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DIGITAL

MANUFACTURING
DIGITAL MANUFACTURING
Fasi del processo di progettazione e produzione di un prodotto
Indipendentemente dal prodotto possiamo rappresentare il processo di sviluppo in questo modo:
1) Si identificano i bisogni (modifiche ai modelli esistenti oppure nuovo prodotto) attraverso
informazioni di mercato
2) Si fanno delle prime valutazioni, lavorando all’idea preliminare di prodotto e facendo un
primo studio di fattibilità; qui le persone coinvolte sono pochissime in genere
3) Si inizia la progettazione vera e propria, con dimensionamenti, studi per mezzo di
simulatori e sviluppi di modelli fisici e analitici
4) Si realizzano dei prototipi e si fanno delle prove, dando così delle valutazioni;
eventualmente si torna al punto precedente e si modifica quanto fatto
5) Si rilascia un progetto, che si concretizza in disegni tecnici per la realizzazione dei
componenti e in istruzioni per l’assemblaggio
6) Si scelgono in dettaglio i materiali e si scelgono i macchinari o più in generale le
attrezzature da adottare per la produzione, rianalizzando la sicurezza
7) Si avvia la fase di produzione pilota
8) Si avvia la fase di produzione vera e propria, comprendendo gli aspetti di controllo e di
assicurazione della qualità
9) Si confeziona il prodotto
10) Si pone sul mercato il prodotto
L’approccio presentato è prevalentemente seriale, dove vi è una fase iniziale di progettazione
seguita da una fase di industrializzazione che si concentra sulla produzione del componente. In
questa scaletta è necessario attuare, ad esempio, la scelta dei materiali e la scelta del processo
produttivo, la quale a sua volta viene fatta secondo criteri di lavorabilità del materiale, dimensioni
e forma desiderate, finitura superficiale, volumi produttivi, costi di produzione e lavorazioni
aggiuntive.
Concentriamoci sulla prima fase, quella della progettazione: qui è necessario svolgere tutte le
attività di definizione della configurazione di un prodotto e cioè della sua componentistica,
comprese la realizzazione di prototipi e la loro verifica; successivamente, quando si sono costruiti i
prototipi o addirittura quando si è già avviata una parte della produzione, si individuano degli
aspetti da migliorare e si attuano le modifiche opportune, così da poter ottenere un prodotto che
possa effettivamente essere messo in produzione. In un approccio convenzionale allo sviluppo
prodotto questa fase di redesign e riverifica avviene relativamente tardi: ciò è comprensibile
perché le informazioni su un certo prodotto (product knowledge) si acquisiscono mano a mano che
il prodotto stesso viene immesso sul mercato e utilizzato. Al contrario, nella fase di progettazione
concettuale (ossia nelle primissime fasi di sviluppo di un prodotto) si ha il massimo della flessibilità
poiché si può scegliere ad esempio come sarà fatto o che materiali adottare, mentre una volta che
vengono prese le prime decisioni la libertà con cui apportare le modifiche successive calerà. Si
sottolinea che è normale assistere a modifiche progettuali in fase di sviluppo, tuttavia è
importante che tali modifiche avvengano in certi momenti: infatti, i costi legati alle modifiche
progettuali sono bassi se esse vengono fatte nelle prime fasi di sviluppo prodotto, mentre
aumentano mano a mano che si avanza nella catena di processo dato che ai costi diretti (ritardi e
costi legati al personale coinvolto) si sommano quelli indiretti (interventi in garanzia, parti di
scarto, macchinari e forza lavoro oziosi) e invisibili (i danni d’immagine).
La slide 19 mostra due curve: quella inizialmente più pendente illustra il costo vincolato dalle
decisioni che vengono prese, e si vede che nelle prime fasi di sviluppo si vincola il costo finale
complessivo generato per un prodotto in modo molto significativo mentre la frazione residua
viene decisa quando si fa la progettazione di dettaglio (o esecutiva) di tutti i componenti, quando
si realizza il prodotto e quando lo si utilizza. La seconda curva invece rappresenta l’andamento dei
costi effettivamente sostenuti: nelle prime fasi i costi sono bassissimi (vi sono poche persone
coinvolte), ma poi aumentano notevolmente dalla fase di produzione in poi anche perché
cambiano le risorse coinvolte (si usano software, si realizzano prototipi, servono gli stampi e i
materiali, le persone coinvolte aumentano, …). È allora fondamentale che le decisioni che vengono
prese all’inizio della fase di progettazione siano le migliori possibili.
