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Risposta domande Tecnologia Meccanica

1) Produzione manifatturiera.
La produzione manifatturiera, o per parti, interessa una ampia gamma di prodotti di
largo consumo.
Ciascun prodotto è un insieme di un numero finito e discreto di componenti (le
parti). Alla fine è possibile tornare dal prodotto ai componenti e questo è ciò che la
differenzia dalla produzione per processo (percorso a ritroso). Si compone di due
fasi:
 Fabbricazione: insieme di lavorazioni (=processi=trasmormazioni) che
modificano la forma, la dimensione e lo stato superficiale della singola parte.
 Assemblaggio: dopo la fabbricazione, le parti lavorate saranno destinate ad
una serie di operazioni di montaggio per formare un assieme che prende il
nome di sottoassemblato (motore termico) o di assemblato (orologio)
2) Ciclo di realizzazione del prodotto.
Il ciclo inizia con una indagine di mercato o da un ordine del cliente (commessa).
INPUT
Successivamente si elabora un progetto preliminare per studiarne la fattibilità con
un occhio al fine vita, dopodiché, nel caso di conferma, si esegue un progetto
dettagliato con tanto di disegno dettagliato.
Il ruolo del tecnologo si trova dopo la progettazione dettagliata, esso si occuperà
della scelta e della pianificazione del processo produttivo.
In cascata avverrà la progettazione del sistema produttivo (tiene conto dei volumi di
produzione) e la programmazione della produzione (fabbricazione e assemblaggio).
Il ciclo termina con la fase di deproduzione (rilavorazione, riuso, riciclo) che tiene
conto del fine vita del prodotto.
L’approccio al ciclo può essere sia di tipo sequenziale ( L’output di una fase è l’input
della fase successiva, maggiori costi per tornare in dietro nelle fasi) oppure di tipo
simultaneo (lavoro in team, più costo in fase di progettazione ma evita sprechi).

3) Processi fondamentali di fabbricazione nel settore meccanico.


I processi fondamentali si dividono in processi di formatura, di giunzione e di
finitura.
 I processi di formatura si suddividono in 3 classi di procedimenti principali:
 La prima è quella del consolidamento da liquido (fonderia, tipo acciai)
o da polveri (metallurgia delle polveri o sinterizzazione), nella quale
rientrano i processi in cui si parte da un materiale privo di forma
(liquido o polvere) che viene trasformato in una parte con forma
prossima o coincidente a quella finale tramite formazione di legami
atomici (near net-shape=vicino alla forma finale), si ha un numero
limitato di processi successivi.

 La seconda classe è quella delle lavorazioni per deformazione plastica,


in cui la forma finale si ottiene imponendo al grezzo di partenza delle
deformazioni in campo plastico, quindi oltre il campo elastico e prima
della rottura. I legami atomici si rompono avviene lo scorrimento delle
strutture cristaaline e poi si riformano. Si prestano maggiormente i
materiali duttili, mentre quelli fragili sono poco adatti. Si conservano il
volume e la massa.
 La terza classe è quella della rimozione di materiale, composta
principalmente dai processi di tornitura (pezzi assial-simmetrici),
fresatura (per superfici piane, spesso su forme prismatiche) e foratura
(sia su pezzi assial-simmetrici che prismatici). In tali processi la forma
finale si ottiene rimuovendo dal semilavorato il materiale in eccesso
rompendo legami atomici. Nell’asportazione di truciolo ciò si ottiene
tramite moti relativi controllati (i moti indesiderati vanno minimizzati o
eliminati quando possibile) tra utensile e materiale.
 Nei processi di giunzione si ottiene mediante saldatura (autogena o
eterogena, quella autogena è migliore perché stesso materialemaggiore
omogeneità), incollaggio o collegamento tramite elementi meccanici, quindi si
parla di collegamenti permanenti.
 I processi di finitura servono per eliminare le irregolarità superficiali dei pezzi
lavorati e si fanno solo quando strettamente necessari per non aumentare
troppo i tempi e i costi. Si punta ad ottenere la parte con le caratteristiche
richieste nel minor tempo e col minor costo possibile. Sono processi di varia
natura: meccanica, chimica, …
Esistono poi le lavorazioni non convenzionali, in cui l’energia richiesta è generata
usando in modo non convenzionale le sorgenti. Alcune di esse sono molto utilizzate.
Una frontiera recente è quella della manifattura additiva (additive manufacturing),
in cui, in contrasto con la più tradizionale manifattura sottrattiva, si realizzano
prodotti generando e sovrapponendo strati di materiale. I vantaggi son quelli di
ottenere meno sfrido (meno spreco) e di ottenere forme più complesse contenendo
costi e prezzi rispetto alle tecnologie tradizionali.
4) Relazione tra processi e materiali.
Non tutti i processi sono adatti per tutti i materiali, ad esempio le lavorazioni alle
macchine utensili vanno bene per tutto tranne che per i compositi (vedi tabella). La
scelta del processo dipende dal materiale dell’oggetto che verrà processato.

5) Principali caratteristiche di processo.


Le principali caratteristiche di processo sono la geometria, le proprietà meccaniche,
le tolleranze e le finiture superficiali, la produttività, i fattori umani e i fattori
ambientali.
 Geometria: ogni processo permette di ottenere determinate caratteristiche
geometriche, pertanto bisogna scegliere il processo giusto o combinare più
processi (cosa che fa aumentare i tempi e i costi). Ad esempio con la fonderia
si ottengono forme anche molto complesse.

 Proprietà meccaniche: dipendono sia dalla composizione chimica che dai


trattamenti e processi produttivi. A parità di materiale si possono ottenere
proprietà differenti a seconda del processo produttivo. La fonderia permette
di ottenere proprietà meccaniche medio-basse, ma forme anche complesse; la
fucina (deformazioni plastiche) permette di ottenere elevate proprietà
meccaniche (incrudimento), ma forma poco complesse; l’asportazione di
truciolo è neutra nei confronti della variazione delle proprietà meccaniche.
 Tolleranze e finiture superficiali: servono per assicurare le tolleranze e le
rugosità. I processi di fonderia non brillano sotto questo punto di vista (per via
del ritiro, delle soffiature, … si prevede il sovrametallo). Le lavorazioni per
asportazione di truciolo permettono di ottenere diversi livelli di tolleranze e di
finiture (dalla sgrossatura alla rettifica), pertanto sono versatili. Per le
lavorazioni per deformazione plastica bisogna distinguere tra lavorazioni a
caldo e a freddo. Le prime possono portare a ossidazione e ad altri fenomeni,
quindi le tolleranze sono large e le finiture scadenti. Le seconde permettono
di avere tolleranze strette e finiture superficiali spinte.

 Produttività/tasso o velocità di produzione: si misura in [parti/h] e si cerca di


avere una produttività elevata, ma ogni processo ha la sua produttività.

 Fattori umani: la tendenza è quella all’automatizzazione, ma a volte non è


possibile e altre volte non conviene, in questi casi serve manodopera
qualificata.

 Fattori ambientali: bisogna scegliere i processi considerando il loro impatto


ambientale, che varia da processo e processo. Si parla di green
manufacturing, per la quale un processo deve essere sostenibile da un punto
di vista ambientale, economico e sociale.
6) Elementi che concorrono alla realizzazione di un processo.
Un processo ha degli ingressi (input) e delle uscite (degli output).
Tra gli input si hanno informazioni (caratteristiche sul ciclo di fabbricazione e
volume di produzione), materiali [grezzi o semilavorati più altri materiali come
liquidi lubrificanti o di raffreddamento], energia e risorse  [macchine,
manodopera e utensili].
Tra gli output figurano materiali [semilavorati o prodotti finiti, così come sfridi,
ovvero materiale non riutilizzabile frutto della lavorazione, e scarti, ovvero parti
lavorate che non soddisfano i requisiti di progetto ma rilavorabile (si vuole un basso
tasso di scarto)], energia (recuperabile con liquido di raffreddamento o persa, come
il calore generato per attrito) e informazioni [feedback sul processo(cambio
utensile) e informazioni inserite nell’oggetto].
7) Sistema tecnologico per la realizzazione del processo.
Si compone di parte grezza o semilavorato, macchinario, attrezzatura e utensili.
L’attrezzatura serve per evitare movimenti indesiderati che potrebbero
compromettere la lavorazione (staffe di bloccaggio o tavole portapezzo).
8) Trasformazione (processo) ideale.
Un processo produttivo è una variazione nel tempo di una o più proprietà di una
parte, è quindi una trasformazione. Una trasformazione è ideale quando sia lo stato
iniziale che quello finali sono noti con certezza, quindi la stessa trasformazione nelle
stesse condizioni produce gli stessi risultati. [grafico stato iniziale-finale noti con
certezza].
9) Trasformazione (processo) reale.
Una trasformazione reale è influenzata da fenomeni non controllabili (disturbi) che
fanno sì che il risultato finale, data una certa condizione inziale, vari in un intervallo,
si parla pertanto di variabilità del risultato. Inoltre lo stato inziale non è noto con
certezza, pertanto si ha un’incertezza ancora maggiore sul risultato finale che fa
aumentare la variabilità del risultato. Tutto ciò va ad influenzare
l’accuratezza=accuracy del processo, che è pertanto influenzata dalla variabilità
dello stato iniziale e dai disturbi. Una migliore variabilità del risultato corrisponde ad
una maggiore precisione, ma non è facile da ottenere poiché intervenire sui disturbi
è difficile e costoso. [grafico variabilità stato iniziale e finale, disturbi]
10) Condizione per la corretta esecuzione di una trasformazione (processo).
Alla luce di quanto visto per una trasformazione reale, le specifiche di un prodotto
vanno definite in fase di progettazione all’interno di un intervallo di tolleranza e si
considera un processo eseguito correttamente se la variabilità del risultato è più
piccola dell’intervallo di tolleranza e compresa nell’intervallo stesso. [grafico
intervallo di tolleranza – variabilità stato finale].
11) Miglioramento del processo (trasformazione).
Un processo errato produce scarti e deve essere migliorato. L’obiettivo è quello di
fare in modo che la variabilità del risultato per un determinato processo sia più
piccola dell’intervallo di tolleranza e inclusa in esso, operando per quanto possibile
opportune modifiche riguarda le operazioni da eseguire, i macchinari, gli utensili,
l’attrezzatura, … Qualora non fosse possibile operare nessuna di queste migliorie
bisognerebbe scegliere un processo più preciso.
Processi di fonderia=consolidamento da liquido Vantaggi: forme complesse
anche con cavità interne, per materiali non lavorabili in altro modo, vantaggio
economico; svantaggi: scarse proprietà meccaniche, elevata porosità (quindi minor
sezione resistente) per soffiature, bassi livelli di tolleranze e finitura (ritiro),
problematiche ambientali (temperature e fumi). Si ottengono parti semplici come
pani e lingotti o complicate come i getti.
12) Forma.
La forma è la cavità all’interno della quale si versa il metallo fuso ed è la parte più
importante. Rappresenta il negativo del pezzo da realizzare e si dimensiona tenendo
conto del ritiro del fuso. Può essere fatta di diversi materiali, a patto che la loro T di
fusione sia maggiore di quella del materiale da lavorare. Può essere aperta, se una
superficie è a diretto contatto con l’ambiente (tipo lingottiera), o chiusa (per forme
più complesse come i getti), se non ha nessun contatto con l’ambiente, ma è tuttavia
presente un sistema di colata. Contiene le eventuali anime per formare cavità
all’interno del getto.
13) Classificazione dei processi di fonderia in base al tipo di forma.
Si dividono in processi in forma transitoria e processi in forma permanente.
 Nei processi in forma transitoria alla fine del processo (fuso solidificato e a T
ambiente) l’estrazione si realizza distruggendo la forma, la quale è pertanto
monouso e quindi il processo è indicato nel caso di bassi volumi di produzione
La forma transitoria si ottiene compattando il materiale (sgretolabile) della
forma stessa attorno ad un opportuno modello col giusto dimensionamento.
Si usano diversi tipi di materiali per forma e modello. La fonderia in terra, in
cui si usano l’argilla come legante e la sabbia silicea come refrattario, è
l’esempio più comune di processo di fonderia in forma transitoria.
 Nei processi in forma permanente si usa una sola forma per un numero
elevato di getti della stessa tipologia. La forma permanente si realizza
principalmente in leghe metalliche (costruite mediante macchine CNC) e ha
un alto costo, da distribuire però su un elevato numero di getti prodotti
(vantaggioso per produzioni a lotti o di massa). L’esempio più comune è la
fonderia in conchiglia, nella quale è anche possibile mettere il fuso in
pressione a differenza della fonderia in forma transitoria, cosa che permette
di ottenere vantaggi e migliorie come un minor tempo di colata, la riduzione
delle soffiature e la rottura delle strutture dendritiche, quindi più nuclei,
quindi grani più piccoli e quindi una maggiore resistenza meccanica.
14) Scelta del processo di fonderia.
la scelta del processo di fonderia dipende dalle caratteristiche della parte come:
 le dimensioni;
 la complessità della forma; sottosquadri risolvibili con modelli a perdere
 le proprietà meccaniche; (utilizzo di forma permanente nel caso di colate in
pressione)
 le finiture superficiali e le tolleranze; (diverse a seconda che sia una forma
permanente in lega, rifinita oppure terra da fonderia)
 il materiale; (leghe metalliche con diverse fluidità)
 il volume di produzione;
 costi.
15) Fasi del ciclo di fabbricazione dei getti.
1. Allestimento del modello (solo per i processi in forma transitoria, per quelli in
forma permanente si lavora un blocco di partenza per ottenere la forma)
2. Allestimento delle anime (così da avere cavità interne se necessarie)
3. Preparazione della forma
4. Fusione della lega metallica
5. Colata del fuso nella forma, evitando solidificazioni premature
6. Raffreddamento e solidificazione del fuso, fase importante perché in genere
le parti ottenute di fonderia non subiscono trattamenti termici poiché la
fonderia genera gas imprigionati nel materiale che ad alte temperature si
espanderebbero più del metallo generando cricche, pertanto le proprietà
meccaniche desiderate vanno ottenute durante il processo in fase di
solidificazione, non potendo poi essere corrette a posteriori 
7. Estrazione del getto
8. Finitura del getto, in particolare finiture superficiali e rimozione di appendici
quali la materozza e l’appendice in corrispondenza del canale di colata.

16) Modello.
Viene utilizzato solo nei processi in forma transitoria per ottenere la forma
mediante il processo di formatura (formatura = compattazione del materiale della
forma attorno al modello), processo eseguito con sistemi meccanici in ambito
industriale. Il modello può essere permanente (si riutilizza tante volte quante sono i
getti da ottenere, getti uguali tra loro) o transitorio (a perdere). In caso di modello
transitorio per ogni forma serve un modello diverso e quindi per ogni pezzo serve
una forma diversa. Trattandosi di processi in forma transitoria, ogni pezzo richiede
una forma diversa ottenuta a sua volta con un modello utilizzato una singola volta
perché verrà distrutto . Il modello va realizzato partendo dal disegno del pezzo
considerando aspetti importanti come: il materiale, il sovradimensionamento, il
piano di divisione, gli angoli di sformo, i raccordi e i sottosquadri.
17) Materiali per modelli permanenti e transitori.
Per i modelli transitori si usano la cera, la quale si liquefa scaldandola prima della
colata (serve un forno), o le schiume polimeriche (come il polistirene espanso), in
tal caso si cola il fuso quando è ancora presente il modello nella forma, il quale viene
vaporizzato dal fuso stesso, bisogna però stare attenti poiché i gas derivanti da tale
processo possono contaminare il fuso. Per i modelli permanenti si utilizzano acciaio,
ghisa, alluminio, legno o plastica. Ciascun materiale presenta caratteristiche diverse
di lavorabilità, proprietà meccaniche, peso, riparabilità e resistenza in acqua a usura,
corrosione e rigonfiamento. La plastica, ad esempio, non è scarsa sotto nessun
punto di vista, mentre il legno si usura e si rigonfia in acqua.
18) Tipi di modelli permanenti.

Vale quanto detto prima, per ulteriori dettagli si consulti la tabella riportata sotto.

19) Sovradimensionamento del modello.


Si rende necessario per tener conto del ritiro volumetrico del fuso maggiorando
complessivamente le dimensioni del modello. L’obiettivo è quello di ottenere il
getto con le dimensioni desiderate al termine del raffreddamento (ovvero in
seguito al ritiro da liquido, durante la solidificazione e da solido). L’entità del
sovradimensionamento dipende dall’entità del ritiro, ad esempio se si aumenta la T
di colata significativamente al di sopra della T di fusione (surriscaldamento) da una
parte si ha un maggior ritiro fino a T ambiente, dall’altra ci si tutela dalla
solidificazione prematura, quindi bisogna trovare il giusto compromesso tra le due
necessità, tenendo anche conto dei costi.
Il sovradimensionamento Non deve essere confuso col sovrametallo (o
sovraspessore), il quale, è previsto solo per determinate superfici e permette di fare
ulteriori lavorazioni di rifinitura per asportazione di truciolo col fine di migliorare le
finiture e le tolleranze dei pezzi ottenuti per fonderia, le quali sarebbero altrimenti
in genere poco soddisfacenti. il sovrametallo comporta uno spreco di materiale e un
maggior numero di lavorazioni necessarie, con conseguente aumento del tempo di
lavorazione, dell’usura degli utensili e quindi dei costi. Il sovrametallo è influenzato
dalle dimensioni delle superfici interessate, dal materiale, dalla qualità richiesta e
dal tipo di operazione di formatura. Per questo motivo anche la quantità di
sovrametallo deve garantire il compromesso tra sprechi e margine di sicurezza( per
far fronte a possibili errori su ritiri imprevedibili)
20) Piano di divisione del modello.
Nel caso di modelli scomponibili, ovvero composti da 2 semi-modelli il cui piano di
divisione è detto piano di sformatura. Pertanto bisogna individuare il piano più
adatto per evitare il danneggiamento della forma durante la sformatura=estrazione
del modello. Vengono previsti dei riferimenti per ricomporre il modello. Talvolta si
utilizzano semi-modelli su placche metalliche e si parla allora di placche modello. Le
placche modello doppie presentano i 2 semi-modelli sulle superfici opposte di una
stessa placca, le placche modello semplici presentano i 2 semi-modelli su 2 placche
diverse. L’uso di placche modello velocizza il processo e permette l’impego in
processi formatura meccanici, nei quali sono in gioco pressioni elevate e pertanto si
rende necessario l’utilizzo del metallo. Comportano un aumento iniziale dei costi, il
quale viene però giustificato dai tempi di lavorazione minori.
21) Angoli di sformo del modello.
Il pezzo potrebbe presentare superfici perpendicolari al piano di divisione, ovvero
parallele alla direzione di estrazione del modello durante la sformatura e pertanto la
terra della forma potrebbe venire trascinata durante tale processo modificando la
forma in modo inaccettabile. La soluzione è inclinare le superfici parallele alla
direzione di estrazione di un opportuno angolo di sformo. Il vantaggio è quello di
facilitare l’estrazione del modello. Lo svantaggio è quello di modificare la geometria
finale del getto rispetto a quella del pezzo da realizzare utilizzando materiale in più e
richiedendo ulteriori lavorazioni, per questa ragione l’angolo di sformo deve essere
pari al minimo necessario, pur avendo un’entità variabile, comunque ≥1° in genere.
Per ridurre l’angolo di sformo occorre ridurre l’attrito, ad esempio con modelli in
legno verniciati, modelli metallici, modelli precisi e con finiture superficiali accurate
o modelli lubrificati (una parte del lubrificante resta sulla parete della forma e può
pertanto contaminare il fuso, impedendo pertanto di ottenere proprietà meccaniche
eccelse).
22) Raccordi del modello.
Il pezzo potrebbe avere degli spigoli vivi, pertanto dovrebbe averli anche la forma e
quindi il modello. Una forma con spigoli vivi potrebbe essere erosa dal fuso e si
avrebbe in ogni caso un arrotondamento della forma con inoltre inclusioni non
metalliche nel gettodiscontinuità e difetti, pertanto nel modello gli spigoli sono
sostituiti da raggi di raccordo di valore opportuno. Lo spigolo vivo nel pezzo si
otterrà successivamente per asportazione di truciolo grazie al sovrametallo che
dovrà pertanto essere previsto, come nel caso degli angoli di sformo.
23) Sottosquadri e loro risoluzione nel caso di forme transitorie.
Un sottosquadro è una superficie del modello che determina un danneggiamento
della forma durante la sformatura portando via la terra che la costituisce e di
conseguenza modificando la geometria. I sottosquadri devono essere evitati con
opportuni accorgimenti, i quali spesso comportano un eccesso di materiale da
utilizzare nella colata. Tali accorgimenti, in ordine di priorità decrescente poiché via
via più gravosi da eseguire, sono la scelta di un opportuno piano di formatura, la
modifica del disegno del getto, l’uso di anime esterne e l’uso di semi-modelli
scomponibili. La scelta di un opportuno piano di formatura è un intervento poco
gravoso quando possibile, ma deve essere accompagnata dalla presenza di
opportuni raccordi e angoli di sformo. La modifica del disegno del getto, qualora si
rendesse necessaria, deve essere accettata dal progettista; col processo di
concurrent engineering tale problema potrebbe essere evitato a monte. La terza
opzione è l’utilizzo di anime esterne (o tasselli), al quale si deve accompagnare la
presenza di portate d’anima sui semi-modelli. L’ultima opzione, più complessa e
onerosa, è l’uso di semi-modelli scomponibili, nei quali le parti in sottosquadro del
semi-modello possono essere separate dalla parte restante, la quale viene estratta
normalmente durante la sformatura, mentre le parti rimovibili, rimaste nella forma,
vengono estratte manualmente con un’operazione delicata e costosa.
24) Anime.
Per realizzare nel getto cavità non ottenibili con il modello. Possono essere
transitorie (a perdere), in tal caso si ottengono costipando terra da fonderia in
forme cave dette casse d’anima, oppure permanenti (riutilizzabili), in tal caso si
ottengono mediante lavorazioni per asportazione di truciolo di metalli. Le anime
devono essere cedevoli al ritiro del metallo per non indurre forti tensioni interne nel
getto, le quali potrebbero generare cricche, ovvero devono consentire il ritiro. Per
le forme transitorie si usano solo anime transitorie, per le forme permanenti si
possono usare sia anime a perdere che permanenti (sicuramente permanenti se la
colata è sotto pressione). Le anime transitorie non si devono comunque rompere né
durante le manipolazioni né per effetto delle spinte metallostatiche e in certi casi
vengono rafforzate con opportune armature.
25) Portate d’anima.
Le portate sono incavi ricavati nella forma per sorreggere le anime. La loro
lunghezza deve essere tale che le spinte metallostatiche non generino una pressione
tale da indurre deformazioni. Le portate d’anima devono essere previste già a
partire dal modello e la loro lunghezza (intesa come profondità dell’incavo che le
costituisce) deve essere ≥ del diametro dell’anima.
26) Tipi di anima. Le anime come già detto possono essere transitorie o permanenti
in base alla loro durata. In base alla funzione svolta possono poi essere divise in
anime interne ed esterne. Le anime interne sono supportate alle 2 estremità e la
lunghezza della portata d’anima deve essere maggiore o uguale al diametro
dell’anima. Si usano per i fori passanti. Le anime esterne (o tasselli) sono supportate
su una sola estremità e la lunghezza della portata d’anima deve essere tale che il
baricentro dell’anima si trovi nella zona di appoggio col fine di ridurre le possibilità
di spostamento. Si usano per i fori ciechi e per risolvere il problema dei sottosquadri.
L’alternativa all’uso delle anime sarebbe la realizzazione delle cavità con lavorazioni
successive per asportazione di truciolo.
27) Dimensionamento delle anime.
L’anima deve essere più lunga delle superfici cave da ottenere per prevedere le
portate d’anima. Riguardo al diametro bisogna tener conto del ritiro del materiale.
Si hanno deformazioni radiali che portano alla riduzione dello spessore
dell’elemento tubolare, ovvero il raggio esterno diminuisce mentre il raggio interno
aumenta. Si hanno inoltre deformazioni circonferenziali che portano ad una
riduzione generalizzata sia del raggio interno che del raggio esterno.
Per le dimensioni dell’anima si fa riferimento all’andamento del raggio interno, il
quale aumenta per le deformazioni radiali e diminuisce per le deformazioni
circonferenziali dovute al ritiro, pertanto bisogna valutare quale contributo prevale.
a) Per pareti spesse (cioè quando Re>>Ri) prevale il contributo radiale e pertanto
il raggio interno tende ad aumentare, quindi per il raggio dell’anima deve
valere RA<Ri per ottenere alla fine la cavità con le dimensioni volute.
b) Per parete sottili (cioè quando Re≈Ri) prevale il contributo circonferenziale e
pertanto il raggio interno tende a diminuire, quindi deve valere RA>Ri.
In casi particolari i due contributi possono controbilanciarsi e pertanto il raggio
dell’anima può essere uguale al raggio interno desiderato, ma sono casi rari. In
genere in fonderia si hanno parti con pareti sottili poiché in tal modo si ottengono
grani più piccoli e pertanto prevalgono gli effetti circonferenziali e le anime vanno
sovradimensionate rispetto al diametro interno desiderato.
28) Inflessione delle anime.
Nei casi in cui il diametro dell’anima non sia sufficientemente grande per resistere
alla spinta metallostatica esercitata dal fuso l’anima potrebbe subire una
inflessione. Dal momento che il diametro dell’anima non può essere cambiato
poiché dipende dalle dimensioni del foro che si vuole ottenere, una soluzione
possibile è quella di cambiare il piano di divisione del modello e quindi cambiare
l’orientazione dell’anima ponendola in verticale invece che in orizzontale, cosa che
permette di ridurre la spinta metallostatica e quindi le possibilità di rottura. Tale
operazione potrebbe comportare ulteriori modifiche, come ad esempio nuovi angoli
di sformo.
29) Allestimento della forma.
La procedura differisce in base al tipo di forma.
Per forme transitorie avviene compattando il materiale da usare attorno al modello
(formatura), per forme permanenti avviene con operazioni di rimozione per
asportazione di truciolo su blocchi metallici. Le forme permanenti sono anche
chiamate conchiglie poiché formate da due parti apribili chiamate semi-conchiglie.
L’allestimento della forma presenta le stesse problematiche viste per i modelli nel
caso di forme transitorie, in cui queste problematiche vengono considerate già con
l’elaborazione del modello, mentre per le forme permanenti vengono trattate
direttamente nella progettazione della forma. Bisogna dunque considerare il
sovradimensionamento per il ritiro, il sovraspessore per ulteriori lavorazioni, gli
angoli di sformo e i raccordi (anche nelle forme gli spigoli vivi sono un problema
poiché sono punti che favoriscono l’innesco di cricche durante il raffreddamento), le
portate d’anima e i sottosquadri (nelle forme permanenti il sottosquadro è una
superficie che impedirebbe l’estrazione del pezzo).
La fase di allestimento della forma deve prevedere la presenza del sistema di colata
e quella delle materozze.

30) Fusione.
I solidi metallici hanno una struttura cristallina con legame metallico in cui gli atomi
hanno posizioni precise. Allo stato liquido si perde l’ordine a lungo raggio, mentre
permane l’ordine a corto raggio (alcuni atomi), il che è un fattore positivo per la
nucleazione durante la solidificazione. Il passaggio dallo stato solido allo stato
liquido, chiamato fusione, avviene a T costante per i metalli puri e per le leghe
eutettiche, mentre avviene con variazione di temperatura per leghe con
composizione non eutettica.
Il calore totale per portare una massa di metallo puro a fusione è dato dalla somma
del calore per portare il metallo alla T di fusione e del calore latente di fusione:
Q= ρV [c s ( T f −T amb )+ Qf ], dove cs=calore specifico allo stato solido, Qf=calore latente di
fusione.
Ogni metallo puro ha la sua T di fusione, 3410°C per il tungsteno, 1539°C per il ferro
e 660°C per l’alluminio ad esempio, mentre per le leghe come gli acciai essa dipende
dalla composizione e la minor T di fusione possibile si ha per le composizioni
eutettiche, quando presenti. In genere i metalli puri con T di fusione maggiore
hanno un minore calore latente di fusione. Se si somministra solo il calore calcolato
in precedenza potrebbe tuttavia aver luogo una solidificazione prematura, pertanto
si aggiunge un’ulteriore quantità di calore per avere surriscaldamento, pertanto il
calore reale totale è:
Q=Q=ρV [c s ( T f −T amb ) +Qf + c L ( T sur −T f ) ], dove cL=calore specifico allo stato liquido e
Tsur=T di surriscaldamento.
Più è alta la T di surriscaldamento più ci si cautela dalla solidificazione prematura,
ma aumentano il ritiro volumetrico fino alla T ambiente e i costi e si riduce la
permanenza dell’ordine atomico a corto raggio riducendo il numero di siti di
nucleazione durante la solidificazione. Va inoltre riportato che l’espressione
considerata è approssimata, infatti il calore specifico e la densità variano con la
temperatura e con lo stato fisico del materiale. Per le leghe si può in prima
approssimazione considerare che il calore totale da fornire si una media pesata dei
calori da fornire ai suoi costituenti considerati singolarmente. La variazione della
temperature nelle leghe con composizione non eutettica dipende dagli elementi e
dalla composizione.
31) Elementi del sistema di colata e loro funzione.
La colata del fuso nella forma avviene attraverso un apposito sistema di colata
costituito dal bacino di colata, dal canale di colata, dal canale di alimentazione e
dagli attacchi di colata. Il sistema deve assicurare il veloce riempimento della forma
evitando forti abbassamenti di T, l’erosione di forma e anime e il trascinamento di
aria, impurità, inclusioni e ossidi.
32) Bacino di colata.
Il bacino di colata accoglie il fuso versato dalla siviera nel sistema di colata ed è
sagomato in modo da assicurare un flusso tranquillo del fuso nel canale di colata.
Presenta sistemi che trattengono le scorie galleggianti in superficie (ossidi e
impurità) e le inclusioni che si raccolgono sul fondo, si parla di ferma-scorie
(creazione di un vortice nel bacino di colata) o filtri.

33) Calcolo della velocità alla base del canale di colata.


Il canale di colata trasforma l’energia potenziale del fuso in energia cinetica e le su
dimensioni si calcolano supponendo il fuso incomprimibile. Dalla continuità e
dall’incomprimibilità A1v1=A3v3, mentre dal teorema di Bernoulli si avrà
ρ v 21 ρ v2
p1 + + ρg h1= p3 + 3 + ρg h3+ f , con f=energia persa per attrito con le pareti per unità
2 2
di volume. Nel caso in cui le pareti siano impermeabili e p 1=p3=patm (processo non
sotto pressione), ipotizzando che ρ e hc siano costanti, trascurando le perdite e
2
ρ v3
considerano v1=0 (fuso in quiete) e h3=0 si ottiene ρg h1= , pertanto
2
v3 =√ 2 g h1= √ 2 g ht = velocità alla base di colata.

34) Tempo di riempimento della forma. Alla luce della velocità alla base di colata
calcolata prima, il tempo di riempimento della forma è :
V V V V
t RF = = = =
Q Q3 A 3 v 3 A 3 √ 2 g h 1 , con V=volume della forma.
Nell’ottenere tale formula si considera che nelle canalizzazioni orizzontali (canale di
alimentazione e attacchi di colata) la portata sia uguale a quella alla base del canale
di colata e inoltre il tempo di riempimento della forma risulta approssimato per
difetto (più breve che in realtà) poiché si trascurano le perdite per attrito.

35) Problemi di aspirazione nel sistema di colata.


Se il canale di colata è cilindrico A2=A3 quindi v2=v3, pertanto l’energia cinetica è
costante, di conseguenza poiché h2>h3 deve valere ρgh2<ρgh3. Per Bernoulli p2= p3 -
ρgh2, quindi poiché p3=patm la sezione 2 risulta essere in depressione rispetto
all’ambiente e se la forma è transitoria e quindi porosa il fuso include aria
dall’esterno. Pertanto è necessario sagomare opportunamente il canale di colata
per evitare che si formino bolle nel fuso, che i gas disciolti si liberino poi durante il
raffreddamento e che fuso e aria reagiscano formando ossidi e scorie. Si vuole fare
in modo che p2=p3=patm, pertanto deve valere dal teorema di Bernoulli

( )
2 2 2
v2 v v 2 gh
+ g h 2= 3 → 2 =1− 2 2 . Per la continuità v2/v3=A3/A2=R, quindi v2=Rv3 e
2 2 v3 v3
2 2 g h2
sostituendo si ottiene R =1− 2 .
v3

( h ¿ ¿ t−hc )
v3 =√ 2 g ht , quindi
2
Vale h2=ht-hc e R =1−2 g
2 g ht
¿ e di conseguenza

R=
√ hc A 3
= .
ht A 2

R rappresenta pertanto il rapporto tra le aree che permette di prevenire


l’aspirazione nella sezione 2. Bisogna poi ripetere la procedura per tutte le sezioni
comprese tra 2 e 3, ottenendo una forma del canale a tronco di cono.
36) Canale di alimentazione e attacchi di colata.
Il canale di alimentazione si trova alla base del canale di colata per distribuire il fuso
nella cavità attraverso gli attacchi. Ha una sezione maggiore di quella del canale di
colata e spesso ha una forma che rallenta e addolcisce il flusso del fuso. Se possibile
ha un’estremità che funge da trappola per le inclusioni oltre l’ultimo attacco. I
vantaggi sono un miglior modello di distribuzione, minori turbolenze e minori
riduzioni di T, nonché il trattenimento delle impurità.
Gli attacchi di colata collegano il canale di alimentazione alla cavità e presentano
sezioni ridotte agli attacchi con la cavità col fine di agevolare la separazione del
getto solidificato e di strozzare il flusso del fuso. Di solito il sistema di colata
prevede tutte le parti elencate finora, ma a volte mancano le canalizzazioni
orizzontali, pertanto il fuso entra nella forma direttamente dal canale di colata, ma
ciò è possibile solo per metalli poco ossidabili e che tendono poco a introdurre gas.
Qualora fosse possibile si avrebbero una riduzione dei costi e un aumento della
produttività.
37) Colata del fuso nella forma.
Si tratta di un’operazione complessa poiché la Temperatura si riduce molto al
contatto con le pareti della forma e pertanto le caratteristiche fluidiche variano nel
tempo in uno stesso punto , e da punto a punto nello stesso istante di tempo. Le
caratteristiche fluidiche sono: viscosità, tensione superficiale e fluidità.
38) Fluidità.
La fluidità è l’attitudine del fuso a riempire completamente e correttamente la
forma senza creare difetti. Si tratta di una caratteristica complessa che dipende:
 dal grado di surriscaldamento: La T iniziale è il fattore predominante poiché
determina la quantità di calore ceduto dal fuso prima di iniziare a solidificare,
pertanto se la temperatura inziale aumenta anche la fluidità aumenta, così
come l’indice di fluidità perché più è alta la temperatura iniziale del fuso e
minore sarà il raffreddamento del fuso nel tragitto lungo il sistema di colata.
tuttavia si perde l’ordine atomico a corto raggio e con esso dei siti di
nucleazione

 dalla composizione chimica del metallo versato: Il discorso è valido per ogni
metallo, ma l’entità della fluidità e della sua variazione dipendono dallo
specifico metallo (composizione chimica). Per le soluzioni solide(leghe) la
fluidità è minore rispetto ai metalli puri e alle leghe eutettiche. Le soluzioni
solide con un ampio ΔT di solidificazione sono caratterizzate da bassa fluidità.

 Dalla forma (geometria, materiale e temperatura iniziale della forma). La


forma influenza la fluidità in base al materiale, alla temperatura e alla
geometria. Per quanto riguarda il materiale, a seconda che siano forme
transitorie o permanenti la conducibilità termica delle forme varia; le terre da
fonderia delle forme transitorie hanno una bassa conducibilità termica,
pertanto il fuso trattiene maggiormente il calore e quindi ha un maggiore
indice di fluidità, mentre i metalli delle forme permanenti hanno un’alta
conducibilità termica e assorbono dunque velocemente il calore del fuso, il
quale si solidifica quindi velocemente, pertanto si ha un minore indice di
fluidità. Considerando la T inziale della forma, una T
bassa comporta un maggiore gradiente di T rispetto al fuso e dunque un
maggiore e più rapido scambio termico, ovvero un maggior raffreddamento
del fuso e una maggiore riduzione della fluidità. Per questa ragione le forme
inizialmente non sono mai a Tamb, bensì le si preriscalda così da rallentare il
raffreddamento e aumentare l’indice di fluidità.
Per quanto concerne la geometria
della forma bisogna distinguere tra pareti massicce e sottili. Le pareti sottili
scambiano calore più velocemente poiché hanno un piccolo spessore a parità
di superficie di contatto, dunque convengono pareti massicce per rallentare
lo scambio termico e mantenere un elevato indice di fluidità.

