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CODICE DEONTOLOGICO DEGLI PSICOLOGI ITALIANI

Il Codice Deontologico ha la funzione di guida. Le norme contenute in esso costituiscono una bussola che
serve ad orientare le scelte dei professionisti e, al contempo, le scelte attuate nella prassi influenzeranno le
norme stesse.
Il codice assume particolare valore quando contiene principi che sono condivisi non soltanto dal gruppo
professionale cui si riferisce, ma anche dalla società nella quale il gruppo professionale opera.
Tali norme non hanno solo un valore “disciplinare”, certamente presente, ma anche una funzione definitoria
dell’identità dello psicologo.
Il codice è provvisorio, ovvero il Legislatore ha considerato la necessità del suo periodico aggiornamento. Si
tratta di un codice “a largo spettro”, dovendo affrontare esercizi professionali molto diversi (psicologo-
psicologo, psicologo-psicoterapeuta, psicologo-insegnante, psicologo-ricercatore, ecc.).
Le regole deontologiche consistono di un insieme di obblighi mandatari (che stabiliscono un criterio minimo
per il comportamento professionale da tenere e sono identificati attraverso elementi di proibizione) ed
obblighi raccomandati (identificano gli ideali a cui il professionista dovrebbe aspirare e gli standard di
comportamento più elevati a cui dovrebbe tendere).

Linee guida del Codice Deontologico


Le 4 finalità ispiratrici del codice sono:
 Tutela del cliente: inteso sia come committente che come utente dei servizi professionali erogati
dallo psicologo, sia come persona che come ente che porta una domanda tesa a soddisfare un suo
bisogno (art. 9, da 11 a 17, 28).
 Tutela del professionista nei confronti dei colleghi: rimanda ai principi di solidarietà e colleganza
(art. 35 e 36).
 Tutela del gruppo professionale: si riferisce al gruppo nel suo complesso e riguarda il decoro della
professione e l’autonomia rispetto ad altre professioni (art. 6 e 8).
 Responsabilità nei confronti della società: da questa responsabilità deriva il dovere dello psicologo
di usare le proprie conoscenze relative al comportamento umano al fine di promuovere il benessere
psicologico di individui, gruppi e comunità (art. 3, 34).

Questi principi sono raggiungibili attraverso 4 imperativi-guida che devono ispirare la condotta professionale:
 Meritare la fiducia del cliente: la professione è concepita come un “servizio” nel quale lo psicologo
può fare solo ciò che comporta un vantaggio a chi ne richiede la prestazione e ne è destinatario (art.
21).
 Possedere una competenza adeguata a rispondere alla domanda del cliente: è fondamentale che
lo psicologo riconosca i propri limiti e che rifiuti di intervenire di fronte ad una domanda di intervento
per la quale ritiene di non avere una preparazione adeguata (art. 5, 22 e 37).
 Usare con giustizia il proprio potere: questo principio parte dal presupposto che esiste
un’asimmetricità nel rapporto professionale, in quanto lo psicologo detiene un sapere specifico che
gli fornisce gli strumenti per comprendere ed affrontare la domanda che il cliente gli porta. Vi sono
3 cardini che vanno rispettati al fine di usare in modo giusto il proprio potere:
- Non provocare danno (art. 22).
- Rispettare l’autonomia e la dignità del cliente non usandolo a proprio vantaggio (art. 4 e 18).
- Mantenere una condotta consona al decoro e alla dignità della professione, sia verso il cliente,
che verso i colleghi e la società (art. 28, 29, 39 e 40).
 Difendere l’autonomia professionale: questo principio si basa sul presupposto che ogni
professione possiede delle competenze specifiche e che se viene violata l’autonomia professionale
significa che specifici atti professionali sono stati attuati da chi non possiede tale competenza. Da
questo imperativo derivano due obblighi simmetrici (art.6): la difesa della propria autonomia ed il
rispetto dell’autonomia altrui.

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Capo I: Principi generali di deontologia professionale
Art. 1: “le regole del presente codice sono vincolanti per tutti gli iscritti all’Albo degli psicologi. Lo psicologo
è tenuto alla loro conoscenza, e l’ignoranza delle stesse non esonera dalla responsabilità disciplinare. Tali
regole si applicano anche nei casi in cui le prestazioni vengano effettuate a distanza, via internet o con
qualunque altro mezzo elettronico e/o telematico”.
L’obbligatorietà è una caratteristica del codice sia perché il codice è richiesto da una Legge dello Stato, sia
perché le regole contenute nel codice sono vincolanti per tutti gli iscritti, essendo previste delle sanzioni
esplicite ed articolate, tanto da rendere i precetti del codice equivalenti a norme giuridiche effettive, la cui
applicazione, ovvero il potere disciplinare, è affidata ai Consigli regionali dell’Ordine.
Oltre a questa obbligatorietà esterna, ce n’è anche una interna, poiché il gruppo professionale, avendo
approvato il codice per referendum, è stato coinvolto in maniera diretta ed ha assunto un ruolo attivo ed
autonomo di scelta, determinante ai fini dell’effettiva vigenza del codice stesso. Questa assunzione di
responsabilità equivale a riconoscere come proprie le regole deontologiche, in quanto corrispondenti ad un
sistema di valori di riferimento comuni alla categoria di professionisti, che si delinea come una “coscienza”
professionale.

Art. 2: “l’inosservanza dei precetti del codice, ed ogni azione o omissione contrarie al decoro, alla dignità e
al corretto esercizio della professione, sono punite secondo quanto previsto dall’art.26, comma 1, della
Legge 18 febbraio 1989, n. 56, secondo le procedure stabilite dal Regolamento disciplinare”.
Tale norma si fonda sulla considerazione che la deontologia precede la formazione del Codice Deontologico,
quale “comune sentire etico” del gruppo professionale. Pertanto, quei comportamenti considerati lesivi del
decoro, della dignità e dell’esercizio deontologicamente corretto della professione, anche se non sono
espressamente previsti dagli articoli del codice, possono essere puniti. Per “decoro” e “dignità” si intende lo
stile che nell’atteggiamento, nei modi e nella condotta è conveniente alla condizione professionale dello
psicologo; pertanto, non è contemplato un comportamento volgare. La correttezza professionale si riferisce
al rapporto con i clienti ed i colleghi, che deve essere caratterizzato da rispetto, onestà e lealtà. Sono i singoli
Consigli regionali dell’Ordine che stabiliscono la valutazione della condotta professionale degli iscritti
all’Ordine.
Le sanzioni sono:
 Avvertimento: diffida a non protrarre la condotta scorretta e a non ricadervi (es. dichiarazioni non
conformi a livello pubblicitario).
 Censura: dichiarazione di biasimo (rimprovero) per la condotta scorretta (es. condotta professionale
scorretta; comunicazioni pubblicitarie false).
 Sospensione: inibizione temporanea ad esercitare la professione (es. condotta professionale
particolarmente scorretta verso l'utenza; situazioni di forte recidività; comunicazioni pubblicitarie
palesemente false).
 Radiazione: espulsione dall’Albo professionale con il conseguente divieto di esercitare l’attività
professionale (es. condotta professionale con infrazioni rilevanti del codice penale).
Il codice non stabilisce un collegamento rigido tra le infrazioni disciplinari e la qualità della pena. Vi è un
elevato ambito di discrezionalità sia nell’attribuire ad una certa condotta la qualifica di “infrazione alle norme
deontologiche”, sia nella determinazione della sanzione disciplinare da infliggere a tale condotta.

Art. 3: “è dovere dello psicologo accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per
promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità. Lo psicologo opera per
migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera
consapevole, congrua ed efficace. Lo psicologo è consapevole del fatto che può intervenire significativamente
nella vita degli altri; pertanto non deve utilizzare indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di
dipendenza degli utenti, ed è responsabile dei propri atti professionali e delle loro conseguenze prevedibili e
dirette”.

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Tale articolo ha un carattere maggiormente dichiarativo piuttosto che prescrittivo. Pone in rilievo, infatti, due
caratteristiche della professione di psicologo: da un lato l’attività di studio e di ricerca finalizzata ad ampliare
il patrimonio di conoscenze relative al comportamento umano, dall’altro l’attività applicativa di tali
conoscenze al fine di prevenire il disagio psichico e di curare tale disagio. Perché l’intervento dello psicologo
sia efficace, è necessario che generi una migliore capacità di comprensione di sé e del prossimo, che produca
una condotta più consapevole dei dati di realtà.
Inoltre, poiché tra lo psicologo e l’utente si tende ad instaurare una situazione caratterizzata dalla fiducia nel
professionista e da una forte dipendenza nei confronti di quest’ultimo, tale fiducia e tale dipendenza
potrebbero essere sfruttate per fini di interesse personale che contrastano con il mandato professionale.
Infine, lo psicologo è responsabile dei propri atti professionali e delle loro conseguenze prevedibili e dirette.
Ciò significa che lo psicologo non può sottrarsi alle proprie responsabilità professionali delegandole ad altri e
non deve permettere che tale responsabilità gli sia sottratta o negata. Inoltre, deve rispondere delle sole
conseguenze prevedibili e dirette, e non di quelle che sfuggono ad ogni previsione (ad es., lo psicologo è
responsabile delle proprie conclusioni diagnostiche, ma non è tenuto a rispondere del fatto che un suo
paziente, turbato dall’andamento di una seduta psicoterapeutica, provochi un incidente stradale).

Art. 4: “lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione e all’autonomia
degli utenti. Ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il proprio sistema di valori. Non opera
discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso,
orientamento sessuale e disabilità. Lo psicologo utilizza metodi che salvaguardano tali principi, e rifiuta la sua
collaborazione ad iniziative lesive degli stessi. Quando sorgono conflitti di interesse tra l’utente e l’istituzione
presso cui lo psicologo opera, quest’ultimo deve esplicitare alle parti la propria responsabilità ed i vincoli cui
è tenuto. Nei casi in cui il destinatario ed il committente dell’intervento di sostegno o di psicoterapia non
coincidano, lo psicologo tutela prioritariamente il destinatario dell’intervento stesso”.
Questo articolo costituisce il fondamento etico della struttura del codice. Il primo comma sintetizza i principi
fondamentali della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. La difesa di questi principi all’interno della
relazione professionale definisce la “laicità” della professione. La laicità della professione psicologica si basa
sulla non discriminazione dei soggetti. Lo psicologo deve avere un atteggiamento, un modo di guardare alla
persona, che fa sì che non incorra in comportamenti sindacabili.
Lo psicologo non deve avere istanze morali o ideologiche che gli facciano smarrire il senso laico del proprio
agire professionale. Questo perché se lo psicologo si rapportasse in modo rigido e ideologico, non sarebbe in
grado di fornire un accoglimento laico e rispettoso dell’utente, contaminando la relazione empatica con
quest’ultimo (ad es., uno psicologo “Testimone di Geova” dovrebbe ascoltare gli utenti e rispettarne i sistemi
di valori). Lo psicologo che si comportasse così, rischierebbe di avere facilmente pregiudizi, di incorrere
facilmente negli etichettamenti e in tutti quegli errori proiettivi di quando in qualche modo non si è
interiormente “sgombri” e puri nei confronti dell’altro.
I conflitti che potrebbero sorgere tra l’utente e l’istituzione presso cui lo psicologo opera riguardano i principi
sopra esplicitati, quindi il rispetto della dignità, riservatezza ed autonomia del soggetto, che lo psicologo è
tenuto ad osservare, anche qualora l’istituzione presso cui opera tendesse a condizionarlo verso azioni in
contrasto con tali principi (ad es., potrebbe accadere che gli venga chiesto, in un’azienda ai fini di
un’assunzione, di discriminare gli appartenenti ad una certa etnia). Allo stesso modo, lo psicologo tutela
prioritariamente l’utente anche qualora il committente dell’intervento non corrispondesse a quest’ultimo,
poiché gli interventi di natura clinica o di aiuto presuppongono una condizione di debolezza o fragilità che va
“compensata” proprio attraverso il riconoscimento della priorità di tutela sopradetta. In questo caso, il diritto
alla salute del soggetto ha priorità rispetto ad altri diritti (ad es., potrebbe essere il caso dell’adolescente che
viene portato dallo psicologo perché i genitori “lo vedono strano” e la stranezza è data in gran parte dal suo
essere una persona “altra” da loro, magari con diverse convinzioni sul piano religioso, ed in questo caso è
l’adolescente che deve essere tutelato).

