la tras gura in un altro tempo, in un altra scena. Ciò non è
una semplice operazione della fantasia. Avviene in una visione allucinata, ma
nello stesso tempo naturale. La vede ra gurata in un grande quadro con un
movimento che attraversa costumi e colori. Ivano ritiene che le sue gambe esibite
siano un esca fuorviante della realtà. uesta assembla una somma di realtà
di erenti: metà reale nelle gambe, metà irreale nel resto. uel resto lo vede
ancora legato a un altro tempo, imprigionato da una presenza esangue. Forse
appartiene a un amante vampiro che quotidianamente si nutre di lei. Non per
necessità di una linfa, ma per voluttà di vederla s nire, senza mai volerle in iggere
il colpo nale. uello che porrebbe ne all estenuante legame.

2
Lidia è seduta su un divano della casa di Ivano. È palpitante nelle gambe che si
compiace di esporre, davanti agli occhi di lui. Espone così la sua parte vitale.
L altra pallida, consunta, è impigliata altrove.
Forse Lidia aspetta da Ivano, in maniera inconsapevole, l antidoto per la propria
liberazione. uesto potrebbe rimettere in moto il usso della propria linfa in
tutto il corpo. Lui intuisce che, se lei recuperasse l interezza sensuale del proprio
essere, diventerebbe una creatura crudele. La immagina in un altro tempo: era una
castellana crudele che si compiaceva d impartire sottili punizioni ai suoi sudditi.
Come poteva essere l estenuante stillicidio invisibile, che lei subisce nel presente:
quello in itto dal suo antico amante, attraverso altre dimensioni.
Lidia osserva il formicolio segnico delle opere di Ivano. Fissa le loro gurazioni,
costruite con la scrittura dipinta. Avverte uno strano rapimento, soprattutto
davanti alle tele bianche segnate dal rossore di una traccia.
«I tuoi segni sembrano emergere da un muro, come gra ti di un writer
desiderante» esclama con un sorriso, senza guardarlo.
«I miei segni nascono sempre da un desiderio».
«Perché il desiderio ha bisogno di parole e segni?» incalza, questa volta
ssandolo negli occhi.
«Parole e segni del desiderio possono cercare un supporto per dare
un immagine alla propria pulsione scon nante».
In questo colloquio di sguardi e parole, lei si muove con grande libertà nello
spazio circostante. Sembra che danzi fra un quadro e un altro. Come Ivano,
quando passa da una tela a un altra con lo spray pulsionale della sua azione
artistica.

3
Lidia percepisce che lui può essere il conduttore di un viaggio nelle discese del
suo passato ancestrale.
Silenziosamente, Ivano osserva i lineamenti del suo pro lo: sono intagliati ed
emaciati. Gli rimandano l immagine di quella memoria perversa, che si presenta
di continuo nella sua mente. È una ossessione impalpabile che non riesce ad
allontanare. Fino a quando Lidia si siede di nuovo vicino a lui, mostrando le
gambe scoperte quasi no all inguine, leggermente divaricate. Il nero di calze e
scarpe è un naturale congiungimento con il pallore del volto, mentre lo ssa con
un sorriso. Come per s darlo, in maniera sotterranea.
«Lo so che mi desideri… Prendimi, se vuoi, come fossi una tua opera d arte
vivente…» sussurra, senza guardarlo, quasi con assenza. Poi si rigira di scatto verso
di lui, ssandolo.
Le bocche si uniscono in un bacio prolungato, intenso.
«Sei per me un viaggio di vita come arte che può riannodare un lo antico di
emozioni» le dice.
Ivano le accarezza le gambe no al suo sesso, che vuole conoscere. Forse per
avere una prova tangibile della sua esistenza corporea. Le scopre il pube che,
completamente rasato, si o re al suo sguardo e tatto. Il resto del corpo continua a
rimanere coperto, lontano.
Non desidera fare l amore con lei, come forse anche Lidia con lui. Ivano ha un
ri uto a entrare nel suo oscuro lo sico. L umore intimo di Lidia gli annuncia il
suo silenzioso orgasmo. Che le addolcisce i lineamenti del volto in quelli di
un adolescente.
Prima di rivestirsi si alza in piedi, mettendo davanti agli occhi di lui, ancora
seduto, il sesso scoperto. Gli indica con un dito il suo tatuaggio sul promontorio
pubico. È una rosa rossa, inscritta in un calice, da cui emerge un occhio allungato.
Ivano, riconoscendo quel tatuaggio, lo bacia istintivamente con naturale
devozione. Il disegno è simile, anche se più allungato e sfumato nei colori, a
quello che ha già impresso sul proprio ventre. Ancora una volta, pensa, i petali di
carne della rosa rossa vogliono incontrare il suo sguardo.
«Le alchimie ricercano da sole i propri percorsi. Non hanno bisogno delle
parole come indicazione. E tu lo sai, mio principe delle rose» esclama Lidia.
Prima di uscire dalla casa lei lo accarezza, mentre le labbra si uniscono ancora in
un bacio. È struggente, come quello di un addio.
Ivano intuisce che non la rivedrà più. Svanirà, per continuare a vivere forse nella
pulsione del suo sguardo.

N A
La presenza-energia, che Ivano continua a sentire dentro di sé, richiede una
diversa angolatura dello sguardo. Lo specchio non dovrà ri ettere solo il suo, ma
rivelare anche quello di altri esseri umani a lui destinati. Sente che solo così potrà
incontrare gli sguardi delle donne del suo desiderio: quelle che il destino gli
riserva come rose rosse nel viaggio delle estreme seduzioni.
Spesso Ivano, socchiudendo gli occhi, in ore diverse del giorno, cerca
d incontrare questa presenza-energia. Può essere lo sguardo, interiore e
trasmutante, di una grande dea, che lo richiama dentro di lui con un nome
silenzioso. Non può essere pronunciato esternamente, perché signi cherebbe
perdere qualcosa del suo magnetismo. La vede spesso espressa attraverso il disegno
di un occhio allungato, senza identità di sesso. Forse perché racchiude ogni genere
di sesso. Comprende che è una creatura appartenente a un altra dimensione, forse
aliena. La chiama A: il principio di tutto.
Un giorno, Ivano desidera rapportarsi con quest occhio. O, meglio, lo fa per
rapportarsi con il proprio sguardo palpitante. Cerca allora d incarnarlo, per farlo
fuoriuscire con il proprio interno e insopprimibile fuoco. È un fuoco che vuole
creare colloqui e contagi.
Chiude gli occhi, per cercare questa presenza. Il contatto non avviene subito:
forse perché è richiamata solo con la mente. Poi il collegamento si crea con una
dolcezza naturale che lo riempie di luce. Gli sembra di vederla sorridere, per poi
parlargli invisibilmente. Lui, però, la vede e può ascoltarla.
«Riemergi dal tuo torpore e contamina nel mio nome. Puoi divenire per gli
altri una rianimazione d amore» gli dice.
«Come?».
«Entra nel mio palpito e non chiederti come farlo. Fai e avviene. Altre creature
e amanti ti stanno aspettando nel segno della rosa rossa».
Gli sembra di comprendere interiormente il signi cato di queste indicazioni.
«Contaminare è rianimare solo ciò che è già ri esso nello specchio del tuo
sguardo. Non inseguire qualcuno per provare la tua volontà di possesso o perché
desideri qualcosa da lui. Perderesti il potere, perché perderesti me, la tua energia
originaria».
Comprende sempre più questo colloquio vibrazionale. Non ha più bisogno di
porre altre domande. Avverte che, se lo facesse, qualcosa si interromperebbe.
A ritorna la notte stessa per parlargli, quando, chiudendo gli occhi, la pensa
come un dono. Le sue vibrazioni entrano in lui attraverso un uido ondeggiare
che ha i colori del cielo.
«Vivi e palpita, lasciandoti guidare dai percorsi del mio sguardo. Amami senza
riserve, come io ti amo, venendoti a cercare da spazi inaccessibili all occhio umano
e ai suoi strumenti di percezione. Io sono sempre stata accanto a te. Vengo da un
altro spazio, che è però dentro il tuo spazio interiore. Vengo a cercare i miei
amanti. Sono guerrieri, sacerdoti, sciamani come te, lasciati su questo pianeta
chiamato Terra. uesto pianeta, che sta morendo nelle sue oscurità, può essere
salvato solo dall amore e dal desiderio di creature spiritualmente superiori. Tutto
il resto, come potere e merci cazione, non ha più senso. L uomo deve tornare a
cercare nella dimensione mistica il segreto e l essenza dell eros. Che, prima di
essere vissuto sicamente, esiste già come energia superindividuale. Agisci, mio
dolce amante, ritorna nella tua origine. Ti aspetto, ti aspettiamo».
Ivano ritorna in sé, con un leggero e piacevole stordimento. È ricolmo di
sensuale vitalità. Decide che cercherà di programmare il meno possibile la propria
vita. Lascerà uire naturalmente le alchimie e la forza del loro magnetismo. Si
dispone dunque a entrare in relazione con gli indizi che incontrerà.
N M B
Ivano ritrova, in un diario, alcuni biglietti scritti da Madame Blanche, sua
amante segreta.
Nella stanza bianca la tua dolce bambola di carne, come tu mi hai creato, sente di
appartenere all alchimia del tuo sguardo. Mi fa ansimare in uno spazio inde nito
oltre il tempo… Vorrei essere la tua rosa rossa incarnata in una bambola d amore.
Il tuo sguardo nell ombra mi guarda, mi cerca, mi uga negli occhi e nei pori della
pelle. Mi circuisce… La tua bambola di carne vuole divenire la oluttuosa maga, che
palpita nel tuo e mio occhio, per trasmutarsi quando lo desideriamo.
Una notte Ivano vede emergere tracce rosse da un suo dipinto bianco.
Sembrano rose tatuate sulla pelle della tela. Avverte che, invisibilmente, in queste
tracce c è Madame Blanche. Si domanda allora se lei sia mai esistita nella realtà. O
se sia presente dentro di lui, solo con il suo sguardo palpitante. Ma, inseguendola
in quelle macchie, rose rosse di pittura, ritrova inspiegabilmente una sensazione di
conoscenza sica di lei. Come se continuassero a guardarsi attraverso i suoi segni,
che diventano presenze. Presenze di una indicibile voluttà. Ogni loro passaggio
risulta traccia di un continuo, rinnovabile desiderio. uesto può essere il
riconoscimento del suo sguardo che continua a inseguirlo, anche in lontananze
impossibili.
Una sera, prima di addormentarsi, nella camera da letto Ivano ssa la tela bianca
appesa al muro, anch esso bianco. Gli sembra, in quel momento, che incornici lo
sguardo di un assenza, in cui ognuno può incontrare la propria malia bianca. In
quel momento desidera che nasconda lo sguardo di Madame Blanche: lo invita a
entrare nel suo sguardo. uesto si trasmuta, a un tratto, in quello ammaliante di
un altra donna che non conosce.
La stessa cornice bianca del quadro, pensa, può nascondere anche gli occhi di
una Medusa. uella, mortale, che con il suo sguardo pietri cava chiunque avesse
guardato i suoi occhi di fuoco. Comprende, in quel momento, che ogni seduzione
può nascondere una minaccia imprevedibile. Desidera allora l incontro con la
malia di un suo fantasma interiore. uesto può avere lo sguardo di A, la sua
presenza-energia, che s incarna in una donna.
A emerge all improvviso, per sussurrargli parole.
«Hai vissuto un appuntamento della rosa rossa nello sguardo palpitante
dell assenza. È solo un momento della storia, trova ora il lo del tuo viaggio».
Rivede gli occhi di Madame Blanche, insieme a quelli di una donna bionda
sconosciuta. Lo guarda, sorridente. Le desidera entrambe in un rito d amore,
essendo diventate la stessa persona. uell immagine diventa la follia delle sue
seduzioni. In quell assenza può nascondersi una presenza dai richiami indicibili,
che riemerge dai sotterranei della memoria ancestrale.
Si alza dal letto per sonorizzare l ambiente con una musica idonea all atmosfera
che sta vivendo. Gli sembra di scorgere la donna bionda sconosciuta, intravista
prima, che danza. I suoi movimenti, pur sensuali, sono posseduti da un intimo
furore. Ha gli occhi rapiti che ssano il so tto.
Ivano le prende una mano per attirarla a sé, in un ballo dalle movenze
impreviste. I corpi, a un certo punto, rimangono quasi fermi. Una gamba di lui
s insinua fra le cosce della donna, spingendosi no all inguine. Lei sussulta senza
guardarlo. I suoi occhi roteano come volatili in una rete. È seducente il suo dolce
abbandono, inquietante in un mutismo denso di signi cati.
Lo sguardo di lei s indirizza verso un immagine laterale al loro abbraccio
danzante. Verso un quadro dove c è il volto bendato di una donna bionda. Nuda,
si o re come oggetto di voluttuosa sottomissione a due mani che la circuiscono.
La erezza espressa dal docile corpo entra nei colori dello sfondo, assorbito da
un attrazione invisibile. La scena assomiglia a un quadro visto in passato nello
studio di un artista. Ora l immagine diviene per lui iconogra a di un enigmatico
desiderio.
Lo sguardo di Ivano si perde in questo ulteriore collegamento.
«Vorrei essere bendata come lei, senza avere un nome. Mi sentirei più me stessa.
Potrei abbandonarmi, così, alla tua voluttà» esclama la donna sconosciuta. Sulle
sue guance compare un rossore.
«Come posso chiamarti?» le domanda.
«Che importa il nome, non mi signi ca. Chiamami come vuoi. Forse tra un
po di tempo mi riconoscerai in una donna già incontrata e desiderata. Potrei
anche essere la tua segreta Madame Blanche, che vuole farsi guardare da te mentre
trasmuta in altre gure di donna».
Luigi De Pascalis
L

E vidi un mattino emergere dalle brume dell alba


la foresta delle teste lanose le braccia accate, lo stomaco cavo
gli occhi e le labbra immensi chiamare un dio impossibile.
(Leopold Senghor, L Uomo e la bestia)

Agli inizi di settembre del 1737, mentre mi trovavo a Nantes, decisi


d imbarcarmi in qualità di chirurgo e medico di bordo sul tre alberi Argos. Il
vascello apparteneva alla Compagnia di Guinea ed era al comando del signor
Couron, un esperto marinaio bretone.
Le ragioni che mi fecero preferire l ingaggio su una nave negriera all esercizio
della professione medica sul suolo francese non hanno importanza. uello che
importa è che, qualche giorno più tardi, l Argos salpò verso le coste della Guinea
per imbarcare alcune centinaia di schiavi. Successivamente avrebbe fatto rotta
verso le Antille, dove avremmo venduto il carico umano e comprato spezie.
uindi il rientro a Nantes.
Appro ttando del vento generosamente favorevole e del mare tranquillo, in
pochissimi giorni passammo al largo del golfo di Biscaglia e doppiammo Capo
Finisterre.
Nel frattempo mi resi conto che sulla nave vigeva una disciplina ferrea e che il
capitano Couron, se non amato, certamente considerato con rispetto da u ciali
ed equipaggio, non concedeva con denza a nessuno, tanto meno ad un giovane
medico al primo imbarco.
Il tempo libero, dunque, l impiegai dapprima per ri ettere malinconicamente
sui casi che m avevano spinto ad imbarcarmi, poi, per mia fortuna, in lunghe
conversazioni con Pierre Hermieux, l u ciale che rappresentava sulla nave gli
interessi della Compagnia di Guinea.
Pierre, ultimo discendente di una nobile quanto decaduta famiglia di Avignone,
aveva un carattere gioviale ed aperto e condivideva con me sia la curiosità
scienti ca che la passione per le buone letture. Nulla di strano, dunque, se fu
l unico u ciale della nave a riscuotere le mie simpatie e l unico con cui mi riuscì
di stabilire dei rapporti d amicizia.
Intanto il nostro vascello passava al largo delle Canarie e gettava l ancora a
Praia, unico attracco di San Tiago, una delle isole di Capo Verde.
In quel piccolo porto ci rifornimmo di tela e d acqua, poi riprendemmo il mare
navigando verso sud, lungo le coste della Guinea.
Tre giorni dopo doppiammo Capo Palmas e ci fermammo alle foci del Volta, in
attesa dei negrieri arabi che avrebbero dovuto consegnarci il carico.
Era la ne di settembre, il caldo umido era so ocante e la noia non lasciava
scampo. Per buona sorte la spiacevole attesa nì all alba del secondo giorno che
passavamo in rada.
Ero sul castello di prua a godermi l ultimo, fresco refolo d aria notturna,
quando udii grida e nitriti lontani. La foresta ancora avvolta dalla nebbia sputò
sulla spiaggia una carovana.
Mentre la nave si animava a sua volta di suoni e voci concitate, m accostai alla
murata che guardava terra.
La colonna era composta da alcune decine di uomini a cavallo che correvano
avanti e indietro, gridando ed agitando sul capo dei lunghissimi fucili, e di una
lunga la di negri, maschi e femmine, legati gli uni agli altri con delle catene.
Le prime cose che mi colpirono dei prigionieri furono il silenzio e la lentezza
con cui forse esprimevano il ri uto di una realtà senza scampo; poi, la disarmata
rassegnazione con la quale subivano gli arabi che li avrebbero venduti e noi che li
avremmo acquistati.
Insomma, già in quella prima scena c era qualcosa che rendeva i negri diversi da
semplici oggetti di mercato – forse per no degli esseri umani –; ma ogni mia idea
in proposito era ancora troppo vaga perché provassi qualcosa di più d un confuso
disagio.
Poche ore dopo il comandante Couron, il secondo Laurent e Pierre, scortati da
quindici marinai armati, andarono a terra per contrattare il prezzo unitario degli
schiavi. Al tramonto del giorno successivo li avevamo tutti sul ponte, pronti per
essere stivati.
Poiché tra i miei compiti c era quello di controllare ciascun individuo, onde
evitare di acquistare chi presumibilmente non avrebbe retto la fatica della
traversata, mi misi subito al lavoro. Gli schiavi erano più di trecento, tutti di
un età apparente tra i dodici ed i trent anni e, salvo rare eccezioni, erano in buona
salute, sia i maschi che le femmine, ma i loro corpi mi parvero torpidi, come privi
di forze…
Mi stavo chiedendo quanti ne sarebbero morti durante il viaggio per cause
naturali e quanti si sarebbero lasciati morire, quando notai un negro gigantesco
che si teneva un po in disparte rispetto al gruppo, quasi non ne facesse parte.
Era completamente nudo, aveva la carnagione un po più chiara di quella dei
compagni e capelli lunghi e lisci, pettinati in una strana foggia.
Non vi era in lui niente del vinto, del deportato, se mai una primordiale erezza
che incuteva timore.
Inoltre il suo sguardo, che si so ermava su ogni cosa, anche sui suoi simili, quasi
li vedesse per la prima volta, aveva una strana espressione a metà tra il perplesso e
il divertito.
uando s accorse che lo guardavo, mi ssò.
Non so descrivere la luce che gli vidi negli occhi, né so dare conto del fortissimo
disagio che provai. Ricordo solo che nsi di cercare qualcosa nella borsa degli
strumenti e lui stirò le labbra in un sorriso impercettibile. Forse di scherno.
uando fu il suo turno, l esaminai in tutta fretta, con crescente imbarazzo, poi
gli indicai un angolo del ponte in cui due marinai e mastro Richard, il nostromo,
stavano ssando gli anelli di ferro alle caviglie dei sui compagni.
Annuì ed andò a mettersi in la ma, quando toccò a lui, accadde un fatto
inspiegabile.
Mastro Richard, che aveva in mano due robusti anelli ed il martello con cui
ribatterli sulle caviglie, alzò la testa nella sua direzione e si bloccò impietrito,
mentre il viso gli si riempiva di stupore e sgomento.
Un silenzio assoluto piombò sul vascello.
Gli sguardi di tutti erano ssi sul nostromo, che pareva colto da un improvvisa
paralisi, e sul negro, che l osservava con le braccia incrociate sul petto poderoso, il
viso impassibile, quasi assente.
Sulla nave e intorno ad essa ogni manifestazione di vita sembrava come sospesa.
S udivano solo il fruscio leggero del vento fra il sartiame e lo sciabordio leggero
delle onde lungo le murate.
Poi la voce del capitano Couron tuonò: «Mastro Richard, che diavolo
succede?».
Il nostromo parve destarsi da un sonno popolato di incubi.
Gli ero abbastanza vicino da notare che era madido, stravolto, e i suoi occhi
avevano un espressione assente e angosciata.
«Non posso muovermi, capitano. Proprio non mi riesce».
Nella sua voce tormentata non v era traccia della erezza e della risolutezza che
tutti gli riconoscevano.
Il comandante aveva navigato con lui per molti anni ed era visibilmente turbato
da quella metamorfosi. Aggrottò la fronte e disse, in tono meno burbero del
solito: «Va bene, nostromo, non ci pensate più. Mandate quel negro nella stiva
assieme agli altri. Tanto, una volta al largo, non potrà scappare. Si salpa con la
marea».
Poi gli andò vicino e sussurrò: « uando nite, andate a farvi visitare».
Mastro Richard annuì.
Era ancora pallido, ansante, come dopo uno sforzo immane.
«Bene» borbottò il capitano, anche lui con un lo d incertezza nella voce.
Ordinò al signor Laurent di seguirlo in cabina per discutere della rotta e
s allontanò.
Dopo un preoccupato scambio di occhiate, anche io ed Hermieux tornammo
alle nostre faccende ma, appena possibile, lo presi da parte e gli domandai cosa
sapesse di quel misterioso personaggio che avevamo imbarcato come schiavo.
Fu insolitamente reticente.
Disse unicamente che il negro non era stato catturato come gli altri durante una
razzia nei villaggi dell interno, ma mentre vagava alle falde dei Monti Nimba solo,
disarmato e nudo; e che gli arabi non avevano voluto neanche un pezzo d argento
per quell esemplare da cui, volendo, avrebbero potuto ricavare una buona somma.
Poi si congedò bruscamente ed io, inquieto e perplesso, andai ad aspettare in
cabina mastro Richard.
L attesi un bel po dopo il tramonto, poi pensai che non era venuto perché si
sentiva meglio, mi distesi sulla cuccetta e, stanco com ero, piombai in un sonno
pesante dal quale mi destai solo a mattina inoltrata, quando l Argos era già in
piena navigazione.
Appena fui sul ponte, mi resi conto che regnava una strana animazione. I
marinai andavano e venivano freneticamente, frugando ogni angolo, anche il più
riposto, mentre il comandante Coupon, Hermieux ed il terzo u ciale ne
seguivano gli spostamenti dal castello di poppa.
Andai da loro e, dimentico dei fatti della sera prima, chiesi con tono scherzoso
chi o cosa cercassero gli uomini.
«Mastro Richard» rispose cupo il terzo u ciale, un bretone di nome Dolhen.
«Nessuno l ha più visto da ieri sera, dopo l incidente. Abbiamo già frugato quasi
tutta la nave, ma sembra svanito».
Il sorriso mi si spense sulle labbra.
Le ricerche continuarono in uno strano silenzio per più di un ora, poi udimmo
una voce concitata dalla gabbia dell albero di maestra.
Un marinaio aveva trovato mastro Richard.
Era lassù, morto, le mani ancora spasmodicamente contratte sulla ferita che
s era inferta al cuore con il proprio coltello.
Più tardi, quando ne esaminai il corpo, mi colpirono soprattutto due cose:
l espressione di terrore che aveva sul volto e la disperata contrazione in cui ancora
si trovava ogni suo muscolo, come se per compiere (o per non compiere?) quel
gesto avesse dovuto lottare strenuamente contro se stesso.
Un altro strano fatto lo scoprii sezionando il cadavere: la lama aveva colpito il
cuore al centro, con una precisione sorprendente.
Subito dopo ebbi un lungo colloquio con Hermieux e con il signor Couron. Al
termine concludemmo che mastro Richard, improvvisamente impazzito la sera
precedente, s era tolto la vita durante la notte e gli altri fatti erano coincidenze.
uesto fu quanto dicemmo anche agli u ciali ed all equipaggio ma forse, n
da allora, c era in tutti noi la certezza che il responsabile della tragedia fosse quello
strano negro. Visto però che era rimasto chiuso nella stiva per tutto il tempo, la
cosa parve così illogica che non se ne parlò neanche.
uel giorno nessun marinaio cantò o scherzò, come sempre accadeva, e
ciascuno si mosse e fece il proprio lavoro come se gli costasse una gran fatica.
Finalmente il sole tramontò e venne la notte, una notte serena e tranquilla, senza
luna: la seconda di quella traversata.

***
Il mattino seguente, poco dopo l alba, fui destato da robusti colpi alla porta
della cabina.
Andai ad aprire, era un marinaio.
Nell alloggio dell equipaggio c era qualcuno in n di vita, disse con voce
concitata.
Lo seguii no al giaciglio del compagno e bastarono pochi secondi per
rendermi conto che stava morendo.
Ordinai al mio accompagnatore di avvertire il comandante e questi schizzò via,
lasciandomi solo con il malato.
Il poveretto aveva labbra e unghie violacee, il corpo gelido e tuttavia fradicio di
sudore; inoltre, era scosso da un tremito violento e doloroso. Ciò che
m impressionò maggiormente, però, fu il suo volto pallidissimo e incredibilmente
incavato, con solchi profondi agli angoli della bocca e la pelle del corpo accida e
rilassata.
Sarei stato indotto a pensare ad una lunga ed estenuante malattia ormai giunta
all epilogo, se il giorno precedente non avessi visto con i miei stessi occhi quel
marinaio, poco più che ventenne, arrampicarsi con agilità sul sartiame del
pennone di maestra.
Che malattia l aveva ridotto così presto in quelle condizioni?
Un lamento mi fece sobbalzare. Il malato mi guardava con disperazione.
«Che mi capita?» chiese con voce impercettibile.
Non sapevo che rispondere.
Per quanto frugassi in ogni angolo del mio cervello, non trovavo una sola
nozione utile. Niente di niente. Tuttavia, una confessione d impotenza avrebbe
peggiorato la situazione. Mi feci forza e cercai di rassicurarlo.
La dolorosa farsa, però, durò pochi minuti. Con uno sforzo straordinario
quanto disperato, il moribondo si rizzò a sedere sul giaciglio ed urlò qualcosa
d incomprensibile. Poi s accasciò, gli occhi sbarrati dal terrore.
Il silenzio mi piombò addosso.
uel povero ragazzo era uno dei due marinai che avevano aiutato mastro
Richard ad incatenare i negri, non più di trentasette o trentotto ore prima. Non
poteva essere un caso…
Mi sentivo abbattuto, s nito. Abbassai stancamente le palpebre sugli occhi
vitrei del morto e mi avviai verso la scala che conduceva in coperta.
Ero ancora sul primo gradino quando udii provenire dal pavimento, che era
anche la volta della stiva, una musica quieta, possente e ancestrale.
Mi bloccai, stupito. Capii che quel suono era fatto di centinaia e centinaia di
voci accompagnate dal ritmo di innumerevoli piedi e mani che picchiavano sul
fasciame della nave come su un gigantesco strumento a percussione galleggiante.
Ripresi a salire, mentre nenia e suono si facevano rapidamente più insistenti e
veloci. Più ossessivi.
Mi sentii confuso, stordito.
Una vaga sensazione di disagio mi strinse l anima.
Il canto montò di tono ed i colpi si fecero più forti. Adesso facevano vibrare il
vascello come una pelle di tamburo.
Ma che avevano da gridare e da battere quei maledetti selvaggi?
Mi precipitai sul ponte mentre un urlo d immane ferocia, trionfo e paura si
levava dalla stiva come da un antro infernale. Poi ci fu un silenzio improvviso,
agghiacciante, messo in risalto dallo sciabordio robusto delle onde contro le
ancate e dallo schioccare delle vele che leggiavano non prendendo più il vento.
In ne, udii un correre concitato, un risuonare di ordini, un a accendarsi di
uomini sui pennoni e lungo le murate.
Tentai di raggiungere il cassero, dov era il capitano Couron, ma all improvviso
mi si parò dinanzi Hermieux.
Era pallido, nervoso.
Mi a errò per un braccio e m invitò a seguirlo. Era armato di spada e di due
pistole. Me ne diede una, quindi si precipitò lungo la scala che conduceva alla
stiva e nì quasi in braccio all uomo di guardia, un vecchio dall aria terrorizzata
che si chiamava Marcel.
Prima che quello potesse aprire bocca, strappò dalla parete la lampada che
illuminava il minuscolo locale, tirò il chiavistello della porta della stiva, la
spalancò e si catapultò all interno. Io lo seguii a ruota.
Appena oltre la soglia, fummo investiti dal buio assoluto e dal puzzo delle
centinaia di corpi rinchiusi in quello spazio troppo angusto. Tutto attorno
s intuiva un agitarsi cauto e felino, quasi fossimo sorvegliati da una legione di
gatti, e s udiva un brusio insistente e minaccioso come quello d uno sciame d api.
Avevo paura, non lo nascondo, né mi tranquillizzava sapere che i negri erano
incatenati al fasciame: lo erano tutti, eccetto il gigante!
Ad un tratto vidi Pierre protendere in avanti la lampada e subito ritrarla,
scattando indietro d un passo.
«Guarda là» disse con voce gelata d orrore.
Mi voltai verso il fascio di luce e trasalii.
In terra, smembrato come se centinaia di braccia lo avessero tirato per gli arti
no a staccarglieli, zuppo del proprio sangue, c era un marinaio ancora vivo che
gemeva e sussultava negli spasimi della terribile agonia…
Avevo sempre creduto che la lunga pratica delle sale anatomiche mi avesse reso
forte rispetto a certe cose, ma non era vero.
Di fronte a quella scena mi sentii vacillare e dovetti farmi forza per non svenire.
Tuttavia, quando il corpo rimase nalmente immobile, riacquistai abbastanza
sangue freddo da chinarmi per scrutarne il volto ancora contratto dalla
so erenza.
La luce traballante della lampada vi rincorreva ombre inquiete.
A tratti, pareva quasi che mutasse espressione.
Ora ghignava.
Ora rideva.
Ora piangeva.
L unica cosa ferma, certa, era che quel viso apparteneva all altro aiutante di
mastro Richard e io, in fondo, avevo sempre saputo, aspettato, temuto, che
sarebbe nita in quel modo.
Mi riscossi.
Centinaia di bocche nascoste dalle tenebre avevano cominciato ad intonare una
nenia lentissima che pareva venire dalla notte dei tempi. Ed Hermieux l ascoltava
impietrito, come se gli rivelasse qualcosa di tremendo.
Si voltò verso di me, forse per dirmi qualcosa, ma un rumore sommesso ci fece
capire che i negri si stavano muovendo.
ualche secondo dopo erano tutti in ginocchio, rivolti verso lo stesso punto
della stiva, il più buio e lontano, e la nenia cambiò tono.
Non era di cile immaginare che in quel punto si trovava il negro divenuto
ormai l incubo dell Argos!
Per la prima volta da quando lo conoscevo, Hermieux, il mio amico Hermieux,
l accanito seguace della Ragione, il distruttore irridente di miti e credenze
religiose, sudava, tremava, e non si curava a atto di nasconderlo.
Non era solo una reazione nervosa all orrendo spettacolo che avevamo sotto gli
occhi; era terrore autentico, quel terrore che si può provare solo di fronte
all Ignoto.
Stavo per chiedergli cosa avesse quando, per la seconda volta in pochi minuti,
un fatto nuovo venne ad impedire che ci parlassimo.
Stavolta si trattava del comandante Couron, che irruppe nella stiva quasi di
corsa e s inchiodò dinanzi allo strazio del marinaio.
Lo sgomento gli lampeggiò negli occhi un solo istante, poi lanciò un urlo da
belva: «Marcel!».
L uomo di guardia gli si materializzò davanti.
La voce del capitano l investì con la violenza del tifone.
«Ti ucciderò con le mie mani, imbecille. Avevi ordini precisi, perché lo hai
fatto entrare qui?». E indicò il morto. «Ecco cosa è successo per la tua
leggerezza!».
Marcel balbettò che nessuno era entrato nella stiva da quando era iniziato il suo
turno di guardia, cioè tre ore prima, e che non si era allontanato dal suo posto
nemmeno per un secondo.
Ma rassicurazioni e giuramenti non gli servirono granché: mentre io e Pierre
risalivamo sul ponte, udimmo il comandante ordinare a Dolhen, il terzo u ciale,
e ad alcuni marinai accorsi sotto coperta di mettere ai ferri il vecchio e di
seppellire in mare il cadavere, secondo le usanze.
Appena Hermieux ed io fummo in coperta, ci rendemmo conto che il tempo
stava cambiando. La visibilità s era fatta scarsa e da Sud-Est ci correva incontro un
banco di nubi basse e minacciose. Anche il mare era diventato livido e
s ingrossava rapidamente, costringendo la nave a rullare e beccheggiare sempre
più.
Poggiato alla murata, Hermieux guardava le nuvole che invadevano il cielo.
Aveva il viso tirato, le labbra contratte.
«Sono giorni che mi chiedo a cosa serva cercare di capire» disse alla ne.
La sua voce era stanca.
«Che vuoi dire?»
Mi ssò negli occhi.
«Come credi che siano morti mastro Richard e i due marinai?».
Cercai inutilmente di interromperlo.
«No, no: lasciami dire. Va bene, mastro Richard si è suicidato: è possibile! Ma
sai dirmi perché lo avrebbe fatto? Il primo marinaio è sceso a terra con me: avrà
mangiato o bevuto qualcosa. Ma di quale malattia è morto? E quello nella stiva?
Non è andata come sembra. I negri sono tutti incatenati: nessuno di loro poteva
arrivare nel punto dove si trova il cadavere. Sono certo che se n è accorto anche
Couron…».
«Uno di loro non aveva i ferri» replicai a disagio.
«Sì, certo» riconobbe Hermieux. «Potrebbe aver trascinato la vittima in quel
punto dopo che i suoi compagni ne avrebbero straziato il corpo. Ma avrebbe
dovuto esserci sul pavimento una scia di sangue che non c è. Torna giù a
controllare, se credi!».
«L avevo già notato anch io» borbottai.
«E, dunque, spiegami come può un uomo solo, per quanto forte, ridurre in
quello stato un maschio adulto… E con le sole mani, bada bene! In più, resta
sempre da spiegare com è arrivato quel marinaio nella stiva e soprattutto perché
c è andato».
Si interruppe e m indicò alcuni uomini che parlottavano tra di loro, sul cassero.
«Guardali: credi che non abbiano fatto anche loro queste considerazioni? Sono
pronto a scommettere che stanno dicendo che c è un demonio a bordo, un essere
maledetto, e che, se non faranno qualcosa, niremo tutti ai pesci. Oppure
seguiremo la sorte di mastro Richard e dei suoi aiutanti». S appoggiò con la
schiena sulla murata e scosse il capo. «E loro non sanno quello che so io. Non
sanno che se toccheranno quel negro – anzi, quell essere sconosciuto – la loro
sorte sarà segnata. Credimi, basterebbe una scintilla per far saltare questa
polveriera galleggiante».
S interruppe di nuovo, osservando il cielo ormai interamente ricoperto di basse
nubi temporalesche, adocchiò il mare che si sollevava in onde sempre più
minacciose e sogghignò.
«E questa tempesta sarà la scintilla, vedrai!».
«Sei troppo pessimista» replicai spaventato.
Scoppiò a ridere. «Pessimista, dici?».
Mi trascinò nella sua cabina, si chiuse la porta alle spalle e andò a prendere dal
baule un grosso bracciale di metallo. Me lo porse.
Era un oggetto piuttosto pesante, largo circa venti centimetri, dalla super cie
perfettamente liscia salvo ai due bordi, dove erano incisi strani segni. Sulla fascia
centrale erano incastonate apparentemente a caso alcune pietre simili a brillanti.
«Osserva attentamente quest oggetto» suggerì. «Poi dimmi che ne pensi».
«Non capisco come possa essere indossato» osservai, cercando inutilmente
d in larlo al braccio. «Non ha bbie o cerniere, ed è troppo stretto perché la
mano di un adulto possa passarvi attraverso. uella di un bambino, forse…».
«Esatto» approvò Pierre. «Ammettiamo adesso che questo bracciale sia stato
indossato da un bambino che l ha portato no a che è diventato adulto. Ebbene,
in tal caso si deve ammettere che il proprietario potrebbe liberarsene solo
segandolo a metà: ne convieni?».
Assentii.
«Bene» continuò stancamente il mio amico. « uesto bracciale era l unica
cosa indossata da quell essere che è nella stiva insieme ai negri. uando è stato
catturato dagli arabi, lo portava al braccio destro».
«E come hanno fatto a toglierglielo?» chiesi meravigliato.
«Ecco il punto: alcuni di quelli che l hanno fatto prigioniero – senza che
opponesse resistenza, notalo bene – hanno notato questo oggetto e, credendo che
fosse di platino e brillanti, hanno deciso di prenderglielo. È inutile dire che non
sono riusciti a s larlo dal braccio, così gli hanno mozzato la mano con un colpo di
scimitarra».
Guardai Hermieux come si guarda un pazzo: io quel negro l avevo visitato ed
ero più che certo della sua integrità sica.
«Non mi credi? Be , ti capisco. Neppure io ho creduto a questa storia,
all inizio...».
ualcosa nella sua espressione mi spinse ad evitare d interromperlo.
«La mano cadde a terra» proseguì, «ed il bracciale fu s lato dal moncherino
senza che dalle labbra del ferito sfuggisse un gemito o una sola goccia di sangue
uscisse dalle sue vene. Ma l esultanza dei predoni fu breve. Un attimo dopo erano
in preda a terribili spasimi. Sono morti in pochi minuti, sotto lo sguardo
indi erente della vittima e quello esterrefatto dei compagni. uando i suoi
torturatori furono morti, il negro andò ad unirsi agli altri schiavi. In silenzio. Due
giorni dopo qualcuno notò che aveva di nuovo entrambe le mani. Ecco, adesso sai
tutto...».
Avevo tra le mani quello strano bracciale e nella testa un vortice di pensieri che
la ragione si ri utava di accettare.
In un estremo tentativo di ristabilire l ordine logico delle cose, esclamai:
« uesta storia non sta in piedi!».
Hermieux sorrise malinconicamente.
«È più o meno ciò che ho risposto al capo carovana, quando me l ha
raccontata. E lui, per convincermi, ha fatto ciò che io ora sto per fare con te».
Prese dalla cassa da viaggio una scatola rettangolare di mogano scuro, lunga
circa trenta centimetri, e me la porse.
«Aprila» disse con voce cupa.
L aprii.
Poggiata su di un cuscinetto di raso rosso, quasi fosse un oggetto prezioso, o
meglio una reliquia, c era una grande mano scura, mozzata di netto all altezza del
polso.
Ero senza parole.
«Toccala!».
Lo feci: la mano era calda, viva, ed aveva un lieve fremito nelle dita.
Fui costretto a sedermi.
«Chi è quest uomo?» balbettai.
«Non lo so» rispose Pierre. «Ho cercato inutilmente di decifrare i segni sul
bracciale e di capire il signi cato delle pietre. Potrebbero rappresentare una
costellazione o un sistema planetario, ma quale?... No, mi arrendo!».
Richiusi di scatto il cofanetto ed investii Hermieux con un torrente di parole.
«Mi stai dicendo che conoscevi i poteri di quell essere ed hai permesso lo stesso
che fosse imbarcato? Accidenti, Pierre: hai sulle spalle la morte di tre uomini! E
per quale motivo, poi?».
Lui mi guardò come se mi vedesse per la prima volta. La sua voce era addolorata,
ma ferma.
«È vero» convenne. «In qualche modo sono responsabile della morte di
mastro Richard e dei due marinai, ma mi meraviglio che un uomo di scienza mi
chieda perché ho voluto che quel negro fosse imbarcato. Eppure non è di cile da
immaginare! Sono sempre stato convinto che la ragione umana possa spiegare
tutti i segreti dell Universo. Ho basato su questa certezza l intera mia vita ed ho
accettato questo discutibile incarico dalla Compagnia di Guinea nella
convinzione che la di erenza tra l uomo e la bestia umana siano la Ragione e il
Sapere e che l uomo, in quanto ragione e sapere, abbia ogni diritto su tutte le larve
umane ricolme di ignoranza, superstizione e paura che strisciano sulla terra: e
questo, sia chiaro, indipendentemente dal colore della pelle. Ma poi, un
qualunque mercante di schiavi mi mette davanti agli occhi un fatto inspiegabile.
La mia ragione è battuta, la mia ignoranza è manifesta… Accidenti, come fai a
non capirlo? uesta non è una semplice s da alla Ragione o al Sapere. La
questione è più profonda: o questa storia ha una spiegazione razionale, o tra me e
gli schiavi che marciscono nella stiva non c è di erenza! Nessuna di erenza,
capisci?».
L osservai in silenzio per qualche istante, quindi tornai sul ponte.
Ormai la tempesta ci era addosso.
Sotto la spinta del vento, le onde s erano trasformate in montagne d acqua che
si abbattevano sulla murata di dritta con schianti poderosi. Dovevamo ridurre la
velatura, cambiare rotta e a rontarle di prua, o ci saremmo rovesciati.
Sugli alberi di maestra e di trinchetto alcuni marinai lottavano con vento e
pioggia per imbrogliare i velacci, ma la manovra avveniva troppo lentamente.
Eravamo prossimi all equatore, eppure le ra che di vento erano insolitamente
gelide. Tremavo: forse per il freddo, forse per il terrore di trovarmi in mezzo a
quell inferno d acqua.
Poi una ventata più violenta delle altre mi costrinse ad a errarmi alla cavigliera
dell albero di maestra. Un secondo dopo l Argos si piegò su un anco e l acqua
ribollente dell oceano spazzò la coperta.
«La nave s ingavona, ci capovolgiamo!» urlò una voce disperata.
Dalla stiva giungevano centinaia di urla, ma si confondevano con il rombo
dell oceano. E poi, non ci si poteva fare niente. Se il vascello avesse retto l avrebbe
fatto per tutti, altrimenti saremmo morti più o meno allo stesso modo.
A tratti, ondate più violente delle altre spazzavano il ponte, impedendomi di
respirare e risucchiandomi verso l abisso.
Ero fuori di me dalla paura.
Solo il disperato desiderio di vivere mi dava la forza di continuare a tenermi
aggrappato alla cavigliera.
Ad un certo punto, non so quando, udii delle voci che cercavano di superare il
fragore del mare. Riconobbi quella del comandante, ma non capii cosa diceva. Poi
vidi correre alcune ombre ed udii colpi sordi, disperati, contro il legno.
In ne, ci fu uno schianto ed un rovinare in coperta di schegge e cordami.
L albero di mezzana cadde in mare con un tonfo. La nave cominciò a raddrizzarsi.
Mi rimisi in piedi, bloccai un marinaio e gli chiesi cosa fosse accaduto.
«L albero di mezzana» rispose concitato. «La tempesta l aveva danneggiato a
circa mezza altezza. Per evitare che la parte superiore venisse giù, sfondando lo
scafo, il comandante l ha fatta imbracare e tagliare all altezza della rottura. Ma
con questo tempo è tutto di cile, la cima dell albero è caduta in mare e s è
portata dietro vele e cordami».
Corse via, richiamato da qualcuno.
Adesso la coperta era in un caos indescrivibile, ma non sembrava ci fossero
danni gravi.
Altri marinai mi passarono accanto di corsa. I loro volti esprimevano lo stesso
terrore ancestrale che stavo inutilmente tentando di tenere a bada io.
D improvviso ci fu un colpo violento a poppa ed udii di nuovo un esplosione di
urla concitate. Poi ci fu un correre a annoso nel buio.
Cercai il capitano e gli chiesi cos altro fosse successo.
«Il timone!» rispose, urlando per farsi sentire. «Il troncone dell albero di
mezzana, alla deriva, lo ha fatto a pezzi. Ce la vedremo brutta, perché non siamo
più in grado di governare come dovremmo e non possiamo riparare niente con
questo tempo. Ma il bastimento è solido, reggerà».
Per me era troppo.
«Non ce la faremo e voi lo sapete!» sbraitai, in preda ad una vera e propria crisi
nervosa.
Il comandante fece per replicare, ma la sua attenzione fu attirata da cinque o sei
marinai che armeggiavano attorno al boccaporto della stiva. Li raggiunse d un
balzo e cominciò ad urlare come un forsennato. Per tutta risposta, uno degli
uomini lo colpì. Cadde. Il secondo u ciale corse in suo aiuto, ma seguì la
medesima sorte.
A quel punto capii.
L equipaggio, folle di paura, riteneva che il negro fosse in qualche modo
responsabile di ciò che stava accadendo e voleva buttarlo fuori bordo.
Sapevo troppo per non temere quel gesto, che aveva già lasciato la nave priva di
governo. Piombai fra loro.
«Siete pazzi!» urlai.
Attorno a me vidi solo facce ostili ed occhi colmi di furia e terrore.
Persino Dolhen, sopraggiunto nel frattempo, pareva incerto se schierarsi o
meno dalla parte degli ammutinati. Forse pensava che sarebbe stata questione di
pochi minuti e che poi tutti avrebbero ripreso con più energia la lotta contro il
mare. O, forse, aveva semplicemente paura.
Non sapevo che fare, poi pensai ad Hermieux, rimasto nella sua cabina, e corsi a
cercarlo.
Il piccolo alloggio era come devastato. Ogni cosa era in frantumi, libri ed
oggetti d ogni genere erano sparsi ovunque. E Pierre era sul pavimento, ai piedi
della cuccetta.
Mi chinai su di lui. Aveva gli occhi sbarrati, il viso paonazzo, la bocca
spalancata. Un attimo dopo notai quell orribile mano artigliata alla sua gola!
Non c era tempo né per il dolore né per il ribrezzo.
Scavalcai il corpo del mio amico, m impadronii delle sue pistole e tornai di
corsa in coperta: appena in tempo per vedere che dalla stiva uscivano quattro
marinai ed il negro, docile all apparenza ma con un lieve sorriso sulle labbra.
L unica cosa che mi riuscì di pensare, a quel punto, fu che Pierre era morto
poiché quell essere l aveva voluto, e che come lui erano morti tutti coloro che
avevano provato a fargli del male. Dunque, se desideravo sopravvivere, dovevo
impedire a tutti di toccarlo.
Piombai in mezzo al gruppo e sparai alle gambe del primo marinaio che mi si
parò dinanzi. L uomo crollò sul tavolato e gli altri tre indietreggiarono
disorientati. Adesso il negro era con me, libero, ma il capitano ed il secondo erano
in mano agli ammutinati.
Dovevo fare qualcosa.
«La nave è senza timone e senza comando» urlai. «Lasciate i prigionieri e
tornate alle manovre».
Gli uomini si guardarono l un l altro, incerti.
Intanto l Argos rullava e beccheggiava sempre più, ormai totalmente in balia
dell uragano che strappava via le vele non ancora imbrogliate. Il marinaio che
avevo ferito fu trascinato via da un ondata enorme.
Nessuno dei compagni l aiutò.
Erano paralizzati…
Quegli idioti dovevano decidersi. Feci scattare il cane della pistola, ostentando
una sicurezza che non avevo.
«Vi do tre secondi di tempo, prima di sparare ancora» dissi.
Sentivo attorno a me, più che vederla, la presenza dell equipaggio. In quel
momento la mia iniziativa avrebbe potuto avere come conseguenza tanto un vero
e proprio ammutinamento quanto la resa.
«Sbrigatevi a decidervi» incalzai, ben sapendo che il mio vantaggio era solo
psicologico. «La tempesta non aspetta e io neppure».
Puntai la pistola verso l alto e lasciai partire un altro colpo.
Mi piace pensare che avrei potuto farcela, a quel punto, ma andò diversamente.
«Fermi!» tuonò dal castello di poppa il terzo u ciale. «Il dottore non può far
niente da solo. E il negro è una maledizione per questa nave». Mi guardò con un
ghigno di nto sussiego ed aggiunse: «Giovanotto, se non vi fate da parte,
getteremo in mare anche voi».
L intervento del bretone m aveva distratto quel tanto che bastò perché due
marinai mi piombassero addosso e mi disarmassero, immobilizzandomi.
Tentai di divincolarmi, ma fui bloccato da un colpo di pistola.
Vidi il negro sobbalzare. Poi, dal suo ventre cominciò colare un liquido
lattiginoso che non aveva nulla a che fare con il sangue umano, ma nessuno se ne
accorse. Guardavano tutti Dolhen, che ripose la pistola ancora fumante e gridò:
«Adesso non può difendersi; forza, gettatelo in mare!».
Mentre il capitano e Laurent riprendevano i sensi, alcuni marinai si mossero per
eseguire l ordine. Ma il negro allargò le braccia, rovesciò il capo all indietro ed
emise un urlo bestiale, profondo, che salì rapidamente di tono. E presto si fece
così stridente che tutti dovemmo portarci le mani alle orecchie, pazzi di dolore.
A quel punto, sempre urlando, la creatura balzò verso il boccaporto della stiva e
lo spalancò.
Pochi secondi dopo, decine, centinaia di schiavi irruppero in coperta gridando a
loro volta. Erano armati di catene e assi di legno, ma anche di unghie, denti e
furia. Inciampavano e scivolavano sulle tavole bagnate dello scafo che rullava
impazzito sotto i colpi poderosi del mare, ma si rialzavano subito e
ricominciavano a correre per ogni dove, travolgendo uomini e cose.
Il capitano Couron, ripreso il controllo dell equipaggio, s arrestò tra l albero di
maestra e le due scialuppe di salvataggio e tentò di organizzare la difesa. Non
avevamo speranza: i nostri erano pochi, mentre da ogni angolo dell Argos
continuavano a sorgere ombre nere cariche di furia.
Ben presto dappertutto, sulla nave, fu un combattere furibondo.
Mi battei follemente anch io, incurante come tutti gli altri del fatto che molti,
avvinghiati nella lotta ed ingannati dal furioso ondeggiare del veliero, venissero
trascinati via dal mare…
Pochi minuti dopo, la coperta era ingombra di morti che rotolavano qua e là ad
ogni sussulto del vascello, no a che le onde se li portavano via ed altri li
sostituivano.
A tratti il rombo dell oceano era sovrastato da colpi di arma da fuoco e grida di
furia, di dolore, di rabbia o di morte. Ma su ogni possibile strepito si sentiva,
orribile, indescrivibile, l urlo continuo e ossessivo del negro che se ne stava sul
castello di prua, simile a un demone delle tempeste.
Non so dire quanti di noi gli si scagliarono contro con rampini, sciabole,
coltelli, dopo essersi fatti largo duramente tra una folla di corpi tumultuanti. E
non so dire quante lame e punte a ondarono nella sua carne. uello che so è che,
pur con il corpo a brandelli, la creatura non cessava di farci impazzire di odio con
il suo grido.
Il capitano e Laurent lottarono anco a anco, no a che furono travolti dalla
nera marea urlante. E così andò con Dolhen e quasi tutti i marinai. Però la
battaglia non accennò a diminuire d intensità perché, resi folli da quel grido
straniero, i negri sopravvissuti cominciarono a scagliarsi furiosamente gli uni
contro gli altri.
Anch io impazzii per l urlo inumano che continuava a tormentarmi orecchie e
cervello. Uccisi o scaraventai oltre le murate chiunque mi si avvicinasse, amico o
nemico, no a che fui colpito.
Allora caddi in ginocchio.
Con gli occhi appannati cercai la creatura. Ormai il suo corpo, devastato dai
colpi che non s era curato di evitare, aveva ben poco di umano.
Ero stanco. Smisi di difendermi.
L Inferno non poteva essere peggiore di quella nave…