Bassa fluidità difetti nel getto: riprese di colata (o a caldo), ovvero in una
zona il fuso solidifica prima che la cavità sia completamente riempita e il fuso
ulteriormente giunto si salda formando una discontinuità = ripresa a caldo, e
mancanza di particolari per via dell’incompleto riempimento causato dalla
solidificazione prematura.
Per quantificare la fluidità si usa l’indice di fluidità[m], il quale si ottiene
misurando la lunghezza del canale percorso dal fluido in un sistema
standardizzato (canale a spirale) prima di solidificarsi (a volte si usa in
alternativa un canale rettilineo)
Pertanto si ottiene l’indice di fluidità migliore con forme transitorie in terre da
fonderia con pareti massicce e preriscaldate, ma per avere una solidificazione
migliore questa risulta invece essere la configurazione peggiore, poiché si
punta ad avere tanti grani di piccole dimensioni (e quindi servono tanti
nuclei), di conseguenza bisogna trovare un compromesso tra le due esigenze.
39) Viscosità e tensione superficiale.
La viscosità è la resistenza opposta dal liquido allo scorrimento e aumenta al
diminuire della Temperatura.
La tensione superficiale è il lavoro necessario per creare una superficie di area
unitaria a T e V costanti e aumenta al diminuire di T e al formarsi di ossidi. Se è
troppo elevata non si riesce a riempire zone con angoli acuti di piccola ampiezza.
Opera all’interfaccia liquido-solido.
40) Turbolenze.
Le turbolenze sono variazioni incontrollate di velocità e direzione del fuso. Sono
favorite da elevate velocità di colata e devono essere minimizzate per evitare
l’erosione della forma se in terra e delle anime se transitorie, così come
l’intrappolamento di gas e scorie. Possono essere quantificate attraverso il numero
ρvD
di Reynolds ℜ= η , con ρ=densità, v=velocità, D=diametro condotto e η=viscosità
della fase liquida. Si ha una maggiore tendenza alle turbolenze al crescere di Re
(Re<2000regime laminare, Re>20000forti turbolenze). Nei comuni sistemi di
alimentazione si ha 2000<Re<20000, ovvero un regime misto con turbolenze,
dovuto da una parte alla necessità di avere velocità non troppo basse per avere una
buona produttività ed evitare solidificazioni premature, dall’altra al voler evitare i
problemi connessi ad eccessive turbolenze.
41) Solidificazione.
La solidificazione è una fase importante in fonderia perché è quella in cui si
stabiliscono le proprietà meccaniche del getto (ciò significa che non c’è la possibilità
di correggere queste proprietà con trattamenti termici a causa dei gas intrappolati
nel getto).la solidificazione avviene a causa dell’aggregazione di atomi per formare
una struttura cristallina con livello energetico più basso rispetto che allo stato
liquido.
Se T>Tsol è stabile la fase liquida, se T=Tsol si ha equilibrio tra fase solida e fase liquida,
se T<Tsol è stabile la fase solida.
La trasformazione liquiso-solido avviene in 2 fasi. La prima fase è la nucleazione =
formazione di piccoli germi cristallini (nuclei=aggregati di atomi). La nucleazione può
essere omogenea, se il metallo stesso fa sì che si formino i nuclei, oppure
eterogenea, se è un’interfaccia esterna (inclusione solide o le pareti esterne) che
determina la diminuzione dell’energia di attivazione necessaria per dar luogo alla
formazione dei nuclei (a volte si usano anche degli inoculanti).
La seconda fase è la crescita dei nuclei, essa è consentita da processi attivi
termicamente (richiedono il superamento di barriere energetiche) e porta alla
formazione dei grani, la cui forma dipende da vari fattori. I grani possono infatti
essere equiassici e fini (tondeggianti) oppure grossolani e allungati, ma si cerca di
evitare questa condizione anche perché non sono possibili ulteriori trattamenti
termici per migliorare la microstruttura. La dimensione media dei grani dipende dal
numero di nuclei presenti nel liquido, e più nascono nuclei minore sarà la
dimensione dei grani . Se la velocità di nucleazione è molto maggiore di quella di
crescita la struttura si avvicina a quella di un solido amorfo, se è invece molto
minore di quella di crescita la struttura si avvicina a quella di un solido
monocristallino. Gli atomi si dispongono secondo reticoli ben precisi individuati da
un tipo di cella unitaria riconoscibile, spesso CCC, CFC o EC. Comunemente il
materiale solidificato è costituito da grani con dimensioni e forme irregolari e
orientazione casuale, si parla di solido policristallino. I singoli grani hanno proprietà
anisotrope, ma la loro distribuzione casuale fa sì che complessivamente il materiale
sia isotropo. La dimensione media dei grani (da poche unità fino a decine di micron)
dipende dal numero dei nuclei, in particolare un maggior numero di nuclei implica
minori dimensioni medie dei grani. Lo stato liquido è caratterizzato da una forte
agitazione termica che si riduce durante il raffreddamento, con una diminuzione
contestuale del volume specifico per quasi tutti i materiali tranne il bismuto. Questa
è la causa del ritiro volumetrico durante la solidificazione, il quale risulta
particolarmente significativo potendo variare da un 2,5% a un 6,5% su un 10%
relativo al raffreddamento totale.
42) Sottoraffreddamento.
Nel caso ideale di un metallo puro raffreddato in condizioni di equilibrio, la
solidificazione avviene a T costante e viene completata asportando il calore latente
di solidificazione (valido solo all’equilibrio termico), poi la T torna a decrescere e il
metallo rilascia calore sensibile quando tutto il metallo fuso è solidificato.
Nei casi reali si ha il sottoraffreddamento e la solidificazione è più complessa e
avviene in condizione di non equilibrio; Quando si arriva alla T di solidificazione in
realtà la T continua a scendere senza che ci sia solidificazione, quindi si ha un certo
sottoraffreddamento dopo il quale inizia la solidificazione e la T arresta la discesa
per innalzarsi leggermente e stabilizzarsi ad un valore T s aspettando la completa
solidificazione. Si definisce il sottoraffreddamento o grado di sottoraffreddamento:
ΔT=Ts - Tmin , cioè la differenza tra la T più bassa raggiunta dalla massa liquida
durante il raffreddamento, Tmin (a volte è definito negativo invertendo i segni) e la
temperatura liquido-solido Ts.
Si spiega poiché gli atomi sono in movimento caotico nel liquido e pertanto hanno
una bassa probabilità di trovarsi ordinati secondo il reticolo cristallino del solido a T s
e inoltre non trovando immediatamente la giusta disposizione formano aggregati
troppo piccoli per l’accrescimento del cristallo e quindi ritornano in fase liquida. Si
origina così il sottoraffreddamento senza solidificare in modo che il raffreddamento
permetta la diminuzione di energia cinetica favorendo la formazione di nuclei
stabili. Si forma di conseguenza il primo nucleo stabile quando abbastanza atomi
assumono la configurazione del reticolo e formano aggregati di dimensioni
adeguate, si aggiungono poi altri atomi che liberano calore (calore di solidificazione)
formando i legami. Nei casi in cui l’asportazione di calore sia piccola o moderata ci
potrebbe essere un aumento di T fino a Ts per via di tale rilascio di calore da parte
del metallo, altrimenti la T diminuisce costantemente fino alla completa
solidificazione.
43) Energie coinvolte nella solidificazione omogenea.
La solidificazione è spontanea (quindi diminuzione complessiva dell’energia libera
totale) se e solo se ΔG<0 per il principio di minima energia libera. I termini principali
che contribuiscono alla variazione dell’energia libera sono due.
Il primo termine è l’energia libera di volume ΔGv legata al volume, al quale è
proporzionale, e negativa poiché la solidificazione comporta il rilascio di energia
(calore di solidificazione).
Il secondo termine è l’energia libera di superficie ΔGs necessaria per formare la
superficie delle nuove particelle, è una quantità positiva poiché viene assorbita
energia per creare nuove superfici ed è proporzionale alla superficie.
E quindi ΔG=ΔGv+ΔGs.

44) Raggio critico del nucleo.


Per quanto visto ΔG=ΔGv+ΔGs, se supponiamo una forma sferica del nucleo allora
−4 3 2
Δ G ( r ) =Δ GV + ΔGS= π r Δ Gb + 4 πr γ SL , con ΔGb=variazione di energia libera di Gibbs
3
durante la solidificazione, e γSL=contributo positivo dell’interfaccia solido-liquido.
ΔGb può essere espresso in funzione di Qf = calore latente di fusione: ΔGb=(Qf/Tf)ΔT,
con ΔT=sottoraffreddamento.
−4 3 f Q 2
Pertanto Δ G ( r ) = 3 π r T ∆ T + 4 πr γ SL. Se il raggio aumenta il termine di energia di
f

volume diminuisce con r , mentre il termine di energia di superficie aumenta con r 2,


3

pertanto l’energia totale cresce fino ad un massimo per poi diminuire. Quando si ha
il massimo?
d ( Δ G (r ))
dr
=0 → −4 π r 2
Qf
Tf
∆ T +8 πr γ SL=0→ (
r −r
Qf
Tf )
∆ T +2 γ SL =0 →

2 γ SL T f 2 γ SL
¿
r= = = raggio critico.
∆T Q f ∆ G b

Il processo di crescita del nucleo avviene solo quando r supera r*, valore in
corrispondenza del quale il contributo dell’energia libera di volume (negativo e
quindi favorevole) supera quello dell’energia libera di superficie (positivo e quindi
¿ 1
sfavorevole). Dalla formula emerge che r ∝ ∆T , pertanto se il sottoraffreddamento
aumenta il raggio critico diminuisce e la solidificazione inizia prima. sostituendo r* a
3 3
16 γ SL
¿ 16 π γ SL
∆G = π = →

( )
2 2
r nella formula di ΔG si ottiene ΔG*: 3 ∆ Gb Qf
3 ∆T
Tf
¿ 1
∆G ∝ ,
∆ T2

quindi il sottoraffreddamento contribuisce a ridurre significativamente ΔG*. La


formazione di nuclei stabili è facilitata dal sottoraffreddamento, ovvero dalla
diminuzione della T del liquido rispetto alla Ts. I nuclei risultano essere stabili per un
dato ΔT se il raggio è maggiore del raggio critico e in tal caso si ha la nucleazione, si
parla invece di embrioni se per un dato ΔT il raggio è minore del raggio critico e in
questo caso non si ha nucleazione e gli atomi tornano nel liquido.

45) Nucleazione eterogenea.


Si parla di nucleazione eterogenea quando essa avviene sulle pareti del contenitore
(più fredde) o su impurezze insolubili o altri materiali che riducono l’energia libera
necessaria per dare luogo a nuclei stabili. Sull’agente nucleante l’energia di
superficie necessaria per formare un nucleo stabile è più bassa rispetto alla
nucleazione omogenea, pertanto diminuisce il ΔG totale e con esso il raggio critico
 il sottoraffreddamento richiesto per un nucleo stabile è molto inferiore rispetto
alla nucleazione omogenea.
 a parità di sottoraffreddamento, la nucleazione eterogenea permette la
formazione di più nuclei rispetto alla nucleazione omogenea e quindi la crescita di
grani più fini.
 a parità di sottoraffreddamento, il valore di r* del nucleo è più basso
In sintesi, un nucleo è un insieme di atomi nelle posizioni del reticolo cristallino e ai
nuclei in formazione si aggiungono gli aggregati di atomi a corto raggio che
permangono dalla fusione e si comportano come nuclei. Quindi, in contrasto con la
fluidità, sarebbe meglio non esagerare con il surriscaldamento per non perdere
l’ordine a corto raggio. Al di sotto di T sol si può avere un ordine atomico a più lungo
raggio, ma può essere solo temporaneo a meno che i nuclei non siano stabili (raggio
maggiore del raggio critico), mentre gli embrioni non permangono. I nuclei stabili si
hanno solo a T notevolmente inferiori a quella di solidificazione, ovvero con un
significativo sottoraffreddamento, il quale può però essere ridotto in caso di
nucleazione eterogenea. Spesso si usano opportuni inoculanti che riducono r* e
ΔG* permettendo di avere con la nucleazione eterogenea un sottoraffreddamento
pari anche ad un ventesimo di quello richiesto dalla nucleazione omogenea.
L’obiettivo è quello di ottenere grani più piccoli, cosa possibile avendo più nuclei e
quindi stimolando il processo di nucleazione.

46) Velocità di nucleazione.


La velocità di nucleazione è un parametro che rappresenta la quantità di nuclei che
si ormano per unità di tempo e di volume, vale:
¿
−∆ G −Q
Ṅ=B e kT
e kT , con Q=energia di attivazione e k=costante di Boltzmann.

I due esponenziali hanno andamento opposto al diminuire di T, ovvero al crescere


del sottoraffreddamento ΔT: il primo, legato al numero di nuclei stabili, cresce al
crescere di ΔT; il secondo, legato alla frequenza di legame, decresce al crescere di
ΔT. Pertanto complessivamente la velocità di nucleazione cresce con ΔT fino ad un
massimo per poi diminuire, in particolare tende a zero sia per ΔT che tende a 0,
ovvero T tende a Tsol, che per T che tende a zero, ovvero per ΔT=Tsol (le temperature
considerate sono temperature assolute). Se si abbassa la T della forma preriscaldata
la velocità di raffreddamento aumenta e si ha un maggior sottoraffreddamento,
pertanto si riducono r* e ΔG* e si hanno più nuclei. Di conseguenza si ottengono più
grani più piccoli che portano a migliori proprietà meccaniche. Tuttavia una T di
preriscaldamento bassa fa diminuire l’indice di fluidità e si potrebbero avere
problemi come riprese di colata, mancanza di dettagli e solidificazioni premature.
Bisogna pertanto trovare il giusto equilibrio, considerando anche che una maggiore
velocità di raffreddamento è dannosa pure per le tensioni di ritiro
tensioni di ritiro e minore fluidità vs grani più fini.
In sintesi, una bassa velocità di raffreddamento (forma preriscaldata) comporta un
basso sottoraffreddamento, quindi pochi nuclei e grani grossi, un’alta velocità di
raffreddamento (forma non preriscaldata) comporta un alto sottoraffreddamento,
quindi molti nuclei e grani fini.
47) Crescita dei nuclei.
La crescita dei nuclei è tanto più rapida quanto è maggiore T, inoltre la forma dei
grani varia a seconda di come avviene la rimozione del calore. Se la rimozione
avviene in egual misura in tutte le direzioni la crescita è uguale in ogni direzione e si
ottengono grani equiassici. Se la rimozione avviene secondo una direzione
preferenziale, lungo tale direzione si ha una crescita preferenziale in verso concorde
al gradiente di temperatura (ovvero opposto al verso di smaltimento del calore) e si
ottengono grani di forma allungata.

48) Solidificazione delle leghe.


Ad eccezione di quelle con composizione eutettica, le leghe metalliche non hanno
un singolo punto di fusione, pertanto esiste un intervallo di fusione in cui il liquido e
il solido sono in equilibrio. Osservando un diagramma di stato (caso ideale), la
solidificazione inizia in corrispondenza della linea del liquidus e finisce in
corrispondenza della linea del solidus. Per le leghe esiste un ulteriore
sottoraffreddamento detto sottoraffreddamento costituzionale o composizionale
dovuto a variazioni locali della composizione chimica della lega e alla diversa
concentrazione locale degli elementi di lega nella fase liquida che porta ad un
ulteriore abbassamento della Tsol locale, quindi ad ulteriore aumento dei nuclei che
sono in grado di crescere e infine ad avere grani più fini.
49) Microstruttura dei getti.
Le proprietà meccaniche dipendono dalla composizione chimica, dalla dimensione
dei grani e dalla forma, dimensione e distribuzione delle fasi e delle inclusioni,
pertanto il controllo della microstruttura è necessario per ottenere le proprietà
desiderate. Consideriamo la dimensione e la forma dei grani. Si ipotizzi che la T del
fuso sia costante subito dopo la colata, che la forma si trovi inizialmente a T amb, che
la cessione di calore dal fuso alla forma avvenga con modifica della distribuzione di
T, che il flusso termico vada dal fuso verso l’esterno e che la dispersione del calore
nell’ambiente avvenga dalle superfici della forma.
Nella prima fase la T del fuso cala, soprattutto verso le pareti, le quali si scaldano, in
particolar modo vicino al fuso ma anche all’esterno, scaldando anche l’aria, la cui T
aumenta restando uguale a Tamb solo lontano dalle pareti. Si capisce pertanto che la
solidificazione inizia a contatto con le pareti.
Se l’asportazione di calore è rapida si ha un’alta velocità di raffreddamento,
quindi un elevato sottoraffreddamento, quindi un’elevata velocità di nucleazione e
una bassa velocità di crescita dei nucleigrani equiassici.
Si ha questa situazione quando la T della forma resta relativamente bassa, ad
esempio subito dopo la colata, quindi il primo strato di materiale che si forma in
prossimità delle pareti della forma è a grani fini e i nuclei sono così tanti da impedire
lo sviluppo longitudinale che si avrebbe data l’esistenza di un gradiente di T
preferenziale netto, per questo i grani oltre ad essere fini sono anche equiassici.
Inoltre in rapporto all’intorno di un nucleo (molto piccolo) il gradiente di T è
trascurabile e ciò favorisce l’equiassicità. Lo spessore di questo primo strato dipende
dalla temperatura del fuso, dal calore specifico del metallo, dalla T della forma (se
questa diminuisce lo spessore aumenta), dalla conducibilità termica della forma (se
questa diminuisce lo spessore aumenta).
Nella seconda fase la T alle pareti della forma è circa uguale a quella del fuso, quindi
diminuiscono la velocità di raffreddamento e il sottoraffreddamento, dunque la
nucleazione è minore. Inoltre per via del ritiro la prima crosta solida si contrae e si
distacca dalla forma (o comunque esercita una minore pressione su di essa),
pertanto lo scambio termico tra metallo e forma diventa meno efficace, pertanto
diminuiscono ulteriormente il sottoraffreddamento e la nucleazione, mentre si ha
una maggiore crescita dei nuclei. Si ottengono così grani grossi ed allungati nella
direzione di flusso di Q (perpendicolare al fronte di solidificazione, dalla parete al
cuore), si forma una struttura colonnare.
La terza fase riguarda il cuore. Il gradiente di temperatura e la velocità di
raffreddamento diminuiscono ulteriormente (cresce il distacco tra la forma e il getto
e diminuisce la differenza di T tra i due), pertanto la nucleazione rallenta e prevale la
crescita dei grani, tuttavia i grani hanno forma equiassica poiché al centro il
gradiente di temperatura non ha una direzione preferenziale per geometria.
A contribuire maggiormente alla resistenza meccanica dell’intero getto è il primo
strato più esterno. Le leghe, presentando anche il sottoraffreddamento
costituzionale, hanno grani equiassici con dimensioni inferiori a quelle dei grani
equiassici dei metalli puri.
L’estensione delle 3 zone varia da caso a caso. Per getti con pareti sottili e forme ad
elevata conducibilità (conchiglie) la microstruttura è prevalentemente equiassica
con grani fini. Per getti di grande spessore e bassa conducibilità termica della
forma (terra essicata) la zona a grani fini è ridotta o mancante se Tsur>>Tsol (assenza
si ΔT). In tutti i casi la distribuzione e la dimensione dei grani dipende dalla direzione
e dalla velocità di estrazione del calore. Risultano pertanto influire sia parametri di
progetto che di processo.
50) Dendritismo.
Il dendritismo è un fenomeno che riguarda principalmente le leghe metalliche nelle
zone in cui il metallo è più ricco di soluto piuttosto che di solvente.
Avviene all’interfaccia solido-liquido durante la fase di crescita colonnare e consiste
nella formazione di protuberanze poiché il liquido sottoraffreddato
costituzionalmente permette la crescita di nuclei anche in direzione perpendicolare
alla direzione smaltimento del calore e così si ottengono strutture dendritiche “ad
albero” che riducono di molto le proprietà meccaniche. Pertanto le dendriti vanno
rotte nelle prime fasi di accrescimento (in seguito sarebbe molto difficile se non
addirittura impossibile).
51) Relazione tra resistenza meccanica e dimensione dei grani.
La relazione tra resistenza meccanica e dimensione dei grani è data dalla relazione
1
di Hall-Petch: σ =σ ' +k y con σ=resistenza meccanica per materiali
√d
policristallini, ky e σ’ parametri del materiale e d=dimensione media dei grani,
pertanto un’elevata resistenza meccanica è garantita da grani fini.
52) Metodi per l’affinamento del grano.
Esistono vari metodi per ottenere l’affinamento del grano.
 Il primo metodo è quello di avere una elevata velocità di raffreddamento, la
quale genera un elevato sottoraffreddamento che stimola il processo di
nucleazione così da ottenere più nuclei e infine grani più fini. Si può ottenere
tale obiettivo con una forma non preriscaldata e con elevata conducibilità, ma
bisogna prestare attenzione agli effetti sulla fluidità e alle tensioni di ritiro.
 Il secondo metodo è quello di preferire getti con pareti sottili rispetto a
quelle massicce poiché in questo modo manca la zona relativa alla terza fase
della solidificazione e a volte anche quella relativa alla seconda, pertanto si ha
solo la prima fase con grani fini ed equiassici. Trattandosi di un fattore
progettuale, questo secondo metodo può essere considerato a monte
ricorrendo alla concurrent engineering e quindi dovrà essere accettata dal
progettista in modo da avere una struttura scatolare, risulta inoltre essere la
soluzione preferita.
 Il terzo metodo è quello di evitare un eccessivo surriscaldamento, il quale
porterebbe alla perdita dell’ordine a corto raggio nel fuso e ad una minore
velocità di raffreddamento (quando il fuso arriva alla T di solidificazione la
forma ha già acquistato molto calore e pertanto la differenza di T tra i due
risulta essere più bassa di quanto auspicabile, quindi si ha un minor
sottoraffreddamento e di conseguenza un minor numero di nuclei, ottenendo
alla fine pochi grani di grandi dimensioni, i quali conferiscono proprietà
meccaniche non ottimali), di conseguenza entrambi i fattori portano ad avere
meno nuclei e quindi grani più grandi alla fine e proprietà peggiori.
 Il quarto metodo è quello di avere brevi tempi di permanenza a T>Tf, in modo
da ridurre il calore smaltito sulla forma e ottenere come già visto grani più
fini, maggior sottoraffreddamento.
 Esistono altri metodi, seppur meno usati. Si possono usare inoculanti che
stimolano la nucleazione eterogenea e in piccole quantità non alterano la
lega. Un’altra soluzione nel caso delle leghe è quella di frantumare le dendriti
in formazione tramite agitazione del metallo con una barra (possibile per
forme aperte) o tramite tecniche di colata sotto pressione (possibile solo per
forme permanenti e quindi metalliche), oppure si possono anche generare
moti convettivi (turbolenze) nel fuso tramite versamenti rapidi e successivi (il
fuso già gettato è più freddo, mentre quello da gettare è più caldo, pertanto si
generano moti convettivi). La tecnica migliore è la colata sotto pressione,
quando praticabile. Ciascun frammento di struttura dendritica costituisce un
nucleo di cristallizzazione, pertanto si cerca di frantumare la struttura
ottenendo più nuclei possibile.
53) Estrazione termica nei metalli puri.
Avviene attraverso un fronte di solidificazione a partire dalle pareti della forma.
Nel tempo aumenta lo spessore del solido e il fronte di solidificazione è netto per
metalli puri e misto per le leghe.
Per i metalli puri se la parete è piana il fronte ha un profilo netto e piano e va dalla
parete verso l’interno, inoltre è a T costante e parallelo alle pareti. Vale la relazione
empirica di Chorinov: d= λ √t−C , con λ=costante dipendente dalle dimensioni del
pezzo e dalla velocità di raffreddamento e C=costante dipendente dal grado di
surriscaldamento, quindi dato lo spessore dello strato solidificato d,
(d +C )2
il tempo per la sua formazione è t= .
λ2

54) Estrazione termica nelle leghe.


Per le leghe il fronte è complesso perché ha un profilo costituito dalla coesistenza di
più fasi. Quindi è difficile valutare lo spessore d. Si sfrutta il bilancio termico tra il
calore liberato durante la solidificazione e il calore estratto dalle pareri della forma:
 calore liberato durante la solidificazione: Q LS= ρV [ Qf + c L (T sur −T s) ], con
Qf=calore latente di fusione e QLS=calore liberato durante la solidificazione.
 Il calore estratto dalle pareti è Q= Aξ √ t , dove A=area della forma,
ξ=parametro di forma che dà la capacità di asportazione della parete e
t=tempo di solidificazione,
ρ [ Q f +c L (T sur −T s ) ]
quindi QLS=Q, pertanto √ t= V , dove nella seconda frazione a
A ξ
secondo membro compaiono solo grandezze legate al materiale e al processo in
generale, pertanto il tempo di solidificazione, a parità, di materiale e di T di
surriscaldamento, dipende solo dal rapporto volume/superficie. Si pone
λ=
ξ
ρ [ Q f +c L (T sur −T s ) ]
→ √t=
V 1
A λ ( )
1 V 2
→t= 2
λ A
2
=c F M , dove M=V/A=modulo di
raffreddamento e cF=1/λ2=coefficiente della forma.

55) Modulo di raffreddamento.


Il modulo di raffreddamento è la grandezza M=V/A, per una parete sottile esso è
minore che per una parete massiccia e dunque si avrà un minor tempo di
solidificazione. Pertanto M è un indicatore del tempo di solidificazione
più M è elevato, più la solidificazione sarà lenta, e quindi più M è basso e più la
solidificazione sarà veloce.
Si usa per valutare quali parti solidificano prima (si discretizza la forma in elementi
semplici e per ciascuno si valuta V/A) e per comprendere come avanza il fronte di
solidificazione. Valutando il valore del modulo di raffreddamento a parità di volume
per una sfera, un cilindro e un cubo risulta che la sfera ha un M maggiore del
cilindro, il quale ha a sua volta un M maggiore del cubo, pertanto la solidificazione
della sfera sarà più lenta rispetto a quella delle altre geometrie (M-cubo < M-cilindro
< M-sfera). Per una piastra di spessore c molto inferiore rispetto alle altre 2
dimensioni a e b si ha M=V/A ≈ c/2, trascurando gli effetti ai bordi della piastra.

56) Ritiro volumetrico.


Il raffreddamento può dar luogo a fenomeni negativi che possono comportare costi
elevati per la loro eliminazione e/o per gli scarti di produzione. Tra questi si ha il
ritiro, ovvero la contrazione volumetrica allo stato liquido, durante la solidificazione
(tranne Bi e Sb=antimonio) e allo stato solido. In realtà un insieme di fenomeni
rientra sotto il nome di ritiro: il ritiro volumetrico, la formazione di coni di ritiro, di
cavità di ritiro e di microcavità interdendritiche.
Il ritiro volumetrico è dovuto alla diminuzione del volume specifico al diminuire
della temperatura durante le fasi di solido, solidificazione e liquido e viene espresso
tramite perdita fisica di volume (ΔV):
ΔV= 100%*(Vi-Vf)/Vf, con valori che si attestano di solito tra l’11 e il 13% (riduzione
del volume specifico dal 2,5 al 6,5% durante la solidificazione e fino all’1% da solido).
Questo problema si risolve sovradimensionando tutte le dimensioni del getto
(maggiorazione delle quote).
57) Cono di ritiro.
Il cono di ritiro è tipico delle forme aperte. Il raffreddamento del fuso avviene per:
irraggiamento attraverso la superficie libera e conduzione attraverso le pareti. La
conduzione è più efficace, quindi la solidificazione inizia in corrispondenza delle
pareti laterali e del fondo, pertanto durante il raffreddamento le croste solide in
formazione avanzano via via continuamente mentre il livello del liquido si abbassa
per via della contrazione volumetrica e si forma un cono di ritiro sulla superficie
libera. Gli strati che si formano lo fanno infatti via via più in basso poiché la
superficie superiore (aperta) scambia sempre per irraggiamento a differenza delle
pareti laterali e del fondo. Non si può combattere, si possono solo compensare i
suoi effetti, ad esempio sovradimensionando l’altezza della forma.

58) Cavità di ritiro.


La cavità di ritiro è tipica delle forme chiuse. Per le forme chiuse, infatti, il calore
viene scambiato con le pareti in tutte le direzioni e pertanto il liquido resta
intrappolato all’interno mentre all’esterno si formano via via gli strati solidi. Il
coefficiente di contrazione del solido è inferiore di quello del liquido, quindi il ritiro
di solidificazione del liquido non è assecondato dal solido circostante e si forma una
cavità interna=cavità di ritiro in corrispondenza del baricentro termico del getto
(punto a T maggiore) che, per la presenza del sistema di colata potrebbe non
coincidere con quello geometrico. L’ultima traccia di liquido lascerà il posto alla
cavità. Esistono vari tipi di cavità: una unica ben visibile, cavità diffuse (porosità
diffusa), in forma intermedia. La soluzione è l’utilizzo di una materozza, ovvero
un’appendice che sposta il baricentro termico in corrispondenza dell’appendice
stessa, all’interno della quale si formeranno le cavità di ritiro e che verrà poi
rimossa.

59) Microcavità interdendritiche.


Durante la solidificazione delle leghe metalliche avviene la formazione di strutture
interdendritiche. La formazione di questi scheletri dendritici comporta la cattura di
liquido che può restare intrappolato tra i rami. Tale liquido si ritirerà di più del
solido lasciando delle microcavità tra le dendriti e quindi una porosità diffusa. Si
riduce il fenomeno rompendo le dendriti quando ancora è possibile durante la loro
formazione.
60) Relazione tra dispersione termica e difetti in fonderia.
Per forme chiuse o aperte si ha solo ritiro volumetrico se e solo se la dispersione
del calore avviene dal fondo della forma, cosa che permetterebbe di evitare sia il
cono che la cavità di ritiro, ma bisognerebbe isolare le pareti laterali e ciò è costoso.
Per le forme chiuse si ha la cavità di ritiro quando il flusso termico avviene in tutte
le direzioni. Per le forme aperte si ha il cono di ritiro quando il flusso avviene
attraverso le pareti laterali e il fondo. Per le leghe si formano microcavità
interdendritiche tutte le volte che ci sono dendriti.
61) Compensazione degli effetti al ritiro.
Per il ritiro volumetrico occorre sovradimensionare modelli e forme. Per il cono di
ritiro occorre produrre un lingotto di altezza maggiore del necessario tale da poter
asportare la zona che comprende il cono. Per le microcavità interdendritiche
bisogna frantumare le dendriti nel modo più efficace possibile. Per la cavità di ritiro
bisogna prevedere delle materozze, cioè appendici che fungono da riserva di
metallo fuso.
62) Materozze. Le materozze sono appendici che spostano il baricentro termico
all’esterno della forma (non elimina il problema). Devono avere un modulo di
raffreddamento maggiore di quello del getto, così da essere l’ultimo elemento a
solidificare. Sono realmente efficaci se solidificano per ultime e restano in contatto
con il liquido presente nella forma fino al termine della solidificazione nella forma
stessa. La sezione di attacco della materozza alla forma ha un ruolo fondamentale
poiché non vi devono avvenire solidificazioni premature, quindi deve essere
abbastanza ampia. Se ci fossero solidificazioni premature, infatti, parte del liquido
resterebbe nella forma e si formerebbero comunque delle cavità del getto in
posizione diversa dal baricentro termico della forma (il quale si trova invece nella
materozza). Le materozze possono essere aperte (a cielo aperto), in tal caso si forma
un cono di ritiro al posto della cavità, oppure chiuse(completamente racchiuse nella
forma), in tal caso si forma effettivamente la cavità di ritiro. La scelta è legata alla
posizione in cui sono collocate nella forma e a seconda della complessità possono
essere previste una o più materozze. Vanno dimensionate opportunamente
tenendo conto sia del ritiro volumetrico che del cono di ritiro:
Anche le materozze subiscono ritiro volumetrico e il loro modulo di raffreddamento
diminuisce (il volume diminuisce con la terza potenza delle dimensioni lineari, la
superficie con la seconda potenza, inoltre per le materozze aperte si forma il cono di
ritiro che fa aumentare la superficie di scambio termico accentuando il fenomeno),
in particolare Mm si riduce di circa il 20%, quindi in genere si prevede Mm≥1,2Mg
(m=materozza, g=getto). Alla fine del raffreddamento in condizioni limite si
potrebbe avere che i moduli di raffreddamento del getto e della materozza siano
uguali. Se inoltre si forma il cono di ritiro in una materozza aperta, esso non deve
penetrare nel getto, quindi deve valere hcono≤80%hm e si considera per tutelarsi
α(Vg+Vm)=gVm, con α=coefficiente di ritiro volumetrico del materiale e g=coefficiente
geometrico legato alla forma della materozza, dunque: Vm=αVg/(g-α).

63) Solidificazione orientata.


Il principio di solidificazione orientata o direzionale è il principio guida nella
collocazione delle materozze e punta ad ottenere una progressione orientata della
solidificazione verso le materozze in modo che siano gli ultimi elementi a
solidificare, così da evitare la formazione della cavità di ritiro nel getto. In
corrispondenza delle estremità non si hanno difetti per via del veloce
raffreddamento dovuto alle pareti, si parla di zona di influenza delle estremità,
pertanto le zone critiche sono quelle intermedie per la formazione di cavità. Con
l’utilizzo di una materozza si crea dunque una zona di influenza della materozza di
dimensioni proporzionali a quelle della materozza che deve essere tale da giungere
fino agli estremi della zona di influenza dell’estremità. Bisogna sempre avere una
sola direzione di solidificazione (una freccia). Risulta importante sottolineare che è
sufficiente che la zona di influenza della materozza si sovrapponga a quella
dell’estremità e non c’è dunque bisogno che si estenda a tutto il pezzo, pertanto non
occorre esagerare con le dimensioni della materozza.
64) Raffreddatori. I raffreddatori sono inserti metallici che accrescono la capacità di
asportazione termica dell’estremità, pertanto essi generano delle nuove zone di
influenza dell’estremità data dalla zona di influenza dell’estremità originaria e da
quella del raffreddatore. Possono essere interni se si trovano nel volume del getto o
esterni se sono annegati tra i materiali che costituiscono la forma.
I raffreddatori permettono di diminuire le dimensioni della materozza.
65) Soffiature e metodi per la loro riduzione.
I metalli liquidi hanno una forte tendenza a catturare i gas atmosferici, inoltre con
la riduzione di T durante la solidificazione la solubilità diminuisce e i gas vengono
liberati così da rimanere intrappolati nel solido generando soffiature. Indichiamo
con m la solubilità, ovvero la quantità di gas solubile alla saturazione. Mentre si ha la
fase liquida la solubilità m diminuisce con T e si libera la quantità di gas
corrispondente a mf-mis (f=fuso, is=inizio solidificazione) in condizione di soluzione
sovrassatura, quindi si sprigiona il gas sotto forma di bolle. Durante la solidificazione
si ha una forte riduzione di m passando da mis a mfs (fs=fine solidificazione) e si ha la
possibilità di intrappolamento dei gas liberati accentuata per via della formazione
delle dendriti. La formazione dei gas in fase liquida non causa problemi: per le
forme transitorie i gas escono dai pori della forma in terra, per le forme permanenti
esistono invece opportune canalizzazioni. La variazione di m con T dipende dal tipo
di metallo e inoltre m è anche funzione della pressione p secondo la legge di Henry
m=k √ p. Le soffiature e le cavità di ritiro sono correlate: le cavità generano un vuoto
in cui la pressione è più bassa e pertanto m diminuisce dando origine allo sviluppo di
gas che rimangono poi intrappolati nel solido creando a porosità diffusa e cavità
accentuate. Le soffiature comportano una riduzione della sezione resistente
favorendo la concentrazione delle tensioni e impediscono i trattamenti termici,
causando quindi lo scarto del getto.
Esistono metodi per impedire o ostacolare la formazione di soffiature e questi
possono essere legati alla T e al tempo, oppure a p. Il primo metodo è quello di
evitare un eccessivo surriscaldamento così da avere una solubilità iniziale inferiore
e avere pertanto inizialmente nel fuso meno gas, quindi anche meno gas che può
liberarsi.
Il secondo metodo è quello di ridurre la permanenza in atmosfera per evitare di
raggiungere la saturazione così da avere una quantità di gas inferiore rispetto al
massimo possibile.
Il terzo metodo è quello di usare una pressione idrostatica per impedire o ridurre lo
sviluppo dei gas, in particolare la pressione serve a contrastare la diminuzione di m
al calare di T cercando di tenere m circa costante, così che non ci sia liberazione di
gas.
Il quarto metodo sono le tecniche a vuoto che, generando appunto il vuoto, fanno
calare a 0 la solubilità dei gas nel metallo all’inizio del processo e pertanto tutti i gas
si liberano inizialmente e non durante la solidificazione.

66) Tensioni di ritiro.


Le tensioni di ritiro sono stati tensionali che nascono nel getto già allo stato solido
in seguito al raffreddamento e sono dovute alla differente velocità di asportazione
del calore da punto a punto per diversi valori di M e per i vari gradienti termici
dovuti alla diversa efficacia di asportazione dei materiali e delle geometrie della
forma, si ha dunque una contrazione differenziale. Nelle prime fasi della
solidificazione le tensioni che nascono possono compromettere l’integrità
strutturale del getto o produrre deformazioni che causano cricche e distorsioni
(deformazioni) a fine raffreddamento, infatti inizialmente il getto si trova ad alta T
ed è pertanto meno resistente. Le tensioni di ritiro possono generare tensioni
residue di segno opposto, le quali in fase di utilizzo del pezzo devono essere
sommate alle tensioni di lavoro, pertanto qualora non fossero previste si potrebbe
giungere a snervamento prima di quanto ammesso dal progetto. Le tensioni di ritiro
possono produrre deformazioni elastiche, le quali sono transitorie e si annullano a
fine raffreddamento, ovvero a Tamb, e sono maggiori dove il raffreddamento è più
veloce, oppure deformazioni plastiche, le quali sono permanenti e nel caso peggiore
possono portare a cricche a caldo nel getto appena solidificato, mentre in generale
fanno comunque nascere tensioni residue. Le tensioni residue hanno, come già
detto, segno opposto rispetto alle tensioni di ritiro poiché il materiale cerca di
ritornare alla condizione “naturale”=quella che avrebbe avuto se la sua
deformazione termica naturale non fosse stata impedita. La rimozione di materiale
con tensioni residue comporta la rimozione di parte delle tensioni e pertanto si
giunge ad una nuova condizione di equilibrio e il materiale si deforma, ciò causa
difficoltà nella lavorazione, soprattutto se serve precisione, sarebbe dunque meglio
avere solo piccole deformazioni elastiche. Il problema delle tensioni di ritiro viene
contrastato evitando parti con M eccessivamente diversi (quindi si cercano moduli
di raffreddamento più simili possibile) ed eccessive velocità di raffreddamento
(migliorerebbe anche la fluidità, ma si otterrebbero grani più grossi).
Nella solidificazione di una sfera il raffreddamento inizia all’esterno e pertanto il
mantello che vorrebbe contrarsi viene sollecitato a trazione dal cuore, il quale per la
continuità del materiale risulta sollecitato a compressione. Alla fine le tensioni
residue sono opposte: il mantello risulta essere in compressione, mentre il cuore
risulta essere in trazione. Bisogna inoltre sottolineare che trattandosi di processi di
fonderia non è possibile effettuare la ricotture di distensione. Anche la disposizione
della forma va studiata con accortezza: il liquido deve entrare nella parte con M
maggiore, ovvero dove si raffredderebbe più tardi, in modo da equilibrare le
velocità di raffreddamento (arriva prima dove si raffredderebbe dopo), oltre a
tutelarsi anche nei confronti di solidificazioni premature.
Per ridurre le tensioni di ritiro:
 Preriscaldare la forma
 Gradienti di temperatura più piccoli possibile (temperature equilibrate)
 Disporre opportunamente la forma in modo da agevolare il riempimento del
getto in modo da distribuire il raffreddamento.