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Art. 5: “lo psicologo è tenuto a mantenere un adeguato livello di preparazione e aggiornamento
professionale, in particolare nei settori in cui opera. La violazione dell’obbligo di formazione continua può
essere sanzionata sulla base di quanto stabilito dall’ordinamento professionale. Lo psicologo deve riconoscere
i limiti della propria competenza e deve usare solo strumenti per i quali ha acquisito un’adeguata
competenza. Lo psicologo impiega metodologie delle quali è in grado di indicare le fonti e i riferimenti
scientifici, e non suscita, nelle attese del cliente, aspettative infondate (es. magnificando i propri risultati
precedenti o la “potenza” della sua metodologia)”.
Questo articolo delinea la figura dello psicologo in quanto scienziato. Diversamente da altri prestatori di aiuto
in relazione al disagio psichico, quali sacerdoti o astrologi o cartomanti, la sua attività trae fondamento da
una fonte, la psicologia, basata su fondamenti di carattere scientifico, derivati anche dall’approvazione di
studiosi che la sottopongono continuamente a verifica e a falsificazione.
Proprio perché è una scienza in progress, in cui la ricerca e la sperimentazione sono in continua evoluzione,
lo psicologo deve sottoporsi ad una formazione permanente, sia attraverso la partecipazione a seminari e
congressi, sia attraverso lo studio di pubblicazioni rilevanti. Qualora la sua competenza fosse limitata (es. in
tema di conflitti familiari), lo psicologo ha il dovere di denunciare i limiti del proprio sapere. Allo stesso modo,
deve utilizzare strumenti, quali i test, solo quando ha acquisito una sufficiente capacità di somministrarli ed
interpretarli.
Quando si tratta di utilizzare concetti o strumenti relativi ad ambiti emergenti della psicologia, lo psicologo è
tenuto alla prudenza e a proteggere terzi da possibili danni derivanti dalla scarsa conoscenza scientifica
acquisita.
Infine, lo psicologo non deve azzardare pareri a casaccio, ma deve essere in grado di indicare passo passo su
quali risultati scientifici si basano le sue osservazioni (ad es., può dichiarare anomalo il comportamento
autoerotico di un bambino solo se sia in grado di stabilire che, secondo gli studi compiuti sulla sessualità
infantile, quel comportamento con quelle modalità e a quell’età si riscontra raramente).

Art. 6: “lo psicologo accetta unicamente condizioni di lavoro che non compromettano la sua autonomia
professionale ed il rispetto delle norme del presente codice e, in assenza di tali condizioni, informa il proprio
Ordine. Lo psicologo salvaguarda la propria autonomia nella scelta dei metodi, delle tecniche e degli
strumenti psicologici, nonché del loro utilizzo. È perciò responsabile del loro uso, dei risultati, delle valutazioni
e delle interpretazioni che ne ricava. Nella collaborazione con professionisti di altre discipline esercita la piena
autonomia professionale nel rispetto delle altrui competenze”.
Questo articolo riguarda la difesa dell’autonomia professionale nei confronti, soprattutto, di professioni di
confine. La necessità di difesa dell’autonomia professionale si fonda sul principio per cui, a tutela dell’utenza,
ogni atto professionale debba basarsi sul possesso di competenze specifiche, acquisite attraverso un
appropriato iter formativo.
La funzione dell’Ordine Professionale è quella di “vigilare per la tutela della professione”, non solo in senso
repressivo, ma anche in senso assertivo e propositivo, stimolando nel gruppo professionale un’elaborazione
costruttiva della definizione della specificità della professione.

Art. 7: “nelle proprie attività professionali, nelle attività di ricerca e nelle comunicazioni dei risultati delle
stesse, nonché nelle attività didattiche, lo psicologo valuta attentamente la validità e l’attendibilità di
informazioni, dati e fonti su cui basa le sue conclusioni; espone, all’occorrenza, le ipotesi interpretative
alternative ed esplicita i limiti dei risultati. Lo psicologo, su casi specifici, esprime valutazioni e giudizi
professionali solo se fondati sulla conoscenza professionale diretta ovvero su una documentazione
adeguata ed attendibile”.
Tale articolo ribadisce e specifica quanto detto nell’articolo 5. Mentre quest’ultimo detta principi che valgono
per la formazione dello psicologo stesso ed il suo livello di competenza, l’art. 7 regola la stessa problematica
in relazione a terzi (es. a volte si assiste a dichiarazioni di psicologi trasmesse attraverso giornali che
azzardano interpretazioni fondate su dati poco attendibili). Una delle responsabilità maggiori che hanno gli

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psicologi è quella di presentare la propria scienza come credibile, denunciando i dati su cui si basa ed i modelli
interpretativi applicati.
La norma prevede che lo psicologo formuli interpretazioni sulla base di informazioni valide ed attendibili,
indicando dati e fonti, presentando il suo giudizio come ipotetico e pertanto non escludendo altre ipotesi
alternative. Ben lungi dal fare apparire la sua capacità come limitata, rende conto del fatto che in psicologia,
a seconda della prospettiva in cui ci si pone, i giudizi possono essere di tenore diverso.
Infine, lo psicologo è tenuto a non esprimere giudizi su fatti o persone di cui non abbia avuto conoscenza
professionale e diretta, in modo da contrastare la pessima abitudine di taluni di interpretare persone o
comportamenti senza conoscere le parti in causa. Può esprimere giudizi professionali senza conoscere
direttamente la persona solo se in possesso di un’adeguata e attendibile documentazione (es. cartella clinica
o resoconto del terapeuta che ha avuto in cura il soggetto).

Art. 8: “lo psicologo contrasta l’esercizio abusivo della professione come definito dagli art. 1 e 3 della Legge
18 febbraio 1989, n. 56, e segnala al Consiglio dell’Ordine i casi di abusivismo o di usurpazione di titolo di
cui viene a conoscenza. Parimenti, usa il proprio titolo professionale esclusivamente per attività ad esso
pertinenti e non per attività ingannevoli o abusive”.
 Art. 1 (Legge 18 febbraio 1989 n.56): la professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti
conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di
sostegno in ambito psicologico, rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità.
Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.
 Art. 3 (Legge 18 febbraio 1989 n.56): l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una
specifica formazione professionale da acquisirsi dopo il conseguimento della laurea in Psicologia o in
Medicina e Chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano
adeguata formazione e addestramento in psicoterapia.
Per quanto riguarda l’art. 1, chiunque compia gli atti professionali descritti non essendo iscritto all’Albo degli
Psicologi, commette il reato previsto dall’art. 348 del codice penale (“Chiunque abusivamente eserciti una
professione per la quale è richiesta una particolare abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a
6 mesi o con una multa).
Per quanto riguarda l’art. 3, è opinabile se l’iscritto all’Albo degli psicologi o dei medici e chirurghi che non
sia in possesso della specifica formazione in psicoterapia e che, tuttavia, eserciti l’attività psicoterapeutica,
commetta il reato di cui sopra.
In ogni caso, l’iscritto all’Albo ha l’obbligo di segnalare al Consiglio dell’Ordine i casi in oggetto, così come i
casi di usurpazione di titolo, anch’essi previsti quale reato dal codice penale (art. 498: “Chiunque
abusivamente porti in pubblico la divisa o i segni distintivi di un ufficio pubblico, o di una professione per la
quale è richiesta una particolare abilitazione dello Stato, o chi si attribuisca titoli che prevedono
un’abilitazione dello Stato, è punito con una multa).
Le sanzioni disciplinari potranno essere applicate dall’Ordine degli Psicologi soltanto verso gli iscritti all’Albo
che esercitino attività psicoterapeutica senza formazione; negli altri casi, l’Ordine dovrà avvisare l’Autorità
Giudiziaria.
Lo scopo di questo articolo è che, ogni volta in cui si verifica una situazione di esercizio abusivo della
professione, da un lato si pone a rischio la salute e l’interesse dell’utente, dall’altro viene danneggiata la
categoria professionale per la concorrenza illecita da parte di persone non qualificate.
Inoltre, l’articolo esplicita che lo psicologo non compia atti estranei alle sue competenze professionali (es.
millantare o utilizzare, in quanto psicologo, competenze che non hanno nulla a che fare con la psicologia).
Parimenti, non deve coprire, con il titolo di psicologo, comportamenti di terzi che rappresentino casi di
abusivismo (es. è il caso dello psicologo che consenta che nel proprio studio venga svolta attività
psicoterapeutica da parte di persone non abilitate).

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Art. 9: “nella sua attività di ricerca, lo psicologo è tenuto ad informare adeguatamente i soggetti in essa
coinvolti al fine di ottenerne il previo consenso informato, e deve altresì garantire a tali soggetti la piena
libertà di concedere, rifiutare o di ritirare il consenso stesso. Nel caso in cui la natura della ricerca non consenta
di informare preventivamente i soggetti su alcuni aspetti della ricerca stessa, lo psicologo ha l’obbligo di
fornire comunque, alla sua conclusione, le informazioni dovute ed ottenere l’autorizzazione all’uso dei dati
raccolti. Per quanto riguarda i soggetti che, per età o per altri motivi, non sono in grado di esprimere
validamente il loro consenso, questo deve essere dato da chi ne ha la potestà genitoriale o la tutela e, altresì,
dai soggetti stessi, ove siano in grado di comprendere la natura della collaborazione richiesta. In ogni caso,
deve essere tutelato il diritto dei soggetti alla riservatezza, alla non riconoscibilità e all’anonimato”.
Tale articolo ha per oggetto il consenso informato per quanto attiene alle attività di ricerca dello psicologo,
ove “informato” significa che comprende tutti gli aspetti della ricerca, in modo che il soggetto sperimentale
possa anche decidere di ritirare il consenso.
Il consenso informato deve essere ottenuto per iscritto anche nei casi in cui potrebbe essere ipotizzato uno
stato psicologico temporaneo di disagio per il soggetto sperimentale, e lo psicologo sarà in ogni caso tenuto
a mettere in atto le procedure di riparazione. È utile tenere presente l’utilità per il soggetto sperimentale che
lo psicologo si renda disponibile, anche dopo la ricerca, a rispondere alle richieste che potrebbero nascere
nel soggetto a seguito della ricerca e ancor di più qualora questa avesse in qualche modo disturbato
psicologicamente il soggetto stesso.
Per quanto riguarda il diritto alla riservatezza, il soggetto sperimentale non deve mai essere riconoscibile
personalmente (es. nella presentazione dei dati in sedi scientifiche); qualora non si potesse rispettare tale
condizione, il consenso del soggetto sperimentale deve essere ottenuto per iscritto.
L’art. 9 non prevede la possibilità di eccezioni alla riservatezza che sono invece contemplate nel “Codice Etico
della Ricerca Psicologica” (AIP- Associazione Italiana di Psicologia) e che riguardano: motivi di consulenza con
altri psicologi o medici, o con altri professionisti, tenuti alla stessa riservatezza; motivi di tutela dello stesso
soggetto, nel caso in cui lo psicologo ricercatore riscontri la necessità di fornire informazioni sul soggetto a
qualche struttura sanitaria o sociale o a qualche Autorità Giudiziaria.