***
Dapprima un freddo intenso, poi un brivido e la sensazione di avere ancora il
corpo. In ne un ria orare doloroso, controvoglia, dall abisso. E, con esso, un
male bruciante alla spalla, un pulsare furioso alle tempie.
Aprii gli occhi. Tutto era d un grigio uniforme e silenzioso, ma le orecchie
conservavano confusamente l eco di una battaglia.
Tentai di alzarmi, ma non ci riuscii. Mi rimisi giù.
Più tardi, pian piano, le ombre grigie cominciarono ad assumere dei colori,
dapprima più tenui, poi meno. In ne riacquistai la nitidezza della visione: un
misero privilegio, direi!
Il ponte era bruno di sangue rappreso e di sagome umane scure, contorte,
immobili. Il cielo era uniformemente livido. Contro di esso si stagliavano i due
alberi superstiti dell Argos, con ragnatele di cordami inutilizzabili e vele lacere
come sudari antichi.
Mi ricordai del negro: dovevo trovarlo, difendermi.
Mi alzai faticosamente e m incamminai tra i corpi riversi.
Il silenzio era opprimente. Non un alito di vento, non un onda che increspasse il
mare. Neanche lo sciabordio dell acqua lungo le murate. Eppure l Argos, o ciò che
ne restava, navigava veloce, sicuro.
Andai a poppa e mi sporsi in fuori, cercando di vedere in che condizioni fosse il
timone. I cardini arrugginiti ed incrostati di salsedine erano tutto ciò che ne
restava, eppure, sotto il cielo grigio ed uguale, la scia della nave era rettilinea no
all orizzonte.
«Com è possibile?» urlai.
Ma, anche se sentivo che la gola vibrava e doleva per lo sforzo, non udii la mia
voce.
Forse ero stato colpito alla trachea senza che me ne fossi reso conto, o forse era
tutto un incubo da cui non potevo uscire. Tornai verso l albero di maestra e mi
fermai a guardare inebetito i cadaveri disseminati ovunque. Rimasi ad osservarli
no a quando sentii di non riuscire a sopportarne la vista, poi andai ad a acciarmi
alla murata di dritta.
Silenzio, mare plumbeo, cielo grigio. Unica realtà viva, la scia bianca ed
assolutamente dritta dell Argos: un nastro teso dall orizzonte ai cardini del
timone, idealmente puntato verso l Ignoto.
Tornai a poppa pieno di disperazione, di paura, di rabbia, e m incantai a
guardare inebetito quella scia perfetta che mi trascinava implacabilmente verso
chi sa quale meta.
Ad un tratto nella traccia spumosa intravidi un ombra, poi un altra ed un altra
ancora.
Erano squali. Apparivano e sparivano rapidamente, senza farsi distanziare
troppo dal vascello. Ne contai quindici, poi venti. E presto non riuscii a tenere il
conto. Pareva che un richiamo irresistibile li attirasse dalle profondità degli abissi
alla nave.
Mi ritrassi spaventato dalla murata.
Andai nuovamente verso l albero di maestra e mi guardai intorno per
l ennesima volta. Possibile che solo io fossi sopravvissuto a quella strage? Forse
qualcuno era rimasto ferito tanto gravemente da non potersi muovere. Forse si
lamentava ed io non potevo sentirlo, chiuso com ero nel mio silenzio ovattato.
Poiché la solitudine era ciò che temevo di più in quel momento, mi aggrappai a
quella speranza ed esaminai tutti i cadaveri. Uno per uno: prima sul ponte, poi
sotto coperta.
C erano morti dappertutto, maschi e femmine. Alcuni erano pietri cati nel
terrore, altri nell odio, nel dolore, nell indi erenza o nella stanchezza. I bambini,
invece, avevano la faccia stupita e malinconica di certe bambole rotte e
dimenticate. Faceva male guardarli…
Alla ne di quell inutile pellegrinaggio mi fu chiaro che ero l unico vivo,
sull Argos. E che della creatura non c era traccia.
Pensai che fosse caduta in mare durante la battaglia e mi sdraiai in un angolo,
spossato.
La ferita doleva, le tempie pulsavano.
Da quanto tempo avevo ripreso coscienza?
Volsi lo sguardo al sole, appena un punto più chiaro oltre le nubi grigie e spesse,
ed aggrottai la fronte perplesso.
Possibile che fosse rimasto immobile da quando avevo ripreso i sensi? Sì,
possibile…
Rimasi a ssare quel disco pallido e biancastro no a che gli occhi cominciarono
a lacrimare, quindi tornai per l ennesima volta a poppa: il cielo plumbeo, il mare
piatto no all orizzonte, la scia bianca e diritta del vascello, le ombre guizzanti
degli squali…
Erano a centinaia, ormai.
Da dove venivano?
Che volevano?
Urlai di nuovo, e di nuovo non udii alcun suono.
Colpii con entrambi i pugni il bordo della murata, ma anche stavolta non udii
rumore.
In preda ad una collera feroce, a errai il cadavere più vicino e lo gettai in acqua.
Vi furono lo schia o muto del mare ed un ribollire orrendo, poi l inseguimento
dei predatori ricominciò. Forse più accanito.
Esasperato, furente, ripetei più volte la macabra operazione, sempre con il
medesimo risultato: silenzio e squali sempre più voraci e combattivi. Alla ne,
vinto dal dolore e dalla disperazione, m accucciai in un angolo e scoppiai in
singhiozzi muti.
Poi m addormentai.
Non fu un vero e proprio sonno. Fu piuttosto un doloroso dormiveglia, dal
quale mi destai s nito.
Ogni cosa era come prima: il dolore alla spalla, il pulsare delle tempie, i mucchi
di cadaveri insanguinati, la scia perfettamente dritta del vascello, la legione di
squali al suo seguito, il sole biancastro in mezzo al cielo, il silenzio.
Ero stordito, debole. Desiderai mandare giù qualcosa di forte.
Ricordai che Hermieux teneva in cabina alcune bottiglie di vino e decisi di
andarne a prendere un paio. Raggiunsi a fatica la porta del piccolo alloggio e vi
entrai. Nella sua penombra stantia c era puzza di morte, più che in coperta.
Raggiunsi a tentoni l armadietto dei liquori, ma era chiuso a chiave. A errai un
candelabro e cominciai a picchiare sulle ante: colpi furiosi di cui non udivo il
suono.
Ero in un mondo di morti: mi sforzavo di non pensarci, ma non ci riuscivo.
Era un orribile mondo di morti…
Una delle ante dell armadietto cedette. Finalmente!
Mi sporsi in avanti ed allungai la mano verso una bottiglia di Amontillado.
Non m accorsi di cosa mi stava succedendo no a che provai un dolore alla
caviglia sinistra. ualcuno la stringeva con forza. Chi se non il negro?
Tentai inutilmente di urlare, poi radunai le forze, diedi uno strattone e fuggii in
coperta, dove il debole chiarore del sole mi rasserenò un po . Avevo ancora la
sensazione di quel contatto diabolico sulla caviglia. Abbassai lo sguardo…
La mano – quella mano scura, grande, viva, tagliata di netto al polso – era
saldamente avvinghiata a me e mi stringeva il collo del piede con dita ferree.
Mi rotolai forsennatamente sul ponte, cercando di liberarmi. Poi tentai di
strapparla via con tutte le forze che mi erano rimaste, ma fu inutile. Era come
avere al piede l anello di ferro di una catena da schiavo.
Disperato, mi a acciai alla murata e guardai il mare. Adesso gli squali erano così
vicini che ne potevo vederne il muso a lato, le fauci semiaperte, per no gli occhi
piccoli e feroci.
E se mi fossi gettato in acqua?
Era meglio una morte rapida, anche se atroce, che una lunga agonia con quella
mano disgustosa avvinghiata a me. Sollevai gli occhi in cerca di qualcosa che mi
aiutasse a decidermi e sussultai.
Verso prua, all orizzonte, c era una striscia leggermente più scura.
Terra?...
Prima che avessi il tempo di chiedermelo, l orizzonte mi si presentò di nuovo
sgombro. Pensai di essermi sbagliato, ma la speranza non voleva lasciarmi ed attesi
a lungo, frastornato e dubbioso, che la striscia scura riapparisse.
Da un lato avevo bisogno di credere che la meta, una qualsiasi, fosse vicina,
dall altro ne avevo paura.
Cosa vi avrei trovato?
Cosa mi sarebbe accaduto?
Dopo un po , vidi di nuovo qualcosa fra cielo e mare, ma non era una costa. Era
una specie di arco, un cancello, una porta di luce (o di tenebre?) azzurro-violetta,
bizzarra, gigantesca. E pareva risucchiare la nave in un crescendo silenzioso e
implacabile.
Per qualche tempo ssai inebetito il varco, la soglia o qualunque altra cosa fosse,
mentre ingrandiva lentamente. Ed intanto sentivo che segnava un con ne che
non dovevo oltrepassare.
Ma come fare ad evitarlo?
Una volta di più corsi da una parte all altra del vascello, come un sorcio in
trappola. Mi a acciai a prua, a poppa, di nuovo a prua. In ne, ancora nella
speranza di intravedere una possibilità di salvezza o di soccorso, m arrampicai
sulla co a del pennone di maestra. Ma non vidi altro che squali, mare e, a prua,
quel cancello iridescente che s ingrandiva man mano che l Argos gli si avvicinava.
Tornai giù, sul ponte, sedetti accanto a una delle scialuppe di salvataggio e mi
presi la testa fra le mani, desiderando non vedere e non sentire più nulla. Ma fu
inutile, perché la mente era colma dell attesa dolorosa di ciò che sarebbe accaduto
quando l Argos fosse passato di là del varco.
Attesi… Attesi… Attesi ancora.
uando ebbi nuovamente il coraggio di tornare ad alzare lo sguardo, la nave
aveva appena oltrepassato quella strana soglia.
Guardai il sole, ma non era l astro che conoscevo da sempre. Era più grande, i
suoi raggi scottavano e la sua luce aveva ri essi inattesi. Anche il mare era diverso:
aveva un incredibile colore violetto e, pur essendo mosso, sulle sue onde non c era
un solo sbu o di spuma.
Avevo oltrepassato il con ne di ciò che conoscevo.
Andai a prua e scrutai la distesa d acqua davanti a me, sperando ancora di
vedere un isola, un lembo di terra, uno scoglio, qualunque cosa contro cui la nave
si potesse arenare. Niente.
Anzi, no. A tratti mi pareva di scorgere un puntino che s ingrandiva: una nave,
forse. Corsi nella cabina del comandante e m impadronii del cannocchiale. Pochi
istanti dopo ero di nuovo a prua, lo strumento puntato verso l oggetto lontano.
Bastò un occhiata perché la speranza di salvezza si spegnesse.
Il vascello che veniva incontro all Argos era inquietante.
Lo scafo era di uno strano metallo, lucidissimo. La velatura consisteva in
un unica, gigantesca vela argentea e la foggia della prua, alta ed a lata, ricordava
quella delle antiche navi vichinghe.
Stimai che quello strano natante fosse grande almeno nove o dieci volte più
dell Argos e navigasse ad una velocità doppia o tripla di qualunque altra
imbarcazione, sospinto, più che dalla vela immensa, da centinaia e centinaia di
remi che battevano l acqua ad un ritmo impressionante.
Una sensazione d urgente disagio mi fece volgere il capo.
Alle mie spalle, il corpo senza un segno, le braccia incrociate sul petto poderoso,
lo sguardo sso alla nave che si avvicinava, c era il negro. Dietro di lui, ritti sul
ponte, muti e stretti l uno all altro come attori sul palcoscenico alla ne di una
rappresentazione tragica, c erano un centinaio di africani e molti marinai
dell Argos.
I corpi erano straziati dalle ferite che ne avevano provocato la morte, gli occhi
ssi e privi di espressione. Erano morti, eppure si muovevano. Erano in piedi di
fronte a me, eppure non avevano bisogno di respirare.
Aspettavano...
La nave misteriosa era più vicina, adesso: a prua si distingueva chiaramente un
gruppo di guerrieri rivestiti di strane armature, ai banchi dei remi c erano
centinaia e centinaia di uomini che vogavano furiosamente.
uando nalmente i due vascelli furono anco a anco, potei constatare che
tutti i rematori erano uomini della Terra – intendo dire, provenivano di là del
Cancello – e su molti si distingueva chiaramente la ferita che li aveva uccisi.
ualche istante più tardi mi resi conto che i vogatori ai remi occupavano circa
la metà dei banchi disponibili e i marinai e i negri dell Argos avrebbero più o
meno completato la ciurma. uanto a me, immaginai che non avrei seguito
miglior sorte.
Una sola cosa doveva ancora accadere, ed accadde.
Mentre gli schiavi e la ciurma prendevano silenziosamente posto ai banchi
vuoti, colui che ci aveva catturati si volse verso di me e mi a errò saldamente alla
gola. Poi strinse.
Aspettai di morire so ocato, senza più paura, senza più dolore, ma lui guardò la
mano che ancora mi stringeva la caviglia e scosse il capo, sorridendo in un modo
che avrebbe forse dovuto essere accattivante. In ne mi indicò un posto vuoto.
Da allora sono anch io un rematore, uno schiavo, un essere senza speranza: il
mio compagno di voga è Hermieux o, almeno, ciò che resta di lui.
La mia catena è la sua mano...
Gian anco de Turris & Pier ancesco Prosperi
P R

Pastor Angelicus
Pastor et Nauta
Flos Florum
Dimidium Lunae
Labor Solis
Laus Olivae
Petrus Romanus
(Profezie di Malachia)

Vaticano, Palazzo Apostolico


ore 16
Il suo vecchio, vecchissimo corpo era disteso nel grande letto sontuoso, ma egli
quasi non ne aveva percezione. A volte gli sembrava di avvertire il peso,
l opprimente terribile peso delle coltri gravare su di lui, come a volerlo so ocare,
ma più spesso il suo spirito vagava senza meta nei meandri senza ne
dell incoscienza. Era passato, ormai, il tempo in cui il dolore gli tirava i
lineamenti, disegnando una smor a sul viso rinsecchito, incartapecorito, coperto
da una rete ttissima di rughe che si facevano più profonde intorno alle scure
cavità delle occhiaie, dove lo sguardo errava privo di ogni vitalità, e giù lungo le
guance scavate, no a intessere una lunga serie di solchi paralleli ai lati delle labbra
bianche, sottili. Era passato quel tempo e il suo sico estenuato non era più in
grado di trasmettere le violente sensazioni di dolore ai centri nervosi.
Era al di sopra del dolore, di ogni sensazione materiale, anche se vagamente
consapevole del fuoco che lo bruciava. A volte, nei rari momenti in cui la mente
emergeva dalle nebbie dell incoscienza, ritornava in lui quel costante e
inesauribile sentimento di amarezza. Ma era davvero amarezza? Era davvero
capace di sentire, di so rire quell animo esacerbato? No, forse no. Forse non era
che un ri esso condizionato, il ricordo vago e indistinto dei desideri e dei
sentimenti provati e so erti nei lunghi anni della vecchiaia. Di quello che avrebbe
potuto fare e non aveva fatto. Di quello che era stato sacrilegamente compiuto in
suo nome. Di quello che aveva dovuto subire...
Erano pensieri staccati, sconnessi, umani, che percorrevano la sua mente
intorpidita a tratti, solo quando di tanto in tanto il buio che lo avvolgeva si
schiariva lentamente, sino a divenire un chiarore opaco, anonimo. A volte,
quando questi intervalli di semi-lucidità mentale e sica duravano più a lungo, la
visione si faceva più de nita e lui riusciva a scorgere nel chiarore delle macchie di
colore diverso, immerse in una oca opacità. Forme vaghe, uttuanti eppur
immobili. Fluttuanti, perché era il suo sguardo a vacillare. Una volta, una sola
volta, riuscì a metterle a fuoco, sino al punto di riconoscere in quelle macchie
oscillanti delle facce, dei volti disposti intorno a lui. Ma non sarebbe mai più
tornato in sé al punto di riconoscere quei volti, né di capire cosa faceva tutta
quella gente al suo capezzale, né di scoprire su quei volti la tensione, il dolore, lo
smarrimento, la paura, l attesa.

Vaticano, Cappella Sistina


ore 16.10
Il pavimento della Sistina recava chiari i segni del tempo. Ma di tempo ne era
passato tanto, pensava il Segretario di Stato passeggiando su e giù lungo la parete
destra della Cappella, e mai come dopo quegli ultimi anni si era mostrato così
aggressivo. Già, quegli ultimi anni...
Il fruscio delle sue vesti sull impiantito era l unico rumore, là dentro.
Camminava a passi lenti e stanchi, come misurati, il capo chino sul petto e le
braccia conserte. La Cappella era immersa nella penombra. Solo le due lampade
centrali erano accese e proiettavano, sdoppiata sul pavimento e sulle pareti,
l ombra del vecchio che camminava. Erano ombre lunghe, tetre come mai si erano
viste là. O era l atmosfera che regnava a farle sembrare così?
Era vecchio, monsignor Palchetti. Non come Sua Santità. Solo qualche anno di
meno. Il tempo sembrava aver passato più leggermente la mano sulla sua persona
una volta alta e imponente, ma anch egli sentiva, lento, inesorabile, dietro di lui, il
passo della morte. E ogni volta che questo pensiero gli traversava la mente, subito
un altro lo seguiva, a breve distanza. Sempre. E dopo, Signore Onnipotente?
Era giunto in fondo alla Cappella, a anco dell altare. Si fermò di scatto e alzò il
capo a guardare in alto. E rimase lì, a braccia incrociate, immobile, a ssare
l immensa distesa del Giudizio Universale. Ogni volta che lo faceva, non poteva
fare a meno di scuotere la testa, socchiudendo gli occhi come a ricordare gli anni
in cui il gigantesco dipinto era ancora, grazie ai laboriosissimi pazienti restauri,
integro e terribile, quasi come quando Michelangelo l aveva terminato, cinque
secoli prima.
Guardò l immensa crepa che si apriva nel gruppo dei Beati e s orava la gura
scolorita e deturpata del Cristo, per scendere diagonalmente no a incontrare
l angolo inferiore sinistro dell a resco. E, come sempre, cercò di resistere alla
tentazione di alzare la testa e guardare la volta. Come sempre, sapeva esattamente
cosa avrebbe visto. Ma non poté resistere.
E anche adesso provò una stretta al cuore. La parte centrale del grande dipinto
del Buonarroti era crollata ma, rispetto all ultima volta che l aveva visto, l a resco
non aveva subito altri deterioramenti. Della scena della Creazione dell Uomo non
restava che un angolo della bellissima testa di Adamo, e come sempre la vista della
serie di crepe che copriva il volto del Signore nella Creazione degli Animali gli
dette quel vago, inquietante sapore di sacrilegio, quasi di premonizione.
Fissò lo sguardo sul corpo tornito del Profeta Giona, all estremità del dipinto, e
rimase a ssarlo mentre il suo cuore esprimeva la solita muta domanda: Perché?

Roma, Via Vanini 11


ore 16.25
La donna guardò la tazza di terraglia screpolata scivolata giù dal fornello e il
latte che colava a terra lungo gli sportelli anneriti della cucina a gas. Alzò le spalle.
Non ne aveva altre in casa, e non se la sentiva di tornar giù, per i dieci piani senza
ascensore del palazzo, a fare la coda nella bottega del pizzicagnolo, a respirare
magari per un ora quell aria as ssiante satura di formaggio e prosciutto
invecchiato.
Guardò la vecchia pendola appesa al centro della parete umida. Lentamente
spense il fornello e rimase un lungo minuto a sentire l odore del gas che
fuoriusciva dalle condutture che perdevano. uella sera avrebbe chiesto a suo
marito di ripararlo. Ci sarebbero voluti dei giorni prima di riuscire a farsi
mandare a casa un operaio.
Uscì dalla cucina, passò accanto alla porta del bagno ed entrò nell ultima stanza
dell appartamento, il salotto-stanza da letto. Chiuse il letto di suo glio, che era
fuori, a lezione, trasformandolo in divano, e accese il televisore.
Come sempre, lo schermo fu invaso dalla “nebbia” e solcato da righe e striature.
Come sempre, dovette regolare la sintonia e la luminosità, prima di ottenere
un immagine stabile per quanto sfocata. Il chiarore si sparse nella stanza buia e
stretta.
Solo allora sedette sul divano. L apparecchio ronzava e schiava. Il tono non era
a posto, ma la donna non si alzò a regolarlo. La sigla del telegiornale stava
terminando.
«Roma» disse l annunciatore con tono errato. «Secondo dichiarazioni
u ciose dei medici curanti, le condizioni del Ponte ce permangono stazionarie.
Dopo l attacco della scorsa notte e la susseguente crisi che lo aveva prostrato, si è
avuto nella mattinata un leggero miglioramento. Non sembra però che ciò possa
far sperare in una prossima ripresa del sico di Sua Santità, ormai giunto allo
stremo. Pertanto, i medici dichiarano che lo stato del Papa debba tuttora
considerarsi gravissimo».
L immagine cambiò. L annunciatore stava leggendo altre notizie, ma la donna
non lo sentiva. Lentamente, quasi senza accorgersene, era scivolata giù dal divano,
sul pavimento sporco e sconnesso, le mani strettamente intrecciate. Pregava. E
qualcosa le diceva di fare presto. Presto, perché forse non ci sarebbe stato più
tempo.

Luna, Oceano delle Tempeste, Stazione Uno


ore 16.50 (ora di Roma)
Un meteorite brillò per un istante all ultimo raggio del Sole, che stava
scomparendo dietro i picchi marginali dell Oceano delle Tempeste; poi
scomparve nelle tenebre, prima di colpire il terreno, da cui si sollevò un lieve
spruzzo di polvere.
Il Coordinatore guardò fuori. Attraverso i doppi vetri a tenuta, la scon nata
distesa di polvere bianco-giallastra aveva un che di spettrale, di ostile, di avverso.
Non è un paesaggio creato per l Uomo, andava ripetendosi ogni “mattina” il
Coordinatore, quando la luce solare inondava l Oceano delle Tempeste e
proiettava lontano, secche, scheletriche, le ombre dei picchi del margine, ombre
nude e nerissime in quel mondo senza penombra. E ora là fuori, nel gelo senz aria,
era cominciata la notte lunare.
«Il Mercantile 018 chiede conferma della sua posizione» disse alle sue spalle il
Radioperatore (il termine “Marconista” era stato abolito diversi anni prima).
«Mercantile 018». Un sospiro stanco scosse il volto del Coordinatore, mentre
si chinava a cercare fra le registrazioni. «Mercantile 018... Mercantile 018... Sì,
registrato dieci minuti fa. Ecco la posizione».
Sempre così, pensò, mentre il Radioperatore trasmetteva le coordinate al
mercantile. Sempre così, ora dopo ora, giorno dopo giorno, per interminabili,
assurde settimane di luce e di oscurità. Mercantile 018... Astromisto 013...
Astronave militare D 23... Scorreva le ultime registrazioni. Sarebbe stato sempre
così.
Il suo sguardo corse sulle pareti nude della minuscola cabina. I termoregolatori
dovevano essere fuori fase. I condizionatori-ricambiatori d aria lavoravano a
ritmo serrato, ma ugualmente si sentiva all interno l aria viziata e l odore dei tre
corpi sudati.
Il secondo Radioperatore stava terminando il suo turno di riposo. Succhiò le
ultime gocce dalla bottiglietta di luppolo fermentato. Poi la depose in un caos di
strumenti e di carte, sul piano del tavolo centrale.
«Non ce n è un altra?» chiese.
«Era l ultima della sua scorta» disse il primo Radioperatore.
L altro so ocò a metà un imprecazione: «Niente più “birra” no al prossimo
rifornimento» mormorò, come parlando a se stesso. «Tre giorni senza niente da
bere che non sia quella schifosa acqua ltrata e ri ltrata».
«Radioperatore 2». La voce del Coordinatore era senza in essione. «Sapete
quanto pesa una bottiglia di “birra”?».
«Sì, maledizione. Cinquecentoventidue grammi. E adesso chiedetemi se so
quante tonnellate di carburante occorrono per trasportarla quassù. Non lo so e
non me ne importa un co».
L altro Radioperatore lo stava guardando.
«Fate male a parlare così, Radioperatore 2» disse con voce atona il
Coordinatore.
«Non vorrete mica fare rapporto per questa stupidaggine?».
«Chi lo sa?». Il Coordinatore si volse indietro. uello che si leggeva negli
occhi del Radioperatore 2 era odio. Odio puro.
Un crepitio secco proruppe dall altoparlante principale. Il Coordinatore si
a rettò a regolare il volume.
«Terra a Stazione Uno. Ricevete? Terra a Stazione Uno».
«Riceviamo. Stazione Uno a Terra. Proseguite».
«Nelle prossime tre ore un Mercantile e due Spaziocorvette. L arrivo del
Mercantile è previsto fra ventiquattro minuti. Probabilmente una delle
Spaziocorvette punterà sulla Stazione Due, mancano dati precisi in proposito».
«Ricevuto. Altro?».
«Nient altro». Una pausa. Il tono si fece meno freddo: «Come va lassù,
amici?».
«Tutto regolare». La voce del Coordinatore era sempre incolore. «Notizie
importanti da segnalare?».
«Bah... Non credo. L unica la saprete già. Il Papa sta morendo».
«Grazie. Passo e chiudo».
«Fine del collegamento».
Il crepitio si attenuò e si spense. Le spie, però, rimasero accese.
Poi, d improvviso, il Coordinatore rise, mettendo in mostra una la di denti
forti e candidi. Più che riso schietto, era una larga sghignazzata. Mentre rideva,
guardava tra gli occhi socchiusi i due radioperatori. I volti erano tesi. Le labbra
livide.
Sapeva che lo odiavano. E che non potevano fargli niente. Poi divenne serio e li
guardò di nuovo. Fisso. Negli occhi.
«Voi ed io saremo sempre diversi» disse a voce bassa, quasi in un sibilo roco e
rabbioso. «Non potremo mai intenderci».
L altoparlante crepitò di nuovo.
«Stazione Due a Stazione Uno».
«Riceviamo».
«Segnalata un esplosione a dodici chilometri da qui, all estremità meridionale
del cratere Archimedes. Abbiamo ragione di credere che si tratti di una
Spaziocorvetta».
Il Coordinatore si passò la lingua sulle labbra.
«Bloccate la notizia. Nei registri u ciali la Spaziocorvetta risulterà in
riparazione per avaria».
Gli altri non risposero. La comunicazione cessò e si fece silenzio.
Poi parlò il Radioperatore 2. La sua voce era be ardamente amara: «Le nostre
astronavi non esplodono mai, vero? Cosa direte ai familiari degli uomini
dell equipaggio?».
II Coordinatore si voltò a guardarlo. L odio era anche nei suoi occhi, ora.
«Non potremo mai intenderci» sibilò ancora. «Non tanto perché io sono un
Coordinatore e voi due semplici ottusi radioperatori. Ma per un altra ragione.
Perché io sono russo. E voi no».

Roma, Piazza San Pietro


ore 17.04
Il Sole, calando, aveva già oscurato buona parte della piazza. L ombra
dell Obelisco si allungava sull immenso circolo e avanzava lentamente, come un
cuneo smisurato. Tra i colonnati del Bernini, vicino alle due fontane, poche
persone. Altre si muovevano lentamente alla base dell obelisco. Tutti guardavano
verso il Palazzo Apostolico, verso la nestra in alto, sulla destra del massiccio
edi cio.
Uno sparuto gruppetto era riunito intorno a un tale che teneva una radiolina
poggiata all orecchio. La ricezione era disturbata, le parole si confondevano. A
poco a poco, altre persone si riunirono là sulla piazza, di fronte alla cupola
enorme, massiccia, all immensa basilica silenziosa.
Lentamente la folla s ingrossava. E tutti guardavano verso il palazzo. Ansia sui
loro volti. E paura. Ogni tanto qualcuno sbirciava in silenzio verso il colonnato e
le vie adiacenti, come aspettandosi ciò che nessuno osava dire.

Roma, una so tta di Via Margutta


ore 17. 05
«Sono dieci giorni che sono qui» disse l uomo, rivolto alla ragazza. «Non
posso continuare a nascondermi ancora».
Era sulla trentina. Aveva la barba lunga e i vestiti lisi. Alla sua destra era il
comodino, con un portacenere pieno di cicche. Alla sua sinistra la ragazza –
bellissima con i capelli sciolti, lunghi e biondi, il viso dolce –, coperta solo dal
lenzuolo.
«Perché?» gli chiese, semplicemente.
Dall altra sponda del letto, un fonografo vecchio e malandato si era spento e
frusciava a vuoto.
Si prese la testa fra le mani: «Mi cercano. Mi troveranno in ogni caso. Io mi
nascondo e sto con te. Là fuori il Papa muore».
Lei sporse il braccio nudo e cambiò il disco di plastica; era una canzone antica,
ma bella, forse proprio per questo. Abbassò un po il volume: era musica proibita.
«Mi lasci, dunque. Non ti piaccio?».
Turbato, si curvò su di lei e le prese il volto tra le mani. «No. Non dire così. È la
solita frase di tutte, quando vogliono avere ragione». La carezzò. «Ma ora non è
così». Bruscamente, si mise a sedere sul letto. «Cerca di capirmi, vuoi? Sono
braccato e qualcuno mi tradirà. Se resto qui, rimando tutto al massimo di due, tre
giorni». Convulsamente, le prese la mano. «Io cerco di non pensare a quello che
succede fuori...».
Si staccò da lei e si diresse alla piccola nestra dai vetri impolverati. La spalancò:
tetti, lontano Piazza del Popolo. uasi nessun rumore. La ragazza si era messa a
sedere e i capelli le circondavano il volto, scendendo sulle bianche spalle scoperte.
Taceva.
«Guarda, la città piange. Roma è muta. Roma aspetta. Tutti aspettano, io solo
sto qua». La guardò. «Devo andare, per forza».
Si diresse in un angolo e s in lò una giacca rattoppata. Il grammofono ansimava
su di un disco screpolato. Si avvicinò al letto e la baciò. Lei gli gettò le braccia al
collo e lo strinse forte, come a volerlo trattenere in un abbraccio senza tempo. Lui
si staccò, facendo forza a se stesso.
Vicino alla porta prese il cappello, il cavalletto, la tela e la valigetta dei colori.
Avrebbe fatto il suo ultimo quadro proibito: un quadro della Basilica di San
Pietro.
Era sempre stata una ragazza di poche parole. uando lui chiuse la porta, disse
solo: «Ciao». Ma aveva gli occhi umidi, e subito dopo nascose il volto contro il
cuscino. La puntina del grammofono girava nuovamente a vuoto.

Roma, Piazza del Popolo


ore 17.11
La piazza non era molto a ollata: parecchie persone a piedi; alcuni mezzi
pubblici stracarichi. Diverse guardie. La fontana al centro non funzionava e i
quattro leoni sembravano quasi nudi, senza il solito getto d acqua.
«Via Rivoluzione d Ottobre» disse il piccoletto coi ba al tassista.
La macchina si avviò, traballando. L autista scrutò con interesse, nel retrovisore,
i lineamenti del passeggero, rannicchiato nel sedile posteriore.
«Sapete» disse, in tono con denziale, «mi hanno detto che il Papa è morto».
L ometto trasalì visibilmente, ricomponendosi quasi subito. Ma non riuscì a
trattenere un esclamazione.
«Gesù!» disse, stringendosi le mani. «Gesù. Siete sicuro che sia vero?».
L autista sorrise nello specchietto.
«No» disse, spegnendo il magnetofono del cruscotto. «Non è vero. Volevo
solo vedere la vostra reazione».

Vaticano, Palazzo Apostolico


ore 17.20
Il Segretario Particolare era ritto accanto al capezzale del Ponte ce, immobile,
ieratico. La luce oca della camera faceva risaltare la gura esile, i suoi lineamenti
chiaramente orientali. Il Segretario del Sant U zio era accanto a lui, e insieme
agli altri prelati teneva lo sguardo sso al volto di Sua Santità.
Il Papa aveva mosso una mano. Un movimento lieve, appena percettibile. Forse
solo un tremito. uante ore di so erenza gli restano?, si chiese con angoscia il
Segretario del Sant U zio.
La poca luce scavava solchi d ombra sul volto del vecchio, crudelmente marcato
dagli anni e dalla malattia. Ricordò l ultima volta che il Santo Padre era apparso al
balcone, allargando le sue scarne braccia a benedire i fedeli che, quasi
furtivamente, si erano riuniti in Piazza San Pietro. Recava già i segni della morte
sul viso.
Aveva sperato che potesse vivere ancora qualche mese. Poi, il peggioramento,
rapido quanto inaspettato.
Lo sguardo di monsignor Siccoli, Segretario del Sant U zio, si spostò dal volto
di Sua Santità a quello, impassibile, del Segretario Particolare. Scese lungo le
braccia conserte, no a posarsi sulle lunghe mani sottili dalle dita a usolate, e qui
indugiò. E fu in quell attimo che il sospetto, orrendo, tremendo, quasi blasfemo,
balenò alle soglie della sua mente. Un solo attimo, e l istante successivo il sospetto
era ricacciato con un brivido di terrore nelle profondità dell animo, mentre si
biasimava per aver potuto pensare a una cosa così orribile.
Eppure, considerò con un acuto senso di dolore, era certo che il sospetto sarebbe
tornato.

Roma, Pincio
ore 17.23
Anche se l ora non era tarda, poca gente si trovava nei giardini del Pincio. I prati
erano coperti di foglie secche ed erbacce, e così i vialetti. Mentre passavano vicino
al Monumento alla Rivoluzione, eretto al posto del vecchio e inutile orologio ad
acqua, tirò fuori dalla tasca la radiolina e l accese: solo musica. Non dicevano
niente sulla malattia; i comunicati di «famosi medici venuti appositamente
dall estero» erano su cienti. Guardò accanto a sé, ma lei sembrava assorta e non
diceva nulla.
Da parecchi anni, ormai, i busti marmorei lungo i viali e le siepi erano stati
sostituiti da altri, più nuovi, più belli, più attuali. Le panchine erano state tolte e
poche erano le persone che passeggiavano frettolose.
Non era mai stato un grande credente, in fondo in fondo, ma in quei momenti
angosciosi per tutti si sentiva molto turbato e spesso si sorprendeva a pensare a
quello che sarebbe accaduto dopo. Sembrava che ogni cosa (lui, l Italia, la politica,
il mondo, un idea, una credenza, il passato e il futuro) stesse in bilico su un abisso
di cui non riusciva a vedere il fondo. Andare avanti? Tornare indietro? Cosa si
poteva fare? Ma si poteva fare qualcosa, veramente? O si era già arrivati ad un
punto morto? Strano, non aveva mai pensato a certe cose, o non se n era mai
curato.
Forse era la situazione che in uenzava il suo stato d animo – così come,
sembrava, quello di ognuno. La città era silenziosa, assorta, come in attesa di
qualcosa.
Solamente lei non se ne preoccupava.

Vaticano, Cappella Sistina


ore 17.30
II Segretario di Stato esitò a lungo sulla soglia della Sistina.
Pensava all ultimo conclave. Era stato certo uno dei più brevi della storia del
papato. Erano trascorsi quattro anni, ma il ricordo rimaneva vivissimo e presente
in lui. Poteva rivedere come reali i tronetti dei cardinali, le urne, i tavoli per le
votazioni, le schede.
«Eligo in Ponte cem Maximum…». Tutti sapevano chi sarebbe stato scelto.
Era anziano ormai, e nella sua lunga vita aveva veduto molte traversie, che con
l aiuto di Dio erano sempre state superate dalla Chiesa. uella volta, però, si
erano dimostrati deboli, irrimediabilmente deboli, e non avevano saputo opporsi.
Tutti. Sembrava di essere tornati ai tempi dell Impero Asburgico. Ma ormai era
tardi per recriminare.
Scosse il capo, cercando di trattenere una lacrima. Era terribile trovarsi così,
senza una speranza, una soluzione. Nulla, al di fuori della Fede... Nulla.
Chiuse il portone, in silenzio.
Si avviò verso il cortile di San Damaso. Da un momento all altro si aspettava di
vedere qualcuno mandato a chiamarlo, a dargli l annunzio. Di nuovo quel
pensiero: E dopo?
Avrebbe dovuto essere anche lui in quella camera, accanto a quel letto. Ma non
poteva. Sentiva che il suo cuore non avrebbe retto.
Al di là del muro alla sua sinistra poteva indovinare, pur senza vederlo, lo stato
di abbandono e caos dei Giardini Vaticani, delle magni che, bellissime aiuole che
erano sempre state meticolosamente curate, no al giorno dell abolizione del
Concordato.

Roma, Piazza Navona


ore 17.41
Un uomo dagli abiti laceri e rattoppati era seduto sui gradini della chiesa di
Sant Agnese. Il suo sguardo era perduto nella contemplazione del vuoto che si
apriva al posto della fontana dei umi, dove pochi giorni dopo sarebbe sorta la
prima parte del Mercato Popolare. Poi sarebbe toccato alle altre due. «Una piazza
del genere sembra fatta apposta per un MP», avevano detto. Avevano detto
proprio così.
Una donna salì a capo basso gli scalini, zoppicando. Si fermò di fronte al
massiccio portone di legno: provò a spingere. Rimase un minuto immobile lì
davanti, come in attesa che si aprisse.
Aspettò inutilmente. uando tornò a scendere gli scalini, lo stupore aleggiava
ancora sul suo volto magro.
«Non lo sapete?» le disse l uomo, passandole accanto. «La chiesa è stata chiusa
ieri per restauri. Dicono».
Una folata di vento freddo passò per la piazza, che sembrava stranamente vuota.

Roma, Lungotevere Marzio


ore 17.45
Il poliziotto camminava lungo il marciapiede che costeggiava il ume. Era
assorto, e molti pensieri passavano per la sua mente. Guardandosi distrattamente
intorno, notò i piloni della Monorotaia; sorgevano, gli avevano detto, al posto dei
platani, abbattuti molto tempo prima. Purtroppo al Corso non lo avevano
istruito sulla storia degli anni precedenti. Certamente Roma era stata trasformata.
Proseguendo nel suo giro, notò che la gente era più numerosa del solito e si
avviava tutta nella medesima direzione. uella sera non si fermava quasi nessuno
lungo i parapetti del ume, protetti da reticolati alti due metri. Era l unico
rimedio e cace contro le “disgrazie” che si veri cavano continuamente.

Roma, Piazza San Pietro


ore 17.50
Sotto il colonnato, intorno alla fontana e all obelisco, vicino ai gradini,
nereggiava la folla. Non ce n era tanta come nei decenni passati, non ci sarebbe
mai più stata la folla strabocchevole di Piazza San Pietro, quando dall alto era
impossibile vedere un centimetro quadrato di terreno. Ma era pur sempre una
folla numerosa.
E non urlava, non gridava come quella di tanti anni prima. Un mormorio
correva lungo i capannelli di gente, basso, so ocato, trattenuto.
Le radio tascabili erano decine. Tutti gli sguardi erano tesi verso il palazzo. Era
sera ormai, il vento spazzava la piazza, sulla gran mole si vedeva benissimo il
chiarore della nestra illuminata.
Le ombre stavano per scendere sul colonnato del Bernini. Pian piano, a piccoli
gruppi, alla spicciolata, la gente continuava ad a uire, abbandonando, almeno
per quel momento, ogni circospezione.
Poi si sentirono le sirene.
Neri come grossi scarafaggi, lungo Via della Classe Operaia (già Via della
Conciliazione), arrivavano ululando i furgoni della Polizia con gli idranti.

Roma, Piazza Venezia


ore 17.59
Era trascorso quasi un quarto d ora da quando aveva premuto il pulsante del
campanello di chiusura, per avvisare i visitatori; ma sapeva benissimo che avrebbe
potuto chiudere le porte del Museo anche subito, dato che i visitatori si potevano
contare sulle dita di una mano. uasi nessuno veniva ad ammirare le glorie e i
trofei della Nuova Italia. Chissà perché, gli italiani non nutrivano alcuna passione
per certe cose.
Nel suo Paese era tutto diverso; i cittadini riempivano a frotte i reliquari. Ma
forse era anche a causa della costruzione in se stessa che ospitava il Museo. È vero
che i bravi architetti della Piccola Madre l avevano modi cato nelle
sovrastrutture, ma la forma generale era sempre quella, massiccia e brutta, tutta
bianca. Gli avevano detto com era chiamata anticamente, ma non se ne ricordava.
Premette col dito il bottone e all esterno le porte si chiusero.
Il Museo che prima si chiamava... che prima... Oh, sì, Vittoriale.

Vaticano, Palazzo Apostolico


ore 18.00
Le coltri non pesavano più, ormai, sul corpo s nito. Un placido torpore stava
di ondendosi in ogni sua bra e una strana calma impastava la sua mente, del
tutto annebbiata. Ora il fuoco che lo bruciava dentro, nel più profondo intimo,
quel fuoco che improvviso lo aveva consumato poco alla volta, silenziosamente e
misteriosamente, stava per compiere l opera.
Si sentiva scivolare pian piano in un oceano senza con ni. Intorno a lui non
c era che buio. Il suo occhio spento non riusciva più a vedere. Le macchie di
colore erano scomparse dalla sua percezione.
uand ecco che, improvvisa, tornò di colpo quella sensazione amara. Per un
brevissimo, eppure interminabile, momento agghiacciante si sentì tornato lucido
e l orrore della situazione, di passato, presente e futuro, si presentò interamente al
suo animo sconvolto. Fu un attimo, uno solo. Ma, prima di ripiombare
nell immobilità de nitiva, il suo corpo si scosse, cercò di muoversi, e un ultimo
fremito lo percorse. Lungo la gola martoriata un grido cercò di salire, di farsi
strada, di prorompere: «Signore, Dio grande e buono. Signore Onnipotente!».

Vaticano, Palazzo Apostolico


ore 18.01
Il corpo di Sua Santità ebbe un nuovo fremito. Le labbra sottili si schiusero. Un
gemito evole, prolungato, quasi un lungo sospiro doloroso.
Si sarebbe quasi detto che il Papa stesse cercando di parlare.
Senza rendersene conto, il Segretario del Sant U zio scostò bruscamente il
Segretario Particolare e si chinò sull infermo, a cogliere il suo ultimo lamento. Il
volto del Santo Padre era ricomposto, quasi sereno. La bocca era rimasta
semiaperta, lo sguardo vacillante si era arrestato.

Roma, Terrazza del Pincio


ore 18.20
Da parecchio tempo erano a acciati alla terrazza, soli. Avevano parlato poco
quel pomeriggio; lei sembrava nervosa. Ogni tanto lui accendeva la radio, ma i
comunicati erano molto radi.
Il Sole era giunto quasi alla ne del suo tragitto, e stava in bilico dietro le
travature d acciaio del nuovo ponte che, ormai da molti anni, aveva sostituito il
vecchio ponte Regina Margherita. Da tutta la città sembrava esalare una
sensazione di squallore che saliva piano a investirlo, come una cosa tangibile.
Passò il braccio intorno alle spalle di lei, ma la sentiva sempre più distaccata e
fredda. Allora accese la radio, poggiata sul muretto poco distante dal suo gomito.
Ci fu qualche sibilo, poi della musica, che d improvviso s interruppe.
«Roma. La Segreteria del Sant U zio comunica che Sua Santità il Ponte ce si
è spento nella sua camera del Palazzo Apostolico in Vaticano alle 18.01».
Bruscamente girò la manopola. E così, era nita. Dunque, era per davvero nita.
Forse proprio per il fatto di non essersi mai occupato di certi problemi, ne
sentiva ora tutta la gravità. Congiunse le mani sul muretto e vi appoggiò la fronte
sopra. ualcosa gli urlava nella mente. Si sentiva confuso.
Stridettero i freni di una macchina dietro di lui, nel viale.
Guardò accanto, e lei non c era. Si voltò e trasalì.
Gli sfuggì un gemito ed ebbe un brusco scatto. Urtò la radio col gomito, e
questa cadde roteando nel vuoto, la cinghietta sventolante, sino a sfasciarsi nel
viale sottostante, deserto.
Si volse di scatto verso la città. Il tramonto era rosso, violento, e le nuvole
ammeggiavano. Alla sua sinistra in fondo si vedeva benissimo la mole bianca del
Museo e dietro il Campidoglio, con in cima, alta, maestosa, sferzante, la bandiera,
i cui colori si confondevano col tramonto.
Ebbe un moto di ribellione, ma durò solo un attimo. Ma poi, cosa poteva fare?
Era tutto nito.
A capo chino, trascinando i piedi, le mani a ondate nelle tasche del vestito
stazzonato, si diresse verso il furgone nero che lo aspettava.
Lei era a anco del furgone, e fumava una sigaretta. Il suo sguardo era freddo,
indi erente, ostile.

Roma, Via Vanini 11


ore 18.25
Il televisore era ancora acceso, e stava per terminare il documentario che
illustrava i progressi compiuti nel campo dell agricoltura. In cucina, la donna
aveva ripulito il pavimento dal latte, e niva di preparare la cena.
Tornò a guardare la pendola. Mancava ancora un ora al rientro di suo glio dal
Corso Serale di Educazione Sociale. Suo marito, invece, sarebbe tornato soltanto
a sera inoltrata. Da un po di tempo faceva sempre gli straordinari e restava in
u cio sino a tardi.
Decise che quella sera avrebbe fatto a meno del latte.
Tornò nel salotto-camera da letto nello stesso istante in cui appariva il volto
dell annunciatore.
«Roma. La Segreteria del Sant U zio comunica che il Ponte ce di Santa
Romana Chiesa Pietro II si è spento nella sua camera del Palazzo Apostolico in
Vaticano alle 18.01».
La donna rimase immobile a ssare lo schermo opaco, mentre le parole
continuavano a uire dall apparecchio.
«Un portavoce del Governo ha annunziato che, in base all Accordo Provvisorio
del 21 dicembre 2008, la parte degli edi ci vaticani temporaneamente lasciati
all amministrazione del Ponte ce sarà incorporata nel territorio della Repubblica
Popolare Italiana».
Ma la donna non sentiva più. Era ritta davanti alla nestra a guardare fuori.
ualcosa le serrava la gola.
Il Sole scendeva dietro Trinità dei Monti, mentre alcuni operai stavano
avvicinando all Obelisco una lunga scala.
Forse per levare già la croce, su in cima.
(1963-1964)
Mario Farneti
R P

La piccola Cornelia si tu ò nella piscina della grande villa di famiglia nell Agro
Romano. Rideva felice, mentre il fratellino lanciava in acqua un cavalluccio
marino di pasta vitrea, che lei si divertiva a recuperare sul fondo. Le chiome
bionde erano tutt uno con la super cie liquida sulla quale il sole giocava, creando
ine abili ri essi dorati. Anche il fratellino si tu ò e Cornelia lo abbracciò,
donandogli il cavalluccio di vetro.
Per un giorno…
E per tutta la vita…

1
Il cellulare vibrò a lungo prima che Lucio si svegliasse.
Era ricomparso l incubo che lo assillava da ormai una settimana: una fanciulla
dalle chiome biondo platino, il viso ovale e gli occhi cerulei, veniva trasportata
con una tunica bianca, in una macabra processione, su una lettiga chiusa da teli
neri e quindi fatta entrare in una tomba a camera dopo essere stata fustigata da un
uomo corpulento con una lorica di cuoio. Lo stesso uomo le consegnava un tozzo
di pane e una brocca d acqua, poi veniva murata viva, senza una parola né un
lamento.
Lucio si faceva largo tra la folla per liberarla, ma un omaccione armato di una
grossa spada si preparava a colpirlo. Poi più nulla, se non una cantilena assordante
che gli trapanava il cervello… il cicalino dello smartphone che trillava nel buio.
«Ma checcazz…!».
Prese la bottiglietta d acqua che teneva sul comodino e, prima di rispondere, si
sciacquò la bocca impastata.
Pensò si trattasse di quel rompiballe del caporedattore che, in piena emergenza
coronavirus, lo richiamava in servizio per chissà quale maledetto motivo.
Prese in mano il cellulare, guardò lo schermo. Gli ci volle un po per mettere a
fuoco: «Parelio».
Cazzo, Parelio, pensò, è il nome in codice della Compagnia.
Strisciò col pollice sull icona verde e la voce di un giovane rispose dall altra
parte: «Agente Nebula, le passo il Comandante Alfa».
Nebula era il suo nome in codice: le poche volte che lo aveva sentito ripetere
c erano sempre stati grossi guai.
Una voce di donna, quella del Comandante Alfa, parlò senza preamboli né
dandogli tempo di replicare: «Agente Nebula, è convocato tra mezz ora alla Base
Amaranto. Il suo stato è Operativo 5. U cialmente, lei è a etto da coronavirus,
abbiamo già trasmesso gli esami del tampone al suo giornale. Verrà trasferito allo
Spallanzani… dove naturalmente non giungerà mai. Sotto casa, ad attenderla, c è
un autovettura della Compagnia. Si vesta in fretta e scenda subito. Buongiorno».
Il Comandante Alfa interruppe la comunicazione.
Lucio ripensò alla Compagnia, che altro non era se non l organizzazione Ensis,
e a come era stato reclutato, cinque anni prima. Lo avevano avvicinato alcuni
colleghi in un momento di necessità economica e gli avevano promesso un
compenso mensile di cinquemila dollari su un conto o -shore. Dopo aver
accettato, era stato condotto in una base segreta nell Italia del Nord-Est, dov era
stato addestrato all uso delle armi, ma non aveva mai conosciuto di persona
l enigmatica Comandante Alfa.
All inizio della pandemia la Compagnia, come la chiamavano in codice, lo
aveva invitato a seguire un corso in un laboratorio segreto in Tailandia, dove aveva
appreso che il virus che aveva infestato mezzo mondo era un arma biologica del
governo cinese, cui non fregava nulla di sacri care qualche migliaio di cittadini
sull altare del comunismo.
La Ensis era un organizzazione segreta creata già negli anni Ottanta da una rete
di patrioti pronti ad assumere il potere in Italia in caso di necessità.
Ingoiò una capsula di Novid, un costoso medicinale russo che aveva la capacità
d immunizzare per ventiquattro ore dal coronavirus e dalle sue mutazioni, poi si
vestì in fretta.