67) Colabilità.
La colabilità è l’attitudine di una lega ad essere colata in forma e a riempirla
completamente senza originare difetti nel pezzo solidificato. Si tratta di una
proprietà complessa che dipende da molti fattori, si parla di grandezza di sistema.
Una maggiore colabilità è favorita da un’alta fluidità, da una minore T di fusione, da
un minor calore specifico, da un minor calore latente di fusione, da una minore
solubilità dei gas e da una minore attività chimica del metallo (ad esempio una
minore tendenza a formare ossidi), inoltre la colabilità dipende dalle caratteristiche
fluidiche del fuso. Tutti i metalli sono fusibili, non tutti sono colabili.
Fonderia in forma transitoria con modello permanente.
Si suppone che la forma sia ottenuta con un processo di formatura che può
essere manuale o meccanico. La formatura è un processo che consiste nella
compattazione del materiale attorno ad un modello permanente in modo da
ottenere una forma transitoria.
I materiali per la forma possono essere molteplici, il più comune è la
terra da fonderia.

68) Staffe.
Le staffe servono per contenere il materiale che viene compattato attorno al
modello. Si realizzano in ghisa o in acciaio con dimensioni unificate. Presentano
solo le superfici laterali, mentre quelle di base superiore ed inferiore sono aperte
per consentire la costipazione della terra. Spesso si usano modelli scomponibili,
pertanto servono 2 staffe con opportuni riferimenti per il montaggio che nella
ricomposizione della forma dopo l’estrazione del modello permettono di rimontare
correttamente le staffe. Si parla di staffa base (inferiore) e staffa coperchio
(superiore).
69) Ciclo di fabbricazione di un getto mediante fonderia in terra.
Il ciclo di fabbricazione parte dal ciclo di formatura. Esso inizia dal pezzo, sulla cui
base si genera il modello, formato da 2 semi-modelli. Si prende il semi-modello
inferiore e lo si appoggia sul piano di lavoro considerando che esso coincida col
piano di divisione (pertanto il semi-modello risulterà capovolto), inoltre si mette sul
piano di colata anche la parte che serve per ottenere l’attacco di colata nella forma.
Si pone poi la staffa base capovolta sul piano di lavoro in modo da contenere quanto
già disposto sul piano, in seguito si versa la terra nella staffa e la si compatta attorno
al semi-modello e alla parte corrispondente all’attacco di colata. Successivamente si
capovolge il tutto di 180° attorno ad un asse orizzontale in modo da ottenere la
disposizione corretta con le parti non più capovolte e, sfruttando i riferimenti, si
pone il semi-modello superiore sopra l’inferiore, prevedendo anche gli elementi per
realizzare il bacino e il canale di colata, e la staffa coperchio sopra la staffa base. Si
versa quindi altra terra nella staffa coperchio e la si compatta attorno a quanto
disposto. Si estraggono dunque il bacino e il canale di colata, si ri-separano le due
staffe e si ribalta la staffa coperchio. Si procede dunque a sfilare i 2 semi-modelli e
l’attacco di colata, poi si rimonta opportunamente la staffa coperchio su quella base.

70) Ciclo di fabbricazione di un elemento tubolare mediante fonderia in terra.


Le cose spesso si complicano, ad esempio in presenza di anime, ovvero per
elementi tubolari. Le anime, considerando il caso di anime transitorie, si realizzano
con una cassa d’anima tale che la lunghezza dell’anima sia pari alla lunghezza del
modello più due volte la lunghezza delle portate d’anima (anima interna), la quale
deve essere maggiore dello spessore delle anime. Se sono previste le anime il ciclo
di formatura è lo stesso, ma si inseriscono le anime prima di ricomporre le 2 staffe
dopo l’estrazione del modello. Al distaffamento, ovvero alla rottura della forma si
rompe poi anche l’anima. Inoltre in tutti i casi (elementi tubolari o meno) deve
essere prevista almeno una materozza, ad esempio nella staffa coperchio, e si
realizza la sua porzione della forma durante la compattazione assieme al bacino e al
canale di colata. A volte, se la porosità della forma non è sufficiente, si prevedono
degli sfoghi per i gas costituiti da canaletti in terra compattata.
71) Caratteristiche tecnologiche dei materiali per forme in terra.
I materiali per le forme in terra presentano in varia misura determinate
caratteristiche tecnologiche.
1. La refrattarietà è la resistenza alle alte T.
2. La coesione è la resistenza alle sollecitazioni esterne (come spinta
metallostatica del fluido).
3. La permeabilità è la capacità di lasciarsi attraversare dai gas ed è spesso in
contrato con la coesione.
4. La scorrevolezza è la capacità di plasmarsi attorno al modello (con aiuto di
acqua di umidificazione).
5. La sgretolabilità è la facilità di rimozione della terra al termine del processo.
Non è detto che un singolo materiale debba avere tutte le proprietà, spesso si
possono combinare più materiali, come sabbia silicea e argilla.
Terra = refrattario + legante + acqua( e/o additivi)
o Refrattario: sabbia silicea, zircone, olivina, cromite
o Legante: a base di argilla e non (resine polimeriche termoplastiche);
compromesso tra permeabilità e coesione, cedevole per assecondare la
contrazione e agevolare l’estrazione del getto senza danneggiamento, deve
garantire la coesione della forma.

72) Materiali per forme in terra.


Per le forme in terra si usano diversi materiali con diverse funzioni. Il primo tipo di
materiale è il refrattario, per resistere a T elevate. Come refrattario si usano le
sabbie silicee (basso costo e adatte a T elevate), oppure zircone, cromite e olivina in
casi speciali. Il secondo tipo di materiale è il legante, il quale deve essere resistente
alla pressione e all’erosione e sufficientemente cedevole per consentire la
contrazione e l’estrazione del getto. Non deve ridurre troppo la permeabilità. Si
usano l’argilla o resine polimeriche termoplastiche. La terza categoria è quella degli
additivi, i quali servono per correggere alcune caratteristiche del materiale. Infine si
usa l’acqua di umidificazione per rendere plasmabile il materiale. In alcuni casi è
prevista l’essicazione della forma, ma bisogna evitare i gas dovuti alla presenza
dell’acqua durante l’essicazione, tra cui l’ossigeno.
73) Formatura in terra a verde.
Si tratta del processo più economico dal momento che si basa sull’utilizzo di sabbia
silicea, argilla e acqua di mescolamento. In particolare le terre da fonderia
contengono sabbia silicea e sostanze argillose al 5/20% e vengono distinte in
naturali, estratte da cave, e sintetiche, prodotte partendo da costituenti opportuni.
L’azione legante delle sostanze argillose è esplicata grazie all’aggiunta di acqua per
la plasmabilità, pertanto la forma risulta essere umida fino a che l’acqua non
evapora interagendo col metallo fuso, liberando così i gas disciolti che durante la
solidificazione restano intrappolati generando soffiature e, nel caso dell’ossigeno
prodotto a partire dall’acqua, anche ossidazione. Alla luce di ciò la formatura in
terra verde permette di avere getti di qualità scadente.
74) Formatura in terra a semiverde e a secco.
Tali processi si basano sull’essicazione della forma, la quale permette di avere una
maggiore probabilità di riuscita e maggiori consistenza e porosità. Richiede sabbie
più fini e in questo modo si ottengono getti con superfici più lisce e facilmente
lavorabili. Si ha anche un minor sviluppo di gas, quindi un minor rischio di
soffiature. L’essicazione può essere parziale, ovvero solo attorno alla cavità per
ridurre la formazione di difetti in superficie causati dalla generazione di vapore
durante la colata, e in tal caso si parla di processo a semiverde, oppure totale,
ovvero sull’intera forma (anche lontano dalla cavità), e in tal caso si parla di
processo a secco.
75) Formatura meccanica.
Si parla di formatura meccanica quando il processo di formatura viene eseguito con
opportune macchine, spesso anche in grado di eseguire la sformatura, il
caricamento e dosaggio della terra. Risulta conveniente per elevati volumi di
produzione, permettendo di avere minor tempo di lavorazione, minori costi,
maggiore qualità e ripetibilità delle caratteristiche dei getti e migliori condizioni di
lavoro degli operatori. Per grandi serie a volte è più importante la ripetibilità della
precisione, pertanto è ottimo che si abbia una migliore ripetibilità. In base al
principio di funzionamento si hanno processi a compressione, a vibrazione o a
scossa, a vibro-compressione, a scossa-compressione, a lancio centrifugo (con
giranti) o pneumatico (utilizzo di aria).
In tutti i casi si usa la placca-modello, la quale, essendo fatta in metallo, è capace di
resistere alle sollecitazioni generate dalla macchina. La placca-modello si può
realizzare per fonderia o per asportazione di truciolo, oggi anche per fabbricazione
additiva. Per la fonderia si usano spesso placche-modello di fonderia. Il modello per
la placca modello, se di fonderia, è a doppio ritiro. Bisognerà tenere conto sia del
ritiro che subirà il metallo per la realizzazione della placca-modello sia del metallo
per la realizzazione del pezzo finale (i 2 ritiri possono essere diversi, dipende dai
materiali coinvolti), e si realizza in materiali economici, come il legno.
Ritiro totale = volume maggiore + ritiro intrinseco della placca
76) Formatura meccanica a compressione.
Si pone la placca-modello sul piano fisso dell’apparecchiatura ed intorno ad essa si
pone la staffa con la terra. Sopra la staffa si trova un dosatore, il quale ha la funzione
di inserire una quantità di terra tale da compensare la riduzione di volume della
terra della staffa dopo la compattazione. La compressione viene eseguita dal piatto
mobile di una pressa idraulica posta sopra le precedenti parti. In particolare il piatto
mobile scene fino all’altezza della staffa. Terminata la compressione vera e propria si
solleva il piatto, si rimuove il dosatore e si solleva la staffa dalla placca, ottenendo
così la prima metà della forma. Si tratta di un processo semplice, ma non uniforme
per via dell’effetto parete, dell’effetto velocità e dell’effetto geometrico.
i. L’effetto parete è la formazione di sforzi tangenziali sulle superfici laterali
della staffa che si oppongono alla compattazione, viene contrastato
lubrificando le pareti della staffa.
ii. L’effetto velocità è la diversa efficacia della compattazione in base alla
velocità delle particelle di terra: la compattazione delle particelle più veloci
(vicino al pistone), è più efficace di quella delle particelle più lente (vicino al
modello). Tale risultato è esattamente l’opposto del risultato desiderato,
pertanto si preferisce far muovere la placca modello più il suo supporto con
la pressa al posto del piatto mobile, che diventa pertanto un piatto fisso.
iii. L’effetto geometrico è dovuto alle diverse altezze della placca rispetto al
piatto, le quali fanno sì che la terra si compatti di più nelle zone più vicine al
piatto mobile, ovvero dove si ha una maggiore altezza della placca modello.
L’unica soluzione per questo problema è cambiare il tipo di processo.
77) Formatura a scossa e a vibrazione.
La formatura a scossa o a vibrazione si usa quando la placca modello ha altezze non
uniforme, infatti si ottiene una maggiore uniformità sfruttando le forze di inerzia
che si sviluppano muovendo il binomio staffa-placca (solidali). Si sfrutta una pressa
pneumatica (ad aria) che fa alternativamente salire e scendere il pistone con un
certa frequenza proporzionale alla portata d’aria: un’alta portata comporta alte
frequenze e si parla di processo a vibrazione (compattazione veloce ed efficace),
una bassa portata comporta basse frequenze e si parla di processo a scossa
(compattazione lenta e di minor entità). La compattazione è più efficace per le
vibrazioni.
Per altezze modeste del pezzo (anche diverse)meglio compressione;
per pezzi altivibrazione o scossa, anche se per questi metodi la compattazione,
pur essendo più uniforme, è meno efficace.
78) Formatura a scossa-compressione e a vibro-compressione.
Macchine ibride. Per i processi a scossa-compressione o a vibro-compressione si
usa una pressa a doppio effetto, con un sistema oleodinamico per la compressione
che spinge il piatto mobile verso l’alto e un sistema pneumatico per la
scossa/vibrazione successivo a quello oleodinamico e che fa oscillare il pistone
combinandosi col moto imposto dalla parte oleodinamica.
Macchina che garantisce buona compattezza e buona uniformità.
79) Formatura a lancio centrifugo.
Per la formatura a lancio centrifugo non interessa l’altezza della placca.
Questa macchina è dotata di una tramoggia che permette l’immissione della terra
all’interno di una girante con una pala che per effetto della forza centrifuga spara le
particelle di terra all’interno della staffa fino al suo completo riempimento.
La superficie del modello è soggetta a notevoli urti, per questo nella fase iniziale la
girante monopala lancia la terra a bassa velocità per creare sul modello uno strato
iniziale protettivo di terra. La compattazione è più uniforme di quella a
compressione, ma meno efficace( meno compatta proprio in prossimità della
cavità). Si usa per modelli/staffe molto grandi non formabili in altri modi.
80) Formatura a lancio pneumatico.
Nella formatura a lancio pneumatico si usa una miscela di aria compressa e terra
lanciata da un condotto, nella quale la terra viene mantenuta in sospensione dai
moti vorticosi dell’aria. Si tratta di un processo molto veloce e si ottiene una
migliore compressione rispetto al lancio centrifugo, ma comporta anche una
maggiore usura e difficoltà per la sospensione della terra nell’aria.

Fonderia in forma transitoria con modello transitorio


Processi nei quali il modello viene distrutto durante la sua estrazione, pertanto non
c’è il problema del sottosquadro e si possono ottenere anche forme complesse. I
principali processi sono la fonderia a cera persa e la fonderia con modelli in schiuma.

81) Caratteristiche dei processi di fonderia a cera persa.


La tecnica della fonderia a cera persa è nota fin dall’antichità e si usava in ambito
artistico, mentre oggi si usa per la micro-fusione (industria di precisione). Sia la
forma che il modello in cera sono transitori. Si ha il doppio ritiro, uno per la cera e
l’altro per il metallo. Permette di avere getti con elevate finiture superficiali,
tolleranze dimensionali molto strette e geometrie molto complesse poiché i
modelli transitori non presentano problemi di sottosquadro. Si possono così
ottenere parti con fori e cavità senza usare anime. La forma si può realizzare per
immersione o con guscio ceramico.
82) Fonderia a cera persa a immersione.
Nella fonderia a cera persa a immersione si raggruppano più modelli per formare un
grappolo. Il grappolo può essere pre-rivestito mediante immersione in una
sospensione refrattaria di silice molto fine, legante, acqua, silicato di etile e amido,
cosparso di sabbia refrattaria, oppure posto in un contenitore con miscela
refrattaria. Il contenitore viene messo in vibrazione per costipare la miscela attorno
al modello così da ottenere la forma. Il modello viene eliminato scaldando la forma
con variazioni di T di centinaia di gradi generando una fuoriuscita di cera dall’imbuto
di colata. La forma è il negativo del modello. La forma viene portata prima della
colata ad alte T di 700/1000 °C per generare trasformazioni chimico-fisiche per
avere una maggiore resistenza meccanica ed eliminare elementi che sviluppano
gas. La colata avviene a forma calda, a T elevate per avere una maggiore fluidità e
poter dunque riempire spessori più sottili oppure a T più contenute per avere una
maggiore velocità di solidificazione.
83) Fonderia a cera persa con guscio ceramico.
La fonderia a cera persa con guscio ceramico permette di avere un minor costo
della forma e una maggiore velocità di produzione. La forma viene ottenuta
mediante immersione del grappolo in una sospensione ceramica semiliquida e
successivamente il grappolo viene esposto ad un flusso di refrattario. Si forma un
sostrato pastoso aderente al grappolo e la procedura viene ripetuta per 3 o 4 volte
di applicazioni di refrattario per ottenere uno spessore sufficiente per resistere alla
pressione metallostatica. Non richiede l’uso di contenitori metallici e la forma è
essiccata e scaldata in forno, la cera esce e si cola poi il metallo.
84) Realizzazione del modello da utilizzare nei processi di fonderia a cera persa.
Per realizzare il grappolo di pezzi pieni si parte dal disegno del pezzo, poi si
realizzano i vari modelli, i quali vengono poi uniti a formare il grappolo.
Per i pezzi forati si parte sempre dal disegno del pezzo, ma poi si realizzano le
opportune anime in cera idrosolubile e solo in seguito si formano i modelli in cera
intorno alle anime. Poi si dissolvono le anime con opportuni solventi in modo da
ottenere i soli modelli, i quali vengono poi uniti per formare il grappolo di cera.
85) Fonderia con modelli in schiuma.
Si parla di modelli in schiuma o lost foam e in particolare si usa il PSE (Polistirene
Espanso). Si crea un modello a perdere in schiuma che va incontro a degradazione
termica tramite il calore del metallo colato, il quale viene versato quando il modello
è ancora presente, a differenza del caso della procedura a cera persa, per la quale
prima si toglie la cera. Il modello viene progressivamente sostituito dal metallo. Si
possono ottenere forme anche molto complesse con modelli realizzati con tecniche
semplici. I vantaggi sono i costi contenuti, le elevate flessibilità e facilità di
automazione, la possibilità di usare terre non legate (più facili da recuperare), l’uso
di una unica staffa (no semi-modello), la non necessità di anime per pezzi con
cavità, l’assenza del problema dei sottosquadri e degli angoli di sformo e la
possibilità di riciclare la terra. Il modello si ottiene per stampaggio ad iniezione, per
forme complesse il modello viene suddiviso in parti semplici che vengono poi
incollate con le eventuali appendici. Si usa maggiormente il PSE. Il modello viene
rivestito con vernice refrattaria così che il calore non faccia evaporare il modello
primadel riempimento della cavità con conseguente danneggiamento della forma.
La compattazione della terra avviene mediante vibrazione e si usa terra non legata,
per questo bisogna evitare che il modello evacui prima dell’arrivo del metallo (senza
il modello o il metallo dentro la forma collasserebbe).
I problemi sono dati principalmente dallo sviluppo di gas dalla depolimerizzazione
del modello, i quali possono interporsi tra fuso e polimero. L’entità del fenomeno
dipende dal materiale colato, dal materiale del modello e dalla T di colata. Il gas
esercita un’azione di contrasto sul metallo fuso per alcuni istanti prima di
fuoriuscire dalla forma porosa (poco compatta e non legata), quindi la velocità di
riempimento della forma è ridotta di un fattore 10 rispetto ai processi convenzionali
e si ha il rischio di soffiature.

Processi di Fonderia in forma permanente

86) Processi di fonderia in conchiglia.


Si tratta ora di processi con forma permanente, per i quali non serve il modello. Il
processo tipico è quello della fonderia in conchiglia, utile per serie numerose. Si
utilizza per la colata di leghe con Tf non particolarmente alta (la forma deve
resistere), con o senza applicazione di pressione. I vantaggi sono i minori costi per
grandi volumi di produzione, il minor tempo di produzione, la minor manodopera
richiesta e la maggiore qualità dei getti (resistenza meccanica, finitura e
precisione).La convenienza si perde per parti con forme complesse: l’utilizzo di
molte anime implica un maggior tempo di montaggio e smontaggio, quindi una
minore produttività.
87) Caratteristiche dei materiali delle conchiglie e materiali utilizzati.
I materiali utilizzati per le conchiglie devono avere un’alta Tf in modo da poter
resistere al calore del fuso, una elevata resistenza meccanica per non deformarsi e
resistere all’utilizzo ripetuto e restare prestazionali anche ad alte T, una elevata
resistenza alla fatica termica per evitare cricche e un’alta resistenza all’adesione
per evitare la saldatura del fuso alla conchiglia. Si usano leghe metalliche come
acciai legati e ghisa grigia, ceramiche e vari materiali refrattari.
88) Caratteristiche e requisiti progettuali delle conchiglie.
Le conchiglie vengono preriscaldate a una T che dipende dal materiale colato. Si fa
per evitare le tensioni di ritiro e la perdita di fluidità dal momento che le conchiglie
hanno una elevata conducibilità termica essendo metalliche e pertanto bisogna
trovare il giusto compromesso per evitare tensioni di ritiro e avere un’elevata
fluidità da una parte (serve una bassa velocità di raffreddamento) e avere buone
proprietà meccaniche dall’altra (serve un’elevata v di raffreddamento). La superficie
interna deve essere protetta con un rivestimento o vernice in polvere refrattaria
per avere una riduzione del trasferimento di calore per il motivo già esposto. Dal
momento che la forma non è permeabile devono essere previste opportune prese
d’aria per la fuoriuscita dei gas.
Le forme devono inoltre avere determinate caratteristiche e determinati requisiti
progettuale: la facilità di rimozione del getto dalla conchiglia per ridurre i tempi,
cosa che richiede geometrie meno complesse rispetto alle forme transitorie, l’uso
esclusivo di anime metalliche fisse o mobili per ottenere le cavità interne, con
possibilità di usare anime in terra solo per colate per gravità o a basse pressioni,
anime in più parti in caso di sottosquadri, necessità di espulsori per la rimozione
del getto, processo che avviene nel momento in cui il getto inizia a ritirarsi contro il
materiale della forma (gli elementi della conchiglia) prima che arrivi a temperatura
ambiente, e velocità di raffreddamento attenuata preriscaldando la forma (così da
agevolare il totale riempimento).
89) Fonderia in conchiglia a gravità.
La fonderia in conchiglia a gravità prevede il riempimento della forma per sola
gravità, analogamente a quanto avviene per la fonderia in terra. Si usa per leghe di
Al, Mg. Cu e per la ghisa. Per le leghe di Al e Mg la conchiglia viene protetta con del
lubrificante, per Cu e le ghise, i quali hanno una maggiore T f si usano rivestimenti di
rame. Per forme complesse si possono usare anime in terra.
Si utilizza una semi-conchiglia fissa ed una mobile mossa da un pistone idraulico che
permette l’apertura e la chiusura della conchiglia. Le fasi della produzione sono:
preriscaldare e rivestire la forma, inserire l’anima e chiudere la conchiglia, colare il
fuso, estrazione getto.

90) Fonderia in conchiglia con colata a bassa pressione.


Si distinguono due tipi di fonderia in conchiglia con applicazione di pressione. Nel
primo caso la pressione viene applicata indirettamente insufflando gas in pressione
nel fuso e si parla di fonderia in conchiglia a bassa pressione. Nel secondo caso la
pressione viene applicata direttamente con uno spintore all’interno di un cilindro e
si distinguono due sotto-tipologie: se il sistema di pompaggio è immerso nel fuso si
parla di colata in camera calda o iniettofusione, se il fuso viene spillato dal forno e
posto in un cilindro non scaldato dall’esterno si parla di colata in camera fredda o
pressofusione. La pressofusione è caratterizzata da una maggiore pressione e da una
minore T di lavoro rispetto all’iniettofusione.
Nel caso della fonderia in conchiglia con colata a bassa pressione il fuso viene posto
in un crogiolo riscaldato per induzione e l’azione del gas compresso a bassa
pressione sulla superficie libera del fuso fa sì che il fuso stesso risalga il tubo di
alimentazione fino alla cavità. La solidificazione avanza dalle parti più distanti (più
fredde) verso quelle più vicine al tubo di alimentazione (più calde). Il getto viene
estratto con un estrattore. Si tratta di una tecnologia obsoleta e superata dalle
tecniche ad alta pressione.
91) Fonderia in conchiglia sotto pressione.
Nella fonderia in conchiglia sotto pressione il metallo è colato nella conchiglia sotto
l’azione di un sistema che permette di imporre e controllare la velocità del fuso
durante il riempimento e di esercitare e controllare la pressione sul fuso in
solidificazione per avere meno effetti negativi dovuti al ritiro. Durante il
riempimento il metallo si trova completamente allo stato liquido nell’iniettofusione
e allo stato bifasico liquido-solido nella pressofusione. Le pressioni in gioco
dipendono dalle condizioni del metallo da colare e la conchiglia si riempie in tempi
molto ridotti, quindi il processo è adatto per pezzi piccoli e con pareti sottili. Il ciclo
comprende l’applicazione di pressione anche durante la solidificazione in conchiglia
chiusa. Dopo la completa solidificazione del getto seguono l’apertura delle semi-
conchiglie, l’estrazione del getto, la lubrificazione della conchiglia e la sua
refrigerazione, il posizionamento delle anime e infine la chiusura della conchiglia per
l’inizio di un nuovo ciclo.
La fase di colata è critica: bisogna evitare troppe turbolenze e consentire
l’evacuazione dell’aria tramite gli appositi canali di sfogo, pertanto bisogna
prevedere una pressione opportuna. Anche i costi di impianto sono elevati in questi
casi. Esistono 2 tipi di conchiglie: le conchiglie semplici, ovvero con una sola cavità, e
le conchiglie multiple, ovvero con più cavità, identiche o diverse. Esistono inoltre le
conchiglie combinate e le conchiglie multi-unità, per le quali è più facile effettuare
la sostituzione delle conchiglie. Per ogni tipo di conchiglia deve valere “peso
conchiglia”:”peso getto”=1000:1.
92) Impianti per la colata sotto pressione.
Gli impianti per la colata sotto pressione sono complessi. Oltre alle macchine per
mettere in pressione il fuso, servono delle macchine che applicano sulla conchiglia
forze di chiusura adeguate a quelle derivanti dalla pressione conferita al fuso,
altrimenti si aprirebbero. Si usano macchine simili a presse idrauliche e conchiglie
chiuse con sistemi meccanici. Il fuso è immesso nella conchiglia con uno spintore
che opera prima a bassa velocità e poi a velocità maggiore per evitare turbolenze e
permettere la fuoriuscita dell’aria. Le macchine si classificano in base alla forza di
chiusura della conchiglia, la quale varia da 25 kN a 30 MN. Serve inoltre un forno di
riscaldamento, il quale può essere: integrato nella macchina, in tal caso mantiene
alla T di colata il fuso in un crogiolo e poiché la camera di pressione è immersa nel
fuso all’interno del crogiolo il processo viene definito colata sotto pressione in
camera calda o iniettofusione, non integrato nella macchina, in tal caso dal forno si
spilla il fuso collocato in una stazione di fusione più o meno lontana dalla macchina,
pertanto la camera di pressione non è riscaldata e si parla di colata sotto pressione
in camera fredda o pressofusione.
93) Iniettofusione.
L’iniettofusione prevede un sistema a pistone tuffante, pertanto il sistema di
pompaggio si trova immerso nel fuso e un’opportuna quantità di fuso è intrappolata
e forzata nella conchiglia dall’azione del pistone. Si applica una pressione fino a 35
MPa, ma mediamente di 15 MPa. Il metallo è mantenuto in pressione fino al
termine della solidificazione. Le conchiglie vengono raffreddate con circolazione di
acqua o olio per aumentare la loro durata e ridurre il tempo ciclo. La produttività è
dell’ordine di 1k parti/h. Si possono colare, tra le leghe bassofondenti, le leghe di
Zn, Sn e Pb. La produzione di leghe di Al è più complessa per via di problemi di
durata delle pompe dovuti alla maggiore Tf.
94) Pressofusione.
Il fuso viene versato mediante una siviera all’interno della camera di spinta non
riscaldata (camera fredda) e forzato a entrare nella conchiglia con pressioni
mediamente di 20/70 MPa, ma si può arrivare fino a 150 MPa. Permette la colata di
leghe con Tf maggiori rispetto a quanto visto per il processo a camera calda, quindi
anche leghe di Al, Mg e Cu e le leghe ferrose. Le macchine possono essere
orizzontali o verticali. Nella pressofusione in camera orizzontale dopo il versamento
viene occupata solo parzialmente la camera orizzontale e si ha pertanto un’ampia
superficie esposta all’aria, dunque l’avanzamento del pistone è inizialmente lento
per evitare turbolenze e far uscire l’aria che entrerebbe nella conchiglia prima del
fuso, invece deve essere fatta uscire prima che entri il fuso. Uscita tutta l’aria è
possibile aumentare la velocità. Inoltre il contatto porta allo sviluppo di molti
ossidi, i quali vengono poi trattenuti nel residuo di colata o spinti fuori. Nella
pressofusione in camera verticale si usa un sistema pistone + contropistone. Nella
fase A si versa il fuso nella camera mentre la luce di immissione risulta essere chiusa
grazie al contro-pistone, pertanto il fuso non può entrare nella conchiglia. Nella fase
B il pistone esercita sul fuso una pressione tale da far abbassare il contro-pistone e,
una volta liberata la luce di immissione, il fuso entra nella conchiglia. Nella fase C
viene espulso il residuo di colata verso l’alto grazie al contro-pistone. La superficie
libera del metallo è poco estesa, quindi si formano meno ossidi, i quali vengono
lasciati nel residuo di colata, e si ha un minor intrappolamento dell’aria, cosa che
permette di avere una maggiore velocità di processo, a discapito però di una
maggiore complessità costruttiva.
Microstruttura della fonderia sotto pressione: la solidificazione inizia a contatto con
le pareti, in corrispondenza delle quali si forma uno strato a grani fini di spessore
fino a mezzo millimetro, si ha poi un’espansione dendritica verso l’interno, ma le
dendriti vengono rotte dalla pressione. Sono tuttavia presenti cavità
interdendritiche, soprattutto vicino al baricentro termico, dove sono più presenti e
di dimensioni maggiori. Di conseguenza c’è sempre un certo grado di porosità,
anche per via delle soffiature. Le caratteristiche meccaniche sono migliori rispetto
agli altri processi in conchiglia (per gravità e a bassa pressione), le migliori tra
iniettofusione e pressofusione si hanno per la pressofusione poiché la maggior
pressione permette di frantumare le dendriti, quindi di ottenere più nuclei e
dunque grani più fini. La finitura superficiale è tale da non richiedere lavorazioni
alle MU. Sono processi particolarmente adatti per getti con piccoli spessori. I
volumi di produzione devono essere elevati per compensare i costi elevati. Nella
pressofusione si ha un fuso bifasico, il quale comporta una maggiore viscosità e
pertanto una maggiore usura, la quale comporta una vita più breve delle conchiglie.
Tale difetto viene però compensato dai vantaggi dovuti alle maggiori pressioni: le
migliori proprietà meccaniche dovute alla maggior rottura delle dendriti e alla
maggiore solubilità dei gas che permette di far sì che si liberino meno gas nel
processo.
95) Pressocolata sottovuoto.
Nella pressocolata sottovuoto si crea il vuoto e pertanto si eliminano le
problematiche legate ai gas presenti nell’ambiente. I getti hanno migliori proprietà.
Si usano pompe a vuoto per far scendere la pressione fino a 50/200 hPa (p atm=1013
hPa) e tale depressione si ottiene in modi diversi:
a) Processo Nelmor: la depressione viene ottenuta chiudendo le conchiglie in
camera da vuoto, con lo svantaggio di essere un processo poco pratico ed
economico a causa di una camera abbastanza grande che richiede impianti di
notevoli capacità per assorbire il grande quantitativo di aria ed il vantaggio
di non dover modificare le forme;
b) oppure dotando le conchiglie di particolari valvole e sistemi di spirazione e
controllo, con il vantaggio di non aver bisogno di camere da vuoto e lo
svantaggio di dover modificare le conchiglie, pertanto si usa solo per esigenze
poste da pezzi particolari.
96) Colata centrifuga.
Nella colata centrifuga la forma viene messa in rotazione attorno al proprio asse,
pertanto si generano delle forze centrifughe che costringono il metallo fuso a
riempire la forma per effetto centrifugo. Questo processo permette il riempimento
della forma e di ottenere parti con superficie interna cilindrica e superficie esterna
data dalla geometria della forma, ovvero si realizzano parti cave senza anime e
materozze, quindi in modo economico. Inoltre, si evitano le soffiature poiché l’aria,
essendo più leggera del metallo, subisce minori forze centrifughe e resta all’interno
separandosi dal fuso. Il moto rotatorio viene combinato con un moto traslatorio
per permettere un migliore riempimento della forma. Il processo è adatto anche a
forme in terra.
97) Fonderia con solidificazione sotto pressione.
Nella fonderia con solidificazione sotto pressione o squeeze casting la colata
avviene per gravità, poi viene esercitata una pressione elevata sul fuso durante la
solidificazione. La pressione viene mantenuta fino alla completa solidificazione e il
processo risulta essere una combinazione tra un processo di fonderia e una di
fucinatura/forgiatura poiché il fuso, colato in una forma lubrificata e preriscaldata,
viene forgiato mentre solidifica. La combinazione fonderia+lavorazione plastica
permette di ottenere migliori proprietà meccaniche, inoltre si hanno altri numerosi
vantaggi. Le pressioni elevate (55/100 MPa) permettono di mantenere i gas in
soluzione. Il contatto fuso-stampo forzato permette di avere un maggior
raffreddamento, quindi grani fini, assenza di porosità e proprietà simili a quelle
ottenibili con le lavorazioni plastiche. L’integrità dei getti permette di effettuare
trattamenti termici successivi, cosa normalmente impossibile per getti pressofusi. Si
usa per leghe ferrose e non ferrose, ma comunque solo in casi particolari.

Aspetti generali delle lavorazioni plastiche

98) Difetti reticolari nei cristalli reali.