Art. 10: “quando le attività professionali hanno ad oggetto il comportamento degli animali, lo psicologo si
impegna a rispettarne la natura e ad evitare loro sofferenze”.
Lo psicologo non è responsabile solo per gli aspetti legati alla modalità di esecuzione dell’esperimento, ma
per il trattamento dell’animale in ogni momento della sua esistenza nei laboratori, ovvero deve garantire
adeguate condizioni alimentari, igieniche, abitative e sociali.
L’animale viene considerato come soggetto avente diritto di essere rispettato nella sua natura specifica, che
allude ad una dimensione del suo benessere sia fisico che psicologico. Pertanto, deve essere preservato dalla
sofferenza fisica e psichica (è importante ad es. evitare situazioni di disagio e di stress, come pure l’impiego
di stimoli emozionali negativi).
Nel caso in cui fosse necessario l’intervento chirurgico e non fossero praticabili sistemi alternativi, esso deve
essere eseguito in anestesia e in condizioni asettiche, mentre nel caso in cui fosse necessaria l’eliminazione
dell’animale, deve essere effettuata in modo rapido e indolore.

Art. 11: “lo psicologo è tenuto al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie, fatti o informazioni
apprese in ragione del suo rapporto professionale, né informa circa le sue prestazioni professionali, a meno
che non ricorrano le ipotesi previste dagli articoli seguenti”.
Il rapporto che lo psicologo intrattiene professionalmente con l’utente è per sua natura confidenziale. Se così
non fosse, e l’utente non ritenesse riservato ciò che comunica, ciò lo indurrebbe ad alterare, nascondere o
omettere informazioni che possono essere necessarie affinché il processo terapeutico sia efficace.
Il segreto vale per quelle informazioni che tali siano; non c’è violazione del segreto se il paziente ha già
comunicato quanto lo psicologo ha rivelato.

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Le notizie da non rivelare sono quelle apprese in ragione del rapporto professionale, e quindi il segreto non
riguarda notizie che si sono conosciute accidentalmente o in contesti diversi da quello professionale, ad
esempio amichevole.
La violazione dell’obbligo del segreto comporta la violazione dell’art. 622 del codice penale, che prevede
reclusione fino a un anno o multa. La violazione penale viene meno in ragione degli articoli 12, 13 e 15 del
Codice Deontologico o nel caso in cui lo psicologo violi il segreto per difendersi da una falsa accusa (es. una
paziente che lo denunci per molestie sessuali).

Art. 12: “lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza su fatti di cui è venuto a conoscenza in ragione del
suo rapporto professionale. Lo psicologo può venir meno all’obbligo di mantenere il segreto professionale,
anche in caso di testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile consenso del destinatario
della sua prestazione. In ogni caso, valuta l’opportunità di fare uso di tale consenso, considerando preminente
la tutela psicologica dello stesso”.
Questo articolo rafforza il contenuto dell’articolo precedente. Lo psicologo non deve violare il segreto
professionale neanche in occasione di una testimonianza processuale.
Qualora l’utente dia il consenso allo psicologo di testimoniare su quanto da lui conosciuto professionalmente
(es. nel caso di un imputato in un processo di omicidio che abbia interesse che il suo psicoterapeuta deponga
circa le sue condizioni di infermità mentale prima del fatto), tale consenso deve essere informato (cioè il
soggetto deve rendersi conto delle conseguenze della testimonianza) e valido (prestato da persona in grado
di vagliare, giudicare e decidere per quanto lo riguarda in argomento). Nell’interesse dello psicologo, sarà
meglio che il consenso sia dimostrabile o documentalmente (con una dichiarazione scritta) o
testimonialmente.
Inoltre, l’articolo ribadisce la prevalenza dell’interesse alla tutela psicologica rispetto all’attività giudiziaria e
prevede che lo psicologo, pur in presenza di consenso valido e dimostrabile, decida comunque di non
testimoniare. Il magistrato, in presenza di consenso, potrebbe esigere che lo psicologo testimoni; a quel
punto può intervenire il Consiglio dell’Ordine ad aiutare a risolvere il conflitto.

Art. 13: “nel caso di obbligo di referto o obbligo di denuncia, lo psicologo limita allo stretto necessario il
riferimento di quanto appreso in ragione del suo rapporto professionale, ai fini della tutela psicologica del
soggetto. Negli altri casi, valuta con attenzione la necessità di venir meno alla riservatezza, qualora si
prospettino gravi pericoli per la vita o per la salute psicofisica del soggetto e/o di terzi”.
Lo psicologo, sia in veste di libero professionista (che quindi in quel momento stia operando nel suo studio
privato) che in veste di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (es. psicologo che riveste il ruolo di
consulente tecnico d’ufficio o che operi come dipendente di un ente pubblico, come un ospedale), è sempre
obbligato a denunciare reati perseguibili d’ufficio (reati punibili anche se la parte lesa non sporge denuncia).
Ad es., se una paziente rivela allo psicologo libero professionista o allo psicologo pubblico ufficiale di essere
vittima di violenza sessuale (reato perseguibile d’ufficio), questi è obbligato a denunciare. Mentre il libero
professionista denuncia redigendo un referto, lo psicologo pubblico ufficiale denuncia redigendo un
rapporto. Al contrario del rapporto, il referto non è però obbligatorio quando:
 Espone il paziente al rischio di procedimento penale.
 Espone il libero professionista ad un possibile danno nel fisico, nella libertà o nell’onore della propria
persona o di quella di un proprio congiunto.
Quindi, uno psicologo che assiste privatamente un paziente e viene a conoscenza del fatto che quest’ultimo
ha abusato sessualmente di un bambino, non è obbligato a denunciarlo all’Autorità Giudiziaria, perché il
referto esporrebbe il paziente ad un procedimento penale. È però tenuto a valutare con attenzione la
necessità di venir meno alla propria riservatezza, qualora si prospettino gravi pericoli per la vita o la salute
psicofisica del soggetto e/o di terzi.
Inoltre, lo psicologo che assiste privatamente la paziente che ha rivelato di essere vittima di violenza sessuale,
è obbligato a denunciare il fatto in quanto non esporrebbe la paziente a procedimento penale ma un’altra

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persona, tuttavia non è più obbligato a denunciare nel momento in cui questa altra persona minacciasse lui
o i suoi familiari di un qualche danno nel fisico, nella libertà o nell’onore.
Uno psicologo che, in questa stessa situazione, opera invece come pubblico ufficiale o incaricato di pubblico
servizio, è obbligato a redigere il rapporto anche se minacciato. Inoltre, lo stesso, se dovesse venire a
conoscenza che un suo paziente ha abusato sessualmente di un bambino, è obbligato a denunciare redigendo
il rapporto, anche se questo espone al rischio di procedimento penale il suo paziente.
L’obbligo di rapporto o di referto non sono gli unici casi in cui il professionista può venir meno al
mantenimento del segreto professionale; le altre possibili situazioni sono specificate dagli art. 11, 12 e 13 del
codice.
Tra i reati perseguibili d’ufficio rientrano omicidi, lesioni personali gravissime, sequestro di persona, violenza
sessuale, violenza privata, ecc.

Art. 14: “lo psicologo, nel caso di intervento su o attraverso gruppi, è tenuto ad informare, nella fase iniziale,
circa le regole che governano tale intervento. È tenuto altresì ad impegnare, quando necessario, i componenti
del gruppo al rispetto del diritto di ciascuno alla riservatezza”.
Tale articolo affronta l’area degli interventi psicologici rivolti a gruppi di soggetti, dove i diritti definiti per la
relazione professionale con il singolo si sovrappongono con i diritti del gruppo. L’art. 3 del codice individua
anche il gruppo, insieme all’individuo e alla comunità, come area di conoscenza e di intervento per la
promozione del benessere psicologico.
Anche se l’articolo non esplicita il concetto di consenso informato, è evidente che le informazioni devono
essere fornite in modo che i soggetti possano comprenderle e quindi che possano aderirvi. Inoltre, ogni
componente del gruppo ha dei vincoli da assumere nei confronti degli altri partecipanti, che riguardano il
diritto alla riservatezza di ognuno. È compito dello psicologo impegnare i componenti, che non sono tenuti
al segreto, a difendere tale diritto alla riservatezza. Tale necessità è evidente soprattutto in ambito clinico
(ad es. nei gruppi terapeutici, a differenza ad es. dei gruppi di formazione, in quanto si pone il problema di
riservatezza su chi ne faccia parte, a differenza del secondo caso in cui ciò può essere poco rilevante). Per
gruppo, infine, si intende anche una famiglia o una coppia.

Art. 15: “in caso di collaborazione con altri soggetti tenuti al segreto professionale, lo psicologo può
condividere solo le informazioni strettamente necessarie in relazione al tipo di collaborazione”.
È il caso, ad es., di collaborazioni con medici o avvocati. Anche se l’art. non lo dice espressamente, l’utente
dovrebbe dare il consenso di tale collaborazione, valido e informato e possibilmente dimostrabile
documentalmente o testimonialmente come prescrive l’art. 12.
L’articolo stabilisce che le informazioni fornite debbano essere strettamente collegate a ciò che concerne il
rapporto di collaborazione; perciò non sarà necessario, ad es., riferire all’avvocato che il cliente da piccolo ha
avuto esperienze omosessuali se ciò appare inutile ai fini dell’attività che l’avvocato si prefigge. Ovviamente
il vigore di questo articolo viene meno quando la riservatezza è limitata da alcune circostanze, ad es. quando
c’è un mandato da parte del giudice in relazione a una perizia che deve stabilire l’entità del danno psichico,
o quando il paziente non può fornire il consenso e vi è una condizione per cui bisogna proteggerlo senza
attendere che presti il consenso (es. è in coma), oppure qualora si prospettino gravi pericoli per la vita o per
la salute psicofisica del soggetto e/o di terzi (art. 13).