2
Aprì lo sportello posteriore della monovolume Chevrolet nero gra te coi vetri
oscurati e si accomodò dietro.
L autovettura sgommò sull asfalto e si diresse alla Base Amaranto, attraversando
le strade della capitale completamente vuote. Tutta la popolazione sopravvissuta
al virus era in quarantena forzata. Chi tentava di uscire di casa veniva subito
arrestato; molto spesso, se ne perdevano le tracce. La Giunta di Sanità Pubblica
che da sei mesi aveva ormai sostituito il governo era comandata dal virologo
Antimo Diodati. Gli appartenenti alla Milizia di Sanità Pubblica erano soliti
eliminare le persone infette, piuttosto che lasciar di ondere il contagio o
spendere soldi per l assistenza.
Di anco a Lucio c era un contractor armato di fucile M4-SOPMOD silenziato
e me sto nero, mentre un altro era sul sedile anteriore. Incapparono in un posto
di blocco della Milizia che intimò l alt, ma i due contractor aprirono il fuoco con
le armi automatiche, prima che i miliziani potessero reagire.
L auto procedette velocissima lungo la Via Ostiense, tra i cadaveri abbandonati
in strada dei malcapitati fulminati dal Covid-20, la mutazione maligna del
coronavirus che uccideva gli infettati in due ore; poi, a un incrocio voltò a destra e
si addentrò in una pineta. Si fermò davanti al cancello di un villino, che si aprì
automaticamente, e scese lungo la rampa.
Il villino era una copertura che celava un bunker in cemento armato di quasi
mezzo ettaro, a trenta metri di profondità.
Uno dei due contractor si rivolse a lui: «Agente Nebula, raggiunga la sua
squadra e si tenga pronto per il brie ng tra venticinque minuti esatti. Ah, prima
passi in infermeria per il vaccino».
«Vaccino?».
«Sì, certo, il vaccino per il Covid-20…».
Ma che cazzo, pensò, questi hanno già il vaccino, chi glielo avrà dato…?
«Glielo abbiamo dato noi russi, agente Nebula, non di certo Bruxelles né la
Giunta di Sanità Pubblica» rispose, indovinando i suoi pensieri, un medico con
accento slavo che lo condusse in infermeria, dove gli praticò una sottocutanea al
deltoide.
Uscì un po stordito. Un altro contractor lo attendeva sulla porta.
«Mi segua, prego».
«Ok» rispose Lucio, e lo seguì in un ascensore che scese di quattro piani.
uando la porta scorrevole si aprì, una luce abbagliante colpì la sua pupilla. Il
contractor gli consegnò subito degli occhiali schermati.
Fu allora che si pro larono davanti a lui una ventina di sagome. Erano gli
uomini della sua squadra. Li conosceva uno a uno. Erano tutti patrioti che non
volevano vedere l Italia asservita ai cinesi.
Il contractor gli mostrò un lungo tavolo dov erano depositate divise da
combattimento, armi, caricatori, visori notturni, granate, giubbetti antiproiettile e
tubi lanciarazzi. Gli chiese di armarsi.
D un colpo gli tornò in mente ciò che aveva appreso durante l addestramento.
Poi, una persona si fece avanti per salutarlo.
«Ciao Nebula, sono Duetto, il tuo secondo…».
Lucio strizzò l occhio e gli strinse la mano. Era Gianfranco Bonetti, un
funzionario dell Agenzia delle Entrate.
«Allora è il nostro momento, si comincia!».
«Si comincia!» rispose Lucio. «Siamo tutti patrioti. Pronti a prendere le armi
contro chi ci sta vendendo alla Cina comunista. Presto prenderemo il potere… o
moriremo tutti!».

3
Il Comandante Beta, un uomo sui sessant anni ex colonnello del Col Moschin,
parlò con tono calmo, come se quello che stava per accadere fosse normale.
Davanti a un megaschermo, illustrò ai presenti la situazione militare.
«L operazione di chiama Rerum Potiri, che per chi non conoscesse il latino
signi ca “impadronirsi del potere”» esordì. «L intelligence segnala che militari
dei reparti d élite cinesi si sono in ltrati già da qualche tempo in Italia, ngendosi
negozianti o operai. La maggior parte si trova a Prato, ma ci sono vari gruppi
anche a Roma. Una loro formazione in assetto di guerra si sta concentrando in
questo quadrante» e indicò un punto della campagna romana vicino al casello
autostradale di Roma Nord. «Si pensa siano almeno duecento uomini,
perfettamente armati e addestrati. Fanno parte dello Snow Leopard Commando,
una brigata speciale della polizia cinese. Un corpo d élite in grado di operare in
qualsiasi scenario. È gente spietata, addestrata a non risparmiare nessuno e a non
aver paura della morte. Un nemico letale».
S interruppe. Si s lò gli occhiali e disse all operatore di spegnere il
megaschermo.
«Be , alla vigilia del nostro intervento mi corre l obbligo di cedere la parola alla
persona che ha creato e sostenuto con tutte le sue forze il programma Ensis: il
Comandante Alfa».
Nella penombra, si pro lò la sagoma di una donna a ancata da due contractor
armati no ai denti. Indossava una divisa nera e un me sto scuro da cui
apparivano solo gli occhi.
Gli stessi occhi cerulei della donna apparsa a Lucio in sogno.
Quegli occhi… li conosco. Ma no, è solo suggestione…
«Amici» esordì la donna, «ora posso rivelarvi il mio nome. Mi chiamo
Cornelia e provengo da molto lontano, più lontano di quanto possiate
immaginare… Prepariamoci al compito che la Patria c impone. Non lasceremo
che l Italia e Roma cadano in mano agli abitanti della Sera Maior per colpa di una
manciata di traditori; per questo ci siamo addestrati a lungo e abbiamo
impugnato le armi, ideando l operazione Rerum Potiri. Ora il destino dell Italia è
nelle nostre mani. Ensis agirà con prontezza, sferrando un colpo micidiale ai
traditori che ci governano. Sappiate, tuttavia, che una cosa è certa: chi è pronto a
tradire la patria è un codardo e non sarà di cile sbarazzarsene. Ma i codardi sono
abituati a colpire alle spalle; perciò, siate guardinghi».
Guardò negli occhi, uno a uno, gli uomini schierati. Poi, come fosse stata colta
da una folgorazione, si fermò a osservare i lineamenti di Lucio. Il dilatarsi della
pupilla rivelava che alla sua vista aveva provato una grande emozione, come se
quell uomo le ricordasse qualcuno che conosceva bene.
Ma non era così… non poteva essere così.
Visibilmente confusa, rivolse altrove lo sguardo, quindi estrasse dal fodero il
pugnale, lo strinse con la mano destra e sollevò il braccio. Gli uomini imitarono il
gesto; quando Cornelia pronunciò le parole: «Roma Victrix!», tutti risposero:
«Roma Vittoriosa!».
La riunione fu sciolta e gli uomini raggiunsero le camerate. L attacco era
previsto per la mattina del giorno seguente.
Come a tutti i comandanti, a Lucio era stata riservata una stanzetta. Il giovane si
stese sulla branda per scaricare lo stress accumulato nelle ultime ore. Dopo alcuni
minuti, il telefono sul comodino trillò. Era una voce di donna: «Agente Nebula,
è convocato dal Comandante Alfa nella sua residenza. Tra due minuti esatti».
Un brivido gli attraversò la schiena. Cosa mai avrebbe voluto da lui Cornelia?
Certo, l espressione di meraviglia letta poco prima sullo sguardo di lei lo aveva
sorpreso, perché gli occhi assomigliavano in maniera inquietante a quelli della
fanciulla del sogno.

4
Cornelia era seduta nella penombra, a capo di un lungo tavolo di scuro cipresso.
Si era tolta il me sto e aveva rivelato i suoi lineamenti. Ormai non c erano più
dubbi: era lei la ragazza del sogno!
Lucio ammutolì, mentre lei gli sorrise benevolmente.
«Al ne sei ritornato, Lucio, fratello mio» gli disse, lasciando trapelare
l emozione.
«Non… non so cosa intende dire, comandante… Ritornato da dove?».
«Comprendo la tua meraviglia, Lucio, purtroppo ti sei dissetato con l acqua del
ume Lete e la tua precedente vita è caduta nell oblio. Ma Mnemosine è venuta in
nostro aiuto. La foglia d alloro che hai da sempre sulla schiena dice che non mi
sbaglio. Non è così?».
Lucio sentì il sangue raggelarsi nelle vene. uello che a ermava Cornelia
corrispondeva alla verità. Era nato con una vistosa voglia a forma di foglia d alloro
sul coccige e nessuno, tranne i suoi genitori, la conosceva… In verità, la conosceva
anche la sua amata Ginevra… ma Ginevra aveva lasciato questo mondo un anno
prima, colpita dal virus. Non aveva potuto neanche piangere sulla sua tomba,
perché le ceneri erano state disperse dopo la cremazione. Nessuna pietas né
humanitas per i morti…
Un ombra scura passò sul volto di lui, e Cornelia colse la sua disperazione.
«Fratello mio, non crucciarti, la tua donna è nei Campi Elisi, a anco degli
dèi...». Cornelia aveva la capacità di leggergli nella mente. «Tu sei sempre stato
un prode e un generoso. Cadesti per mano di uno degli sgherri di Domiziano, che
ti ferì a morte mentre tentavi di strapparmi al mio funesto destino… Il tuo nome
fu Lucio Cornelio Mure. La tua morte aggiunse nuova disperazione alla mia
condanna».
Grande fu il turbamento che a errò l animo di Lucio. Il ricordo del sogno
riemergeva prepotente nella sua memoria, come fosse stato un avvenimento reale
e non la fatua immagine creata da Morfeo. Cacciò indietro la sua indole cartesiana
a cedette alla suggestione che suscitavano in lui quelle parole.
«Dunque, sei una discendente della ragazza murata viva?» domandò incredulo.
«No, non discendo da lei… sono lei…» disse, sottolineando le ultime due
parole. «A quei tempi ero la Virgo Vestalis Maxima e l Imperatore Domiziano mi
accusò ingiustamente di aver violato il voto di verginità solo perché voleva
possedermi, ma io mi opposi con fermezza, così mi punì con la morte, infangando
il mio onore…».
Lacrime sgorgarono dalle sue pupille. Lucio si avvicinò a Cornelia e, d istinto,
lei gli a errò la mano. Si sentì subito pervaso da una misteriosa energia. La vista si
oscurò all improvviso, poi fu avvolto da una luce smagliante: gli sembrò di
percorrere un cunicolo luminoso a una velocità inaudita, poi ancora il buio,
in ne…

5
Cornelia giaceva piangente sul suo letto nella Casa delle Vestali. Sabina, la
consorella più data e amorevole, l aveva raggiunta nella stanza.
« uesta è per te, sorella» disse la giovane vestale, porgendole un bicchiere di
vetro striato. «È mulsum, vino arricchito da miele. Ti darà coraggio, anche se il
coraggio non ti salverà la vita… Ma io ti sono vicina, insieme alle altre consorelle.
Sanno bene che sei innocente come una colomba».
«Io non temo di morire, ma che il mio nome venga tramandato ai posteri come
quello di una spergiura…».
Sabina tacque, come se le pesasse parlare, poi trovò l ardire.
«Non sarà così, Cornelia. La nostra consorella Vitellia, la vestale più anziana,
custodisce un amuleto prodigioso tramandatole da sua madre egizia… Uno
scarabeo ricavato da una pietra caduta molti millenni fa dalle Pleiadi. Si dice che,
con un rito speciale, possa donare l immortalità…».
«Immortalità… cosa stai dicendo? Non esiste niente sulla Terra che abbia
questo potere. L immortalità appartiene solo agli dèi…».
«La pietra da cui fu ricavato l amuleto proveniva da Maia, la stella più lucente
delle Pleiadi, una dea antichissima di cui ogni anno, a maggio, discende sulla Terra
lo Spirito Universale. E ora siamo proprio alle calende di maggio, il momento
adatto per il rito. Fidati, Cornelia. Cosa ti costa?».
«Nulla, non mi costa nulla… poiché presto non avrò più nulla, neanche la
vita».
«Allora, seguimi. Vitellia ci attende sull altana del monastero. Ha con sé
l amuleto. Non abbiamo più molto tempo, all alba i pretoriani verranno a
prenderti e ti mureranno viva in una tomba… Una ne atroce. Ti prego, Cornelia,
ascoltami».
Cornelia fece un gesto di assenso, si coprì il capo con la tunica bianca e seguì la
consorella.
Salirono la gradinata che conduceva all altana. Nel cielo brillava una miriade di
stelle. Sebbene non vi fosse la luna, una forte luminosità si spandeva sui tetti
dorati e argentati della Città.
Vitellia attendeva la Virgo in piedi, al centro dell altana. Appena la vide,
s inchinò in segno di rispetto. Le tese le braccia. Piangente, Cornelia si strinse a
lei.
« uesto è il simbolo dell immortalità, lo scarabaeus sacer». Le mostrò uno
scarabeo verde smeraldo appeso a una collana costituita da dodici ankh d ambra.
Cornelia scoprì la chioma bionda e Vitellia le cinse il collo eburneo con il
prezioso monile. Poi la donna alzò le braccia verso le Pleiadi e recitò una lunga
invocazione: «Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Divi No ensiles,
Di Indigetes, Divi, quorum est potestas nostrorum. Dique Manes, os precor veneror,
veniam peto…».
L invocazione durò a lungo e fu ripetuta tre volte. Poi presa una coppa di giada,
la strinse con entrambe la mani e la sollevò in alto, chiudendo gli occhi. Rimase
come impietrita in quella posizione, nché un suono tintinnante provenne dal
calice. In quell istante riaprì gli occhi, mentre un sorriso le illuminava il volto.
«Tibi dono cadentes guttas roris, Cornelia, mater nostra» declamò Vitellia.
Segnò l aria con gesti magici e si accostò alla Virgo, invitandola a bere la rugiada
raccolta nella coppa.
Dopo aver bevuto, Cornelia chiuse gli occhi. Vide gli Dei Indigeti assisi sui loro
troni e la divinità protettrice di Roma avvolta da una luce più fulgida di quella di
un diamante – poiché il diamante, seppur luminoso, vive di luce ri essa. Non
altrettanto la luce della dea.
E la dea le parlò: «Conoscerai ere future, nobilissima Cornelia. Ere in cui il
ricordo della nostra grandezza sarà sopito, ma non morto. Giacerà nascosto nei
vetusti marmi dei templi e dei circhi o nei sepolcri abbandonati, ma non perirà
mai e sarà lì al tuo anco, pronto a risorgere al momento giusto quando noi lo
comanderemo…».
La visione disparve. uando Cornelia riaprì gli occhi, il mondo le si mostrò in
una prospettiva diversa. I colori non erano più quelli che era solita vedere. Tutto
le si manifestava per ciò che era in substantia. Poteva comprendere oltre la
parvenza umana e percepire il respiro della divinità.
«Ora tutto è compiuto, Cornelia» disse Vitellia. «Gli dèi ti hanno donato
l immortalità. Usala per il bene e la grandezza di Roma».

6
In una mattina livida, la portantina coperta da teli neri trasportava Cornelia
verso il Campus Sceleratus, fuori da Porta Collina.
Scortata da un drappello di pretoriani, la giovane giaceva serena sul letto di
morte nell attesa che tutto si compisse.
Sul campo del supplizio stavano due muratori che avevano appena impastato la
calce per murare con grossi conci di tufo la tomba a camera, ultima dimora della
Virgo Vestalis Maxima.
Uno dei pretoriani legò i suoi polsi a una corda che pendeva da un ramo
d albero e la percosse dieci volte con la frusta. uando la slegò, cadde al suolo
semisvenuta, ma ebbe la forza di rialzarsi da sola. Fu allora che vide la bionda
chioma di suo fratello Lucio farsi largo tra la gente. Non fece in tempo a
pronunciare una parola che il giovane tra sse con la sua spada uno dei pretoriani,
ma fu presto sovrastato dagli altri, che lo colpirono più volte, nché cadde a terra
esanime.
Cornelia gridò e pianse disperata… ma non c era più tempo. Due pretoriani le
a errarono le braccia e la scaraventarono nella tomba. Uno di loro le porse una
brocca d acqua e un tozzo di pane ra ermo. In ne, lentamente, la luce scomparve
man mano che i muratori aggiungevano conci, nché il buio la inghiottì, mentre
giaceva sopra un giaciglio di frasche, ferita dallo scudiscio, ad attendere la morte.
Piangeva sommessamente, ma aveva fede nell amuleto di Vitellia, e presto un
inconsueto torpore le prese le membra e la mente. Il dolore delle ferite scomparve.
Le sembrava di levitare a margine di un inde nita aurora per una notte intera o
forse per un mese, un anno… Perse la cognizione del tempo, nché, dopo un
attimo… o un eternità, i suoi occhi furono feriti da una lama di luce.
7
Si risvegliò sul giaciglio di frasche ormai disfatte e si sollevò a fatica, dirigendosi
verso il chiarore. Uno dei conci si era spezzato, lasciando ltrare un raggio di sole.
Il muro era ormai marcio. Bastò una spinta e crollò: si arrampicò sulle macerie e
uscì all aperto. Le ferite erano scomparse. Si guardò intorno, ma il panorama era
cambiato. Porta Collina era fatiscente e molti monumenti tombali erano solo
ruderi. Sembrava trascorso molto tempo dacché era entrata nella tomba. Si
orientò, osservando i monumenti che conosceva, ai quali se n erano aggiunti altri.
La gente aveva un aspetto trasandato e macilento. Parlava una lingua molto
diversa dal latino cui era abituata. Le poche guardie sulle mura avevano un
abbigliamento approssimativo, e i più non indossavano corazze. Ricordò dove si
trovava la Casa delle Vestali e la raggiunse. Era anch essa decrepita. La bella altana
era diroccata e la porta principale in parte scardinata. Spinse uno dei battenti che,
cigolando, si aprì a metà, quel tanto che le bastava per potervi entrare.
«Benvenuta, sorella, ti aspettavo». Era la voce di una donna anziana, vestita
come lei. «Sono Celia Concordia, Virgo Vestalis Maxima, l unica rimasta nella
casa e forse la sola a tenere vivo il sacro fuoco. Presto la gente ci dimenticherà…
L imperatore Teodosio ha stabilito che l unica religione ammessa in tutto
l Impero sia il cristianesimo. Il culto degli antichi dèi è stato proibito e morirà.
Con loro anche Roma, appena il sacro fuoco sarà sopito».
Cornelia s inchinò ai suoi piedi.
«Alzati, sorella. Gli dèi mi avevano predetto la tua venuta. Ti a do una face
del sacro fuoco. Tramandala nei secoli, a nché Roma sopravviva. Si preparano
tempi bui per molti secoli a venire, ma per volontà degli dèi sei stata esonerata
dalla morte e potrai vedere l alba di molti millenni».
Le a dò una coppa di bronzo contenente una face, insieme a una pergamena
sigillata: « ui c è il mio legato per il futuro, custodiscilo e osservane le
prescrizioni». In ne, l anziana vestale le volse la schiena e disparve nell ombra.

8
Lucio si riebbe non appena Cornelia allentò la presa.
«Ora sai tutto, fratello…». Gli chiese di alzarsi e di seguirlo.
«Dunque, tu… tu sei immortale…».
«È così, Lucio, questo è il mio segreto. Ho attraversato il tempo, assumendo
molte identità, e ora il Fato ha voluto che ritrovassi mio fratello e…» gli occhi
cerulei si rabbuiarono, «…e anche Domiziano. uel dannato si è reincarnato in
questa epoca grazie al sortilegio di una maga etrusca… Si nasconde sotto il nome
È
di Antimo Diodati, il capo della Giunta di Sanità Pubblica. È stato lui ad aver
prodotto il virus nei laboratori cinesi. Invoco Nemesis a nché ci conceda una
giusta vendetta!».
Raggiunsero una sala rotonda, al centro della quale sorgeva un altare, anch esso
circolare, e nel mezzo l antica coppa contenente la face di Vesta e una corona
laurea. Sulla parte opposta stava un vetusto faldistorio.
«Il fuoco arde ancora… Rimane soltanto una cosa, fratello mio».
Lucio le rivolse uno sguardo interrogativo.
«L Imperatore…» continuò Cornelia.
«Che intendi dire?».
«Che l ultima vestale m incaricò di nominare un Imperator Occultus che
reggesse l Impero negli anni bui. L ultimo Imperator, Caesar Antoninus Vetus, è
mancato poche settimane fa e ora è tempo di ordinare il successore… Non puoi
che essere tu».
«Io…?».
«Sì, Lucio. Non a caso il Fato ha voluto che dopo duemila anni ritornassi sulla
Terra. Avvicinati al trono».
Lucio obbedì e la donna a errò la corona laurea. Gliela adagiò sul capo; poi,
con solennità, pronunciò il suo nome: «Tibi gloria, Lucius Cornelius Mus,
Imperator!».

9
Il plotone comandato da Lucio, con il resto degli insorti, si diresse verso un
grande hangar sotterraneo, dove sostavano sei elicotteri Chinook neri senza segni
d identi cazione. Salirono dai portelloni posteriori, poi l hangar, che altro non
era se non un grande ascensore, si sollevò, portandoli sotto il piano di calpestio.
In ne, il so tto si aprì e apparvero le ultime stelle della notte. All ora che
precedeva l aurora gli elicotteri accesero i motori e decollarono.
Il viaggio delle grandi macchine volanti fu breve e s orò i tetti della Capitale,
che correvano veloci sotto di loro. Gli sembrò a un tratto di sorvolare una
super cie liquida appena toccata dai raggi incerti dell aurora, creando
improbabili increspature. Alcune tegole si sollevarono per la tempesta arti ciale
provocata dai grandi motori.
Il caposquadriglia virò bruscamente e si fermò in volo stazionario sopra un
prato di Villa Borghese. uindi i Chinook atterrarono, lasciando i motori accesi e
le pale in movimento. I portelloni posteriori si aprirono e gli uomini scesero di
corsa, armi in pugno.
Gli insorti si diressero verso Piazza del Popolo, mentre l alba illuminava il cielo
di una luce so usa che spegneva le ultime stelle.
«Forza ragazzi, compiamo la nostra missione, senza errori e con il minor spreco
di vite umane» li incitò Lucio. Gli uomini risposero all unisono: «Ensis!».
Si dispiegarono con ordine e avanzarono sul prato erboso, dal quale emergevano
talora cocci di anfore romane.
Seguì un esplosione improvvisa.
«RPG!» gridò Bonetti, mentre il resto della squadra si gettava a terra.
«Sono dietro la linea degli alberi! Controllo le immagini dal satellite. Si tratta
di cinesi» disse Lucio. «Il satellite ha captato le loro voci».
Estrasse il dispositivo satellitare e scrutò lo schermo. C erano almeno trenta
uomini con i fucili automatici che aprirono subito il fuoco. Lucio sentì le
pallottole sibilare sopra la testa e si tenne basso, poi indicò a Bonetti di prendere
una squadra e aggirarli.
Intanto, Lucio a errò una granata dirompente e la lanciò verso le linee nemiche.
La granata esplose e Bonetti uscì allo scoperto, per eseguire la manovra di
aggiramento. Si piazzò sul anco dello schieramento nemico e aprì il fuoco,
costringendo i cinesi a ripiegare.
«Avanziamo, tra un po dovrebbe intervenire un drone per aprirci il
cammino».
Il drone non tardò, e lanciò un missile che centrò la formazione nemica cento
metri più avanti.
Gli insorti scesero verso Piazza del Popolo, dove furono raggiunti da due
semoventi corazzati che aprirono loro il cammino verso Via del Corso.
I cinesi furono circondati nella zona di Piazza di Spagna. La loro reazione fu
rabbiosa, quando un aiuto insperato giunse ai ribelli. Si trattava di un reggimento
di fanti di marina russi dell incrociatore Pëtr Velikij, ancorato a Civitavecchia,
giunti in loro soccorso al momento giusto.
Lucio si aprì la strada lungo Via del Corso grazie ad alcuni mezzi corazzati
Centauro dell 8° Reggimento Lancieri di Montebello, unitosi a loro. Intanto, il
presidio della Milizia di Sanità Pubblica di Palazzo Chigi si era dissolto, molti
miliziani erano scappati, altri si erano arresi ai ribelli, altri ancora erano passati
dalla loro parte.

10
Lucio raggiunse Piazza Colonna a metà mattinata: Antimo Diodati e alcuni
componenti della Giunta di Sanità Pubblica erano fuggiti su un blindato della
Milizia. Si dirigevano verso l Appennino per raggiungere l Adriatico, dove un
incrociatore della Marina Militare li avrebbe presi a bordo e messi in salvo in
Albania, ma Lucio fu più rapido di loro. Grazie ai rilevamenti satellitari,
intercettò il blindato, che aveva già raggiunto il territorio di Rieti e stava per
entrare nella provincia di Ascoli Piceno. Con una squadra tattica comandata da
Bonetti, salì su un Black Hawk e raggiunse i fuggiaschi.
Lo scontro fu durissimo, ma alla ne i miliziani di scorta dovettero arrendersi. Il
presidente della Giunta di Sanità Pubblica e tutti i componenti del suo scellerato
governo furono catturati.
Lo raggiunse anche Cornelia, con un centinaio di contractor russi e kazaki.
«È il momento della vendetta, Lucio. Una vendetta che ha attraversato duemila
anni di storia. Ora il nostro nemico è davanti a noi, Tito Flavio Domiziano
redivivo… Ricordati dei suoi delitti…».
Diodati era stato arrestato e due uomini dell Ensis lo tenevano saldamente per
le braccia.
«Maledetti, siete voi…! I miei carne ci non sono bastati a cancellarvi dalla
faccia della Terra...».
«Stavolta per te è nita, Domiziano!» disse Cornelia.
Ma l uomo aveva più risorse di quanto sospettassero i due fratelli, e con un abile
mossa di Krav Maga riuscì a divincolarsi, neutralizzando i due uomini che lo
tenevano per le braccia. Estrasse un coltello nascosto nella manica e si avventò su
Cornelia, mirando al collo. La lama era ormai a pochi millimetri dalla giugulare
quando due proiettili lacerarono l aria. La testa di Domiziano scoppiò, la materia
cerebrale si sparse al suolo.
Bonetti era intervenuto in tempo per salvare la vita di Cornelia. Tutto era nito.
I componenti della Giunta di Sanità Pubblica furono rinchiusi nel blindato sul
quale erano fuggiti. Fu minato e fatto esplodere.
I cinesi in ltratisi in Italia furono passati per le armi lo stesso giorno.
L Italia era liberata. Il colpo di Stato aveva avuto successo e ben presto la Milizia
di Sanità Pubblica si arrese e fu sciolta, i massimi dirigenti passati per le armi.
Il vaccino fu distribuito alla popolazione e l epidemia al ne scon tta.
Bonetti assunse il titolo di Presidente Provvisorio e la vecchia Costituzione fu
sospesa, nell attesa che una Costituente preparasse un testo più moderno e
adeguato ai tempi nuovi che attendevano il Paese.
Cornelia, che tanta parte aveva avuto nella preparazione e nell esecuzione del
colpo di Stato, si ritirò in una villa nell Agro Romano eretta sulle rovine di quella
della sua gens, dov era nata quasi duemila anni prima.
Intanto, l Imperatore Occulto aspettava nell ombra che i tempi si compissero e
gli permettessero di rivelarsi, mentre il Fuoco di Vesta ardeva impetuoso e
inestinguibile nell attesa che il Fato liberasse nei cieli l Aquila di Roma.
***
Cornelia si tu ò nuda nella piscina della sua villa. Nuotava felice, mentre il sole
creava ine abili disegni di luce tra le increspature dell acqua che si confondevano
con le uenti chiome bionde. Udì un fremito e un gorgoglio. Seguì la scia di
bollicine che dalla super cie scendeva verso il fondo della piscina. Il cavalluccio
marino di pasta vitrea era lì; allungò il braccio per ghermirlo, ma un altra mano lo
a errò. Suo fratello Lucio era accanto a lei e le sorrideva, mentre glielo restituiva
chiudendo la mano di lei nella sua.
Duemila anni dopo…
Per un giorno…
E per tutta la vita…
Dalmazio Frau
I D

uando il diavolo è vecchio si fa romito.


(proverbio italiano)

Il ragazzo si sedette davanti all uomo vestito di nero e grigio, anch egli seduto
nell ombra dell Osteria dell Angelo. Era uno dei tanti ragazzetti che infestavano i
vicoli di Roma, gli di nessuno, dall occhio acuto e dalla mano rapida, sfrontati
nella loro impunità, destinati, un giorno, a sposare la glia del cordaio.
«Dimmi ciò che sai, e soprattutto vedi di dirmi la verità».
La voce dell uomo era profonda, tradiva un accento diverso da quello della città
dove regnava il Papa e il suo volto era nascosto dal cappuccio. Una mano dalle dita
agili, dita d artista, spinse verso il giovane una moneta d argento con sopra l e ge
del Sommo Ponte ce, che subito scomparve tra i vestiti cenciosi.
Con un tremore malcelato il garzone parlò, continuando a non staccare lo
sguardo dall elsa del lungo pugnale che spuntava da sotto al mantello di colui che
gli stava davanti.
In un ume di parole disse tutto, ma la paura non svanì, quindi si alzò e corse
via, fuori, nella notte di settembre.
Benvenuto Cellini restò ancora seduto, pensieroso su ciò che aveva appena
saputo. Ordinò un nuovo boccale di vino ambrato, quello sapido che veniva dalle
colline vicine, e si reimmerse nelle sue congetture.

***
Pochi giorni prima una donna, con un grande mantello color croco, era giunta
nella sua bottega a commissionargli un incarico.
«Mi hanno detto che soltanto voi potete aiutarmi» disse, e aveva occhi come il
mare in tempesta, un incarnato d alabastro e capelli dai ri essi di rame, sotto al
cappuccio del mantello chiuso da una spilla di calcedonio, che a malapena celava
un prosperoso seno.
L orafo sollevò lo sguardo dal manufatto che stava terminando, alzandosi in un
lieve inchino, tenendo ancora in mano il cesello tagliente. Davanti a lui, sul tavolo
da lavoro, tra rubini balassi e za ri, tra verghe d oro e d argento, un grande calice
risplendeva di granati e corniole, concepito per il Vescovo di Salamanca.
«In cosa posso servirvi, mia Signora?» chiese Benvenuto. «Una collana di
perle dell Indostan o un anello con una gemma rara trovata l altro ieri tra i ruderi
d una villa sull Appia? O preferireste una coppa scolpita nell ametista a nché
non siate mai soggetta ad alcuna ebbrezza?».
La donna si abbassò il cappuccio, senza sorridere, ma ssando i suoi occhi in
quelli profondi, simili a schegge d acciaio, dell uomo che aveva dinanzi.
«Il mio nome è Violante, mi conoscete?».
Cellini annuì. Sebbene fosse a Roma da pochi mesi, era già ben noto nella corte
ponti cia e lì aveva sentito più volte parlare di Madama Violante, la più bella e
ambita cortigiana di tutta Roma. Si diceva che avesse per amanti duchi,
ambasciatori, alcuni cardinali e un paio di capitani di ventura, tra i quali lo stesso
Giovanni de Medici. Una baldracca d alto rango, le cui grazie di certo non erano
alla portata di chiunque.
«Non è la vostra indubbia abilità d orafo che sono venuta a cercare» proseguì
la donna, s orando con le dita lunghe e sottili alcuni crisoliti che rilucevano alla
luce del tramonto come stelle cadute, «ma piuttosto il vostro coraggio. Da
settimane si racconta che un avventuriero in fuga da Firenze sia giunto in città.
Un uomo senza scrupoli, un assassino forse, abile con le armi ma...».
«Ma?». Benvenuto lasciò che un sogghigno d autocompiacimento a orasse
sulle sue labbra, tra la barba corta e ben curata. Il suo era lo sguardo d una
pantera. Il cesello stretto ancora in pugno come una daga mortale.
«Ma anche esperto in arti tenebrose» concluse Violante. «Vi darò tre mule
cariche d oro, se mi aiuterete, Mastro Benvenuto».
L orafo giocherellò con l a lato strumento ancora per alcuni istanti, come se
stesse valutando la proposta; poi, lasciando che il cesello si con ccasse nel duro
legno di rovere del banco da lavoro, disse: «Non credo che basti, mia Signora, se
non mi dite di più».
Violante non abbassò lo sguardo, mentre un raggio di sole del tramonto
settembrino le illuminava il volto, rendendolo simile a una statua d oro del mitico
Dedalo.
«Dovete aiutarmi a riavere mia glia» disse con voce rotta. «Soltanto voi
potete».
Benvenuto osservò con attenzione i segni che il tempo aveva lasciato sul viso
della cortigiana e, non trovandone, disse: «Dovete averla avuta l altro ieri,
madama...».
«Conto ben quaranta inverni, Mastro Cellini, e mia glia ne ha poco meno di
venti...».
L avventuriero girò attorno al tavolo e si fece più vicino alla donna, che
proseguì: «Avete mai sentito parlare di Bartolomeo dell Ombra?».
«No, mi spiace» ammise sinceramente l uomo, s orandole appena una mano
che lei non ritrasse.
«È un capo brigante. Uno dei più rinomati e imprendibili. Si dice che riesca a
non essere catturato perché protetto da forze oscure, forse dallo stesso Lucifero in
persona. Nessuno sa dove abbia il suo covo. Ladro di strada maestra, scomunicato
e bruciato in e ge, ricercato in tutto il regno del Papa, da anni sfugge ad ogni
tentativo di cattura». E continuò: «Ecco perché ho bisogno del vostro aiuto,
Mastro Benvenuto. Bartolomeo ha rapito mia glia e ha chiesto un riscatto più
grande di tutte le mie ricchezze. Nessun altro mi ha voluto aiutare e mi siete stato
indicato voi... come mia unica speranza».
A quel punto, Cellini si lasciò andare a una fragorosa risata che echeggiò per
tutta la sua bottega: «Se devo battermi con un glio dell Inferno in persona, mia
Signora, tre mule cariche d oro non sono su cienti».
Violante riportò lo sguardo sso negli occhi dell uomo che aveva davanti e,
senza dire altro, con un unico uido movimento, aperse la bbia del grande
mantello lasciandolo cadere al suolo, rimanendo nuda, in tutto lo splendore della
sua femminilità.
« uesto potrebbe essere un compenso su ciente?».
«Vedremo» fece l orafo, abbracciandola. «Non compro mai l avorio senza
averlo prima saggiato».

***
uella notte Cellini lasciò l Osteria dell Angelo e, a cavallo d un roano, si
diresse fuori dalle mura, verso il luogo indicatogli dal ragazzino che aveva
mandato in avanscoperta poche ore prima.
La luna nuova di settembre risplendeva alta nel cielo, sulla Città Eterna, sui suoi
postriboli e sulle sue chiese, facendo sembrare palazzi, torri e ruderi il sogno
argenteo d un ubriaco. Così, al passo svelto del cavallo, l orafo attraversò le strade
e le piazze, diretto ad un luogo evitato da molti, perché ritenuto frequentato da
spettri: un grande rovere millenario. Il monello gli aveva garantito che quella era
la dimora d una strega molto temuta e riverita, nata uomo ma divenuta poi donna
in seguito ai suoi connubi con il Diavolo in persona.
L albero immenso ora si stagliava innanzi a Benvenuto, mentre smontava di
sella, avvolto nell ampio mantello nero.
In quella pallida luce notturna, si diresse con passo sicuro verso il tronco, così
grande che per abbracciarlo ci sarebbero voluti sei uomini robusti. Tra le radici
nodose e ritorte, simili ai mostruosi tentacoli d una oscena piovra emersa dal
sottosuolo, intravvide una porta di legno ricoperta di muschio.
A errato il catenaccio, l aprì, trovandosi in un cunicolo malamente illuminato
che dovette percorrere chinando la testa. Man mano che procedeva sottoterra,
l odore di putredine e di decomposizione aumentava. Foglie morte e funghi erano
sotto le suole dei suoi stivali, quando lo raggiunse una voce: «Avanza dunque,
giovane diavolo! I Tarocchi mi hanno detto di te...».
Con un gesto secco, l avventuriero scostò lo straccio lacero che fungeva da
tenda ed entrò in una grotta illuminata da un braciere fumoso, posto su un
tripode. Un caldo utero scavato nella roccia innumerevoli secoli prima che Enea
giungesse dalle sponde di Ilio la perduta, già allora forse ricettacolo di sacerdoti o
stregoni, era adesso occupato dall ultimo loro discendente.
Cellini si calò il cappuccio scoprendosi il volto, che tuttavia rimase segnato dalle
ombre gettate dalle braci. I suoi occhi d acciaio si posarono sulla gura che sedeva
a gambe incrociate su un logoro tappeto, tra ossa levigate e incise, pietre, vasi di
terracotta variopinta e un coltello dalla lama ricurva.
«Guarda» disse la donna che era stata un uomo, sollevando una carta dal
mazzo sparso davanti a sé. « uesto sei tu... Il Matto!».
«In verità, devo proprio essere infermo di mente per venire da una come te, a
chiederti aiuto...».
Gli occhi cisposi della megera si apersero come due fessure, pupille gialle da
serpente brillarono dietro quelle palpebre rugose. La strega della quercia era
vecchia, molto più di quanto si potesse pensare... era già anziana quando Carlo
Magno era sceso a Roma a farsi incoronare imperatore.
«Cosa vuoi? Io leggo su di te segni oscuri... Sai che c è un prezzo da pagare?».
Cellini annuì e riprese: «Voglio una Mano di Gloria. Mi è stato detto che tu
possa darmene una».
La strega esplose in una risata cachinnante, prima di ritornare al suo tono di
voce normale, roco come lo stridore d una pietra sul ferro.
«Sì, posso... ma costa molto».
La mano destra dell avventuriero liberò una borsa dalla cintura, vicino al lungo
pugnale, e la gettò verso la donna accovacciata.
«Argento appena coniato» le disse. «Con questo ci puoi comprare due poderi,
armenti e servi».
Da sotto il fazzoletto sbiadito che le ricopriva il capo, la megera sorrise,
mostrando i denti ancora perfettamente integri di una giovane; poi, a errato il
denaro, lo rovesciò sul tappeto. Le monete risplendettero corrusche alla luce delle
braci, rotolando via prima di divenire polvere.
«Ecco, giovane diavolo, vedi cosa sono le tue ricchezze? Io posso mutare
l argento in cenere... con un canto posso far trasalire la luna che sta là fuori... Non
è questo ciò che chiedo».
Cellini ringhiò: «Cosa vuoi, allora? Bada che non scherzo...» e la mano sinistra
si posò sul fodero del grande pistolese.
«Un anima. Dammi una vita e io ti darò quello che mi hai chiesto».
«Prima tu, vecchia! Prima fammi vedere la Mano di Gloria e poi ti darò ciò che
vuoi. Ho già versato altro sangue, non credere m importi farlo ancora!».
Dopo un lungo momento di silenzio, bofonchiando un: «È giusto», la donna
prese a rovistare tra ossa e pietre, pezzi di legno dipinto e stracci, bambole di pezza
legate da corda nera e collane di nocciole, sino a che non estrasse un involto che
posò tra sé e l uomo vestito di grigio e nero.
«Ecco» disse autocompiaciuta. « uesta è la Mano di Gloria. Non ne troverai
un altra uguale in tutto l Occidente. Ti indicherà il cammino verso ciò che cerchi,
rendendoti invisibile ai tuoi nemici... Li farà cadere nel sonno profondo; ma, stai
attento, se la lasci libera può ucciderti. Ora pagami il prezzo pattuito!».
«Volentieri» rispose Cellini, rimettendosi il cappuccio sulla testa; con un
movimento rapido quanto imprevisto, si gettò sulla donna, a errandola per il
collo ossuto e per gli stracci, so ocandola con le forti dita, mentre scalciava e si
divincolava; le a ondò il cranio nelle braci ardenti. Turbante e capelli
avvamparono, trasformandola in una pira umana.
Prima che il fetore della carne umana bruciata lo so ocasse, l avventuriero,
a errata la Mano di Gloria, uscì dalla spelonca lasciando la vecchia strega a morire
tra le amme che presto si estesero all intero albero. Un immenso rogo illuminò la
notte dietro di lui, mentre faceva ritorno in città con il suo bottino, ben stretto
sotto al mantello.

***
«Verrò anche io con te, Benvenuto» gli disse Violante. «Adesso che so dove si
nasconde Bartolomeo con tutta la sua banda».
Cellini non rispose, sapendo quanto fosse inutile cercare di far mutare idea a
quella donna ostinata, e così prese ad oliare la cotta di maglia d acciaio, prima di
asciugarla nella sabbia e indossarla sopra al farsetto di cuoio. Era mattino presto e
nella sua bottega c erano soltanto lui e la cortigiana, vestita all amazzone. Da una
cassapanca ricolma di armi scelse una lunga spada spagnola, che si allacciò in vita
insieme al suo dato pugnale, quindi controllò brache e stivali prima di coprire
tutto con il mantello.
A uno sguardo distratto anche Violante sarebbe potuta passare per uno dei tanti
bravacci che circolavano per la Città Eterna: i capelli raccolti sotto al basco di
feltro piumato, il farsetto a spacchi di sto a dai colori vivaci e uno stocco dall elsa
scolpita che le pendeva al anco. Fuori, legati a un anello di ferro, due castroni
ferrati di fresco li attendevano.
Sempre in silenzio, Benvenuto prese l involto che nascondeva la Mano di Gloria
e uscì dalla sua bottega con la donna che lo seguiva.
Il consueto tumultuoso vociare della strada li accolse mentre salivano a cavallo,
tra bambini che giocavano a lunamonta, donne che portavano i panni a lavare al
ume e carri carichi di verdura. Passarono di vicolo in vicolo, attraverso piazze
addobbate dal mercato multicolore e sguaiato, sotto lo sguardo annoiato delle
guardie del Bargello intente alla loro zecchinetta e a scommettere su quando
l Imperatore avrebbe mai osato attraversare le Alpi per giungere sino alla Città
Santa.
Le monache del Convento di Santa Prisca li videro passare da dietro le
inferriate; alcune novizie, sospirando di desiderio in quell assolata mattina di ne
estate, vennero rimproverate dalle più anziane, che avevano già imparato da
tempo a farlo in silenzio.
Al suono della campana di mezzodì, Cellini e Madama Violante si fermarono a
mangiare chi e formaggio in un osteria tra le colline a nord della città, dalla
quale ripresero il cammino a passo sostenuto verso i laghi.
La strada, sotto ad un tappeto di foglie, spesso mostrava l antica pavimentazione
romana, attraversando immense faggete che assumevano già tutti i tono dell oro
man mano che il sole declinava dietro i colli. Le legioni dei Cesari, secoli addietro,
le avevano calpestate di ritorno dalla Britannia, cariche d oro, ferite e brumose
leggende di strane divinità, ma adesso erano quasi tutte abbandonate alla mercé
dei tagliaborse che le presidiavano, grassando i mercanti che dovevano
percorrerle.
Ma Benvenuto Cellini non era un pingue bottegaio con il proprio carico di olio
o di sto e. uesta volta, in caccia d un lupo sfuggente era scesa una pantera dagli
artigli esiziali.
All improvviso, giunti ad un bivio, Violante gli fece cenno di fermarsi.
«Ecco» disse la cortigiana, indicando il folto del bosco davanti a loro.
«Dobbiamo lasciare la strada maestra e addentrarci in quella direzione, sempre a
Settentrione, verso il grande lago. Avranno di certo delle sentinelle...».
L orafo sogghignò: «La Mano di Gloria ci renderà invisibili, ma dobbiamo
attendere la notte».
Si volse a guardarlo, reprimendo per un istante un brivido di terrore. Aveva
quasi più paura di quell uomo che dei briganti che stavano cercando.
Con un colpo di speroni, Benvenuto spinse il cavallo verso i faggi, superando la
donna che rapida lo seguì, mentre il sole tramontava lontano, in un bagno di
porpora.

***
I briganti posti di guardia tra le rocce di tufo che emergevano come isole nel
mare della foresta non si avvidero del loro passaggio. Simili a fantasmi, invisibili
come ombre fuggevoli, Cellini e Violante li superarono, avvolti nell incantesimo
della Mano di Gloria che l avventuriero orentino teneva alta mentre avanzavano,
a errati i cavalli per le briglie, camminando tra le felci del sottobosco. Benvenuto
vedeva irradiarsi dalle dita mummi cate una sorta di strana luminosità nerastra,
come un oscura radianza che illuminava il cammino dinanzi a loro,
consentendogli di vedere nella notte e, al tempo stesso, rendendoli invisibili ad
altri occhi. Talvolta, gli arcani segni incisi sulle dita scheletriche della Mano
brillavano di un bagliore violaceo che rendeva spettrale ogni cosa intorno.
Così protetti da quella magia, i due raggiunsero la meta. Oltre il bosco,
discendendo la collina verso il lago dove si ri ettevano la luna e le nubi. In quella
luminosità stregata apparve il lontano baluginare d un fuoco, che doveva essere
l accampamento di Bartolomeo dell Ombra.
Giunsero così al limitare d una radura al cui centro spiccavano i ruderi d un
palazzo, forse ciò che restava d un piccolo castello utilizzato per la caccia e
abbandonato da molto tempo, divenuto preda dalla natura selvaggia che vi aveva
preso dimora con radici e viticci ritorti d edera. Intorno a quelle vestigia erano
accampati alcuni uomini e donne, abbigliati in maniera vivace e pittoresca, con
armi ben oliate alla cintura, archibugi e balestre, dediti allo schiamazzo e alla
lussuria, tra i fuochi da campo dove arrostivano, girando sugli spiedi, polli, galline
e qualche agnello, mentre gli otri del vino passavano di mano in mano al suono
stridulo d una zampogna.
«Fermiamoci qua» sussurrò l orafo alla cortigiana senza mai staccare lo
sguardo dal rudere che aveva le nestre illuminate, il che gli diceva essere il
quartier generale del capobanda, dove certamente doveva essere custodita la glia
di Madama Violante.
La donna lo guardò incerta, mentre Cellini proseguì: «Aspettiamo che sia
notte inoltrata; poi, prima che sorga il sole, quando saranno ben addormentati
per aver mangiato, bevuto e fatto la bestia a due schiene... Allora, grazie
all incantesimo della Mano di Gloria, procederemo».
Con queste parole attirò a sé Violante, stringendola in un abbraccio sotto al
mantello, mentre le voci e le musiche dei briganti giungevano sino a loro come
l eco d un sabba. Stretti l uno all altra per non sentire il freddo della notte, si
addormentarono senza sognare.