I difetti reticolari dei cristalli reali influenzano le proprietà fisiche e meccaniche e
quindi tecnologiche (come la deformabilità, che è l’attitudine di un materiale a
subire deformazione plastica senza rompersi). Sono classificati come:
 difetti di punto (0-dimensionali, dell’ordine di singoli atomi); Tra i difetti di
punto si trovano le vacanze=atomi mancanti nel reticolo, gli auto-
interstiziali=gli atomi occupano la posizione interstiziale del proprio reticolo),
le impurezze sostituzionali o interstiziali (atomi che non fanno parte del
reticolo).
 difetti di linea (monodimensionali, atomi disposti su una linea); I difetti di
linea sono dati dalle dislocazioni, le quali sono traslazioni incomplete di una
parte del reticolo rispetto ad un’altra. Possono essere a spigolo, a vite o miste.
Nelle dislocazioni a spigolo si ha un semipiano extra nel reticolo cristallino, il
quale comporta una regione soggetta a compressione (sopra il semipiano
extra) e una a trazione (sotto il semipiano extra). Gli elementi di lega
diffondono verso la dislocazione, pertanto si forma l’atmosfera di Cottrell,
formata da nuvole di atomi che ostacolano il movimento delle dislocazioni.
Le dislocazioni a vite sono date dallo scorrimento su un piano di una parte del
reticolo rispetto all’altra in direzione parallela alla linea di dislocazione,
pertanto si forma una regione soggetta a sforzi di taglio attorno alla
dislocazione. Le dislocazioni miste sono una combinazione dei due tipi di
dislocazione visti. I difetti di linea sono fondamentali per il comportamento
plastico del materiale, il quale dipende dal numero delle dislocazioni, dalla
loro mobilità, dalla possibilità di generarne di nuove e dalle interazioni tra
esse.
 difetti di superficie (bi-dimensionali, atomi su una superficie); I difetti di
superficie sono dati dalle superfici esterne, dai bordi di grano, dai geminati,
dai bordi a basso/alto angolo, dalle torsioni e dai difetti di impilamento. Le
superfici esterne sono il difetto di superficie più comune e sono considerate
difetti poiché gli atomi esterni sono legati a quelli più interni solo da una
lato, quindi hanno un numero minore di atomi vicini, ovvero un minor
numero di legami che si traduce in una maggiore energia, condizione che
rende tali atomi più suscettibili all’erosione e a reagire con l’ambiente. I
bordi di grano comportano un cambiamento dell’orientamento dei piani
reticolari da un grano all’altro nei solidi policristallini. Tale zona misura tra i 2
e i 5 diametri atomici in larghezza. I bordi di grano nascono durante la
solidificazione dall’incontro tre nuclei in espansione.
 difetti tridimensionali (inclusioni non metalliche, micro e macro-vuoti, cricche,
…); I difetti di volume sono costituiti da gruppi difetti di dimensione inferiore:
un gruppo di difetti di punto forma un vuoto/poro, un gruppo di impurezze
forma un precipitato. Le dimensioni variano dall’ordine dei nanometri a quello
dei centimetri e a volte anche oltre. Influenzano le proprietà.
99) Meccanismi di scorrimento plastico.
Nelle deformazioni elastiche l’energia viene immagazzinata come distorsione dei
legami atomici e poi viene restituita allo scarico, pertanto i legami tornano alla
configurazione originale. Sono pertanto deformazioni reversibili.
Le deformazioni plastiche si hanno per valori di tensione superiori alla tensione di
snervamento e la deformazione è tale da rompere i legami e formarne di nuovi,
pertanto la deformazione è permanente con determinazione di un ciclo di isteresi.
Le deformazioni plastiche avvengono mediante scorrimento cristallino, cioè
movimento rigido di una parte del cristalli rispetto all’altra su un piano e lungo
direzioni ben precise (direzione di scorrimento). Serve un sforzo critico τc per avere
tale scorrimento e tale sforzo è minore nel caso reale rispetto al caso ideale, poiché
nel cristallo reale ci sono “sorgenti” di debolezza meccanica che riducono lo sforzo
critico, ovvero le dislocazioni: lo scorrimento richiede la rottura di un numero
minore di legami, pertanto la resistenza allo scorrimento effettiva è minore di quella
teorica. La deformazione plastica comporta pertanto il movimento delle dislocazioni.
Già dopo la solidificazione ci sono circa 10 6 cm/cm3 di dislocazioni e se ne
producono di ulteriori per deformazione plastica (meccanismo di Frank-Read)
arrivando a circa 1012 cm/cm3. Durante le deformazioni plastiche le dislocazioni
interagiscono tra loro esercitando forze mutue e diventando pertanto sempre
meno mobili fino al bloccaggio per aumento della loro presenza. Di conseguenza la
resistenza di un metallo deformato plasticamente è maggiore rispetto che allo stato
originale: si parla di incrudimento. I bordi di grano rappresentano un ulteriore
barriera al movimento delle dislocazioni, infatti si ha l’impilamento delle dislocazioni
mobili sul bordo, il quale rappresenta un ostacolo al passaggio al grano confinante
per continuare lo scorrimento, dunque si ha un aumento della resistenza meccanica
al diminuire delle dimensioni dei grani: grani più piccoli comportano un maggior
numero di grani, dunque più bordi di grano e un conseguente maggior accumulo
delle dislocazioni, il quale a sua volta comporta una maggiore resistenza. La
temperatura e la velocità di deformazione influenzano la mobilità delle dislocazioni.
Al crescere di T si hanno meno difetti puntuali e il riordino di quelli lineari ed è
possibile avere con la deformazione una ricristallizzazione dinamica (cioè durante la
deformazione si formano nuovi grani rispetto a quelli originali con meno
dislocazioni) con crescita dei grani, pertanto si hanno meno bordi di grano. Questi
fenomeni sono agevolati da basse velocità di applicazione delle deformazioni. In
questo modo i meccanismi di rafforzamento per incrudimento e affinamento del
grano tendono a ridurre la loro efficacia fino a scomparire, dunque il movimento
delle dislocazioni è agevolato e la deformazione è più facile.
Dunque, σ =σ (ε , T , ε̇ , d g ) con dg=dimensione media dei grani, inoltre ci sono anche
altri fattori non considerati. Ci sono anche degli effetti negativi: una velocità di
deformazione bassa comporta più tempo di lavorazione, un’alta temperatura
comporta più energia e la possibile deformazione degli utensili.
Adesso verrà trattata la teorie della plasticità, ovvero la teoria del comportamento
dei materiali oltre il limite elastico, molto importante per la progettazione
strutturale e per la progettazione delle lavorazioni. Permette l’analisi e la previsione
del flusso di materiale (velocità, deformazione, velocità di deformazione), delle
tensioni, dei carichi, delle pressioni e delle energie necessarie e delle temperature (il
lavoro speso si trasforma in calore e pertanto la T varia). Si adottano alcune ipotesi
semplificative: il materiale è continuo e isotropo, L’Effetto Baushinger (diminuzione
della tensione di snervamento dopo l’applicazione di deformazioni plastiche a freddo
in una direzione e poi in quella opposta) è trascurabile, le componenti elastiche della
deformazione sono trascurabili, l’attrito è esprimibile con relazioni semplici, il
volume è costante, i dati ottenuti dalle prove monoassiali sono correlabili a stati
pluriassiali.
100) Tensioni.
dF
Una tensione è definita come t nr ( x , y , z)= lim dΩ , dove dF è la forza agente in
dΩ→ 0

direzione r sulla superficie infinitesima dΩ di normale n. La tensione che si ottiene è


scomponibile in una componente normale alla superficie=tensione normale σ e in
una direzione tangenziale alla superficie=tensione tangenziale τ. Considerando un
volumetto dV e le direzioni x, y e z è possibile definire il tensore delle tensioni (o di

[ ]
σ x τ xy τ xz
Cauchy): [ σ ij ]= τ yx σ y τ yz .
τ zx τ zy σ z

Dall’equilibrio alla rotazione attorno agli assi si ricava τxy=τyx, τxz=τzx e τyz=τzy, dunque
lo stato tensionale è definito da 6 componenti indipendenti (3 tensioni normali e 3
tangenziali) e il tensore delle tensioni è simmetrico. La tensione in una determinata
direzione su una superficie con una determinata normale non varia al variare del
sistema di riferimento, ma variano le sue componenti. Esistono delle particolari
giaciture per cui le tensioni tangenziali sono nulle, si parla di terna principale di
tensione data dagli assi 1, 2 e 3 detti assi principali di tensione. In tale sistema di

[ ]
σ1 0 0
riferimento il tensore delle tensioni assume la forma 0 σ 2 0 .
0 0 σ3

Le tensioni principali sono le soluzioni dell’equazione secolare


σ 3P−I I σ 2P −I II σ P−I III =0 , in cui II, III e IIII sono il primo, il secondo ed il terzo invariante
del tensore delle tensioni, indipendenti dal sistema di riferimento.
Si definisce la tensione media o componente idrostatica delle tensioni
σ x + σ y +σ z σ 1 +σ 2+ σ 3
σ m= = allora
3 3

[ ][ ][ ]
σx τ xy τ xz σ x −σ m τ xy τ xz σm 0 0
τ yx σ y τ yz = τ yx σ y −σ m τ yz + 0 σ m 0 ,
τ zx τ zy σ z τ zx τ zy σ z −σ m 0 0 σm
dove il primo termine a destra dell’uguale è la componente deviatorica o deviatore
delle tensioni, il secondo è la componente idrostatica delle tensioni. Lo stesso può
esser fatto partendo dal tensore delle tensioni principali. Si possono definire le
componenti ridotte delle tensioni sia per il generico tensore delle tensioni che per
quello relativo alle direzioni principali, esse coincidono con gli elementi della
diagonale della componente deviatorica: σ 'x =σ x −σ m e σ '1=σ 1−σ m, idem per y’, z’, 2’ e
2 σ 1−σ 2−σ 3
3’. Dal cerchio di Mohr si ricava che σ '1=σ 1−σ m= =¿ ¿ ¿, pertanto si può
3
affermare che la parte deviatorica del tensore nelle direzioni principali coinvolge le
deformazioni tangenziali. Consideriamo il tensore delle tensioni nelle direzioni
principali: la componente deviatorica coinvolge solo le tensioni tangenziali ed è
importante per le deformazioni plastiche; la componente idrostatica coinvolge solo
le tensioni normali, produce solo variazioni elastiche di volume e ha effetto sulle
proprietà a rottura del materiale ma non sulle deformazioni plastiche.
In campo plastico si definiscono le tensioni nominale s=P/A0 e reale σ=P/A, la quale
fornisce pertanto un valore istantaneo. Avviene strizione, A ≠ A0 , A < A0 volume che
si conserva
In campo elastico le due coincidono circa, non avviene strizione, A circa uguale
A0 ,volume che non si conserva
Le deformazioni sono una variazione di distanza tra 2 punti qualsiasi di un corpo
continuo. Si tratta di una questione solo geometrica, non dipende dal materiale e la
definizione è la stessa per deformazioni elastiche e plastiche. Si classificano come
piccole deformazione (elastiche ε<10-3) o deformazioni finite.
101) Piccole deformazioni.
Si tratta di deformazioni elastiche, infinitesime o comunque piccole, campo elastico
ε<10-3. Se lo spostamento è u=(ux(x,y,z), uy(x,y,z), uz(x,y,z,)), le cui componenti sono
continue e derivabili con derivate prime continue. Allora si definiscono le
∂u i
deformazioni principali ε i= e le deformazioni tangenziali o scorrimenti
∂i
γ ij 1 ∂ ui ∂u j
= ( + ). Considerando le direzioni x,y e z si definisce il tensore delle
2 2 ∂ j ∂i

[ ]
ε x γ xy γ xz
deformazioni[ ε ij ] = γ yx ε y γ yz , il quale come nel caso precedente è simmetrico con
γ zx γ zy ε z
6 componenti indipendenti. Per particolari giaciture le deformazioni tangenziali
sono tutte nulle, pertanto si hanno solo le deformazioni longitudinali e si parla di
[ ]
ε1 0 0
terna principale di deformazione 0 ε 2 0 con 1, 2 e 3 assi principali di
0 0 ε3
deformazione. Anche per le deformazioni è possibile individuare una componente
deviatorica e una componente idrostatica.
102) Deformazioni finite.
Sono le deformazioni che avvengono in campo plastico. Gli incrementi di
deformazione plastica sono dello stesso ordine di grandezza delle deformazioni
elastiche e si definisce il tensore degli incrementi di deformazione.
Le deformazioni definite (vere) si ottengono dagli integrali degli incrementi di
deformazione.
Detti L0=lunghezza iniziale e dL=aumento infinitesimo vale dε=dL/L, pertanto
L
dL L
ε =∫ =ln è la deformazione reale o vera. Vale che la deformazione reale totale
L0 L L0
è la somma delle deformazioni parziali incrementali: ε02=ε01+ε12.
2L
Infatti ε 0 →2=ln L =ln ¿.
0

Per le deformazioni elastiche dε=dL/L=dL/(L0+dL)≈dL/L0, pertanto si fa riferimento a


L
dL ∆L L−L
L0 e si parla di deformazione nominale e=∫ L = L = L .
0

L 0 0 0 0

L’errore commesso usando il valore nominale cresce al crescere della deformazione,


pertanto i tecnologi sfruttano i valori reali, mentre il progettista fa riferimento ad
un’area iniziale, lunghezza iniziale in cui i valori nominali sono uguali a quelli reali
(interesse al campo elastico). Per le deformazioni nominali non è vero che la somma
delle deformazioni nominali parziali coincide con la deformazione nominale totale:
e02≠e01+e12. Esistono relazioni che collegano i valori nominali di deformazioni e
L L +∆L
tensioni ai valori reali. ε =ln =ln 0 =ln (1+e) , ovvero ε=ln(1+e);
L0 L0
P P A0 A0
σ= = =s , ma per la costanza del volume A0L0=AL, quindi
A A A0 A
A0 L A0
= =1+ e=e →σ =s =s e ,
ε ε
quindi σ=s(1+e)=seε (nel primo caso e è la
A L0 A
deformazione nominale, nel secondo è il numero di Nepero.
103) Deformazione volumetrica.
Bisogna distinguere tra campo elastico e campo plastico.
In campo elastico:
x f y f z f −x 0 y 0 z 0 x 0 ( 1+ e x ) + y 0 ( 1+ e y ) + z 0 (1+ e z )−x 0 y 0 z 0
∆= = =( 1+e x ) ( 1+e y ) ( 1+e z ) −1,
x0 y0 z0 x0 y0 z0

ma in campo elastico si può considerare e=ε ed essendo le deformazioni piccole si


possono trascurare i termini di ordine 2, pertanto Δ=εx+εy+εz=3εm, quindi εm=Δ/3.
In campo plastico si considerano le ε e il volume è costante, quindi
∆=( 1+e x ) ( 1+e y ) ( 1+e z ) −1=0↔ ln ( 1+e x ) + ln ( 1+ e y ) + ln ( 1+e z )

¿ 0 ↔ ε x +ε y + ε z =0 (ε1+ε2+ε3=0, invariante). Si tratta dell’equazione di continuità.

Criteri di scorrimento per materiali duttili, sono usati per ricondurre stati di
tensione pluriassiali ad un caso monoassiale che abbia la stessa gravità, stesso
effetto dello stato complesso. Si usa il concetto di tensione equivalente (ideale).
104) Criterio di von Mises.
Il criterio di von Mises è un criterio di scorrimento che fa riferimento all’energia di
distorsione e suppone pertanto che esiste un valore massimo per il secondo
invariante del deviatore delle tensioni che non deve essere superato.
1
6[ 1 2
( σ −σ ) + ( σ 1−σ 3) + ( σ 2−σ 3 ) ]=k .
2 2 2 2
σ H=

Durante un prova di trazione monoassiale si ha σ1=σ0, mentre tutte le altre tensioni


σ 20 2 σ0
sono nulle, pertanto si ottiene =k → k= , dunque
3 √3
1
√2
√ 2 2 2
( σ 1−σ 2 ) + ( σ 1−σ 3 ) + ( σ 2−σ 3 ) =σ 0

1
oppure
√2
√ 2 2 2 2 2 2
( σ x −σ y ) + ( σ x −σ z ) + ( σ y −σ z ) +6 (τ xy +τ xz +τ yz )=σ 0.

Nel caso di taglio puro σ1=-σ3=τ0 e σ2=0, quindi sostituendo si ottiene τ0=k e dunque
σ0
k =τ 0 = =0,577 σ 0 è il limite di snervamento torsionale.
√3
105) Criterio di Tresca.
Il criterio di Tresca è un criterio di scorrimento che si basa sulla massima tensione
σ 1 −σ 3
tangenziale: τ max= =k . Lo scorrimento inizia quando la massima delle tensioni
2
tangenziali principali raggiunge il valore “K”.
Nella prova monoassiale tutte le tensioni sono nulle tranne σ1=σ0, quindi
σ 1−σ 3 σ 0
sostituendo si ottiene k=σ0/2 e dunque = → σ 1−σ 3=σ 0.
2 2
σ0
Nel caso di taglio puro σ1=-σ3=τ0 quindi sostituendo σ 1=k = → τ 0=0,5 σ 0 dunque il
2
criterio di Tresca ammette, a parità di tensione di snervamento, un valore critico
inferiore ed è dunque più cautelativo.
106) Tensione equivalente.
La tensione equivalente, come visto, può essere espressa col criterio di von Mises, e
1
allora σ = √ ( σ 1−σ 2 ) + ( σ 1−σ 3 ) + ( σ 2−σ 3 ) , oppure col criterio di Tresca, e allora
2 2 2

√2
σ =σ 1−σ 3 .

107) Deformazione equivalente.


La deformazione equivalente si ricava in analogia col secondo invariante del tensore
√2
delle tensioni: d ε = √ ( dε 1−dε 2 ) + ( dε 1 −dε 3 ) + ( dε 2−dε 3 ) , dove il coefficiente
2 2 2 √2 è scelto
3 3
in modo tale che per uno stato di tensione monoassiale risulti d ε =|dε 1|.
Dall’equazione di continuità in campo plastico si ha
d ε 1 +d ε 2 +dε 3=0 ↔(d ε 1 +dε 2 +dε 3) =0 ↔ dε +dε +dε =−2(dε 1 dε 2 +dε 1 dε 3 +dε 2 dε 3 ), quindi
2 2 2 2
1 2 3

sostituendo i doppi prodotti nell’equazione iniziale si ottiene d ε =


quindi se i rapporti tra gli incrementi di deformazione dε rimangono costanti si
√ 2
3
(dε 21 + dε 22+ dε 23),

ottiene ε =

2 2 2 2
( ε + ε +ε ), mentre facendo considerazioni analoghe per le velocità di
3 1 2 3
2

deformazione si ottiene ε̇ = ( ε̇ 21+ ε̇ 22 + ε̇ 23) derivando rispetto al tempo entrambi i
membri.
3

Le equazioni di Levy-von Mises costituiscono la relazione tra tensioni e


deformazioni in campo plastico, sono valide in regime rigido- plastico, sono utili per
studiare particolari casi come lo stato di deformazione piano.
Si considera un regime rigido-plastico e si suppone una proporzionalità tra il tensore
degli incrementi delle deformazioni e il tensore deviatore delle tensioni,
dε 1 dε 2 dε 3
ovvero σ ' = σ ' = σ ' =dλ , con σ ' i=σ i −σ m, di conseguenza
1 2 3

' 2
 dε 1 =dλ ∙ σ 1=dλ ( σ 1−σ m )= dλ σ 1−
3 ( σ 2+ σ 3
2
, )
' 2
 dε 2 =dλ ∙ σ 2=dλ ( σ 2−σ m )= dλ σ 2−
3 (σ 1 +σ 3
2
, )
' 2 σ 1 +σ 2
 dε 3 =dλ ∙ σ 3=dλ ( σ 3−σ m )= dλ(σ 3− ).
3 2

Dunque
dε 1−dε 2 dε 1−dε 2 dε 2 −dε 3 dε 3−dε 1 2 2
dε 1 −dε 2=dλ ( σ 1−σ 2 ) ↔ dλ= → = = =dλ→ ( dε 1−dε 2 ) + ( dε 2 −dε 3 ) + ( dε 3−dε 1
σ 1−σ 2 σ 1−σ 2 σ 2 −σ 3 σ 3−σ 1
, quindi estraendo la radice quadrata a entrambi i membri e ricordando la
deformazione equivalente e la tensione equivalente secondo von Mises si ottiene
3 1 3 dε
dλ= d ε∙ = , quindi
√2 √2 σ 2 σ
dε 1 =

σ (
σ 1−
σ 2 +σ 3
2 ),dε 2=

σ (
σ 2−
σ 1 +σ 3
2 )
, dε 3=

σ (
σ 3−
σ 1+ σ 2
2 ).

σ

è il modulo di plasticità, ricavabile dalla curva di flusso plastico del materiale e
dipendente sia dall’incremento di deformazione equivalente che dalla tensione
equivalente.
108) Deformazione plastica bidimensionale.
In molte lavorazioni plastiche la deformazione avviene in un piano x-y per ragioni
geometriche o per impedire il flusso plastico nella terza direzione z, pertanto le
componenti di deformazione lungo l’asse z perpendicolare al piano sono
trascurabili: εz=γxz=γyz=0τxz=τyz=0 “z” è direzione principale di tensione e si
pone pertanto z=3. Dalle equazioni di Levy-von Mises
dε 3 =

σ (
σ 3−
σ1+ σ2
2 )
=0 → σ 3=
σ 1+ σ 2
2
→ σ 2 <σ 3< σ 1.

Dal criterio di Tresca: σ 1−σ 2=σ 0=2k ,


2
dal criterio di von Mises: σ 1−σ 2= σ 0=2 k , ovvero i due criteri sono equivalenti.
√3
Comportamento alla deformazione plastica dei materiali metallici. Bisogna definire
la geometrie degli utensili e del grezzo e i parametri di processo, dunque servono
informazioni sul comportamento alla deformazione plastica del materiale, sul
comportamento delle interfacce pezzo-utensili in termini di resistenza all’attrito e
trasmissione del calore, sulle caratteristiche del materiale degli utensili e sui costi
del processo (attrezzature, macchinari, manodopera, …). Il comportamento alla
deformazione plastica è descritto dalla legge reologica (o equazione costitutiva), la
quale è indipendente dalla tecnica di prova e dalla modalità di esecuzione della
prova. Si valuta con prove caratterizzate da stati tensionali semplici e ben definiti e i
risultati vengono estesi ai sistemi reali più complessi. Le prove classiche sono la
prove di trazione e compressione assial-simmetriche, le quali sono prove semplici, le
quali generano però deformazioni di entità ridotta, a differenza delle situazioni reali,
pertanto spesso serve estrapolare i dati, con i maggiori rischi che tale processo
comporta rispetto all’interpolazione.
I risultati ottenuti dalle prove semplici di trazione e compressione vanno poi
confrontati a sistemi più complessi tramite V.M. o Tresca. Durante le prove
monoassiali possono essere impartite solamente deformazioni di piccola entità e
quindi le variazioni di forma durante queste prove sono piccole rispetto ai casi reali.
Questo comporta uno svantaggio perché se si estendessero ad intervalli più ampi si
commetterebbe un errore.

109) Prova di trazione: curva dei valori nominali.


La prova di trazione è la più importante e la più utilizzata tra le prove distruttive.
Essa fornisce sia le proprietà meccaniche che una descrizione quantitativa del
comportamento alla deformazione platica.
Esistono determinate norme per la realizzazione della prova di trazione. Per ogni
istante si misurano la forza P e l’allungamento della direzione del carico ΔL=L-L 0, poi
si trasformano tali valori nelle deformazioni e nelle tensioni nominali, nel caso della
curva dei valori nominali.
Nel caso nominale, In output si ottiene pertanto la curva s-e nominale, la quale
mostra il punto di strizione localizzata, non presente nella curva reale e importante
da conoscere poiché in corrispondenza di esso lo stato di tensione passa da
monoassiale a triassiale, di conseguenza occorre correggere le relazioni dalla
strizione in poi. Nel caso nominale è possibile distinguere una regione elastica, al di
sotto dello snervamento e a comportamento lineare, e una regione plastica, oltre lo
snervamento e con comportamento non lineare e non monotono. Il primo tratto
della regione plastica è a comportamento crescente: la diminuzione dell’area reale
(istante per istante) fa sì che la forza P cresca, ma al contempo l’incrudimento fa
aumentare significativamente la P, pertanto complessivamente la forza P cresce e a
parità di area iniziale la tensione nominale cresce. Il secondo tratto è decrescente:
si ha la strizione, pertanto la diminuzione dell’area reale istante per istante è tale da
generare una diminuzione della forza P tale da contrastare l’aumento dovuto
all’incrudimento, pertanto complessivamente la forza P decresce e, a parità di area
iniziale, la tensione nominale decresce. Lo snervamento rappresenta il passaggio
dal tratto lineare al tratto non lineare, la strizione rappresenta il passaggio dal tratto
non lineare crescente al tratto non lineare decrescente. Il punto di snervamento non
è sempre semplice da individuare, pertanto si ricorre alla tecnica della retta a
e=0,2%=0,002 (parallela al tratto elastico e passante per il punto di ascissa e=0,002 e
ordinata s=0). La deformazione omogenea è quella che va dall’inizio fino alla
strizione, la deformazione non omogenea è quella che va dalla strizione alla rottura;
insieme danno l’allungamento a rottura. Il modulo di elasticità (o di Young) E è la
pendenza del tratto elastico ed è una misura della rigidezza. La resistenza allo
snervamento s0 è il valore della tensione alla quale inizia la deformazione plastica
(snervamento) e si calcola col metodo prima enunciato della deformazione residua
allo 0,2%. La resistenza a trazione su è il valore della tensione nominale in
corrispondenza del picco della curva: su=PMAX/A0. Dalla curva s-e si possono ricavare
alcune fondamentali proprietà del materiale.
La duttilità si misura con ef=(Lf-L0)/L0 o con rf=(A0-Af)/A0, ovvero con la variazione di
lunghezza relativa o con la variazione di area relativa. I due parametri sono collegati:
ef=(Lf-L0)/L0=(Lf/L0)-1, quindi dalla costanza del volume nel tratto plastico (siamo
oltre lo snervamento) ef=(A0/Af)-1=rf/(1-rf), infatti

( ) ( ) ( )=
−1 −1 −1
A0 A 0− A f A 0 − A f A 0 A0 Af Af A 0− A f
ef = −1= = =r f =r f =r f 1−1+ =r f 1−
Af Af A0 A f Af A0 A0 A0
−1 r
r f ( 1−r f ) = f .
1−r f

La resilienza è la capacità di assorbire energia in campo elastico e di restituirla allo


2
s
scarico e viene definita con il modulo di resilienza U R= 1 s0 e 0= 1 0 , dunque un
2 2E
materiale ha un’elevata resilienza se ha un basso modulo di elasticità e un’elevata
tensione di snervamento, come ad esempio avviene per gli acciai per molle.
La tenacità è la capacità di assorbire energia in campo plastico senza rotture ed è
una proprietà che combina resistenza e duttilità. Per i materiali duttili si definisce
1 2
U T =su e f o alternativamente U T = (s 0+ s u)e f ; per materiali fragiliU T = s e f ,
2 3 u
ovvero si assume che la curva s-e sia una parabola in campo plastico.
110) Prova di trazione: curva dei valori reali.
Si acquisiscono sempre i dati relativi a P e a ΔL, ma si ricava in output i valori della
tensione vera o reale σ=P/A e della deformazione vera o reale ε=ln(L/L0).
La curva reale è sempre crescente fino alla rottura del provino, salvo addolcimento
per alta T. Come già visto σ=s(1+e) (e=deformazione nominale) e ε=ln(1+e), dunque
si ottiene che la curva σ-ε è posizionata più in alto e a sinistra rispetto alla curva s-e.
Queste considerazioni rimangono valide fino all’inizio della strizione localizzata
perché in quel caso la prova di trazione non è più da considerare monoassiale ma
triassiale. Strizione localizzata che si manifesta al raggiungimento del picco della
curva nominale (massima tensione nominale). Il fatto che lo spostamento sia più in
alto e a sinistra è dovuto al fatto che σ>s (poiché si moltiplica s per una quantità
maggiore di 1) e ε<e (poiché si applica il logaritmo naturale). Bisogna prestare
attenzione poiché la relazione ε=ln(L/L0) è valida solo nel campo delle deformazioni
omogenee, ovvero prima della strizione, dopo la quale la deformazione è
concentrata e si definisce ε in funzione della variazione di area dε=dL/L=-dA/A
Af
dA A
(dA<0), quindi ε =−∫ A =ln A 0 . Inoltre dopo la strizione lo stato di tensione è
A
0
f

triassiale pertanto è necessaria una correzione della curva σ-ε. Supponiamo di


indicare nella curva nominale come B il punto in cui si ha strizione e come C il punto
in cui si ha la rottura, ad essi corrisponderanno nella curva reale i punti B’ e C’,
mentre le due curve hanno in comune il punto di partenza O (l’origine). Nella curva
reale e nel tratto O-B’ valgono le relazioni ε=ln(1+e) eσ=s(1+e), mentre oltre la
strizione B’ lo stato di tensione è triassiale e vale ε=ln(A 0/A), pertanto o si applica un
opportuno criterio di scorrimento oppure si corregge la curva considerando il tratto
B’C’’ al posto del tratto B’C’. Di solito, comunque, durante l’esecuzione della
P
MAX L
u A0
prova ci si ferma al raggiungimento di B’. Si definiscono σ u= A e ε u=ln L =ln A ,
u 0 u

dove u=uniforme poiché si riferiscono al valore limite del campo di deformazioni


uniformi, ovvero al punto di strizione, al quale si riferisce anche P MAX(si ottiene tale
valore grazie all’incrudimento, poi prevale la riduzione d’area dovuta alla strizione e
P decresce), dunque occorre valutare la curva nominale, l’unica in cui è individuabile
il punto di strizione.
Valgono le relazioni σu=su(A0/Au)=sue^(εu) e εu=ln(1+eu), dove εu=deformazione reale
uniforme, proprietà molto utile per stimare la lavorabilità con i dati della prova di
trazione. A rottura, invece, si ha εf=ln(A0/Af), dove εf non può essere correlato con
ef, ma con rf: εf=ln[1/(1-rf)] Se si interrompe la prova prima della rottura ma dopo lo

snervamento allo scarico si recupera la deformazione elastica e rimane la


componente plastica. Ricaricando il materiale la curva tende ad assumere i valori
che avrebbe assunto se la prova non fosse stata interrotta con lo scarico, in
accordo col fatto che ε TOT =∑
i
ei . L’effetto Bauschinger viene trascurato, ma

comporterebbe la dipendenza di σ0 dalla traiettoria di carico: si riduce σ 0c (a


compressione) se si carica il materiale a trazione in zona plastica e viceversa. Come
già detto tale effetto viene trascurato, così come l’isteresi, nei problemi di plasticità.

111) Prova di trazione: tensioni e deformazioni equivalenti.


Gli stati tensionali e deformativi agenti su provini cilindrici in una prova di trazione
monoassiale può essere descritta secondo von Mises: ε=
√ 2 2 2 2
3
(ε 1+ ε 2 +ε 3),

1
σ=
√2
√ 2 2 2
( σ 1−σ 2 ) + ( σ 1−σ 3 ) + ( σ 2−σ 3 ) , ponendo 1=direzione assiale, 2=direzione radiale e
3=direzione circonferenziale si ha σ1≠0, σ2=σ3=0 nella prova di trazione, pertanto
ε1=ln(L/L0),
ε2=ln(R/R0)=ln(D/D0),
data la costanza del volume: A0L0=AL, quindi A/A0=L0/L e
π R L0 L
( ) √
L 1 L −1
2 2
R
= ↔ = 0 → ε 2=ln 0 = ln 0 = ε,
π R0 L
2
R0 L L 2 L 2 1

quindi per la continuità ε1+ε2+ε3=0, quindi ε3=ε2=-0,5ε1, quindi σ =σ 1 e ε =ε 1, ovvero la


tensione e la deformazione assiale corrispondono alla tensione e alla deformazione
equivalenti. I valori equivalenti di tensione deformazione sono coincidenti con quelli
ottenuti nella direzione di applicazione del carico.
Scelta dei provini. Bisogna scegliere il provino opportuno in base alla normative. Un
provino presenta diverse parti: gli afferraggi, i raccordi e il tratto a sezione costante
LC, di cui fa parte il tratto utile L U. Possibilmente i provini devono essere assial-
simmetrici.
112) Prova di trazione: relazione tra i valori reali e nominali di tensione e
deformazione.
Nel tratto OB’, ovvero dall’inizio della prova fino alla strizione valgono le relazioni
ε=ln(1+e) e σ=s(1+e), mentre oltre il punto B’, ovvero oltre la strizione, vale la
relazione ε=ln(A0/A) per la deformazione reale, per cui non si ha una relazione che la
colleghi direttamente alla deformazione nominale, così come non si ha una relazione
che colleghi direttamente la tensione nominale a quella reale, la quale è triassiale e
pertanto deve essere valutata con attenzione.
Prova di trazione → ricavare la curva dei valori nominali → si riesce a definire il
punto di strizione perché è il valore più alto della curva nominale →ricavo la eu →
εu=ln(1+eu) → si ricava la curva dei valori reali tramite εu perché oltre questo punto il
valore dello stato tensionale sarà triassiale → ε=ln(1+e) e σ=s(1+e)
113) Prova di trazione: correlazione tra i valori di εu e n.
Esiste una correlazione tra εu e n. Al massimo della curva nominale s-e si ha dP=0,
con P=σA, quindi dP=σdA+Adσ=0, quindi σ=-dσ(A/dA)=dσ/dε, dunque
d
n
K εu =

( K ε un)=Kn εn−1
u → ε u=n. Dalla precedente relazione emerge che un maggior

coefficiente di incrudimento implica un maggior ritardo nella comparsa della


strizione. Pertanto la tensione vera alla forza massima è σ u=K ε nu =K nn. Invece per la
resistenza a trazione in funzione di K e n (la resistenza a trazione è il valore della
tensione nominale in corrispondenza di PMAX):

()
Au n L0 Lu L 0 1 n
n
n n
P MAX=s u A 0=σ u Au=K n Au → s u=K n =K n , ma ε u=n=ln → = n → su=K ,
A0 Lu L0 L u e e
dove e=numero di Nepero. Se su,calcolato-su,misurato>±3%, allora la retta non approssima
bene i valori sperimentali, quindi bisogna elaborare una nuova retta.
114) Valori ti tensione e di deformazione ottenuti da una prova di compressione
assialsimmetrica.
La prova di compressione permette di risolver alcuni dei problemi tipici della prova
di trazione; nella prova di compressione è assente la strizione e ciò permette di
aumentare la deformazione ai livelli delle lavorazioni reali e avere lo stato tensionale
simile a quello della maggior parte delle lavorazioni massive (fucinatura,
laminazione). Lo svantaggio della prova di compressione risiede nel fatto che
presenta attrito. Esistono due tipi di prove di compressione: la prova di
compressione assialsimmetrica e la prova Ford o prova di compressione in stato
piano di deformazione. Nelle prove di compressione non si ha strizione, pertanto è
possibile ottenere maggiori deformazioni, soprattutto per i materiali duttili, simili a
quelle che si hanno durante le lavorazioni, tuttavia ci sono dei limiti dovuti
all’attrito. Inoltre lo stato tensionale è simile a quello della maggior parte delle
lavorazioni plastiche massive.
Nella prova assialsimmetrica si pone un provino cilindrico tra 2 piastre lisce, piane e
parallele e lo si sottopone a compressione in assenza di attrito, ottenendo così che il
provino veda aumentare il proprio diametro e diminuire la propria altezza.

( )
D 2 h0
In campo plastico il volume si conserva, pertanto D = h .
0

Non essendoci strizione si possono ricavare i valori reali di tensione e di


deformazione senza passare prima per i valori nominali. Nella prova si misurano la
forza P istantanea e la riduzione di altezza Δh =h 0-h, allora la tensione reale è
P P h P h0−∆ h
σ= = = (la macchina misura Δh, non h), mentre la deformazione
A A 0 h0 A 0 h0
h0 A h0
reale è ε =ln h =ln A =ln h −∆ h .
0 0

Analogamente al caso della prova di trazione, tali valori di tensione e deformazione


assiali coincidono con i valori equivalenti e non essendoci strizione si considerano
direttamente i valori reali.

Nei casi reali il flusso del materiale è ostacolato dall’azione dell’attrito a contatto
con le piastre, mentre è indisturbato a metà altezza, pertanto si forma un
caratteristico profilo del campione a forma di botte (barilottatura). Inoltre, a causa
dell’attrito La deformazione è disuniforme e vicino alle piastre si formano zone a
forma di cono in cui il materiale risulta pressoché indeformato. Quando le due zone
a forma di cono finiscono a contatto si ha un conseguente elevato aumento della
forza richiesta (punto indicato dalla freccia nel grafico, la pendenza cambia
significativamente).
Si tratta di un effetto dovuto all’attrito, pertanto o si correggono i dati ottenuti o si
ferma la prova prima di giungere al contatto. Altre soluzioni sono l’uso del
lubrificante, il quale viene però espulso dalla forza normale ed ha pertanto un
effetto limitato a meno che non si usino piastre con opportune scanalature per
trattenere il lubrificante (oppure si possono realizzare le scanalature sul campione),
o l’esecuzione della prova secondo incrementi successivi di deformazione fino alla
variazione di altezza desiderata e lubrificando dopo ogni incremento (è possibile
eseguire questo tipo di prova poiché ε TOT =∑
i
ei , tuttavia è richiesto molto tempo in

questo modo). Se si sceglie di usare il lubrificante, bisogna utilizzare quello più


opportuno: per le prove a freddo il teflon, il MoS 2 oppure olio ad alta viscosità; per
le prove a caldo la grafite in olio per le leghe di alluminio, il vetro per l’acciaio, il
titanio e le leghe resistenti alle alte temperature.

115) Effetto del rapporto D0/H0 sulla curva forza – corsa in una prova di
compressione assialsimmetrica.
La scelta del provino è influenzata dal rapporto D0/H0. A parità di riduzione di
altezza, la forza P richiesta aumenta all’aumentare del rapporto D0/H0, poiché
avere un provino in cui la larghezza prevale sull’altezza comporta una maggiore zona
indeformata in proporzione. Per questo si usano provini con rapporto D 0/H0 piccolo,
tuttavia bisogna stare attenti poiché se D0/H0<0,5 si incorre nel rischio del carico di
punta, ovvero dell’instabilità elastica. La curva P-Δh senza attrito si ottiene
estrapolando la curva con D0/H0=0 da curve con D0/H0 diversi.

116) Curva forza - corsa in assenza di attrito ottenuta da una prova di compressione
assialsimmetrica.
La curva P-Δh senza attrito si ottiene estrapolando la curva quando D 0/H0=0 da curve
con D0/H0 diversi con attrito. Si tratta di una procedura lunga poiché richiede

numerose prove, inoltre bisogna considerare che le estrapolazioni non sempre sono
affidabili. La procedura è la seguente: Si considera un valore della forza P e si traccia
la corrispondente retta orizzontale, la quale intersecherà le diverse curve forza-corsa
ottenute per diversi valori di D0/H0 in punti diversi. Il semiasse verticale inferiore è
relativo ai valori di D0/H0, pertanto nel quadrante inferiore si riportano i punti ΔH-
D0/H0 ottenuti considerando le intersezioni individuate in precedenza. Si può poi
individuare la curva passante per questi punti e, per estrapolazione, il punto di
questa curva relativo a D0/H0=0, il quale sarà anche esso relativo alla forza P e al
quale corrisponderà un valore di ΔH, pertanto nel quadrante superiore si può
riportare il punto ΔH-P relativo alla curva con D 0/H0=0. Ripetendo la procedura
variando il valore di P considerato è infine possibile ottenere la curva forza-corsa in
assenza di attrito, ovvero con D0/H0=0.

117) Prova di compressione in stato piano di deformazione.


Nella prova Ford o prova di compressione in stato piano di deformazione il
provino è una lamina tra piastre piane e parallele con profondità maggiore di quella
della lamiera e larghezza b (larghezza piastre che eseguono la prova deformante). Si
ha uno stato piano di tensione e non si ha la barilottatura, ma per lo stato piano di
tensione deve valere w>5b, con w=profondità del provino(lunghezza lamiera), in tal
caso è infatti trascurabile la deformazione nel senso della profondità. Inoltre, detto
to lo spessore della lamiera, deve valere 0,25<t0/b<0,5: se t0/b<0,25 si ha un
maggiore effetto dell’attrito che aumenta significativamente per via della larghezza
delle piastre, se t0/b>0,5 la pressione di impronta è maggiore della tensione di
scorrimento, ovvero si valuta il comportamento locale, tipo prova di durezza.
Anche se t0/b è corretto serve comunque avere lubrificazione, ma con t0/b
opportuni si possono raggiungere Δh fino al 90% (cosa impossibile per via della
barilottatura nel caso della prova assialsimmetrica). Le tensioni e le deformazioni
misurate nella direzione di applicazione del carico (compressione piana) sono
P t0 t0
σ cp=
wb
e ε cp=ln =ln
t t 0−∆ t
(nella prova si misura Δt). I valori non corrispondono a
quelli ottenibili con una prova assialsimmetrica.