Art. 16: “lo psicologo redige le comunicazioni scientifiche, anche se indirizzate ad un pubblico di professionisti
tenuti al segreto professionale, in modo da salvaguardare in ogni caso l’anonimato del destinatario della
prestazione”.
Lo psicologo è obbligato a redigere le comunicazioni scientifiche omettendo i nomi dei destinatari delle
prestazioni cui si fa riferimento nell’ambito di tali comunicazioni e facendo ricorso alle sole iniziali, a sigle o a
nomi di fantasia. È obbligato anche ad omettere qualsiasi particolare che possa condurre all’individuazione

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dell’identità del destinatario della prestazione. Deve salvaguardare l’anonimato anche quando la
comunicazione scientifica riguarda la procedura della videoregistrazione.

Art. 17: “la segretezza delle comunicazioni deve essere protetta anche attraverso la custodia e il controllo di
appunti, note, scritti o registrazioni di qualsiasi genere, che riguardino il rapporto professionale. Tale
documentazione deve essere conservata per almeno i 5 anni successivi alla conclusione del rapporto
professionale, fatto salvo quanto previsto da norme specifiche. Lo psicologo deve provvedere perché, in caso
di sua morte o di suo impedimento, tale protezione sia affidata ad un collega ovvero all’Ordine professionale.
Lo psicologo che collabora alla costituzione ed all’uso di sistemi di documentazione si adopera per la
realizzazione di garanzie a tutela dei soggetti interessati”.
Lo psicologo deve mettere in atto una serie di comportamenti ed accortezze per tutelare la privacy del
cliente. Se questo risulta più facile in uno studio privato, lo è meno in un ambulatorio pubblico. Ad es.,
laddove il lavoro è di gruppo, personale come ad es. gli infermieri o i medici sono tenuti anch’essi al segreto
professionale, ma non lo sono le donne delle pulizie o chiunque per motivi vari circoli per gli studi potendo
trovare l’agenda degli appuntamenti. Un altro problema è rappresentato dall’archivio contenuto nel
computer o nei dischetti: l’accesso a questo materiale può essere intenzionalmente o incidentalmente
raggiungibile da persone estranee al trattamento se non protetto da codici di accesso. Allo stesso modo,
l’abitudine frequente di spedire via mail una serie di informazioni relative ai casi clinici può mettere a rischio
la privacy del paziente. Nel caso di tirocinanti, non ancora soggetti al codice, lo psicologo dovrebbe fornire
informazioni su pazienti limitandosi, per quanto possibile, allo stretto necessario.
L’ultimo comma prescrive che, nel caso in cui lo psicologo collabori alla costituzione e all’uso di sistemi di
documentazione (ad es., dati Istat al fine di fornire una lettura della frequenza, degli andamenti, della risposta
ai trattamenti, ecc.), debba garantire la tutela del cliente utilizzando un sistema di codici la cui decodificazione
deve essere resa possibile solo ad opera di personale autorizzato.

Art. 18: “in ogni contesto professionale, lo psicologo deve adoperarsi affinché sia il più possibile rispettata la
libertà di scelta, da parte del cliente, del professionista cui rivolgersi”.
Lo psicologo può dover fare riferimento, ai fini diagnostici o terapeutici, ad altri specialisti, e ciò può verificarsi
tanto nella pratica privata quanto nelle strutture pubbliche (ad es., lo psicoterapeuta che invii il paziente da
uno psichiatra per un trattamento farmacologico, oppure lo psicologo che invii l’utente da uno
psicoterapeuta). In tutti i casi, è necessario che la libertà di scelta dell’utente sia rispettata e che egli venga
informato sul perché della richiesta di intervento di un altro professionista.
Potrebbe anche accadere che sia l’utente a chiedere una consulenza, magari per avere conferma della
giustezza della linea terapeutica adottata dallo psicologo; questo spesso innesca sentimenti controtransferali
nello psicologo che potrebbero esplicitarsi in comportamenti tali da far sentire in colpa l’utente; è bene che
invece vengano letti come sintomi di una maggiore richiesta di attenzione da parte di questo e comunque di
un clima terapeutico non ottimale.
Qualora l’utente non sappia a chi rivolgersi, lo psicologo deve indicare più di un nominativo di professionisti,
consigliati in virtù di comprovata esperienza e serietà. Non sempre, infatti, i nominativi indicati dallo
psicologo sono ispirati a questi principi, poiché si possono creare circuiti chiusi in cui l’invio del paziente
acquista il valore di uno scambio.
È anche possibile che l’utente accetti, suo malgrado, l’invio perché ha paura di contrariare lo psicologo, in
virtù dell’ascendente che questi ha su di lui, e questo non può che riflettersi negativamente sul rapporto
terapeutico.

Art. 19: “lo psicologo che presta la sua opera professionale in contesti di selezione e valutazione è tenuto a
rispettare esclusivamente i criteri della specifica competenza, qualificazione o preparazione, e non avalla
decisioni contrarie a tali principi”.

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Questo articolo riguarda un’attività diagnostica specifica: quella che riguarda la selezione e la valutazione di
individui. Lo psicologo non deve avventurarsi al di fuori della propria competenza e preparazione. Questo
significa che non basta essere psicologi e avere qualche vago ricordo di una materia di un esame universitario
in cui si sono studiati dei test reattivi, ad es., per sentirsi in grado di selezionare e valutare.
L’ultima parte dell’articolo specifica che ove la selezione e la valutazione sono state fatte da altri (magari non
psicologi), lo psicologo non dovrà avallarne i contenuti se questi sono contrari ai principi di competenza,
qualificazione e preparazione. Inoltre, non potrà avallare né eseguire la somministrazione di test che valutino
aspetti non inerenti ai fini della valutazione stessa (es. somministrare un TAT per valutare la personalità di
un soggetto ai fini di un’assunzione).

Art. 20: “nella sua attività di docenza, di didattica e di formazione lo psicologo stimola negli studenti, allievi
e tirocinanti l’interesse per i principi deontologici, anche ispirando ad essi la propria condotta professionale”.
Non essendo la “deontologia” una materia formalmente riconosciuta nel curriculum degli studi universitari
e di tirocinio, essa deve permeare l’attività dei docenti, dei professori e dei tutor. Tale formazione non deve
avvenire solo attraverso contenuti informativi, ma anche attraverso l’esempio. Questo implica anche trattare
lo studente/tirocinante come un futuro collega e non come un subordinato.

Art. 21: “l’insegnamento dell’uso di strumenti e di tecniche conoscitive e di intervento riservati alla
professione di psicologo a persone estranee alla professione stessa costituisce una violazione deontologica
grave. Costituisce un’aggravante avallare, con la propria opera professionale, attività ingannevoli o abusive
concorrendo all’attribuzione di qualifiche, attestati o inducendo a ritenersi autorizzati all’esercizio di attività
caratteristiche dello psicologo. Sono specifici della professione di psicologo tutti gli strumenti e le tecniche
conoscitive e di intervento relative ai processi psichici (relazionali, emotivi, cognitivi, comportamentali)
basati sull’applicazione di principi, conoscenze, modelli o costrutti psicologici. È fatto salvo l’insegnamento
di tali strumenti e tecniche agli studenti dei corsi di studio universitari in psicologia e ai tirocinanti. È altresì
fatto salvo l’insegnamento di conoscenze psicologiche”.
Lo ragione di questo articolo consiste nell’opportunità, non solo a difesa delle prerogative personali dello
psicologo, ma anche e soprattutto a tutela della salute pubblica, che persone estranee alla professione di
psicologo siano indotte ad utilizzare in modo improprio strumenti di competenza dello psicologo.
Non viene vietato l’insegnamento della psicologia ai non-psicologi, il divieto riguarda l’insegnamento di
“strumenti conoscitivi e di intervento” riservati allo psicologo, in quanto il loro uso è corretto solo ove sia
supportato da un bagaglio di conoscenze e competenze di base.
È deontologicamente corretto comunicare l’esistenza di colloqui clinici, di strumenti diagnostici, di uno
specifico test di personalità, ma non lo è insegnare il loro uso, poiché il discente sarà indotto a voler utilizzare
tali strumenti in modo abusivo e scorretto. Inoltre, l’uso di strumenti psicodiagnostici o psicoterapeutici da
parte di persone estranee alla professione di psicologo avverrebbe al di fuori di ogni possibilità di controllo
deontologico, poiché le sanzioni disciplinari da parte dell’Ordine sono applicabili solo nei confronti degli
iscritti all’Albo.
I critici di questa norma sostengono che i rimedi per evitare l’abuso di strumenti tipici dello psicologo sono
già contenuti nel codice penale, che punisce il reato di esercizio abusivo della professione. Tuttavia, tale
argomentazione non appare condivisibile, poiché appare più utile prevenire un reato piuttosto che reprimerlo
una volta commesso, in particolare quando la sua individuazione sarebbe alquanto difficoltosa. Inoltre, se
l’Ordine ha il compito di vigilare per la tutela del titolo professionale e svolgere attività dirette ad impedire
l’esercizio abusivo della professione, non si potrebbe certo ritenere deontologicamente corretto compiere
azioni che molto si avvicinano all’istigazione all’abuso della professione.

Capo II: Rapporti con l’utenza e la committenza


Art. 22: “lo psicologo adotta condotte non lesive per le persone di cui si occupa professionalmente, e non
utilizza il proprio ruolo ed i propri strumenti professionali per assicurare a sé o ad altri indebiti vantaggi”.

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Questo articolo ha un elevato livello di sovrapposizione con norme penali e civili e riguarda comportamenti
legalmente perseguibili o ai margini della perseguibilità. Correla con i principi degli art. 2, 3, 4 e 5 e va
interpretato in relazione ad essi.
L’espressione “lo psicologo adotta condotte non lesive” sottolinea che, a differenza delle norme penali e civili
che focalizzano l’attenzione sulla persona e i suoi diritti, le norme deontologiche si focalizzano sul
professionista, sulla qualità e la correttezza della sua prestazione, anche a prescindere dal fatto che ci sia
stata o meno una lesione.
Una condotta può essere considerata lesiva quando:
 Non vengono applicate metodologie e strumenti coerenti con modelli teorici riconosciuti
scientificamente.
 È estranea alla natura della professione di psicologo.
 La professione non viene esercitata esclusivamente per le finalità connesse al mandato ricevuto, al
contratto definito dalle parti e al benessere psicologico del soggetto.
L’articolo tende a delineare il profilo di uno psicologo preparato sul piano della competenza professionale e
corretto sul piano etico, in grado di offrire prestazioni qualificate, di non debordare dal proprio ruolo e di
interpretare la professione in termini di servizio reso all’utente e alla società. Pensare allo psicologo in termini
di “competenza” ed “etica” significa anche tutelarlo qualora l’esito della sua prestazione non sia quello
auspicato, ma lui abbia comunque agito rispettando il suo ruolo e le sue funzioni.
La seconda parte dell’articolo si riferisce al non corretto uso del ruolo e degli strumenti professionali dello
psicologo, che in termini legali viene definito abuso. Il riferimento all’abuso è legato allo squilibrio esistente
tra il professionista e l’utente, che si trovano in una relazione di asimmetricità, ed utilizzare tale asimmetricità
al di fuori degli ambiti e delle finalità previsti, costituisce un abuso.
Il vantaggio che il professionista può ricercare è unicamente quello legato al compenso per la prestazione
erogata (vedi art. 30) e, al di fuori di questo, richiedere o accettare altro costituisce un vantaggio indebito.