Nella slide 20 è invece illustrata la differenza negli andamenti del numero di modifiche attuate in
funzione del tempo (0 è il momento in cui un prodotto viene immesso sul mercato) se si segue un
approccio tradizionale e se l’approccio adottato fosse ottimale: nel primo caso le modifiche si
concentrano nei mesi precedenti all’immissione sul mercato ma spesso sono tardive perché solo
nel momento in cui si inizia a produrre magari ci si rende conto di alcune problematiche (vi sono
anche modifiche temporalmente successive, dovute a problemi riscontrati nell’utilizzo del
prodotto); nel secondo caso invece non sono necessarie modifiche dopo la commercializzazione e
anzi le modifiche sono quasi tutte spostate molto a monte, anticipando tutte le problematiche e la
loro soluzione così da abbattere notevolmente i costi.
Concurrent engineering
Nella slide 22 viene reso evidente come la responsabilità del progettista sia enorme: le sue
decisioni influenzano in modo significativo il costo finale del prodotto. Come si può ridurre questa
influenza? Lo si può fare cambiando metodo di sviluppo prodotto: anziché avere un approccio
seriale (studiare prima, in generale, solo il prodotto e successivamente, in cascata, gli aspetti legati
alle forniture, all’assemblaggio, alla produzione dei singoli componenti, …) si può usare la
cosiddetta concurrent engineering (ingegneria simultanea).
Principio di funzionamento. Nella slide 23 viene mostrato come, con la concurrent engineering, al
flusso principale di informazioni, dai bisogni dei clienti fino alla collocazione del prodotto sul
mercato, si affianca un numero elevato di interazioni (e in alcuni casi anche di iterazioni) tra i
diversi momenti: lo sviluppo del prodotto e del sistema per produrlo non è assolutamente lineare,
ma vede un’intensificazione dello scambio di informazioni in tutti i diversi momenti. Nello schema
a destra si vede che l’idea è quella di anticipare alle prime fasi di sviluppo del prodotto, ossia in
fase di progettazione (possibilmente in fase di progettazione concettuale o preliminare), le attività
che in modo naturale sarebbero svolte successivamente. L’idea di fondo è che questo insieme di
verifiche poi sia sufficiente per avere un percorso molto lineare dalla progettazione alla
industrializzazione, alla produzione e alla commercializzazione del prodotto senza attuare
modifiche progettuali tardive. In fase di progettazione prodotto il progettista si concentra
tipicamente sulle funzionalità di un certo meccanismo trascurando altri aspetti legati ad esempio
alla geometria; al contrario, la considerazione di questi aspetti è fondamentale: bisogna valutare
anche altre possibili soluzioni, che magari offrono le stesse funzionalità ma risultano avere un
minor numero di componenti. Il confronto tra le varie soluzioni va fatto presto perché eventuali
modifiche in step successivi introducono delle inefficienze.
Obiettivi. Gli obiettivi della concurrent engineering sono certamente quelli di contribuire alla
riduzione dei costi, di ridurre i tempi di sviluppo prodotto e di migliorare la qualità del prodotto.