118) Curva dei valori equivalenti calcolata da quella ottenuta con la prova di
compressione in stato piano di deformazione.
Poniamo 1=direzione dello spessore della lamiera, 2=direzione della lunghezza
(larghezza piastra deformante) e 3=direzione della larghezza (profondità lamiera).
Nel caso in cui w/b>5 si ha ε3=0, quindi dall’equazione di continuità ε1=-ε2, e inoltre
σ 1 +σ 2 σ 1
σ 3= ≈ supponendo trascurabile σ2 (dovuta all’attrito, diminuisce con la
2 2
lubrificazione e con un corretto rapporto t0/b) si ha

ε=
√ 2 2 2 2
3
(ε 1+ ε 2 +ε 3)=
2
√3
2
ε 1= ε cp =1,155 ε cp
√3
σ
( σ 1−σ 2 ) + ( σ 1−σ 3 ) + ( σ 2−σ 3 ) = √ σ 1= √ σ cp= cp .
1 3 3
σ=
√2
√ 2 2 2

2 2 1,155

Anziché ε 1 è stato messo ε cp perché è la deformazione nella direzione di applicazione


del carico.
119) Modelli reologici: effetto della deformazione.
La relazione che lega σ a ε in campo plastico è data da σ=Kεn , dove K=coefficiente di
resistenza e n=coefficiente di incrudimento. Supponendo che la deformazione
avvenga a Tamb e a velocità di deformazione costante, per determinare i valori di K e
di n occorre rappresentare i valori di alcuni punti della curva σ-ε dallo snervamento
alla strizione (si esegue la prova a trazione) in un grafico logaritmico e poi effettuare
l’interpolazione lineare di tali dati, relativi al campo plastico, i quali come
preannunciato in scala logaritmica si dispongono secondo una retta, in particolare
log σ =log K +n log ε .
Da tale relazione emerge che, una volta elaborato il grafico logaritmico, il valore di K
si ricava dall’intercetta con l’asse log(σ) (ovvero leggendo il valore dell’ordinata
quando ε=1, il quale corrisponde a log(K)), mentre il valore di n è dato dalla
pendenza della retta interpolante i punti sperimentali. Per uno stesso materiale si
possono avere diversi valori di K e n in base al trattamento termico e alla storia di
carico prima della deformazione, infatti K e n non si riferiscono al materiale, ma ad
una sua precisa condizione.
Se T aumenta o la velocità di deformazione diminuiscen diminuisce (minor
incrudimento), n varia tra 0 (per materiali idealmente plastici) e 1 (solidi elastici), ma
per la maggior parte dei materiali 0,1<n<0,5.

120) Differenza tra la velocità di incrudimento e il coefficiente di incrudimento.


La velocità di incrudimento (θ) è la pendenza della curva σ-ε NON logaritmica:

θ= .

La velocità di incrudimento è legata a n dalla relazione


d (log σ ) d (ln σ ) ε dσ ε
n= = = = θ.
d log ε d ln ε σ dε σ

Esiste inoltre una correlazione tra εu e n. In corrispondenza del picco massimo della
curva nominale s-e si ha dP=0, con P=σA, quindi dP=σdA+Adσ=0, quindi
d
σ=-dσ(A/dA)=dσ/dε, dunque K ε u = dε ( K ε u )=Kn ε u → ε u=n.
n n n−1

Dalla precedente relazione emerge che un maggior coefficiente di incrudimento


implica un maggior ritardo nella comparsa della strizione (meglio materiali con n
elevati). Pertanto la tensione vera alla forza massima (che è la massima forza
corrispondente all’inizio della strizione localizzata raggiunto il carico massimo) è
σ u=K ε u =K n .
n n

Invece per la resistenza a trazione in funzione di K e n (la resistenza a trazione è il


valore della tensione nominale in corrispondenza di PMAX):

()
Au n L0 Lu L 0 1 n
n
n
P MAX=s u A 0=σ u Au=K n Au → s u=K n n
=K n , ma ε u=n=ln → = n → su=K ,
A0 Lu L0 L u e e
dove e=numero di Nepero ( su permette di verificare la bontà dei risultati ottenuti
dall’intrpolazione di K e n derivanti dal grafico logaritmico).
Se su,calcolato-su,misurato>±3%, allora la retta non approssima bene i valori sperimentali,
quindi bisogna elaborare una nuova retta. Esistono diversi modelli semplificati per
le curve σ-ε: rigido-plastico ideale, elastico-plastico ideale e elastico-plastico lineare.
Inoltre deformazioni ad alte T possono comportare fenomeni di riassetto dinamico
o ricristallizzazione dinamica, i quali comportano una modifica dell’andamento della
curva, la quale tende in entrambi i casi ad un valore costante della tensione vera al
crescere della deformazione vera.

Differenza tra la velocità di incrudimento e il coefficiente di incrudimento :


Queste due grandezze hanno due significati diversi: la velocità di incrudimento è
data dalla pendenza della curva σ-ε nel tratto plastico e fornisce pertanto
un’informazione sulla variazione istantanea (pertanto il suo valore varia da punto a
punto) della tensione reale al variare della deformazione reale, il coefficiente di
incrudimento n è invece un coefficiente adimensionale che determina l’andamento
generale della tensione reale in funzione della deformazione reale (pertanto il suo
valore è costante, inoltre coincide con la deformazione reale alla strizione).
121) Modelli reologici: effetto della velocità di deformazione. Considerando la
temperatura e la deformazione reale costanti, la relazione che lega la tensione reale
alla velocità di deformazione è σ =C ε̇ m, dove C=coefficiente di resistenza e
m=coefficiente di sensibilità di σ alla velocità di deformazione (strain-rate
sensitivity), per la maggior parte dei metalli m0 a Tamb, mentre cresce a T più
elevate, a Tamb 0≤m≤0,03. Pertanto si eseguono più prove σ-ε a T costante per diversi
valori di velocità di deformazione e si elabora poi un grafico log σ −log ε̇ fissando un
determinato valore di ε e prendendo in corrispondenza di esso i valori di σ relativi
alle diverse curve con diversa velocità di deformazione. Una maggiore velocità di
deformazione implica un maggior incrudimento, pertanto si avranno a parità di ε
maggiori valori di σ al crescere di ε̇ . La relazione che lega log σ a log ε̇ è data da
log σ =log C+ m log ε̇ e si cerca di ricavare questa relazione di tipo lineare
dall’interpolazione dei dati sperimentali:
pertanto C=intercetta con l’asse log σ (ovvero il valore dell’ordinata nel punto
log ε̇=0 , ovvero ε̇ =1), mentre m=pendenza della retta interpolante. Si
faccia ora la seguente osservazione: se

( )
m
σ 2 ε̇ 2 σ ε̇ σ +∆σ ε̇ ∆σ ε̇
σ =C ε̇ m → = → ln 2 =m ln 2 → ln 1 =m ln 2 → ln(1+ )=m ln 2 , poiché
σ 1 ε̇ 1 σ1 ε̇ 1 σ1 ε̇ 1 σ1 ε̇ 1
∆σ ∆σ ∆σ ∆σ ε̇ 2
→0 , ln (1+ )→ quindi ≈ m ln .
σ1 σ1 σ1 σ1 ε̇ 1

∆σ
Se m=0,01 e ε̇ 2=10 ε̇ 1, allora σ ≈ 0,023=2.3 % , dunque l’effetto della velocità è
1

trascurabile;
∆σ
se m=0,01 e ε̇ 2=105 ε̇ 1, allora σ ≈ 0,115=11,5 %, dunque l’effetto della velocità non è
1

più trascurabile. La relazione appena analizzata è alla base dei jump test, prove in
cui si ha una variazione improvvisa della velocità di deformazione con conseguente
aumento istantaneo Δσ (essendo istantaneo si considera ε costante, così come la T
∆σ ε̇ 2
durante la prova), pertanto si ricava il valore di m dalla relazione σ ≈ m ln ε̇ . I jump
1 1

test hanno il vantaggio di essere prove rapide. Il valore di m dipende da T,


se T/Tf<0,5 (T= temperatura assoluta di deformazione [K]) / T f = temperatura di
fusione [K]), allora la dipendenza è bassa,
se T/Tf>0,5 si ha una forte dipendenza per via di processi attivati termicamente.
Comunque T/Tf è sempre e comunque minore di 1, ovvero non si arriva mai a
fusione, processo rimane sempre allo stato solido nelle lavorazioni plastiche.
122) Modelli reologici: effetto della deformazione e della velocità di deformazione.
Si considera che la temperatura sia costante, allora la relazione che lega la tensione
reale alla deformazione reale E alla velocità di deformazione è data da σ = A ε n ε̇ m,
dove A=coefficiente di resistenza, mentre n e m sono i coefficienti già trattati in
precedenza. I processi vengono classificati in:
1. deformazione a freddo (cold forming), se T/Tf<0,25, per la quale n≠0 e m≈0;
2. deformazione a tiepido (warm forming), se 0,25<T/Tf<0,5, per la quale n≠0 e
m≠0;
3. deformazione a caldo (hot forming), se T/Tf>0,5, per la quale n≈0 e m≠0.
Pertanto, l’effetto di T si valuta indirettamente con n, m e A:
σ (T )= A (T ) ε n (T ) ε̇ m (T ).

123) Modelli reologici: effetto della temperatura.


I processi vengono classificati in:
1. deformazione a freddo (cold forming), se T/Tf<0,25, per la quale n≠0 e m≈0;
2. deformazione a tiepido (warm forming), se 0,25<T/Tf<0,5, per la quale n≠0 e
m≠0;
3. deformazione a caldo (hot forming), se T/Tf>0,5, per la quale n≈0 e m≠0.
Pertanto, l’effetto di T si valuta indirettamente con n, m e A: σ (T )= A (T ) ε n (T ) ε̇ m(T ).

Q
In alternativa è possibile valutare l’effetto diretto di T: σ =C 2 e RT ,

dove Q=energia di attivazione per scorrimento plastico e R=costante universale dei


gas. Si eseguono varie prove con la stessa velocità di deformazione per diversi valori
di T, poi si considera un certo valore di ε dalle diverse curve σ-ε ottenute e si
graficano in corrispondenza del valore di ε scelto i punti (1/T, log σ). La relazione
Q σ Q
teorica che lega log σ a 1/T è ln σ =lnC 2+ RT → ln C = RT , pertanto interpolando i dati
2

sperimentali è possibile ricavare ln(C2) come l’ordinata all’origine del grafico


tracciato e Q/R come la pendenza.
Complessivamente, tenendo conto in modo diretto dell’effetto di tutti i parametri
del processo:
Q
n m RT
σ =B ε ε̇ e

Si ottiene così il modello reologico complessivo secondo cui σ =σ (ε , ε̇ , T ), in realtà,


come già visto in precedenza, si dovrebbe tener conto anche della microstruttura,
quindi questo modello reologico è valido fissato un certi tipo di microstruttura.

124) Metodo dell’energia di deformazione uniforme.


Si effettua l’analisi delle lavorazioni plastiche, ovvero si valutano le tensioni, le
forze, le energie e le potenze necessarie per progettare/scegliere utensili e
apparecchiature per valutare la possibilità di eseguire la lavorazione senza
provocare rotture nel prodotto. Esistono diversi metodi, ma il più usato è il metodo
dell’energia di deformazione uniforme, il quale si basa sull’uguaglianza tra il lavoro
delle forze esterne e l’energia spesa dalle tensioni interne durante la
deformazione omogenea. Con deformazione omogenea si intende che in ogni punto
del corpo soggetto a una forza esterna la deformazione avviene nello stesso modo e
con la stessa entità (uniforme), pertanto se il corpo può esser visto come un insieme
di elementi uguali tra loro, allora questi si deformeranno assumendo la stessa forma
e le stesse dimensioni. Il lavoro speso dalle forze esterne produce solo deformazione
plastica, pertanto si considera un processo ideale (senza attrito o simili processi
dissipativi, quindi si sottostimano le azioni interne necessarie e dunque le forze,
ovvero si ottiene il limite inferiore dei valori).
125) Lavoro di pura deformazione plastica.
Il lavoro specifico di pura deformazione plastica è il lavoro speso nella
deformazione omogenea per unità di volume di materiale deformato e coincide
con l’area sottesa dalla curva σ-ε nel solo campo plastico (si trascura la
deformazione elastica). Dal modello reologico, nel caso di deformazione a freddo
(non si ha l’influenza della T e, poiché m è trascurabile, nemmeno della velocità di
deformazione) vale:
ε ε
K (ε n +1−ε n+1
0 )
w ¿=∫ σ d ε=∫ K ε d ε = =σ m ( ε−ε 0 )=σ m ∆ ε , con ε =deformazione equivalente,
n

ε0 ε0 n+1
σ m=valore medio equivalente della tensione e ε 0=deformazione equivalente allo
snervamento (infatti, come detto, non si considera il tratto elastico, dunque si parte
dallo snervamento). Se poi si suppone trascurabile il lavoro che si compirebbe nel
tratto elastico si ottiene
ε
K ε n +1
w ¿=∫ σ d ε= =σ m ε . Partendo dal risultato appena ottenuto si definisce il lavoro
0 n+1
di pura deformazione plastica come W ¿ =w ¿ V =σ m ε V con V=volume di materiale in
deformazione.

126) Metodo dell’energia di deformazione uniforme applicato alla compressione di


un cilindro.
Nella compressione di un cilindro si hanno il lavoro esterno(di compressione)
W compr =P ( h0−h1 )=P ∆ h=p A 1 ∆ h e il lavoro interno(di deformazione plastica)
h0 h0
W ¿ =w ¿ V =σ m ε V =σ m V ln =σ m V ln , dove P=forza di compressione al
h1 h0−∆ h
raggiungimento di h1, p=pressione=tensione assiale di compressione, A0 e h0=area e
altezza iniziali, A1 e h1=area e altezza finali, Δh=corsa della piastra mobile, V=volume
m σ V 0h
del cilindro. Uguagliando i 2 termini si ottiene p= A ∆ h ln h −∆ h . L’attrito è stato
1 0

trascurato.

127) Aumento di temperatura dovuto alla deformazione plastica.


Il lavoro di pura deformazione plastica viene trasformato in calore durante il
processo (non viene restituito allo scarico), pertanto si ha una ΔTD (D=deformazione)
che si ottiene con un bilancio energetico tra l’energia termica della parte deformata
ε

e il lavoro di deformazione: ρcV ∆ T D =βV ∫ σ d ε , dove ρ=densità, c=calore specifico e


0

β=0,9-0,95=frazione di lavoro trasformato in calore, quindi


ε

∫σ d ε σm ε .
0
∆ T D=β =β
ρc ρc

Nei processi veloci si ha una limitata dispersione del calore, pertanto ΔTD tende al
valore calcolato; nei processi lenti si ha una forte dissipazione di calore, quindi ΔTD
è minore del valore calcolato. Una lavorazione molto veloce può essere considerata
una lavorazione adiabatica, quindi tutto il calore rimane nel pezzo e T aumenta
molto.
128) Lavoro utilizzato nelle lavorazioni per deformazione plastica nel caso reale.
Il solo lavoro di pura deformazione nel caso ideale, come già detto è una sottostima
perche si trascurano gli effetti dissipativi. Nel caso reale si compie lavoro per la
deformazione plastica(def. omogenea), la distorsione della forma che varia in base
al processo e per vincere la resistenza all’attrito. I lavori di distorsione e attrito
sono legati tra loro (no attritono distorsione). Complessivamente
WTOT=Wdef+Wdist+Watt, ma è difficile distinguere Wdist da Watt. Si definisce inoltre il
rendimento della deformazione.
129) Rendimento della deformazione.
Per le deformazioni reali si definisce il rendimento di deformazione come
W¿ W¿ w
η= = = ¿ =0,5 ÷ 0,65.
W TOT W ¿ +W dist +W att w TOT
ε
W¿ 1
Si valuta WTOT tramite η: W TOT = = V ∫σ d ε.
η η 0

130) Tensioni residue nelle lavorazioni plastiche. Le tensioni residue sono le


componenti di tensione in assenza di forze esterne dopo la lavorazione e sono
generate da deformazioni plastiche non omogenee durante la lavorazione (sono
pertanto dovute ad una condizione differenziale come nel caso delle tensioni di
ritiro nella fonderia dovute alle differenti T). Hanno segno opposto rispetto alle
tensioni che le hanno generate e sono di natura elastica. Sono un problema per la
progettazione e per effettuare ulteriori modifiche in caso di asportazione del
materiale, quando viene asportato materiale si rimuove anche la parte in cui c’è uno
stato tensionale e quindi si modifica l’equilibrio della parte. Tuttavia, a differenza di
quanto avviene nella fonderia, dopo le lavorazioni plastiche è possibile eseguire
lavorazioni termiche di distensione.
131) Lavorabilità nelle lavorazioni plastiche. La lavorabilità plastica è l’attitudine del
materiale ad essere lavorato per deformazione plastica senza che si formino
difetti. Essa è limitata da instabilità plastiche (tipo la strizione) o da rotture
(eccessivi assottigliamenti per le lamiere e formazione di cricche per lavorazioni
massive). Essa dipende dalle caratteristiche del materiale, dalle condizioni di
processo (deformazione, velocità di deformazione, T e attrito), dalla microstruttura
di partenza e dagli stati tensionali e di deformazione indotti dal processo.
132) Attrito: modello d’attrito coulombiano.
L’attrito indica la resistenza allo scorrimento relativo tra superfici a contatto
premute da una forza normale, si tratta di un fenomeno dissipativo che genera
calore e usura. Influenza gli stati di tensione e di deformazione nel pezzo (forze,
potenze, difetti, finiture). Spesso è indesiderato, in altri casi è una condizione
necessaria (ad esempio nella laminazione). Si quantifica con il coefficiente di attrito
μ e con il fattore di attrito m.
Quando la forza normale che agisce tra i due corpi in moto relativo è bassa, allora si
può utilizzare μ, ma quando la forza normale assume valori elevati allora si utilizza il
modello che tiene conto di m perché μ perde di significato.
Il modello più semplice e più utilizzato è il modello d’attrito coulombiano, nel quale
l’area reale di contatto è data da Ar =∑
i
Ari , dove A =i-esima, area di contatto tra le
ri

asperità. Il moto deve essere garantito dall’applicazione di una forza tangenziale T


per vincere il reciproco contrasto tra le asperità sottoposte alla forza normale
(modello di Amonton-Coulomb), in particolare T=τAr, con τ=tensione tangenziale
media necessaria per vincere l’azione di contrasto tra le asperità, e N=σA r, con σ(o
p)=tensione normale media agente sulle asperità. Dalla seconda legge di Amonton
T/N=τ/σ=μ=coefficiente di attrito. La legge è confermata sperimentalmente per N
piccole, ovvero per Ar<<A, caso in cui il contatto tra le asperità è di natura elastica,
infatti Ar dipende dal valore di N. Il modello perde di validità in presenza di
deformazione plastica del più tenero dei metalli a contatto (pezzo a deformazione
nelle lavorazioni plastiche). Nel tratto I, ovvero per N bassi, si ha A r<<A e vale la
legge di Amonton T/N=μ. Nel tratto II, ovvero per N medi, si ha A r<A e T cresce più
lentamente al crescere di N, si ha dunque un avvicinamento alla condizione idonea
per provocare il flusso sottosuperficiale. Nel tratto III, ovvero per N elevati, si ha
Ar≈A (la forza normale spinge sempre più a contatto le due superfici) e si verificano i
fenomeni di adesione e di scorrimento sottosuperficiale per cui T resta costante al
crescere di N, pertanto μ perde di significato.

133) Attrito: teoria dell’adesione.

Come visto, quando le superfici in contatto sono debolmente caricate in direzione


normale, lo stato tensionale nelle asperità a contatto provoca una deformazione
elastica e T=μN.
Se N aumenta σ aumenta fino alla σ0 di snervamento e aumentano anche Ar a causa
della deformazione plastica delle asperità e quindi τ raggiunge τ 0. Quindi il moto
relativo delle superfici in contato è impedito a causa della loro adesione, dunque il
moto procede per scorrimento plastico di uno strato immediatamente sotto la
superficie di contatto dalla parte del materiale più debole.
134) Valori limite del coefficiente d’attrito. La condizione di adesione limite è data
da N=Arσ0 e T=Arτ0, quindi in condizione limite del coef. di attrito μ=T/N=τ 0/σ0, tale
condizione limite dipende dalle caratteristiche di resistenza del materiale più
tenero. Consideriamo i due criteri di scorrimento visti in precedenza: dal criterio di
Tresca τ0=k=σ0/2, quindi μ=0,5, mentre dal criterio di von Mises τ 0=k=σ0/sqrt(3),
quindi μ=0,577. Pertanto per μ=0 si ha attrito nullo, mentre la condizione di
adesione tra le superfici a contatto si ha per μ=0,5 o 0,577 a seconda del criterio
adottato.
135) Limiti di validità del coefficiente d’attrito. Il modello coulombiano perde di
validità in presenza di deformazione plastica del più tenero dei metalli a contatto
(pezzo a deformazione nelle lavorazioni plastiche),si veda la teoria dell’adesione al
riguardo. Con riferimento al grafico riportato in precedenza, nel tratto I, ovvero per
N bassi, si ha Ar<<A e vale la legge di Amonton T/N=μ. Nel tratto II, ovvero per N
medi, si ha Ar<A e T cresce più lentamente al crescere di N, si ha dunque un
avvicinamento alla condizione idonea per provocare il flusso sottosuperficiale. Nel
tratto III, ovvero per N elevati, si ha Ar≈A (la forza normale spinge sempre più a
contatto le due superfici) e si verificano i fenomeni di adesione e di scorrimento
sottosuperficiale per cui T resta costante al crescere di N, pertanto μ perde di
significato.
136) Fattore d’attrito. Quello del fattore d’attrito è un approccio alternativo per
superare la perdita di significato di μ per alti valori di N. l’approccio prevede che si
rappresenti l’interfaccia come uno strato di materiale con resistenza al taglio
costante. La resistenza all’attrito è espressa come una frazione della resistenza allo
snervamento nel caso di taglio puro τ=mk=mτ0=mσ0/√ 3 (considerando il
criterio di von Mises), dove m=fattore d’attrito. Se m=0 l’attrito è nullo, se m=1 si ha
adesione. In questo modo m non dipende da N ed è facile da misurare.
137) Lubrificazione e tecniche utilizzate. La lubrificazione viene adottata per ridurre
μ (o m), per ridurre l’usura degli utensili, per migliorare la finitura e per tenere
sotto controllo T, il cambiamento di forma e la distribuzione delle sollecitazioni.
Esistono diversi tipi di lubrificazione. A secco: si hanno strati di ossido come
interfaccia pezzo-utensile per lubrificare, tuttavia l’attrito resta elevato. Di confine o
untuosa: il pezzo e l’utensile non sono completamente separati dal lubrificante,
quindi l’attrito è medio-basso, inoltre è la tecnica più usata. Idrodinamica: le
superfici sono completamente separate dal lubrificante, quindi l’attrito è molto
basso, si utilizza nei processi idrodinamici ed è costosa.
138) Prova di compressione dell’anello. La prova di compressione dell’anello è un
metodo per quantificare l’effetto dell’attrito. Si sottopone a compressione un
provino di forma anulare con diametri D 0 e d0 e altezza h ponendolo con l’asse
dell’anello perpendicolare alle piastre che esercitano la compressione. La
dimensione finale del diametro interno d’ dipende dall’attrito: se l’attrito è basso si
ha che d’>d0, h’<h e D’>D0 come se si trattasse di un disco pieno con flusso
centrifugo di materiale da tutte le parti; se l’attrito è elevato si ha che d’<d0, h’<h e
D’>D0, ovvero si ha flusso centrifugo all’esterno e flusso centripeto all’interno.
Ovvero, il dimetro interno finale dell’anello è l’indicatore delle condizioni di
attrito. Durante la deformazione si forma una superficie cilindrica di diametro d n
(superficie neutra) che divide l’anello in 2 zone: se d>dn il materiale presenta flusso
centrifugo, se d<dn il materiale presenta flusso centripeto. Quindi, se dn>d0 allora la
parte esterna a dn presenta flusso centrifugo, quella interna flusso centripeto,
quindi d0 si riduce=elevato attrito; se dn<d0 allora si ha solo flusso centrifugo e
quindi d0 aumenta=basso attrito; se dn=d0 allora d0 è costante, mentre la parte
restante presenta flusso centrifugo. Si deduce che la posizione della superficie
neutra è legata al valore di μ (o m).

d 0−d
Nella pratica si valuta d0
∙ 100 % (positivo per un attrito elevato, negativo per un

basso attrito) a parità di Δh per varie condizioni di attrito. Si effettuano diverse prove
di compressione per diverse condizioni di attrito e si graficano le relative curve
d 0−d
∙ 100 % -Δh%. A volte i punti sperimentali relativi ad una stessa prova si
d0
dispongono secondo più curve, ovvero dopo un certo valore di Δh% il coefficiente di
attrito varia e ciò è riconducibile ad una perdita da parte del lubrificante della sua
capacità di lubrificazione, ovvero alla rottura del velo di lubrificante. Il valore di μ o
di m si ricava confrontando i dati sperimentali con quelli di curve di calibrazione
ottenute mediante analisi teoriche o simulazioni numeriche. Un altro tipo di prova è
la prova di estrusione a doppia coppa, nella quale si generano due coppe di altezza
diversa, una per estrusione diretta e una per estrusione inversa, e si ha che il valore
di μ o di m è legato a r=h 2/h1, con r elevato per valori di attrito elevati e r≈1 per bassi
valori di attrito.

139) Classificazione delle lavorazioni plastiche in funzione della temperatura. La


classificazione delle lavorazioni plastiche avviene in base a vari parametri: la T del
pezzo, la forma, la posizione del processo all’interno del ciclo e la meccanica della
deformazione.
La classificazione in funzione della temperatura: si parla di lavorazioni a freddo se
T/Tf<0,25; si parla di lavorazioni a tiepido se 0,25<T/Tf<0,5; si parla di lavorazioni a
caldo se T/Tf>0,5.
140) Caratteristiche delle lavorazioni a freddo. Le lavorazioni a freddo avvengono
senza fornire calore dall’esterno, tuttavia si ha talvolta una variazione di
temperatura di 100-200 °C poiché il lavoro di deformazione viene convertito in
calore. Consentono di ottenere finiture superficiali molto precise e stretti intervalli
di tolleranza. Si ottengono pezzi finiti a meno di lavorazioni superficiali particolari.
Tuttavia le applicazioni sono limitata dall’incrudimento, il quale genera un
aumento della tensione di flusso plastico (e quindi della forza necessaria) e una
diminuzione della deformabilità. Pertanto per deformazioni elevate si interrompe il
processo e si esegue una ricottura intermedia per ridurre o eliminare gli effetti
dell’incrudimento e poi si riprende, tuttavia si tratta di un procedimento poco
pratico e costoso.
141) Caratteristiche delle lavorazioni a tiepido. Le lavorazioni a tiepido avvengono a
T intermedie e permettono di risolvere in parte i problemi delle lavorazioni a freddo
e a caldo, rispetto alle quali rappresentano un compromesso. Rispetto alle
lavorazioni a freddo permettono di ottenere una maggiore complessità geometrica,
di esercitare forze minori, di evitare trattamenti intermedi e di lavorare più
materiali. Rispetto alle lavorazioni a caldo permettono di avere migliori tolleranze
e finiture, nonché minori consumi e costi. La temperatura precisa viene scelta sulla
base di 3 necessità: elevate precisione e finitura, minori consumi e minori tensioni di
flusso=maggiore deformabilità. Di solito 600 °C<T<850 °C.
142) Caratteristiche delle lavorazioni a caldo. Nelle lavorazioni a caldo viene fornito
calore dall’esterno, anche notevole, pertanto si ha un consistente aumento di T che
comporta una addolcimento per riassetto e ricristallizzazione dinamici e per il
maggior movimento delle dislocazioni, i quali portano ad una minore resistenza
alla deformazione e dunque ad una elevata deformabilità. I vantaggi sono la
possibilità di lavorare grandi pezzi con basse forze e la possibilità di ottenere
elevate deformazioni con pochi passaggi. Gli svantaggi sono le finiture e tolleranze
inferiori, la formazione di ossidi a caldo sulle superfici dei pezzi(minor finitura
superfiale) e gli elevati costi per il riscaldamento di materiali e utensili, i quali
devono essere refrattari e quindi costosi.
143) Classificazione delle lavorazioni plastiche in funzione della forma del pezzo
lavorato. In funzione della forma del pezzo si dividono le lavorazioni plastiche in:
 lavorazioni massive, se le dimensioni del pezzo nelle 3 direzioni dello spazio
sono tutte confrontabili tra loro, la sezione di trasversale varia notevolmente
in seguito alla lavorazione, sono prevalentemente le azioni di compressione a
variare la forma del pezzo. La deformabilità può essere limitata dalla
formazione di cricche;
 lavorazioni delle lamiere, se lo spessore del pezzo è molto inferiore rispetto
alle altre dimensioni, se la variazione di spessore non è un effetto desiderato
perché si avrebbe instabilità plastica (dato lo spessore già sottile), se si
esercitano prevalentemente azioni di trazione per modificare la forma del
pezzo. La deformabilità è limitata dalla nascita di strizione localizzata
(deformazione a trazione). Tra le lavorazioni massive si hanno la fucinatura, la
laminazione, l’estrusione e la trafilatura. Tra le lavorazioni delle lamiere si
hanno la piegatura, l’imbutitura e lo stampaggio.
144) Classificazione delle lavorazioni plastiche in funzione della posizione del
processo nell’ambito del ciclo.
In funzione della posizione del processo nell’ambito del ciclo le lavorazioni plastiche
si dividono in lavorazioni primarie (lamiera), se costituiscono uno dei primi stadi del
processo di lavorazione su materiali di fonderia e permettono di ottenere
semilavorati direttamente all’uso o ad ulteriori lavorazioni, e lavorazioni secondarie
(dalla lamiera alla portiera dell’auto), se si parte da semilavorati delle lavorazioni
primarie e si ottengono prodotti con forma e dimensioni desiderate.
145) Classificazione delle lavorazioni plastiche in funzione dei meccanismi di
deformazione.
In funzione dei meccanismi di deformazione le lavorazioni plastiche vengono
suddivise in processi stazionari, se la geometria e le caratteristiche meccaniche non
variano nel corso del processo (es. laminazione, tranne che nel transitorio iniziale), e
processi non stazionari, se le geometrie e le caratteristiche meccaniche variano
durante l’intero processo (es. fucinatura, compressione di un cilindro).
146) Cos’è la fucinatura e come si classifica. La fucinatura è una lavorazione plastica
massiva, secondaria e non stazionaria che può avvenire a caldo, a freddo o a
tiepido, ma più spesso a caldo. La fucinatura viene eseguita su semilavorati con un
elevato rapporto Volume/Superficie (elevato modulo di raffreddamento) e permette
di ottenere prodotti di elevata qualità con azioni di compressione esercitate da
stampi che permettono di ottenere deformazioni di grande entità. Si parla di near
net shape=forma prossima a quella finale, in alcuni casi si ottiene la forma finale, ma
solo se il processo avviene a freddo. È tra i processi più antichi. Si ha a che fare con
la bava=materiale in eccesso durante il processo, la quale può essere presente o
meno. Si esegue su semilavorati con modulo di raffreddamento M=V/A
relativamente grande (pezzi massivi) (il modulo di raffreddamento è un parametro
tipico della fonderia, per la quale è preferibile che sia piccolo, mentre in questo caso
è grande, pertanto il valore desiderato di un determinato parametro dipende dal
processo che si deve eseguire). Di solito si esegue a caldo ad una temperatura che
dipende dalle caratteristiche del materiale, dalla deformazione che si vuole
ottenere e dalla precisione richiesta. Può essere eseguito anche a tiepido o a
freddo. Si classifica in due modi: libera o obbligata. Nella fucinatura libera la
deformazione è libera e avviene tra piastre piane o comunque forme semplici
(punzoni sagomati), quindi si possono ottenere pezzi di ogni dimensione ma
semplici. Nella fucinatura obbligata, chiamata anche stampaggio massivo (diverso
dallo stampaggio delle lamiere), la deformazione avviene entro stampi, i quali
possono essere: semi-chiusi, per i quali il volume da deformare è maggiore del
volume della cavità nei semi-stampi, dunque si ha una fuoriuscita di materiale,
ovvero si ha la formazione della bava; chiusi, per i quali il volume da deformare
coincide col volume della cavità, pertanto non si ha la bava, ma si tratta di una
condizione molto difficile da ottenere (si usano delle tranciatrici per ottenere il
pezzo da lavorare, le quali possono garantire però solo tolleranze molto larghe),
pertanto si usano più spesso gli stampi semi-chiusi. In entrambi i casi relativi alla
deformazione obbligata i pezzi sono relativamente piccoli ma con forma complessa.
147) Proprietà conferite al pezzo dalla fucinatura. Le proprietà meccaniche che si
ottengono con la fucinatura sono migliori di quelle del materiale di partenza: si
ottiene una struttura fibrosa indotta dalla lavorazione (corrispondente
all’orientamento dei grani) che comporta proprietà migliori nella direzione delle
fibre, inoltre si ha l’eliminazione dei difetti interni per compressione da parte delle
pareti dello stampo, soprattutto a T alquanto elevate che garantiscono la diffusione,
in aggiunta la compressione impedisce che si propaghino eventuali cricche e fa sì
che tendano invece a chiudersi. La fucinatura permette di controllare
l’orientamento delle fibre del materiale disponendole in modo da massimizzare la
resistenza meccanica della parte alle sollecitazioni presenti nelle condizioni
operative. Per confronto, i processi di asportazione di truciolo conservano la
struttura fibrosa di partenza, la fonderia non conferisce alcuna struttura fibrosa.
148) Vantaggi e campi di applicazione tipici della fucinatura. Oltra ai vantaggi già
esposti relativi alle migliori proprietà meccaniche, la fucinatura permette di:
eliminare molte operazioni alle macchine utensili rispetto alle lavorazioni
sottrattive; sprecare meno materiale, soprattutto nei processi senza formazione di
bava, rispetto alle lavorazioni sottrattive; ottenere lotti con caratteristiche
omogenee e tempi di lavorazione ridotti (molto inferiori rispetto a quelli delle
lavorazioni sottrattive). I campi di applicazione sono, considerando la percentuale
dei pezzi impiegati nel settore considerato rispetto ai pezzi totali prodotti per
fucinatura, per più del 50% l’industria automobilistica, per circa il 25% l’industria
dei veicoli in generale e per la restante parte le industrie aeronautica, ferroviaria,

149) Temperatura del materiale in deformazione nella fucinatura. Nella fucinatura a
caldo la distribuzione della T dipende dalle temperature iniziali del grezzo e degli
stampi, dal calore generato dalla deformazione plastica e per attrito e dai flussi di
calore tra materiale e stampi e tra materiale e ambiente. Pertanto la temperatura
media del materiale in deformazione (trascurando il calore ceduto all’ambiente) è
data da Tm=T+ΔTD+ΔTA, dove T=temperatura iniziale del pezzo ridotta per il
raffreddamento dovuto al calore dissipato verso gli stampi, ΔT D=aumento di T
dovuto alla deformazione plastica e ΔTA=incremento di T dovuto all’attrito.
ε