Art. 23: “lo psicologo pattuisce nella fase iniziale del rapporto quanto attiene al compenso professionale. In
ogni caso, la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera. In ambito clinico tale
compenso non può essere condizionato all’esito o ai risultati dell’intervento professionale”.
Tale articolo ha lo scopo di affermare come, fin dall’inizio, il rapporto professionale debba svilupparsi in un
clima di chiarezza e di trasparenza, sia per quanto riguarda l’aspetto quantitativo del compenso, sia per ciò
che attiene alle modalità con cui va commisurato il compenso stesso.
L’obbligo che il professionista assume, almeno in ambito clinico, è quello di porre al servizio del cliente la sua
scienza (e, deontologicamente, la sua coscienza); in altri termini, deve garantire che si adopererà per ottenere
il risultato desiderato, ma non potrà mai assicurare l’esito della sua prestazione; il caso più evidente si ha nel
rapporto psicoterapeutico, in cui sarebbe scorretto da un lato promettere, e dall’altro lato pretendere la
guarigione. Pertanto, ove tale risultato non sia raggiunto, il professionista non potrà essere considerato
inadempiente se ha agito secondo criteri di correttezza e di competenza. Tale principio trova un’eccezione al
di fuori dell’ambito clinico, quando ad es. lo psicologo debba effettuare una ricerca o un’indagine di mercato,
per cui nel contratto è definito un obiettivo preventivamente pattuito; è evidente che, in tali ipotesi, l’attività
professionale non ha alcun pregio se non viene conseguito il risultato prestabilito.
Il compenso va stabilito nella fase iniziale del rapporto, in modo da porre in chiaro sin da subito quale sia
l’onere economico che verrà a gravare sul cliente. Questo però non impedisce che il compenso possa essere
soggetto a variazioni nel corso di una prestazione professionale che si protragga nel tempo (es. psicoterapia
ad orientamento analitico); in questi casi il professionista dovrà comunicare sin dall’inizio al cliente che tale
compenso potrà aumentare nel tempo. Ovviamente, l’aumento dovrà essere contenuto.
La gratuità della prestazione non è di per sé vietata sotto il profilo deontologico (ovviamente quando ciò non
sia finalizzato ad accaparrarsi la clientela, configurandosi come concorrenza sleale); perché ciò avvenga, è
necessario che sia saltuaria ed occasionale. Con la Legge Bersani prima e il Decreto Monti poi, sono state
abolite le tariffe professionali (vedi “leggi”).

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Art. 24: “lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, fornisce all’individuo, al gruppo,
all’istituzione o alla comunità, siano essi utenti o committenti, informazioni chiare circa le sue prestazioni, le
finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il grado e i limiti giuridici della riservatezza. Pertanto, opera in
modo che chi ne ha diritto possa esprimere un consenso informato. Se la prestazione professionale ha
carattere di continuità nel tempo, dovrà esserne indicata, ove possibile, la prevedibile durata”.
Questo articolo specifica come l’esercizio della professione debba attuarsi nei confronti di persone che siano
adeguatamente informate circa le attività che verranno svolte nei loro confronti. Perché il consenso possa
dirsi adeguatamente informato bisogna:
 Che il soggetto sia in grado id comprendere la materia su cui presta il consenso.
 Che le informazioni fornite siano espresse in modo chiaro e comprensibile evitando una terminologia
specialistica.
 Che le informazioni siano pertinenti, rilevanti e complete tenendo conto della capacità di
comprensione del soggetto.
 Che il consenso sia libero, ovvero non ottenuto mediante violenza o minaccia di terzi.
Non sempre però il consenso può essere libero e volontario (ad es., nel caso di una perizia o in un trattamento
diagnostico/psicoterapeutico in carcere dove avviene per legge o per ordine di un magistrato).
Inoltre, con le stesse modalità di chiarezza e tempestività, lo psicologo informa i soggetti che le notizie
conosciute sono coperte dal segreto e da riservatezza. Allo stesso modo, i soggetti dovranno essere informati
dei limiti riguardanti il segreto che possono derivare dalla situazione, dal contesto (es. perizia o trattamento
carcerario) e dai particolari contenuti delle informazioni (es. grave pericolo alla incolumità del paziente stesso
o di terzi).
Possono però crearsi problemi delicati. Ad es. può capitare che un paziente si rechi da uno psicoanalista allo
scopo di eliminare un sintomo che lo infastidisce; il terapeuta ritiene che il sintomo esprima conflitti profondi
per cui la propria attività non dovrà essere diretta nei confronti del sintomo, ma verso problemi di natura
diversa, inconscia, di cui il paziente, per definizione, non ha consapevolezza. Anche in questi casi la chiarezza
dovrà essere necessaria in modo che il paziente possa essere nella condizione di accettare o meno la terapia.

Art. 25: “lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui dispone. Nel
caso di interventi commissionati da terzi, informa i soggetti circa la natura del suo intervento professionale e
non utilizza, se non nei limiti del mandato ricevuto, le notizie apprese che possano recare ad essi pregiudizio.
Nella comunicazione dei risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi, lo psicologo è tenuto a regolare
tale comunicazione anche in relazione alla tutela psicologica dei soggetti”.
L’art. 22 tratta già il tema dell’uso scorretto degli strumenti professionali al fine di trarne vantaggi indebiti; il
primo comma dell’art. 25 riprende il tema nello specifico dell’attività clinica dello psicologo e dei relativi
strumenti di diagnosi e di valutazione. Viene quindi posta l’attenzione su un settore professionale dove è
marcato il problema dello squilibrio di potere tra le parti. Gli strumenti diagnostici devono perciò essere
utilizzati esclusivamente per finalità di aiuto o all’interno di un mandato in cui ruoli e finalità siano
chiaramente riconoscibili (ad es., non si può somministrare un test ad un soggetto per addestramento
proprio, a meno che il soggetto non abbia fornito il consenso).
Per “uso improprio di strumenti psicologici” occorre fare un doppio riferimento rispetto a:
 Uso degli strumenti di diagnosi e di valutazione dal punto di vista tecnico:
- Scelta corretta di tali strumenti rispetto a ciò che deve essere valutato.
- Uso degli strumenti in relazione a ciò per cui sono stati validati scientificamente.
- Uso degli strumenti secondo procedure corrette che garantiscano la loro efficacia valutativa.
 Uso improprio degli strumenti di diagnosi e di valutazione dal punto di vista della relazione con il
soggetto:
- Gli strumenti possono essere utilizzati unicamente all’interno di contesti e relazioni professionali.
- L’uso degli strumenti deve essere coerente con le finalità del rapporto professionale instaurato.

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Il secondo comma si riferisce a situazioni in cui utente e committente non corrispondono, e prescrive che il
rapporto con le parti, in particolare con l’utente, sia caratterizzato da chiarezza circa le finalità, il ruolo che lo
psicologo assume e i vincoli dello stesso rispetto a ciascuna delle parti. Viene affrontato quindi il problema
dell’etica nella relazione professionale all’interno di rapporti triadici in cui possono divergere interessi e
finalità tra utenti e committenti. In ogni caso, lo psicologo deve salvaguardare la tutela psicologica del
soggetto. È il caso, ad es., di un intervento dello psicologo in qualità di perito che deve informare il soggetto
da esaminare riguardo al proprio ruolo e che l’esito della valutazione è destinato al committente (es. Autorità
Giudiziaria).
Qui rientra anche la problematica della restituzione dell’esito dell’intervento: all’interno di un contratto
chiaro lo psicologo deve restituire la propria valutazione e questa deve essere comunicata in termini chiari in
modo da favorire, senza rassicurare ingiustificatamente, la positiva mobilizzazione delle risorse del soggetto;
inoltre, dovrà utilizzare terminologie e forme espressive che non lo turbino psicologicamente.

Art. 26: “lo psicologo si astiene dall’intraprendere o dal proseguire qualsiasi attività professionale ove i propri
problemi o conflitti personali, interferendo con l’efficacia delle sue prestazioni, le rendano inadeguate o
dannose alle persone cui sono rivolte. Lo psicologo evita, inoltre, di assumere ruoli professionali e di compiere
interventi nei confronti dell’utenza, anche su richiesta dell’Autorità Giudiziaria, qualora la natura di
precedenti rapporti possa comprometterne la credibilità e l’efficacia”.
Nel primo comma di questo articolo si parla di problemi o conflitti personali, nel secondo di precedenti
rapporti. La distinzione tra i due riguarda il fatto che nella prima parte si richiamano dati di vita interiore
(problemi o conflitti), quindi difficili da sondare e di natura soggettiva, nella seconda parte si richiamano
invece dati più oggettivabili (precedenti rapporti) e più sondabili.
Questo articolo affronta la più importante questione deontologica della professione di psicologo: una
relazione professionale complessa e delicata, poiché implica zone personali ed interpersonali dalla difficile
sondabilità. Tale relazione dottore-paziente si configura come una dinamica interpersonale tra il soggetto
psicologo e il soggetto paziente. Proprio per questo motivo è importante che lo psicologo rimanga vigile sul
rischio che eventuali problemi o conflitti personali interferiscano con l’efficacia delle sue prestazioni e le
rendano inadeguate o dannose alle persone cui sono rivolte.

Art. 27: “lo psicologo valuta ed eventualmente propone l’interruzione del rapporto terapeutico quando
constata che il paziente non trae alcun beneficio dalla cura e non è ragionevolmente prevedibile che ne trarrà
dal proseguimento della cura stessa. Se richiesto, fornisce al paziente le informazioni necessarie a ricercare
altri e più adatti interventi”.
Tale articolo è relativo al rapporto psicoterapeutico. Il cliente è libero di interrompere in qualsiasi momento
il rapporto con il terapeuta, mentre quest’ultimo può avere tale diritto solo ove ricorra una giusta causa. La
valutazione della giusta causa è però delicata. In linea di massima, vi è quando eventi esterni o interni al
rapporto abbiano fatto venir meno la fiducia del professionista nei confronti del cliente, o quando situazioni
oggettive (es. malattia del terapeuta) impediscano al professionista di assistere efficacemente il cliente.
Qualora esistesse una giusta causa, il professionista deve agire in modo da evitare ogni danno al cliente.
Inoltre, il terapeuta, qualora constati che la cura non reca alcun beneficio al paziente e si presume che
neanche il protrarsi della terapia possa condurre a risultati positivi, è tenuto a valutare insieme al paziente la
possibilità di interromperla (in ogni caso non può decidere unilateralmente l’interruzione del rapporto), ad
es., perché la tecnica psicoterapica è inadeguata rispetto alla patologia del paziente, o perché si è instaurata
una relazione terapeutica negativa per elementi di personalità del paziente e/o del terapeuta.
Ovviamente la valutazione dell’assenza di beneficio va fatta tenendo in considerazione non solo ciò che
accade nell’attualità, ma anche il prevedibile sviluppo del trattamento, poiché possono esservi fasi di
“stagnazione” che però non precludono successivi sviluppi positivi.
Notevoli problemi si riscontrano quando paziente e cliente non coincidono nella stessa persona e accade che
il cliente (colui che ha stipulato con il professionista il contratto a favore di un terzo) decida l’interruzione del

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rapporto senza che questo venga condiviso dallo psicologo e dal paziente. In questi casi lo psicologo deve
tentare di convincere, previo consenso informato del paziente, il cliente a mantenere in vita il rapporto
professionale. Se non dovesse riuscirvi, lo psicologo dovrà chiarire con il paziente le cause per cui il rapporto
viene interrotto.