Per ottenerli:

• Si può lavorare in parallelo invece che in serie, anticipando così il problema della facilità di
produzione e di assemblaggio dei singoli componenti alle prime fasi di sviluppo prodotto
(ciò richiede la condivisione di informazioni preliminari sulle nuove idee di prodotto ancora
prima di avere i progetti esecutivi)
• Si possono eseguire delle analisi preliminari di tutte le caratteristiche importanti,
utilizzando la simulazione numerica del comportamento strutturale e termico, della
funzionalità e degli aspetti produttivi del prodotto
• Si possono eventualmente sviluppare nuovi processi produttivi parallelamente alla
progettazione del prodotto
Confronto dei tempi di produzione. Nella slide 27 vengono messi a confronto i tempi di
produzione relativi ad un approccio tradizionale (seriale) e ad un approccio concurrent
engineering: si vede che il secondo prevede addirittura un aumento significativo della fase di
design concettuale rispetto al primo (20% contro 3%) perché si esplorano molte alternative
progettuali e si fanno scelte di compromesso, però questa maggiore quantità di tempo dedicata
consente di ridurre i tempi a valle perché avendo utilizzato alcuni strumenti ed avendo anticipato
alcune valutazioni si ha una maggior probabilità di fare la scelta giusta e quindi di una minor
probabilità di dover apportare modifiche successive. La fase di progettazione esecutiva in effetti è
ridotta per il secondo caso rispetto al primo (13% contro 27%), ma soprattutto ciò che
maggiormente si riduce sono le tempistiche legate alle modifiche (22% contro 55%): si ricorda che
attuare modifiche è normale, però il fatto di averle già considerate preliminarmente consente di
tagliare fortemente i tempi. Infine, la condivisione di informazioni è facilitata dall’utilizzo dei
computer e nel secondo caso riduce ulteriormente quelle attività magari ridondanti che dovevano
risolvere problemi legati alla lentezza dei vecchi metodi (5% contro 15%). Il risultato finale è, in
questo caso, una riduzione del tempo di sviluppo prodotto del 40% rispetto al valore originario.
Strumenti. Nella slide 28 si presentano gli strumenti utilizzati per lo sviluppo del prodotto in ottica
concurrent engineering. Il primo strumento è di tipo organizzativo: è fondamentale che le diverse
funzioni aziendali, in particolare le persone chiave a livelli diversi, lavorino insieme, pertanto il
teamworking diventa essenziale per scongiurare o risolvere problemi legati all’interazione
nell’ambito dello sviluppo di prodotti, processi e sistemi dall’ideazione alla produzione fino al fine
vita del prodotto stesso. Il secondo strumento è rappresentato dalle tecniche di Design For X
(DFX): esse sono quelle metodologie che aiutano il progettista a riflettere sulle scelte che fa e sulle
implicazioni, e in particolare aspetti legati alla progettazione di prodotto e alla progettazione di
processi produttivi. Il terzo strumento è rappresentato dai Computer Aided Tools (CAX): essi
consentono l’uso di sistemi computerizzati al fine di assistere la progettazione a livello di
creazione, modifica, analisi e ottimizzazione; esistono sistemi CAD (aiutano la progettazione del
prodotto), CAE (simulano i processi produttivi o il comportamento in esercizio del prodotto dal
punto di vista strutturale) e CAM (permettono tra le altre cose di programmare in modo efficiente
e rapido le macchine utensili).
Cooperative teamwork. Nella slide 29 vengono rappresentate diverse funzioni aziendali (ricerca e
sviluppo, ufficio tecnico, produzione, marketing, vendite, controllo qualità, assistenza, finanze,
acquisti, fornitori) che devono essere coinvolte nell’ottica concurrent engineering. Il grado di
coinvolgimento è differenziato come mostra la slide, e in particolare può essere alto, medio o
basso a seconda del momento in cui ci si trova; ad esempio, nella fase di progettazione
concettuale del prodotto (concept development) è fondamentale il coinvolgimento di ricerca e
sviluppo, ufficio tecnico, marketing e acquisti, mentre è limitato il coinvolgimento di vendite e
fornitori ed è medio il coinvolgimento della produzione, del controllo qualità, dell’assistenza e
delle finanze; invece, nella fase di progettazione e ingegnerizzazione del prodotto (system design)
è moderato il coinvolgimento di assistenza, finanze e ricerca e sviluppo, in favore invece di un
maggior coinvolgimento di produzione e controllo qualità oltre che di marketing, acquisti e ufficio
tecnico. Con il passare del tempo ricerca e sviluppo riducono il loro livello di coinvolgimento
perché nella progettazione esecutiva (o di dettaglio), nella fase dei test e nel lancio della
produzione non sono così determinanti; la funzione dell’ufficio tecnico invece rimane importante
fino a quando non si lancia la produzione, dove chi la fa da padrone è la produzione; chi si occupa
di vendite viene coinvolto poco all’inizio e via via sempre di più fino alla commercializzazione del
prodotto. In base ai colori riportati nello schema si può capire quali sono le funzioni che devono
interagire maggiormente tra di loro nei diversi momenti del ciclo di sviluppo.