∫σ d ε σ m ∆ ε , come già visto in precedenza tale formula è valida con


ε0
∆ T D=β =β
ρc ρc
accuratezza solo per procedimenti rapidi, pertanto anche per la fucinatura; quindi
prevale l’effetto dello scambio termico con gli stampi. (T minori all’interfaccia e
maggiori all’interno del materiale)
mσ Av ∆ t
∆ T A=
ρc V m
, valida se prevale l’effetto dell’attrito (T maggiori all’interfaccia e
minori all’interno del materiale) dove m=fattore d’attrito (avendo a che fare con
deformazioni molto elevate μ perde di significato), v è la velocità relativa e
Vm=volume di materiale interessato dall’aumento di T. L’incremento reale è
disuniforme: se prevale l’attrito allora Tinterfaccia>Tinterno, se prevale lo scambio
termico allora Tinterfaccia<Tinterno. Si può ridurre la disomogeneità con un basso attrito,
con un processo lento e con la fucinatura isoterma, ovvero portando gli utensili alla
T del pezzo. La T iniziale del pezzo ridotta per il raffreddamento dovuto al calore
dissipato verso gli stampi si ottiene integrando l’equazione di bilancio termico, data
dall’uguaglianza tra il calore ceduto dal pezzo e quello acquisito dagli stampi:
−ρc V m dT =αA ( T −T stampi ) dt , dove t=tempo di contatto, α=coefficiente di scambio
T t
dT −αA dT −αA
termico all’interfaccia, pertanto = dt →∫ =∫ dt →
( T −T stampi ) ρc V m T ( T −T stampi )
0 0 ρc V m
−αA
t
+T stampi .
ρc V m
T =( T 0−T stampi ) e
150) Fucinabilità. La fucinabilità è l’attitudine del materiale a subire profondi
cambiamenti di forma tramite azioni di compressione in un ampio intervallo di
temperatura (fucinatura) senza rottura, più è ampio l’intervallo di T in cui si può
fucinare il materiale, maggiore è la fucinabilità. Se la temperatura è minore della
temperatura minima di fucinabilità il materiale presenta una maggiore resistenza
alla deformazione e quindi una minore deformabilità, se la temperatura è maggiore
della temperatura massima di fucinabilità si ha il rischio di incollaggio del materiale
allo stampo e di fusioni locali ai bordi di grano (bruciature a caldo o hot shortness).
Altri fattori, oltre alla T, che influenzano la fucinabilità sono la modalità di
riscaldamento, l’omogeneità del riscaldamento e il tempo di permanenza alla T di
lavorazione. I migliori materiali sono le leghe di alluminio, le peggiori le leghe di
tungsteno. Anche le leghe di magnesio hanno una buona fucinabilità. La fucinabilità
degli acciai al C e basso legati è migliore di quella degli acciai INOX e delle
superleghe.
151) Macchine per la fucinatura. Sono due le macchine che si usano per fucinatura:
1. il maglio, il quale si basa su azioni dinamiche successive date da urti
istantanei, che generano uno schiacciamento progressivo superficiale che
perde d’effetto dall’esterno verso il centro minor schiacciamento al centro,
quindi si ha una deformazione disomogenea;
2. la pressa, la quale esercita un’azione unica e pressoché statica con un effetto
uniforme e profondo su tutto il pezzo, pertanto si ha una maggiore
omogeneità.
Il maglio è formato da un’incudine su cui poggia il pezzo più un’incastellatura per
sollevare, reggere e far cadere la mazza. Può essere di 3 tipi: a semplice effetto (solo
gravità), a doppio effetto (gravità più fluido in pressione per la spinta), a
contraccolpo. Comporta dei problemi: vibrazioni e la necessità di fondazioni
resistenti. Nel maglio a contraccolpo l’incudine è mobile, quindi si hanno meno
vibrazioni e minori sollecitazioni sulle fondazioni. La pressa, come detto, esercita
un’azione continua e progressiva. I vantaggi rispetto al maglio sono la scarsa
rumorosità, l’assenza di vibrazioni, la non necessità di grandi fondazioni e la
maggiore durata degli stampi. Possono essere meccaniche ad eccentrico o a vite
oppure oleodinamiche. Il maglio garantisce una maggiore velocità di deformazione
rispetto alla pressa, pertanto il materiale presenta una maggiore resistenza da
vincere durante la lavorazione, bisogna quindi scegliere tra maglio e pressa
cercando di ottenere il compromesso migliore tra velocità, forza e omogeneità.
152) Fucinatura libera. Nella fucinatura libera si ha una deformazione che avviene
liberamente tra piastre piane o piastre di forma semplice (utensili di forma
semplice), si ottengono pezzi di forma semplice. Viene eseguita come operazione
preliminare in cicli di stampaggio(=sbozzatura), per fabbricare pochi pezzi ad
elevata resistenza meccanica per i quali non convengono gli stampi oppure per
ottenere una forma molto vicina a quella finale con lo scopo di ridurre il volume di
materiale da asportare successivamente mediante processi sottrattivi. Si parte da
materiali ottenuti da processi primari come laminazione, trafilatura ed estrusione,
ma a volte si esegue anche dopo trattamenti termici di ricottura fatti per aumentare
la fucinabilità. A volte anche la fucinatura è un processo primario, ma non è
consigliabile, ad esempio la fucinatura di lingotti si esegue solo per pezzi grandi e di
forma semplice.
153) Ricalcatura. Nella fucinatura si schiaccia il grezzo tra piastre piane o
leggermente sagomate al fine di aumentarne la sezione trasversale con flusso di
materiale perpendicolare al carico applicato. Permette di ottenere dischi con
grande diametro, e in tal caso si parte da cilindri e si parla di ricalcatura assial-
simmetrica, spezzoni a forma di fungo con rigonfiamento all’estremità o spezzoni
con rigonfiamento in un tratto intermedio. Per via dell’attrito si ha il fenomeno della
barilottatura.
154) Stiratura. Nella stiratura si esercita compressione per allungare il grezzo
longitudinalmente, più un’eventuale variazione di forma. Può interessare una
parte oppure l’intero pezzo, se il pezzo ha un moto rotatorio assiale si possono
avere azioni su tutta la superficie esterna: con rotazioni discrete di 60° o 90° si
ottengono barre a sezione esagonale o quadrata.
155) Fucinatura orbitale. La fucinatura orbitale si esegue su pezzi assial-simmetrici
e il pezzo assume la forma tramite 2 stampi: lo stampo superiore ha l’asse di
simmetria inclinato rispetto all’asse di simmetria del pezzo ed ha moto rotatorio
rispetto a quest’ultimo; lo stampo inferiore ha moto assiale verso lo stampo
superiore imprimendo l’azione di formatura localmente in una porzione del pezzo.
La combinazione dei due genera un moto orbitale e la formazione avviene in ogni
istante in una zona limitata, pertanto si necessita di forze inferiori, ma anche di più
tempo.
156) Fucinatura obbligata. Nella fucinatura obbligata si mette il massello in una
cavità tra 2 stampi che riproducono il pezzo da realizzare. Si esercitano poi azioni
d’urto (maglio) o di pressione (pressa), di solito a caldo (ma anche a freddo/tiepido).
Con gli stampi chiusi non si ha la bava, con gli stampi semi-chiusi si ha la bava. Gli
stampi sono molto costosi, pertanto si ricorre alla fucinatura obbligata solo per
elevati volumi di produzione.
157) Ciclo di stampaggio massivo. Il ciclo di stampaggio massivo prevede 3 fasi:
i. la sbozzatura, nella quale si ottiene la forma preliminare del massello, anche
attraverso la fucinatura libera;
ii. lo stampaggio, che può avvenire in 1 o più stadi, nei quali ci si avvicina via via
alla forma finale, spesso con formazione di bava per gli stampi semi-chiusi;
iii. l’eliminazione delle bave, che avviene con appositi stampi tranciatori e
riguarda i processi con stampi semi-chiusi.
Eventualmente si prevedono lavorazioni alle MU per le rifiniture.
158) Fasi dello stampaggio massivo. Considerando un massello cilindrico, il processo
di stampaggio massivo (preceduto dalla sbozzatura e seguito dall’eliminazione della
bava) avviene in più fasi. Nella fase iniziale si posiziona il grezzo e si accosta il semi-
stampo superiore, nella 1a fase si ha una riduzione di h e un aumento del diametro;
nella 2a fase si ha la fuoriuscita del materiale con formazione della bava che si
raccoglie nella camera scarta bava; nella 3a fase si ha la rimonta assiale del
materiale con riempimento completo della cavità.
159) Fattori che influenzano il riempimento degli stampi. I fattori che influenzano il
riempimento degli stampi sono la geometria iniziale del grezzo (massello), la
geometria della cavità dello stampo, le condizioni all’interfaccia materiale-stampo e
la T degli stampi.

160) Effetto della geometria iniziale del massello sul riempimento degli stampi. La
geometria iniziale del massello deve essere tale da evitare difetti nel riempimento
e con volume maggiore del pezzo finale per consentire la formazione della bava.
Consideriamo, con riferimento all’immagine a lato, la fucinatura obbligata di un
pezzo assial-simmetrico. Durante il processo si avrà la formazione di una superficie

neutra di diametro neutro DN, allora se:


 DN>Di l’altezza del tappo sarà maggiore della corsa dello stampo;
 se DN=Di l’altezza del tappo sarà uguale alla corsa dello stampo;
 se DN<Di l’altezza del tappo sarà minore della corsa dello stampo.
Quindi bisogna favorire la formazione della superficie neutra (D N grande).Il valore di
DN è legato al rapporto Di/De (la formazione della superficie neutra è ostacolata da
valori bassi di tale rapporto) e alla natura del contatto (un maggiore attrito
comporta un maggiore valore del diametro neutro, infatti, come visto nella prova
dell’anello, un maggiore attrito comporta un maggiore flusso centripeto della parte
interna, il quale è da ricondurre ad un maggiore valore del diametro neutro) e quindi
per favorire la crescita del tappo si può aumentare l’attrito oppure avere un De
piccolo così da aumentare il rapporto Di/De. Ciò favorirà la rimonta assiale. DN è un
parametro molto importante nello stampaggio di mozzi flangiati. Alla luce di
diametro Di si sostituisce la superficie conica dello stampo.
161) Effetto della geometria della cavità dello stampo sul riempimento degli stampi.
La difficoltà di stampaggio è legata a V/A=Volume/Area attraverso l’attrito e la
riduzione della T. Un rapporto V/A piccolo come quello dei pezzi con pareti sottili
comporta maggiori difficoltà rispetto a pezzi con pareti massicce e quindi si
preferiscono maggiori valori di V/A per via di un maggiore attrito (legato alla
maggiore estensione della superficie in proporzione) e di una maggiore superficie di
scambio termico che comporta una riduzione della T e quindi una minore
deformabilità.
162) Effetto delle condizioni all’interfaccia materiale – stampo sul riempimento degli
stampi. Le condizioni all’interfaccia materiale-stampo sono importanti poiché si
generano tensioni tangenziali di attrito che ostacolano il flusso e si richiedono
pertanto forze maggiori, dunque si ha una maggiore usura, pertanto è importante
scegliere accuratamente il materiale e lubrificare, scegliendo il lubrificante più
adatto alla T di lavorazione.
163) Effetto della temperatura degli stampi sul riempimento degli stampi. Nello
stampaggio a caldo è necessario un preriscaldamento degli stampi in modo da avere
un minor flusso di calore tra pezzo e stampi, dunque si ottengono una maggiore
omogeneità, un miglior riempimento e una minore forza di stampaggio necessaria.
164) Cavità degli stampi nello stampaggio massivo. Le cavità degli stampi si
ottengono o su blocchi singoli, ovvero su stampi singoli, o su blocchi contenenti
cavità anche per altri scopi, ovvero su stampi multipli.
Le cavità si preparano considerando il ritiro, il sovrametallo, il piano di sformatura,
gli angoli di sformo, i raccordi e la bavatura (nel caso di stampi semi-chiusi), poiché
bisogna evitare che il materiale formi la bava al posto di riempire la cavità.
 Il ritiro va considerato nel caso dello stampaggio a caldo e comporta la
necessità di maggiorare le quote della cavità per ottenere il prodotto
stampato con le dimensioni richieste.
 Il sovrametallo si prevede per poter effettuare ulteriori lavorazioni che
garantiscano le finiture e tolleranze desiderate quando queste sono maggiori
di quelle ottenibili con lo stampaggio, diventa inoltre particolarmente
importante per contrastare fenomeni come la formazione di ossidi, difetti
superficiali e irregolarità.
 Il piano di sformatura o di bava è il piano di divisione dei 2 semi-stampi e
deve essere tale da evitare i sottosquadri, consentire una facile sformatura e
avere una disposizione delle fibre più favorevole possibile per avere una
maggiore resistenza meccanica. Di solito è un piano di simmetria della parte.
 Gli angoli di sformo servono per agevolare la sformatura e devono essere
previsti nelle pareti perpendicolari al piano di bava e il valore dell’angolo di
inclinazione è maggiore per le superfici interne rispetto che per quelle
esterne, poiché all’esterno il distacco è agevolato dal ritiro.
 I raccordi servono per evitare gli spigoli vivi allo scopo di evitare
concentrazioni di tensioni e consentire un riempimento più facile della cavità
 .

165) Bavatura nello stampaggio massivo. La bavatura è l’ultimo aspetto da


considerare riguardo alle cavità degli stampi e merita particolare attenzione.
Durante la lavorazione si ha flusso di materiale nella camera scartabava posta nel
piano di divisione e collegata alla cavità dal canale di bava. Tale camera accoglie la
bava e ha un volume variabile a seconda della complessità del pezzo tra il 30 e il 70%
del volume della cavità, mentre il canale di bava deve assicurare il riempimento
della cavità ostacolando il flusso verso la camera, il quale potrebbe essere
energeticamente favorito rispetto a quello all’interno della cavità.
Detta s l’altezza del canale di bava, con un minore valore di s si ha una maggiore
deformazione del materiale nel canale e inoltre nel canale di bava si ha una
diminuzione della T del materiale nello stampaggio a caldo, quindi si ha una
maggiore resistenza alla deformazione e dunque un ostacolo al flusso verso
l’esterno a favore della rimonta assiale nella cavità, la quale viene facilitata. Questa
è una condizione auspicabile. Detta b la lunghezza del canale, un maggiore valore di
b comporta una maggiore superficie di contatto e quindi un aumento dello scambio
termico e dell’attrito , dunque ancora una volta si ha una maggiore resistenza alla
deformazione che ostacola il flusso nella camera scartabava e agevola la rimonta
assiale, pertanto anche questa è una condizione auspicabile. Pertanto bisogna avere
la minor altezza e la maggiore lunghezza possibili per il canale di bava, tuttavia il
maggiore attrito e la minore T che comportano richiedono una maggiore pressione:
b
p=σ (1+0,92 ) con σ =resistenza alla deformazione.
s

La forza da esercitare risulta crescere sempre durante il processo: resta bassa fino al
riempimento parziale dei dettagli più complessi, poi aumenta notevolmente alla
formazione della bava (cambio di pendenza del grafico forza-corsa) e continua fino
al completo riempimento (2) e oltre, fino alla chiusura completa degli stampi (3).
L’entità della forza finale dipende dalla dimensione della bava. Da 2 a 3 si ha il
riempimento della camera scartabava nel caso il canale funzionasse a dovere,
altrimenti il riempimento della camera potrebbe avvenire prima. Il processo di
asportazione della bava dipende dal tipo di bava: se la bava è esterna al pezzo si
usa un opportuno sistema matrice-punzone che esegue la tranciatura e poi la
raccolta della bava; se la bava è una membrana centrale si usa un opportuno
sistema matrice-punzone che esplica la sua funzione sulla membrana invece che
sul pezzo.

166) Preformatura nello stampaggio massivo. Con lo stampaggio massivo spesso si


vogliono ottenere forme complesse ed è dunque necessario prevedere passaggi
intermedi per evitare la formazione di difetti, ottenere una determinata struttura
fibrosa e minimizzare il materiale perso come bava e l’usura dello stampo finitore.
L’aspetto fondamentale è determinare il numero dei passaggi e le varie forme
intermedie per arrivare a quella finale complessa, per fare ciò ci si basa

sull’esperienza o su modelli numerici/matematici.


167) Asportazione delle bave nello stampaggio massivo. Il processo di asportazione
della bava dipende dal tipo di bava: se la bava è esterna al pezzo si usa un
opportuno sistema matrice-punzone che esegue la tranciatura e poi la raccolta
della bava; se la bava è una membrana centrale si usa un opportuno sistema
matrice-punzone che esplica la sua funzione sulla membrana invece che sul pezzo.
168) Forze di fucinatura. La forza di stampaggio può essere determinata in diversi
modi. Col metodo empirico si considera P=C S σ A t, con CS=fattore di costrizione, il
cui valore dipende dal particolare processo eseguito legato alle complessità, A t=area
trasversale compresa la bava e σ =resistenza alla deformazione. In alternativa si
usano metodi agli elementi finiti. La forza da esercitare risulta crescere sempre
durante il processo: resta bassa fino al riempimento parziale dei dettagli più
complessi, poi aumenta notevolmente alla formazione della bava (cambio di
pendenza del grafico forza-corsa) e continua fino al completo riempimento (2) e
oltre, fino alla chiusura completa degli stampi (3). L’entità della forza finale dipende
dalla dimensione della bava. Da 2 a 3 si ha il riempimento della camera scartabava
nel caso il canale funzionasse a dovere, altrimenti il riempimento della camera
potrebbe avvenire prima.

169) Difetti di stampaggio. I difetti di stampaggio includono cricche, difetti di flusso


e difetti microstrutturali.
 Le cricche si associano ad uno stato tensionale secondario di trazione che

nasce sulla superficie e si sostituisce a quello primario di compressione. Ad


esempio nella ricalcatura assial-simmetrica(fucinatura libera) si hanno
condizioni di attrito gravose e pertanto parte della superficie laterale del
pezzo finisce in contatto con le piastre (rifollamento), pertanto sulla superficie
equatoriale si ha σz>0, σθ>0 e σr=0. Pertanto si ha σm>0, ovvero si ha uno stato
tensionale idrostatico positivo che influenza le proprietà a rottura e
comporta la formazione di fratture duttili (nucleazione, crescita e coalescenza
di microvuoti). Nello stampaggio massivo (fucinatura obbligata) si formano
cricche nel piano di bava per via di uno stato tensionale secondario di
trazione che porta alla frattura della bava, talvolta tale frattura penetra nel
pezzo e ciò rappresenta un problema: possibili soluzioni sono un maggiore
spessore della bava, una diversa posizione della bava, la tranciatura della
bava a caldo o trattare il materiale prima della tranciatura a freddo.
 I difetti di flusso sono riprese di stampaggio durante il riempimento della
cavità quando la superficie esterna del pezzo si piega su se stessa senza
saldarsi completamente. Si verificano in parti non completamente riempite
per via di una progettazione sbagliata, del troppo raffreddamento e della
poca lubrificazione.
 I difetti microstrutturali sono riconducibili alla diversa storia tensionale,
deformativa e termica delle diverse zone, la quale comporta infine
disomogeneità nella microstruttura, in alcune zone tale da comportare
proprietà inadeguate. La soluzione è data dall’esecuzione di simulazioni FEM
preventive.
170) Formatura plastica delle lamiere. La formatura plastica delle lamiere permette
di ottenere parti costringendo la lamiera ad assumere una forma, anche
complessa, con appositi utensili deformanti. A volte si ricorre all’idroformatura, per
la quale si usa solo un utensile più la pressione di un fluido. In generale, gli utensili
sono spesso coadiuvati da altri dispositivi per guidare il flusso plastico del materiale
evitando difetti. Si usano presse a 1 o più effetti e in genere solo zone limitate della
lamiera sono interessate dalla deformazione. Viene eseguita tipicamente a freddo,
ma sono sempre più comuni processi a tiepido o a caldo. Le lavorazioni più comuni
sono la piegatura, l’imbutitura e lo stampaggio. Sono processi molto diffusi in
industrie quali quella automobilistica, quella degli elettrodomestici bianchi, quella
aeronautica e quella aerospaziale.
Il processo iniziale è quello di laminazione, fondamentale per produrre le lamiere:
consiste nel far passare la lamiera attraverso rulli controrotanti ad asse parallelo in
modo che si ottenga un allungamento della lamiera nella direzione di laminazione
(RD=Rolling Direction) e quindi un materiale fortemente incrudito con anisotropia
in assenza di ulteriori lavorazioni. È necessario l’attrito per avere l’imbocco
spontaneo del materiale. Alla fine, si ha un aumento della lunghezza e una
diminuzione dell’altezza, mentre la deformazione nel senso della larghezza è
trascurabile, pertanto si considera la deformazione come una deformazione piana.
Se avviene a caldo i grani originari vengono prima deformati e poi ricristallizzati
dinamicamente, pertanto si ottengono grani equiassici; se avviene a freddo i grani
risultano essere deformati e allungati nella RD. Pertanto la lavorazione a caldo
permette di evitare proprietà anisotrope. La laminazione avviene di solito per step: i
primi avvengono a caldo (si devono avere maggiori variazioni di altezza ed è più
facile ottenerle a caldo), poi lo stadi finale è a freddo (per avere uno spessore
uniforme e più preciso e superfici più regolari). I materiali più usati per le lamiere
sono gli acciai al carbonio, gli INOX, gli acciai altoresistenziali, le leghe di Al e quelle
di Ti e gli acciai preverniciati con opportune vernici. Il principale problema è legato
allo stato tensionale prevalentemente di trazione, il quale comporta il possibile
rischio di strizione con conseguente riduzione eccessiva di spessore, pertanto si
possono ottenere deformazioni contenute rispetto ai processi di formatura
massiva. Ci sono ulteriori aspetti da considerare: l’anisotropia (diverso
comportamento del materiale in differenti direzioni) più o meno consistente, la
formabilità (ovvero la possibilità di avere deformazione plastica senza giungere a
rottura) e il ritorno elastico tolto il carico.
171) Anisotropia normale. La laminazione comporta un’orientazione preferenziale
dei grani, pertanto si ha anisotropia, la quale influenza le proprietà meccaniche e i
rapporti tra le deformazioni durante il processo, pertanto influenza anche i difetti.
Può essere normale, se il comportamento è diverso in direzione normale alla
lamiera ma è lo stesso in ogni direzione del piano della lamiera, oppure planare, se
il comportamento è diverso anche tra le direzioni del piano. L’anisotropia normale si
valuta con provini ricavati dalla lamiera e sottoposti a trazione per misurarne le
deformazioni nella lunghezza εl, nello spessore εt e nella larghezza εw. Si valuta poi
l’indice di anisotropia normale R considerando una deformazione nel campo della
deformazione plastica omogenea (dallo snervamento alla strizione localizzata):
w0
ln
ε wf
R= w = .
εt t0
ln
tf

172) Anisotropia planare. L’anisotropia è planare se il comportamento è diverso tra


le direzioni del piano della lamiera. Si ricavano sempre provini dalla lamiera, ma
secondo direzioni diverse del piano, di solito a 0°, 45° e 90° rispetto alla RD e poi si
calcolano gli R0, R45 e R90, i quali vengono poi usati per ricavare Rm=indice medio di
R 0+ R 90+ 2 R 45
anisotropia normale e ΔR=indice di anisotropia planare: Rm = e
4
R 0+ R 90−2 R45
∆ R= . Se R0=R45=R90=1 si ha isotropia normale(εt=εw=-0,5εlRm=1) e
4
isotropia planare (R non dipende dall’orientazione del provino rispetto alla RD,
ΔR=0), negli altri casi il materiale può risultare anisotropo sia nella direzione dello
spessore che sul piano.
173) Valutazione dell’anisotropia. Si valuta l’indice di anisotropia normale R
considerando una deformazione nel campo della deformazione plastica omogenea
w0
ln
εw wf
(dallo snervamento alla strizione) di un provino ricavato dalla lamiera: R= ε = t .
t 0
ln
tf
Si ricavano sempre provini dalla lamiera, ma secondo direzioni diverse del piano, di
solito a 0°, 45° e 90° rispetto alla RD e poi si calcolano gli R0, R45 e R90, i quali vengono
poi usati per ricavare Rm=indice medio di anisotropia normale e ΔR=indice di
R 0+ R 90+ 2 R 45 R + R −2 R45
anisotropia planare: Rm = e ∆ R= 0 90 .
4 4

Si ha anisotropia normale se R≠1 in una qualsiasi direzione, mentre si ha


anisotropia planare se ΔR≠0.
174) Effetti dell’anisotropia.
Gli effetti dell’anisotropia normale si valutano attraverso Rm:
se Rm=εw/εt<1 allora εw<εt, favorisce l’assottigliamento della lamiera e quindi riduce
la deformazione prima che avvenga strizione localizzata.
se Rm=εw/εt>1 allora εw>εt, favorisce il ritardo dell’assottigliamento, maggior
deformazione prima della strizione
pertanto è meglio avere Rm>1 così da avere una piccola deformazione nel senso
dello spessore poiché si vuole evitare un assottigliamento eccessivo per ritardare la
strizione, se, invece, si avesse Rm<1 si favorirebbe la strizione, il che sarebbe un
male.
Gli effetti dell’anisotropia planare, quando ΔR≠0, consistono soprattutto nella
formazione di orecchie (earings) per via del diverso flusso planare del materiale nel
piano (in alcune direzioni l’indice di anisotropia sarà più grande mentre in altre
direzioni sarà più piccolo), pertanto il bordo ondulato va eliminato e ciò comporta
uno spreco. Tale difetto è assente per ΔR=0, ovvero in assenza di anisotropia
planare, mentre al crescere di ΔR cresce l’altezza delle orecchie. La combinazione
migliore sarebbe quindi avere un alto Rm, un basso ΔR e un elevato n=coefficiente
di incrudimento=εu (un elevato valore di εu comporta un maggior ritardo nella
comparsa della strizione localizzata).
n= εu → deformazione in corrispondenza dell’inizio della strizione localizzata → per
ritardare la strizione quindi, si può anche scegliere un materiale con un coefficiente
di incrudimento più grande possibile.
175) Formabilità delle lamiere. La formabilità delle lamiere è la capacità di subire
deformazioni plastiche senza rompersi ed è necessario conoscerla per poter
progettare il processo di lavorazione. Essa dipende dalle caratteristiche del
materiale (n, Rm e ΔR) e dalle condizioni durante l’evoluzione del processo (gli stati
di tensione e di deformazione che si verificano durante la lavorazione). Può essere
valutato con la prova di Erichsen, con il bulge test oppure con le curve limite di
formabilità.
176) Prova di Erichsen. Nella prova di Erichsen la lamiera viene bloccata dal
premilamiera (freccia verde) e la matrice è forata per consentire il passaggio del
punzone di forma emisferica con superficie lubrificata. L’insieme premilamiera-
matrice ha la funzione di impedire il flusso radiale del materiale. Si ha uno stato di
deformazione di stretching biassiale perfettamente bilanciato (le deformazioni
radiali e circonferenziali sono positive e uguali tra loro, quella assiale è negativa).
Oltre una certa corsa del punzone si ha una frattura duttile sull’estradosso della
lamiera, pertanto l’indice di formabilità è pari alla corsa del punzone a frattura
(numero di Erichsen) (a volte si considera anche il massimo della curva forza-
corsa=punto di strizione per avere un valore più conservativo). Gli aspetti critici
sono: la presenza di un solo stato di deformazione e tensione specifico di
stretching biassiale bilanciato, mentre nella realtà se ne possono avere di molteplici
e influenzano la formabilità; l’attrito tra punzone e lamiera; il bloccaggio del flusso
radiale fa sì che si abbia deformazione a scapito dello spessore e rappresenta una
condizione più severa di quella reale, tuttavia serve per essere sicuri che la prova
avvenga nelle stesse condizioni ogni volta che viene eseguita).
177) Bulge test. Il meccanismo del bulge test è lo stesso della prova di Erichsen, ma
al posto del punzone, la pressione viene esercitata da olio in pressione, cosa che
permette di non avere attrito. Come indice di formabilità si considera l’altezza

della cupola a rottura. Permangono le problematiche relative al meccanismo di


deformazione.
178) Curve limite di formabilità. Le curve limite di formabilità (più vicine alla realtà)
si ottengono con un sistema matrice, punzone emisferico, premilamiera (simile a
quello della prova di Erichsen) e con una lamiera. Si eseguono prove di formabilità
con geometrie diverse per i provini, i quali sempre la stessa lunghezza, ma
larghezza via via inferiore partendo da una pianta quadrata, quindi (L/W)0=1 e via
via aumenta, pertanto si riduce la porzione del contorno di lamiera bloccata dal
premilamiera, cosa che permette di avere ogni volta un diverso stato di
deformazione, superando così un limite della prova di Erichsen e del bulge test. Si
usa il rompigrinze tra la matrice e il premilamiera, il quale è costituito da un risalto
sulla matrice e da un incavo sul premilamiera che generano una deformazione
locale che accentua il bloccaggio del flusso radiale. Si applica sulla superficie della
lamiera una griglia con elementi quadrati o rettangolari. La prova si esegue a
strizione o a rottura. Se L/W=1 il premilamiera agisce su tutto il contorno del
provino e pertanto il flusso radiale è bloccato: si ha stretching biassiale bilanciato.
Per L/W crescente l’azione del premilamiera si esercita su una porzione via via
minore con deformazione di trazione dove la lamiera è bloccata, e deformazione di
trazione che va a diminuire fino ad annullarsi per poi diventare di compressione
nelle altre zone. Per ogni elemento della griglia, supposto circolare, si misura la
deformazione a rottura o a strizione lungo l’asse maggiore dell’ellisse (ε1) e lungo
l’asse minore dell’ellisse (ε2). Se L=W il cerchio diventa semplicemente un cerchio
più grande dal momento che lo stretching biassiale bilanciato comporta
deformazioni radiali e circonferenziali uguali e positive; se L/W cresce oltre il valore
di 1 si presentano via via diverse situazioni: inizialmente ε 1>ε2>0, pertanto si ha
sempre uno stato di trazione-trazione lungo i due assi e si ottiene un ellisse con
entrambi gli assi maggiori del diametro del cerchio di partenza, ma diversi; in
seguito ε1>0 e ε2=0, ovvero si ha uno stato di trazione-nessuna deformazione che
porta ad ottenere un ellisse con asse maggiore più lungo del diametro del cerchio di
partenza e asse minore lungo quanto tale diametro; poi, se L/W cresce
ulteriormente, si ha uno stato di deformazione per di trazione-compressione con
ε1>0 e ε2<0 che porta ad ottenere un ellisse con asse maggiore più lungo e asse
minore più corto rispetto al diametro del cerchio di partenza; infine si ottiene uno
stato di trazione-compressione con ε1=-2ε2 che è tipico della trazione monoassiale e
la forma finale è quella di un ellisse simile al caso precedente.
Si riportano sul piano ε1-ε2(rispettivamente asse y e x) le coppie ottenute per i vari
provini ottenendo il luogo dei punti di rottura/strizione al variare della forma del
provino, ovvero le curve limite di formabilità. I punti al di sopra della curva sono
punti di rottura, quelli al di sotto sono punti di sicurezza. Si ha pericolo di rottura
maggiore quando ε2=0, mentre si hanno deformazioni maggiori (ε1) più elevate se
accompagnate da deformazioni minori (ε2) negative. Si possono ottenere curve
semplificate eseguendo poche prove. Tale curva è costituita da 2 semirette con la
stessa origine: quella nel primo quadrante inclinata di 30° e quella nel secondo
quadrante inclinata di 45°. L’origine delle semirette appartiene all’asse ε 1 e
corrisponde ad una condizione di deformazione piana (ε2=0).
Il valore di FLD0 (al quale corrisponde lo stato piano di tensione) viene stimato con
sufficiente precisione per molti materiali di interesse ingegneristico dall’equazione
n
di Altan FLD 0=
21
(23.3+ 14.1 s), dove n=coefficiente di incrudimento e

s=spessore. FLD0 cresce con n e s, pertanto si ha un aumento della formabilità con

lo spessore e con il coefficiente di incrudimento (se “n” aumenta si ritarda il


momento di strizione localizzata). Nei processi si considera la zona più sollecitata
della lamiera e vi si valutano le deformazioni ε1 e ε2, i quali vengono poi confrontati
con le curve di formabilità, il tutto per più punti del cammino del processo. Se si
resta sempre nella zona SAFE il processo è sicuro, se si finisce nella zona FAILURE il
processo è da rivedere.

La piegatura delle lamiere si basa su sollecitazioni di flessione che generano una


variazione di forma con deformazioni permanenti. Si esegue o come processo a sé
stante o assieme ad altre operazioni. Si esegue più spesso a freddo, a volte a caldo,
in particolare se si vogliono ottenere raggi di curvatura piccoli, per spessori elevati e
per ridurre il ritorno elastico. Si divide in due categorie: piegatura con lamiera
ferma e con lamiera in movimento. Con processi della prima categoria si ottengono
lamiere a V, a U o a L in cui la zona di deformazione riguarda solo una porzione di
lamiera; con processi della seconda categoria si ottiene la calandratura (piegatura a
rulli), ovvero la profilatura con rulli. Nella piegatura con lamiera ferma la zona di
deformazione è limitata e le parti esterne indeformate si chiamano ali.
179) Piegatura a V. È il processo più comune e viene anche detto piegatura a 3 punti.
Si divide in due fasi: la piegatura in aria e la coniatura. La piegatura in aria inizia col
contatto tra il punzone e la lamiera e finisce quando le ali sono tangenti alla matrice,
posizione in cui la lamiera è inclinata di una angolo maggiore dell’angolo di apertura
del punzone. A volte la piegatura in aria può costituire anche la fine del processo di
piegatura a V, in tal caso presenta i vantaggi di ottenere diversi angoli di piegatura
controllando la corsa del punzone e di necessitare di basse forze di piegatura, ma

ha lo svantaggio di comportare un elevato ritorno elastico. Nella coniatura, la quale


avviene dopo la piegatura in aria, si forza la lamiera tra matrice e punzone finché
l’angolo tra le ali non diventa pari all’angolo di apertura del punzone. Presenta i
vantaggi di eliminare l’incertezza della piegatura in aria e di ridurre
significativamente il ritorno elastico, ma ha lo svantaggio di necessitare di un
notevole aumento della forza di piegatura.

180) Calcolo del raggio massimo di piegatura. Il raggio di piegatura presenta un


intervallo dei valori possibili: al di sotto del valore minimo si hanno fratture duttili
sull’estradosso, al di sopra del valore massimo si ha solo deformazione elastica,
pertanto allo scarico si ha il ritorno alla configurazione iniziale.
I valori del raggio di piegatura (R) si calcola con la teoria della flessione della trave
retta, le cui ipotesi sono momento M costante, stato piano di deformazione, stato di
tensione monoassiale, spessore della lamiera costante e asse neutro mediano e
invariabile.
0 L−L ( R +r ) ∆ θ−R ∆ θ
r
La deformazione circonferenziale è data da e θ= L = R∆θ
= , dove
R
0

r=distanza dalla fibra neutra, L0=lunghezza della fibra neutra (invariata in lunghezza
rispetto alla configurazione iniziale), R=raggio di piegatura e L=lunghezza della
generica fibra a distanza r dalla fibra neutra. La deformazione varia linearmente con
r e si ha un andamento a farfalla. La fibra più sollecitata è quella più lontana
t
dall’asse neutro (r=t/2, t=spessore), per la quale vale e θ ,max = 2 R . La fibra
corrispondente all’asse neutro è indeformata: e θ ,min =0 .
Il raggio massimo si ottiene imponendo per la fibra più sollecitata la deformazione
di snervamento (per avere una deformazione residua al rilascio bisogna plasticizzare
il materiale, deformazione all’estradosso pari a quella dello snervamento ottenuto
t s0 Et
dalla prova di trazione), ovvero e θ ,max = 2 R e dunque R MAX =
2 s0 .
=e0 =
MAX E
181) Calcolo del raggio minimo di piegatura. Il raggio minimo si ricava imponendo la
deformazione dell’allungamento a rottura per la fibra più sollecitata (basta che si
abbia rottura in un punto e il più soggetto è naturalmente quello più sollecitato, si
impone che la massima deformazione circonferenziale sia pari alla deformazione a
t A%
rottura determinata con la prova di trazione), ovvero e θ ,max = 2 R =e R = 100 , dove A
min
50 t
%=allungamento a rottura percentuale, pertanto Rmin = A % .

Nella realtà la deformazione della fibra esterna è maggiore della deformazione della
fibra interna poiché si ha spostamento dell’asse neutro verso il punzone (verso il
centro di curvatura), dunque si ha la necessità di utilizzare un fattore di sicurezza
nella valutazione di Rmin(di solito 1,4).
182) Ritorno elastico. Le lamiere presentano il fenomeno del ritorno
elastico=parziale ritorno alla forma originale all’apertura degli utensili deformanti.
La causa è la restituzione della componente elastica della deformazione. Esso
pregiudica la precisione dimensionale, pertanto deve essere valutato e si possono
usare opportuni strumenti (FEM) per prevedere la geometria post-ritorno, nonché
tecniche per ridurlo e/o compensarlo. È un problema che viene trattato nello studio
della piegatura delle lamiere. Si ha per pezzi sottoposti a flessione in campo elasto-
plastico e fa sì che αf=angolo di piegatura dopo la rimozione del carico < αc=angolo
di piegatura sotto carico. La causa è la restituzione della componente elastica della
deformazione al rilascio. Riguarda lo spessore deformato solo in campo elastico,
ovvero la parte vicina all’asse neutro e le porzioni in cui le fibre si sono plasticizzate
ma è presente anche la componente elastica.
183) Quantificazione del ritorno elastico. Il ritorno elastico si quantifica con il
rapporto di ritorno elastico e con l’angolo di ritorno elastico.
Il rapporto di ritorno elastico è dato da k=αf/αc=Rc/Rf, dove Rc=raggio di curvatura
sotto carico e Rf=raggio di curvatura al rilascio. Vale 0<k<1, dove 0 corrisponde ad
una deformazione solo elastica, mentre 1 corrisponde ad una deformazione
completamente plastica, ovvero senza ritorno elastico. Realisticamente k non
raggiunge mai il valore di 1.
1
L’angolo di ritorno elastico è dato da ρ=α c −α f =α f ( k −1). L’entità del ritorno
elastico dipende dalla dimensione della regione deformata solo elasticamente,
quindi esistono dei metodi per diminuire tale zona.
r
184) Effetto del raggio di piegatura sul ritorno elastico. Come visto e θ= R , dunque al
diminuire del raggio di piegatura R si ha un aumento della deformazione
tangenziale, pertanto si riduce lo spessore della zona deformata solo
elasticamente, per questa ragione le lamiera vengono spesso piegate con bassi
valori di R, ovvero con elevate curvature. Anche lo spessore della lamiera influisce
t
sul ritorno elastico: e θ ,max = 2 R , pertanto un aumento di spessore comporta un
MAX

aumento della massima deformazione tangenziale e di conseguenza anche nelle


altre parti dove non è massima, pertanto si ha un minore spessore soggetto solo a
deformazione elastica. Dunque si utilizzano lamiere che, oltre ad avere bassi raggi di
piegatura, sono anche spesse. Esistono grafici k-R/t.
185) Effetto delle caratteristiche del materiale della lamiera sul ritorno elastico. Il
ritorno elastico dipende anche dal materiale: per diminuire il ritorno elastico si
scelgono materiali con alto modulo di Young (E) e bassa tensione di snervamento ( σ 0
). Il maggior modulo di Young comporta un minor ritorno elastico poiché si ha una
maggiore pendenza della retta di scarico; la minore tensione di snervamento
permette invece di ridurre il cammino allo scarico e quindi di avere un minor
ritorno. Il rilascio delle fibre a sola deformazione elastica è ostacolato dalle fibre
plasticizzate, dunque permangono delle deformazioni elastiche che comportano
uno stato tensionale residuo.
186) Tecniche per la riduzione del ritorno elastico. A volte la perdita di precisione
dovuta al ritorno elastico non è tollerabile, pertanto si ricorre a metodi di
attenuazione. Il primo metodo è la sovrappiegatura ed è il metodo più usato. È un
metodo di compensazione, non di riduzione, e consiste nell’applicare una piegatura
ulteriore pari al ritorno elastico, pertanto richiede la conoscenza dell’entità del
ritorno elastico. La piegatura a caldo comporta una minore resistenza alla
deformazione, ovvero una minore tensione di snervamento e quindi, come visto, un
minor ritorno elastico. Allo stesso modo è possibile eseguire un trattamento
termico prima della piegatura per ottenere lo stesso risultato. Un’altra soluzione è
quella di usare lamiere pre-stirate, le quali subiscono uno stretching oltre lo
snervamento in modo da lavorare già in campo plastico durante la piegatura.
L’ultimo metodo è quello della piegatura per stiramento (Stretch-bending), ovvero
si esercitano sollecitazioni simultanee di flessione e stiramento in campo plastico
con lo scopo di ottenere una completa plasticizzazione. Flessione per ottenere la
forma desiderata e stiramento per garantire la deformazione plastica. Quindi se il
più piccolo valore della deformazione risultante sarà oltre la deformazione
corrispondente allo snervamento del materiale, allora tutto il materiale sarà
plasticizzato. tuttavia servono tecnologie particolari.