***
Bartolomeo dell Ombra stava in piedi, a pochi passi dal grande camino acceso,
bevendo da un calice rubato a chissà quale abbazia. Il suo sguardo pensieroso
vagava oltre il vetro a piombo, nella notte, mentre la sala era illuminata da
candele, anch esse certamente prelevate da chiese e santuari, la cui luce si spandeva
su tappeti e pellicce e su alcuni forzieri semiaperti traboccanti gioielli. Codici
miniati e sete stavano a astellati in terra, tra pissidi, patene e lame ageminate.
«Sento odore di Magia» disse tra sé e sé il capo dei briganti, ma a udirlo vi era
solo una giovane, seduta tra i cuscini ricamati, accanto al fuoco. Aveva lunghi
capelli d oro brunito, sciolti sulle spalle d avorio, un viso triste, gli occhi ssi sulle
amme.
Con un gesto di rabbia, Bartolomeo gettò il calice vuoto nel camino, facendo
levare un nugolo di scintille, poi si voltò verso la ragazza: «Stanno venendo a
prenderti. Stolti! uella sciagurata di tua madre... sento il suo odore da qui... ma
c è qualcun altro con lei... È diverso... puzza di zolfo, come se fosse un tizzone
dell Inferno...».
La sua mano sinistra si posò sul pomo della storta che portava al anco;
avvicinatosi alla giovinetta, le sollevò il viso, per poterla guardare negli occhi. Si
vide ri esso in quelle iridi color del mare lontano, vide quei lineamenti umani che
celavano la sua vera natura e sorrise, sicuro di sé e della sua forza, baciandola sino a
farle sanguinare le labbra.

***
Cellini si destò, perfettamente lucido e riposato; osservato il cielo, vedendo che
l alba sarebbe giunta di lì a poco, svegliò Violante. Dal loro riparo guardarono
l accampamento ai piedi del rudere con i fuochi ridotti a braci rosseggianti e tutti
i briganti ebbri e dai lombi stanchi. Persino la zampogna stridente aveva lasciato il
posto ad un concerto fatto di sonoro russare. Ancora una volta, Benvenuto
estrasse la Mano di Gloria e, tenendola dinanzi a sé come uno scudo, prese a
muoversi verso la dimora del capo brigante insieme alla donna.
L artefatto stregato brillava del suo consueto bagliore violetto, gettando
ovunque intorno la sua luce strana e soporifera, che li rendeva invisibili; così i due
poterono attraversare le variopinte tende del campo senza che nessuno intuisse la
loro presenza. Soltanto due cani ringhiarono per poi uggiolare con la coda bassa,
incerti e intimoriti, mentre la luce calda proveniente dall interno del casino di
caccia ltrava tra l edera rampicante e il glicine.
Snudate le spade, Cellini e Violante entrarono nel rudere attraverso quello che
un tempo era stato l ingresso principale, una porta di quercia e di ferro marcita e
lasciata aperta a pendere dai cardini arrugginiti, stupendosi di trovarsi,
all improvviso, non tra muri in rovina da decenni, ma in una principesca dimora.
L ampia scala di travertino era ricoperta da broccato e ogni cosa pareva nuova alla
luce della candele.
Senza mai distrarsi, Benvenuto posò la Mano di Gloria sul corrimano della
scala, quindi con cautela prese a salirne i gradini, spada in pugno.
Magia, pensò l orafo, quella che abbiamo portato noi non è l unica stregoneria ad
agire qua. Mentre avanzava, con la coda dell occhio sorvegliava la donna che era
un passo alle sue spalle.
Lo stocco riluceva nel suo pugno dalle nocche sbiancate.
Giunti al piano superiore, grandi porte ad arco si aprivano dinanzi a loro. Due
erano antri bui e soltanto da una proveniva una luce. Ancora una scala di pietra
levigata.
Salirono. Silenziosi.
Il varco illuminato davanti a loro li condusse in una sala illuminata da mille
candele e da un camino dove ardeva vivace il fuoco. Ovunque, intorno, il bottino
di chissà quali latrocini splendeva con i suoi bagliori d oro e d argento.
Camminando su tappeti e pellicce, calpestando patene e sto e tempestate di
gioielli, Cellini e la cortigiana avanzarono guardandosi intorno.
«Violante! Temevo non saresti mai giunta!».
La voce giunse dalle loro spalle e li fece girare all improvviso, puntando
entrambi le lame.
«E hai portato con te un bravaccio, vedo! Un sicario che si diletta di magia! Tu
mi o endi…».
Benvenuto esplose in un insulto colorito verso colui che gli stava dinanzi. Era
quello Bartolomeo dell Ombra, il temuto e imprendibile capo brigante?
Abbigliato come un principe li ssava irridente, con la mano sinistra posata
noncurante sul pomo della spada ricurva.
«Dov è Giulia? Ridammela!» gridò Violante, gettando via il basco e
avanzando con lo stocco.
Il brigante le si rivolse, quasi in un ringhio brutale: «Tu! Cagna immonda! Non
ricordi dunque il nostro patto? Giulia resterà con me se non onori il nostro
accordo!».
Per un istante Benvenuto si volse a guardare interrogativamente la donna al suo
anco. Un inquieta domanda, un sottile dubbio si a acciò insinuante nei suoi
occhi d acciaio, quando il bandito si rivolse a lui, notandolo.
«Perché? Non te l ha detto? Oh, capisco… dietro questo ferro si nasconde un
animo nobile, non un semplice sicario! Ebbene» proseguì, muovendosi tra i
candelabri con la leggerezza d un danzatore, «devi sapere che questa donna,
molto tempo fa, molti decenni prima che tu nascessi, fece un patto con me. Mi
evocò dal più lontano ducato infernale e, per costringermi a darle ciò che voleva,
mi imprigionò in questa carne mortale. Ah… vedo dai tuoi occhi che cominci a
capire…».
Cellini, senza mai abbassare la spada, ascoltava immobile.
Bartolomeo proseguì: «Sono stato il suo servo per molti anni, legato da
magiche catene fatte di parole. Le ho insegnato a fermare lo scorrere del tempo, a
non invecchiare, ad essere sempre bella e desiderata. È tutto merito mio ciò che
ha. Anche sua glia. Ma il nostro accordo prevedeva che mi liberasse da questo
corpo così greve. Io sono uno spirito, ombra e amma, un tempo cavalcavo nei
cieli sotto lo stendardo del più splendente dei miei fratelli; anche quando
scegliemmo il nostro regno oscuro, restammo fatti del so o eterno. Invece,
guardami! Carne… sangue… proprio come voi».
«Allora rendile sua glia, se non vuoi morire proprio come noi» ringhiò
Benvenuto avanzando minaccioso, quando una forza invisibile gli strappò la spada
di mano, spedendola lontano, tra il bottino sparso sul pavimento del salone. Un
secondo gesto del dèmone lo scagliò contro il muro, facendogli sbattere la testa e
perdere i sensi.
«Adesso veniamo a noi, mia cara Violante» disse il diavolo, avvicinandosi alla
donna. «Volevi vedere tua glia?».
Con un movimento delle dita, come se la traesse nascosta da una bolla d aria,
prese la fanciulla di nome Giulia.
Lo stocco della cortigiana tremò. L ira le a errò la gola in una stretta so ocante.
Adesso era sola, anche quello spavaldo orentino giaceva a terra immobile. Forse
morto.
Bartolomeo dell Ombra abbracciò Giulia, stringendola per i anchi. Aveva lo
sguardo spento, ssava il vuoto dinanzi a sé.
«Lei è mia!».
«Non più. Ricordi il mio nome? Il mio vero nome? Dillo, lei sarà nuovamente
tra le tue braccia e io potrò ritornare al mio ducato infernale».
Violante impugnò l arma con entrambe le mani prima di sibilare un «No» tra i
denti.
Senza batter ciglio, il dèmone portò lentamente una mano a s orare il collo
sottile della giovane, accarezzandola con voluttà e poi, all improvviso, la spinse via
da sé, gettandola contro la donna.
«Allora prendila, Violante. È tua!» le gridò.
Giulia, come una bambola di pezza, cadde sullo stocco tra tta al cuore. La lama
sottile le uscì dalla schiena, mentre lei moriva sotto lo sguardo inorridito di sua
madre, in un lago di sangue.
Il capo brigante si volse da quella scena, dirigendosi verso il grande camino in
cui crepitavano le ultime amme di quella lunga notte. Sentiva i singulti dolorosi
di Violante, poteva quasi udire il suono delle sue lacrime cadute, mentre guardava
il fuoco diventare brace.
Poi, una voce lo indusse a voltarsi ancora.

***
Risorto, l uomo che credeva d aver ucciso stava innanzi a lui e, prima che
potesse estrarre la storta dal fodero, lo vide avanzare e vibrargli un grande a ondo
in pieno petto.
Benvenuto, con la testa insanguinata, ripresosi dal colpo si era rialzato tra le tte
di dolore e, sebbene con la vista annebbiata, oltrepassate Violante e Giulia, aveva
a ondato il suo pesante e lungo pugnale tra le costole del brigante.
Il dèmone, in quelle carni mortali, guardò attonito la mano dell uomo che
spingeva quell arma crudele dentro di lui. Sentì l acciaio a lato raschiare contro
le sue ossa, scavandosi un solco sino al cuore. Così comprese che anche un diavolo
può morire, se incontra un diavolo peggiore.
Cellini lasciò andare l elsa madida di sangue e con lei il corpo inerte di colui che
il mondo aveva conosciuto come Bartolomeo dell Ombra, che crollò a terra,
illuminato dalle braci, raggrinzendosi come una di quelle vecchie mummie che
giungono dalle terre di Moreria. E poi cenere, e nulla più.
Raccolto il pistolese da terra, l avventuriero si volse verso le gure abbracciate,
man mano che riacquistava l uso della vista.
Una ad una le candele intorno andavano spegnendosi, vedendo ciò che restava
di Madama Violante e di sua glia Giulia. Due corpi invecchiati, due cadaveri che
il Tempo, troppo a lungo ingannato, s era ripreso con rabbia. Madre e glia, unite
da un destino malvagio ed empio, ora insieme per sempre, oltre lo Stige.
Mentre l ultima candela della sala si spegneva con un fremito, al principio
dell alba, Benvenuto Cellini, con ancora in mano il suo grande pugnale, discese le
scale, non prima d aver raccolto da terra uno dei tanti calici ingioiellati.
La magia che aveva sostenuto lo splendore interno del piccolo castello andava
rapidamente svanendo con la scomparsa del vecchio diavolo; così, mentre usciva
nell aria fredda del primo mattino, tra i briganti ancora addormentati, ogni cosa
ritornò ad essere ciò che era. Ruderi, rampicanti e braci biancastre.
***
uando il sole sorse sopra le colline di biondi faggi, illuminando il lago, e
Benvenuto Cellini era già lontano, a cavallo, diretto verso Roma, una delle donne
dei briganti s imbatté nella Mano di Gloria, mentre stava andando a liberarsi
dietro un anfratto.
Fu l ultima cosa che vide.
Max Gobbo
I

La villa era bellissima, circondata dal grande parco in cui avevano dimora alti
cipressi, querce frondose dai tronchi ingrossati dal tempo come giganti
troneggianti sulla natura in festa su quell ultimo prezioso scampolo di primavera.
L astro del giorno s ergeva già sovrano nel cielo sgombro di nubi, quando
l orologio rintoccò le nove del mattino. Stormi allegri di rondini tracciavano le
loro rotte segrete nel cielo, veloci e imprendibili come i sogni dei fanciulli, mentre
attorno si spandeva il profumo dell erba appena falciata. La dimora incastonata in
tanta bellezza era un elegante palazzotto del Settecento a due piani, con la facciata
gialla e le ampie nestre bianche come il latte. Frontalmente disponeva di un gran
porticato, rassicurante fonte di frescura nei mesi più caldi. Vasti lucernari e
qualche abbaino s a acciavano sul tetto, in compagnia di diversi fumaioli col
cappello in piombo.
L ingresso della villa dava su un vasto cortile, costituito da un piazzale lastricato
con al centro una graziosa fontana zampillante. Nell ampio salone al piano
superiore una domestica intenta nelle pulizie, scansato il tendaggio color ocra,
aprì una grande nestra che dava sui campi. Scorse, in lontananza, una nube di
polvere sollevata da un cavaliere in rapido avvicinamento che, dando di sprone
alla sua cavalcatura, percorreva a rompicollo la strada polverosa che portava alla
villa. Pochi istanti dopo, un domestico s a rettò ad avvisare l uomo che sedeva
alla pesante scrivania nel suo studio al pian terreno.
«Cosa? Mio glio è qui?» esclamò questi, levandosi all improvviso.
«Sì, signor conte, il signorino è appena arrivato» parve quasi giusti carsi il
domestico.
Il conte Attilio Tempesta era un nobiluomo d antico lignaggio con l aspetto e il
rigore d altri tempi. Alto, tenace e ero, nonostante i suoi sessanta e passa, con la
chioma imbiancata. Sul volto un po scavato e severo, l ombra della contrarietà.
«Eccomi qua, padre mio» esordì il ragazzo, a acciandosi alla porta.
Era un bel giovane, ero e forte, dai lineamenti regolari, gli occhi dinamici
sempre accesi di una luce blu, la fronte ampia, la mascella forte scurita da una
barba rada, il sorriso leale: si chiamava Marco Tempesta.
«Dunque, è vero ciò che mi hanno detto?» fece il conte, con voce di biasimo.
«A cosa vi riferite?».
«E me lo chiedi pure?» sogghignò il genitore. «Al fatto che hai lasciato gli
studi, per non so quale nuova infatuazione. Un ennesima gonnella, presumo,
conoscendoti…».
«Stavolta siete in errore, non si tratta d una donna» puntualizzò deciso il
giovane.
«Se non d una giovinastra, come già avvenuto in passato» chiese il nobiluomo,
«per quale altra ragione, allora?».
Nella sala scoppiò improvviso un gran silenzio, in cui i due parvero studiarsi
come avversari nel corso di un duello.
«Ho deciso di arruolarmi nella Regia Marina» sparò il giovane.
«Ma sei impazzito? E cosa ne sarà della carriera d avvocato a cui tanto
tenevi?».
«A cui oi tenevate!» precisò Marco. «È inutile che vi ngiate stupito; l avete
sempre saputo che diventar avvocato m attrae come l acqua il fuoco».
«Ah, se la tua povera madre fosse ancora tra noi!» protestò il conte, indicando
un quadro sul caminetto che recava l immagine di una donna bellissima.
« uesta, poi!» sbottò Marco. «Mia madre mi ha sempre incoraggiato a far di
testa mia, e gliene sono ben grato».
«Già, t ha allevato cocciuto come un mulo» sospirò il conte con
rassegnazione. «E io che mi ero illuso di far di te un vero Tempesta…».
«Suvvia, padre» fece Marco, con voce raddolcita. «Vedrete, vi darò modo di
esser ero di vostro glio in altro modo, lo prometto».
«E sia» mormorò il conte, «tanto con te non v è altro da tentare che già non
abbia sperimentato».
«Ho dunque il vostro permesso?» esclamò felice il giovane.
«A che varrebbe opporsi? Sei più tenace dell acciaio, forse in questo assomigli
di più a tua madre» tirò un sospiro. «Sì, certo, va pure. E che Dio t accompagni,
gliolo».
Era tanto che quel padre severo non abbracciava il glio ribelle; e fu davvero un
abbraccio speciale, un ritrovarsi prima dell addio.

***
La Fiat saltellava sbu ando per la via polverosa; qua e là qualche casolare,
avanguardie di civiltà nell aperta campagna.
Marco era alla guida, con la tenuta della bisogna: occhialoni, cappello basso di
velluto, giacca corta e avvitata dello stesso tessuto e calzoni larghi alla cavallerizza.
Alle mani, guanti corti in pelle privi di dita, che stringevano il volante di legno
lucido.
Fissava l orizzonte lontano increspato da rade nubi sottili, mentre il sole
incendiava il cielo prima di morire oltre le montagne. L aria fresca della sera era
gradevole sul viso, mentre l automobile si dirigeva vero la meta, Livorno.
Un mese prima s era recato nell u cio d arruolamento della Regia Marina;
aveva letto su un giornale della chiamata alle armi: la Marina cercava giovani
volontari per una missione speciale dalla durata di vari mesi in località
sconosciute. La cosa prometteva una buona dose d avventura e richiedeva
coraggio a tutta prova. Avido della prima e provvisto del secondo in generosa
dose, Marco non aveva perso tempo e aveva rmato all istante. Lo studio lo
ammorbava, tedioso e monotono: che poteva esserci di meglio d una avventura
verso l Ignoto? Ardito, ribelle e scavezzacollo; cos altro pretendere da un giovane
in cerca di gloria? Solo la prova del fuoco mancava, ma a quella si poteva sempre
rimediare.
Il giorno seguente, tutta Livorno vibrava nell attesa. La partenza per il primo
viaggio della nuovissima nave da guerra, l incrociatore Italia, era un avvenimento
speciale, che la città non voleva perdersi per nessuna ragione. Così, per le strade
in occhettate, con ampi festoni tricolore e le bandiere svolazzanti, si preparava
all apoteosi marinaresca.
Una gran folla festante, sin dalle prime luci dell alba, a ollava le strade, armata
d entusiasmo e allegria. Tutti con l abito buono delle occasioni: i signori con la
bombetta, la cravatta e l abito scuro; le signore, dando sfoggio sbarazzino di abiti
da bomboniera e vezzosi cappellini alla francese, con in mano l ombrellino
parasole d ordinanza.
Ovunque, ciurme selvagge di pestiferi ragazzini scorrazzanti, armati di
bandierine tricolore, cruccio e disperazione di mamme inquiete.
La banda suonava allegramente ai piedi del gran palco bardato a festa, mentre le
autorità s adoperavano solerti nei sermoni d occasione.
Intanto, sul ponte della superba unità da combattimento, i trecento marinai
dell equipaggio stavano sull attenti, stretti nelle loro candide uniformi saettanti di
gradi e decorazioni.
Tra essi c era Marco col petto gon o dall emozione in vibrante attesa, i pugni
serrati e il groppo in gola.
«Signori u ciali, marinai, equipaggio dell Italia» esordì il capitano, un
anziano ed energico u ciale contenuto a stento nella sua marziale esuberanza
dalla magni ca uniforme di comandante. « uesto è un giorno solenne per noi e
la Nazione tutta! La nostra unità salperà per la sua prima missione; una missione
d eccezionale importanza, che ci vedrà impegnati in un esplorazione ai con ni
con l Ignoto». Fece una lunga pausa, nel silenzio più totale, quindi riprese:
«Come saprete, si tratterà d un viaggio all insegna del mistero, pertanto gravato
da pericoli d ogni sorta. Ecco perché voi tutti siete stati scelti, tra la miglior
gioventù d Italia».
Una nuova pausa intervenne ancor più gravida d attesa. Il capitano tirò fuori
dalla tasca un foglio di carta e lo aprì con cura, per poi poggiarlo sul ripiano
ricavato sul ponte di comando, sopraelevato di ben sette metri dalla truppa
schierata. Tirato un gran sospiro, s apprestò a leggere: «Roma, 12 giugno 1907.
Auguro all equipaggio di valorosi che s apprestano in questo giorno fatidico a
salpare verso l Ignoto, per portare nell in nito il nome e la gloria d Italia, ogni
successo. Firmato: Vittorio Emanuele III».
Al messaggio rispose un fragoroso applauso da parte di tutto l equipaggio, tra le
grida d esultanza: «Evviva l Italia, evviva il Re!».
Lo stesso Marco fu colto da un fremito d emozione allorché, rotte le righe,
l equipaggio s apprestò alla partenza. Furono rapidamente rimossi gli ormeggi,
mentre la folla veniva invitata ad allontanarsi dal colosso d acciaio, troneggiante
titano. Il giovane prese la sua postazione di timoniere e, sedutosi al suo posto,
allacciò le robuste cinture di protezione.
«Paura, gliolo?» gli chiese il nostromo, sorridendo sotto i ba oni all insù.
«La paura fa fremere il cuore dalla gioia?».
«No, gliolo, la tua è passione vera, amor per l avventura».
«E ve ne sarà molta in questo viaggio?».
«Più di quanto tu possa immaginare, o un vecchio lupo di mare come me
desiderare».
Marco ssò il superiore con trepidazione: fu un istante rivelatorio, sentì che il
suo destino era stato scritto.
La possente unità disponeva di ben sette torrioni corazzati suddivisi tra prua e
poppa. Lo scafo imperforabile dell acciaio migliore, la plancia comando e il ponte
principali protetti da murate impenetrabili e paratie stagne. Ovunque, selve di
mitraglie automatiche e batterie di missili autoguidati. Sull enorme torre di
comando un immenso tricolore sfolgorante alla luce del mattino. La poderosa
unità, superba e bella, recava sulla prua il suo glorioso nome: Italia.
Frattanto, la folla prese a sventolare forsennatamente le bandiere, inneggiando e
applaudendo.
«Dieci secondi alla partenza!» riecheggiò una voce agli altoparlanti. «Sette,
sei, cinque, quattro, tre, due, uno…».
I potentissimi razzi vettori s accesero all unisono, ammeggianti come draghi.
Pochi istanti dopo, con un breve sussulto, la magni ca astronave si levava in aria,
leggera come una piuma. Raggiunta la quota di seicento metri, solenne come un
titano dell aria, l immensa mole dell Italia virò a babordo, puntando la prua in
alto verso il cielo. Il rombo di cento tuoni accompagnò l accensione dei motori di
spinta principali, eruttanti nuvole di gas incandescenti. La gente fu travolta da
tanto frastuono e sconvolgimento; sommersa per intero, coi cappelli perduti
nell aria e gli abiti sconvolti dal vento di tempesta.
La grande astronave s allontanò maestosa. Poi, veloce come folgore, s inabissò
nel cielo in nito.
Marco Maculotti
T W

1
Il mondo è un posto orribile e non di rado i luoghi più paradisiaci nascondono,
dietro un velo ammiccante e subdolo, segreti terri canti che la storia umana ha da
tempo dimenticato e altri addirittura di cui mai ha preso atto. Lo “spiritualismo”
dell uomo post-moderno è una follia assoluta, un castello di carte, uno spettacolo
di ombre e burattini come quello del Tumpek Wayang, la festa del teatro delle
ombre balinesi.
E proprio durante un viaggio nella ridente Bali, meta turistica prediletta ogni
anno da milioni di turisti europei e statunitensi, ebbi l occasione di vedere con i
miei occhi certe cose che mi aprirono gli occhi su tutto questo, a dispetto del mio
lodevole interesse e fascino incondizionato per le culture orientali, di cui da
almeno quindici anni mi occupavo a livello accademico.
Il lettore capirà che, nel momento in cui individuai la guesthouse in cui avrei
trascorso il mio soggiorno nella frequentatissima cittadina di Ubud, nulla avrebbe
potuto fungere da spia su quanto di abominevole ero sul punto di sperimentare in
prima persona; l alloggio per turisti, facilmente raggiungibile dal centro del paese,
da cui non distava che una quindicina di minuti a piedi, era ubicato in una viuzza
laterale, tramite una stradina che si inerpicava verticalmente ad occidente.
Un via vai continuo, di giorno come di sera, di autoctoni recanti doni alle
divinità e turisti con occhiali da sole e macchina fotogra ca di ordinanza mi
avevano convinto che la posizione un po nascosta della residenza non poteva
crearmi alcuna sorta di problemi. L ineccepibile accoglienza della donna che
gestiva il posto, oltre agli occhi dolci della glioletta che ne faceva le veci, non
fecero che convincermi della bontà della mia scelta. E, in aggiunta, non posso
negare che, da amante dell arte e delle religioni orientali, guardai con benevolenza
a quelle due statue di Hanuman e Ganesha presenti, a mo di colonne, all ingresso
della guesthouse, in quello che, a giudicare dalle o erte di riso e ori, doveva
essere un vero e proprio tempietto domestico, come se ne vedono a centinaia
nell isola di Bali.
Così, pattuito l ammontare di rupie indonesiane che avrei dovuto pagare per
rimanere in loco tre settimane, m impossessai a un prezzo più che conveniente di
una non troppo modesta camera con due letti – apparentemente, la guesthouse
non disponeva di singole libere – che si a acciava su un cortile interno, alla stessa
maniera di un altra mezza dozzina di appartamenti occupati da turisti dalla
provenienza più variegata: una coppia di olandesi, un gruppo di amici spagnoli,
un tedesco in viaggio da solo, alcune ragazze provenienti dalla California e, dulcis
in fundo, un distinto signore argentino con antenati italiani.

2
Io, canadese di nascita, e come ho detto antropologo di mestiere, ero
particolarmente interessato all arte religiosa indonesiana, o forse sarebbe meglio
dire a ascinato, nel senso latino del termine. Anni prima avevo avuto modo di
studiare sul campo alcune tribù della costa nord-occidentale del Canada, i cui
soggetti artistici e religiosi mi avevano rapito alla stregua di un incantesimo:
avevo riconosciuto, in alcune rappresentazioni totemiche che gli indigeni avevano
ceduto al museo locale solo dopo decenni di contrattazioni economiche
agguerritissime, alcuni motivi e stili gurativi che avevano fatto scattare una
scintilla nel mio cervello. Ne avevo già ammirati alcuni molto simili – convenni,
dopo aver ri ettuto a lungo – durante un viaggio compiuto da bambino con i
miei genitori, da cui eravamo dovuti rientrare improvvisamente, a causa di
repentini problemi di salute che mi erano occorsi. Solo dopo una ricerca a tappeto
e alcune chiamate ai miei cari, riuscii a localizzare con precisione la fonte della
mia reminiscenza: si trattava di alcuni bassorilievi e di certe stele che avevamo
visitato durante un viaggio in Indonesia nel lontano 1987, quando avevo cinque
anni.
L annosa tematica del popolamento delle Americhe e le variegate teorie su
migrazioni provenienti da altri continenti esulanti la celeberrima ipotesi
beringhiana mi interessavano enormemente già da tempo: nondimeno, fu solo in
quel momento che realizzai in piena coscienza – così, almeno, mi parve allora –
che avrei potuto gettare luce su un inestricabile diatriba accademica che
proseguiva ormai da secoli. Non faticai ad ottenere dall università per cui lavoravo
un bando di dottorato, per eseguire i ra ronti di cui avevo bisogno direttamente
sul luogo; mi venne concesso un anno di tempo per raccogliere i dati e produrre
un lavoro scienti camente a dabile.
Il viaggio di ricerca e studio sul campo, cominciato cinque mesi prima, mi aveva
portato prima in Malesia, dove avevo avuto modo di studiare i numerosi siti
megalitici qua e là disseminati, quindi nell edenica Micronesia, dove ero rimasto
esterrefatto davanti alle costruzioni ciclopiche di Nan Madol, arcipelago
arti ciale edi cato in tempi ignoti da una stirpe titanica. Da lì avevo raggiunto
l isola del Sulawesi, visitando la Valle di Bada, occultata in mezzo alla giungla, con
i suoi monoliti xenomor ed indecifrabili, per poi arrivare nell isola di Giava.
Eppure, nemmeno le discese scoscese e le pavimentazioni vetri cate del complesso
piramidale antidiluviano del Gunung Padang, fra le cui vestigia riposano le anime
che si reincarnarono nella millenaria Lemuria, avevano soggiogato la mia anima
irrequieta come quell angusta camera a Ubud, nel pieno centro di una delle città
più turistiche dell intero arcipelago indonesiano.
Avevo scelto Ubud come base operativa per visitare l intera isola di Bali, alla
ricerca di quei bassorilievi e quelle stele che avevano fatto scattare nella mia mente
l intuizione che avrebbe potuto portare un qualche tipo di gloria imperitura alla
mia carriera accademica, allo stesso modo in cui l indimenticato or Heyerdahl
si giovò della prometeica impresa di attraversare il Paci co su una zattera costruita
alla maniera degli antichi, per conferire credibilità alle sue ipotesi di lavoro
apparentemente fantascienti che.

3
Per diversi giorni compii gite esterne in tutta l isola. Vidi con i miei occhi la
terri cante bocca di Goa Gayah, la millenaria vasca del tempio di Tirta Empul, in
cui assistetti allo spettacolo di donne indiane possedute dalle divinità del loro
pantheon; visitai il tempio di Gunung Kawi, direttamente scavato nella roccia, e
quelli dei “laghi gemelli” Danau Bratan e Danau Tamblingsan. Eppure, non avevo
ancora incontrato nulla di simile a ciò che, nei regressi infantili della mia psiche,
riconoscevo aver visto anni prima, quando ero ancora un bambino e non
m interessavo certamente di archeologia, etnologia o arte religiosa.
Certo, lo stile gurativo ed architettonico dei templi non era del tutto avulso da
ciò che stavo cercando; e, tuttavia, per quanto i motivi decorativi e i volti
demoniaci presenti sui bassorilievi che decoravano le loro pareti ricordassero in
una qualche maniera quanto avevo visionato nei miei ricordi più assopiti, uno iato
pareva porsi fra questi e quelli di cui andavo alla ricerca – come se i primi, che si
dipanavano adesso di fronte ai miei occhi, non fossero che una versione più
recente e umanizzata di quelli che avevo visto allora, che ricordavo essere ancora
più astratti e perversamente caotici dei motivi totemici delle tribù Tlingit, Haida
e Kwakiutl del Paci co orientale.
Forse avrei dovuto preoccuparmi dei singolari rumori che, dopo il rientro dalle
mie peregrinazioni per i quattro angoli dell isola, giungevano alle mie orecchie
alla soglia del sonno, proprio nel momento in cui nalmente le mie membra,
dopo una giornata di scarpinate e levatacce, avevano modo di rilassarsi
meritatamente. Inizialmente, la prima notte che notai la cosa – vale a dire la terza
del mio soggiorno –, non vi feci molta attenzione: siccome i rumori provenivano
da una delle camere occupate dal gruppo di amici spagnoli, pensai che avessero
semplicemente alzato il gomito e mi limitai a in larmi i tappi di cera per evitare
ogni tipo di disturbo sonoro. Lo stesso feci la quinta notte, quando i rumori
provennero dalla camera a ttata dalle ragazze californiane: come immaginare
qualcosa di meno scontato di una combriccola di mancate in uencer americane a
zonzo per l ormai svenduto paradiso insulare indonesiano?
È vero – converrà il lettore – che avrei potuto valutare con più razionalità e
coscienza la situazione quando, durante la settima notte, avvertii che il
pandemonio proveniva dalla camera della coppia olandese, abituata ad andare a
letto alle dieci di sera come si usa fare nelle loro lande durante la stagione
invernale: eppure, a mia discolpa, posso solo dire che in quel momento di
potenziale terrore mi sentivo come avvolto da una spossatezza sovrannaturale, che
andava ben al di là dell ordinaria stanchezza – per quanto gravosa possa essere –
che può derivare da settimane di viaggi, gite ed esplorazioni in un territorio
straniero. uasi mi vergogno nello scrivere che, nel momento esatto in cui udii il
grido sgraziato e innaturale della povera Sijke, piombai come per magia in un
sonno impermeabile a qualsivoglia forma di invasione sonora esterna. Per di più,
data la mia esperienza e agilità mentale, probabilmente avrei dovuto mettere in
relazione quanto di sinistro stava avvenendo sotto i miei occhi con il fatto che il
gruppo spagnolo aveva lasciato la guesthouse la quarta mattina del mio soggiorno,
mentre le turiste californiane avevano apparentemente fatto il check-out la sesta
mattina e la coppia olandese, come un copione che anche un cieco avrebbe saputo
agevolmente leggere e decodi care, l ottava.
Eppure, perso fra i miei demoni e le mie ossessioni, fu solo durante l undicesima
notte del mio soggiorno a Ubud, quando l abominevole richiamo dal profondo
giunse, puntuale come un orologio svizzero, dalla camera del solitario tedesco, che
mi raddrizzai sul letto, quasi guidato da una sorta d istinto di sopravvivenza. Solo
allora potei udire chiaramente tutto quello che si stava veri cando in quella
camera, ubicata a pochi passi dalla mia: potei sentire il sardonico, plumbeo suono
di gong proveniente da profondità illimitate e ignote, accompagnato da trionfali
fanfare di ati inconoscibili, pesantemente acquose e tetramente melli ue nella
loro alterità.

4
Immediatamente, nel giro di pochi istanti di assoluto raccapriccio, decisi di
abbandonare le mie ricerche: sarei ritornato quanto prima in Europa, con il primo
aereo da Denpasar, la mattina seguente. Ma una rapida ricerca su internet mi
dissuase nel giro di pochi minuti: il primo volo disponibile sarebbe stato fra tre
giorni, ragion per cui sarei stato obbligato a rimanere a Ubud l indomani e il
giorno dopo ancora. Mi addormentai con la consolazione che la prima cosa che
avrei fatto la mattina seguente, non appena svegliato e fatto colazione, sarebbe
stata annullare la prenotazione per le notti restanti e trovarmi un altro alloggio
meno sinistro, per la notte che mi restava da passare nella cittadina.
Ma il lettore può immaginare lo stupore e il terrore che mi colsero quando, il
giorno successivo, peraltro con una gita già organizzata, constatai che mi era
impossibile alzarmi dal letto: una febbre improvvisa mi aveva assalito, forse per
via di un intossicazione causata dai molti mesi di alimentazione non abitudinaria.
Ordinai così la colazione in camera, meditando sul da farsi: ma ad ogni mio
tentativo di alzarmi seguiva puntualmente uno svenimento improvviso. Si vede
che l entourage della guesthouse si preoccupò della mia condizione precaria –
streghe maledette – perché al mio risveglio mi diedero il bentornato nel mondo
dei vivi il faccione della matrona che la gestiva e quello della sempre più ambigua
glia quattordicenne, che in quel momento mi parve sul punto di ammiccare
malignamente, trionfante per ciò che, nonostante tutti i sinistri presagi, non avrei
mai potuto immaginare nemmeno alla lontana. Trascorsi tutto il dodicesimo
giorno del mio soggiorno a letto, in una sorta di coma innaturale, con la mente
insidiata da sogni tetramente carnevaleschi di cui non ricordo alcunché di preciso.

5
Il tredicesimo giorno, trovandomi nella stessa condizione del precedente,
rinunciai de nitivamente a lasciare la sinistra guesthouse per cercarmi un altra
sistemazione: d altronde, mancava un solo giorno al volo che avevo prenotato e,
da parte mia, nemmeno riuscivo a reggermi in piedi. Domandai dunque la
colazione in camera e, dopo averla consumata piuttosto svogliatamente, con la
mente persa in mille pensieri non certo confortanti, piombai nuovamente
nell inconsueto stato onirico di cui ero preda ormai da due giorni.
Durante il pomeriggio, fra un pisolino e l altro, mi venne a fare visita anche il
distinto signore argentino, che appresi risiedere nella guesthouse da molti mesi:
rinomato medico e chirurgo, qui aveva trovato – disse – ciò che da tempo
immemore stava cercando. Ricordo che gli accennai delle mie ricerche etnologiche,
di quei vaghi ricordi che la mia infanzia mi aveva recapitato dopo decenni, e del
modo in cui tale eccentricità apparentemente folle si collegava in qualche modo ai
miei studi e alla mia carriera accademica.
Fu allora che mi parve di scorgere sul volto del professionista argentino
un espressione estatica e al tempo stesso terri cante, come se improvvisamente
avessi toccato un tasto che mai egli si attendeva venisse minimamente s orato.
Feci appena a tempo, scorgendo con la coda dell occhio al di fuori dell unica
nestra della camera che dava sul cortile centrale, a rendermi conto che il Sole
stava tramontando e la notte stava insidiandosi pericolosamente nell ordito degli
eventi.

6
L unica cosa che posso testimoniare è che caddi allora in un sonno senza sogni,
come mai ne ho mai avuti in tutta la mia vita. Feci giusto tempo a risvegliarmi,
durante quella maledetta tredicesima notte del mio soggiorno nell odiosa
guesthouse, per udire giungere alle mie orecchie l ignobile fanfara delle notti
precedenti, cui si accompagnava il suono ditirambico del gong, proveniente dalle
profondità più abissali dell intera isola. Lascio al lettore l onere di farsi un idea di
come il sottoscritto, già terrorizzato dall abietto concerto che planava greve sul
suo udito, oltre che del tutto impotente per via della precaria condizione sica,
realizzò con orrore che stavolta la cacofonia proveniva esattamente da dietro il suo
letto, dallo spazio che doveva situarsi dalla parte opposta della stanza rispetto al
cortile interno. In altre parole, signori, il sabba infernale giungeva esattamente da
dietro di me, eppure al tempo stesso da sotto!
I volti della matrona della guesthouse, della maliziosa glioletta e di tutti quanti
avevo avuto modo di incontrare, impegnati nelle rispettive occupazioni lavorative
all interno della struttura, si presentarono come fugaci lampi ai miei occhi,
appena prima di piombare nuovamente nel tartaro più oscuro della fase onirica. Il
lettore mi perdoni se tutto ciò che seguirà potrà apparirgli frutto d illusioni o
esperienze meramente oniriche: per quanto mi riguarda, posso solo confermare –
come gli addetti ai lavori già sanno – che ho appeso la carriera al chiodo e mi sono
immediatamente trasferito in un ridente paesino nella regione dei Grandi Laghi,
luogo di nascita dei miei nonni paterni, per non aver più niente a che fare con
tutto questo.
Perché la storia dell umanità nasconde, tra le sue pieghe accademicamente
accettate, incubi più osceni delle visioni degli antichi profeti folli d Arabia,
insensatezze aliene persino ai maghi eretici più demonizzati nelle ère oscure
antecedenti l avvento della scienza. Io non so – e, a questo punto, non ho più
alcun interesse nell indagare – chi o cosa adorassero, stanziati al gelido settentrione
del mondo, le tribù Tlingit, Haida e Kwakiutl prima della colonizzazione
dell uomo bianco; né posso sbilanciarmi su cosa di terri cante si nasconda dietro
a millenni ininterrotti di culti ancestrali nel Sud-Est asiatico insulare.
So unicamente che soltanto in quel momento, quando mi ridestai in un ampio
sotterraneo decorato da raccapriccianti bassorilievi di granito e di ossidiana
ra guranti gure xenomorfe che mi erano n troppo amaramente familiari,
realizzai essere proprio quello il posto che stavo cercando da mesi: non potevano
esserci dubbi riguardo l inaudita somiglianza tra i volti ferocemente disumani
scolpiti nella roccia nuda e quelli, altrettanto spaventevoli, rappresentati nei
totem lignei delle popolazioni indigene del Canada subartico della costa
occidentale. Persino le stele che mi ricordavo di aver visto da bambino erano
presenti: e anch esse erano decorate dei medesimi, deliranti Leitmotiv.

7
Stavo quasi per dimenticarmi della liminalità della situazione in cui mi trovavo
quando, nuovamente ridestato alla mia coscienza dall infernale baccanale, gettai
un occhiata al resto dell ambiente in cui mi trovavo. Riconobbi una torma di
persone che danzavano convulsamente, gorgheggiando fonemi sconosciuti alla
linguistica accademica e sicuramente distantissimi dal sanscrito, forse mantra
risalenti ad ère senza nome ripescati direttamente dall abisso dei tempi. Tra di essi
vi era la tron a matrona della guesthouse, la glia adolescente e tutti gli altri: di
nessuno si poteva vedere la pupilla oculare, mentre come ossessi danzavano ciechi
nel turbine della cacofonia demoniaca. E fra di essi, con gli occhi fuori dalle
orbite, individuai anche la gura del distinto signore argentino che in quel luogo
abietto e dimenticato da dio aveva trovato – parole sue – ciò che da tempo
immemore stava cercando.
Fu proprio allora, concentrando il mio sguardo sul punto intorno al quale
danzavano parossisticamente, che realizzai in preda all orrore supremo cosa essi
stessero adorando, e verso che genere di esseri il mio corpo veniva ora trascinato,
controvoglia, in loro omaggio, nel mælstrøm satanico. Il lettore mi perdonerà se,
in questa descrizione che con tanta di coltà ora esce dalla mia penna, non posso
fare a meno di essere il più evasivo possibile.
Perché gli uomini non do rebbero avere testa di elefante, né presentarsi in guisa di
scimmie splendidamente bardate di gioielli protoplasmici, né teste di morto
do rebbero ornare i loro colli! E per di più – a rendere ancora più agghiacciante
quella visione – riconobbi in quelle teste dall espressione vacua i volti degli
spagnoli, degli olandesi e delle californiane con cui avevo condiviso il soggiorno
durante quelle due settimane nefaste.
uanto alle gure di quei demoni, sicuramente ignoti al bagaglio visivo ed
esperienziale di qualunque essere umano sano, mi parve che non fossero ssate in
modo de nito, allo stesso modo di un uomo o di un animale, creature dotate di
una sicità ben determinata: i contorni delle loro membra, malignamente eccitate
dal ritmo indemoniato di quel baccanale babelico, vibravano passivamente
emettendo un indicibile vento di caotica negatività ed emettevano un pallido
ri esso, come un opaco velo fosforescente che ne inglobasse la gura, costellato da
lampi scarlatti e verdognoli.
In quello spettacolo avulso da ogni razionalità umana, in quel momento di
delirio tremendo, non mi rimase altro da fare, in un disperato tentativo di evitare
di ssare direttamente lo sguardo su quei mostri, che volgere lo sguardo in alto,
alle pareti e al so tto di quella cripta infernale: fu solo allora che potei vedere i
grotteschi contorni delle ombre danzanti proiettarsi sui muri dell ambiente
ipogeo, allo stesso modo delle idiote marionette di carta del Tumpek Wayang.

8
Solo quando mi resi conto della tras gurazione de nitiva avvenuta nei volti dei
partecipanti all oscuro rito millenario riuscii, in qualche modo, a divincolarmi dai
loro artigli e imboccare un dedalo che pareva salire all in nito, per decine di
chilometri, sperando di poter rivedere ancora la luce del sole. I bassorilievi
infernali correvano su ambedue le pareti che mi trovavo a percorrere,
sottoponendo la mia coscienza ad una sciarada terri cante di cui mi auguro essere
stato l unico spettatore nei secoli dei secoli.
Mi risvegliai la mattina seguente, nel bel mezzo del centro di Ubud, davanti a
una ca etteria piena zeppa di turisti abbronzati e sorridenti, pronti, una volta
consumata la colazione, all ennesima sessione di quello che de niscono – poveri
ingenui – yoga. Arrivai appena in tempo nell aeroporto di Denpasar per
imbarcarmi sul primo volo diretto a Toronto.
Eppure, nemmeno sull aereo, con la prospettiva di essere presto a casa, nel
confortante Canada, in salvo da quegli incubi abominevoli, la mia psiche poté
dimenticare ciò cui avevo assistito: perché avevo visto i volti tras gurati di quelli
che no a poche ore prima avevo ritenuto essere gli albergatori più gradevoli e
disponibili del mondo, e che ora mi apparivano come i volti demoniaci e
metamor ci che avevo già avuto modo di osservare, durante i miei lavori sul
campo, sui totem delle tribù subartiche Tlingit, Haida e Kwakiutl, nonché – non
mi è dato sapere come, né indagherò ulteriormente a riguardo – durante la mia
ine abile, insondabile infanzia.
Gabriele Marconi
R

1. S
Nessuno credeva che in ne sarebbero arrivati a quel punto.
La grande valle che circondava la rocca dove si erano rifugiati gli Ultimi era
punteggiata dalle luci del campo nemico. Erano un in nità. E dopo un in nità di
tempo sembrava arrivato il momento di deporre le armi: l esercito del Caos aveva
chiuso ogni via di fuga. Soltanto i raggi del sole nascente avrebbero
momentaneamente concesso un altra giornata di respiro, ma l incoscienza diurna
non avrebbe permesso comunque di godersele, quelle ultime ore. In poche parole,
restava solo quella striminzita manciata di minuti che mancava all alba per sparare
le ultime munizioni e a dare l anima al Signore un ultima volta, perché dopo il
tramonto sarebbero stati fatti a pezzi. E i vincitori avrebbero sfrattato l inquilino
al piano di sopra.
Morti loro, insomma, morto Dio.
2. V
«Hhhmmmaccheoraè?».
«L ora che ti ricordi di chiudere le persiane quando vieni a letto».
«Oumddiosammhnto, ma… ma sono ancora le sei!».
«Eh già. E io sono sveglia dalle cinque, quindi non fare troppa scena».
«Ma se eri già sveglia potevi chiuderle tu, le persiane! Almeno cinque ore me le
vuoi far fare prima di ripartire?».
«Così t impari a fare quel rumore quando vieni a letto. E poi sotto il piumone
si sta così caldi…».
«Sei irrecuperabile… e leva quella mano… sai quanto ci vorrà per mascherare
queste occhiaie? Le telecamere sono impietose… non mi va di farmi inzaccherare
la faccia per non spaventare la gente».
«Mmmm… tu di pure quello che vuoi, ma lui non mi sembra così preoccupato
delle conseguenze…».
«Ah! Se è per questo, lui è una bestia, amore mio… per lui ogni momento è
buono per fare di testa sua…».
«E dai retta a lui, allora…».
«Hmmmassì… chemmifrega…».
«Mmmm…».