Nella slide 31 viene presentato un metodo per migliorare, rendere più rapida e fare bene fin dalla
prima volta la programmazione della macchina utensile senza problemi in fase di produzione vera
e propria: è possibile simulare il processo di una macchina utensile che effettua un’operazione di
sgrossatura prima e di finitura poi sfruttando gli strumenti CAM per progettare e ottimizzare il
percorso dell’utensile.
Riassunto. Riassumendo, fare concurrent engineering per adattarsi alle caratteristiche della
produzione industriale moderna significa fare progettazione integrata di prodotto e processo
possibilmente in simultanea adoperando opportuni strumenti. Sarà nostro obiettivo cercare di
capire come è possibile migliorare la progettazione di prodotto (DFM) dal punto di vista
dell’assemblaggio (DFA) e capire come i singoli metodi per produrre possano essere valutati,
considerando anche aspetti legati alla manutenzione (DFS):

• DFM: è estremamente importante valutare la facilità con cui produciamo un determinato


componente e valutarne i costi di produzione perché ciò spesso porta ad operazioni di
semplificazione nella configurazione del prodotto, ad una scelta più consapevole dei
materiali, a considerazioni su accuratezza dimensionale e finitura superficiale e infine alla
possibilità di sviluppare catene di processo con ridotte o nulle lavorazioni aggiuntive, che
introducono tempi e costi alla produzione
• DFA: è importante garantire una certa facilità di assemblaggio, manuale o automatico
• DFS: vedremo degli aspetti legati alla manutenzione del prodotto
Tutto ciò è necessario per avere il miglior punto di partenza possibile con cui sfruttare le
tecnologie di produzione a disposizione, che non sono solo quelle convenzionali ma anche quelle
non-convenzionali come ad esempio la fabbricazione additiva e la connessione tra sistemi fisici e
mondo digitale per introdurre ancora maggior efficienza (industria 4.0).
Tecnologie e sistemi di assemblaggio
Prima di parlare di progettazione del prodotto per l’assemblaggio (Design For Assembly) è
opportuno richiamare alcuni aspetti legati alle specifiche soluzioni che verranno adottate per
l’assemblaggio, ovvero le diverse tecnologie di assemblaggio. Possiamo avere soluzioni di
assemblaggio di tipo manuale, macchine dedicate che vengono progettate per effettuare
specifiche operazioni e infine sistemi automatici di assemblaggio programmabili che garantiscono
una maggiore flessibilità (un esempio sono le soluzioni che vedono l’utilizzo di robot di qualche di
qualche tipo); sono sistemi per l’assemblaggio differenti che si caratterizzano per diversi aspetti,
tra cui le dimensioni e la massa dei componenti del prodotto complessivo (orientano anche nelle
scelte dei sistemi di trasferimento), i tempi coinvolti per le singole operazioni (i tempi più brevi
tipicamente sono quelli che corrispondono a soluzioni di assemblaggio automatico dedicate),
aspetti quali la flessibilità nelle operazioni di prelievo e orientamento dei componenti
(insuperabile ovviamente è l’operatore, mentre vi sono forti limitazioni nei sistemi automatici per
quanto riguarda questo aspetto) e accuratezza nel posizionamento (anche qui chiaramente
quando abbiamo sistemi meccanici dedicati per l’assemblaggio di varie tipologie possiamo
raggiungere se necessario accuratezze di posizionamento veramente molto elevate a seconda
della necessità; l’operatore umano di solito non riesce a raggiungere le prestazioni in termini di
accuratezza di posizionamento richieste in alcune situazioni). Ci sono molti altri aspetti che
differenziano le varie soluzioni naturalmente, e il risultato finale è che i costi unitari per prodotto
assemblato sono diversi e in particolare sono influenzati dalle variabili che abbiamo elencato,
inclusa la numerosità dei prodotti da assemblare. Quando parliamo di concurrent engineering e di
progettazione simultanea di prodotto e di processo è fondamentale tenere conto delle modalità di
assemblaggio per una progettazione di prodotto consapevole delle implicazioni sulle operazioni di
assemblaggio. In questo insegnamento ci focalizzeremo sull’assemblaggio manuale per un motivo
molto semplice: molte delle indicazioni oggetto di attenzione per la progettazione di prodotto per
l’assemblaggio manuale sono valide anche per i sistemi automatici, che poi hanno ulteriori
specifiche richieste di attenzione ma quello che si intende fare in questo corso è conoscere la
progettazione di prodotto per l’assemblaggio manuale; in ogni caso, la metodologia generale di
analisi proposta ha ricadute positive su tutte le soluzioni di assemblaggio.