Art. 28: “lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e la vita privata che possano interferire
con l’attività professionale o comunque arrecare danno all’immagine sociale della professione. Costituisce
grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti
a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare
di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale. Parimenti, costituisce grave violazione deontologica instaurare
le suddette relazioni nel corso del rapporto professionale. Allo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in
ragione del rapporto professionale, possa produrre per lui indebiti vantaggi diretti o indiretti di carattere
patrimoniale o non patrimoniale (es. denaro, gioielli, uso di automobili, inviti in case al mare), ad esclusione
del compenso pattuito. Lo psicologo non sfrutta la posizione professionale che assume nei confronti di
colleghi in supervisione e di tirocinanti, per fini estranei al rapporto professionale (es. non può avere in
psicoterapia i propri studenti o non può farsi trasportare abitualmente in automobile o chiedere di consegnare
dei pacchi ai suoi tirocinanti)”.
Ad es., se la vita privata dello psicologo dovesse venire alla conoscenza del pubblico (es. tramite i mass media)
bisognerà che venga valutato che questa situazione non interferisca con la sua attività, questo perché lo
psicologo non deve solo essere una persona corretta ed esemplare, ma anche apparire come tale.
Possono crearsi situazioni delicate ad esempio se si vive in una località piccola. Ad es., può accadere che lo
psicologo abbia un conto corrente nella banca il cui direttore è un suo paziente: se la conoscenza delle finanze
dello psicologo può interferire nel rapporto professionale, questi dovrà valutare se trasferire il suo conto in
un’altra banca anche se scomoda.
Il secondo comma impedisce l’attività diagnostico/terapeutica nei confronti di persone con cui lo psicologo
ha o abbia avuto relazioni di natura personale. Tale attività è vietata anche nel caso in cui si instauri nel corso
del rapporto professionale, ed in questo caso costituisce una violazione deontologica grave.
La ragione di questi divieti deriva dal fatto che la prestazione dello psicologo può essere inquinata dalla
familiarità, dalla scarsa obiettività, dalla mancanza di distacco e dalla tentazione di tutelare interessi
sentimentali e sessuali propri, e dall’altro lato le persone che ricevono la prestazione possono ricevere danno
dalla confusione di ruoli.

Art. 29: “lo psicologo può subordinare il proprio intervento alla condizione che il paziente si serva di
determinati presidi, istituti o luoghi di cura soltanto per fondati motivi di natura scientifico-professionale”.
L’articolo sanziona quella gravissima violazione deontologica caratterizzata da forme di “comparaggio”
economico tra psicologi e presidi, istituti o luoghi di cura. L’espressione “soltanto per fondati motivi di natura
scientifico-professionale” significa che subordinare il proprio intervento al ricorso a determinati presidi non
è vietato in maniera assoluta, ma soltanto se deriva dalla volontà dello psicologo di trarne indebiti vantaggi
(es. se si manda un bambino a fare logopedia unicamente ad un determinato Centro di Riabilitazione, anche
se questi non ne ha bisogno).

Art. 30: “nell’esercizio della sua professione, allo psicologo è vietata qualsiasi forma di compenso che non
costituisca il corrispettivo di prestazioni professionali”.
Il cliente è già in una posizione di “debolezza” nei confronti del proprio psicologo e ciò lascia ampi margini a
casi di “approfittamento”. Ogni valutazione, anche ad es. sulla durata del rapporto clinico, rischia di essere
condizionata da motivi di “convenienza”, in riferimento anche alla tipologia di cliente (i pazienti “migliori
clienti”) con cui instaurare rapporti particolarmente “redditizi”.
Oltre a compensi di tipo economico, rientrano anche i casi di rapporti sessuali e sentimentali citati all’art. 28.
Lo scopo di questo articolo è quello di tutelare il paziente ma anche di salvaguardare lo psicologo rispetto al

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rischio di “vendere” la sua discrezionalità e “libertà”, in tal modo compromettendo irrimediabilmente la
possibilità di svolgere la sua funzione professionale.
Rientrano nell’articolo anche i casi di richiesta o accettazione di doni, servizi o valori convertibili in forma
economica (es. oggetti di valore, denaro, prestazioni professionali), che non devono mai essere accettati, e
si pone il problema di come considerare il dono di valore simbolico (es. un mazzo di fiori, un dolce, una pianta,
un libro). Quest’ultimo, in alcuni casi potrebbe non configurarsi come un compenso aggiuntivo, ma anzi
potrebbe essere considerato coerente con una relazione del tipo di quella che si instaura in certi setting
psicoterapeutici. D’altronde, però, il dono potrebbe essere investito di impropri e complessi significati da
parte del paziente e risulta necessario salvaguardarlo da interpretazioni improprie sul momento
dell’accettazione o della non accettazione del dono. Sarebbe utile in ogni caso, in sede di contratto
terapeutico, chiarire anche questi aspetti al fine di evitare il verificarsi di situazioni difficilmente gestibili.

Art. 31: “le prestazioni professionali a persone minorenni o interdette sono, generalmente, subordinate al
consenso di chi esercita sulle stesse la potestà genitoriale o la tutela. Lo psicologo che, in assenza del
consenso, giudichi necessario l’intervento professionale nonché l’assoluta riservatezza dello stesso, è tenuto
ad informare l’Autorità Tutoria dell’instaurarsi della relazione professionale. Sono fatti salvi i casi in cui tali
prestazioni avvengano su ordine dell’autorità legalmente competente o in strutture legislativamente
preposte”.
Con questo articolo si pone l’interesse per il benessere psicologico del minore al di sopra della norma
generale. Il diritto italiano vede nel minore un soggetto che rimane, sino ai 18 anni, sotto la giurisdizione della
famiglia, ma ha ridimensionato tale potestà, allargando l’area dei diritti e delle scelte assicurate al ragazzo,
anche in contrasto con la volontà genitoriale. Il nostro ordinamento, infatti, riconosce oggi ai minori una
maturità anticipata per alcuni atti in materia di diritto di famiglia (es. riconoscimento di figli naturali) e per
una serie di scelte di rilievo quali, ad es., l’interruzione di gravidanza, i trattamenti per la tossicodipendenza,
il vivere una sessualità anticipata e ha provveduto all’attivazione di strutture alle quali i giovani possono
accedere indipendentemente dall’assenso genitoriale (es. Consultori familiari con fascia giovanile di ascolto
e intervento, Centri per le tossicodipendenze, Servizi di Igiene mentale, Centri di Informazione e Consulenza
all’interno della scuola…).
Mentre il codice civile prescrive che il minorenne o la persona interdetta sia incapace di agire e di intendere
e di volere, e pertanto vi sarebbe la necessità di avere il consenso di chi esercita la potestà genitoriale, il
codice deontologico prevede che sia lo psicologo a valutare i casi in cui sia necessario il suo intervento anche
senza il consenso (es. l’adolescente che richiede un trattamento psicoterapeutico per problemi che
riguardano i genitori e questi ultimi non sono disponibili a fornire il consenso). Se lo psicologo decidesse di
proseguire, sarebbe comunque tenuto ad informare l’Autorità Tutoria (più specificatamente, il giudice
Tutelare), poiché il cliente non deve essere in ogni caso lasciato solo nell’assumersi la responsabilità di una
decisione così rilevante; sarà poi l’Autorità Tutoria a stabilire se l’intervento dello psicologo debba essere
autorizzato o meno.
Ovviamente, il consenso non è richiesto nei casi in cui la prestazione professionale venga richiesta da
un’autorità legalmente competente, come nel caso di un’autorità legalmente competente (ad es. nel caso di
una perizia psicologica richiesta dal PM).
Nel caso di genitori separati, bisogna essere certi di chi ha la potestà. Se essa è affidata dal Tribunale in via
esclusiva ad un genitore, basta la sua sola firma, mentre se la potestà è condivisa sono necessarie le due
firme.

Art. 32: “quando lo psicologo acconsente a fornire una prestazione professionale su richiesta di un
committente diverso dal destinatario della prestazione stessa, è tenuto a chiarire con le parti in causa la
natura e le finalità dell’intervento”.
Questo articolo riprende quando esplicitato nell’art. 4 relativamente all’uso, da parte dello psicologo, dei
suoi metodi e le sue tecniche nel rispetto della dignità e dell’autodeterminazione delle persone ed alla

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prioritaria tutela del destinatario dell’intervento qualora, in caso di sostegno o di psicoterapia, quest’ultimo
sia diverso dal committente.
Lo psicologo è pertanto obbligato ad informare adeguatamente il destinatario dell’intervento anche quando
questi sia stato commissionato da altri ed anche quando l’interesse del committente possa essere quello di
tenere il destinatario all’oscuro circa le finalità dell’intervento. Lo scopo della norma è quello di tutelare
l’utenza al fine di evitare che la scienza psicologica possa essere utilizzata ai fini di un’occulta manipolazione
dei destinatari dell’intervento. Ad es., uno psicologo del lavoro che svolga per conto del suo titolare
un’indagine psicologica volta ad individuare i lavoratori più adatti a determinate mansioni ai fini di un
cambiamento di incarico, e che presenti la sua indagine come una ricerca volta a raccogliere suggerimenti
per migliorare l’organizzazione del lavoro, infrange la norma posta dall’art. 32.

Capo III: Rapporti con i colleghi


Art. 33: “i rapporti fra gli psicologi devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco, della lealtà e della
colleganza. Lo psicologo appoggia e sostiene i colleghi che, nell’ambito della propria attività, quale che sia
la natura del loro rapporto di lavoro e la loro posizione gerarchica, vedano compromessa la loro autonomia
ed il rispetto delle norme deontologiche”.
Il rispetto e la lealtà nella relazione tra soggetti sono sostenuti dal principio della colleganza, cioè dall’essere
“in connessione con”, l’”essere colleghi”. Il principio di colleganza è fondato sulla comunione dei principi e
sui valori che definiscono l’identità dello psicologo. Lo psicologo, infatti, attraverso l’appartenenza all’unità
formata dagli psicologi, ne trae sia la sua identità, sia il fondamento della colleganza. Pertanto, deve garantire
e salvaguardare le condizioni necessarie a svolgere e a far svolgere al meglio la propria attività, in quanto
espressione di un ruolo e di un significato assunto con la scelta professionale.
Questa norma richiama il principio etico della difesa e del sostegno della professionalità, che significa
superare una prospettiva egocentrata del professionista, affinché non si preoccupi della fama e del prestigio
personale, ma sia promotore e interprete dei valori di cui si fa portatrice la psicologia.
Il presente articolo, sulla base dell’art. 3, ribadisce che l’azione professionale del singolo, anche quando
ispirata da esigenze di competizione di mercato, non deve pregiudicare i vincoli solidaristici che debbono
invece trovare conferma nella comune collaborazione. Inoltre, la norma comporta il dovere etico di sostegno
solidale tra colleghi anche nei casi in cui è compromessa l’attività professionale del singolo attraverso la
perdita dell’autonomia o della possibilità di adempiere al proprio dovere. Questo perché nel secondo caso
viene messa in pericolo la stessa appartenenza dello psicologo alla comunità professionale, dato che le
violazioni del codice possono comportare la radiazione dall’Ordine.
Deve esistere tra i colleghi psicologi la consapevolezza di un bene maggiore rispetto a quello di ciascuno preso
singolarmente: è il bene della professione, intesa come qualcosa che è “al servizio delle persone”, e non uno
strumento per l’affermazione egocentrata del singolo psicologo.