«Ohi ohi… sembra che questa volta la bestia abbia deciso di seguire le tue
direttive professionali…».
«Ma pensa te…».
«Non fare quella faccia, mica è una tragedia… Hai ragione tu. Prima il
dovere!».
«Guarda che non è questo… solo stavo…».
«Cosa?».
«…Stavo pensando… mi è tornato in mente un sogno assurdo che ho fatto
stanotte».
«Che sogno?».
«Assurdo… Ero su una collina e… boh… No, niente… non me lo ricordo più».
«Vabbè… mi sembri più devastato degli altri giorni, ciccio… Dai, chiudo le
persiane e ti faccio dormire ancora un po ».
«Figurati… se riesco… se riesco a…».
Po ero ciccio… Tra un ora però lo sveglio.
3. S
Le ultime scie dei laser tagliavano l oscurità residua, ma nelle la dei due eserciti
cominciava già a scemare l attività frenetica di pochi minuti prima. Gli irriducibili
e quelli giovani, più inesperti, tra i Caotici cadevano in catalessi con le armi
ancora in mano. Ma quasi tutti si sdraiavano al coperto prima di perdere
conoscenza.
Sulla rocca assediata, la Legione degli Ultimi appro ttava come al solito dei
minuti in più per fare più danni possibile ai Caotici che si facevano cogliere dalla
catalessi e cadevano come pere cotte fuori dalle trincee. Per la prima volta, però,
un Ultimo perse conoscenza all improvviso, prima che la legione si fosse ritirata
dietro le mura.
«Copertura! Copertura! Bruno in catalessi! Copertura!».
Passò un minuto buono prima che l allarme del comandante sortisse qualche
e etto: ormai lo sapevano tutti che quelle erano le ultime cartucce, in tutti i sensi,
e volevano usarle bene. La disciplina, tuttavia, ebbe presto la meglio e un Ultimo
si spostò a coprire Bruno, mentre altri due accorrevano per portarlo al riparo.
Proprio allora, però, Bruno tornò cosciente e il suo fucile riprese a ashare i
Caotici sotto la rocca.
Ma ormai il tempo stava per nire anche per gli Ultimi, e la legione si ritirò in
buon ordine al di qua delle mura, per rientrare al coperto.
Il comandante si avvicinò a Bruno, che aveva già sistemato la coperta per
sdraiarsi dentro un vecchio magazzino: «Ci hai fatto prendere un colpo».
Bruno lo guardò, stropicciandosi gli occhi che già tornavano a chiudersi:
«Ormai il colpo ci prenderà tutti, amico mio… Domani notte sarà tutto nito.
Tutto».
«E allora cerchiamo di nire in piedi, no? Non ti era mai successo di collassare
prima del tempo: forse anche laggiù avvertono la catastrofe».
«Certo che… lo sai? uando sono crollato ho visto… lo so che è impossibile,
ma…».
«Ma cosa?».
«No, niente».
«Che hai visto?».
«Non so, credo… boh, prendila come ti pare, ma credo di aver sognato il mio
Compare».
«Sei fuso… Guarda che siamo noi, i sognati!».
«…Ero in un letto e una donna… era bellissima… una donna mi stava…».
«Smettila».
«…Ti giuro, comandante: voleva il mio seme. E, proprio quando stavo per
darglielo, mi sono ritrovato qui».
«Una donna! Sono decenni che non ne vediamo una».
«“Gli Ultimi non conosceranno donne”… e come faccio a dimenticarlo?».
«Appunto! Proprio per questo hai le visioni…».
«Però, quant era bella… comandante! Comandante? Andato…».
Bruno sistemò la coperta sotto la testa del suo vecchio amico, crollato in
catalessi. E si preparò a collassare anche lui. Sognando di sognare ancora.
4. V
«L ho ripreso!».
«Cosa? Che dici?».
«Il sogno di prima! uello della collina… ma non era una collina… era una
rocca forti cata e io…».
«Tu adesso fai colazione e voli come il vento! Tra un ora sei in onda, ciccio».
«Zitta… sta zitta!».
«Oh! Ma sei scemo o cosa?».
«No, scusa… sto cercando di agguantarlo… mi sta scivolando di nuovo…».
«Ma che ti sei bevuto ieri sera?».
«Dammi quel foglio! Dove sta la penna… dammi il rossetto!».
«Ma…».
«Grazie. Ecco… stavamo tutti su… sì, era una rocca forti cata… e… eravamo
circondati da un esercito mostruoso… un accampamento sterminato…».
«Sì, come no… e brandivi Excalibur?».
«No, era… era tipo un fucile a raggi laser».
«È vero, non hai bevuto, hai sni ato borotalco!».
«Se ti stai zitta e mi lasci pensare… oh, è un lm! Ci scrivo un lm da paura».
«Sarà meglio. Perché se non vai in trasmissione ti ritrovi col culo per terra. E te
lo sogni che riesci a pagare il mutuo coi tuoi lmetti… Ecco, appunto: te lo
sogni».
«Non rompere, adesso ci vado. Solo che…».
«Non rompere? A me non rompere? Ma chi ti si la! Torna a dormire, va . E
restaci».
« uasi quasi…».
«Bruno? Non scherziamo, eh? Bruno?».
«Scusa, chiudi la porta quando esci?».
Sbam!
«Giulia… vabbè…». E poi ho un sonno… solo pochi minuti…
5. S
C era qualcosa che non andava.
Gli era già capitato di riemergere dalla catalessi durante il giorno, ma solo per
pochi secondi… giusto un paio di volte, per qualche minuto. Gli Ultimi non
venivano scelti semplicemente in base al ritardo dell entrata in catalessi: la
regolarità dei ritmi dei Compari di veglia era fondamentale. Sennò duravi poco.
Erano tantissimi quelli che riemergevano di giorno, anche per qualche ora. Anzi,
c erano addirittura quelli che restavano emersi giornate intere. Ma non potevano
certo far parte degli Ultimi, perché solo i più a dabili potevano entrare nella
Legione.
Adesso, invece, Bruno stava lì a occhi aperti da quasi dieci minuti e non c era
alcuna avvisaglia di ritorno in catalessi. Aspettò ancora un po , quindi decise di
fare qualcosa che non aveva mai provato prima.
Solo un occhiata… tanto, ancora poche ore, e i giochi sono chiusi.
Ma la disciplina non era una chiacchiera per la Legione degli Ultimi, e guardare
fuori durante il giorno era più che un divieto: era un vero e proprio tabù… e non
per caso, visto che non si ricordava nessuno che fosse tornato indenne da
un uscita durante il giorno. Neanche a parlarne, poi, che potesse capitare a uno di
loro.
Per questo Bruno rimase fermo davanti alla porta per un tempo che gli sembrò
interminabile, senza trovare il coraggio di sbirciare fuori. Si decise quando si rese
conto che continuava a restare sveglio… Assurdo… Che sia questo il segno della
ne?, pensò, ma poi guardò i suoi compagni, che occupavano ogni angolo di quel
vecchio posto… Ma se è così, perché gli altri dormono ancora?
Senza pensarci più, sollevò il chiavistello e cominciò ad aprire la porta ma…
«Dio!»… fu costretto a indietreggiare a tentoni, accecato dalla luce del giorno.
Gli ci volle una manciata di minuti prima di tornare a vedere qualcosa nella
penombra del magazzino, solcata da una lama abbagliante che ltrava dalla porta
socchiusa. Dio mio! È più doloroso che guardare la amma di un falò…
Attingendo a ricordi del suo Compare, strappò una striscia di sto a da un sacco
e se l avvolse intorno alla testa, così da proteggere gli occhi, guardando attraverso
le maglie allentate della juta. Titubante, provò a guardare fuori. Un po funziona…
Alla luce del giorno tutto appariva surreale, come una distesa di neve sotto il
sole… Sembra quel lm dei rugbisti precipitati con l aereo sulle Ande… «Ma di che
vaneggio? Film… rubi… rubisti… Ande… Forse questa luce non fa male solo agli
occhi» disse a voce alta, per appigliarsi a qualcosa di concreto. Prima lo straccio di
juta sugli occhi, poi questo ricordo… Il mio Compare sta spingendo come un matto!
Allora Bruno sorrise: Se sono confuso io, guriamoci quel po eraccio laggiù…
Crederà d essere impazzito!
E, mentre cercava di ragionare sulle intromissioni memoriali del suo Compare
di veglia, cominciò ad abituarsi alla luce diurna, abbastanza da muoversi con più
sicurezza. Lasciò spaziare lo sguardo sull immensità del campo nemico, sorpreso
dalla magni cenza del silenzio assoluto. Calcolò la distanza tra la rocca e le prime
tende dei Caotici, disposte a distanza di sicurezza dai ash degli Ultimi: Ci metto
meno di mezz ora… E nalmente sorrise, accorgendosi di aver portato con sé il
fucile e di aver preso la decisione. Tanto al tramonto moriremo tutti.
Per la prima volta un Ultimo avviò i suoi passi sotto la luce del giorno.
Dopo qualche metro, ricadde in catalessi.
6. V
Prima di andar via, Giulia aveva pensato bene di mettergli il telefono sul
comodino. E adesso lo squillo gli stava trapanando le orecchie. Provò a spegnerlo,
ma era ancora intontito dal sonno, quindi per sbrigarsi a farlo tacere staccò la
batteria, cercando con furia di tornare a sognare quella cosa fantastica. Più si
sforzava, però, e peggio era. Dopo un po si rese conto di essere perfettamente
sveglio.
«Porcaccia la miseria! E adesso?».
Io divento matto… fu il suo primo pensiero razionale. Ma poi, cercando di
rilassarsi per ritrovare il sonno (e il sogno), riuscì pian piano ad accettare l idea
che quel sogno così vivo non era necessariamente indice di pazzia: in fondo,
poteva benissimo essere soltanto un sogno… sì, appunto, un sogno molto vivo.
Che però lo attirava irresistibilmente. E nell anticamera del cervello, o meglio
nello stanzino delle scope… quello dove si accumula così tanta polvere che a volte,
prima che tu ne sia cosciente, sedimenta in roccia… cominciò sorprendentemente
a credere alla possibilità che in qualche maniera potesse essere tutto vero.
uesta coscienza ancora non sedimentata lo aiutò a prendere una prima
decisione, senza nemmeno sapere perché: Per riprendere il sogno devo
addormentarmi da solo, senza aiuti. Niente sonniferi, insomma. Ma sono troppo
eccitato! Si alzò per chiudere bene le serrande, staccare telefoni e chiudere porte.
Andò in bagno a svuotarsi e a bere, poi tornò a letto. Si accese una sigaretta,
fumandola a fondo: Magari il fumo m intontisce… l e etto-canna che mi fa la
prima della giornata… La testa un po più leggera cominciava a sentirla, così ne
appro ttò per tentare la tecnica di Giulia, ovvero del maestro yoga di Giulia:
rilassa tutti i muscoli del corpo… dalla testa ai piedi… uno per uno… non pensare
a niente… rilassati…
Due occhi così, sgranati a guardare il buio. «Rilassati un cazzo!» gridò,
battendo il pugno sul materasso. L esclamazione gli fece venire un idea. Aspetta
un attimo… be , e ettivamente di solito mi rilassa…
Allora pensò a Giulia… alla mano di lei che lo cercava sotto le coperte…
7. S
uesta volta la riemersone fu più lenta, quasi normale. Però, la luce abbagliante
tolse a Bruno ogni dubbio: il suo Compare si era addormentato di nuovo in pieno
giorno. E lo aveva fatto nella maniera giusta… Il comandante dice che sono fuso, ma
stavolta sono sicuro di averlo visto davvero!, pensò, sorprendendosi di aver
accettato con tanta semplicità una realtà così sconvolgente: il suo Compare
sapeva. Forse ancora non è proprio con into, ma di qualcosa si è reso conto. uesta
consapevolezza gli donò ducia, e così riprese a camminare verso il campo dei
Caotici con un sorriso che non trovava più da un in nità di tempo. Controllò il
fucile, contento di aver risparmiato energia su ciente per un altra decina di ash.
Potrebbero bastare. Sì, potrebbero bastare…
Camminava in un silenzio di perfezione archetipica: alle orecchie non arrivava
nulla, a parte il rumore dei suoi passi e del suo respiro e del suo cuore. Provò a
pensare a voce alta, per capire se le parole erano in grado di rompere quel silenzio:
l impressione, sgradevole, era che cadessero a terra come sassi appena uscite di
bocca. Ma continuò, perché qualcosa gli suggeriva che così il suo Compare di
veglia avrebbe capito meglio la situazione: «Niente di divertente, amico mio! In
poche parole, al tramonto la Legione degli Ultimi sarà sterminata, il Caos
prenderà il sopravvento. E senza Ordine non ci sarà più Centro».
Non c era certo il tempo di spiegargli che la guerra cominciata all Inizio stava
per nire male. Né che lui (noi due) aveva la possibilità di ribaltare la situazione…
Be , insomma… diciamo di rimandarla per un po … Per riuscirci, Bruno doveva
mantenersi sveglio il tempo su ciente a trovare la tenda del Capo e cercare di fare
quello che aveva pensato.
«L idea che ho è abbastanza semplice: prendo il Capo e lo nascondo da qualche
parte» disse rivolto all aria ferma. Forse mi sente anche se queste cose le penso e
basta, ma non si sa mai… Era tutto così assurdo che non sapeva bene come
comportarsi. E, nel dubbio, continuava a pensare a voce alta, sperando che il suo
Compare fosse abbastanza sveglio da capirlo.
No! No… non…
8. V
Ma se sono sveglio non… «No! Non adesso!». Diosantissimonnipotente… devo
continuare a sognare… devo…
9. S
«Ce l ho fatta! Diosantissimonnipotente ce l ho fatta!».
Bruno si ritrovò col ginocchio poggiato a terra, intontito ma ancora in sé: con
un atto di pura volontà aveva fermato la catalessi. A sua memoria, non era mai
successa una cosa del genere. Mai nella storia e neanche prima. Allora poggiò
anche l altro ginocchio a terra e rimase così, fermo nella posizione del devoto, a
ringraziare Dio per questa intercessione. ua c è il Suo Divino Zampino, come dice
il comandante…
Si rialzò, guardando la sterminata distesa di tende del campo nemico. La pezza
di juta riusciva a proteggere gli occhi dalla luce abbagliante, ma la vista era
ovviamente limitata. Eppure il campo dei Caotici sembrava perdersi no
all orizzonte, e trovare la tenda del Capo non sarebbe stato facile. «L ago nel
pagliaio al confronto è un faro nella notte!» mormorò. Eppure era l unica cosa da
fare, adesso ne era sicuro.
«Devo farcela. Ce la faremo, compare! Sarà il Capo a farsi trovare».
Lo disse così, senza pensarci… ma, dicendolo, seppe che era la verità.
Saputo questo, cadde di nuovo in catalessi.
10. V
«Perché non l ho staccato? Porca troia, perché non l ho staccato, perché,
perché?».
Alla ne il trillo gracchiante del campanello l aveva svegliato del tutto. Bruno si
era alzato senza far rumore, immaginando che a cercarlo fosse qualcuno mandato
dalla direzione, quando si erano accorti che non si era presentato al trucco, né
rispondeva ai telefoni. Era andato in corridoio e, quando il tipo alla porta se n era
andato, aveva staccato la luce ed era tornato a letto.
Ma niente. Il sonno ormai era un ricordo. «Se ci avessi pensato prima…».
Invece non lo aveva fatto, e adesso stava lì al buio, aspettando un sonno che non
arrivava più. È inutile che stia qua a trapanarmi il cervello… e poi m è pure venuta
fame. uindi andò a mangiare qualcosa. Anche se non ci sperava più, di
addormentarsi, evitò bevande eccitanti tipo ca è o cioccolato (il tè non gli era
mai piaciuto). Anzi, mi faccio una camomilla, che male non fa.
Sgranocchiando gli ultimi biscotti, pensò al sogno che aveva fatto, ripreso e
forse, ma non ne era sicuro, riacchiappato ancora prima di svegliarsi
de nitivamente: La cosa più assurda di tutte è che un po ci credo!, pensò. Forse è
come una rappresentazione onirica della mia crisi esistenziale: il mio subconscio fa le
scenette per mettermi in campana… come a farmi capire che se non mi do una mossa
muore tutto… la mia creatività, il mio sentimento, la mia innocenza… L unico
problema è che non ho una crisi esistenziale! Sto una pacchia che meglio non si
potrebbe… Be , “stavo” una pacchia: il Tg nella fascia di massimo ascolto ormai me lo
posso scordare…
Rinunciò a rimuginarci ancora, anche perché ormai era sveglio come un grillo.
Mi faccio una passeggiata. S in lò una tuta da ginnastica e andò a farsi una
camminata al parco vicino casa. Mentre pensava al da farsi, decise che una corsetta
ci starebbe stata di lusso. Sudò una mezz ora per raggiungere il punto più isolato
del parco, dove c era una quercia immensa sulla quale si era rifugiato
innumerevoli volte, da ragazzino. Si arrampicò no a una forcella fra tre grandi
rami, dove ci si poteva sdraiare comodamente. A quel punto era arrivato alla
conclusione che, quale fosse la verità, una sola cosa era giusto fare:
riaddormentarsi. E se poi Dio muore davvero perché io non ho creduto a un sogno?
Vaglielo a dire a Giulia! A ben vedere, Giulia non ci avrebbe creduto a
prescindere. E comunque, se davvero era così, non ci sarebbe stato un “poi”,
quindi nemmeno una Giulia. La sola possibilità di non vederla più gli fece venire i
brividi. Baciò il rosario che portava al dito… l anello inventato dai Templari per
pregare anche a cavallo… e invocò l aiuto di Dio per riuscire a riaddormentarsi:
«Se vuoi salvarTi e salvare noi, il mio Compare deve acchiappare il Capo dei
nemici, quindi vedi un po che puoi fare…».
Si sistemò più comodamente possibile, guardando il sole tra le foglie…
ricordando che proprio su quell albero aveva dato il primo bacio a Giulia. E
sempre là sotto avevano litigato per la prima volta… Come fossero pecore da
contare, ripensò a tutte le volte in cui si erano lasciati e rimessi assieme…
11. S
Saranno pure decenni che non vediamo una donna, ma se l e etto è questo ci metto
la rma per altri… «Diosanto, è ancora giorno! Sono riemerso di nuovo…».
La meraviglia per questo ennesimo miracolo lo lasciò senza ato. Ma subito
dopo si rese conto che il sole non abbagliava più come prima e si era
pericolosamente avvicinato all orizzonte. Capì che non ci sarebbero state altre
occasioni, perché il tramonto era vicino e gli Ultimi stavano per essere sterminati.
E morti loro, come si diceva, morto Dio.
Devo tro are la tenda del Capo, pensò, rendendosi conto che il suo Compare di
veglia ne aveva frainteso l identità… Crede che sia il capo dei Caotici, nel resoconto
di prima non ho pensato di spiegargli che in realtà il Capo è prigioniero dei
Caotici… cominciò a pensare Bruno, ma smise immediatamente per evitare di
agitare il Compare di veglia e mandare tutto (tutto, nel vero senso della parola!)
all aria.
Ormai era arrivato al campo, e anche se tutto era silenzio decise di non poter
rischiare più di parlare a voce alta. Imbracciò il fucile e cominciò a correre verso il
centro, dove pensava fosse più facile orientarsi verso la tenda…
Il sole scendeva sempre più verso la linea frastagliata delle montagne e l aria
intorno brillava di ri essi dorati. Attraverso la fascia di juta che gli copriva gli
occhi, Bruno cercava di riconoscere qualche indizio, per capire se si stava
avvicinando alla meta. In capo a una decina di minuti cominciò ad aver di coltà
a distinguere una tenda dall altra: nel cielo orientale apparivano le prime stelle,
mentre il sole era ormai una palla rossa all orizzonte. Si strappò la fascia dagli
occhi e, con un brivido, si rese conto che la luce non gli dava più fastidio. Ci siamo
quasi. Tra poco sarà sera e si sveglieranno tutti. Poco importava il fatto che si
sarebbe trovato in trappola: a quel punto la storia sarebbe stata bell e che nita.
Accelerò l andatura, senza più preoccuparsi di far rumore.
Correva a precipizio quando si accorse che non c erano più tende attorno a lui.
Certo, era il campo dei Caotici, quindi non si poteva immaginare nulla di più
lontano dalla disposizione ordinata, ma il fatto che proprio verso il centro ci fosse
uno spiazzo libero così vasto lo lasciò interdetto. Si fermò a prendere ato,
cercando di capirci qualcosa. L area libera dalle tende era talmente grande da non
lasciare il minimo dubbio che la cosa fosse intenzionale. Ma che senso ha privarsi
di uno spazio così grande? Le tende, n dove Bruno riusciva a vedere, erano
disposte a cerchio intorno alla super cie libera, più o meno come le aveva viste
attorno alla rocca. Là c era una ragione, visto che stavano appena oltre il limite di
gittata dei nostri ash, ma qua? Chiaro che Caotici e ordine non s incontravano.
Allora il motivo sta nella paura, come per le tende attorno alla rocca…
Però non si vedeva nulla di anomalo, al centro dello spazio libero. Nessuna
tenda, tantomeno una che potesse apparire come quella del Capo.
Be , ormai è la ne. Tanto vale andare a vedere. Così Bruno ricominciò a correre,
questa volta puntando dritto davanti a lui.
E in ne vide.
«Ma cosa… No! Non è… Diosantissimonnipotente!».
Al centro dello spazio libero, sdraiato a terra su quella che sembrava una lettiga
abbandonata, giaceva il corpo del Capo.
Tremando dalla testa ai piedi, Bruno si avvicinò: la gura a terra respirava
ancora, ma era chiaramente in catalessi.
Bruno si guardò attorno, interdetto: in lontananza, tutto attorno a lui,
s intravedevano nella penombra del crepuscolo i Caotici che uscivano dalle tende,
preparandosi all assalto nale.
In ne, lo aveva trovato. I Caotici dovevano averlo abbandonato quando era
entrato in catalessi, per evitare di rimanerne distrutti. Ormai all orda del Caos
mancavano poche ore alla vittoria e non avevano bisogno di rischiare: con la ne
dell ultimo Ultimo, il Capo sarebbe stato sfrattato e avrebbe perso la Primàzia.
uindi, sarebbe morto. E il Cosmo avrebbe perso il centro. Solo non capisco il
perché di questa catalessi… pensò Bruno. Certo, il suo potere non era più quello di
una olta, ma… Ma era troppo tardi per pensarci. Troppo tardi anche per potersi
allontanare da là con i dieci ridicoli ash che gli rimanevano nel fucile. Già era
ridicola la mia idea di rapirlo nché era giorno! Ma adesso…
Armò il fucile, pronto al momento nale.
Prima di gettarsi alla battaglia, s inginocchiò davanti al Capo e fece quello che
mai dall inizio dei tempi un Ultimo aveva osato fare.
Lo toccò.
E, in quel momento, seppe.
Subito dopo cadde di nuovo in catalessi.
12. V
«Brrr… mi sono infreddolito a stare lassù appollaiato come un corvo».
Bruno batteva i piedi a terra, per sciogliere le gambe intorpidite. Si era svegliato
che era già buio. Tranquillo. Adesso sapeva cosa c era da fare e sorrise, ripensando
a quanto aveva frainteso su chi fosse quel Capo da prelevare e come avesse risolto
una situazione che appariva ormai irrecuperabile… D altronde, è il Capo… Non si
stupì nemmeno del fatto che ora pensava a tutto questo come se fosse la cosa più
normale del mondo. Perché adesso, come il suo Compare di Sonno, anche lui
sapeva.
Gli restava solo una cosa da fare, la più di cile: spiegare a Giulia che sarebbe
dovuto partire quel giorno stesso e che, forse, non sarebbe più tornato. Di sicuro
la vita di prima se la poteva scordare… Però non è detto… sai che scoop! E, in fondo,
oggi se vuoi farti conoscere non c è mezzo migliore della tv… Soprattutto se vuoi
comunicare al mondo una buona no ella.
In ogni caso, per prima cosa avrebbe dovuto trovare il luogo della nascita.
Sorrise perché il termine che gli veniva in mente era location… Poi pensò a come
organizzarsi per la ricerca: Potrei chiedere a Giulia stessa, che ha quell amica che
lavora nell Osservatorio astronomico…
S incamminò, sorpreso da una domanda stupida: Chissà se anche questa olta
sarà in una mangiatoia?
Gianpiero Mattanza
I S P

Stava seduto in una stanza di pietra, in un piccolo paese di montagna con pochi
abitanti. Di mestiere faceva il sarto. Un sarto di abiti, penserà il lettore, uno di
quelli che mettono a posto i pantaloni, misurano e tengono aghi tra le labbra.
Ebbene, no. Le sue creazioni non erano abiti. Non erano mantelli, né maglioni o
pantaloni. Era un sarto di parole. Il paesino, infatti, viveva da molti secoli in una
situazione paradossale: i suoi abitanti non potevano comunicare se non con gesti
sgraziati e brutti a vedersi. Spesso i paesani si confondevano, non si capivano.
Avevano bisogno della ra nata arte della lingua. Erano come cavernicoli,
comunicavano con gesti apparentemente privi di signi cato. Menavano le mani
per aria, disegnando forme strane. A volte si comprendevano, altre no. Avevano
bisogno di un sarto della lingua.
Era sempre vestito con pantaloni di fustagno, zoccoli di legno, una camicia
marrone e un gilet di velluto dello stesso colore. Anzi, no: un poco diverso, quasi
un bordeaux scuro. Il sarto era colui che, periodicamente, dava la parola alle
persone. Solo che, nonostante fossero pochi, gli abitanti del villaggio di montagna
superavano perennemente, nel numero, le sue capacità lavorative. Aveva quindi
sempre molto da fare: si diceva che si dedicasse alle parole degli altri giorno e
notte. Di giorno utilizzava un lo blu, così che potesse distinguerlo dall oro della
luce del sole. Un oro prezioso, che verso sera diventava bronzo. Gli strumenti che
usava erano un ago d osso, un lo di crine, un ditale fatto con il cranio di un
piccolo roditore del bosco. L ago era ricavato dalla tibia di una creatura
leggendaria, l Uomo Capra delle vette. Un ago molto prezioso, che non poteva
assolutamente andar perduto. Veniva da una stirpe – metà umana e metà caprina
– che nelle antichità leggendarie di quei luoghi popolava in gran numero la
boscaglia del fondo valle, ma soprattutto le vette meno raggiungibili.
Poi, con l arrivo del cacciatore, quelle creature – orrende a vedersi – iniziarono
ad essere uccise per le proprietà miracolose delle loro membra. La polvere ricavata
macinandone le ossa allungava la vita; gli occhi, se bolliti in una pentola d argento
al centro di un circolo di pini centenari, donavano la facoltà di vedere il futuro; gli
zoccoli, opportunamente trattati con veleno di vipera, davano una forza
sovrumana. Il Sarto delle Parole lo sapeva bene.
Gli abitanti più anziani del villaggio giuravano di aver visto, nella loro
fanciullezza, fuochi nelle notti autunnali. Tutti gli abitanti della valle sapevano
che nessun uomo avrebbe mai potuto esserne l arte ce. Gli anziani vietavano di
uscire di notte, inalando la fredda aria del buio montano. Tutti sapevano che
quelle rare tremule luci erano dovute a loro, le creature metà uomo e metà capra
della leggenda. Amavano, in particolari momenti dell anno, danzare attorno a
quelle arcaiche amme, lanciando al cielo i loro bestiali belati. Si diceva che
chiunque ascoltasse quel verso tellurico, disumano, privo di parole, rasentasse la
follia. Gli anziani raccontavano queste leggende ai pochi ragazzini del villaggio
nelle prime lunghe notti d autunno, quando da tempo immemore il sole inizia a
diventare più timido e non gioca più con le cime dei monti no a tarda sera.
Anche il Sarto delle Parole, in un oscuro passato, era stato uno di quei ragazzini.
Il paese di Villa Parola era composto da qualche vecchia abitazione in pietra, da
una chiesa con un campanile pendulo e – solitaria e separata dal resto delle case –
dalla baita di pietra del Sarto delle Parole. Era là, lontana, sul sentiero verso la
cima di Colle Abominio. Un luogo in cui si diceva fosse sepolta, da tempo
immemore, la prima creatura caprina, il Grande Uomo Capra delle Origini. Una
belva enorme, nera, orribile, mostruosa. Figlia del Male, dicevano in paese.

***
Tutto accadde molto tempo fa, un tardo pomeriggio di un inoltrato autunno. Il
sole era scomparso ormai da un pezzo oltre le alte montagne: della sua luce
rimaneva solo un lontano, rossastro ricordo. Il velo nero della notte stava per
coprire, lento ma inesorabile, le rozze pietre di Villa Parola. ualcuno iniziava a
ravvivare il Fuoco che non si spegneva mai – girava voce che addirittura da cento
generazioni stava al centro del villaggio, simile in tutto ai fuochi notturni delle
bestie –, altri prestavano le ultime cure alle vacche nella stalla. La chiara frescura
d estate era ormai un tenue ricordo.
Anche il Sarto delle Parole si stava preparando alla notte: doveva nire di
tessere un paio di fazzoletti di congiunzioni per alcune anziane signore giù a valle,
aveva una cu a invernale di avverbi da vendere a un pastore e calze di pronomi da
preparare per la settimana successiva. Era molto stanco. Allora, in genere, si
metteva a fare quel che amava di più: scriveva, per allontanare la stanchezza. Lo
faceva per se stesso, ma con la speranza di essere letto da qualcuno, prima o poi.
Una speranza forse vana, che però gli permetteva di tirare avanti in quel mondo
chiuso e a volte di cile. Non aveva una moglie che gli preparasse un buon brodo
di cappone o medicasse le ferite della sua anima, quindi aveva imparato da un bel
po a gestire pentole ed emozioni. Era anche il sarto del suo stesso spirito, un
uomo che si era fatto da sé.
Stava scrivendo del proprio passato, forse di un amore giovanile, quando d un
tratto sentì qualcosa toccare la nestra nella parete est della baita. Si voltò e
guardò il vetro: fuori, il buio nulla della notte. Il fuoco domestico crepitava a
ridosso della parete sud, quindi inizialmente non fece troppo caso a quello che gli
era sembrato lo scoppiettio improvviso di uno dei ceppi incandescenti. Poco
dopo, lo stesso rumore, con la stessa intensità. Capì che qualcosa stava
picchiettando contro il vetro. Si tolse gli occhiali, posò la penna d oca che usava
per scrivere e si alzò. Non senza una certa inquietudine, andò verso il tavolaccio da
lavoro, non distante dal camino, e prese le forbici che di solito usava per il suo
mestiere. Forbici grandi, antiche, di ferro arrugginito. Camminava lentamente,
avvicinandosi alla nestra... Il suo naso era a pochi centimetri dal vetro. Fuori,
solo il buio.
D un tratto vide ciò che non avrebbe mai voluto vedere. Due occhi
fosforescenti, grandi come mele, a un altezza di circa due metri da terra. Lo
ssavano a distanza ravvicinata, ma non tale da permettergli di scorgere
completamente la sagoma cui appartenevano. Nella notte, riuscì a individuare
solo vagamente l aspetto della creatura. Seguendo la linea di quel “volto”, guardò
in alto: sul capo dell entità svettavano due corna lunghe, ricurve. La prima
reazione fu di terrore: anni di occulto timore, alimentati dalle arcane storie dei
Vecchi, si rovesciarono nella sua testa, paralizzandogli la colonna vertebrale in una
colata di gelo preternaturale.
Poi, il Sarto si dominò. Capì che la bestia doveva essersi avvicinata alla casa per
un motivo preciso, forse non con ostilità. Non avrebbe, altrimenti, cercato di farsi
sentire battendo alla nestra, probabilmente proprio con un corno. Il Sarto capì,
ma non osò aprire. Era necessario che la divisione tra i loro due mondi non
venisse meno. Osservò meglio: la Bestia faceva dei movimenti con le zampe
anteriori, come a coprirsi il muso caprino, dotato – ora vedeva meglio – di una
lunga barba. Metteva le zampe sulla bocca e poi le alzava al cielo, emettendo un
tenue cupo belato, per non farsi scoprire dagli altri uomini del villaggio.
L oscurità, tuttavia, era quasi totale: di cilmente un abitante di Villa Parola
avrebbe visto la creatura. Fece questo gesto tre o quattro volte, senza mai
distogliere lo sguardo dal Sarto. Di nuovo, lui capì. La bestia si voltò lentamente e
si tu ò a balzi nell oscurità, nel totale silenzio, in direzione di Colle Abominio.
Nei giorni seguenti nessuno vide uscire dalla baita il Sarto delle Parole. Alcuni
clienti, i meno pazienti, erano venuti a bussare all austera porta di legno, senza
ricevere risposta. Non poteva aprire. Avrebbero aspettato. Le bestie avevano
atteso tanto... Il Sarto aveva accantonato tutti i suoi lavori, perché ora aveva una
commissione ben più importante da portare a termine. Avrebbe fabbricato una
stola del Verbo da o rire al capo degli Uomini Capra, una fascia di materiale
grezzo cucita con il lo del migliore argento, il materiale della luna. Avrebbe
fabbricato la stola e l avrebbe lasciata fuori dalla baita, su un ceppo di legno, in
prossimità del punto in cui aveva visto la bestia per la prima volta.
Il Sarto delle Parole non aveva fatto parola dell incontro, della sua volontà, di
ciò che stava per accadere. Gli abitanti di Villa Parola non avrebbero capito.
Arrivò, come sempre, la luna piena: bastava un po di pazienza. Poco prima di
mezzanotte, camminando verso il ceppo, il Sarto alzò lo sguardo al cielo: il disco
d argento sembrava un sole notturno. Un sole di mezzanotte. Procedendo
nell erba, identi cò con qualche di coltà il cilindro di legno grezzo: piegò con
cura la stola del Verbo e la osservò alla luce della luna. Era riccamente istoriata con
gure antropomorfe simili a capre. Guardò nel tto della foresta davanti a sé. Era
certo che gli Uomini Capra fossero là. In attesa. Camminò quindi all indietro,
sempre più in fretta, voltandosi solo quando fu necessario aprire il chiavistello
della porta di legno.
uella notte i Vecchi del villaggio videro molti falò sul anco della montagna:
non succedeva da molto tempo. Il Fuoco al centro del villaggio, similmente,
scoppiettava invitto. Si sentì un cupo belato lontano. Un intero coro bestiale stava
urlando al cielo.
Il mattino dopo la stola non era più là. Poco lontano, dove prima c era la baita
del Sarto, si vedeva solo una boscaglia dall aspetto molto antico. Oltre, dove un
tempo c era il Fuoco, nessuna traccia di combustione, nemmeno un pezzo di
legno carbonizzato. Nel sottobosco, tra gli antichi pini di quel luogo arcano, si
poteva scorgere solo un corto fuso di materiale chiaro, un ago fatto con la tibia di
una creatura leggendaria. Ma era quasi invisibile.
Di Villa Parola non c era più traccia.
Adriano Monti-Buzzetti
L

«Finalmente fuori» mormorò Lusis, inalando a pieni polmoni la fresca brezza


che saliva da oriente. La sua guretta esile emerse dalle ombre di un bosco, e
subito il pallido sole del ciclo delle brume riaccese il contrasto tra amma e
za ro: i toni d ambra dei corti capelli da paggio e l azzurro slavato di un volto dai
tratti acerbi, quelli della bambina che era stata un tempo e che troppo presto aveva
dovuto scacciare dalla sua vita. Abbracciò con lo sguardo l interminabile declivio
di basse erbe e funghi color malva: le propaggini occidentali di Delenu, il Sudario,
come la fantasia dei cartogra aveva ribattezzato il vasto territorio di boschi e
brughiere tornato allo stato selvaggio dopo le grandi guerre di con ne. ua e là,
in lontananza, sul piatto orizzonte si scorgevano ancora tracce di muretti a secco e
i ruderi delle masserie forti cate degli antichi coloni.
Si fermò qualche istante, cercando di disperdere la sensazione di stordimento
che sempre la pervadeva dopo tante ore di viaggio tra gli alberi di gevolio. Sapeva
bene che solo i coboldi e pochi altri esseri del Piano Sottile potevano prosperare a
lungo tra le loro resine dagli odori inebrianti: per tutti gli altri, animali inclusi,
attardarsi troppo sotto quei rami avidi di vita avrebbe signi cato smarrirsi in un
sogno n troppo simile alla morte. Scosse la testa. Gli zoccoli della sua cavalcatura
segnavano nervosamente il passo, così la incitò a muoversi con un leggero colpo di
stivale. La risposta fu il brusco passaggio ad un trotto sostenuto, quasi stizzito.
Dalla grande groppa lustra su cui sedeva, il movimento si trasmise alla schiena
della ragazza già a aticata, procurandole una tta di dolore sordo. «Ci vorrebbe
davvero una sella» sospirò.
Subito una voce profonda davanti a lei l ammonì: «Non ti azzardare, sai…».
Alzò la testa e vide il grigio volto barbuto del centauro squadrarla con severità.
«Finalmente ti sei deciso a parlarmi di nuovo» disse, con un sorriso
accattivante.
L altro girò la testa ricciuta in avanti, con movenze di studiata alterigia.
«Dai, non tenermi il broncio» esortò lei. «È la Legge dei Silvani, non puoi
farci niente. Ti ho battuto».
«Hai barato» corresse il centauro, indispettito.
«Senti, ti eri addormentato in un recinto sacro. Sono entrata camminando
all indietro, ho portato felci e acqua di torrente, ti ho lanciato una s da
d indovinelli e ti ho battuto. Tutto secondo le regole. Ora il precetto delle
creature dei boschi ti lega a me. Non puoi be arti degli antichi riti della tua
specie».
«È stato molto sleale. Avevo masticato foglie di fata. Non avevi visto le macchie
sul viso?».
«D accordo, avevo bisogno di un mezzo di trasporto e conosco i vostri punti
deboli. Sia come sia, la Legge parla chiaro: devi restare al mio servizio no al
prossimo passaggio del Drago del Tempo, o nché io non decido di a rancarti dai
tuoi obblighi».
«Il Drago del Tempo… potrebbe volerci un eternità!» protestò il centauro,
voltandosi di nuovo per guardarla dritto in volto. «E poi, come ce ne
accorgiamo?».
«Conosci la leggenda. Il Drago del Tempo perde le sue scaglie trasparenti
durante il volo. Ne troveremo in giro qualcuna. Mia zia ne possedeva una: diceva
che bastava guardarci attraverso per farsi venire subito qualche buona idea».
«Messo nel sacco da una ragazzina… sto proprio perdendo colpi» brontolò la
creatura dei boschi, lasciandosi sfuggire una smor a di ironica rassegnazione.
«Bene, bene, ce l ho fatta. uello era un sorriso. Puoi fare di meglio, certo, ma
è un buon inizio. Ora, che ne dici di presentarci? Mi sembra sciocco viaggiare da
estranei, la strada è lunga. Io sono Lusis. Lusis Brayrea, che in lingua Avargaste
delle terre centrali signi ca Pietra-di-Fiume. E tu?».
«Mi chiamo Ush. Che, per quanto ne sai, vuol dire Poco-Anzi-Pochissimo-
Piacere-di-Conoscerti».
«Ush? Ush e basta?».
«Voi Pedestri e la vostra mania di sempli care le cose…» mugugnò il centauro.
«Magari ti andrebbe bene un nome da cavallo, tipo Grigione o Mantodoro.
Invece i nostri veri nomi – quelli che usiamo tra di noi, o con cui ci chiamano i
fauni e i liocorni – non hanno niente a che vedere col vostro angusto vocabolario.
Sono suoni e immagini legate ai suoni. In genere, richiamano il rumore del vento
o degli zoccoli. Ush, ma anche Shull, Un, Koo…».
«A ascinante» mentì Lusis, sforzandosi di apparire interessata. «E quanti
anni hai?».
«Circa trecento icicli. Vent anni, secondo i vostri termini di paragone».
«Un giovanotto sventato, insomma» scherzò lei. «Ecco perché sono riuscita a
metterti le briglie… si fa per dire».
«Non in erire. Parliamo di te, piuttosto. Come mai quel colore?».
«La mia bisavola Auryl, o Aurilia, era un elfa dei ghiacci».
«Ghiacci?».
«Razza bizzarra. Stranieri per tutti, persino per le altre grandi Case d el . Gran
maghi anche loro, ma dediti più che altro all ascesi: mistici, monache, cose così.
Scelsero di vivere a nord dei monti di Taras Duul, dove la terra nisce e a bagnarla
non c è più neanche il Mare Esterno, ma solo il nero oceano senz acqua che
precipita negli altri mondi».
«Non credevo neanche ci fosse qualcosa di vivo da quelle parti…».
«Già, immagino che uno non debba essere molto attaccato alla realtà, almeno
come noi la percepiamo, per andare a vivere laggiù. Comunque, dopo ere passate
in mezzo al ghiaccio, la loro pelle era diventata di un blu profondo. Auryl decise
di lasciarli e tornare a vivere nel mondo per amore del bisnonno Vinn. Si
incontrarono… be , è una storia lunga».
«Insomma, ha mescolato il suo sangue con quello di un umano…».
«Già, e il risultato ce l hai sotto gli occhi. Mio nonno non dava troppo
nell occhio, a parte le orecchie. Ma mia madre… oh, lei sembrava un cielo su due
gambe. Comunque, poteva andarci peggio: la bisnonna Auryl avrebbe potuto
passarci anche il colore dei suoi capelli. Dicono che neve e latte sembrassero
carbone, accanto a loro».
«Come, “dicono”? Non l hai conosciuta? Dovrebbe essere ancora in giro, se
non altro a seppellire i suoi parenti umani…».
«Non ho voglia di parlarne» tagliò corto lei. «Ci sono state molte guerre. E
l immortalità non resiste alla punta di una spada, come credo sappia anche tu», e
il suo dito seguì delicatamente la traiettoria di una lunga cicatrice che attraversava
le ampie spalle cinerine di Ush.
«Anch io ho cose di cui non amo parlare» disse lui asciutto, sottraendosi al
tocco della ragazza.
«La verità è che anche tu devi aver fatto qualche pazzia, come la bisnonna
Auryl. Per noi, i centauri sono eremiti sapientoni, che lasciano le selve solo per
educare semidei o rampolli di re. Pedagoghi, maestri: dovrebbe essere la vostra
natura, no? Ma forse» ammiccò, «anche questa è una leggenda, dopotutto».
«Già, forse» disse Ush, lasciandosi sfuggire nuovamente un abbozzo di sorriso.
«Comunque, non scordare che quanto ad esperienza ho quasi tre vite d uomo
più di te, anche se dal nostro punto di vista sono solo uno shush-moo-tus… un
“puledro al guado”».
Lusis notò un lampo di malizia nei suoi occhi color ferro, quegli strani occhi
tutta iride, elusivi e ammiccanti. Le vennero in mente i racconti delle anziane,
storie di ragazzine irretite dai sortilegi dei Silvani che nessuno aveva più visto
camminare sulle strade dei mortali. Arrossì, abbassando lo sguardo.
«Non ti mettere in testa strane idee, femmina dal pelo di rame. Non sei il mio
tipo. uelle con sangue d elfo nelle vene, anche quando si tratta di poche gocce
come il tuo, mi danno sui nervi. Non li posso so rire, quegli smilzi vanagloriosi.
Odio le loro corazze lucenti, le loro divise piene di galloni e merletti, le loro trecce
incipriate. L idea che noi e loro dobbiamo necessariamente fraternizzare perché
gli della Grande Madre è la prova che una roccia capisce il mondo molto meglio
di voi umani. E non lo dico tanto per dire: le rocce pensano, anche se voi non lo
sapete. Lasciamo perdere» disse Ush con un gesto di noncuranza. «Mi dici,
piuttosto, cosa combini e dov è che, bontà tua, sarei obbligato a seguirti?».
«Sono un corriere; o, almeno, è ciò che faccio più spesso. Porto cose e parole da
una terra all altra. Mi è congeniale, il viaggio ce l ho nel sangue: da piccola
scappavo di casa quasi ogni giorno. Il mio nuovo cliente è Nosio, gran sacerdote
di Ralendria. Chierico Aurato di nappa viola, mica un Oracolante qualsiasi».
«Non mi abituerò mai alla vanagloria dei Pedestri e ai loro titoli senza senso.
Cosa vuol dire, in concreto?».
«Vuol dire che il vecchio sire Umar non si fa neanche accendere il camino dai
valletti senza prima averlo consultato. Ad ogni modo, Ralendria è di nuovo in
guerra con Og Durnag e cerca alleanze; lo farei anch io al suo posto, se volessi
avere una possibilità contro quello che i simbiarchi di Og Durnag possono
schierare su un campo di battaglia. Nosio vuole Paag Nur dalla sua parte, e mi
manda laggiù con un dono: una specie di minerale sconosciuto con cui spera di
conquistarsi i favori della Dieta e concludere l intesa militare».
«Paag Nur? Sensali e bottegai, per giunta corrotti, contro gli orchi, i vulioni
carnivori e le altre amenità di Og Durnag? Ottima scelta, davvero» la rintuzzò lui
con sarcasmo.
«A quanto ne so, Paag Nur ha buoni combattenti, anche se prezzolati. E poi,
non avevano scelta. Pensaci un istante: a chi potevano rivolgersi? Ai regni
centrali? Troppo lontani. Agli el di Rolitaym? Distanti anche loro, sempre che
gli interessi stuzzicare i simbiarchi per aiutare una decadente signoria del
settentrione. E poi gli Ilien Tuilediad sono già coperti di neve: non ci sono valichi
adatti al transito veloce di un armata».
« uindi devono a dare le loro vite a Paag Nur e ai suoi mercanti. Un
battelliere del Gunnag sarebbe più disinteressato» fece Ush con una smor a di
disgusto. «Perché Nosio è così certo che il dono che trasporti li convincerà ad
aiutarli?».
«Non so, ma potremmo indagare», disse la ragazza.
Ush la guardava incuriosito. Dopo un attimo di esitazione, Lusis aprì il
sacchetto di tela che portava alla cintola e ne estrasse un piccolo prisma dai ri essi
sanguigni, dal taglio irregolare e grossolano. Fissò il campione con interesse: era la
prima volta dall inizio del viaggio che osservava da vicino la merce a datagli. La
posò sul palmo guantato della mano e notò che qualcosa di quel frammento
pareva mutare di continuo, vani cando ogni precedente tentativo di classi carlo:
un attimo prima vista e tatto rimandavano al metallo, l istante successivo alla
pietra, quello dopo ancora ad un tessuto vivente. Un muscolo. Inumano come
dovevano esserlo quelli di Ossimorg, il titano la cui testa inabissata aveva creato
nei tempi antichi la più grande isola del Mare Esterno.
«Non stare troppo a toccarlo, e soprattutto non a mani nude. Non è una cosa
della natura, lo sento» disse Ush storcendo il naso con di denza.
«No, infatti» replicò Lusis. «Mi hanno detto che si chiama Adram e viene
dalle sfere inferiori. Gli accoliti di Nosio sussurrano che tutto l Adram esistente
potrebbe stare tranquillamente su un solo carro; questo perché, in realtà, non si
tratterebbe di frammenti di materia inerte ma di parti di un unico essere
senziente, uno di quelli che vivono nei buchi tra le stelle. Un demone, insomma,
di cui Nosio avrebbe ottenuto il controllo con qualche negromanzia per
costringerlo ad assumere una forma sica… magari, però, si tratta solo di una
panzana colossale».
«C è qualcosa che non quadra» obiettò Ush. «Una manciata di sassi? Perché
allora non prendere, che so, la forma di un gigante con dieci braccia?».
«E io che ne so?» disse Lusis alzando le spalle, un po indispettita dalla logica
incalzante dell altro. «Magari la magia di Nosio non è così potente, o è lo stesso
Adram che ha deciso di complicargli le cose, ammesso che esista davvero. In
genere i demoni sono molto intelligenti, sai».
«Ma ha dei talenti speciali, questa roba?».
«Immagino di sì, visto che a quanto ho capito l intenzione è di forgiarci spade,
lance, corazze e tutto ciò che serve ad armare l esercito alleato. Per il momento,
però, non ho visto nulla di speciale. E se le cose restano così no alla consegna,
tanto di guadagnato».
«Stavolta non posso fare a meno di essere d accordo con te» ammise il
centauro.
«Ecco dunque spiegato perché mi tocca attraversare il Sudario» concluse la
giovane. «E, potendo scegliere, preferisco te a un cavallo o a uno zebo
quattromani: tu, almeno, oltre agli zoccoli hai la clava…».
«E so usarla anche bene, credimi» disse Ush, accarezzando il grande e bronzeo
randello chiodato che portava appeso alla cintura.
Lusis fece nta di non notare la sfumatura minacciosa di quelle parole e cambiò
discorso. Cercando di mostrarsi premurosa, gli cinse con delicatezza i anchi e si
sporse in avanti, cercando d intercettare il suo sguardo indecifrabile.
«Non è che peso troppo? Se vuoi posso camminare, non c è mica bisogno che
appro tti di te tutto il giorno…» disse con tono di complicità.
«Non fare l ingenua» la interruppe l altro. Iniziava a divertirsi con quella
ragazzina, ma non voleva darlo troppo a vedere. «Tu non sei che un passero, e
ovviamente l armatura di vulione pesa quanto un vestito» sentenziò,
concedendosi un occhiata alla sobria ma complessa architettura di schinieri,
alette, cosciali, cubitiere e pettorali che la ragazza si portava addosso, elementi
della brosa corazza maculata che aderiva al suo corpo magro come un secondo
fascio di muscoli. « uello che non capisco è come tu ci sia riuscita. Per spacciare
un vulione corazzato in combattimento ci vuole un guerriero vero, un esperto.
Non dirmi che sei stata tu: anche la credulità di un giovane centauro ha dei
limiti».
Lei alzò le spalle: «L ho trovato già morto, nelle zone paludose vicino alla foce
dell Ilgres, più di due icicli fa. A questo crederesti?».
Era vero: il gigantesco insetto ed il suo carapace duro ma leggerissimo, delizia
degli uomini d arme, giacevano inerti vicino ad una pozza d acqua melmosa.
«Va già meglio, ma non basta» insistette Ush. «Per cavar fuori dei buoni
usberghi dalla pelle rocciosa del vulione ci vuole come minimo un mastro d ascia
dei nani…».
«Be , dato che anche i nani – oltre che i centauri – sembrano immuni al mio
fascino, ho chiesto aiuto a qualcuno più potente e abile di loro».
«E cioè?».
«Mistero…» rise lei, agitando allegramente le dita davanti agli occhi per
evocare una nuvoletta di fumo. « uel che conta è che sono qui, con la mia
armatura nera e gialla, il mio petulante destriero con i boccoli, e questo strano
ciottolo da recapitare a Paag Nur. Prima arriviamo, prima potrei – e dico potrei –
decidere di lasciarti andare per la tua strada».
«Sbrighiamoci allora» concluse Ush, pregustando qualche ora di galoppo
sfrenato. Con un turbinio di piccole scintille sfregò insieme i potenti zoccoli
anteriori, e poco dopo ragazza e centauro erano solo una nuvola di polvere sul
basso orizzonte.