L’imbutitura è una lavorazione plastica che permette di ottenere un corpo cavo


partendo da una lamiera piana, in uno o più passaggi a seconda dell’altezza del
corpo cavo da realizzare. Le principali attrezzature utilizzate sono un punzone, una
matrice e un premilamiera (evita la formazione di difetti legati alla componente
circonferenziale della deformazione senza ostacolare il flusso radiale del materiale).
I parametri della lavorazione sono Rp=raggio di raccordo del punzone, Rd=raggio di
raccordo della matrice e s=spessore della lamiera. Rp e Rd servono, a differenza che
nella punzonatura, per evitare di arrivare a rottura. Viene anche chiamata
imbutitura profonda (deep drawing) poiché si ottengono pezzi con elevata altezza. È
tanto più difficile quanto maggiore è l’altezza dell’imbutito. Lo spessore
dell’imbutito è uniforme in teoria, mentre in pratica varia per via di deformazioni
secondarie. Lo studio del processo si effettua distinguendo tra due casi: imbutitura
di pezzi assial-simmetrici e imbutitura di pezzi non assial-simmetrici.
187) Fasi del processo di imbutitura.
Il processo di imbutitura avviene in 6 fasi: nella prima si posiziona la lamiera sulla
matrice e la si preme con il premilamiera; nella seconda il punzone piega prima la
lamiera al raccordo con la matrice e poi la costringe a entrare nella matrice, quindi
inizia la formazione della parete laterale; nella terza si ha lo scorrimento della
lamiera tra la matrice e il premilamiera, il quale comporta il flusso radiale
centripeto del materiale con riduzione del diametro del disco originale compreso
tra premilamiera e matrice; nella quarta si ha lo sviluppo nella flangia di
sollecitazioni circonferenziali di compressione elevate che, senza premilamiera,
possono causare la formazione di ondulazioni; nella quinta si ha lo sviluppo nella
parete laterale di elevate sollecitazioni assiali di trazione che possono provocare la
rottura dell’imbutito; nella sesta e ultima fase il processo termina quando tutto il
materiale entra nella matrice.
Flusso del materiale: la flangia viene richiamata dal punzone nella matrice, mentre il
materiale sotto il punzone deve avere invece flusso trascurabile, quindi sul fondo si
ha uno spessore circa uguale a quello iniziale. Il flusso della flangia può essere
ostacolato dal premilamiera e dall’attrito, ma si tratta di una situazione da evitare.
188) Elementi di un prodotto imbutito.
Gli elementi di un prodotto imbutito sono il fondo, la parete laterale e la flangia,
ovvero la parte che viene propriamente imbutita nel corso del processo e presenta
deformazioni secondarie. Essa caratterizza un pezzo nello stato intermedio di
lavorazione, ma non compare nel prodotto finale. La flangia, con maggior
precisione, è la porzione di lamiera originale tra premilamiera e matrice (prodotto
temporaneo) e diminuisce all’aumentare della corsa del punzone, ovvero
all’aumentare dell’altezza dell’imbutito (la lamiera viene richiamate nella matrice),
fino a scomparire quando tutto il materiale viene richiamato entro la matrice. Si
possono ottenere pezzi con flangia limitando la corsa del punzone. La parete
laterale è la superficie laterale del prodotto imbutito che si forma per il fatto che il
punzone richiama all’interno della matrice il materiale. Il fondo è il fondo del
prodotto imbutito ed è formato dalla parte di lamiera a contatto con la superficie
inferiore del punzone.
189) Spessore del prodotto imbutito.
Lo spessore dell’imbutito varia nelle diverse zone perché dipende dallo stato
tensionale che nasce nell’imbutito durante il processo. Detto s0 lo spessore di
partenza, lo spessore si conserva al centro del fondo, poi decresce al raccordo
fondo-parete laterale per poi crescere verso l’alto fino al bordo superiore della
parete,dove può essere anche il 110-120% di s0. Pertanto la zone critica è quella al
raccordo tra la parete e il fondo, dove possono verificarsi fratture e lacerazioni.
190) Stato tensionale nel prodotto imbutito.
Lo stato tensionale nel prodotto imbutito è molto complesso: la flangia è richiamata
dal punzone all’interno della matrice con riduzione della circonferenza; la parte
centrale della lamiera è spinta dal punzone in modo da formare il fondo; il materiale
della flangia viene piegato al raccordo con la matrice e poi viene raddrizzato in
modo da formare la parete laterale; la parete viene stirata ed assottigliata a causa
della trazione esercitata dalla discesa del punzone; il fondo dell’imbutito viene
stirato sulla faccia e al raccordo del punzone. In base al grafico riportato si hanno
varie zone. Nella zona I, ovvero nella zona della flangia, si hanno sforzi radiali di
trazione dovuti all’azione del punzone ostacolata dal premilamiera, sforzi tangenziali
di compressione per la riduzione del diametro del disco (senza premilamiera si
avrebbero le grinze e l’aumento di spessore) e sforzi assiali di compressione per via
del premilamiera, quindi complessivamente si ha una contrazione circonferenziale,
un allungamento radiale e un aumento di spessore (per via della tensione
tangenziale, infatti la tensione assiale è molto minore di quelle radiali e tangenziali).
Nella zona II, ovvero nella zona di raccordo flangia-parete laterale si ha un diverso
stato di tensione a seconda che si consideri un intorno del punto B o del punto C.
Vicino a B la condizione è simile a quella che si ha nella flangia, ma senza tensione
assiale; vicino al punto C rispetto al punto B varia la tensione circonferenziale, che
diventa di trazione, pertanto lo spessore si riduce. Nella zona III, ovvero nella parete
laterale, la tensione assiale è di trazione per via dell’azione del punzone contrastata
dal premilamiera e anche la tensione circonferenziale è di trazione poiché il punzone

rappresenta un vincolo che impedisce la contrazione del diametro sottoponendo il


pezzo a trazione circonferenziale, appunto. Complessivamente in tale zona si ha un
allungamento verticale e un riduzione dello spessore dalla zona di raccordo con la
flangia a quella di raccordo col fondo dal momento che una maggiore tensione
assiale implica una maggiore tensione circonferenziale che genera una riduzione
dello spessore, pertanto a parità di altezza finale si ha uno spessore minore
all’aumentare della forza esercitata dal premilamiera. Nella zona IV, ovvero al
raccordo tra la parete e il fondo si hanno tensioni assiali e circonferenziali di
trazione. Nella zona V, ovvero sul fondo si hanno tensioni radiali e circonferenziali di
trazione e di pari entità, pertanto si ha stretching biassiale bilanciato al centro,
mentre si sbilancia andando verso la zona di raccordo. Tuttavia le deformazioni sono
trascurabili e lo spessore è conservato al centro mentre è poco minore verso la
parete. Per quanto riguarda l’attrito, esso è presente al raccordo con la matrice e
con il punzone e nella flangia, mentre è assente nella parete e sul fondo.

191) Difetti nel prodotto imbutito.


I difetti dell’imbutito sono legati allo stato tensionale e consistono
nell’assottigliamento della parete laterale e nella formazione di grinze nella flangia
che permangono quando la flangia viene richiamata nella matrice.
La frattura nell’imbutito avviene nella parete laterale al raccordo col fondo per via
dello spessore minore quando la forza esercitata dal punzone contrastata dal
premilamiera supera la resistenza della parete laterale per via dell’eccessivo
assottigliamento, dunque il processo viene eseguito correttamente se
l’assottigliamento è minore o uguale al 15-20% di s0.
La formazione di grinze è dovuta alle tensioni circonferenziali di compressione
nella flangia: se tali tensioni aumentano e il modulo di Young diminuisce si hanno
fenomeni di instabilità plastica che provocano la formazione di ondulazioni in
direzione circonferenziale chiamate grinze. La loro formazione si contrasta col
premilamiera. Alla fine la flangia viene richiamata nella matrice pertanto le
eventuali grinze finiscono nella parete laterale.
Il rapporto di imbutitura è β=D/dp, dove D=diametro del disco primitivo e
dp=diametro del punzone, il quale è circa uguale al diametro interno del prodotto
finale. Se β aumenta (imbutito sempre più profondo), aumentano la severità dello
stato tensionale, la forza sulla parete laterale e la probabilità di avere frattura. Si
definisce il LDR=Limiting Drawing Ratio = Rapporto limite di imbutitura, ovvero il
valore di β oltre il quale si ha frattura (cioè oltre il quale la forza esercitata dal
punzone supera la resistenza offerta dal premilamiera o dalla parete laterale).
Tale valore dipende dal materiale e dalla T (aumenta con T poiché il materiale
diventa più duttile). Inoltre dipende anche da R p, da Rd, dall’anisotropia della lamiera
(se Rm>1 aumenta il valore di LDR poiché si ha un minore assottigliamento e quindi si
ritarda la comparsa della frattura) e dalla T di processo (aumento di T corrisponde ad
un aumento dell’imbutibilità).
192) Scelta del numero dei passaggi nell’imbutitura.
Per evitare difetti occorre valutare alcuni parametri: il numero dei passaggi, la
pressione esercitata dal premilamiera, la lubrificazione, il gioco punzone-matrice e i
raggi di raccordo del punzone e della matrice. Il numero dei passaggi dipende da β e
da LDR. Se β<LDR è possibile eseguire l’imbutitura in un solo passaggio; se β>LDR
occorre prevedere un treno di imbutiture, ovvero più passaggi, dove l’i-esimo
passaggio viene eseguito imponendo βi=LDR. Detto D il diametro iniziale, allora
dp1=D/LDR e andando avanti dpn=D/(LDR)n, pertanto n=numero di passaggi si ricava
log D−log d pn
da (LDR)n=D/dpn, quindi n= , ovviamente occorre approssimare all’intero
log LDR
successivo. I passaggi successivi al primo possono essere di imbutitura inversa o
diretta. Nell’imbutitura inversa si pone la parete laterale dell’imbutito iniziale a
contatto con la matrice, pertanto alla fine si ottiene un imbutito con concavità
opposta a quella iniziale e si ha un flusso di materiale opposto. Nell’imbutitura
diretta si conservano invece la concavità e il verso di flusso.
193) Scelta della pressione del premilamiera.
Un altro importante parametro è la pressione (forza) esercitata dal premilamiera: il
premilamiera esercita una forza costante, ma siccome varia la superficie della
flangia, allora aumenta la pressione, la quale è necessaria per evitare le grinze,
tuttavia se questa pressione è eccessiva ostacola il flusso centripeto comportando
una maggiore tensione assiale sulla parete laterale e un maggiore assottigliamento
che favoriscono una possibile rottura. Nella pratica si esercita una forza costante
tale da generare una p0=1-1,5%σ0 (di snervamento), poi la pressione aumenta. In
alcuni casi è possibile non usare il premilamiera, ma a determinate condizioni:
serve un piccolo valore di β (≤1,2), in modo da avere una bassa σθ, e uno spessore
della lamiera sufficiente per avere la necessaria rigidezza (s≥(D-dp)/5 o s≥0,03D). I
vantaggi associati al non usare il premilamiera sono la maggiore semplicità, gli
utensili meno costosi e il poter usare una pressa a un solo effetto.
194) Scelta delle condizioni di lubrificazione nell’imbutitura.
Bisogne determinare le condizioni di lubrificazione alle interfacce premilamiera-
lamiera e matrice-lamiera, nelle quali si hanno elevate tensioni tangenziali di
attrito che ostacolano il flusso radiale della flangia, causano la riduzione dello
spessore della lamiera nella parete laterale e aumentano la forza necessaria. Di
conseguenza si ha la necessità della lubrificazione. Si ha attrito anche all’interfaccia
punzone-lamiera, ma per essa non conviene la lubrificazione poiché il flusso deve
riguardare la zona tra premilamiera e matrice. Complessivamente si ottengono
valori di β senza rottura maggiori con la superficie del punzone rugosa e la
lubrificazione della sola zona della flangia.
195) Scelta dei raggi di raccordo del punzone e della matrice nell’imbutitura.
I raggi di raccordo adeguati permettono di avere un corretto flusso di materiale. Un
minor raggio di raccordo comporta maggiori sollecitazioni e deformazioni, quindi
una maggiori rischio di rottura e dunque servono bassi β; un maggior raggio di
raccordo fa sì che ci sia una gran parte della lamiera non guidata e pertanto
favorisce le grinze nella parete, difetto da evitare. Per questo motivo esiste una
relazione empirica per il raggio di raccordo della matrice: Rd =K √ ( D−d p ) s, dove
K=costante adimensionale dipendente dal materiale.
196) Scelta del gioco tra punzone e matrice nell’imbutitura.
Il gioco tra punzone e matrice deve essere scelto con l’obiettivo di ottenere il
miglior compromesso tra il pericolo di formazione di ondulazioni per assenza di
pareti guida (giochi elevati) e il rischio di assottigliamento (ironing, per giochi
troppo piccoli). Per questo parametro esiste una formula empirica:
g=gioco=s+ C √ 10 s, con C=costante (0,07 per gli acciai e 0,02 per le leghe di Al) e
s=spessore della lamiera.
197) Calcolo del diametro del disco primitivo nell’imbutitura.
Il calcolo del diametro del disco primitivo è un processo agevole per pezzi
assialsimmetrici, mentre non lo è per altre geometrie. Si esegue conoscendo la
geometria finale, sfruttando la costanza del volume e ipotizzando che lo spessore
dell’imbutito sia uniforme lungo tutto lo sviluppo dell’imbutito e pari allo spessore
iniziale (della lamiera indeformata). La relazione fondamentale è
D2 D2
π s0 =∑ S i s o → π =∑ Si →
4 i 4 i

D=
√ 4
∑S,
π i i
con Si=area dell’i-esimo elemento della superficie finale.

198) Ironing.
L’ironing serve per uniformare lo spessore della parete laterale dopo l’imbutitura
(in italiano si traduce con stiratura), ma comporta anche l’aumento dell’altezza
della parete. Può essere eseguito come processo a sé stante o durante l’imbutitura.
Si fa passare la parte imbutita attraverso un anello che ne uniforma lo spessore. La
zona superiore della parete laterale è maggiormente interessata poiché ha uno
spessore maggiore rispetto alla porzione inferiore. La riduzione percentuali di
s −s
i f
spessore durante la stiratura si calcola come R %= s 100 % e di solito è dell’ordine
i

del 40-60%. Molti prodotti spesso subiscono più di un’operazione di stiratura. Un


tipico prodotto che subisce il processo si stiratura sono le lattine.
199) Imbutitura di pezzi non assialsimmetrici.
Lo studio teorico dell’imbutitura di pezzi non assial-simmetrici è difficile. Si hanno
condizioni di flusso notevolmente diverse tra le zone di raccordo tra i lati e i lati
(tratti rettilinei). La zona di raccordo è assimilabile a ¼ di cilindro e si ha un
meccanismo di deformazione simile all’imbutitura assial-simmetrica; ai lati la
lamiera è soggetta a un meccanismo di piegatura in corrispondenza del raccordo
presente sulla matrice. A seconda delle sue zone il premilamiera ha un ruolo
diverso: in corrispondenza dei raccordi serve per evitare le grinze; ai lati serve per
guidare la lamiera che scorre verso la cavità della matrice(deve frenare la lamiera
per evitare che l’altezza dell’imbutito sui lati sia troppo inferiore. Se si usasse un
premilamiera tradizionale e la pressione fosse calibrata per evitare le grinze ai
raccordi si avrebbe un flusso eccessivo della lamiera verso la matrice nei lati, se la
pressione fosse calibrata per avere il giusto flusso ai lati si avrebbe il rischio di
rottura della lamiera ai raccordi, pertanto si usano particolari premilamiera
chiamati premilamiera segmentati, i quali sono suddivisi in più segmenti comandati
da cilindri indipendenti per avere pressioni diverse in zone diverse (maggiore ai lati
per frenare il flusso e minore ai raccordi per evitare la formazione di grinza senza
arrivare a rottura) e ottenere un flusso più uniforme. In alternativa si possono usare
una premilamiera tradizionale e un rompigrinze ( costituito da un risalto sul
premilamiera e una cavità sulla matrice) che ostacola il flusso verso la matrice ai
lati. Realizza la sua azione piegando e raddrizzando la lamiera. Costituite un
metodo semplice e può consentire la riduzione della forza esercitata dal
premilamiera.
200) Stampaggio delle lamiere.
Lo stampaggio delle lamiere (Sheet Metal Stamping) è molto usato nella
fabbricazioni di parti per automobili ed elettrodomestici bianchi, solitamente
eseguita a freddo ma ultimamente anche a caldo su acciai altoresistenziali. La
profondità di imbutitura non è troppo elevata, pertanto è un processo meno
severo dell’imbutitura vera e propria. La geometria dei pezzi è usualmente
complessa, pertanto si ha un’esasperazione della disomogeneità del flusso, la quale
va uniformata per evitare grinze e frattura considerando la geometria di partenza,
il rompigrinze e il premilamiera segmentato. La lamiera iniziale deve seguire lo
sviluppo del pezzo da stampare, quindi la larghezza della flangia e le sollecitazioni
devono essere le più uniformi possibili. Il rompigrinze serve per frenare il flusso del
materiale dove risulta troppo agevole. Comunque, si tende ad usare premilamiera
segmentati.
Lavorazioni per asportazione di truciolo
201) Cos’è una lavorazione per asportazione di truciolo e quali sono gli elementi che
concorrono alla sua realizzazione. Una lavorazione per asportazione di truciolo è
l’asportazione ,con moti relativi utensile-pezzo opportuni, di uno strato
superficiale dal pezzo, il quale diventa truciolo, per ottenere una superficie con
finitura e precisione desiderate. Gli elementi necessari sono il pezzo, la macchina
utensile, l’utensile e l’attrezzatura.
202) Vantaggi e svantaggi delle lavorazioni per asportazione di truciolo. I vantaggi
delle lavorazioni per asportazione di truciolo sono: tolleranze strette e finiture
molto spinte (in base alla macchina, condizioni di processo, al tipo di utensile); la
possibilità di ottenere profili interni e esterni, spigoli vivi e planarità non ottenibili
con altri metodi; la possibilità di eseguire lavorazioni su parti trattate
termicamente per migliorare durezza e resistenza all’usura; la convenienza
economica, soprattutto per volumi di produzione relativamente bassi. Gli svantaggi
sono: lo spreco di materiale; gli alti consumi di energia; i tempi di ciclo lunghi; la
necessità di manodopera specializzata.
Il tempo di ciclo è il tempo che il pezzo spende sulla macchina, è dato dalla somma
del tempo di lavorazione, del tempo di manipolazione dell’utensile e del tempo di
manipolazione del pezzo.
203) Principali moti nelle lavorazioni per asportazione di truciolo. I principali moti
nelle lavorazioni per asportazione di truciolo sono il moto di taglio, di avanzamento
(o di alimentazione) e il moto di lavoro (o attivo), il quale è una combinazione dei
due precedenti.
Il moto di taglio è la componente principale del moto relativo, permette di eseguire
l’asportazione e definisce la direzione e la velocità di taglio.
Il moto di avanzamento consente all’utensile di entrare in contatto con nuovo
materiale per lavorare tutta la superficie (per questo si chiama anche di
alimentazione), inoltre definisce la direzione e la velocità di avanzamento.
Il moto di lavoro è dato dalla composizione vettoriale dei 2 moti precedenti.
Nella tornitura si ha moto di taglio rotatorio continuo del pezzo e moto di
avanzamento continuo dell’utensile. Nella foratura si ha moto di taglio rotatorio e
moto di avanzamento rettilineo, entrambi continui ed eseguiti dall’utensile, il quale
è una punta elicoidale (pluritagliente). Nell’alesatura il moto di taglio e quello di
avanzamento sono continui, con moto di taglio rotatorio e moto di avanzamento
rettilineo, ed entrambi sono eseguiti dall’utensile, sebbene a volte il moto di
avanzamento sia eseguito dal pezzo (pezzo prismatico e non un solido di
rivoluzione). L’utensile è anche in questo caso pluritagliente. Nella barenatura
(processo simile all’alesatura eseguito per allargare i fori di grandi dimensioni) i moti
sono gli stessi dell’alesatura, ma l’utensile è monotagliente, come nel tornio. Anche
un tornio si può usare per allargare fori, ma solo nei solidi di rivoluzione poiché
essendo il pezzo a ruotare si metterebbe altrimenti in rotazione un pezzo
squilibrato. Nella fresatura il moto di taglio è rotatorio continuo e dell’utensile
pluritagliente, la fresa, mentre il moto di avanzamento è del pezzo montato sulla
tavola della macchina ed è rettilineo continuo. La fresatura può essere periferica se
l’asse di rotazione della fresa è parallelo alla superficie di lavoro, oppure frontale, se
l’asse di rotazione della fresa è perpendicolare alla superficie di lavoro. La fresatura
serve ad ottenere superfici piane, ma con frese di forma opportuna è possibile
ottenere anche ruote dentate e profili scanalati. Nella rettificatura, eseguita con la
mola per ottenere finiture superficiali spinte e tolleranze dimensionali strette
(pertanto costituisce l’ultimo step di rifinitura), il moto di taglio è rotatorio continuo
ed è della mola, mentre il moto di avanzamento è posseduto sia dal pezzo che
dall’utensile e può essere costituito sia da moti rotatori che rettilinei, dove i moti
rettilinei possono essere sia continui che alternativi. La piallatura e la limatura sono
processi simili, ma presentano alcune differenze: in entrambi i casi il moto di taglio è
traslatorio alternativo, ma nella piallatura è del pezzo, mentre nella limatura è
dell’utensile (monotagliente); il moto di avanzamento è traslatorio intermittente ed
è del pezzo nella limatura e dell’utensile nella piallatura. Una differenza tra le due
riguarda anche l’impiego: si ricorre alla limatura per pezzi piccoli e alla piallatura per
pezzi grandi.
La limatura ad asse verticale viene anche chiamata stozzatrice e serve per creare
sedi di linguette su mozzi.
204) Parametri di taglio. I parametri di taglio sono la vT=velocità di taglio, la
vA=velocità di avanzamento e la p=profondità di passata.
205) Velocità di taglio. La velocità di taglio si misura in [m/min] ed è la velocità
nella direzione del moto di taglio (è responsabile della formazione del truciolo), ad
esempio se il moto di taglio è rotatorio la velocità di taglio è la velocità tangenziale
della parte che esegue il taglio: per un disco di diametro D [mm] essa vale
vT=πDn/103, dove n=numero di giri al minuto [rpm].
206) Velocità di avanzamento. La velocità di avanzamento si misura in [mm/min] ed
è la velocità nella direzione di avanzamento, dell’utensile o del pezzo a seconda dei
casi, impatta sulla durata della vita dell’utensile.
Altri parametri legati all’avanzamento sono l’avanzamento a, misurato in [mm/giro]
o [mm/doppia corsa], incide sulla finitura del pezzo (se aumenta troppo la finitura è
più scarsa), il quale corrisponde allo spostamento, dell’utensile o del pezzo a
seconda dei casi, nella direzione del moto di avanzamento ad ogni giro o corsa di
lavoro completa (andata e ritorno) dell’altra parte (pezzo o utensile a seconda dei
casi), e l’avanzamento per tagliente az=a/(n° taglienti).
207) Profondità di passata. La profondità di passata p è lo spessore di metallo in
direzione perpendicolare all’avanzamento asportato ad ogni passata, vale la
relazione p=(D-d)/2 per la tornitura longitudinale, dove D è il diametro inziale e d è
il diametro finale dopo la tornitura. La profondità di passata è il parametro che
impatta meno sulla vita dell’utensile.
208) Tempo di lavorazione. Il tempo di lavorazione è l’intervallo di tempo nel quale
l’utensile resta a contatto col pezzo e avviene l’asportazione del truciolo grazie ai
moti relativi tra utensile e pezzo. Dipende dalle dimensioni delle superfici
interessate alla lavorazione e dal valore dei parametri di taglio. Si devono
considerare anche delle extra-corse in ingresso e uscite per evitare urti in ingresso e
per considerare la variabilità del grezzo in lunghezza L.
209) Velocità di rimozione del materiale. La velocità di rimozione/asportazione del
materiale si valuta con il parametro definito MRR=Material Removal Rate, dato
dalla relazione MRR=Vasportato/Δt [mm3/min], si parla anche di portata volumetrica.
Per la tornitura MRR=vTap*103, per la fresatura MRR=vawp, dove w=larghezza di
taglio. Nella sgrossatura bisogna massimizzare i valori di MRR e quindi conviene
agire sulla profondità di passata per portare via più materiale possibile.
210) Caratteristiche geometriche e di forma di utensili monotaglienti. Le
caratteristiche geometriche e di forma di utensili monotaglienti sono: il
portautensile, ovvero la parte che sostiene l’inserto (parte a contatto col pezzo) e ne
consente l’afferraggio; l’inserto, ovvero la parte a contatto diretto col pezzo e su cui
si trovano le superfici attive e taglienti, è l’unica parte da sostituire; il petto o faccia
è la superficie attiva nella quale si forma e scorre il truciolo; il dorso o fianco è
ciascuna delle superfici laterali adiacenti al petto, in particolare il dorso principale è
la superficie laterale rivolta verso la superficie in lavorazione, mentre il dorso
secondario è la superficie rivolta verso la superficie già lavorata; il tagliente
principale è lo spigolo di intersezione petto-dorso principale, mentre il tagliente
secondario è lo spigolo di intersezione petto-dorso secondario; l’arco di raccordo
raccorda i due taglienti e ha un raggio di raccordo detto raggio di punta.
211) Taglio libero ed ortogonale. La meccanica di base del processo di taglio viene
idealizzata in modo semplice attraverso un modello bidimensionale, in particolare si
fa riferimento alla condizione di taglio libero e ortogonale, il quale rappresenta lo
schema più semplice per descrivere la formazione del truciolo in una lavorazione
per asportazione di truciolo.
Si precisa che la formazione di truciolo non è semplice distacco ma avviene per
effetto di una deformazione plastica che subisce il materiale in lavorazione e che
arriva fino alla rottura del materiale.
Si parla di taglio ortogonale perché l’utensile ha tagliente principale rettilineo e
ortogonale alla direzione del moto di taglio e di taglio libero taglio libero poiché,
essendo l’utensile più largo del pezzo, il truciolo è vincolato al pezzo su un solo
lato. Inoltre si ha che lo spessore del materiale asportato è molto più piccolo della
larghezza del pezzo (h0<<b). Ulteriori assunzioni sono: che l’utensile sia

perfettamente affilato (il tagliente è unalinea), che ci sia assenza di contatto


utensile-superficie lavorata, che ci sia assenza di deformazione nel truciolo lungo la
direzione del tagliente (larghezza del truciolo pari a quella del pezzo) e la costanza
di vT e h0. Lo studio della formazione del truciolo, per l’assenza di deformazione
lungo la direzione del tagliente, può essere ricondotto a un caso bidimensionale. Si
ha dunque la possibilità di studiare il meccanismo di formazione del truciolo nella
sezione ottenuta tagliando pezzo e utensile con un piano perpendicolare al
tagliente (cioè perpendicolare alla direzione del moto di taglio),(sezione
longitudinale nell’immagine riportata). Su tale sezione è inoltre possibile definire
alcuni angoli caratteristici. I parametri dimensionali di rilievo sono ho=profondità di
passata=spessore del truciolo indeformato, h1=spessore del truciolo deformato e
b=larghezza di taglio, minore della larghezza dell’utensile.

212) Angoli caratteristici di un utensile monotagliente e loro funzione. La possibilità


di considerare una sezione perpendicolare al tagliente grazie al modello di taglio
libero e ortogonale permette di individuare degli angoli caratteristici. Essi sono:
l’angolo di spoglia frontale γ, ovvero l’angolo tra la traccia del petto e la
perpendicolare alla direzione del moto di taglio; l’angolo di spoglia dorsale α,
ovvero l’angolo tra la traccia del fianco (dorso) e la direzione del moto di taglio;
l’angolo di taglio β, ovvero l’angolo formato tra la traccia del petto e quella del
dorso (l’angolo della “punta” dell’utensile); l’angolo di scorrimento ϕ.
L’angolo di spoglia frontale favorisce la penetrazione del tagliente nel materiale
(formazione del truciolo con minori deformazioni e forze rispetto alla condizione
peggiore in cui tale angolo è nullo, ovvero in cui la traccia del petto è perpendicolare
alla direzione di taglio; più cresce γ e più le deformazioni e le forze saranno piccole),
inoltre viene assunto positivo quando la traccia del petto è ruotata in senso orario
rispetto alla perpendicolare alla direzione del moto. Quando si utilizzano per inserti
molto duri (e quindi fragili) per favorire la sollecitazione di compressione (alla quale
resiste di più) si mette un angolo di spoglia frontale negativo in modo che anche se
aumenta la forza comunque resiste alla sollecitazione.
L’angolo di spoglia dorsale impedisce lo strisciamento del dorso sulla superficie del
pezzo altrimenti si avrebbe un’alterazione della rugosità e una usura eccessiva
dell’utensile. L’angolo di taglio influenza la resistenza dell’utensile alle
sollecitazioni meccaniche , quindi più è piccolo e più sarà piccola la sezione
resistente dell’utensile con capacità di sopportare forze più basse. (“punta” più o
meno spessa).
213) Evidenze su scala macroscopica e microscopica della meccanica di formazione
del truciolo. Sono stati condotti diversi studi che forniscono evidenze su scala
macroscopica e microscopica della meccanica di formazione del truciolo.
Su scala microscopica è stata notata una marcata distorsione della struttura
cristallina del truciolo rispetto alla struttura cristallina del materiale prima della
lavorazione (riconducibile ad un incrudimento da deformazione plastica).
Su scala macroscopica sono stati notati uno sviluppo di calore notevolmente
superiore a quello riconducibile al solo attrito all’interfaccia petto-truciolo, uno
spessore del truciolo maggiore di quello indeformato che viene asportato, h1 > h0
(una modifica delle dimensioni riconducibile a def. plastica) e una durezza del
truciolo maggiore di quella del pezzo (incrudimento riconducibile a def. plastica).
Tutte queste evidenze hanno portato a concludere che il meccanismo di formazione
del truciolo è legato ad un processo di deformazione plastica, non a un semplice
distacco. Le varie evidenze, nell’ordine in cui sono state riportate, si spiegano nel
seguente modo: la deformazione plastica causa una distorsione del reticolo
cristallino poiché si rompono i legami originari e se ne formano di nuovi, genera un
aumento di calore poiché l’energia spesa per la deformazione plastica non viene
immagazzinata e poi restituita allo scarico, genera deformazioni plastiche residue
allo scarico e infine comporta un incrudimento del truciolo. Durante il processo di
taglio è possibile individuare la presenza nella sezione trasversale del truciolo di
linee parallele che indicano le direzioni lungo le quali avviene lo scorrimento del
materiale e la presenza di una zono molto ristretta che separa il materiale
deformato da quello indeformato.
214) Modello a piano di scorrimento. Il modello a piano di scorrimento prevede che
la deformazione plastica sia prodotta per scorrimento di piani cristallini lungo un

piano, detto piano di scorrimento, inclinato dell’angolo ϕ rispetto alla direzione del
moto di taglio (vedere immagine della risposta 211). Il piano di scorrimento è il
piano sul quale la τ raggiunge il valore necessario per provocare la deformazione
plastica di scorrimento.
215) Modello a zone di deformazione. Nel modello a piano di scorrimento si
presuppone che la deformazione sia prodotta nell’attraversamento di un piano,
tuttavia si tratta di una ipotesi priva di basi fisiche perché la deformazione non può
avvenire su piano che non ha spessore. Nella realtà la deformazione avviene
gradualmente in una zona di transizione tra materiale indeformato (pezzo) e
deformato (truciolo) delimitata da due superfici, si parla di zona di deformazione
primaria. Inoltre, sono presenti ulteriori zone di deformazione: una all’interfaccia
truciolo-petto, detta zona di deformazione secondaria, e una nella superficie
lavorata, detta zona di deformazione terziaria.

216) Zona di deformazione primaria. La zona di deformazione primaria si spiega


sottoponendo a lavorazione un materiale con struttura a grani equiassici. La
deformazione inizia in corrispondenza del piano CL e finisce in corrispondenza del
piano CM. Il meccanismo di deformazione è influenzato da vT: al crescere di vT
aumenta l’intervallo tra l’istante in cui viene applicata l’azione deformante e quello
in cui inizia la deformazione, pertanto si ha un ritardo, con inizio della
deformazione in corrispondenza di un piano caratterizzato da un angolo ϕ>ϕ 0. Lo
stesso fenomeno si presenta, in misura molto meno marcata, anche all’uscita dalla
zona di deformazione a causa dell’impossibilità di annullare istantaneamente la
velocità del materiale nel piano CM. Pertanto si ha complessivamente un
avvicinamento di CL a CM, ovvero si ha la riduzione dell’estensione della zona di
deformazione primaria al crescere di vT. La zona di deformazione primaria, per le
normali vT delle lavorazioni industriali viene approssimata ad una zona definita da
due piani paralleli al piano di scorrimento.
217) Zona di deformazione secondaria. La zona di deformazione secondaria è
localizzata sulla superficie di contatto truciolo-petto, presso la quale si ha una
condizione di adesione in prossimità del tagliente per le elevate pressioni e
temperature che si sviluppano durante l’asportazione. Di conseguenza il moto del
truciolo sul petto è causato dallo scorrimento dei piani cristallini nella zona sotto-
superficiale. Microsaldature tra superficie truciolo e petto → adesione (quando si
staccano le microsaldature accade l’ “usura per adesione” sull’utensile.
218) Zona di deformazione terziaria. La zona di deformazione terziaria è data dallo
strisciamento di una parte della superficie dorsale dell’utensile sulla superficie
lavorata. Le cause sono l’arrotondamento del tagliente e il ritorno elastico del
materiale lavorato. Gli effetti sono la formazione di una fascia di usura sul dorso e
l’incrudimento della superficie lavorata.
219) Modello di Pijspanen. Il modello di Pijspanen vede il materiale costituito da
una serie di lamelle di spessore finito Δx: ogni lamella è spinta in avanti
dall’avanzamento dell’utensile che la obbliga a scorrere sulla successiva. La forza
esercitata dall’utensile è tale da generare sul piano di scorrimento la τ necessaria a
produrre lo scorrimento relativo tra due lamelle a contatto. Si definisce di
d γs vs
conseguenza la velocità di deformazione di scorrimento: γ̇ s = =
dt ∆ x
pertanto si ottiene valutando i valori di vs (velocità del materiale
sul piano di scorrimento) e Δx (spessore lamella).
220) Calcolo della velocità di scorrimento. Si definiscano vT=velocità di taglio,
vf=velocità di flusso del truciolo su pezzo e vs=velocità di scorrimento (velocità del
materiale nella direzione del piano di scorrimento inclinata rispetto ϕ). Applicando
l’equazione di continuità, nell’ipotesi che la larghezza b del truciolo sia costante:
vf h0
vTh0=vfh1, quindi v = h =r c <1 , dove rc=fattore di ricalcamento. Pertanto vf=rcvT.
T 1

Dallo schema riportato è possibile definire il fattore di ricalcamento nel seguente

A C
H

h0 h0 sin φ
rc= = =
modo: h1 cos( φ−γ ) cos (φ−γ) . Il valore di rc è ottenuto sperimentalmente
h0
sin φ
tramite la misura indiretta di h1 eseguita pesando uno spezzone di truciolo (h 1 non è
misurabile in modo diretto senza una consistente incertezza). Il valore di γ è noto,
cos γ
tan φ=
mentre il valore di ϕ si ricava dalla relazione 1
−sin γ ottenuta risolvendo
rc
l’equazione precedente. Sostituendo a rc il valore ottenuto precedentemente si
sin φ
ricava la velocità di flusso v f =r c v T =v T cos( φ−γ) .