Art. 34: “lo psicologo si impegna a contribuire allo sviluppo delle discipline psicologiche e a comunicare i
progressi delle sue conoscenze e delle sue tecniche alla comunità professionale, anche al fine di favorirne la
diffusione per scopi di benessere umano e sociale”.
L’impegno che qui si richiede allo psicologo è visto nell’ottica dei rapporti di colleganza. È doveroso quindi
che vi sia una diffusione, all’interno della comunità professionale, delle acquisizioni sia teoriche che
applicative, in modo che queste divengano patrimonio comune e non restino confinate nell’ambito delle
conoscenze del singolo professionista. Questo perché tanto maggiore è tale diffusione, tanto più aumentano
le competenze e tanto più l’intervento dello psicologo acquisisce valore sul piano sociale.
Viene condannato un certo tipo di “egoismo” intellettuale che rischia di produrre, tra l’altro, lo sviluppo di
teorie stravaganti sulle quali non si possono avere confronti e pertanto prive di qualsiasi fondamento
scientifico.

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Art. 35: “nel presentare i risultati delle proprie ricerche lo psicologo è tenuto ad indicare la fonte degli altrui
contributi”.
Il richiamo alle fonti nella presentazione delle proprie ricerche è dovuto al fine di evitare l’appropriazione di
meriti di altri colleghi con la violazione, oltre che l’art. 7, anche l’art. 33.
Questa norma richiama il principio etico del rispetto e della valorizzazione del lavoro dei colleghi,
riconoscendolo ufficialmente in quanto fonte importante ai fini dei propri studi.

Art. 36: “lo psicologo si astiene dal dare pubblicamente su colleghi giudizi negativi relativi alla loro
formazione, alla loro competenza ed ai risultati conseguiti a seguito di interventi professionali, o comunque
giudizi lesivi del loro decoro e della loro reputazione professionale. Costituisce aggravante il fatto che tali
giudizi negativi siano volti a sottrarre clientela ai colleghi. Qualora ravvisi casi di scorretta condotta
professionale che possano tradursi in danno per gli utenti o per il decoro della professione, lo psicologo è
tenuto a darne tempestiva comunicazione al Consiglio dell’Ordine competente”.
Tale articolo contiene due precetti, entrambi concernenti i rapporti di colleganza. Il primo si fonda
sull’obbligo, solidaristico, di rispettare la persona del collega; se i giudizi negativi a lui diretti sono finalizzati
a sottrarre la sua clientela costituisce un’aggravante. Il secondo precetto riguarda l’obbligo di segnare al
Consiglio dell’Ordine i casi di cui si venga a conoscenza che riguardino situazioni di condotta professionale
scorretta che rechi pregiudizio all’utente o che comunque leda il decoro della professione. Tale norma ha la
funzione di scoraggiare un comportamento che potrebbe apparire “omertoso”, in quanto un conto è
diffamare un collega, con giudizi di riprovazione espressi pubblicamente, un altro è comunicare
riservatamente ad un organo avente funzioni anche disciplinari condotte che vengano reputate riprovevoli,
poiché, in questo caso, vengono tutelati sia gli interessi dell’utenza, sia quelli del corpo professionale, che
riceve danno dalla presenza di comportamenti scorretti e lesivi del decoro della professione.

Art. 37: “lo psicologo accetta il mandato professionale esclusivamente nei limiti delle proprie competenze.
Qualora l’interesse del committente e/o del destinatario della prestazione richieda il ricorso ad altre specifiche
competenze, lo psicologo propone la consulenza ovvero l’invio ad altro collega o ad altro professionista”.
Questo articolo prescrive che lo psicologo riconosca i limiti della propria competenza e si assuma la
responsabilità di accettare impegni professionali solo entro tali limiti, assumendo il compito difficilissimo di
farsi giudice di se stesso, della propria eventuale inadeguatezza rispetto ad un compito e della necessità di
proporre l’intervento di un collega o di un altro professionista.
Il fatto che questo articolo preveda la proposta e non la prescrizione dell’invio attiene alla necessità che, in
relazione a questi ultimi, vi sia il consenso dell’utente.
Gli scopi della norma sono quelli di: tutelare l’utenza rispetto al rischio di non ricevere prestazioni
professionali adeguate alle proprie necessità; tutelare l’immagine della professione rispetto al rischio di
offrire prestazioni professionali inadeguate; tutelare i professionisti in relazione all’indebita sottrazione di
lavoro da parte di concorrenti sleali in aree di loro specifica competenza. Un esempio è quello di uno
psicologo non formato all’esercizio della psicoterapia che accetti di prendere in carico in un rapporto
psicoterapeutico un paziente, o di uno psicologo clinico che non richiede una consulenza medica per un
disturbo di un paziente che ha anche una valenza organica.

Art. 38: “nell’esercizio della propria attività professionale e nelle circostanze in cui rappresenta pubblicamente
la professione a qualsiasi titolo, lo psicologo è tenuto ad uniformare la propria condotta ai principi del decoro
e della dignità professionale”.
Questo articolo richiama quanto prescritto all’art. 2. Viene ribadito l’obbligo deontologico di far propri i
principi del decoro e della dignità professionale, sia nell’ambito dell’esercizio dell’attività professionale, e
quindi in relazione alla committenza e all’utenza, sia nella veste di rappresentante pubblico della professione
(ad es. durante la partecipazioni a tavole rotonde o a trasmissioni televisive).

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Capo IV: Rapporti con la società
Art. 39: “lo psicologo presenta in modo corretto ed accurato la propria formazione, esperienza e
competenza. Riconosce quale suo dovere quello di aiutare il pubblico e gli utenti a sviluppare in modo libero
e consapevole giudizi, opinioni e scelte”.
Questo articolo richiama il principio espresso nell’art.5, relativo al non suscitare aspettative infondate, e
quello espresso nell’art.3, relativo alla promozione della capacità delle persone di comprendere se stessi e
gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace.
Tale norma va inoltre considerata in stretta connessione con l’art. successivo. Il primo comma stabilisce che
lo psicologo debba informare in modo veritiero circa la propria formazione, esperienza e competenza,
indipendentemente dall’attività professionale, ovvero non in connessione con il procacciamento della
clientela; il secondo comma prescrive che lo psicologo si impegni a stimolare l’autonomia cognitiva dei
soggetti (pubblico e utenti) e dunque a favorire lo sviluppo di giudizi, opinioni e scelte liberi e consapevoli.
Lo scopo della norma è, da un lato, quello di tutelare il decoro, la dignità e l’immagine della professione, e
dall’altro quello di tutelare la collettività in relazione al rischio di essere influenzata da informazioni false (ad
es., è il caso dello psicologo che si qualifica come “docente di psicologia sociale”, lasciando intendere una
docenza di tipo accademico ma insegnando invece in un corso per infermieri professionali, oppure di uno
psicologo che, nell’ambito della “lettura dei giornali” prevista dalle attività di psicoriabilitazione presso un
servizio pubblico, inviti a leggere uno solo dei giornali a disposizione perché più aderente alle sue posizioni
politico-culturali).

Art. 40: “indipendentemente dai limiti posti dalla vigente legislazione in materia di pubblicità, lo psicologo
non assume pubblicamente comportamenti scorretti finalizzati al procacciamento della clientela. In ogni caso,
può essere svolta pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del
servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e
veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dai competenti Consigli dell’ordine. Il messaggio deve essere
formulato nel rispetto del decoro professionale, conformemente ai criteri di serietà scientifica ed alla tutela
dell’immagine della professione. La mancanza di trasparenza e veridicità del messaggio pubblicizzato
costituisce violazione deontologica”.
L’Ordine degli psicologi della Lombardia stabilisce che la pubblicità delle attività degli psicologi debba
svolgersi in considerazione delle innovazioni in materia di pubblicità professionale apportate dalla legge n.
248/2006 (con l'entrata in vigore di questa legge, la "pubblicità informativa professionale" è stata
liberalizzata purché il messaggio pubblicitario rispetti i criteri di trasparenza e veridicità). Il testo pubblicitario
deve inoltre essere conforme a quanto indicato agli art. 8, 39 e 40 del Codice Deontologico.
La pubblicità non “persuasiva” ma “informativa” deve essere realizzata, sotto la responsabilità del
professionista, secondo criteri di correttezza, trasparenza e veridicità del messaggio pubblicitario. La
mancanza di trasparenza e veridicità dei messaggi pubblicizzati costituisce violazione deontologica.
Costituisce, altresì, violazione deontologica la diffusione di pubblicità ingannevole, nonché la pubblicità
comparativa che contrasti con i criteri di rispetto reciproco, lealtà e colleganza e comunque con gli altri
principi del capo III del codice.
Può essere svolta pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del
servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni.
Al fine di specificare le caratteristiche del servizio offerto, per una maggiore trasparenza nei confronti del
cliente, lo psicologo può pubblicizzare il contesto professionale e l’area di intervento, mentre lo
psicoterapeuta può pubblicizzare il modello teorico di riferimento relativo alla formazione conseguita e
l’indirizzo.
E' consentita pubblicità mediante targhe apposte sull'edificio nel quale il professionista svolge attività (per le
modalità di affissione della targa muraria bisogna consultare gli uffici comunali di competenza), inserzioni
sugli elenchi telefonici, sugli elenchi generali di categoria e attraverso giornali, quotidiani e periodici di
informazione. L'informazione pubblicitaria è inoltre consentita su carta intestata, su biglietti da visita e con

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ogni altro mezzo, purché venga realizzata secondo criteri di correttezza, trasparenza e veridicità del
messaggio e in un'ottica di servizio alla collettività, prestando particolare attenzione alla sua influenza
sull'utenza. In particolare, le inserzioni sulle pagine Web di Internet devono essere realizzate nel rispetto
delle disposizioni imposte dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi.
Qualora sussistano dubbi circa la liceità della pubblicità, il professionista può rivolgersi all'Ordine in
qualunque momento per chiedere una preventiva valutazione e un parere consultivo.
Non è previsto il rilascio del nulla osta da parte dell'Ordine per la divulgazione di testi pubblicitari, che quindi
devono essere realizzati sotto la responsabilità del professionista.
L'Ordine, su impulso di parte o d'ufficio, verifica ex post la liceità delle pubblicità diffuse o che comunque
risultino ingannevoli, non trasparenti, non veritiere o difformi rispetto ai criteri dettati dal presente atto
d’indirizzo.