***
Avanzarono per il resto della giornata verso sud-est, lungo i paesaggi uniformi
del Delenu, seguendo una traiettoria spezzata per intercettare il maggior numero
possibile di boschetti e radure. Era stato Ush a suggerirlo, e Lusis convenne che
era l unico stratagemma per evitare che presenze poco amichevoli notassero la
loro presenza sui pianori ormai sempre più brulli. Nelle ultime ore il centauro
aveva preso a guardare con crescente preoccupazione le nuvole che si addensavano
come un immensa spirale nel cielo ferrigno, ma ai muti interrogativi della ragazza
rispondeva solo con sguardi accigliati. Poco prima del tramonto, la volta di nubi
era ormai diventata un uniforme coltre biancastra ed iniziarono a cadere i primi
occhi di neve. Le narici caprine di Ush iniziarono a fremere di nervosismo, i
lunghi occhi grigi erano due fessure che scandagliavano freneticamente un
paesaggio dai contorni sempre più opachi.
«Laggiù! Lo vedi? Un vecchio presidio militare! Grazie agli dèi non è lontano,
ma dovremo volare!» disse, lanciandosi subito al galoppo sfrenato.
Lusis era troppo frastornata per parlare; ma, dopo qualche minuto di folle
cavalcata tra cortine di neve sempre più tta e tagliente, riprese ato e cercò di
gridargli all orecchio: «È proprio necess…».
Non riuscì a terminare la frase. Il mondo si capovolse e un cespuglio di arbusti
ulcerosi l avvinghiò rudemente, gra andole il viso ma attutendo in parte la
caduta. Scosse la testa e cercò di guardarsi intorno: anche Ush si era appena
rialzato, dolorante ma vigile, una rosa di sangue scuro sul lato del volto dov era
stato colpito. Ampi solchi di terra bruna sull uniforme manto bianco dietro di lui
marcavano le pesanti tracce della caduta. Risate stridule echeggiarono da punti
imprecisati sopra e attorno a loro.
«Streghe!» urlò. «Me lo sentivo che non era una nevicata come le altre.
Andiamo!».
Senza aspettare risposta, cavalcò verso Lusis e con un solo movimento del
braccio nerboruto la colse da terra come un fuscello, senza neanche rallentare. Si
girò un istante ad issarla in groppa, poi lo sguardo nuovamente sso in avanti
colse un movimento tra il nevischio. La creatura dei boschi fu lesta a scartare a
sinistra, schivando di poco la ragnatela di dita nodose e adunche che si
protendeva veloce verso di loro. ualcosa sfrecciò, e Lusis intuì dettagli
grottescamente femminili nel turbine nero e verde che le passava accanto. Fu un
tempo interminabile quello speso nella frenetica corsa a zig zag, mentre la clava
del centauro e lo stocco della ragazza fendevano il vento ghiacciato cercando di
allontanare quelle cose antiche e fameliche. Finalmente Ush, ormai semiaccecato
dalla brina, superò quasi planando un muro diroccato ed irruppe nel cortile
esterno del fortilizio. Un lungo ululato di disappunto si mescolò al rumore del
vento, poi ci fu solo la tempesta.
«Presto, prima che ci ripensino» disse Ush e, oltrepassato con un ultimo balzo
il vecchio portale sconnesso, piombò nelle ombre dell antica torre di guardia,
chiudendo l uscio alle spalle con un calcio degli zoccoli poderosi. La sua mole
possente trotterellò scalpitando rumorosamente in un androne pieno di erbacce e
detriti informi, girando su se stessa per dare una prima occhiata guardinga al
luogo dove si erano rifugiati. Ebbero appena il tempo di notare il muschio e i
segni di lama sulle antiche mura umide che passi pesanti risuonarono nel
casermone ed il rozzo arco di pietra davanti a loro s illuminò di una calda luce di
amma. Lusis e il centauro si girarono di scatto, gli occhi sbarrati, e la timida
sensazione di sollievo che già aveva iniziato a rincuorarli morì in quel preciso
istante. ualcosa di grande e tozzo stava scrutando l ingresso con una torcia, e
quello che vide dovette piacergli, perché un ringhio sordo di soddisfazione iniziò
a sovrapporsi al schio attutito della tempesta che infuriava all esterno.
«Une, une, hukh wak-tò» gorgogliò la cosa, rivolta a qualcuno che era oltre il
loro campo visivo. Altre grosse gure tarchiate si stagliarono rumorosamente
nell apertura, ed il fuoco illuminò le loro lugubri uniformi di cuoio ed acciaio, i
lunghi ba impomatati, le zanne gialle, le nuvole di alito caldo e nauseabondo.
Grappoli di occhi ammeggianti squadravano con cupidigia i due malcapitati,
mentre osservavano con desolazione il resto del drappello di orchi ammassarsi
velocemente nell apertura. Orchi di Og Durnag, come confermava l intreccio
d ossa e lance spezzate sbalzato sulle pettorine del loro reparto. Per un istante la
curiosità ebbe il sopravvento sulla paura e, mentre scendeva a terra e sguainava il
suo stocco, Lusis si chiese cosa avesse portato quelle belve sanguinarie tanto a sud.
Poi l intuizione arrivò, violenta come un pugno: andavano nella loro stessa
direzione. Anche loro erano diretti a Paag Nur, per strappare un alleanza al più
mercenario dei governi umani, ed erano stati costretti dalla tempesta a cercare
rifugio in quei ruderi. Tanto sfortunato e imprevedibile era stato il loro incontro,
nelle vastità desolate del Sudario.
Ringhiando divertiti, avanzarono nella stanza. Le nude zampe verdastre
gra avano il pavimento, oscenamente esposte dai gambali di pelle conciata. Scure
sciabole ricurve mulinavano tra i loro artigli con aria di s da, mentre l orribile
fanteria si avvicinava ai due intrusi, stretti ormai anco a anco. Lusis e Ush non
ebbero il tempo di parlarsi, né sarebbe stato utile farlo con i loro bestiali avversari.
Uno di loro, lo scuro colbacco cimato da tre crani posti in verticale, si portò
innanzi e li squadrò dall alto in basso con aria sardonica. Poi un schio lacerante
riecheggiò nell antico forte e, come uno sciame di api assassine, la milizia
dell inferno attaccò. La ragazza ebbe appena il tempo di notare il brulichio di
mostri attorno ad Ush, impegnato in una frenetica danza di calci e randellate; poi
un ombra scura si fece avanti e Lusis vide torreggiare su di lei il nero detestabile
colbacco con i suoi galloni fatti di teschi umani. Mise lo stocco davanti a sé in
posizione di parata, ma il colpo del sergente degli orchi lo spezzò come un ramo
secco, aprendo un solco nella corazza di vulione e facendola ruzzolare a terra.
Sentì in bocca il sapore del sangue e annaspò tra la polvere, cercando di rimettersi
in piedi e tastando freneticamente il cinturone in cerca della daga. Muovendosi
alla cieca, le nude dita intirizzite s in larono per sbaglio nella sacca appesa alla
vita; poi, per l eternità di un istante, la battaglia e il mondo intero si
dimenticarono del corriere mezzosangue di nome Lusis.

***
La prima cosa che i suoi occhi misero a fuoco fu la punta dei propri calzari.
Ondeggiavano sotto di lei, nell abisso senza ne che apriva in due l orizzonte di
una rossa landa deserta, oppressa dalle forme caotiche di un cielo simile a lava
fusa. Alzò lo sguardo e lo vide, anch egli sospeso nel vuoto. Due occhi stranieri, le
pupille cremisi, la osservavano con divertita alterigia da un volto al quale memorie
lontane associarono subito un nome dimenticato da anni: Causio, glio
dell intendente di Gubern. Il moccioso viziato per cui aveva avuto una cotta
infantile, l inventore di alcuni tra i più taglienti soprannomi per la sua carnagione
azzurrata. Indossava un ra nato abito da cortigiano con cotta e gorgiera, la testa
incorniciata da una cresta membranosa e variopinta come la coda di un pavone.
Pareva del tutto a proprio agio sul pesante scranno, che come lei stessa pareva
levitare a centinaia di leghe dal brullo mondo sottostante.
«Causio…?» balbettò, anche se non era sicura che le sue labbra si muovessero
davvero.
«Ad ram lech» fu la risposta, «guardarobiere dell Oscuro, cancelliere
dell Ordine della Mosca, primo idolo assiro di Sépharvaïm, ottavo degli
arcidiavoli secondo il Concilio di Braga…».
«Cosa…».
«Creatura» disse il ragazzino in tono condiscendente, «ti sto dicendo il mio
nome ed i titoli tributatimi nei vari mondi, o almeno i più altisonanti. La faccia
che osservi è solo una cortesia formale: dopotutto, è dai tuoi ricordi che l ho
presa. La mia “parola madre” è di di cile pronuncia, per cui chiamami solo
Adram. L ho concesso anche al patetico prete che ti paga, quell ingenuo che
credeva davvero di conoscere chi voleva rendere schiavo».
«Tu… sei Adram?».
Sentì un brivido nella mano destra. Tra le nude dita, in quella presa che non
riusciva ad allentare, pulsava la sostanza aliena datagli da Nosio.
«Che cosa vuoi? Perché…?».
«È un gioco, creatura. Un gioco, ma anche una necessità. Te la faccio semplice:
dalle mie parti ho dei problemi, per così dire. uindi trasloco da voi. Non come
ospite, certo». E sorrise, mostrando una la di denti da lupo. «Il ruolo del
padrone mi si addice di più».
«Che vuoi dire?».
«Che mi prendo tutto. Inizierò con il regnucolo da farsa che ti ha mandato,
quegli eunuchi dei suoi alleati, le mostruosità patetiche che lo combattono. Poi
mi espanderò sul resto di questo mondo. Entrerò nelle teste dei governanti come
sono entrato in quella di Nosio, e i soldati che indossano parti del mio corpo
vivranno e moriranno per me. Sarete il mio ristoro, in attesa di riprendere le forze
per battaglie ben più importanti. Oh, ma non vi annoierete di sicuro: ci saranno
guerre sotto il mio dominio, anche se più che altro per divertirmi. Ad ogni modo,
ho parlato n troppo. Ora tocca a te».
«Cosa devo dirti?».
«Solo rispondere a quattro domande semplici – anzi, banali. È un vezzo che
pratico un po con tutti. Sai, il limite che separa il demone dal dio è quasi sempre
un ossessione. La mia, ad esempio, è quella del gioco. E questo gioco si fa con
domande e risposte, tutte brevi come respiri. Dovrai darmi il massimo dicendo il
minimo. Comunque, non pretendo che tu capisca più di tanto: mi regalerai le tue
verità, poi ti riporterò dov eri. Cosa cambierà dopo? Niente, oppure tutto. Sarai
tu a deciderlo. Ed ecco la prima domanda. Chi sei?».
Lusis cercò di articolare una frase, ma una voce dentro di sé l anticipò. Il sangue
le pulsava nelle vene, qualcosa di antico dentro di lei liberò parole mai dette:
«Siamo Lusis ma anche Auryl, sua ava. E la glia di lei, Msana, e tante altre.
Spirito appoggiato sulla carne, che scruta il dolore di tutti. Anche il tuo».
La maschera annoiata dell imberbe fanciullo sul trono sembrò vibrare per un
attimo.
«Seconda domanda: cos hai fatto?».
«Rubato, viaggiato, so erto. Ma tra noi c è chi ha regnato, evocato, salvato.
Tutte, in ne, abbiamo amato».
«Cosa farai ora?».
«Ci prepariamo a morire, sembra».
«Attenzione, ecco il quesito nale. Il più importante». Il demone riprese
sicurezza, pregustando lo sconcerto della sua vittima: «Perché non ti aiuterò?».
«Perché sei un uccello in gabbia» disse Lusis d un ato, come in trance. «E
non vedi che noi te l abbiamo aperta».
I tenebrosi occhi vermigli divennero due fessure. Il sorriso di adolescente prese
una piega ferina: «Spiegati meglio. È la prima modi ca che inserisco nel gioco da
molto tempo. Ma, bada, ne hai ancora per poco».
Dalla mente annebbiata della ragazza le parole partirono come frecce: «Ti
leggiamo dentro. Ricordi di lotta. Una guerra tra divinità nere, ben più potenti di
te. Temi lo scontro, vuoi fuggire, ma fare il despota su un mondo intero ti farà
solo trovare più in fretta. Noi siamo donne, sciamane, elfe. Col Piano Sottile c è
più di una parentela. Una nostra parola al vuoto tra le stelle, qualcosa di
sgradevole che la raccogliesse, e per te sarebbe la ne. Ma possiamo darti un vero
rifugio: l universo della nostra mente, che governiamo. Lì, però, se accetti,
giungerai davvero da ospite. E tale resterai, assecondando questa nostra giovane
erede e seguace nché non decideremo altrimenti».
L etere circostante di riempì di un ronzio rabbioso. L arrogante efebo seduto sul
trono non esisteva più: al suo posto c era una nube di occhi, denti e sangue
rappreso. Tutto in quella cosa era odio e rassegnazione. Ma anche sollievo.

***
Da una feritoia nascosta nel buio, una folata di vento e brina colpì il volto di
Lusis. Si toccò la guancia e vide che era macchiata di sangue nero e fetido, lo
stesso che marezzava come un fregio orrendo pareti e pavimento del vecchio forte.
Attorno a lei, inerti come ciocchi di legna da ardere, giacevano gli arti smembrati
della pattuglia di orchi. La testa mozza di uno di loro serrava ancora con le
mandibole il suo gomito corazzato, in una posa grottescamente comica. Ush,
malconcio e con una vistosa ferita alla coscia, giaceva accanto alla sua clava rotta
in un angolo del freddo stanzone. La bocca era aperta, gli occhi spalancati e ssi
su un punto vicino a lei. Seguendo la traiettoria del suo sguardo, Lusis arrivò
all estremità del proprio braccio dove un arma vagamente simile a una picca,
sagomata a ricordare le forme di un sauro, fremeva nella sua mano con bagliori
color rubino. Si girò di scatto: qualcosa ancora si muoveva tra le ombre. Senza
pensare, mosse l estremità dell asta in quella direzione ed aggrottò la fronte. Le
fauci della lancia-drago si aprirono con un sibilo, proiettando fuori una sfera
infuocata che arpionò l orco ferito e, senza neanche dargli il tempo di urlare, lo
dilaniò all istante, spargendone membra e uidi sull impiantito. Poi le ganasce
della mostruosa arma si chiusero di nuovo, sbu ando fumo acre dalle narici,
mentre i suoi bagliori interni scemavano in una uniforme tinta rosso cupo. Lusis
la avvicinò al fodero del suo stocco ormai perduto, e non si meravigliò nel vedere
che essa si contraeva come una cosa viva, rimpicciolendo per adattarsi senza sforzo
all imboccatura. In qualche modo sapeva che, nel momento in cui l avesse usata
di nuovo, avrebbe avuto tra le mani un arma completamente diversa.

***
«Ush, quanto tempo è passato?» chiese al compagno esterrefatto.
« uanto tempo… da cosa? Che domanda è? Io… vuoi spiegarmi cos è
successo?».
Lei non rispose, limitandosi ad aprire lo zaino e a tirare fuori bende e unguenti.
«Pare proprio che bisognerà coccolarti un po » disse.
«La ferita può aspettare» incalzò il centauro, dolorante. «Vuoi deciderti a
spiegarmi qualcosa? Un momento siamo a terra, praticamente spacciati. E quello
dopo eccoti lì, invasata, a mietere braccia e teste con quella… quella…».
Lei si avvicinò e gli appoggiò delicatamente le dita sulle labbra. «Abbiamo
tempo. Per ora, quello che conta è che a Paag Nur non ci andiamo, e che
Ralendria dovrà risolvere le sue beghe senza il nostro aiuto. Ho appena deciso di
mettermi in proprio, o qualcosa del genere. uanto a te, da questo momento sei
libero, ma preferirei che restassi con me. E poi ti conviene starmi vicino, credimi»
disse con un sorriso, inchiodandogli lo sguardo ai suoi occhi color del sangue,
quegli strani occhi luminosi che il centauro aveva creduto verdi no a poco prima.
«Sai, ho un sacco di fantastiche idee che mi ronzano in testa…».
Enrico Rulli
P

Pioveva da tre giorni: settantadue ore ininterrotte di acqua che dal cielo grigio
cadeva, cupa e uniforme, su strade divenute specchi dal fondo nero, su piante
ischeletrite ripiegate su se stesse, su uomini che si a rettavano con l anima
bagnata a capo basso.
Avevo fatto tardi al lavoro e uscii quando era già buio. I bagliori delle lampade
led si ri ettevano sui tetti delle auto che incrociavo. La strada era deserta. Rade
luci bluastre indicavano che la gente era seduta di fronte alla televisione.
Arrivato a casa, parcheggiai e corsi verso il portone. Il picchiettare furioso delle
gocce che mi aveva accompagnato in auto, una volta entrato nel mio
appartamento, si trasformò in un rombo sommesso e uniforme.
Appesi in bagno l impermeabile zuppo, mi svestii e indossai gli abiti da casa;
presi qualcosa dal frigorifero, accesi la televisione. Non avevo fame: seduto sul
divano, il piatto sulle ginocchia, lasciai che il tepore dei termosifoni pervadesse il
mio corpo. Chiusi gli occhi.
Mi svegliai di soprassalto. L orologio sulla libreria segnava un quarto a
mezzanotte. La televisione continuava a mormorare, il confuso rimbombare della
pioggia proseguiva. Posai sul pavimento il piatto che avevo tenuto tutto quel
tempo sulle gambe, cercai a tentoni il telecomando e spensi il video.
Andai a letto.
Mi svegliai di nuovo a tarda notte. Le lancette fosforescenti della sveglia
segnavano le tre. Avevo aperto gli occhi spinto da un angoscia oscura. Il rombo
della pioggia era aumentato. Mi alzai, raggiunsi la nestra e sollevai la tapparella:
la tta ragnatela delle gocce si era trasformata in un insieme di grosse funi che
sferzavano le cime dei platani e i giovani cipressi del giardino sotto casa. La
pioggia cadeva dritta, senza vento, colpiva la terra con forza, sollevava spruzzi che
ruscellavano disordinati ai lati della strada.
Pensai di riabbassare il rotolante e tornare a letto, quando il suono di una voce
mi bloccò. Erano parole confuse, che trasmettevano un senso d urgenza, come un
urlo lontano.
Abito all ultimo piano di un vecchio palazzo a Cortaldo, un paese vicino a
Firenze: è un agglomerato di case che sorge a metà strada tra Firenze e la Val di
Mugello; una zona tranquilla in cui la gente, quando piove, va a letto presto o
rimane alzata a guardare la televisione, tenendo basso il volume. Dalle mie nestre
si vedono le vette del monte Falco e, più in basso, la via Fiorentina e le nestre
delle case di fronte. La voce proveniva dalla strada. I doppi vetri attutivano il
rumore.
Spinto dalla curiosità, aprii un battente. Il rumore della pioggia, non più ltrato
dalla vetrocamera, mi colpì. Anche la voce si fece più vicina. Mi sporsi, cercando
di ignorare le gocce gelate che cadevano di trasverso, superando il cornicione del
tetto. Vidi un uomo, interamente coperto da un incerato arancione, con un
cappello a imbuto, simile a quello dei pompieri, che s avanzava sulla strada. Era
voltato verso la villetta che sorge dirimpetto al palazzo dove abito, di proprietà del
capo dei vigili urbani: agitava le mani e dal gran cappello l acqua scendeva a
ventaglio.
«Il ume ha rotto gli argini» stava dicendo con urgenza. «Abbiamo chiuso la
strada, il paese è isolato».
Cortaldo è attraversato dal Falza, un a uente della Nieve, che a sua volta si
getta nell Arno. È un umiciattolo a carattere torrentizio che d estate quasi
sparisce e di rado si gon a e spaventa, incassato com è nel suo alveo sassoso, largo
e profondo.
L uomo parlava con un individuo in ciabatte sulla cinquantina, dalla faccia
inespressiva. Era il capo dei vigili urbani, che abitava in quell appartamento.
Costui aveva aperto la porta nestra e, completamente esposto al diluvio che
gl incollava il pigiama al corpo, ascoltava le parole dell altro. Dietro di lui faceva
capolino la moglie, proteggendosi la testa con una busta di plastica bianca.
«La terra è fradicia, non ce la fa più a trattenere l acqua» continuò quello con
l incerato. «Il campetto con i giochi dei bambini, quello sotto la stazione, si è
allagato. Ma mi preoccupa il ponte della Pieve. Se frana quello, va sotto il paese».
Altra gente s era a acciata. Volti inquieti si sporgevano dalle persiane aperte.
«Il Falza continua a salire» disse ancora quello con l impermeabile, e tacque.
Il capo dei vigili taceva, il corpo esposto al diluvio. La pioggia ne confondeva il
volto.
«Bisogna fare qualcosa» aggiunse quello con l incerato. «Abbiamo rinforzato
le spallette ma, se il ponte crolla, le macerie ostruiscono il ume e succede un
disastro».
Allora il capo dei vigili disse: «Vengo». Si ritrasse. La porta nestra venne
chiusa con fracasso.
L uomo in strada rimase fermo, immobile, le braccia abbandonate lungo i
anchi, lasciando che la pioggia lo martellasse. La gente che s era a acciata
rientrò, i rotolanti vennero riabbassati, le imposte furono sbatacchiate con forza.
Io non riuscivo a staccarmi da quella scena. Era come se avessi il corpo incollato
alla nestra.
Passarono pochi minuti e udii lo scatto elettrico del cancelletto della casa di
fronte. Apparve il capo dei vigili urbani, intabarrato in un lungo impermeabile
grigio d ordinanza: si portò di anco a quello con l impermeabile giallo ed
entrambi s incamminarono veloci su per la leggera salita.
uasi subito altri portoni e cancelli si aprirono. Uomini, donne, vecchi, ragazzi,
quasi tutti gli abitanti del paese si a rettarono senza parlare, senza salutarsi,
imboccarono la strada bagnata dietro i due che erano già spariti nel buio.
Allora mi staccai dalla nestra, la richiusi, misi i primi indumenti trovati
nell armadio e mi precipitai anch io in strada, senza curarmi di chiudere a chiave
la porta. Mi unii a quella folla silenziosa che s inoltrava nella foresta di gocce.
Il vecchio giaccone imbottito che mi ero in lato s inzuppò quasi subito,
divenne pesante come piombo. Le gocce picchiavano con violenza sul cappuccio
strettamente legato intorno alla testa: le sentivo esplodere come schegge di
granate, colarmi lungo la faccia, schizzarmi sugli occhiali, sulle labbra serrate.
La via pareva un torrente. Le fognature, gon e e mezze intasate, non ricevevano
più, l acqua si stava impossessando di tutta la sede stradale. Ruscellava impetuosa,
entrava sotto le auto parcheggiate, creava mulinelli tra le mie scarpe, pareva
spingermi.
Sempre più gente usciva di casa, si univa a noi in una processione sfocata, irreale
alla luce dei lampioni che malamente bucavano la cortina di pioggia,
illuminavano un tratto di cielo nero, di cui a stento intravedevo li senza ne di
pioggia indi erente.
Il ponte sorgeva a circa un chilometro dall abitato. Era stato costruito il secolo
precedente per permettere ai barrocciai provenienti dalla via Fiorentina di
dirigersi in direzione Bologna senza attraversare Fiesole. Si trovava esattamente al
centro della valle. Accanto a esso alcune case di pietra si a acciavano sul ume, e
la Badia col campanile sorgeva poco lontano, arrampicata sulla collina.
Dal lato della strada, l argine, formato da blocchi di pietra squadrata umidi di
muschio, era stato ra orzato su entrambe le rive con una doppia la di sacchi di
sabbia. Il ume già lambiva le due arcate del ponte. Due carabinieri, avvolti in
impermeabili leggeri su una campagnola posta di traverso all incrocio, fermavano
il tra co.
Altre persone giungevano dalle case disposte sull altro lato del ume, lungo le
pendici della collina che portava alla Badia, muovendosi cauti sul fondo
sdrucciolevole.
La folla s aggrumava intorno all argine ra orzato. La situazione appariva
drammatica. L acqua vorticava, muggiva inquieta. Nella semioscurità si vedevano
brandelli di spuma e detriti galleggiare un attimo, trasportati a folle velocità, per
essere inghiottiti dall oscurità di quei gorghi senza ne.
Un cupo brontolio riempì il cielo.
Il silenzio, che no ad allora aveva regnato assoluto, venne infranto da una voce
di donna che iniziò a pregare: «Padre nostro che sei nei cieli…». Altre voci si
unirono. Parecchi alzarono la testa verso la chiesa che, illuminata dai ri ettori al
sodio, splendeva contro il buio della collina.
Altri si avvicinarono ai sacchi di sabbia, si sporsero a turno: guardavano per un
attimo, poi si ritiravano. La folla, intanto, si distribuiva lungo le due rive.
Si udì di nuovo il rombo del tuono. Se possibile, la pioggia aumentò ancora di
più.
Il tratto tra il ponte e il paese era in discesa. Se il ume fosse straripato, in breve
l acqua avrebbe violato l intimità degli appartamenti, sarebbe mulinata nelle
cantine, avrebbe forzato la porta di botteghe e garage.
D improvviso, un vecchio salì sui sacchi di sabbia dell argine. Era avvolto in un
impermeabile liso, stretto in vita da una cintura legata con un doppio nodo, in
testa portava un cappello di feltro scuro. Il vecchio alzò il pugno verso il cielo.
«Come ti permetti?» urlò. E dalla sua bocca uscì una bestemmia orrenda.
La folla si azzittì, sbalordita.
Con un boato immane, il tratto d argine su cui il vecchio si era arrampicato
cedette alla furia della corrente, pietre e sacchi crollarono in mezzo al gorgo,
portandosi via l anziano. Spruzzi di gocce fangose sporcarono le persone
d intorno. Mi parve che l acqua male ca si alzasse a dileggiarci.
Per lunghi istanti nessuno si mosse. Io ero rimasto indietro. Mi avvicinai alla
voragine sbreccata e ssai quella confusione di materiale franato, che mi parve un
pozzo senza fondo. Del corpo dell uomo nessuna traccia.
Una donna, una decina di metri alla mia sinistra, si arrampicò anch essa
sull argine, alzò anche lei il pugno verso il cielo e urlò: «Prendi anche me, se ne
hai il coraggio!». Anche dalle sue labbra prese a sortire una litania di oscene
bestemmie.
Si udì di nuovo quel brontolio e, con uno scricchiolio sonoro, il tratto su cui si
era arrampicata la donna cedette anch esso. La donna rimase per un istante in
bilico sulla frana, fece in tempo a urlare di nuovo la propria s da, a sputare una
maledizione. La voce cessò, improvvisa, e seguì il rumore di uno schia o
nell acqua.
Ci guardammo. Tra la folla serpeggiava una collera sorda, animale.
Una terza ed una quarta persona si arrampicarono sull argine.
«Maledetto!» presero a urlare, guardando verso l alto. «Prendi anche me!…
Prendi anche me!». E anch essi presero a bestemmiare, i pugni alzati in segno di
s da.
Si udì il boato dei nuovi crolli e un improvviso silenzio.
In preda a una frenesia che più niente aveva di umano, prima una, due, poi dieci,
trenta persone si arrampicarono sull argine e presero a s dare il cielo.
«Anche me!» sentivo urlare. «Prendi anche me!». Urla e bestemmie
s intrecciavano.
Venne il rumore di nuove frane, il tonfo di corpi che cadevano nella corrente.
Altri presero il loro posto, i volti stravolti da una furia bestiale. Anche quelli
vennero zittiti. Ma, per ogni uomo o donna che niva nel ume ribollente, di
nuovi ne prendevano il posto, aumentavano a ogni secondo; uomini, donne,
vecchi e bambini alzavano i pugni al cielo e gridavano la loro rabbia,
bestemmiavano, s davano la cieca oscurità con urla che più niente avevano di
umano.
Mi ritrovai anch io sull argine a urlare, il volto stravolto dall odio.
Ancora e ancora si udì quel brontolio che pienava il cielo nero, ogni volta più
forte, e ogni volta le nostre urla si facevano più alte e feroci.
Non so quanto tempo rimasi in bilico su quei sacchi: gridavo la mia rabbia,
intorno a me la gente cadeva e moriva, altra colmava i vuoti, malediceva il cielo,
lanciava orrendi ululati.
Una voce ci riscosse: «Non piove più, non piove più!».
In preda a quella frenesia, non c eravamo accorti che la pioggia era andata
scemando, e ora cessava del tutto. Il cielo, non più buio, mostrò orli frastagliati di
nubi che si ritiravano su se stesse. Uno squarcio si aprì e la luce puntuta delle stelle
occhieggiò nel rmamento sgombro.
La gola roca, i tratti del volto stravolti, noi sopravvissuti scendemmo dall argine.
Senza guardarci negli occhi, gli occhi bassi e le spalle curve, ansimando tornammo
indietro, riguadagnammo la sicurezza delle nostre case, ci chiudemmo dentro a
chiave.

***
Sono passati giorni da quegli avvenimenti.
Fuori tutto appare normale: le strade si sono asciugate, i giovani cipressi hanno
raddrizzato la schiena, il cielo è sereno. La gente esce di buon mattino per recarsi
al lavoro: sembrano dimentichi di ciò che è accaduto, ignorano i morti.
In quanto a me, quando chiudo gli occhi per dormire, odo quel sordo ringhio
che scende dal cielo e mi pare di vedere una mano mostruosa che si protende fuori
dal buio per ghermirmi. Una mano che, però, non arriva a me.
Perché io non so se quello in cui ci imbattemmo quella notte fosse il capriccio
un Dio annoiato, lo scherzo crudele di un demone uscito dall Inferno, o se non
furono piuttosto le cieche forze della natura quelle con cui ci misurammo.
So però una cosa: quella notte, lungo il ume, vincemmo noi.
Firenze, 11-15 agosto 1996
(Revisione: 26 marzo 2020)
Andrea Scarabelli
I
229

Ricordo come fosse ieri la notte di ne agosto in cui conobbi Antonio


d Oliveira. E non solo per le circostanze straordinarie che accompagnarono il
nostro incontro, quanto per il fatto che si tratta di una delle ultime memorie della
mia vita normale. Ormai sono passati quattro anni, ma la mia esistenza è tuttora
divisa tra prima e dopo quel giorno. Da allora mi trovo in una specie di torpore
esistenziale continuo, una sorta di catalessi popolata da singolari paranoie e
incubi. Non so quando – né se – sarò in grado di uscirne.
Ma è bene partire dapprincipio, a bordo del Lusitania, il treno notturno che
congiunge Lisbona a Hendaye, sul con ne tra Francia e Spagna, ultima
propaggine della ferita geogra co-identitaria che risponde al nome di Paesi
Baschi.

***
uando il treno abbandonò la banchina della stazione di Sant Apollonia –
nell Alfama, uno dei quartieri più belli e selvaggi di Lisbona –, del tutto ignaro di
come quel viaggio mi avrebbe cambiato la vita, mi limitai a cercare la mia
cuccetta, pur sapendo che quella notte non avrei chiuso occhio (mi è da sempre
impossibile dormire sui treni notturni). Raggiunsi il mio scompartimento e ne
presi idealmente possesso, sparpagliando sul lettuccio e accanto ad esso le poche
cose che avevo con me: uno zaino colmo di vestiti e fotocopie, un paio di ciabatte
e un volumetto di Ray Bradbury, compagno di un estate incantata.
Mentre le ruote del treno schiavano, prendevo congedo da Lisbona color del
marmo, Lisbona dai sette colli, capitale di imperi interiori, dalla brezza atlantica e
dal uire silente del Tago. Era il momento del tramonto e mi accommiatavo dalla
città fondata da Ulisse, preparandomi a custodirne in silenzio il mito nelle notti
d inverno. Prossime fermate: Coimbra, Porto, e poi dritti nel cuore dell Europa,
come un dardo scagliato da un dèmone oceanico intenzionato a riconquistare la
terraferma. E poi Spagna, Parigi, Italia.
Il treno si muoveva dolcemente, disegnando ampie curve tra le asperità che
connotano l interno del Portogallo. In quello scompartimento da due posti ero
solo.
Strano, mi dissi, è da tre giorni che sono bloccato a Lisbona in attesa di trovare
un posto libero su questo treno e ora ce n è addirittura uno semi-vuoto!

***
uest interrogativo ebbe una risposta un paio d ore dopo, non appena la voce
del capotreno ruppe la calma afosa della notte estiva: «Coimbra baixa! Stazione
di Coimbra baixa!». Mi ripresi dal torpore giusto in tempo per vedere la porta
dello scompartimento spalancarsi, lasciando entrare un uomo sulla sessantina.
Gon o e paonazzo, con addosso una puzza d alcool che non avrei dimenticato
facilmente, lo sconosciuto si abbandonò sulla branda sotto alla mia, biascicando:
«Espanhol?».
«No» risposi. Ero abituato a essere scambiato per uno spagnolo, specie
all estero, in virtù di non so quale analogia morfologica. «Italiano» aggiunsi
svogliatamente, e mi presentai.
Esibì un sorriso che mise in mostra una dentatura distrutta dagli eccessi di Porto
e di tabacco. «Italiani e portoghesi un tempo insieme, nella conquista dell oceani,
tanto secoli fa»: pronunciò queste parole con una solennità che contraddiceva il
suo aspetto sciatto e trascurato.
Mentre il treno riprendeva la corsa, anch egli vuotò sul letto il contenuto del
suo zaino da viaggio: ne uscirono una bottiglia priva di etichetta con due dita di
un liquido rossastro, una busta di tabacco chiusa grossolanamente con un elastico,
un paio di occhiali tenuti insieme con del l di ferro e un libricino dalla copertina
nera, straripante di foglietti ingialliti e deturpati da macchie di ca è o sanno gli
dèi cos altro.
Supposi si trattasse di una bibbia da viaggio, ma fui smentito dalla sonora
imprecazione, diretta a qualche santo protettore di non so quale città, che risuonò
nello scompartimento quando il mio compagno di viaggio scoprì, con sommo
sgomento, che la bottiglia era quasi vuota.
Mi chiese dove fosse la carrozza ristorante. «Solo per un paio di birre»
aggiunse. Indicatagli la direzione, si precipitò verso l uscita, non prima di avermi
chiesto di accompagnarlo. Glissò il mio diniego con una smor a, lasciandomi
nalmente solo.
L ipotesi di una notte insonne si tramutò in repentina certezza. Anche perché
quell uomo volgare, vomitato da una qualche contrada portoghese, sembrava
maledettamente amichevole e disposto a intrattenermi con i suoi deliri chissà per
quanto, specie se il suo eloquio era alimentato dall aguardiente. Dopo una decina
di minuti fece ritorno, trionfante, con una busta di carta piena di Super Bock, la
celebre birra lusitana. Dal tono della sua voce dedussi ne avesse già tracannate un
paio sulla via del ritorno, ammorbando qualche altro disgraziato che si fosse
trovato sulla sua strada.
Blaterò qualcosa, poche frasi sconnesse accompagnate da sonore risate e
sgradevoli colpi di tosse, commentando in modo decisamente colorito la fauna
umana – specie quella femminile – accalcatasi su quel treno notturno.
A colpirmi, tuttavia, non fu tanto ciò che disse, quanto piuttosto il suo idioma,
cadenzato da interiezioni, esclamazioni e imprecazioni. Ora, quando ci si trova a
viaggiare all estero, capita sovente di provare a indovinare la lingua dei propri
interlocutori, in una specie di gioco che alla ne si vince quasi sempre. Un esito,
tuttavia, che scoprii null a atto scontato in quelle circostanze. La verità è che la
parlata del mio compagno di viaggio mi risultava pressoché ignota. Eppure, non
era nemmeno una forma dialettale, ma una vera e propria lingua, dotata di
regolarità ed eccezioni, grammatica e sintassi. Mai avevo udito, benché mi
intendessi di lingue, alcunché di simile: avrei potuto de nirla una specie di
deviazione ispano-francese del portoghese, con lunghi intercalare provenienti da
altri idiomi di cui mai avevo avuto sentore.
Forse percependo il mio sconcerto, all improvviso si bloccò.
« uale la direzione, hash?» mi chiese, improvvisando un italiano
maccheronico che mi stupì alquanto.
Gli spiegai che avrebbe potuto benissimo parlare in portoghese – solo in
portoghese – e l avrei capito. Cosa che fece per un po , ma a un certo punto le sue
stravaganze lessicali ebbero la meglio, generando una Babele di lingue antiche e
nuove, conosciute e sconosciute.
Ai pochi cenni comprensibili seguivano sterminati deserti di bestemmie, suoni
gutturali e colpi di tosse, risate isteriche e strane parole, come pronunciate al
contrario, con le prime vocali stranamente aspirate e prolungate. Dopo essersi
profuso in go apprezzamenti nei confronti dell Italia, tornò alla carica: « uale
la direzione, hash? Dove direzionato? Perché treno e no airport?».
Gli risposi che ero diretto a Milano e che di norma viaggiavo in treno e non in
aereo, per via di un antichissima avversione verso tutto ciò che si libra in aria.
«Ygg!» proruppe, accentuando quel curioso suono, simile a un singhiozzo, con
una fragorosa risata. «Tu matto da legare!».
Mi misi a ridere anch io, forse per metabolizzare – inutilmente – la mia paura
nei confronti degli aerei. Provai a rispedire al mittente la domanda, ma non feci in
tempo a proferire parola.
«Parì, Francia» esordì. «Io lì diretto. Io conta di Fado, Ygg, e a Parì è uno mio
amico, Rua d Aus… Strumentista, no… come si dice… che suona…».
«Ah, è un musicista?».
«Musicista, bien sûr! Hash! Fado! Cognosce?» esclamò, battendosi il capo e
accartocciando l ennesima lattina appena vuotata.
Lo sconosciuto si dilettava dunque di fado, celebrazione del pathos della
distanza, inno lusitano alle immense solitudini atlantiche, al frangersi delle onde
su scogliere al di là dell oceano, il genere musicale più idoneo per un popolo che
aveva fatto della scon tta un vessillo esistenziale, una medaglia appuntata sul
petto.
Stappò una birra, porgendomela. La accettai: in una situazione simile, sarebbe
stato fuori luogo essere schizzinosi. Viaggiare di notte su treni come quello,
d altronde, è un po come muoversi in una terra di nessuno, nella quale le norme e
le convenzioni abituali sono sospese. Sono situazioni nelle quali può succedere di
tutto. Notti di miracoli, così come di patimenti. Inoltre – dissi tra me e me – un
po di birra mi avrebbe forse facilitato il sonno, messo a repentaglio da quella
presenza ingombrante.
Nel frattempo, tuttavia, bisognava pur ingannare il tempo, e decisi di insistere
sulle ragioni del suo viaggio parigino. «Dunque va nella Ville Lumière per un
concerto, dal suo amico» dissi, rompendo un silenzio che iniziava a risultare
imbarazzante.
«No! No!» fu la risposta. «Cioè, sì, sì, concerto, bien sûr! Ma non di
sinfonia… Nel senso, no, lui no fa musica per orecchi ma parla con cuore,
comment je pourrai dire, con esprit…». In quel denso magma linguistico, era ora il
francese ad aver preso il sopravvento. Rimase a guardarmi attonito, come in attesa
di una risposta.
Solo allora mi parve di notare qualcosa che mi lasciò a bocca aperta. Quegli
occhi… annacquati dall alcool, mi ssavano attenti, eppure, allo stesso tempo,
sembravano spalancarsi su abissi ancestrali, inviolati dalla luce, profondità
insondabili nelle quali l essere umano non è che un pallido ricordo, una chimera,
una fantasmagoria di divinità allucinate. Rabbrividii e guardai altrove,
attribuendo queste considerazioni alla stanchezza.
Ignaro dei miei pensieri, aggiunse, tetro, in un crescendo dal sapore quasi
delirante: «Sua musica gno è musica di organi, come di viola o di timpano o di
arco o di ato, ma è musica d Iddii…!».
«Di Dio?» gli chiesi sarcastico, con dando in un lapsus linguae.
La sua risata divenne isterica: «Dii, Idii, Dèi… Come dici? Hash! Deesmees!».
Scossi la testa, ignaro di quanto andava farneticando. Mentre il treno bruciava
in pochi istanti le distanze un tempo percorse dai pellegrini diretti ad Occidente,
mi distesi sulla cuccetta, risoluto nel prendermi una pausa dall eloquio del sinistro
poliglotta, che continuava senza posa a mugugnare nella sua bizzarra neo-lingua.
Dopo una mezz oretta passata a rigirarmi nel letto, insonne, in balia del
salmodiare del musicista, decisi che era giunto il momento di dare una svolta a
quella nottata: mi misi addosso una giacca e uscii dallo scompartimento, con
Bradbury in tasca, diretto al vagone ristorante.

***
Di fronte al mio viso stravolto – dovevano essere passate almeno quattro ore
dall inizio di quel viaggio nel cuore notturno dell Europa – il cameriere che mi
servì l ennesima birra mi chiese, in un portoghese che tradiva il respiro dei venti
del nord: «Ah, dunque è lei il passeggero della 229?».
Gli risposi a ermativamente, interrompendo la lettura, non senza chiedermi la
ragione dell inaspettato quesito.
«Be , auguri» aggiunse sarcastico. «Posso dirle che viaggia in compagnia di
uno tra gli individui più strani che siano mai saliti sul Lusitania. Cosa che fa
spesso, d altronde, muovendosi tra Parigi e Coimbra, dove vive. È un musicista di
fado, sa…? Si chiama Antonio d Oliveira…».
Come Salazar, pensai tra me e me, sogghignando: per la collana che curavo era
appena uscito uno studio di Mircea Eliade dedicato proprio ad Antonio
d Oliveira Salazar. Informazione che, per intuibili ragioni politiche, preferii
tenermi per me, non condividendola col mio interlocutore.
«Mi ha già raccontato tutto» mi limitai a rispondere, chiedendomi cosa
c entrasse questa storia del fado con la sua bizzarra condotta.
«Va spesso a Parigi per tenervi dei concerti. Malgrado il suo aspetto – come
dire? – trasandato, pare sia uno dei migliori… Lavora con una compagnia molto
singolare, che sembra non esser mai uscita dalla Francia. Ho sentito dire che dai
loro concerti si esce trasformati…».
Non riuscivo a capire, ancora una volta, cosa diavolo tutto ciò avesse a che fare
con i suoi comportamenti, né perché il cameriere avesse rotto il silenzio di quella
notte spagnola per dirmi cose del genere.
«A dire il vero, non è che si sappia molto di questi suoi amici» proseguì,
abbassando il tono della voce. «Pare accordino gli strumenti utilizzando antiche
chiavi, oggi conosciute solo dagli studiosi di occultismo. E sembra che la loro
musica non sia destinata agli umani, ma a divinità remote, che ascoltano e
applaudono, emettendo gorgoglii siderali che farebbero perdere la ragione a
qualsiasi buon cristiano».
Se è vero che queste ultime rivelazioni solleticarono la mia curiosità,
nondimeno la stanchezza nì per avere la meglio e, per non apparire scortese,
comunicai al mio interlocutore di essere s nito e mi diressi verso il mio
scompartimento con la ferma intenzione di dormire – senza che nessun Salazar di
sorta potesse interrompere il mio sonno!
Tornato nella cuccetta, dopo aver percorso svariati corridoi deserti, mi accorsi
che il mio compagno di viaggio si era addormentato. Doveva essere ubriaco
fradicio, come dedussi dal numero di lattine vuote che vibravano sul pavimento
dello scompartimento, scosse dai movimenti del treno. Cercando di fare il
minimo rumore possibile, mi stesi sul letto, aspettando che il sonno mi cogliesse.
Cosa che non tardò a fare.

***
Mi svegliai sussultando. Dovevano essere trascorse un paio d ore. Guardai fuori:
la luna ardeva maestosa nei cieli di Spagna, dispensando la sua luce azzurrina sui
pro li di miti colline e paesini addormentati. Solo il monotono sferragliare del
treno deturpava la quiete di quel paesaggio incantato.
Fu allora che udii un suono molto basso, come un lungo mormorio, gutturale e
al contempo cantilenante, un mantra che inarrestabile saturava l atmosfera
sospesa, simile al gorgoglio delle acque marine negli anfratti. Continuava senza
soluzione di continuità, frangendosi in balbuzie e lallazioni, suoni profondi e
gridolini da neonato. Su tutto, quegli Hash! e Ygg! che avevo imparato a
riconoscere come gli intercalare del mio compagno di scompartimento.
Mi sporsi verso la sua branda e con sorpresa vidi che il suo corpo si muoveva, in
preda a misteriose convulsioni. Si agitava ritmicamente, come animato da quei
rumori, che sembravano provenire da un qualche abisso sconosciuto.
Pietri cato, mi accorsi che i suoi occhi erano spalancati su di me, eppure quello
sguardo attingeva altro e, a imprecisate lontananze, a mondi stellari che non
appartenevano al nostro; vi si ri ettevano costellazioni appartenenti a chissà
quale cielo lontano. Abituatomi alla semi-oscurità, potei osservare nalmente
indisturbato gli occhi che mi avevano riempito di timore. Scoprii così ciò che
poche ore prima avevo solo intravisto. Quegli occhi azzurri… avevano le pupille
verticali, come quelle dei felini! Che razza di essere avevo avuto in sorte
d incontrare?
«Signor Oliveira…» riuscii solo a balbettare, cercando per quanto possibile di
rimanere padrone di me stesso. Aveva gli occhi aperti – mi stava dunque
guardando?
«Ygg!» fu la risposta, seguita da un inde nita serie di gorgoglii scomposti.
Allora accadde qualcosa. Le mie parole sortirono l e etto di un sasso gettato in
uno stagno, le cui increspature super ciali si trasmettono gradualmente alle
profondità. Nell abisso onirico in cui si trovava le mie parole misero in moto
qualcosa. E le sue labbra si socchiusero, scandendo, con una voce profonda e
cavernosa che nulla aveva in comune con quella di qualche ora prima, delle sillabe
il cui rimbombo mi pietri cò: «Deesmees… Jeshet… Bone Dosefe Duvema…
Enitemoss!».
Braccato dal terrore più cieco, scesi giù e mi precipitai verso l uscita, urtando le
lattine vuote sparse per terra e facendo un gran baccano. Mi chiusi la porta alle
spalle, incerto sul da farsi. Rientrare, ignorando l accaduto? Non se ne parlava.
Impossibile metabolizzare l orrore appena intravisto.
Furono i fatti successivi a porre ne alla mia titubanza. Pochi istanti dopo,
infatti, la porta della 229 si aprì e la sagoma di Oliveira comparve, tuonando:
«Perché chiamato? Come sa mio prognome? Come sa?!».
«Mi pareva non si sentisse bene» balbettai, in risposta, tremando come una
foglia.
Furono le sole parole che riuscii a proferire. Il suo sguardo si fece torvo,
oscurando totalmente il carattere aperto e gioviale di qualche ora prima. E disse
parole terribili, che per la prima volta ero in grado d interpretare.
«Mon ami, andiamo a Parì, per il concerto. Avrà anche voi mio concertino, con
mio amico. Con antichi sacerdozii. Loro apprezzeranno». Le parole uscivano a
singhiozzi, reiterate in una sorta di crescendo minaccioso. Mi ssò negli occhi,
trattenendomi per il braccio e sibilando, come fosse l abisso a parlare per lui: «A
Parì, da Erich. Da Erich… Rua d Ausilla… Deesmees… Signor Zann… Jeshet…
Enitemoss!».
Mollò la presa e si allontanò con un grugnito, scomparendo nel corridoio.
Sapeva che al suo ritorno mi avrebbe trovato là dove mi aveva lasciato.
Colto da una profonda vertigine, rientrai barcollando nello scompartimento. Il
tanfo di alcool e chiuso era insopportabile. Come cercando di mantenere
l equilibrio su una gigantesca altalena, notai il libricino nero rovesciatosi a terra,
da cui era uscito un biglietto da visita avoriato, con su un nome e un cognome che
non avrei mai più dimenticato. Mi concentrai sul piccolo quadernetto
pentagrammato, ttamente trascritto. Pazzesco! All inizio del pentagramma non
c erano chiavi di volino o di basso, ma particolari ghirigori, composti da linee
curve sviluppate in strani simboli risalenti a chissà quali età della Terra. Tornai a
guardare il piccolo biglietto da visita, cercando di non perdere il senno. E feci due
più due.
Scagliai il quadernetto in un angolo, assieme ai fogli ornati di strani gerogli ci
simili all arabo, imprecando e maledicendo l idea di tornare in Italia in treno.
Con la vista annebbiata, raccolsi in fretta e furia le mie cose e mi lanciai fuori, in
corridoio, sperando di incontrare qualche altro passeggero.
Ma ad attendermi c era lui, lo sconosciuto della carrozza 229: mi ssava
be ardo, ostruendo con la sua immensa mole il passaggio. Sapeva tutto: mi
a errò per le spalle, facendo cadere i miei oggetti a terra. «Ora tu viene con me…
Tu sais, tu sais, hhaaassshhh, tu cognosce, ja? Deesmees… Jeshet… Bone Dosefe
Duvema… Enitemoss! Ora cognoscerai Loro… Ora cognoscerai Erich!»
La cosa più terribile, ancora una volta, fu lo sguardo che mi lanciò: quegli occhi
tagliati verticalmente mi squadernarono un vortice di follia, terrore e
disperazione. Da allora non vado più in treno – i medici non me lo permettono –
e quell orrore ha preso completamente possesso della mia mente.
Ecco perché scrivo queste righe, monito diretto a chi potrebbe incontrare uno
sconosciuto di nome Antonio d Oliveira su un treno diretto dalle assolate coste
sognanti di Lisbona agli oscuri misteri di Parigi. Ecco perché sso la mia
esperienza, raccontando la storia di chi smarrì la propria sanità mentale
conoscendo un uomo terribile, in possesso di un libretto altrettanto terribile e un
pezzetto di carta con su un nome spaventoso che mai avrebbe potuto essere lì.
Un nome che prima di quel momento avevo creduto essere invenzione di
Howard Phillips Lovecra ma di cui quella esperienza mi rivelò la terri cante
realtà.
Sul dannato biglietto da visita c era infatti il nome del suo ospite e la meta di
quel viaggio:

E Z
M M
23 R ’A ,P

Ecco dov era destinato: a suonare la sua maledetta sinfonia, ad eseguire quelle
partiture accordate con le chiavi del grande Cthulhu.
Il mio compagno di viaggio andava da Erich Zann, e insieme avrebbero eseguito
il loro esecrabile concerto, in omaggio ai Grandi Antichi, per sempre e sempre e
sempre.
Hendaye-Irún, 28 agosto 2014
(Revisione: 20 marzo 2020)
Michele Serio
L

Vera e io scegliemmo Dubai come meta del nostro viaggio. Nel gate
dell aeroporto, durante l attesa per l imbarco, ci sedemmo di fronte a un uomo
sui quaranta con una folta barba sul mento: in ca ano e ke ah bianchi, leggeva un
quotidiano scritto in caratteri arabi. Accanto a lui sedeva una donna vestita con
un niquab nero che le lasciava scoperti solo gli occhi, bellissimi, di taglio obliquo,
con le pupille color nero inchiostro.
Vera, come sempre, digitava sull iPhone. Da un po di tempo mi ero convinto
che, se avesse perso il suo smartphone, si sarebbe disperata. Se fossi venuto a
mancare io, mi avrebbe sostituito in quattro e quattr otto con un altro maschio
più versato di me in gadget tecnologici.
Appena salimmo sull aereo, l hostess si accorse che i nostri posti in economica
erano occupati. «Siamo di nuovo in overbooking» disse, sconsolata. E ci
accompagnò in prima classe.
Assaggiai con voluttà lo champagne o erto dalla linea aerea, pronto a gustarmi
il menu preparato da qualche chef stellato. Vera teneva le cu ette dell iPod nelle
orecchie. Non sapevo nemmeno se si fosse resa conto del colpo di fortuna che ci
era capitato.
La coppia incontrata nel gate occupava le poltrone reclinabili di fronte alle
nostre. L uomo in ca ano ignorava completamente la donna in nero, un po come
Vera faceva con me.
L hostess chiamò l arabo «sceicco Ahmed». E andò a spettegolare con una
collega sul fatto che la signora in niquab era la favorita di un harem formato da
ben cinque mogli. Ecco perché la tratta con tanta su cienza, ri ettei. Non teme
tradimenti, né la rivalità di altri maschi. Ha dalla sua la legge islamica, e poi è uno
sceicco.
La favorita si alzò e, dirigendosi verso la toilette, mi fece un cenno con il capo.
Incuriosito, abbandonai il posto accanto all oblò. Vera mi lasciò passare, senza
perdersi una sola nota della canzone che ascoltava.
La donna entrò in bagno. Dal battente socchiuso, un indice sormontato da
un arcuata unghia viola si piegò più volte, nell universale segno dell invito.
Dopo meno di un secondo, condividevo con lei lo stretto spazio della toilette.
La donna, che mi sovrastava di almeno quindici centimetri, chiuse la porta. Si
liberò degli abiti tradizionali. Aveva il corpo più bello che avessi mai visto: pelle
vellutata, seni perfetti, cosce lunghissime. D altronde, pensai, non si diventa la
favorita di uno sceicco per caso. Con freddezza spogliò anche me e assunse una
posizione che scatenò il mio desiderio come mai accaduto prima.
Durante l amplesso lei sospirava, io grugnivo. Al culmine del piacere, invocò la
sua divinità di riferimento, io quella che mi aveva accompagnato per tutta
l infanzia. Sembravamo colti da una crisi mistica, anche se condividevamo
un esperienza inequivocabilmente terrena. Forse, però, esagerammo con i gemiti.
Sentimmo picchiare con violenza la porta. Una voce maschile, quella dello
sceicco, urlava qualcosa in arabo. Gli faceva eco l hostess. Guardai terrorizzato la
mia partner, che si rivestì con la stessa rapidità con cui si era spogliata. Poiché ero
paralizzato dal terrore, vestì pure me. Evidentemente era abituata a situazioni del
genere. Mi sussurrò in inglese con la massima calma: «Flatten against the wall like
a sole and be silent». Capii che dovevo appiattirmi contro la parete e rimanere in
silenzio. Ma cosa signi cava sole? Si avvicinò al lavandino e si versò in bocca un
po di sapone liquido. Appena si formò sulle labbra una schiumetta, aprì la porta e
si esibì in contorsioni e spasmi come se fosse vittima di un attacco epilettico.
Dallo specchio del lavandino di fronte, vidi il cali o prenderla tra le braccia,
contrariato. Mi ricordai che sole in inglese signi cava sogliola, e come tale mi
comportai, rimanendo appiattito contro la plastica dello sciacquone. Pensavo che,
se ci avessero scoperti, lei rischiava la pena di morte appena scesa dall aereo e io il
mio rapporto con Vera che, per quanto insoddisfacente, era l unico che fossi mai
riuscito a tenere in piedi.
Attesi qualche minuto e uscii. Tutti badavano alla donna che si contorceva sulla
moquette e nessuno fece caso a me.
Tornai al mio posto. Vera non scostò neppure gli auricolari collegati all iPod.
uando la donna in niquab terminò la recita, si distese sulla sua poltrona
reclinabile e proseguì il viaggio senza degnarmi di uno sguardo.
Appena giunti a Dubai, il cali o entrò con la favorita dentro una limousine,
mentre io e Vera raggiungemmo la città con l airbus.
Nella camera d albergo, Vera si separò malvolentieri dai suoi aggeggi digitali.
«Come va?» mi chiese, senza interesse. Immaginai il cali o rivolgere la stessa
domanda, con lo stesso tono, alla donna in nero. E mi pareva quasi di sentirla
rispondere, al pari di me: «Tutto sommato non mi posso lamentare, amore!».
Antonio Tentori
G

Il gatto è misterioso e a ne alle cose in isibili


che l uomo non potrà mai conoscere.
(Howard Phillips Lovecra )

Lione, ponte Galliéni.