Dal triangolo delle velocità, considerando l’altezza BH e i due triangoli rettangoli


AHB e BHC in cui essa suddivide il triangolo ABC, si ottiene: v s sin φ=v f cos γ →
cos γ sin φ cos γ cos γ
v s=v f
sin φ
=v T =vT . Per il calcolo della velocità di
cos( φ−γ ) sin φ cos (φ−γ )
deformazione di scorrimento è necessario conoscere il valore di Δx, il quale non può
però essere calcolato in modo esatto (è una grandezza che approssima una quantità
reale), ma è possibile stimarne il valore massimo. Da evidenze sperimentali il valore
di Δx è dell’ordine di 10-2-10-3 mm. Ne consegue che, anche per basse vT, il valore
della velocità di deformazione di scorrimento è molto elevato (103-106 s-1) e supera
le velocità di deformazione tipiche delle lavorazioni plastiche di diversi ordini di
grandezza.

la deformazione plastica per scorrimento avviene nella zona di deformazione


primaria di dimensioni estremamente limitate e a velocità di deformazione molto
elevate. Il calore che si sviluppa è così elevato che rimane nella zona di
deformazione perché il materiale non ha tempo di scambiarlo con l’ambiente
circostante → trasformazione di tipo adiabatico → forte incremento di temperatura.
221) Fattore di ricalcamento. Applicando l’equazione di continuità, nell’ipotesi che
vf h0
la larghezza b del truciolo sia costante: vTh0=vfh1, quindi v = h =r c <1, dove
T 1

rc=fattore di ricalcamento. Pertanto vf=rcvT. Dallo schema riportato è possibile


h0 h0 sin φ
rc= = =
definire il fattore di ricalcamento nel seguente modo: h1 cos(φ−γ ) cos (φ−γ) .
h0
sin φ
Il valore di rc è ottenuto sperimentalmente tramite la misura indiretta di h 1 eseguita
pesando uno spezzone di truciolo (h1 non è misurabile in modo diretto senza una
consistente incertezza). Il valore di γ è noto, mentre il valore di ϕ si ricava dalla
cos γ
tan φ=
relazione 1
−sin γ ottenuta risolvendo l’equazione precedente.
rc

La tipologia di truciolo dipende dalle caratteristiche meccaniche e metallurgiche del


materiale lavorato, dal tipo di operazione, dagli angoli di taglio, dai parametri di
taglio e dalle condizioni di lubrificazione all’interfaccia petto-truciolo. Esistono 4 tipi
di truciolo: il truciolo continuo o fluente, il truciolo discontinuo o frammentato, il
truciolo ondulato e il truciolo segmentato.
222) Truciolo fluente. Nel truciolo continuo (o fluente) è mantenuta la continuità
del materiale e si ottiene in lavorazioni eseguite in condizioni di taglio stazionario
( il contatto tra il tagliente dell’utensile e il pezzo si stabilisce all’inizio della
lavorazione e perdura per tutta la lavorazione fino al termina) e su materiali duttili
con elevati valori di vT e/o γ (più è alto il valore di γ e maggiore è la probabilità di
avere un truciolo continuo, come anche vT ). Le caratteristiche della lavorazione
sono una buona finitura superficiale e la tendenza del truciolo ad avvolgersi
intorno all’utensile e alle attrezzature (per evitare l’interruzione della lavorazione si
installa un rompitruciolo, o a forma di cuneo o di cavità).
223) Truciolo discontinuo. Il truciolo discontinuo (o frammentato) è costituito da
particelle metalliche completamente distaccate tra loro. È tipico di lavorazioni di
taglio interrotto (come ad esempio nella fresatura), di taglio stazionario su
materiali fragili (come la ghisa), su materiali con inclusioni dure e impurezze o con
vT molto alte o con valori elevati di p e bassi di γ. Non occorre rompitruciolo ma la
finitura superficiale peggiora.
224) Truciolo ondulato. Si parla di truciolo ondulato quando si ha a che fare con un
truciolo continuo con superficie libera (quella non a contatto con l’utensile)
caratterizzata da una ondulazione accentuata. L’ondulazione è riconducibile alla
variazione periodica nel tempo della deformazione plastica.
225) Truciolo segmentato. Il truciolo segmentato (a dente di sega) è dovuto alla
presenza di zone in cui la deformazione per scorrimento tende a localizzarsi. È
costituito da un numero di elementi collegati tra loro, con presenza di zone
caratterizzate da elevata deformazione e altre da deformazione limitata. Il truciolo
ha un aspetto a denti di sega. È caratteristico dei materiali a bassa conducibilità
termica e con resistenza che diminuisce rapidamente al crescere della
temperatura, come le leghe di titanio, e di lavorazioni con vT molto elevate.

226) Tagliente di riporto. Il tagliente di riporto (BUE) è formato da strati di metallo


fortemente incrudito adagiati sul petto in prossimità del tagliente e il cui numero
cresce con il progredire della formazione del truciolo. Cresce durante la
lavorazione, sopravanzando il tagliente, fino a che la zona sporgente, sotto l’azione
del momento flettente dovuto alla forza scambiata tra utensile e pezzo, ne provoca
la rottura. Una parte del BUE si incastra nella superficie in lavorazione, la parte
restante viene asportata dal truciolo. Le particelle presenti nel truciolo aumentano
l’usura sul petto, le particelle sulla superficie lavorata comportano un
peggioramento della rugosità superficiale e il danneggiamento degli utensili usati
nelle lavorazioni successive. Si ha una continua ripetizione del ciclo con crescita fino
alle dimensioni critiche e poi rottura e formazione di particelle. Il BUE si sviluppa con
vT basse o medie, materiali con forte tendenza all’incrudimento e/o valori di γ
piccoli. Le dimensioni del BUE decrescono all’aumentare di vT fino alla scomparsa.
Strati di metallo incrudito vanno a aderire sulla superficie del petto. Il numero di
questi strati che aderiscono sul petto cresce con il progredire del truciolo. Può
accadere che il materiale (tagliente) di riporto che aderisce sul petto dell’utensile
sopravanzi il tagliente. Sul tagliente di riporto agisce la forza che si scambiano
l’utensile e il pezzo; quando si spezza questo tagliente, perché troppo grande per
resistere al momento che subisce, una parte viene asportata e l’altra finisce sulla
superficie lavorata fino ad incastrarsi. Ciò provoca l’abbattimento della finitura
superficiale con conseguente abrasione dell’utensile.

227) Forze nel taglio ortogonale e cerchio di Merchant.


Il truciolo è considerato come un corpo libero in equilibrio sotto l’azione di due
forze, R e R’, applicate nella zona di contatto con il materiale e con l’utensile. La
condizione di equilibrio è R=R’ e la retta d’azione delle due forze (la stessa per
entrambe, altrimenti non si avrebbe l’equilibrio) è prossima al punto C, ma si
ipotizza che essa passi in C. Di conseguenza si trascurano gli effetti del momento
flettente sulla distribuzione di tensioni nella zona di scorrimento. La risultante R può
essere scomposta in tre gruppi di componenti:
- nella direzione parallela e perpendicolare al moto di taglio: F t=R cos ( δ−γ ) e
F n=R sin ( δ−γ );

- nella direzione parallela e perpendicolare alla faccia del petto: F=R sin δ e
N=R cos δ ;

-nella direzione parallela e perpendicolare al piano di scorrimento:


F s=R cos ( φ+δ−γ ) e N s =R sin ( φ+δ−γ ) .

Come si nota dallo schema sopra riportato i vertici dei triangoli di scomposizione
sono disposti su un cerchio di diametro pare a R detto Cerchio di Merchant (sono
tutti triangoli rettangoli aventi la stessa ipotenusa, pertanto ovviamente i vertici in
cui si incontrano i due cateti di ciascun triangolo appartengono alla circonferenza
avente tale ipotenusa come diametro). Le componenti Ft e Fn sono rispettivamente
la forza principale di taglio, la quale permette la valutazione della potenza
assorbita nel taglio (prodotto scalare tra forza e spostamento, pertanto compare la

componente della forza parallela alla direzione di taglio, ovvero F t), e la forza di
repulsione. Queste due forze sono misurabili sperimentalmente con un
dinamometro. Le componenti N e F consentono la determinazione delle condizioni
di attrito all’interfaccia truciolo petto (angolo δ) (F è nella direzione parallela al
petto, lungo la quale si ha l’attrito). Le componenti Ns e Fs sono importanti per la
determinazione dello stato di sollecitazione a cui il materiale è sottoposto nella
zona di scorrimento (forze con direzioni relative al piano di scorrimento). La
componente Fs viene calcolata, facendo riferimento al modello piano di
scorrimento, come: Fs=τsAs con τs=tensione tangenziale di scorrimento del
materiale e As=area del piano di scorrimento. L’area del piano di scorrimento è
ottenuta da quella del truciolo indeformato A0 considerando il triangolo ADC della
A0 τ A
seconda immagine riportata nella risposta 220: A s= , di conseguenza F s= s 0 . A
sin φ sin φ
τ A
questo punto si calcola la risultante R dalla relazione F s=R cos ( φ+δ−γ )= s 0
sin φ
τ s A0
ottenendo R= . Sostituendo poi il valore di R nelle espressioni di F t e
sin φ cos ( φ+δ−γ )
τ s A 0 cos ( δ−γ )
Fn si ottiene F t=R cos ( δ−γ )= e
sin φ cos ( φ+ δ −γ )
τ A sin ( δ−γ )
F n=R sin ( δ−γ )= s 0 =Ft tan ( δ −γ ). Pertanto il calcolo della risultante R e
sin φ cos ( φ+δ −γ )
delle sue componenti richiede la conoscenza dei valori di τ s (dipendente dal
materiale, da γs, da γ̇ s e T), di γ(caratteristico dell’utensile), di ϕ (ottenuto da γ e
dalla misura sperimentale di rc) e di δ(ottenuto dalla misura sperimentale con
dinamometro di Ft e Fn). La difficoltà è legata al fatto che non è disponibile la
relazione che lega τs alle variabili da cui dipende riportata, ma si ha la possibilità di
stimare τs riferendosi alla pressione di taglio pt.

228) Pressione di taglio. La pressione di taglio pt è definita dalla relazione pt=Ft/A0,


ovvero è data dalla forza di taglio per unità di area della sezione di truciolo
indeformato. Dipende da: le proprietà meccaniche del materiale in lavorazione
(carico di rottura, durezza, etc.); l’area della sezione del truciolo indeformato
A0=bh0=pa, il materiale e la geometria del tagliente (in particolare da γ), la velocità
di taglio vt, le condizioni di lubrificazione della zona di taglio (coefficiente di attrito
μ). Pertanto i valori di pt ottenuti attraverso la misura con dinamometro di F t sono
validi solo per le condizioni adottate nella sperimentazione.
229) Pressione specifica di taglio. La pressione specifica di taglio si indica con pt0 e
rappresenta il valore di pt ottenuto con area del truciolo indeformato unitaria=1
mm2. La pressione specifica di taglio dipende in modo particolare da A 0: è
indipendente dalla larghezza del truciolo (quando b>>h o), mentre è fortemente
dipendente da h0. La relazione tra pt e pt0 è data dalla relazione di Kronenberg:
pt = pt 0 h0 , dove z=costante dipendente, come pt0, dalle condizioni di lavorazione.
−z

Tale equazione è rappresentata, su un grafico log(p t)-log(h0), da una retta con


pendenza negativa (all’aumentare dello spessore di truciolo indeformato diminuisce
la pressione specifica di taglio). Noti pt0 e z è possibile ottenere Ft:
F t= pt A 0= pt bh= pt 0 h0 bh= pt 0 h0 b.
−z 1−z

230) Potenza assorbita nel taglio. La potenza assorbita nel taglio viene calcolata
considerando le seguenti componenti della forza risultante: la forza principale di
taglio Ft, la forza di repulsione Fn e la forza di resistenza all’avanzamento Fa.
L’espressione della potenza di taglio è pertanto W t =F t v t + F a v a + F n v r, tuttavia poiché
Ft>Fa, vt>>va e vr=0 vale W t ≅ F t v t.
231) Aspetti termici nel taglio. Bisogna considerare gli aspetti termici nel taglio.
Quasi tutta l’energia assorbita nel taglio viene trasformata in calore che si sviluppa
entro un volume assai limitato, inoltre devono essere sommati gli effetti termici
dell’attrito. Ne consegue un notevole aumento della temperatura nella zona di
taglio che influenza: la resistenza meccanica dell’utensile, la resistenza a usura
dell’utensile e l’accuratezza della lavorazione (deformazioni termiche). L’energia
t W t t Fvt F
spesa durante il processo di taglio e trasformata in calore è U = MRR = b h v = A = pt ,
0 t 0

dove Wt=potenza di taglio, MRR=volume di truciolo asportato nell’unità di tempo e


A0=area della sezione del truciolo indeformato. L’energia coincide con la pressione
di taglio. L’energia è inoltre ottenuta come somma di due termini: U=Us+Ua≈1,25Us,
con Us=energia specifica richiesta per la deformazione della zona di scorrimento e
Ua=energia richiesta per vincere l’attrito all’interfaccia truciolo-petto. Il valore di Us
s s F v
s s F vs s τ v
è ottenuto come U s= MRR = A v = sin φ v =τ s γ s . I valori di U possono essere ricavati
0 t t

anche sperimentalmente mediante prove di tornitura e fresatura. Il calore prodotto


dalla trasformazione dell’energia viene distribuito in modo non equanime tra
pezzo, utensile e truciolo. Con elevate vT la maggior parte del calore rimane nel
truciolo. La valutazione di T è possibile solo con tecniche FEM.
Il calore si distribuisce in maniera diversa a seconda della velocità di taglio. Per un
elevato incremento di temperatura la maggior parte va verso l’utensile e la minor
parte sul pezzo a seconda della conducibilità termica dell’utensile. Ciò comporta il
rischio di deformare l’utensile per causa dell’addolcimento del materiale a T elevate
e una maggior usura con la riduzione della vita utile dell’utensile.
232) Meccanismi di usura degli utensili nelle lavorazioni per asportazione di truciolo.
L’usura è l’asportazione progressiva di materiale dalla superficie dell’utensile
originata da diverse cause (cambiamento geometria dell’utensile per effetto
dell’usura ed una conseguente perdita di materiale; ciò comporta l’aumento delle
forze necessarie alla lavorazione e il peggioramento della finitura superficiale).
L’usura per abrasione è prodotta dallo scorrimento sulla superficie dell’utensile di
particelle dure e abrasive presenti nel materiale in lavorazione e si manifesta con
grande evidenza sullo spigolo tagliente e sul dorso. L’usura per adesione è originata
dalle elevate pressioni di contatto e temperature che provocano delle micro-
saldature localizzate tra truciolo e petto, le quali vengono strappate allo scorrimento
del truciolo sul petto con conseguente asportazione di materiale.
L’usura per diffusione è originata da processi di mutua solubilità fra alcuni
componenti dei due materiali a contatto ed è accelerata dalle elevate temperature.
Inoltre, si manifesta con migrazione di atomi attraverso l’interfaccia utensile-truciolo
ed è tipica nella lavorazione di acciai austenitici con carburi di tungsteno (si ha
passaggio di C dall’utensile al truciolo e di Fe dal truciolo all’utensile).
L’usura per ossidazione è causata dalla combinazione dell’ossigeno
atmosferico con alcuni elementi dell’utensile (W e Co) e comporta la formazione di
ossidi facilmente asportabili dal truciolo. L’usura per fatica termo-meccanica è
provocata da sollecitazioni termo-meccaniche cicliche sull’utensile ed è presente nei
processi caratterizzati da continue variazioni di temperatura e forza di taglio (taglio
interrotto); porta alla formazione di cricche che conducono alla rapida frattura del
tagliente. La scheggiatura è l’asportazione di particelle metalliche in prossimità del
tagliente per effetto di urti o pressioni eccessive. La deformazione plastica si
manifesta quando la T della zona di taglio raggiunge valori tali da causare una
riduzione della tensione del materiale dell’utensile. L’usura assume caratteristiche
diverse a seconda della zona interessata, per via dei diversi effetti in gioco. L’usura
sul petto è data dalla formazione di un cratere originato prevalentemente per
diffusione e adesione. L’usura sul dorso è data dalla formazione del labbro d’usura,
caratterizzato da una serie di striature parallele alla direzione di taglio, dovuto
all’abrasione. Complessivamente si ha perdita di materiale e alterazioni di forma e
dimensioni.

233) Labbro d’usura. Il labbro d’usura è provocato dallo strisciamento del dorso
sulla superficie in lavorazione. È sempre presente, in maggiore o minore misura.
Usura sul dorso (fianco) che si manifesta tramite striature parallele alla direzione del
moto di taglio. Influenza la finitura e la precisione. Le principali dimensioni sono la
larghezza, misurata attraverso il valore medio VB e il valore massimo VBmax, la
lunghezza b (misurata lungo il tagliente) e la distanza tra tagliente principale
usurato e originario N.
234) Cratere d’usura. Il cratere d’usura è un cratere causato dall’usura per

diffusione e per adesione che si manifesta a T e pressioni elevate sul petto


dell’utensile. Si presenta solo negli utensili in materiali che consentono di
raggiungere vt elevate. Non è presente nella lavorazione dei materiali fragili che
danno origine ad un truciolo interrotto (es. ghisa). Determina l’indebolimento
dell’utensile. Le principali dimensioni sono la profondità massima KT, la larghezza
KL, la distanza del centro del cratere dal tagliente originario KM e le distanze dei
bordi del cratere dal tagliente originario KB e KF.
235) Curve di usura. Il comportamento all’usura viene studiato eseguendo prove di
asportazione mantenendo costanti i valori dei parametri di taglio. Le prove
vengono interrotte a diversi valori del tempo di lavorazione per misurare l’usura sul
fianco o sul petto. Si graficano i valori della caratteristica d’usura (VB, KT, …) in
funzione del tempo di lavorazione: si ottengono così le curve d’usura dell’utensile.
Nell’immagine sottostante è riportato l’andamento tipico del labbro d’usura in
funzione del tempo di lavorazione. Nella zona I si ha una crescita marcata di VB
(larghezza media) per l’arrotondamento dello spigolo tagliente. Nella zona II si ha un
moderato incremento di VB che abbraccia la maggior parte della vita utile
dell’utensile. Nella zona III, la zona finale, si ha una rapida usura e l’inversione della
curvatura: la capacità di taglio è compromessa per la perdita delle caratteristiche di
forma e dimensionali dell’utensile. L’aumento di forza e temperatura che si genera
può condurre alla rottura dell’utensile.
236) Criteri di usura. I criteri di usura permettono di stabilire in modo oggettivo la
durata dell’utensile (vita utile). Utilizzano parametri facilmente misurabili e
possono essere fissati in funzione del grado di usura massimo ammissibile sul
fianco dell’utensile (VBlim), del grado di usura massimo ammissibile sul petto
dell’utensile (KTlim), dei limiti di tolleranza ammissibili sul pezzo per via della
perdita di precisione conseguente alla presenza del labbro d’usura e dei limiti di
rugosità superficiale ammissibili sul pezzo per via della perdita di finitura
conseguente alla presenza del labbro d’usura. Il criterio più utilizzato è basato sul
grado di usura massimo ammissibile sul fianco dell’utensile VB lim. In particolare,
quando VB>VBmax si ha il termine della vita utile dell’utensile. Per gli utensili
integrali è possibile il ripristino della geometria originale del tagliente mediante
riaffilatura. Per gli utensili con inserti occorre sostituire il tagliente mediante
riposizionamento o cambio inserto. Il valore di VBlim dipende dal materiale

dell’utensile e dal tipo di operazione. Per i carburi metallici sinterizzati VB lim=0,8


mm in tornitura o fresatura di sgrossatura, mentre VB lim=0,4mm in finitura. Il
parametro che influenza maggiormente l’usura è v T dal momento che è legato alla
temperatura nella zona di taglio (all’aumentare di v T la maggior parte del calore
rimane nel truciolo), pertanto le prove vengono eseguite a diversi valori di v T
mantenendo va e p costanti. All’aumentare di vT si ha uno spostamento delle curve
di usura verso l’alto e una diminuzione della T. La curva T-vT ha andamento
iperbolico, mentre la curva log(T)-log(vT) ha andamento lineare.
237) Ricavare la legge di Taylor. All’aumentare di vT si ha uno spostamento delle
curve di usura verso l’alto e una diminuzione della T. La curva T-vT ha andamento
iperbolico, mentre la curva log(T)-log(vT) ha andamento lineare:
log T =−m log v T −log K , dal grafico si nota che m=tan(ρ)e logK è l’intercetta con l’asse
logT, inoltre considerando il triangolo formato dalla retta e dagli assi si osserva che
m=1/n, con n=tan(θ), e logK=logC/tan(θ)=logC/n, dove logC=intercetta con asse

( )
1
−1 C
log(vT),quindilog T = n ( log v T −log C )=log v n → T n v T =C , dove C=costante pari alla vT
T

corrispondente a una durata utensile di 1 min e n=esponente di Taylor, tangente


all’angolo minore tra retta e asse delle ordinate (usualmente compreso tra 0,1 e
0,6). Considerazioni analoghe a quelle fatte per l’usura sul fianco possono essere
fatte considerando l’usura del petto dell’utensile. Si procede con l’esecuzione di
prove interrotte a diversi valori del tempo di lavorazione per misurare l’usura sul
petto, ad esempio attraverso il parametro KT (profondità del cratere d’usura), poi i
valori della caratteristica d’usura vengono graficati in funzione di tl (tempo di
lavorazione) ottenendo delle curve di usura dell’utensile. Infine si ripete la
procedura per ottenere la legge di Taylor.

238) Legge di Taylor generalizzata. La legge proposta da Taylor mette in evidenza


l’effetto di vT sulla durata dell’utensile, ma tiene conto solo in modo indiretto di
quello minore, ma comunque significativo, degli altri parametri di taglio, ovvero la
velocità di avanzamento va(o l’avanzamento a) e la profondità di passata p. Il
problema viene risolto con la formulazione di versioni, dette generalizzate, della
legge originale proposta da Taylor che tengono conto in maniera esplicita
dell’effetto di tutti i parametri di taglio. Si ottiene pertanto la legge di Taylor
n r s
generalizzata v t T a p =C , dove r=sensibilità di T all’avanzamento (r=0,4-0,6) e
s=sensibilità di T alla profondità di passata (s≈0,2). La durata dell’utensile è
1 −1 −r −s
ricavata dalla relazione T =C n v t n a n p n

ovvero per mantenere invariato T ad un aumento di v T deve corrispondere una


diminuzione di a e/o di p. Per gli utensili in acciaio rapido a è il parametro che, dopo
vT, esercita la maggiore influenza su T.

239) Scelta dei parametri di processo nelle operazioni di sgrossatura e finitura.


La sgrossatura ha lo scopo di asportare grandi quantità di truciolo mantenendo
elevata la MRR, quindi si ha una sezione di truciolo “p∙a” grande. Alla luce della
legge di Taylor generalizzata i parametri vanno scelti massimizzando p poiché è il
parametro di taglio che ha la minore incidenza su T. La vT deve essere moderata
per evitare un’eccessiva usura dell’utensile.

Nella finitura l’obiettivo e quello di ottenere una superficie con finitura desiderata
e pertanto si hanno bassi valori di a (poco materiale da asportare) e vT maggiori
rispetto alla sgrossatura così che il valore di rugosità tende a quello teorico (gli altri
parametri sono più bassi per via del tipo di lavorazione, pertanto è possibile
aumentare vT senza alterare la T in modo compromettente).

240) Funzioni assolte dai fluidi da taglio nelle lavorazioni per asportazione di
truciolo. I fluidi da taglio assolvono alle funzioni di lubrificante e refrigerante, si
parla di fluidi lubro-refrigeranti. L’azione predominante è differente in base al tipo
di lavorazione e ai parametri di taglio: nelle lavorazioni con vT medio-alte (come
tornitura e fresatura) è quella di refrigerazione (perché si generano microsaldature
e quindi non ci sarebbero più scorrimenti da lubrificare), nelle lavorazioni con vT
basse (come maschiatura e brocciatura) è quella di lubrificazione. Altre funzioni
sono quella di favorire l’evacuazione del truciolo dalla zona di taglio e quella di
proteggere le superfici lavorate da ossidazione e/o corrosione.

241) Lavorabilità alle macchine utensili. La lavorabilità alle macchine utensili è


l’attitudine di un materiale a subire lavorazioni di taglio con asportazione di
truciolo. Viene definita facendo riferimento ad uno dei seguenti criteri: la durata del
tagliente (lavorabilità maggiore se alta durata), la forza e l’energia assorbita nel
taglio (lavorabilità maggiore se bassa forza e energia assorbite), la finitura ed
integrità superficiale (lavorabilità maggiore se finitura migliore), e il tipo e la forma
del truciolo (lavorabilità maggiore se truciolo fluente).

Ci sono alcune proprietà fisiche e meccaniche del materiale in lavorazione che


consentono di avere un’elevata lavorabilità: una bassa duttilità permette la
formazione e il distacco del truciolo con minimo scorrimento e facilita la rottura del
truciolo; una bassa τs riduce la forza di taglio; una bassa affinità chimica tra utensile
e truciolo riduce il passaggio di atomi da una parte all’altra tra pezzo in lavorazione
e utensile a contatto con il pezzo, dunque riduce l’usura per diffusione; una ridotta
presenza di inclusioni dure riduce l’usura per abrasione; una elevata conducibilità
termica riduce le temperature nella zona di taglio e nella parte di utensile a diretto
contatto; un basso punto di fusione comporta temperature non troppo elevate
nella zona di taglio, quindi riduce il rischio di deformazioni plastiche dell’utensile o di
reazioni chimiche.

242) Principali requisiti dei materiali per utensili nelle lavorazioni per asportazione di
truciolo. Anche i materiali per utensili devono avere dei particolari requisiti: una
elevata durezza, in particolare ad elevate T; una elevata tenacità, intesa sia come
capacità di resistere agli urti che sollecitano l’utensile in condizioni di taglio
interrotto, sia come capacità di deformarsi sotto carico prima di rompersi; una
elevata resistenza alla deformazione plastica, la quale può presentarsi a causa delle
elevate sollecitazioni meccaniche e termiche agenti sull’utensile; una elevata
resistenza all’usura, causata dallo strisciamento del truciolo sul petto e della
superficie lavorata sul dorso dell’utensile; una elevata conducibilità termica, allo
scopo di favorire lo smaltimento del calore dalla zona di taglio; un basso coefficiente
di attrito, allo scopo di impedire eccessivi riscaldamenti nella zona di taglio. I migliori
materiali, alla luce di quanto esposto, sono gli acciai al carbonio e gli acciai
debolmente legati, gli acciai rapidi e superrapidi (HSS=High-Speed Steels), le leghe
fuse di cobalto (Stelliti), i carburi metallici sinterizzati, i carburi metallici rivestiti, i
materiali ceramici, il nitruro di boro cubico (CBN) e il diamante policristallino (PCD).

243) Moti caratteristici nella tornitura e superfici ottenibili. La tornitura permette di


lavorare pezzi di forma assial-simmetrica generando superfici cilindriche, piane,
coniche, …, utilizzando un utensile a punta singola. Il moto di taglio è rotatorio
continuo e appartiene al pezzo, il moto di avanzamento è traslatorio continuo e
appartiene all’utensile, pertanto il moto di lavoro è elicoidale. Permette di
ottenere: superfici cilindriche, con l’avanzamento longitudinale parallelo all’asse del
pezzo; superfici piane, con l’avanzamento longitudinale parallelo all’asse del pezzo o
l’avanzamento trasversale e perpendicolare all’asse di rotazione del pezzo; superfici
coniche, con avanzamento con moto rettilineo secondo una direzione complanare
ed obliqua rispetto all’asse di rotazione del pezzo; superfici sferiche, con
avanzamento longitudinale e trasversale tale da far descrivere all’utensile un arco di
cerchio con asse perpendicolare a quello di rotazione del pezzo; superfici di
rivoluzione di forma generica, con combinazioni generiche di avanzamenti
longitudinali e trasversali; filettature, con avanzamento longitudinale di un utensile
di forma pari al passo del filetto che si vuole realizzare. Si dividono i processi di
tornitura tra tornitura esterna (longitudinale, di profili o frontale=sfacciatura) ed
interna (longitudinale o di profili). Con la tornitura è anche possibile eseguire la
troncatura (poco profonda, media o profonda, eseguite soprattutto in macchine con
alimentatore a barre) e la scanalatura (scanaltura esterna a passata singola, a
passata multipla o a tuffo, lavorazione di piani inclinati, tornitura di finitura di una
scanalatura o scanalatura frontale di sgrossatura o di finitura). Si possono eseguire
fori in asse con il pezzo utilizzando una punta elicoidale al posto della contropunta.
La rugosità superficiale è data dal profilo ottenuto sulla superficie lavorata di tipo
elicoidale con passo coincidente con l’avanzamento. Il valore teorico della rugosità è
pari all’altezza del solco lasciato sulla superficie lavorata e dipende, per una data
geometria dell’utensile, dall’avanzamento. La sua espressione include il raggio di
2
a
punta r: Rt = . La rugosità Ra (media aritmetica dei valori assoluti delle deviazioni
8r
2
1 a
del profilo dalla linea media) è pari a Ra = R = . Ci sono diversi fattori che
4 t 32 r
determinano lo scostamento della finitura di una superficie lavorata da quella
teorica: la velocità di taglio, la formazione del tagliente di riporto (BUE), la
presenza di vibrazioni, l’attrito e le condizioni di lubrificazione, le proprietà
meccaniche del materiale lavorato, l’acutezza e finitura dell’utensile, le irregolarità
periodiche e aleatorie dei moti di taglio e di avanzamento. L’aumento di vT
comporta la diminuzione della rugosità reale e della differenza tra i valori di
rugosità reali e teorici. Esistono vari tipi di tornio: parallelo, verticale o frontale.
Esistono vari metodi per il posizionamento ed il bloccaggio del pezzo. La tornitura di
filetti può essere sia esterna che interna.

244) Funzione del rompitruciolo e principio di funzionamento. I dispositivi


rompitruciolo favoriscono la formazione di truciolo frammentato nella lavorazione
di materiali duttili in condizioni di taglio stazionarie (nelle quali si avrebbe la
tendenza da parte dei materiali duttili a formare truciolo fluente). Si interpone tra
l’inserto e la staffa di serraggio una piastrina con spigolo cuneiforme che,
costringendo il truciolo a subire un marcato incurvamento, ne favorisce la rottura.
Si ha come conseguenza il danneggiamento di piastrina e staffa, ma comporta
anche una sostituzione più lenta dell’inserto. In alternativa si preferisce l’utilizzo di
inserti con scanalature sul petto che svolgono la funzione di rompitruciolo.

245) Moti caratteristici nella foratura. La foratura consente di ottenere fori con
livello di precisione grossolano. Il moto di taglio è rotatorio continuo, mentre
quello di avanzamento è traslatorio continuo, ma entrambi appartengono
all’utensile. Il moto di lavoro è elicoidale. Si possono ottenere diverse tipologie di
foro: fori cilindrici passanti, cilindrici ciechi (terminano a punta per via dell’utensile
utilizzato), fori svasati (superfici di raccordo con la superficie da cui è partita la
foratura inclinate, a tronco di cono), fori con lamatura (all’imbocco il foro è più
ampio, ma non si raccorda con continuità al resto del foro come nel caso dei fori
svasati), fori conici e fori a profili multipli. L’utensile è la punta elicoidale, un
utensile pluritagliente, e si divide in corpo e codolo. Esistono diversi tipi di trapano:
a colonna o radiale.

246) Moti caratteristici nella alesatura e barenatura e superfici ottenibili.


L’allargatura dei fori è una lavorazioni di precisione eseguita su fori pre-eseguiti o
presenti da grezzo, pertanto spesso segue la foratura. Serve ad allargare e
migliorare la qualità di un foro preesistente. Il moto di taglio è rotatorio continuo
ed è dell’utensile, mentre quello di avanzamento è traslatorio continuo e può
essere dell’utensile o del pezzo. Il moto di lavoro è elicoidale. Esistono diversi
operazioni possibili per l’allargatura dei fori: alesatura con avanzamento del
mandrino, alesatura con avanzamento del pezzo, alesatura con barra d’alesatura e
alesatura con utensile su piattaforma, lavorazioni associate a quelle di alesatura o
barenatura sono quelle di foratura o di filettatura interna o esterna. Gli utensili
utilizzati possono essere monotaglienti o multitaglienti. L’alesatrice può essere
orizzontale o verticale.
247) Moti caratteristici nella fresatura e superfici ottenibili. La fresatura consente di
ottenere una vasta gamma di superfici (piane, scanalate, spallamenti, …) mediante
l’azione di un utensile pluritagliente a geometria definita. Si distingue tra fresatura
periferica (asse dell’utensile parallelo alla superficie da lavorare, taglienti periferici)
e fresatura frontale (asse dell’utensile perpendicolare alla superficie da lavorare,
taglienti con parte attiva su una base dell’utensile). In entrambi i casi il moto di
taglio è rotatorio continuo e appartiene all’utensile, mentre il moto di
avanzamento è traslatorio e appartiene al pezzo. Complessivamente il moto di
lavoro è cicloidale poiché, a differenza delle lavorazioni viste in precedenza, il moto
di avanzamento non è assiale rispetto a quello rotatorio. Le frese sono utensili
pluritaglienti e nel caso della fresatura periferica i taglienti sono disposti su superfici
piane e/o di rivoluzione (cilindriche, coniche o di forma). Ciascun dente è
assimilabile a un utensile monotagliente che lavora ad intermittenza. Ciascun
dente è caratterizzato da un angolo di spoglia superiore (frontale), da un angolo di
taglio, da un angolo di spoglia inferiore (dorsale) e da un angolo di scarico. Il tipo di
fresa è collegato al tipo di superficie che si vuole ottenere. Con le frese cilindriche-
periferiche si ottengono superfici piane. Per quanto riguarda le frese cilindrico-
frontali, ne esistono di diversi tipi: frese a manicotto, frese a codolo, frese a codolo
ad estremità semisferica. Le frese a manicotto permettono di avere la spianatura di
superfici piane e la lavorazione contemporanea di due superfici ortogonali. Le
frese a codolo permettono di ottenere scanalature, anche curvilinee, con torniture
esterne ed interne e cave per linguette. Le frese a codolo semisferiche permettono
di ottenere superfici complesse. Altri tipi di classificazione riguardano la particolare
geometria dell’utensile: le frese a disco a tre tagli permettono di ottenere
scanalature rettilinee, le frese per scanalature a T consentono di eseguire una
scanalatura a T richiedente la prescanalatura a sezione rettangolare, le frese ad
angolo permettono di ottenere scanalature a generatrice rettilinea e guide a coda
di rondine, le frese con profilo costante permettono di ottenere il taglio di
ingranaggi e profili semicircolari convessi o concavi. Ricapitolando con le frese si
possono ottenere: superfici piane, spallamenti, spianature, profilature, cave,
scanalature, ingranaggi, fori, cavità/tasche, superfici curve, superfici complesse. La
macchina che esegue la fresatura si chiama fresatrice e può essere orizzontale o
verticale.
248) Differenza tra fresatura frontale e fresatura periferica. Nella fresatura
periferica i taglienti sono disposti lungo la periferia esterna del disco o cilindro che
costituisce l’utensile e l’asse dell’utensile è parallelo alla superficie in lavorazione.
La fresatura periferica può essere in discordanza o in concordanza. Nella fresatura
frontale i taglienti sono disposti in modo tale che la loro parte attiva sia in
corrispondenza della base del corpo cilindrico della fresa e l’asse dell’utensile è
perpendicolare alla superficie in lavorazione. È interessante analizzare le forze nella
fresatura frontale. L’immagine riportata descrive le possibili scomposizioni della
risultante R. La componente O è quella parallela alla direzione del moto di
avanzamento, la quale assume nel tratto AB verso opposto alla direzione di
avanzamento e nel tratto BC verso concorde. La componente ortogonale alla
direzione del moto di avanzamento V sposta lateralmente il pezzo. Per la stabilità
della lavorazione la componente orizzontale deve opporsi all’avanzamento, pertanto
il tratto di ingresso AB deve essere maggiore del tratto di uscita BC, comportando un
disallineamento dell’asse della fresa rispetto alla linea di metà larghezza del pezzo.
Se vale D>L (D≈1,3-1,7L) la sporgenza nel tratto in ingresso è ≈0,1D e la sporgenza
nel tratto in uscita è ≈0,3D. Se D<L si indica con L’ la larghezza del tratto di pezzo su
cui agisce la fresa e con I la distanza del bordo del pezzo “coperto” dalla fresa dal
diametro della fresa stessa longitudinale rispetto al pezzo, inoltre deve valere I<L’/3.

249) Differenza tra fresatura in concordanza e in discordanza. Nella fresatura


periferica in discordanza la componente di v T lungo la direzione del moto di
avanzamento durante il contatto tra tagliente e pezzo ha lo stesso verso della v a,
nella fresatura periferica in concordanza la componente di v T lungo la direzione del
moto di avanzamento durante il contatto tra tagliente e pezzo ha verso opposto
rispetto a quello di va. Considerando la fresatura periferica in discordanza, il
principale vantaggio è la generazione di una forza orizzontale opposta
all’avanzamento che garantisce un contatto continuo dei fianchi dei filetti della vite
e della madrevite, mentre i principali svantaggi sono lo strisciamento iniziale, il
quale genera l’usura del dente della fresa, l’incrudimento del materiale e
l’eccessivo riscaldamento del tagliente, e la generazione di una forza verticale
verso l’alto, la quale comporta vibrazioni della macchina e il distacco del pezzo
dall’attrezzatura. Considerando la fresatura periferica in concordanza, i principali
vantaggi sono l’assenza di strisciamento, la quale permette di avere una buona
finitura superficiale, un ridotto riscaldamento del pezzo e del tagliente e una
minore potenza assorbita, e la generazione di una forza verticale verso il basso che
garantisce la stabilità del bloccaggio, mentre i principali svantaggi sono la
generazione di una forza orizzontale concorde all’avanzamento, la quale comporta
il distacco periodico dei fianchi dei filetti della madrevite da quelli della vite, e il
verificarsi di un urto iniziale che comporta il rischio di rottura del dente.

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