Capo V: Norme di attuazione


Art. 41: “è istituito presso la “Commissione Deontologia” dell’Ordine degli Psicologi l’”Osservatorio
permanente sul Codice Deontologico”, regolamentato con apposito atto del Consiglio Nazionale dell’Ordine,
con il compito di raccogliere la giurisprudenza in materia deontologica dei Consigli regionali dell’Ordine e ogni
altro materiale utile a formulare eventuali proposte della Commissione al Consiglio Nazionale dell’Ordine,
anche ai fini della revisione periodica del Codice Deontologico. Tale revisione si atterrà alle modalità previste
dalla Legge 18 febbraio 1989, n.56”.
L’istituzione di un Osservatorio permanente ha il compito di aggiornare il codice in merito ad una serie di
situazioni nuove con le quali la professione di psicologo si trova a doversi confrontare in un futuro anche
assai immediato.
In una società complessa che vede l’avvento sempre più rapido di culture ed etnie diverse e gli effetti del
progresso scientifico e tecnologico determinano cambiamenti nelle strutture di base della società stessa,
intervenendo su ruoli individuali, struttura familiare, istituzioni formative e lavorative, norme di
comportamento, è fondamentale che l’Ordine colga tutto quanto di nuovo si va determinando, sapendo
coglierne l’aspetto etico e traducendolo in norme deontologiche.

Art. 42: “il presente codice entra in vigore il trentesimo giorno successivo alla proclamazione dei risultati del
referendum di approvazione, ai sensi dell’art. 28, comma 6, lettera c, della Legge 18 febbraio 1989, n.56”.
È stato predisposto che il codice venisse approvato per referendum dagli iscritti stessi. Questo perché deve
esprimere il “comune sentire” del gruppo di professionisti cui si riferisce, pertanto appare corretto che esso
sia valutato dall’intero gruppo, che può approvarlo o respingerlo attraverso il voto.
Il codice è entrato in vigore il 16 febbraio 1998, e l’ultima modifica risale al 2013 (vedi “leggi”).

Dal sito OPL: “Testo approvato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine ai sensi dell’art. 28, comma 6 lettera c)
della Legge n. 56/89, in data 15-16 dicembre 2006 e recepito dal Consiglio dell’Ordine della Lombardia in
data 18 gennaio 2007, modificato negli artt. 23 e 40 dal Consiglio Nazionale dell'Ordine in data 08 luglio 2009
a seguito di recepimento delle indicazioni del Garante, e modificato in data 5 luglio 2013”.

LEGGI:
Legge Bersani del 2006: è stata abolita l’obbligatorietà dei minimi tariffari. Questo non significa che è stato
abolito il tariffario, che esiste ed è stato rinominato “Nomenclatore” e riporta l’elenco delle attività che può
svolgere lo psicologo, insieme alle tariffe minime e massime orientative (non obbligatorie).
Dopo la legge Bersani, è stato aggiornato l’art. 23 del codice deontologico, che stabilisce che la misura del
compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera.
Inoltre, è stata liberalizzata la pubblicità purché il messaggio pubblicitario rispetti i criteri di trasparenza e
veridicità. Il testo pubblicitario deve inoltre rispettare quanto indicato negli art. 8, 39 e 40 del codice

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deontologico, e ciascun Ordine regionale può disciplinare la pubblicità con un apposito regolamento (ad es.
alcuni prevedono il rilascio del nulla osta). È stato aggiornato l’art. 40 in materia di pubblicità informativa.

Decreto Monti del 2012: sono state abolite anche le tariffe massime, procedendo così ad un’abrogazione
delle tariffe professionali, lasciando così che il compenso sia oggetto di libera contrattazione tra il
professionista ed il cliente. Questo non significa che ciascuno è libero di svendere colloqui a 5 euro; le tariffe,
anche se liberalizzate, devono rispettare il decoro e la dignità della professione, come indicato dall’art. 2 del
codice deontologico. Inoltre, nel decreto viene specificato che il compenso per le prestazioni professionali
deve essere pattuito al momento del conferimento dell’incarico professionale. Il professionista deve rendere
noto obbligatoriamente, in forma scritta o digitale, al cliente il grado di complessità dell’incarico, fornendo
tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione
dell’incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell’esercizio
dell’attività professionale. In ogni caso la misura del compenso è previamente resa nota al cliente
obbligatoriamente, in forma scritta o digitale, con un preventivo di massima, deve essere adeguata
all’importanza dell’opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive
di spese, oneri e contributi.

Referendum 2013 per le modifiche del codice deontologico: è stato richiesto a tutti gli iscritti di votare in un
referendum volto ad apportare modifiche a tre articoli del codice deontologico (art. 1, 5 e 21). Il referendum
è stato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, di cui fanno parte i presidenti di tutti gli ordini
nazionali. L’art. 1 prevede un’aggiunta in cui viene specificato che le regole del codice si applicano anche nei
casi in cui le prestazioni professionali vengano effettuate a distanza, via Internet o con qualunque altro mezzo
elettronico e/o telematico. L’art. 5 aggiunge la specifica “La violazione dell’obbligo di formazione continua,
determina un illecito disciplinare che è sanzionato sulla base di quanto stabilito dall’ordinamento
professionale”; pertanto sembra che se prima l’aggiornamento professionale fosse demandato alla
responsabilità dei singoli professionisti, ora verrà vigilato dalla commissione deontologica e probabilmente
ogni professionista sarà obbligato a certificare la propria formazione continua mediante appositi corsi
accreditati. L’art. 21 prescrive che lo psicologo non può insegnare ad altre figure (iscritte ad un ordine
professionale o meno) degli strumenti propri dell’intervento che solo uno psicologo adeguatamente formato
può utilizzare, questo a tutela sia della salute dell’utente sia del professionista stesso. L’articolo, come
modificato dal referendum, specifica “E’ altresì fatto salvo l’insegnamento di conoscenze psicologiche”;
propone quindi una differenza netta tra l’insegnamento degli strumenti e l’insegnamento delle conoscenze,
e cioè lo psicologo può insegnare delle conoscenze psicologiche che possono essere utili ad altre professioni:
prendiamo l’esempio della comunicazione medico-paziente; ma non può insegnare allo stesso medico a
svolgere un colloquio psicologico, il che sembrerebbe ovvio dato che questa area non è di competenza del
medico ma dello stesso psicologo.

Decreto Lorenzin: è stato approvato il 22 dicembre 2017 e prevede il riconoscimento della professione
psicologica come professione sanitaria. È possibile così godere di norme più stringenti e severe in caso di
esercizio abusivo della professione (“Se l'esercizio abusivo riguarda una professione sanitaria, la pena è
aumentata da un terzo alla metà”).

Legge 18 febbraio 1989, n. 56: Ordinamento della professione di psicologo: (norme principali):
Art.1: definizione della professione di psicologo: la professione di psicologo comprende l'uso degli strumenti
conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno
in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì
le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.

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Art. 2: requisiti per l’esercizio dell’attività di psicologo: per esercitare la professione di psicologo è
necessario aver conseguito l'abilitazione in psicologia mediante l'esame di Stato ed essere iscritto
nell'apposito albo professionale.
Art. 3: esercizio dell’attività psicoterapeutica: l'esercizio dell'attività psicoterapeutica è subordinato ad una
specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in
medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata
formazione e addestramento in psicoterapia.
Art. 4: istituzione dell’albo: è istituito l’albo degli psicologi; gli iscritti all’albo sono soggetti alla disciplina
stabilita dall’art. 622 del codice penale.
Art. 5: istituzione dell’ordine degli psicologi: gli iscritti all'albo costituiscono l'ordine degli psicologi. Esso è
strutturato a livello regionale e, limitatamente alle province di Trento e di Bolzano, a livello provinciale.
Art. 6: istituzione di sedi provinciali del consiglio regionale dell’ordine: qualora il numero degli iscritti
all'albo in una regione superi le mille unità e ne facciano richiesta almeno duecento iscritti residenti in
province diverse da quella in cui ha sede l'ordine regionale e tra loro contigue, può essere istituita una
ulteriore sede nell'ambito della stessa regione.
Art. 7: condizioni per l’iscrizione all’albo: per essere iscritti all'albo è necessario: a) essere cittadino italiano
o cittadino di uno Stato membro della CEE o di uno Stato con cui esiste trattamento di reciprocità; b) non
avere riportato condanne penali passate in giudicato per delitti che comportino l'interdizione dalla
professione; c) essere in possesso della abilitazione all'esercizio della professione; d) avere la residenza in
Italia o, per cittadini italiani residenti all'estero, dimostrare di risiedere all'estero al servizio, in qualità di
psicologi, di enti o imprese nazionali che operino fuori del territorio dello Stato.
Art. 8: modalità di iscrizione all’albo: per l'iscrizione all'albo l'interessato inoltra domanda in carta da bollo,
al consiglio regionale o provinciale dell'ordine, allegando il documento attestante il possesso del requisito di
cui alla lettera c) dell'articolo 7, nonché le ricevute dei versamenti della tassa di iscrizione e della tassa di
concessione governativa nella misura prevista dalle vigenti disposizioni per le iscrizioni negli albi
professionali. Inoltre, i pubblici impiegati debbono provare se è loro consentito l'esercizio della libera
professione.
Art. 9: iscrizione: il consiglio regionale o provinciale dell'ordine, di cui al precedente articolo 8, esamina le
domande entro due mesi dalla data del loro ricevimento.
Art. 10: anzianità di iscrizione nell’albo: l'anzianità di iscrizione è determinata dalla data della relativa
deliberazione. L'iscrizione nell'albo avviene secondo l'ordine cronologico della deliberazione. L'albo reca un
indice alfabetico che riporta il numero d'ordine di iscrizione. L'albo contiene per ciascun iscritto: cognome,
nome, luogo e data di nascita e residenza, nonché, per i sospesi dall'esercizio professionale, la relativa
indicazione.
Art. 11: cancellazione dall’albo: il consiglio regionale o provinciale dell'ordine, d'ufficio o su richiesta del
pubblico ministero, pronuncia la cancellazione dall'albo: nei casi di rinuncia dell'iscritto; nei casi di esercizio
di libera professione in situazione di incompatibilità; quando sia venuto a mancare uno dei requisiti di cui alle
lettere a), b) e d) dell'articolo 7, salvo che, nel caso di trasferimento della residenza all'estero, l'iscritto venga
esonerato da tale requisito. Il consiglio anzidetto pronuncia la cancellazione dopo aver sentito l'interessato,
tranne che nel caso di irreperibilità o in caso di rinuncia dell’iscritto.

Decreto Legislativo n.196/2003: riguarda la protezione dei dati personali. In particolare, garantisce che il
trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità di
tutti e mira a garantire e tutelare il diritto alla riservatezza, all’identità personale e soprattutto alla protezione
dei dati personali (deve essere fatta firmare l’informativa sulla privacy e il consenso al trattamento dei dati).

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