Inizia a piovere. Florence si a accia a guardare il ume sotto di sé.
È giovane, capelli neri, occhi scuri, un corpo felino, sinuoso, che l impermeabile
non riesce a celare del tutto.
Irreali luci colorate si dispiegano davanti al suo sguardo.
Uno sguardo assente, perduto, vitreo. Isabelle è sparita nel nulla da giorni, a
Roma. La sua dolce, piccola, amata sorella.
Florence è in partenza. Ma prima ha ancora una cosa da fare. Una persona da
vedere. Si riscuote, abbandona il ponte, camminando a passi decisi. Sul suo volto
si legge una nuova determinazione.
L appuntamento è di sera, davanti a un vecchio teatro ormai chiuso da anni. La
signora sta aspettando Florence. È anziana, vestita elegantemente, ben pettinata.
Non la saluta, si limita a prenderla sottobraccio, stringendolo leggermente.
Florence respinge le lacrime che stanno per scendere.
La signora indica un bistrot poco distante, entrano.
Ordina un calice di vino rosso per tutte e due. Florence la guarda, in attesa. La
signora ricambia lo sguardo. I suoi occhi azzurri esprimono serenità,
comprensione, consapevolezza. Parla con voce bassa, ma ferma: «Hai portato
quello che ti ho chiesto?».
Florence annuisce ed estrae dalla tasca una fotogra a. Ritrae una ragazza sui
diciotto anni, bella e sorridente. Isabelle.
Appoggia la foto sul tavolino, la spinge verso la signora, che la osserva
brevemente, e quindi ci mette una mano sopra. I suoi occhi si socchiudono, come
quelli di una vecchia gatta. Passa un istante, che a Florence pare in nito. uando
la signora apre gli occhi, Florence sa già cosa è accaduto a Isabelle. Gli occhi le si
riempiono subito di lacrime.
«Non dovresti andare, non farlo» è il consiglio della signora, che le appoggia
una mano rugosa sulla sua.
Florence si asciuga le lacrime, quasi con rabbia.
«Devo farlo. Lo sai. Non posso più restare qui».
La signora sorride, con tristezza. Poi apre la sua borsetta e ne tira fuori un
sacchettino di pelle nera, chiuso da un laccio.
«Tienilo sempre con te. Non lasciarlo mai, qualunque cosa accada. Ti
aiuterà…».
Florence prende il piccolo sacchetto, incuriosita.
«In cosa mi aiuterà? Cosa c è dentro?».
Per tutta risposta la signora fa una leggera carezza al volto so erente della
ragazza.
«C è tutto quello che ti serve. Ti aiuterà a trovare la strada…».
Fuori continua a piovere.

***
Roma, aeroporto di Fiumicino.
Florence si fa strada nervosamente tra la folla dell aeroporto. All uscita si dirige
verso un posteggio di taxi e attende impaziente il proprio turno. Cielo livido,
minaccioso. Fa freddo.
Durante la corsa verso il centro della città, osserva distratta il panorama. Ha
soltanto fretta di arrivare a casa. A casa di Isabelle.
Entrare nel piccolo e grazioso appartamento con la chiave che Isabelle le ha
lasciato per precauzione, in un anonimo palazzo di un quartiere altrettanto
anonimo, le procura un tu o al cuore. Tutto lì dentro le parla di Isabelle. Le sue
foto, i vestiti, i libri, i cd, il computer portatile, gli orsacchiotti di peluche, il
Paperino di gomma.
Gli occhi le si velano.
È costretta a riprendersi quasi subito con un sussulto, perché si sente toccare
una gamba. C è un gatto. Un grosso gatto bianco che la ssa con i suoi luminosi
occhi verdi.
«E tu che ci fai qui?». Sorridendo, si china ad accarezzare il gatto, che inizia a
fare le fusa. «Devi essere a amato. Vediamo cosa posso darti da mangiare…».
In cucina trova una riserva di scatolette. Ne apre una e rovescia il suo contenuto
in una scodella di plastica. Riempie d acqua un altra scodella. Il gatto miagola
soddisfatto e mostra subito un grande appetito.
Florence torna nel soggiorno, si siede al tavolo e accende il computer.
Sul desktop troneggia una grande foto del gatto, completamente sdraiato sulla
tastiera del computer. Florence sorride ancora. I gatti sono sempre stati la
passione di Isabelle. uindi, comincia a cercare tra i le e i documenti della
sorella. ualcosa che la possa portare a scoprire quello che le è accaduto.
Non trova niente di strano, d insolito. Neanche tra le mail o su facebook. Viene
solo a sapere che il gatto si chiama Howie. Delusa, chiude il computer e si alza.
Nel farlo, vede un biglietto da visita incastrato nello schienale della sedia. Un
biglietto rosso fuoco dove c è scritto Blue Star, in nero, seguito da un indirizzo.

***
È sera. Florence dorme nel letto della sorella. Howie, acciambellato ai suoi
piedi, la guarda con occhi grandi, insondabili. Gioca distrattamente con i lacci del
sacchettino di pelle che si trova sulle coperte.
Il sonno della ragazza è agitato. Dalla bocca emergono parole confuse. Florence
chiama Isabelle. Poi sembra calmarsi. E la sua mente precipita in un abisso…
Si trova in un ambiente stretto e claustrofobico, come un tunnel o un passaggio
sotterraneo. Sente dei latrati echeggiare alle sue spalle. ualcuno la insegue. Si
volta e vede un ragazzo lurido e coperto di stracci che corre a quattro zampe verso
di lei. Continua ad abbaiare. Insieme a lui c è un bambino che grida, con un unico
buco nero al posto del naso e della bocca. Florence avanza disperata, ma le pareti
si restringono sempre di più, n quasi a so ocarla. Con uno sforzo terribile
emerge dal tunnel, sbucando in una stanza rotonda. Una stanza spoglia, dalle
pareti bianche, immersa in una gelida penombra. Distingue due ragazze legate a
una grande croce. Sono completamente nude e hanno il corpo costellato da ferite.
Vicino a loro incombono tre individui incappucciati e muniti di armi da taglio
insanguinate. Uno di loro si accorge di lei e la invita con un gesto a raggiungerli.
Poi si toglie il cappuccio. Florence vede una porta in fondo alla stanza e vi si
lancia. Oltre la soglia c è un campo incolto, disseminato di rottami e carcasse di
automobili. Nel campo si staglia una specie di bunker. Acquattato sul tetto del
bunker, c è Howie. Al suo collo oscilla il sacchettino che la signora ha dato a
Florence.
Una mano gelida tocca il viso della ragazza. E lei urla, per poi accorgersi che è la
sua stessa mano. Si è svegliata, nel letto di Isabelle.
Riesce a calmarsi, a uscire da quel sogno delirante. Il gatto la osserva, tranquillo.
Poi le va vicino, per farsi accarezzare. Florence piange, s nita. Una lacrima nisce
sul manto del gatto.
Si aggira per la casa, nervosa. Howie, camminando in equilibrio precario su un
mobile, fa cadere un calendario appeso a una parete. Florence lo raccoglie. È un
calendario con disegni giapponesi. Sopra ci sono alcuni appunti. Due parole
ricorrono: Blue Star. Febbrilmente sfoglia anche i mesi precedenti e vi trova
sempre lo stesso nome, due o tre volte a settimana all inizio, poi quasi ogni
giorno. Il nome Aurica è appuntato sul calendario, tra parentesi dopo Blue Star.
La data è l ultima, quella della scomparsa di Isabelle.
Va al tavolo, dove aveva lasciato il biglietto da visita rosso.

***
Ora di cena.
L ultima propaggine di una lunga strada periferica. Il Blue Star si trova
all interno di un piccolo centro commerciale. Una porta rossa su cui spicca
un insegna nera. Florence scende dall auto a noleggio. Istintivamente tocca il
sacchettino di pelle che tiene nella tasca della camicetta. Non sa che fare.
Vorrebbe entrare, ma in locali come quelli è strano che una donna ci vada da sola.
Si guarda intorno, smarrita. Un gruppo di ragazzi ciondola davanti a un bar,
alcuni clienti escono da un supermercato, un cinese sta chiudendo il suo negozio.
Nessuno fa caso a lei. È indecisa, contrariata. Poi lo vede. Un uomo forse sulla
quarantina. Occhi chiari, capelli biondastri, arru ati. Vestito come un ragazzo,
con jeans, felpa e scarpe da ginnastica. Non sa per quale motivo, ma le ispira
ducia. L uomo sta andando in quel locale, ne è sicura. Lo intercetta, mentre sta
per suonare alla porta del Blue Star. Lui la guarda, sorpreso. Lei gli sorride,
leggermente maliziosa.
«Non mi va di entrare da sola. Mi fai compagnia?».
L uomo risponde con un sorriso aperto, quasi infantile.
«Certo! Ma cos è… uno scherzo?».
Florence ride, divertita. I suoi denti bianchi scintillano nell oscurità.
«No! Dico sul serio; non preoccuparti, non lavoro qui! Mi chiamo
Florence…».
«Io sono Carlo. Allora, entriamo…».
Carlo suona il campanello e un mulatto gigantesco apre la porta.
Il Blue Star è un vasto locale con al centro una pedana, dove una ragazza in
perizoma si sta esibendo in un numero di lap dance. Di fronte e ai lati una serie di
divanetti, in un angolo il bancone del bar. La musica è quella disco del momento,
le luci sono so use. Almeno una decina di ragazze seminude si aggirano tra i
clienti o parlano con loro.
Florence si siede su un divano, mentre Carlo va a prendere da bere. Si guarda
intorno, scoraggiata. Chi sarà Aurica, fra tutte quelle ragazze? Il caso, ancora una
volta, decide per lei. Alle sue spalle un uomo pronuncia quel nome. D istinto,
Florence si volta. Una donna sui quarant anni, mora, dai lineamenti duri e
volgari, bocca e seno rifatti, sta salutando con a etto l uomo che l ha chiamata.
«Iulian! Finalmente!». Florence tenta di dissimulare il proprio stupore.
L uomo si gira verso di lei e, rabbrividendo, Florence riconosce in lui il
torturatore del suo sogno. uello che si levava il cappuccio. Un uomo sui
cinquant anni vestito dimessamente, dall aria malata, alto e magro, con una
barbetta rada e occhi scuri, inespressivi.
Iulian chiede ad Aurica: «Pavel?», e l altra risponde: «È di là, in un privé…».
Poi i due si dirigono insieme verso il bar.
Florence è in preda a una crescente agitazione, ma né l uomo né Aurica hanno
badato a lei. Si alza e raggiunge rapidamente la porta d ingresso, scomparendo al
di là di essa. Carlo ritorna con i bicchieri, ma trova solo il divano vuoto.
Fuori dal Blue Star, Florence attende nella sua auto. È mezzanotte. Ma l attesa è
in ne ricompensata. Iulian esce dal locale e sale su una moto di grossa cilindrata,
allontanandosi a gran velocità. Florence stringe il suo sacchettino di pelle e lo
segue. Moto e auto attraversano la notte, nera e senza stelle, la luna non è ancora
sorta. Florence ha gli occhi incollati sulla moto, ma non c è molto tra co e non la
perde mai di vista. La moto si ferma in un campo di periferia, incolto, disseminato
di rottami e carcasse di automobili. Vi si staglia una specie di bunker. Lo stesso
luogo del sogno. Iulian scende dalla moto e scompare nel bunker.
Florence non riesce a credere ai propri occhi. Come in trance, esce dall auto e si
avvicina silenziosa alla costruzione. Spia dentro, attraverso una specie di feritoia,
rimanendo all esterno. Vede un ambiente fatiscente e opprimente, in cui spiccano
anelli e catene di ferro in ssi alle pareti e una grande croce di legno. I muri sono
semidiroccati e in alcuni punti il pavimento mostra larghe fenditure. Si ritrae, ma
qualcosa la colpisce con forza alla nuca. Si accascia al suolo.

***
Sdraiata su un divanetto in un camerino del Blue Star, Aurica risponde al
cellulare. Accanto alla porta c è Pavel, un bestione grande e grosso in canottiera e
giubbotto di pelle. Aurica dice solo: «Sai quello che devi fare», quindi chiude la
comunicazione. Da un occhiata a Pavel e l energumeno annuisce, lasciando subito
il camerino. Si alza e si avvicina allo specchio. Si osserva compiaciuta, poi estrae da
una tasca un piccolo astuccio d oro e sni a il suo contenuto. Ma, mentre è così
intenta, intravede qualcosa di assurdo nello specchio. Un gatto bianco la sta
ssando con uno sguardo magnetico. Spaventata, Aurica sobbalza, l astuccio le
cade sul pavimento. Nello specchio non è ri esso nessun gatto. Sospira, sollevata,
e si china a raccogliere l astuccio. uando si rialza, d improvviso, lo specchio
esplode e la donna viene investita violentemente da una miriade di acuminate
schegge di vetro.

***
Nel cielo nero splende la luna piena.
Pavel sta guidando il furgone, diretto al bunker. Deve controllare che Iulian
faccia il suo lavoro e non perda tempo, come suo solito. È ina dabile, Iulian,
Pavel lo sa ed è per questo che c è lui. Per fare quello che dev essere fatto. Aurica
ha un debole per Iulian e gli permette quello che ad altri non sarebbe consentito.
Poi, però, chiede sempre a Pavel d intervenire.
ualcosa distrae l uomo dalle sue elucubrazioni. Due occhi verdi lo ssano,
ri essi nello specchietto retrovisore. Gli occhi di un gatto. Pavel non riesce a
distogliere lo sguardo da quegli occhi e, spaventato, abbandona il volante. Il
furgone sbanda pericolosamente, sfonda il guardrail e precipita in una scarpata.
Una grande esplosione squarcia il silenzio della notte.

***
Nel bunker Florence è legata al muro con una corda che le stringe la vita, come
fosse un animale. Poco distante da lei c è un cadavere irriconoscibile. Florence sa
che è quello di Isabelle e inizia a piangere, atterrita e disperata. Seduto sulla croce
di legno, Iulian sta scolando una bottiglia di vino da quattro soldi. Un altra
bottiglia, vuota, si trova ai suoi piedi. Si gira verso la prigioniera, con un ghigno
che vorrebbe essere un sorriso. Le si accosta. Florence ha paura, si rende conto che
per lei è nita. Ma deve sapere. Con rabbia, si rivolge al suo carceriere: «Che le
avete fatto, bastardi? Cosa avete fatto a mia sorella, a Isabelle?».
La bottiglia che Iulian teneva ancora in pugno va a rompersi contro una parete.
Il sequestratore sembra divertito. Florence lo guarda e in quel momento vede
tutta la miseria e lo squallore di quell esistenza.
«Non è stata ai patti, capisci? Tua sorella voleva mollare tutto, andarsene…
Nessuna è mai riuscita a farlo!».
Florence esplode in un grido disperato: «Assassini! Maledetti assassini!».
Iulian continua, imperturbabile: «Mi sono divertito molto con lei, sai, e adesso
lo farò con te… Lei mi piaceva di più, era così giovane, ma anche tu mi piaci… È
un vero peccato sprecare un corpo bello come il tuo… ma lo devo fare! Non
avresti dovuto ccare il naso in faccende che non ti riguardano!».
Iulian si avvicina ancora.
Istintivamente, Florence stringe al seno il sacchettino di pelle.
Una furia bianca attacca l uomo al volto, gra andolo a sangue. Bestemmiando,
con una manata Iulian riesce a liberarsi dal piccolo aggressore. Incredulo, guarda
un gatto bianco, che lo ssa con occhi crudeli. Florence mormora, anche lei
incredula: «Howie…».
Il gatto sembra s dare Iulian, che intanto ha snudato un coltello a serramanico e
avanza verso di lui, detergendosi il sangue dal volto. Howie indietreggia su una
lunga trave, con il suo sguardo ipnotico sempre sso in quello dell uomo. Iulian è
ormai vicino al gatto, che si è fermato con la schiena contro il muro. Non può più
indietreggiare. Un sorriso di trionfo appare sulle labbra esangui dell uomo, che
avanza ancora, sicuro di sé. La distanza che lo separa dal gatto bianco si assottiglia
sempre di più. Ma gli occhi magnetici di Howie si ssano implacabili in quelli di
Iulian. L uomo, come ipnotizzato, non riesce a distogliere lo sguardo. Il gatto lo
attira verso di sé e Iulian avanza, senza curarsi di dove mette i piedi. Senza notare
l ampio squarcio che attraversa il pavimento davanti a lui. Ad un tratto, proprio
mentre fa un ultimo passo, il terreno sparisce. Iulian precipita nel vuoto, andando
a in lzarsi su alcuni spuntoni di ferro, che lo trapassano mortalmente da parte a
parte.
Howie si accosta a Florence, che ha seguito tutta la scena con occhi sbarrati. Si
abbandona a un pianto catartico. Delicato e metodico, il gatto comincia a slegarla
con le unghie e i denti.

***
Lione, cimitero.
Florence depone un mazzo di ori sulla tomba di Isabelle. Vicino a lei c è
l anziana signora. Rimangono raccolte alcuni minuti, poi si allontanano. Howie le
segue. Florence si china per prenderlo in braccio. Le due donne e il gatto
percorrono in silenzio il lungo viale alberato del cimitero.
È una bellissima giornata di sole.
Alex Voglino
I G
C

I. L

1
Roma, 7 marzo 2021
Il trillo che segnalava l arrivo di nuove e-mail era così sommesso che
probabilmente Fosco Fortebraccio non se ne sarebbe neppure accorto se non si
fosse trovato seduto proprio di fronte al suo PC, intento a ssare lo schermo.
Era decisamente in ritardo con la tesi. Forse scegliere di laurearsi in Archeologia
con un lavoro di Storia della navigazione e dell esplorazione in Nord America
non era stata un idea brillante, come gli era sembrato inizialmente. Certo, la sua
proposta aveva lusingato il professor Graziosi, la cui materia veniva scelta molto
raramente per le tesi nali, ma aveva anche fatto sì che il docente riversasse su di
lui una particolare attenzione e parecchie aspettative, probabilmente eccessive.
Fosco sbu ò e cercò di concentrarsi sul sommario che aveva davanti. Doveva
decidersi ad a rontare il quinto capitolo, quello sull insediamento dei Padri
Pellegrini nella baia di Plymouth.
Un trillo lieve e argenteo sottolineò l arrivo di un altra e-mail.
In quel momento non aveva proprio bisogno di distrazioni! Tuttavia, quasi
avesse una propria autonoma volontà, la sua mano destra spostò
impercettibilmente il mouse e cliccò sull icona della posta elettronica. La
schermata passò immediatamente a quella di gmail e Fosco notò due messaggi in
grassetto, non ancora aperti. Entrambi avevano come mittente
janetbonham@unnewbrunswick.us.
Inarcò un sopracciglio. Janet Bonhan era una ricercatrice dell Università di New
Brunswick, in Canada, ma soprattutto un importante collaboratrice di
«Acadiensis», una delle più importanti riviste universitarie della costa atlantica.
Janet – che aveva avuto la fortuna di conoscere durante un seminario estivo negli
Stati Uniti, all Università di Providence – era stata essenziale nell impostazione
della sua tesi, e anche nel suo sviluppo. Tutto poteva fare, meno che ignorare le
sue mail.
Cliccò sulla prima, aprendola, e scorse rapidamente il testo.
Carissimo Fosco,
Spero che il tuo lavoro stia procedendo al meglio e che tu riesca a
concluderlo in tempo per la sessione autunnale, come ti auguravi. In
questo momento delicato non voglio assolutamente distoglierti dal
tuo lavoro. Tuttavia, immagino che ogni tanto ti prenderai pure
qualche pausa, e perciò ti sarei molto grata se, nel primo momento
di tempo libero, volessi dare un occhiata al documento che ti allego.
È la scansione di un foglietto volante di errata corrige che ho trovato
all interno di una ristampa, capitatami in mano quasi per caso, di un
classico per noi studiosi della regione atlantica: e European
Disco ery of America di Samuel Eliot Morison. A parte il contenuto,
che già mi ha dato molto da pensare, la cosa veramente curiosa è che
nessuno dei miei colleghi che hanno letto questo libro (e, come puoi
immaginare, sono molti!) ha mai notato questo errata corrige e,
soprattutto, in tutte le ristampe successive non ce n è traccia!
Ammetterai che è davvero singolare.
Perciò, trovandoti tu a Roma, ho pensato che alla prima opportunità
potresti fare una minima ricerca, ovviamente senza togliere tempo
alla tesi.
Ciao! E dammi notizie…
Sinceramente
Janet
Intrigato suo malgrado, Fosco cercò inutilmente l allegato. Perplesso, cliccò
sulla mail successiva: «Oooops! Mi ero dimenticata l allegato! Eccolo. A presto.
J.». Stavolta, sotto l oggetto della mail appariva chiaramente l icona di un
allegato in PDF. Fosco si a rettò a scaricarlo.
Sullo schermo del PC apparve l immagine un po sbiadita di un foglietto
dattiloscritto in corpo molto piccolo. Ingrandì al 150% e nalmente riuscì a
leggere il testo: «Sostituire la nota 39 con la seguente: In merito alla scomparsa di
Giovanni Caboto e alla conclusione della sua seconda spedizione sulle coste del
Labrador nel 1498, sarebbe di grandissimo interesse poter consultare le carte
inedite del principe Pietro Odescalchi circa i suoi ritrovamenti nell Archivio
Segreto del Sant U zio, carte probabilmente conservate all Accademia dei
Lincei, a Roma».
Si grattò la testa e rilesse lentamente il testo. Che cosa diavolo c entrava la
spedizione di Giovanni Caboto con l Accademia dei Lincei e un principe
romano?
Era la spedizione da cui Caboto non era mai più tornato… Le tracce della sua
nave e del suo equipaggio si erano perse a sud del Labrador, forse nel Golfo di San
Lorenzo o addirittura oltre la Nuova Scozia… Ma cosa aveva a che fare con il
Sant U zio? E chi era questo principe Odescalchi? Con un sospiro, Fosco chiuse
il le della sua tesi e si chinò sulla tastiera del PC, rendendo grazie a Dio per
l invenzione di Wikipedia.

2
Fosco Fortebraccio si sfregò con energia gli occhi arrossati e decise che era
giunto il momento di andare in cucina a prendere una birra dal frigo. Lo schermo
del computer ormai gli ballava davanti agli occhi: aveva bisogno di una pausa, di
riposare il cervello. Aveva letto e riletto pagine su pagine e mille informazioni gli
rimbalzavano in testa, ma non per questo gli sembrava di avere le idee più chiare.
Senza dubbio, l errata corrige faceva riferimento a quel Pietro Odescalchi nato a
Roma nel febbraio del 1789 e qui defunto nell aprile del 1856, che era stato fra
l altro presidente della Ponti cia Accademia di Archeologia e soprattutto, dal
1850, presidente dell Accademia dei Lincei. Ciò, comunque, non spiegava in
alcun modo quale nesso ci fosse fra il principe e la Congregazione per la Dottrina
della Fede.
A meno che…
Fosco nì la birra in due sorsi e tornò di corsa davanti al computer, dando inizio
a una nuova ricerca.
Una mezz oretta più tardi spense il PC con un gesto nervoso e spalancò la
nestra dello studio, a acciandosi su Via di Ponte Sisto. Aveva smesso di fumare
da anni, ma ora non avrebbe disdegnato una sigaretta. Sfogliò le due paginette
che, alla ne, aveva stampato. La spiegazione, almeno iniziale, doveva essere per
forza quella. L antenato più illustre del principe Odescalchi era stato un
importante Papa, Innocenzo XI, sul soglio ponti cio no al 1689, che senza
dubbio aveva avuto a che fare con il Sant U zio.
Tuttavia, qual era il nesso con Giovanni Caboto, navigatore ed esploratore
italiano al servizio della corona inglese, scomparso nel nulla due secoli prima?
Con un gesto di risolutezza, poggiò i fogli sulla scrivania, richiuse la nestra e
accese il cellulare per controllare l ora. uasi le 21,00. La giornata era nita, ma se
non voleva deludere Janet c era una cosa che doveva assolutamente fare
l indomani. Andare a Via della Lungara, all Accademia dei Lincei.

3
«Mi dispiace» ripeté il responsabile dell Archivio Storico dei Lincei, senza
variare minimamente il tono formale e contemporaneamente annoiato con cui gli
aveva parlato sin dall inizio. «Le carte private del principe Odescalchi non sono
consultabili per nessuna ragione, se non da parte di membri della famiglia e,
comunque, con una procedura piuttosto complessa».
«Io non voglio consultare nessuna carta privata» insistette Fosco in tono
spazientito, «ma veri care se nell archivio sono depositate delle note di studio
che in qualche modo fanno riferimento a documenti del Sant U zio».
L archivista lo squadrò, come fosse stato un questuante.
«Sono uno studente, sto per laurearmi, e questa informazione è essenziale per la
mia tesi» aggiunse, senza demordere. «Naturalmente, posso chiedere
d intercedere al mio professore e al preside di facoltà…».
L archivista fece un sospiro spazientito: «Senta, per non far perdere tempo ad
entrambi, le propongo un compromesso. Io le faccio consultare l inventario dei
documenti del principe Odescalchi depositati presso di noi e lei, in cambio,
rinuncia a consultare quello che sta cercando, anche se lo dovesse trovare. Per una
tesi di laurea basterà che possa dire con certezza di aver individuato il documento,
no?» concluse, con tono improvvisamente suadente.
Per un attimo Fosco fu combattuto fra l istinto di insistere e la possibilità di
mettere comunque un punto fermo. Meglio un uo o oggi… si disse fra sé e sé.
«Va bene, mi fornisca questo inventario».
Si aspettava di accedere a una postazione informatica, ma l archivista lo fece
accomodare in una minuscola sala di consultazione e – dopo un assenza di quasi
mezz ora, durante cui Fosco cominciò a pensare di essere stato preso in giro e
mollato lì no a quando non avesse deciso di demordere per noia – gli consegnò
un sottile registro cartaceo vecchio stile, rilegato in brossura.
Con un sospiro accese la lampada da tavolo che aveva davanti, posò il registro
sullo scrittoio, lo aprì e, aiutandosi con l indice della mano destra, cominciò a
compulsare le varie pagine, sotto l occhio vigile dell archivista che chiaramente
non aveva la minima intenzione di lasciarlo solo.
Arrivò al punto dopo quasi quaranta minuti e quattordici pagine, quando
cominciava a essere esausto, tanto che per poco non gli sfuggì. La nota diceva:
«Annotazioni sul trasferimento nel 1683 dall Archivio della Congregazione per
la Dottrina della Fede all Archivio Segreto Vaticano dell intero fascicolo di Sua
Eccellenza Rodrigo da Cunha, Arcivescovo e Inquisitore di Lisbona (1615-
1623)».
«Eccolo!» esclamò Fosco, battendo l indice sul registro dell inventario.
«Posso copiare l annotazione?».
L archivista accondiscese, pur di liberarsi di lui.

4
Fosco raccolse le idee e cominciò a digitare sulla tastiera il testo della risposta.
Carissima Janet,
Riscontro la tua di mercoledì scorso. Sulla base del documento che
mi hai inviato, mi sono recato personalmente all Accademia dei
Lincei, dove purtroppo non ho potuto consultare alcuna carta
lasciata dal principe Odescalchi: pare siano accessibili solo alla
famiglia e neanche con facilità. Tuttavia, ho potuto accedere
all inventario dei documenti e ho scoperto e ettivamente un sia pur
vago collegamento con la nota dell errata corrige.
Pare, infatti, che a suo tempo il principe abbia fatto studi o preso
appunti sul trasferimento e ettuato nel 1683, dagli Archivi del
Sant U zio all Archivio Segreto Vaticano, di una serie di
documenti appartenuti a Rodrigo da Cunha, un portoghese che
nella prima metà del Seicento è stato Arcivescovo e soprattutto
Inquisitore del Sant U zio a Lisbona. La cosa interessante che ho
veri cato è che il Papa che nel 1683 ha ordinato il trasferimento era
Innocenzo XI, un antenato del principe Odescalchi.
Dunque, è possibile che i suoi studi o i suoi appunti siano stati
stimolati da notizie tramandate all interno della sua stessa famiglia…
Di più non ti saprei dire.
Spero di esserti comunque stato utile.
È tempo che torni a lavorare sulla mia tesi!
Un grande abbraccio
Fosco
Per ben due settimane Fosco Fortebraccio riuscì a concentrarsi sulla redazione
della tesi, spronato anche dalla consapevolezza di essere nalmente in dirittura
d arrivo. La mattina di sabato 21 marzo, una nuova mail di Janet Bonham lo colse
quindi, in una certa misura, di sorpresa. Temporeggiò senza più pensarci no
all ora della pausa pranzo, e solo dopo un piatto di carbonara e un buon ca è si
ricordò della mail, che aprì prima di riprendere il lavoro.
Carissimo Fosco,
Perdonami se ti scrivo solo ora per ringraziarti delle tue ricerche e
delle notizie che mi hai inviato sulle carte del principe Odescalchi.
Non ti nascondo che all inizio ero rimasta un po delusa, perché mi
sembrava non portassero da nessuna parte. Poi, però, ho avuto la
brillante idea di copiare in una e-mail sia il testo dell errata corrige
sia quello della tua missiva, inviandoli entrambi a tutta una serie di
amici studiosi qui e negli Stati Uniti. Be , sono felice di dirti che
proprio ieri uno dei miei più prestigiosi contatti, il professor Milton
LaFond dell Università di Nantucket, mi ha risposto, aprendo una
vera e propria nestra sulla questione.
Ecco la sua risposta: «Cara Janet, grazie per avermi voluto
coinvolgere nelle tue ricerche. Non ti nascondo un certo sconcerto,
perché ho cercato in tutte e tre le edizioni in mio possesso del libro
di Samuel Eliot Morison e non ho trovato alcuna traccia dell errata
corrige. Ad ogni modo, per quanto riguarda il tuo quesito, non ho
idea di quale nesso possa esistere fra l ultima spedizione di Giovanni
Caboto e un inquisitore del Sant U zio vissuto oltre cent anni
dopo, però… Però, come dovresti sapere, c è un nesso molto forte tra
quella spedizione e il Portogallo, o meglio i portoghesi (come da
Cunha). Infatti, ricorderai certo che, due anni dopo la scomparsa di
Caboto, il navigatore lusitano Gaspar Corte-Real catturò sull isola
di Terranova dei nativi americani che poi rivendette in patria come
schiavi, presso i quali ritrovò svariati oggetti appartenuti a membri
dell equipaggio di Caboto. uesti oggetti furono riportati in
Portogallo dal fratello di Gaspar, Miguel. Caso vuole che sia Gaspar
sia Miguel – tornato nell Atlantico a cercarlo – l anno dopo, nel
1502, siano spariti nel nulla senza più dare notizie. Tuttavia, mi hai
fatto tornare alla mente che parecchi anni fa, in un carteggio che
intrattenemmo in merito alla prima colonizzazione dell area di
Cape Cod, un collega un po eccentrico, il professor Noah Gilman,
che insegna folklore alla Miskatonic University di Arkham, mi
raccontò che, secondo una radicata leggenda locale della contea di
Essex, fra gli oggetti riportati in patria da Miguel Corte-Real ci fosse
anche il diario segreto di Giovanni Caboto…».

Fosco interruppe la lettura. Cominciava ad avere la sensazione di essere nito


dentro un romanzo giallo. O, forse, qualcosa di peggio…

II. U

1
Lisbona, no embre 1616
Il vecchio mercante ebreo Malachia Guimarães (detestava quel cognome da
con ertito, imposto dal re di Portogallo a suo nonno e a migliaia di altri uomini di
razza ebraica, e nel cuore continuava a essere e sentirsi un Abrabanel) si rigirò lo
strano oggetto fra le mani, con aria perplessa. Non era un libro in senso stretto.
Né sul dorso né sulla copertina c era parvenza di scritti o decorazioni e la
rilegatura in pelle morbida, con i lacci che servivano a tenere il volumetto chiuso,
faceva pensare più a un diario di viaggio o di bordo che a un tomo vero e proprio.
La fodera di pelle di foca, o più probabilmente di leone marino, in cui lo aveva
trovato avvolto, aveva di certo molto contribuito alla sua discreta conservazione;
tuttavia, in certi punti la carta era stata chiaramente ammalorata dall acqua e la
pelle esteriore mostrava segni di corrosione da parte della salsedine.
Malachia scosse il capo, pensando che probabilmente l oggetto non aveva in sé
alcun valore. L aveva trovato in fondo ad un magazzino ereditato dal padre e
ancora in parte inesplorato, perché notoriamente riservato alle cose di poca
rilevanza. Anzi, se ricordava bene quanto il padre aveva trascritto negli appunti
a datigli prima di morire, quei bauli – in uno dei quali aveva trovato il libro
malridotto – erano addirittura un acquisto poco oculato di suo nonno, che nei
primi anni del Cinquecento aveva acquisito per pochi denari molti oggetti rimasti
nelle residenze di Gaspar e Miguel Corte-Real, due famosi navigatori di Lisbona
che non avevano mai fatto ritorno da una spedizione nelle Americhe. In realtà,
Miguel era tornato in patria nel 1501, portando merci e schiavi da un isola
chiamata Terranova o qualcosa di simile, ma l anno successivo era ripartito
nell Atlantico in cerca del fratello e nessuno dei due aveva mai fatto ritorno.
Malachia guardò il raggio di sole che, ltrando attraverso l Arco do Castelo,
s insinuava nella nestrella del suo studio a acciato sulla viuzza di Sao
Bartolomeu, nel cuore dell Alfama, poi si rigirò il libro fra le mani e ne sciolse i
lacci, poggiandolo sul tavolo davanti a sé, girando la copertina e iniziando a
sfogliare le prime pagine. Chissà se faceva parte delle cose riportate da Miguel,
magari…
Voltando un altra delle pagine, al centro della quale campeggiava una sorta
d intestazione o titolo, Malachia si paralizzò. Senza mai distogliere lo sguardo,
cercò a tentoni sul tavolo, no a che riuscì a trovare gli occhiali e li inforcò,
poggiandoli sulla punta del naso.
Lesse e rilesse. Fissò il vuoto davanti a sé, poggiando il mento sul dorso della
mano destra, poi lesse di nuovo. C era poco da sbagliarsi. Compitò sottovoce la
scritta che aveva davanti agli occhi.

D B
Z C
B , 16 1498

Se non era una burla, si trattava di una scoperta davvero eccezionale. Per no
Malachia sapeva chi fosse Giovanni Caboto. L esploratore italiano nanziato
dalla corona inglese, benché salpato con una sola nave – il Mathews –, nel 1497
era stato lo scopritore della Nuova Scozia e di Terranova. Ripartito con una
piccola otta l anno dopo sempre sotto le insegne di Enrico VII, per colonizzare
le terre scoperte, era scomparso nel nulla e non aveva più fatto ritorno.
Tuttavia, c era un dettaglio che ria orava ora alla sua memoria. Secondo una
voce che si tramandava nella sua famiglia da più di un secolo, nel 1501 Miguel
Corte-Real non aveva riportato da Terranova solo schiavi indigeni, ma anche
molti oggetti personali appartenuti ai membri degli equipaggi di Caboto… E se
Miguel avesse riportato anche il Diario di bordo del grande navigatore, rimasto
poi per cento e quindici anni, a causa della sua repentina scomparsa, in fondo a un
baule?
Il vecchio mercante ebreo non poté fare a meno di provare un brivido di
eccitazione. Se fosse stato davvero così, avrebbe dovuto usare estrema cautela, ma
sapeva bene a chi quel diario avrebbe potuto interessare… In cambio di una
notevole somma di denaro, ovviamente…
Si assestò gli occhiali sul naso, girò un altra pagina e s immerse nella lettura.

2
La notte era scesa repentinamente, o almeno così sembrava a Malachia, ma, a
giudicare da quanto gli bruciavano gli occhi, doveva aver trascorso parecchie ore a
leggere. Con la mano sinistra spostò il candeliere, a nché la luce cadesse meglio
sulle pagine davanti a lui, stando molto attento a non macchiarle con la cera fusa.
Per un attimo distolse lo sguardo dallo scritto e si guardò furtivamente intorno,
come percependo che qualcuno nell ombra lo stesse silenziosamente spiando,
appostato per chissà quale scopo maligno. Scosse la testa dandosi dello stupido,
ma non poté impedire che il suo corpo scarno fosse percorso da un brivido.
Da un paio d ore quel dannato diario, che sembrava non aver mai ne, aveva
preso una piega inquietante. Malachia non avrebbe saputo dire esattamente il
motivo del malessere che sembrava trasmettergli, e tuttavia si sentiva stretto in
una morsa d ansia, di disagio psicologico, come se le pagine davanti a lui non
tanto narrassero, ma piuttosto evocassero, qualcosa di sinistro e spaventoso, e
tuttavia totalmente inde nito. Una sfumatura del buio che vedevi, ma non potevi
a errare. Un ricordo parziale di qualcosa di sgradevole e dimenticato. Si deterse le
gocce di sudore ghiacciato che gl imperlavano la fronte rugosa. Suo malgrado,
riprese la lettura.

2 agosto 1498. Da quando abbiamo lasciato a tribordo le coste della


Groenlandia, ho come l impressione che sia cambiato qualcosa nella
qualità della luce. L oscurità ci avvolge ogni sera assai prima di
quanto sarebbe lecito aspettarsi e il chiarore dell alba stenta in modo
innaturale a bucare la tta coltre di nubi color ardesia che pesa sulle
navi da giorni. Anche l aria sembra essersi fatta più densa, untuosa…
Una cosa del tutto sbalorditiva a queste latitudini…

Sul resto della pagina e in quella successiva l inchiostro era talmente sbiadito da
risultare illeggibile, ridotto solo a una pallida macchia senza signi cato, ma poi il
diario riprendeva.

5 agosto 1498. Non vedo l ora di avvistare il canale che separa l isola
di Terranova dalla terra ferma e inoltrarmi nel successivo golfo.
Comincio a odiare queste acque aperte. Gli uomini di guardia
giurano di aver avvistato ieri notte un fuoco sulla sommità
dell albero di maestra, ma chiaramente è una allucinazione. Invece, i
corpi giganteschi che dicono di aver incrociato più volte davanti alla
nostra prua potrebbero benissimo essere balene… O capodogli, visto
che il nostromo giura che avessero le zanne…

Arrivato a quel punto, Malachia ebbe la netta sensazione che una o più pagine
mancassero.

8 agosto 1498. Finalmente siamo arrivati in vista di Capo Breton e


della Nuova Scozia. Abbiamo decisamente bisogno di scendere a
terra per un po , e questo sito mi è noto, dato che vi abbiano già
fatto tappa durante la spedizione dello scorso anno.
Negli ultimi due giorni di navigazione abbiamo perso tre uomini.
Nessuno sa come. Il mare era calmo, ma le notti illuni sono
particolarmente buie. La prima mattina mancavano una marinaio e
un mozzo che facevano parte della guardia di tribordo. Sembravano
letteralmente svaniti nel nulla… C era solo una strana scia verdastra
che sembrava andare dalla zona delle botti dell acqua potabile no
alla murata. Una sorta di gelatina viscida, dal forte odore di alghe
marce e pesce in putrefazione. Il primo carpentiere ha osservato che
sembrava la scia di una lumaca, però dalle dimensioni di un vitello…
9 agosto 1498. Abbiamo trovato un buon approdo in una piccola
baia protetta e con le scialuppe abbiamo raggiunto una comoda
spiaggia di ciottoli. Siamo scesi quasi tutti a terra, salvo gli uomini
che ho lasciato a guardia delle navi. Mi riprometto di raggiungere un
piccolo lago di acqua dolce qualche miglio verso l interno, per
riempire le botti al lago stesso o in qualche immissario.

Ancora una volta l acqua di mare, o forse un altro liquido, aveva reso illeggibili
un paio di pagine, che all inizio sembravano addirittura incollate l una all altra.
Malachia alzò lo sguardo sulle candele, ormai ridotte a mozziconi. Forse
avrebbe dovuto andarsene a dormire e riprendere la lettura l indomani. Ma
qualcosa lo inchiodava su quella sedia, lo spingeva a continuare, come se in quel
diario si celasse un segreto, una rivelazione capace di calmare la sua ansia,
placando l angoscia feroce che sempre più lo divorava. Girò un altra pagina.

11 agosto 1498. Stamattina mi sono nalmente avviato con un


robusto numero di marinai verso il lago interno che ricordo di avere
intravisto l anno scorso dalla sommità di una collina… La
vegetazione è folta già vicino alla costa e due gabbieri si sono eccitati
realizzando che lo stretto ume che abbiamo dovuto guadare era
ricco di pesci. Ho dovuto promettere loro che al ritorno avremmo
dedicato il pomeriggio alla pesca…

Di nuovo una parte del testo risultava illeggibile, per riprendere in modo
comprensibile solo nella pagina successiva, iniziando a metà di una frase.

…al limitare di un bosco di aceri e betulle, imbattuti in un gruppo di


indigeni, che tuttavia si sono mostrati abbastanza ospitali,
nonostante la evidente perplessità per la nostra presenza. Con molta
fatica abbiamo capito che si riferiscono a se stessi come Mi kmaq…
Tuttavia, ogni tanto usano anche il termine Onamag, per cui non
sono certo di quale sia il vero nome di questa popolazione.
Ci siamo scambiati qualche oggetto. Hanno particolarmente
apprezzato un coltello molto a lato, in cambio del quale ci hanno
regalato due pelli di alce. Tuttavia, quando alla ne abbiamo fatto
capire che intendevamo raggiungere il lago, si sono molto agitati e
con grandi gesti hanno cercato di dissuaderci dal proseguire. uello
che sembrava il capo continuava a pronunciare una parola
incomprensibile, che alle mie orecchie suonava Ghluun…

Malachia drizzò la schiena sulla sedia e sollevò lo sguardo dal diario,


puntandolo sulla nestra dello studio, da cui cominciavano a ltrare i primi
bagliori indaco di una nuova aurora. Aveva letto tutta la notte… Ma perché quel
nome, vergato in quel remoto diario, sembrava evocare qualcosa in lui? Come se
in un altra vita lo avesse conosciuto, lasciandolo poi scivolare irrimediabilmente
nell oblio. Ghluun…
Riabbassò lo sguardo sulle pagine del diario, rendendosi subito conto che
svariate erano state strappate. Di una era rimasta la metà inferiore.

…immenso dodecaedro. Era formato di una sostanza lucida, simile


all ossidiana, e tuttavia nelle sue profondità l occhio, a seconda
dell angolatura dello sguardo, coglieva bagliori iridescenti, come
cirri che corressero nel cielo trascinati da venti impetuosi. Il blocco
sorgeva direttamente dall acqua del lago, e i Mi kmaq si
comportarono come se fosse una sorta di altare. uello che
consideravo il capo m indusse a grandi cenni ad avvicinarmi a una
particolare faccia del blocco, rivolta verso oriente, e mi resi conto
che aguzzando lo sguardo si distinguevano sulla super cie una serie
di segni alfabetici, cioè no, forse erano rune… Ma no, quelle le
conoscevo, me le aveva mostrate a Bristol un capitano norvegese…
Erano strani gli , che ricordavano se mai la scrittura araba, come
l avevo vista anni prima in Spagna…
L indigeno sembrò in grado di leggere quei segni arcani, perché
venne a portata del mio orecchio e recitò con voce sommessa, quasi
volesse farsi udire solo da me: «N gai, n gha ghaa, bugg-shog-gog,
y hah; Ghluun, Ghluun; Yog-Sothoth!».

Malachia fece letteralmente un balzo sulla sedia, riscuotendosi dallo strano


torpore in cui sembrava essere scivolato no a un attimo prima. Ora ricordava
perché il nome risvegliava nella sua mente qualche ricordo sopito. Lo aveva già
sentito pronunciare sottovoce, con reverenza e paura, proprio associato a
quell altro nome – Yog-Sothoth – da un suo connazionale di Coimbra che si
professava alchimista, Isacco qualcosa… Li aveva pronunciati narrandogli di un
libro maledetto che cercava disperatamente. L opera di un arabo pazzo, Abdul
Alhazred… Come si chiamava? Ah, sì, il Necronomicon…
Malachia si allontanò istintivamente dal tavolo e dal diario, ssandolo come
fosse una serpe pericolosa; poi, dopo un attimo d esitazione, a errò il volume, lo
richiuse e strinse nervosamente i lacci, facendo ben due nodi.
Per un po andò su e giù per lo studio, mordendosi il labbro inferiore e
arrovellandosi. Poteva ricavare davvero molto denaro dal casuale ritrovamento di
quel diario e al tempo stesso liberarsene, cosa che desiderava più che mai. Se però
non intendeva bruciarlo, ma scambiarlo con una borsa piena di real d oro
sonante, doveva essere estremamente cauto. Il pericolo era grande e non proveniva
da una sola direzione.

3
Malachia non amava il Barrio Alto. Era un quartiere creato dai gesuiti e il solo
pensiero gli incuteva insieme timore e un certo ribrezzo. Ma Daniel era stato
irremovibile. Il compratore che alla ne aveva trovato, e sulla cui identità non
aveva voluto minimamente sbilanciarsi, non aveva o erto alcuna alternativa. Con
un sospiro, il vecchio mercante si strinse nella palandrana per ripararsi dagli
spi eri della brezza umida che spirava dal Tago e aguzzò lo sguardo nella
semioscurità, sperando di avvistare il mediatore.
Daniel gli era letteralmente sbucato alle spalle, facendolo sussultare e
strappandogli una imprecazione a mezza bocca.
«L hai portato?» sussurrò quello, senza curarsi della sua reazione.
«Certo. L ho qui con me. Da che parte dobbiamo andare?».
Daniel parve quasi risentirsi del suo tono sbrigativo, ma senza commenti lo
superò e s incamminò lungo una stretta scalinata, facendogli cenno di seguirlo.
La dimora era indubbiamente patrizia, con un grande portone di legno scuro, al
momento serrato e seminascosto dall ombra proiettata da due colonne massicce.
Sulle pareti color sabbia si aprivano alte bifore, con spessi vetri piombati. Daniel
lo tirò per un braccio, trascinandolo verso un vicolo che si dipartiva all angolo del
palazzo. Pochi passi e si trovarono davanti a una porticina secondaria, intersecata
da due pesanti bande metalliche a forma di croce maltese.
Daniel si portò l indice sinistro alle labbra, intimandogli il silenzio, e bussò
piano alla porticina. Per un attimo il rumore delle nocche sembrò perdersi nel
vicolo, poi il rumore stridente di una chiave che girava nella serratura dall altra
parte fece sussultare Malachia.
«Presto sbrigatevi, non restate lì fuori» disse una voce roca, con urgenza e
autorità.
Il cappuccio scuro che nascondeva gran parte del volto del loro interlocutore
impedì a Malachia di coglierne le fattezze. Poi l uomo si girò quasi di scatto e
sparì nel buio di uno stretto corridoio dalla volta bassa e piena di ombre,
illuminato solo dalla torcia che lui stesso reggeva, tenendola alzata quel tanto da
consentire ai due uomini che lo seguivano di vedere dove mettevano i piedi.
I tre s inoltrarono senza proferir parola in quella che sembrava una cantina. Le
volte a botte di mattoni di terracotta – per quel tanto che Malachia riusciva a
intuire nella penombra – si erano fatte alte, sostenute da colonne rastremate.
Grandi aree vuote si alternavano l una all altra, poi Malachia cominciò a
intravedere alte cataste di botti, sia ammucchiate verticalmente sia poggiate
orizzontalmente, e poco dopo fecero la loro comparsa delle accole accese, in late
in anelli di ferro in ssi nel muro. La luminosità aumentò considerevolmente e ben
presto Malachia fu in grado di notare davanti a sé un muro, sulla cui parete si
arrampicava una scala a elle che saliva no a un ballatoio e a una porta a due
battenti.
«Di qui» si limitò a dire la loro guida, poggiando il piede destro sul primo
gradino.
Sembravano essere arrivati in fondo a un vicolo cieco. Superata la porta a due
battenti avevano imboccato uno stretto corridoio alla loro sinistra, che però
sembrava andare a morire contro un muro…
L uomo con il cappuccio toccò qualcosa sulla parete, all altezza della sua spalla,
e la parete si spalancò verso l esterno, lasciando entrare un bagliore rossastro.
Malachia varcò con esitazione la soglia, che si a acciava su un grande salone
elegante, con alti dipinti e arazzi alle pareti, e si rese conto che il bagliore
proveniva sia dai molti candelieri sparsi qua e là sia dal gigantesco camino proprio
di fronte a lui, in cui ardeva un enorme ciocco, rilasciando lunghe lingue di
amma, con il sottofondo di sonori schiocchi.
Malachia si bloccò, ma alle sue spalle Daniel lo spinse avanti, costringendolo ad
avanzare di un paio di passi. Intanto, l uomo con il cappuccio aveva
silenziosamente richiuso la porta da cui erano entrati e, con la coda dell occhio,
Malachia realizzò che la parte del salone in cui si trovavano corrispondeva alla
sezione di una grande libreria sovraccarica di tomi dai dorsi in pelle.
«Benvenuto, Malachia Guimarães. Pare che tu mi abbia portato un
ritrovamento di grande valore… Una circostanza davvero fortunata. È così?»
chiese con fermezza una voce baritonale che sembrava provenire dall alto
schienale in pelle di Cordoba della poltrona volta al camino.
Malachia rimase ammutolito. Tutto questo non aveva nulla a che fare con
l appuntamento a cui pensava di essersi recato, chi…
Con un fruscio di tessuti serici, un alta gura maschile si alzò con studiata
lentezza dalla poltrona, poggiando entrambe le mani sui braccioli, e si girò verso
di lui. Il bagliore delle amme imprimeva una luce sinistra al volto angolare,
incorniciato da una corta barba, e alle labbra sottili che s intravedevano appena
sotto i ba curati.
Malachia ssò con orrore crescente la veste talare che avvolgeva l alta gura
dell uomo e il grosso croci sso che gli pendeva sul petto da un elegante catena
d oro massiccio. A fatica deglutì, mentre sgranava gli occhi.
L arcivescovo Rodrigo da Cunha… Il Grande Inquisitore di Lisbona! Con un
crescente senso di orrore, Malachia vide un sorrisetto dipingersi sulle labbra del
prelato. Il mercante fece un passo indietro, quasi senza accorgersene, ma una
mano che aveva la forza di una morsa lo a errò per il bicipite destro e la punta
tagliente di una misericordia gli punse il collo, appena sotto l orecchio sinistro.
«Resta dove sei» sibilò l uomo incappucciato che li aveva guidati n lì.
Malachia s irrigidì. Maledetto! uel bastardo di Daniel lo aveva venduto al
Sant U zio. Sentì un onda di nausea risalirgli dallo stomaco rattrappito dalla
paura.
«Malachia, non vorrai lasciarci qui da soli, vero?» disse l Arcivescovo con tono
falsamente suadente. «Dimmi, piuttosto, questo famoso diario di Caboto l hai
portato con te? O è solo una tua invenzione per strappare denaro a qualche
credulone?».
Senza proferir parola, Malachia in lò una mano nella tasca interna della
palandrana, a errò il libro di pelle stretto nei suoi legacci e con un gesto esitante
lo porse a Rinaldo da Cunha, che lo accettò graziosamente e tornò a sedersi sulla
grande poltrona dirimpetto al camino.
«Penso che avrò parecchio da leggere» disse il prelato in tono quasi casuale.
«Trovate un alloggio adeguato al nostro mercante».
Reprimendo un brivido, Malachia si girò su se stesso e lanciò uno sguardo
velenoso a Daniel, che non si era mai allontanato dalla libreria, ma l uomo
incappucciato lo sospinse con forza verso l estremità opposta del salone e da
dietro un pesante tendaggio il mercante si vide venire incontro due guardie in
cotta di maglia che no a quel momento non aveva minimamente notato. Lasciò
cadere le spalle in un gesto di resa e rassegnazione totale. Capì che non avrebbe
mai più rivisto la luce del sole.

III. I

1
Roma, 8 ottobre 1851
Pietro Odescalchi ssò per un attimo il foglio di pergamena che aveva appena
nito di rileggere per l ennesima volta; poi, con la massima cura, lo ripose nella
cartelletta che gli stava davanti, posata sul pesante tavolo di quercia. Dalle nestre
semiaperte, ad accogliere il sole di una tipica ottobrata romana, saliva il brusio
della sottostante Piazza Santi Apostoli.
Non c erano dubbi. Come ricordava, gli appunti del suo celebre antenato
Benedetto Odescalchi, che aveva preso il nome di Innocenzo XI, erano del tutto
espliciti. In un periodo fra il 1616 e il 1618 l Arcivescovo e Grande Inquisitore di
Lisbona, Rinaldo da Cunha, aveva in qualche modo messo le mani su un diario di
bordo attribuito al famoso navigatore italiano Giovanni Caboto e aveva nito per
giudicarne il contenuto talmente sinistro e pericoloso per la Chiesa da farlo
sparire nel più remoto angolo dell Archivio del Sant U zio.
Tuttavia, durante il suo ponti cato, qualcuno doveva aver portato a conoscenza
di Innocenzo XI l esistenza del diario nascosto, tanto che nel 1683, per suo
esplicito ordine, era stato trasferito nell Archivio Segreto Vaticano insieme a tutte
le carte dell Arcivescovo portoghese. E Pietro non aveva dubbi che il Papa lo
avesse anche letto! Indiretti, certo, ma i riferimenti erano lì, nei suoi appunti e
nella corrispondenza con i familiari.
Tamburellò con le dita sul piano del tavolo.
In particolare, c era quella considerazione, quasi per inciso, nella lettera a un
nipote che aveva appena nito di rileggere: «Se sapessero ciò che quel nostro
connazionale ha scoperto e visto con i suoi stessi occhi, i Protestanti si terrebbero
ben lontani da certe coste dell America; invece, certi che si de niscono Padri
Pellegrini vi hanno addirittura creato una colonia…».
Dunque, pensò fra sé e sé Pietro Odescalchi senza riuscire a trattenersi dal
picchiare il pugno sul tavolo in un gesto d impazienza, anche a costo di frugare
l Archivio Vaticano da cima a fondo, avrebbe dovuto rintracciare quel maledetto
diario. Se si fosse rivelato autentico, si sarebbe trattato di una scoperta
eccezionale. Impensabile! Eppure…

2
Roma, 21 aprile 2021
«…Eppure» disse Monsignor Salimbeni, scuotendo la testa in un gesto
desolato, «siamo riusciti a strappare ai Lincei i famosi appunti di Pietro
Odescalchi di cui avevate trovato traccia nel catalogo, ma ci hanno portato solo
ad un vicolo cieco».
Fosco e il Professor Graziosi si scambiarono uno sguardo perplesso.
«Gli appunti dell Odescalchi» spiegò Monsignor Salimbeni, «chiariscono in
modo inequivoco che – di tutte le carte e i documenti del vecchio Arcivescovo da
Cunha con uite nell Archivio Segreto Vaticano da quello del Sant U zio – ciò
che a lui interessava era solo ed esclusivamente un vecchio diario di bordo che la
leggenda attribuiva al navigatore italiano Giovanni Caboto. Ora, come sapete
meglio di me, Caboto scomparve al largo delle coste americane nel 1498 e quindi
l attribuzione è del tutto assurda… Comunque, non è questo il problema».
«E quale sarebbe?» chiesero all unisono Fosco e il professore.
Monsignore li ssò per un attimo in silenzio, poi sciolse le dita intrecciate e
spalancò le braccia in un gesto di frustrazione.
«Il problema» rispose alla ne, «è che abbiamo rintracciato agevolmente tutti
i fascicoli dell Arcivescovo da Cunha… Ma di questo favoloso diario non c è
traccia… O, meglio, un diario con le caratteristiche descritte dall Odescalchi è
enumerato nel relativo inventario… ma il diario in quanto tale… non c è».
Di nuovo Fosco e il professor Graziosi si scambiarono un occhiata stavolta
sbalordita.
«Ci sta dicendo» mormorò alla ne, a mezza voce, Fosco, «che il diario
attribuito a Caboto… è stato sottratto dall Archivio Segreto Vaticano?».
Monsignor Salimbeni spalancò di nuovo le braccia.
«Temo proprio di sì. La cosa sembra impossibile, lo so, anche perché negli
ultimi tre secoli, a parte quella dell Odescalchi, non c è traccia di alcuna
consultazione delle carte di Cunha. Anche se…».
«Anche se?» lo incalzò il professor Graziosi.
«Anche se, in verità» riprese il Monsignore, «ho trovato l indicazione di una
richiesta di consultazione che però, stando ai registri, non avrebbe avuto seguito.
Fatemi controllare…» aggiunse, aprendo una cartellina che no ad allora aveva
tenuto poggiata su un tavolinetto accanto alla poltrona. «Dunque… Sì, ecco
qua… Nel maggio del 1938, ci fu una richiesta di esaminare i fascicoli
dell Arcivescovo da Cunha da parte di una strana Chiesa Evangelica… Venne una
delegazione di tre persone, secondo la nota dell archivista di allora…».
«Vennero sicamente qui, in Vaticano? All Archivio?» chiese Fosco.
«Sì, qui c è scritto così».
«E da dove venivano?» insistette il giovane.
Monsignor Salimbeni rigirò la scheda ingiallita che teneva in mano. «Mmm…
Vediamo… Toh, venivano dagli Stati Uniti. Un lungo viaggio, per farsi dire di
no… Nuova Chiesa Evangelica dei Grandi Antichi, una delle tante…».
«La scheda dice anche dove avevano sede?» domandò Fosco sempre più
intrigato.
«Sì. Vediamo… Arkham, Massachusetts».

IV. U

1
New Brunswick, Canada, 24 aprile 2021
Janet Bonhan nì di buttare alcuni indumenti in una sacca da viaggio di pelle
impermeabilizzata, controllò che il cellulare fosse carico, tirò fuori il passaporto
dal cassetto del comodino e a errò dall armadio un parka color crema,
in landolo frettolosamente.
Il volo per Providence era alle 17,00, quindi mancavano solo due ore. Doveva
a rettarsi se non voleva perderlo.
Richiudendo la porta di casa alle spalle, fece un rapido riassunto mentale per
controllare di non essersi dimenticata nulla d indispensabile. Era quasi certa di
no. Guardò di nuovo l orologio digitale. Fra poco, anche Fosco Fortebraccio e il
suo relatore, il professor Graziosi, sarebbero partiti da Roma per Boston, e il
giorno seguente si sarebbero incontrati tutti alla Brown University di Providence.
Uscendo dal portone del piccolo condominio in cui abitava, Janet fu investita
da un forte colpo di vento, ma sembrò non accorgersene; sollevò il braccio per
richiamare uno dei taxi fermi al parcheggio dall altro lato della strada.
Accomodandosi sul sedile posteriore, dopo aver chiesto di essere portata
all aeroporto, decise di appro ttare del poco tempo a disposizione per fare il
punto della situazione.
uando Fosco Fortebraccio l aveva aggiornata sugli ultimi sviluppi delle
proprie ricerche in Italia, così pieni di misteri e interrogativi, si era messa al lavoro
per scoprire innanzi tutto qualcosa su quella Chiesa Evangelica di Arkham, che
sembrava l ultimo soggetto a essersi interessato al presunto diario di Caboto.
Aveva fatto nuovamente ricorso alla cortesia del professor LaFond, soprattutto
per cercare un contatto diretto con il professor Gilman della Miskatonic
University, di cui proprio lui le aveva parlato in precedenza. La Miskatonic aveva
sede ad Arkham: chi meglio di lui, studioso di folklore e costumi locali, poteva
sapere qualcosa su una chiesa del suo stesso territorio?
L idea non faceva una grinza… Peccato che, dopo un primo fugace contatto
telefonico in cui aveva potuto a malapena accennare ai contenuti della propria
ricerca, il professor Gilman fosse di fatto diventato irreperibile. Dopo
innumerevoli tentativi via posta elettronica e telefono, una segretaria della Facoltà
le aveva detto che si era assentato per una ricerca sul campo…
Proprio quando stava per arrendersi e cedere alla frustrazione, era giunto di
nuovo in soccorso l impareggiabile professor LaFond, mettendola in contatto con
un altro collega esperto di folklore e tradizioni locali del New England – il
professor Leroy Mountbanks, della Brown University – che sembrava non solo
essere un corrispondente abituale di Gilman, ma anche saperne parecchio sulla
misteriosa Chiesa Evangelica dei Grandi Antichi.
Mountbanks si era rivelato un interlocutore estremamente gentile, ma
altrettanto riservato: pur confermando di avere molte informazioni
sull argomento, ri utò di parlarne per telefono o via mail. Fu irremovibile.
«Mi dispiace, dottoressa Bonhan, ma, se vuole a rontare con me questa
particolare materia, c è un solo modo. Prenda un aereo e venga qui. Sarò felice di
parlarne con lei».
Così Janet era in partenza per Providence e il pomeriggio successivo avrebbe
incontrato il professor Mountbanks alla Brown, insieme a Fosco e al suo relatore,
il professor Graziosi, che – uditi gli ultimi sviluppi e ormai presi da quella
singolare vicenda – avevano deciso di unirsi a lei.

2
Pro idence, Stati Uniti, 25 aprile 2021
La Manning Hall, con la sua caratteristica architettura neo-dorica, si stagliava
sullo sfondo degli alti alberi del campus dal 1834. Janet Bonhan, Fosco
Fortebraccio e il professor Graziosi si avviarono oltre la la di colonne, sotto
l imponente architrave, e si ritrovarono nella penombra dell atrio. Un uomo
anziano, ma dalla gura ancora eretta e vigorosa, con lunghi capelli sale e pepe e
un abbigliamento informale, sollevò un braccio per farsi notare e si diresse verso
di loro con passi lunghi ed elastici.
«Dev essere il professor Mountbanks» commentò Janet, avviandosi nella sua
direzione. «Aveva detto che ci avrebbe atteso all ingresso…».
«Sì, anch io ho cercato Gilman senza successo in questi giorni…» borbottò più
tardi Mountbanks, cercando contemporaneamente di accendere la pipa che
stringeva fra i denti, sprofondato nella poltrona girevole del suo u cio.
«Tuttavia, a quanto mi ha accennato per telefono» intervenne Janet, «lei ha
informazioni dirette su quella congregazione di Arkham che le ho nominato…».
«La Nuova Chiesa Evangelica dei Grandi Antichi? Oh, sì, me ne sono
occupato qualche anno fa e proprio da ciò è nato il contatto con il professor
Gilman» disse. «Una Chiesa assai singolare, inquietante. Parlarne mi mette
sempre a disagio. Praticava un culto parecchio eterodosso rispetto alla tradizione
cristiana… La Chiesa non esiste più dagli anni Sessanta del secolo scorso, i fedeli si
dispersero in seguito all improvvisa scomparsa del pastore di allora, un certo
Obed Marsh… in circostanze, diciamo… inquietanti. Tuttavia Gilman, che allora
era un giovane ricercatore, ne salvaguardò l archivio, che è diventato una delle sue
principali materie di studio».
Il professor Mountbanks aspirò rapidamente due o tre grandi boccate dalla
pipa, che si era quasi spenta.
«Anch io ho lavorato parecchio su quelle carte» aggiunse poi, in modo quasi
casuale. «Molti sono documenti di routine, senza interesse, ma ci sono alcune
note sulle loro cerimonie e sulle loro convinzioni religiose davvero stimolanti…
Anche se leggerle mi ha sempre lasciato una certa inquietudine».
«Come mai?» domandò Fosco.
Mountbanks sembrò ri ettere per un attimo, concentrato sul fornello della
pipa, poi alzò lo sguardo sul giovane italiano e scosse la testa: «Diciamo che la
loro lettura della Bibbia era quantomeno… fuori dalle righe. Erano convinti che in
realtà l Uomo fosse stato preceduto sulla Terra da esseri spaventosi; alieni
provenienti dagli abissi dello spazio, da pianeti remoti, come quello che
chiamavano Yuggoth, o addirittura da lontanissime stelle, come Aldebaran e
Betelgeuze. ueste creature del vuoto cosmico vivrebbero in altre dimensioni
contigue alla nostra, sempre pronte a far nuovamente irruzione nella realtà
presente. Sarebbero, per l appunto, i Grandi Antichi».
«Sembra più che altro un racconto di fantascienza» osservò Janet, con un
risolino forzato.
«In un certo senso…» assentì il professore. «L aspetto più sinistro è che la
Chiesa predicava anche la permanenza sulla Terra di loro emanazioni, per così
dire: esseri di natura minore, ma pur sempre spaventosi e padroni di osceni poteri
soprannaturali, che si nasconderebbero in angoli remoti del nostro pianeta e che
alcune popolazioni umane adorerebbero come divinità».
Con un gesto della mano Mountbanks bloccò Fosco, che aveva accennato in
modo evidente a voler intervenire.
«Proprio Gilman» proseguì, «partendo dalle note conservate nell archivio
della Chiesa, nel corso degli anni ha ricostruito un culto molto di uso fra gli
indigeni delle tribù Wampanoag, stanziate nel Massachusetts; facevano sacri ci a
un essere mostruoso, Ghluun dalle Mille Forme, Signora delle Cose che
Strisciano».
Janet, Fosco e il professor Graziosi si scambiarono una serie di sguardi, senza
sapere cosa dire.
«La cosa davvero notevole» continuò, come se non si fosse accorto del loro
disagio, «è che si tratterebbe di un culto molto antico. Ne parla addirittura
Caboto nel suo diario…».
Se Mountbanks avesse sparato un colpo di pistola, la sorpresa e il gelo calato
nella stanza non sarebbero stati maggiori.
«Scusi, professore» disse Janet, dopo qualche minuto di imbarazzato silenzio,
«può ripetere quello che ha appena detto… a proposito di un diario…».
«Di Caboto?» l interruppe Mountbanks. «Certo. Che diamine, dimenticavo
di dirvi che praticamente nessuno è a conoscenza della sua esistenza. Il professor
Gilman e il rettore della Miskatonic sono stati irremovibili su questo punto
quando, nel 2018, mi hanno consentito di vederlo e consultarlo brevemente
nell Archivio dei Libri Proibiti dell Università».
«Libri proibiti?» intervenne il professor Graziosi con tono perplesso.
«Oh, sì» ribatté Mountbanks. «Molto proibiti. La Miskatonic University
conserva, ad esempio, la sola copia conosciuta al mondo del Necronomicon, una
delle due versioni complete del De Vermis Mysteriis, una rarissima trascrizione dei
Manoscritti Pnakotici. E, insieme a loro, il diario di bordo dell ultimo viaggio di
Giovanni Caboto… arrivato non so come nelle mani della Chiesa dei Grandi
Antichi e ora conservato in gran segreto dalla Miskatonic University».
«E lei… lo ha visto… lo ha tenuto fra le mani, giusto?» chiese Janet in tono
incredulo.
«Esattamente. Anzi, al tempo riuscii addirittura a copiare alcuni passaggi
particolarmente signi cativi senza farmi notare. Contavo di approfondire quelle
notizie, ma ne è mancata l occasione».
Graziosi si fregò le mani, cercando di tenere sotto controllo l eccitazione.
«Professore, ha per caso ancora quegli appunti?».
Mountbanks si prese qualche secondo per riaccendere la pipa prima di
rispondere, tenendo i suoi interlocutori sulle spine senza saperlo.
«Certamente. Ho sempre pensato che prima o poi…». Si allungò verso uno
sca ale dietro di sé e compulsò una serie di contenitori di cartone e plastica, di
vari colori, a errandone alla ne uno sottile, blu notte.
«Ecco, qui c è la mia trascrizione dell originale in antico veneziano. Sono
soltanto pochi paragra , ma ancora adesso, solo a parlarne, non riesco a trattenere
un brivido e a scacciare un senso d inquietudine».
Janet dovette fare uno sforzo di volontà per non strappare il contenitore dalle
mani del docente. Lo prese con garbo e chiese: «Possiamo leggere subito queste
carte?».
Mountbanks si alzò dalla poltrona, stiracchiandosi, e si mise il cannello della
pipa fra i denti.
«Fra mezz ora devo fare lezione. Vi lascio padroni dell u cio. Ci vediamo fra
un paio d ore in ca etteria?».

3
Fosco e Janet assentirono con il capo, ma erano già chini sui fogli estratti dal
contenitore. Li appoggiarono sulla scrivania di Mountbanks con un gesto quasi
reverente e si chinarono sul testo manoscritto.

…Anche stanotte si è aperto all improvviso, a tribordo della prora


della nave che seguiva la mia… Il suo malsano bagliore fosforescente
ha investito le alberature e la murata, pulsando come la luce di un
faro e terrorizzando gli uomini di guardia. Un maelstrom nero
turbinava al centro dell area illuminata, come un nucleo osceno o,
meglio, una paurosa pupilla spalancata… Per questo gli equipaggi lo
chiamano Occhio degli Abissi… Appena farà giorno dobbiamo
puntare verso terra – questo forse gli impedirà di seguirci, ma non
alle creature che nuotano nella sua rivoltante spuma
mucillagginosa… Stanotte sono certo di averne visto i tentacoli,
tozzi e deformi, dalle ventose simili a carne viva.
…Finalmente una baia che pare adatta ad o rirci riparo per qualche
giorno. Sorge proprio ai piedi di un monte brullo e deserto, ma
sembra avere acque tranquille. Ne voglio registrare la posizione… 44
gradi e 27 Nord di latitudine e 68 gradi e 22 Ovest di longitudine…

ui un asterisco rimandava a una nota del professor Mountbanks, scritta in


inchiostro rosso a fondo pagina: «Le coordinate coincidono con quelle della
attuale Bar Harbour, sull Isola di Mount Desert, nel Maine».

…È scesa la notte e sulle pendici del monte che abbiamo davanti si


sono accesi strani fuochi. Probabilmente ci sono gruppi d indigeni.
Il bagliore rossastro non nasconde, anzi sottolinea il gelido
baluginio delle stelle in un cielo color ossidiana. Una strana luna
rossa ha cominciato a spuntare dal lato opposto della baia e per un
lungo attimo a parecchi di noi è sembrato che d improvviso una
massa informe e oleosa, come una nuvola, ma capace di muoversi
autonomamente, si fosse frapposta fra noi e l astro… Non c è un
alito di vento, eppure da quella massa aerea è sceso un fetore
insopportabile sulle navi, facendo tossire gli uomini, molti dei quali
hanno cercato riparo sottocoperta…
…È quasi come se le creature tentacolate ci sospingessero in avanti e
tracciassero la nostra rotta, determinando il uire delle correnti e
comandando ai venti, che non sono mai stati tanto inconsueti… Da
una settimana siamo in balia dell Occhio, che ormai ci scruta per
l intera durata delle notti…
…Da due giorni non abbiamo più avvistato né l Occhio né i mostri
che lo accompagnano. È come se avessero attuato un loro disegno.
Ora stiamo procedendo sotto costa… Voglio fare il punto… 41 gradi
e 45 Nord di latitudine e 70 gradi e 29 Ovest di longitudine…
Ancora una volta, una nota in inchiostro rosso del professor Mountbanks
precisava: «Coordinate dell attuale cittadina di Sandwich, nel Massachusetts,
a acciata sulla baia di Cape Cod. La più antica città del Capo, fondata agli inizi
del XVII secolo».

…Un gabbiere ha avvistato quello che sembra a tutti gli e etti


l estuario di un grande ume, anche se la regolarità delle rive al suo
imbocco, per quanto riusciamo a intravedere, farebbe pensare
piuttosto a un canale arti ciale, il che ovviamente è impossibile. Ho
deciso di gettare l ancora proprio alla sua imboccatura…
…Le dimensioni di questa foce sono così grandi e maestose che ho
deciso di azzardarmi a veri care se sia per caso navigabile, anche se
tenteremo l impresa con solo due delle navi. Fra un paio d ore
salperemo, imbarcando metà di tutti gli equipaggi, in caso
dovessimo imbatterci in indigeni ostili…
…Abbiamo iniziato a inoltrarci nelle stagnanti acque salmastre di
quella che sempre più ci appare come un opera arti ciale, creata
dalla mano dell uomo… Dell uomo? Non so davvero quali uomini
potrebbero aver eretto gli argini ciclopici che spesso, dove il corso
d acqua fa un ansa, sembrano s dare le leggi della sica,
articolandosi in tozzi moli, banchine e terrazzamenti che si
rastremano verso l alto, secondo un assurdo andamento elicoidale…
Ciò che più di ogni altra cosa lascia sbalorditi è la dimensione dei
massi usati per creare queste immani opere murarie. Giganteschi
blocchi trapezoidali di una roccia scura densa di quarzi, intervallati
qua e là da titanici esaedri di un minerale verdastro, aspro, che
rimanda in sinistri luccichii i raggi di un sole sbiadito…

«Tutto questo non ha senso!» esclamò il professor Graziosi in un impeto


d irrequietezza. «O quantomeno, ammesso che questi non siano altro che brani
di un antica e so sticata burla, Caboto ha riportato nel suo diario coordinate
completamente sbagliate! Conosco abbastanza la geogra a della baia di Cape
Cod da potervi assicurare che non esiste alcun ume degno di questo nome né a
nord né a sud di Sandwich. Un canale arti ciale, poi! E di dimensioni enormi,
con opere murarie gigantesche… Pensate davvero che sarebbe potuto passare
inosservato per cinque secoli?».
«Be » azzardò Fosco, «in e etti c è un canale arti ciale che collega la baia di
Cape Cod con quella di Buzzards…».
«Fortebraccio» lo ammonì il professor Graziosi in tono spazientito, «è in vena
di battute? Il canale di cui parla lei è un opera moderna, navigabile solo dal
1916!».
Janet e Fosco si scambiarono uno sguardo perplesso. In e etti, il racconto che
emergeva da quei frammenti sembrava del tutto inattendibile. Una pura fantasia.
Un delirio, se non uno scherzo. Ma uno scherzo sarebbe stato sequestrato prima
dall Archivio del Sant U zio e poi da quello Segreto del Vaticano? Decisero di
proseguire comunque nella lettura. In fondo, mancavano solo tre o quattro fogli
per esaurire gli appunti del professor Mountbanks.

…Da circa un ora è calata una tta nebbia, che ci consente a


malapena di seguire il corso del canale, senza andare a urtare contro
una delle sponde. L acqua si è fatta più densa e ha assunto un colore
sgradevole, fra il marrone e il verde scuro, con lunghe striature di un
giallo che ricorda la bile. ua e là la lenta corrente, che ora scende
dall interno verso il mare, porta con sé viscidi agglomerati di
ramaglie, alghe ed erbe palustri putrescenti, che di ondono nell aria
un disgustoso odore di putrefazione e morte…
…Li ho visti anche io! Già da ore i marinai, che non si staccano più
dalle murate, salvo i pochi impegnati nella manovra, avevano fatto
diversi avvistamenti… Sono esseri dalle fattezze ultraterrene, mostri
scaturiti da un qualche inferno abissale. Si trascinano lungo le lingue
di sabbia che nel tempo la corrente ha creato a ridosso delle sponde
o nuotano fra gli isolotti galleggianti di vegetazione cancerosa,
trascinandosi sugli unici due arti che spuntano dal torso informe,
privo di altre appendici, su cui poggia un assurda testa conica priva
di occhi, ma coronata da corti tentacoli in perenne movimento, in
una ributtante caricatura di altrettante teste di Medusa. Alle
estremità dei due arti si allargano zampe pinnate, membranose, che
niscono in un aguzzo artiglio ricurvo e fanno pensare
inevitabilmente ad ali di pipistrello…
…Uno di quegli esseri, che ormai i marinai chiamano le Cose che
Strisciano, ha cercato di arrampicarsi a bordo, sfruttando una
gomena lasciata a penzolare dalla murata di babordo… Il nostromo è
stato lesto a respingerlo, tra ggendolo con una ocina… Prima di
ricadere in acqua ha trasudato un rivoltante siero verdastro… Forse il
suo sangue… Molti altri si sono avventati sulla sua carcassa,
trascinata dalla corrente e ancora in preda a spasmi, e sono rimasti
attaccati alle ventose dei tentacoli che fanno da corona alla testa…

Fosco si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte e scambiò uno sguardo di
sottecchi con Janet, senza proferir parola. Allungò una mano e girò l ultimo
foglio.

…Il canale è nito all improvviso, marcato su entrambe le sponde da


due ciclopici cilindri di basalto, talmente alti da superare di parecchi
metri la sommità del nostro albero maestro… Per quel tanto che
riusciamo a vedere, sembrano segnati da una tta rete di incisioni in
forma di onde e sinusoidi, la sommità è coronata da un bassorilievo
che alterna una serie di simboli sconosciuti… Di fronte a noi si è
spalancata una immensa distesa d acqua, di cui è impossibile cogliere
alcun con ne… L acqua si è fatta colore del peltro e il cielo alterna
sfumature magenta e porpora, mentre le nuvole lunghe e s lacciate
che scorrono, evidentemente portate da una corrente d alta quota,
sono colore del vino vecchio. Fra un cirro e l altro, remote saette
accendono a tratti le aree più scure della volta celeste…
«Un isola!» ha gridato improvvisamente il gabbiere che poco
prima avevo spedito in co a. «Là, a babordo!».
…Più che un isola sembrava una cattedrale di nera ossidiana, ma che,
invece di ri ettere, pareva assorbire la luce ultraterrena che scendeva
dal cielo. Si articolava in bastioni aguzzi, guglie e creste frastagliate,
sorgendo direttamente dai utti. Inutilmente la circumnavigammo,
cercando un possibile approdo, ma sul versante opposto la forma
particolare assunta dai contra orti di tenebra vetrosa catalizzò la
nostra attenzione… L alta cresta regolare era racchiusa fra due guglie
aguzze sul lato orizzontale, mentre verticalmente se ne dipartivano
due sottili pareti più basse, che facevano corona a un pianoro
regolare, lasciandolo aperto verso il mare. Era come se l isola in quel
punto avesse assunto la forma di un immenso seggio…
«Il Trono Nero…» ha sussurrato il nostromo appoggiato alla
murata al mio anco.
«Che dici?» ho balbettato…
…Ma proprio in quel momento sull orlo del pianoro fece la sua
apparizione un manipolo di indigeni, adornati di pelli, che
indossavano ricchi copricapo di piume. Uno, palesemente più alto
dei suoi compagni, avanzò di qualche passo no ad a acciarsi sul
mare che ribolliva alla base dell isola e sollevò in alto una sorta di
lancia, che terminava in una forma geometrica a me ignota…
Tuttavia, notai bene che quest ultima era formata da una sequenza
di teschi umani, dipinti di vermiglio… Di sangue? Non ebbi tempo
d inorridire, perché egli lanciò nella nostra direzione un grido
possente: «Y hah, N gai n gha ghaa! Y ahah bug-shog-gog,
th thkh ngha, Ygnaiih Ghluun!».
…Proprio in quel momento, con un ultraterreno, abominevole
sciabordio, l immensa Cosa sorse dall acque davanti alla prora…
Dalla sua testa informe sporgeva una lunghissima proboscide… Una
bava traslucente colava lungo la massa gelatinosa… L onda che aveva
sollevato ci investì…

Gli appunti di Mountbanks nivano così, bruscamente.


Fosco, Janet e il professor Graziosi si guardarono l un l altro, ma per un lungo
attimo nessuno seppe cosa dire.
«Sappiamo che questi sono solo appunti, frammenti rubati quando era
possibile farlo senza insospettire i custodi dell archivio della Miskatonic. È
evidente che nel diario ci dev essere altro, forse molto di più, non può concludersi
così, Caboto deve essere sopravvissuto per poter poi scrivere queste righe…» disse
alla ne Fosco, rompendo il silenzio. «In un modo o nell altro dobbiamo riuscire
a leggere quello… l originale».
Il professor Graziosi scrollò il capo: «Il tempo che ho potuto prendermi,
trascurando il mio corso, è ormai nito e in tutta sincerità, ora che ho letto queste
carte, sono convinto che non si tratti di altro se non di un grottesco falso… Non
so voi ma, personalmente, me ne torno a Roma».
Fosco a errò la mano di Janet, che no a quel momento non si era ancora
pronunciata.
«La pensi così anche tu?» chiese in tono ansioso.
Janet lo ssò per un attimo, mordendosi il labbro inferiore: «Sinceramente,
non so cosa pensare…».
«Allora non farlo. Vieni con me».
«E dove?» chiese Janet stupita.
«Che domande!» ribatté Fosco, alzandosi dalla sedia. «Ad Arkham! In un
modo o nell altro, troveremo il professor Gilman e lo costringeremo a mostrarci
quel maledetto diario!».

V. L C S B

Arkham, Stati Uniti, 30 aprile 2021


Janet rispose al terzo squillo, a errando la cornetta.
«Pronto?».
«La professoressa Bonhan?» chiese una voce di donna.
«Si, sono io. Chi parla?».
«La chiamo a nome del professor Gilman, dalla segreteria della Facoltà di
Scienze Umanistiche della Miskatonic University».
«Finalmente!» esclamo Janet, facendo un cenno per attirare l attenzione di
Fosco.
L interlocutrice sembrò non prendere nota di quella esclamazione e proseguì in
tono professionale. «Il professor Gilman vi aspetta stasera alle 19,00 nella
Charles Dexter Ward Library, nell ala vecchia del Campus. Posso confermargli la
vostra presenza?».
«Assolutamente sì!» rispose Janet in tono enfatico. «Grazie».
Riappoggiò la cornetta e sorrise a Fosco, che la ssava con un espressione
interrogativa. Finalmente ce l avevano fatta.
Era ad Arkham da quattro giorni, ormai quasi sul punto di arrendersi.
Cominciava a odiare quella sonnacchiosa cittadina, nonostante il fascino antico
delle tante case georgiane che al mattino e alla sera parevano immancabilmente
sbiadire in una foschia crescente che poco a poco niva per far galleggiare la città
in una sorta di sinistra irrealtà. In un modo o nell altro, il professor Gilman era
sempre indisponibile e non erano riusciti a parlargli neppure per telefono.
Probabilmente, la strategia vincente era stata quella di assillare quotidianamente il
rettore dell Università e il preside della facoltà per cui lavorava Gilman. Sì, doveva
essere quella la spiegazione. Pur di liberarsi di loro, avevano costretto Gilman a
incontrarli.
Dalla voce, a Janet parve di riconoscere nell impiegata austera che li accolse
all ingresso della Pickman s Hall la stessa persona che li aveva contattati al
telefono.
«Ho ordine di accompagnarvi direttamente nella Biblioteca, il professor
Gilman vi raggiungerà là» disse, alzandosi dietro il banco dell accoglienza.
«Vi prego di consegnarmi i vostri cellulari. È una regola della Biblioteca» e
aggiunse con un sorriso, davanti all espressione perplessa di Janet: «Evita la
tentazione di scattare foto ai libri e ai manoscritti. Comunque, non c è segnale lì.
È un locale sotterraneo e isolato, con un sistema speciale di areazione, per la
conservazione ottimale dei documenti».
Fosco e Janet assentirono e le consegnarono i due telefoni.
«Seguitemi, prego» disse l impiegata, avviandosi verso un maestoso corridoio
che si diramava a sinistra del salone d ingresso.
Alla Biblioteca – quella che conservava i famosi Libri Proibiti di cui aveva
parlato Mountbanks – si accedeva attraverso una massiccia porta a due battenti,
di vecchia quercia americana, con una grossa maniglia di ottone lucidato che
sembrava ra gurare una bizzarra creatura marina; un incrocio fra una sirena, un
tritone e un polipo dai corti tentacoli.
Janet le lanciò una lunga occhiata prima di accedere alla biblioteca vera e
propria.
Si trovarono davanti a le interminabili di vecchi tomi, per la maggior parte
rilegati in pelle o in logore cartonature. ua e là, in senso verticale rispetto alla
porta d ingresso, si allungavano tavoli rettangolari per la consultazione e la
lettura, prevalentemente in radica, intorno a cui stavano sedie dall alto schienale
con la seduta imbottita, disposte in modo irregolare.
«Accomodatevi, prego» disse l impiegata, «il professor Gilman vi raggiungerà
subito».
Senza aggiungere altro, girò sui tacchi e sparì quasi senza fare rumore oltre la
massiccia porta d ingresso, richiudendosela alle spalle. Con loro grande sorpresa,
Janet e Fosco sentirono una chiave girare nella toppa con due pesanti mandate.
Erano chiusi nella Biblioteca.
«Farà parte delle misure di sicurezza» azzardò lui.
Janet lo guardò poco convinta, ma poi fece spallucce e si diresse verso uno dei
tavoli di lettura per accomodarsi su una sedia. Il suo sguardo, inevitabilmente,
cadde sui dorsi di alcuni dei volumi dall aria più vetusta vicino ai quali passava.
Tre, in particolare, colpirono la sua attenzione: Il Libro di Eibon, dalla rilegatura
in cartapecora ingiallita dal tempo, I Culti Innominabili di Von Junzt, rilegato in
pelle allumata, cui dovette avvicinarsi moltissimo perché il titolo in foglia d oro
era diventato quasi invisibile, e Il Libro di Dzyan, rilegato in una pergamena color
avorio così antica da apparire quasi trasparente.
Stava girandosi verso Fosco per richiamare la sua attenzione quando
improvvisamente tutte le luci si spensero e il locale cadde nella più profonda
oscurità. Nel silenzio rotto dal lievissimo ronzio dell impianto di umidi cazione
dell aria, solo una spia pulsante rossa, in alto verso il so tto, rompeva il nero
quasi denso in cui si trovavano immersi.
«Fosco?» chiamò Janet con voce esitante.
«Un momentaneo blackout, immagino» rispose alla sua sinistra la voce
tranquilla del giovane. «Ti conviene rimanere dove sei. Vedrai che la luce tornerà
immediatamente».
Stando al display fosforescente del suo orologio digitale, era passata almeno
mezz ora e Fosco cominciava a essere nervoso. Per fortuna si era ricordato di aver
notato, prima che mancasse la corrente, su uno dei tavoli di lettura, un candelabro
d argento con delle candele rosse e, grazie all accendino di Janet, potevano
contare almeno su quella oca fonte di luce. Eppure, non riusciva a liberarsi dalla
sgradevole impressione che in quella Biblioteca, più che chiusi, fossero seppelliti.
Avevano ripetutamente provato a gridare e a battere con vigore sulla porta chiusa,
sperando di attirare l attenzione di qualcuno, ma era come se la Pickman s Hall
fosse stata abbandonata da tutti e fosse deserta, come un antica rovina.
«Fosco?». Il giovane colse un tremolio nella voce di Janet; una nota di disagio,
se non di paura. «Cos è questo rumore?».
« uale rumore?» chiese, avvicinandosi a lei.
« uesto… ronzio. No, è più come un pulsare ritmico… un so o… un
respiro…».
«Se fosse un respiro, sarebbe di una creatura immensa!» rise Fosco,
stringendole la mano. «Però, hai ragione, lo sento anch io. Forse un vecchio
generatore. O il motore dell impianto di condizionamento».
«No, è impossibile» ribatté Janet senza riuscire a trattenere un brivido. «Fa più
freddo… che abbiano abbassato la temperatura dei locali? Comunque, senti? Non
è nulla di meccanico… a tratti diventa come un ululato lontano… poi un fruscio…
Ecco! Hai sentito? È nito come in un singhiozzo…».
Fosco, fattosi serio, tese l orecchio. Il ronzio sembrava sparito ma, se non fosse
stato certo di essere vittima di un illusione uditiva, forse alimentata da
quell assurda situazione, avrebbe giurato di sentire una sorta di sordo sciabordio…
O, più esattamente, un incrocio fra uno scalpiccio e il lento scivolare di una massa
umida, come un ciclopico straccio imbevuto di muco e siero.
«Vieni, cerchiamo di capire da dove proviene» disse, facendosi coraggio e
trascinando Janet con sé con più impeto di quanto avrebbe voluto.
Fosco teneva alto il candelabro e, nascosta dall angolo di un altissimo sca ale
onusto di libri dall aria arcaica, la luce delle candele svelò la bassa balaustra in
ferro battuto di una scala a chiocciola che si avvolgeva verso il basso,
sprofondando in una tenebra stigia e impenetrabile. Da lì arrivava fortissima una
corrente d aria gelida che li investì all improvviso, paralizzandoli per un attimo.
Nella sinistra penombra, il violento so o aveva impresso alla amma delle
candele un frenetico movimento oscillante che faceva danzare sui loro volti
ombre e baluginii tremolanti, tras gurandoli e rendendoli simili a quelli di gure
d oltretomba.
«Scendiamo» sussurrò Fosco. «Magari troviamo un uscita secondaria non
chiusa a chiave…».
«Davvero vuoi scendere lì sotto? Neanche per tutto l oro del mondo! C è
qualcosa di… sgradevole lì sotto… di maligno. Comunque è un posto malsano.
Annusa l aria».
Fosco si rese conto non solo che la corrente d aria gelida si era fatta ancora più
impetuosa, ma si stava caricando di un repellente odore dolciastro e, insieme, di
mu a. Un odore nauseabondo, di cripta… di putrefazione.
D improvviso, dalla tenebra tta in cui la scala scompariva, quasi fosse un ponte
verso un altra dimensione o verso il terrore del vuoto degli abissi stellari, si levò
una sorta di muggito da creatura marina, seguito da un sibilo schioccante. Gli
osceni versi rimbalzarono fra le pareti della biblioteca e ferirono le loro orecchie
con una vibrazione aliena.
«Cosa…» iniziò a dire Janet con voce strozzata. Ma, proprio in quel momento,
un so o più violento della corrente gelida e maleodorante spense le candele e li
precipitò nella più tetra oscurità.
Poi, dalle profondità della scala a chiocciola, si di use lentamente, come
un aura blasfema, una fosforescenza verdastra, espandendosi mano a mano, quasi
anticipando la venuta di qualcosa… E, in e etti, dopo un attimo l ambiente fu
nuovamente invaso dall eco ributtante di uno struscio, da un incedere informe, e
sulla sommità dei gradini videro allungarsi uno pseudopodo gelatinoso, seguito
da una sorta di arto chitinoso che pareva scaturito da un dipinto di Bosch.
Paralizzati, ssarono senza parole la torreggiante massa protoplasmatica che
stava progressivamente invadendo la scala, allungandosi verso di loro. Da essa,
improvvisamente – strappando a entrambi un urlo inarticolato – si era sollevata
un articolazione oscena, che poteva forse essere la testa di quella creatura da
incubo, ma la sostanza che la formava era costantemente cangiante. Con in nito
orrore a Fosco parve di cogliere una gigantesca proboscide… O, forse, una massa
di tentacoli… Chele informi… Occhi che apparivano e scomparivano in una
frazione di secondo…
Poi la Cosa che Strisciava nel Buio fu su di loro e l ultima cosa che Fosco credette
di sentire fu un blasfemo risucchio, che pure pareva articolare la parola Abhoth.

«T P J », 2 2021
S’ M U
Continuano senza esito le ricerche del corpo di Janet Bonhan, la
giovane docente canadese della New Brunswick University
scomparsa la sera del 30 aprile nei locali della Pickman s Hall, dove
si era recata per una ricerca nella Biblioteca.
I sospetti degli investigatori si concentrano al momento sul
ricercatore italiano Fosco Fortebraccio, che era in sua compagnia e
non è stato in grado di fornire alcuna spiegazione della sparizione. Il
Fortebraccio, sin dal primo momento in cui è stato trovato riverso in
un aiuola del campus, ha mostrato i segni di una forte alterazione
mentale e per il momento non sembra aver mostrato alcuna ripresa.
Secondo una fonte istituzionale, che ha voluto mantenere
l anonimato, il Fortebraccio sarebbe ricoverato a disposizione degli
inquirenti in una sezione speciale della Steere House di Providence,
ma per il momento si limiterebbe a balbettare in modo ossessivo due
parole prive di alcun senso: Ghluun e Abhoth.

N ’A . uesto racconto non sarebbe mai nato senza l attenta


rilettura dell opera omnia, in lingua originale, di H. P. Lovecra , ma soprattutto
senza l altrettanto attenta rilettura di A Look Behind the Cthulhu Mythos di Lin
Carter e del volume edito dal Castoro che Gianfranco de Turris e Sebastiano
Fusco dedicarono a Lovecra nel 1979. Gianfranco me lo regalò nel gennaio del
1980 con questa dedica: «Ad Alex, amico insistente e poco amante di HPL».
uarant anni dopo, ne sono diventato amante anch io. uando si dice buttare
un seme…
Postfazione
R

La novella, il racconto, è da sempre il vero protagonista della letteratura italiana.


Lo scopo principale suo è divertire, far sì che il tempo scorra più lietamente,
portare colui che legge – o ascolta, se narrato a viva voce – in altro luogo.
Il racconto dunque è “altro e altrove”, è gettare uno sguardo oltre la porta chiusa
della nostra realtà quotidiana, su luoghi fantastici e meravigliosi ai quali si può
accedere – ora, in questo momento di forzata stasi – soltanto mediante la fantasia
e l immaginazione.
Nel momento in cui raccontiamo, in realtà, raccontiamo forse – è cosa ben nota
– anche qualcosa di noi stessi a coloro che ci leggono o ascoltano, che neanche
noi ben conosciamo. Raccontare, così come facevano un tempo i nostri genitori e
prima ancora di loro, risalendo “per li rami”, tutti coloro che ci hanno preceduti,
può essere molte cose, che vanno dall educare all insegnare, dal preparare allo
spaventare, ma è comunque sempre un atto d amore, perché chi racconta dona
liberamente il frutto della propria – o di quella acquisita dalla tradizione –
immaginazione.
Scrivere una storia è dunque creare qualcosa che poi andrà ricreato a sua volta da
colui che la legge, con il proprio personale modo di proiettare quelle parole
divenute immagini, sensazioni, emozioni, e trovarvi magari in esse un riverbero,
una eco della propria anima sullo schermo del proprio pensiero.
Leggere, soprattutto ora che tutti o quasi siamo costretti a vederci – sin troppo
– ri essi negli specchi delle nostre abitazioni, è poi un modo e cace per
combattere quel dèmone terribile, almeno a me particolarmente inviso, che è la
noia, l ennui, veder sprecato il proprio tempo, che insieme agli a etti è la cosa più
preziosa che abbiamo, cancellato da un susseguirsi monotono di ore
interminabili.
O rire questi racconti è quindi un atto di ribellione, voler dare un grimaldello
alle menti per evadere da una prigione non meritata; e la fuga del prigioniero, si
sa, è doverosa in tempi di guerra. Fughe quindi attraverso il sogno e la fantasia,
non da codardi ma, au contraire, da uomini liberi che sanno benissimo che oltre la
realtà della matrice che ci viene continuamente imposta esiste ben altro. Dietro
ogni narrazione, piccola o grande, di là dal divertimento personale, dalle
avventure o dalle vicende dei personaggi – anch essi immaginari o realmente
esistiti –, si cela un universo, anzi molti universi, generati non soltanto dalla
fantasia più o meno fervida di chi scrive ma da una panoplia di conoscenze, di
letture, a volte della stessa vita dei narratori o di altre vite a loro note. Ogni
racconto, per coloro che riescono ad interpretarne il codice segreto, è in fondo
una spontanea ma occulta confessione di desideri, passioni, ambizioni e sogni che
coinvolgono luoghi e persone. In breve, è un frammento di quel variopinto o a
volte iridescente mosaico che è la nostra vita.
Piccoli dipinti, a volte preziose miniature di rosso cinabro, altre rutilanti
a reschi, ognuno di questi racconti – o novelle, come li avrebbero de niti i nostri
avi – è una porta su un altro mondo che di erisce dal nostro, condividendo però
lo stesso anelito vitale all esistenza.
uesta raccolta è così un piccolo modo di a ermare la vita e l essere sempre e
comunque, di trovar la forza di reagire ai dardi dell “avversa fortuna” e, ancora, di
andare avanti e ricominciare come e meglio di prima, perché non esiste morte, ma
soltanto mutamento. A volte in meglio.
Dalmazio Frau

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