Tecnologie di assemblaggio. Cerchiamo di capire innanzitutto le caratteristiche distintive delle
tecnologie: le tecnologie di assemblaggio possono essere collocate come ambito naturale di
impiego nella mappa della slide 4 dove le variabili in gioco sono la complessità del prodotto, la
numerosità delle varianti, il volume di produzione e le dimensioni del lotto. In linea generale:

• Tanto più complesso è il prodotto tanto più appropriato è l’assemblaggio manuale; anche il
fatto che le varianti siano numerose, quindi il fatto che sia elevata la varietà con cui
abbiamo configurato il prodotto, favorisce le soluzioni di assemblaggio manuale
• All’estremo opposto, quando la complessità del prodotto è relativamente bassa e non ci
sono molte varianti ma anche magari diventano prevalenti aspetti legati al volume di
produzione, sia complessivamente che per lotto, la soluzione più frequentemente adottata
è quella dell’assemblaggio su macchine dedicate, appositamente progettate per quella
specifica operazione di assemblaggio
• In situazioni intermedie tipicamente troviamo la collocazione naturale dell’assemblaggio
robotizzato
L’assemblaggio manuale si caratterizza per un’elevata destrezza nella presa e nell’orientamento
dei pezzi, una certa variabilità nelle tempistiche associate alle diverse attività elementari,
un’accuratezza di posizionamento relativamente buona e un’elevata flessibilità dell’operatore (nel
caso sia necessario effettuare alcune modifiche o intervenire per problematiche legate ad esempio
a componenti difettosi le possibilità di rapidità di intervento sono molto alte nel caso di
assemblaggio manuale); dobbiamo subito però evidenziare il fatto che i costi unitari legati alle
operazioni di assemblaggio sono sostanzialmente indipendenti dal volume di produzione (in caso
di volumi produttivi elevati potranno essere ottimizzati alcuni aspetti, potrebbe essere migliorata
la postazione dal punto vista ergonomico, potrebbero essere introdotti vari sistemi di supporto
per rendere più rapide le operazioni, ma in generale non possiamo più di tanto intervenire).
L’assemblaggio manuale trova spesso una sua collocazione naturale in combinazione con le
soluzioni automatizzate, quindi attività di assemblaggio nel caso di singole operazioni che sono
troppo complicate per essere sottoposte all’automazione, attività di controllo, attività di
preparazione dei componenti che devono poi essere assemblati (da altri o da macchine),
correzione di errori fatti in precedenza, intervento nel caso di macchinari per l’assemblaggio fuori
servizio: in generale diamo all’operatore funzioni di supervisione delle attrezzature automatiche e
delle operazioni assemblaggio, quindi ci sono diverse possibilità. Una soluzione molto
frequentemente utilizzata è quella delle linee a trasferimento asincrono: nella slide 7 si vede un
esempio in cui collaborano operatori in alcune stazioni e macchine per effettuare operazioni
specifiche.
L’assemblaggio con macchine dedicate avviene appunto con macchine che sono state
appositamente progettate per specifiche operazioni di assemblaggio; come mostrato nella slide 8
queste possono essere classificate in macchine a trasferimento continuo (le stazioni di
assemblaggio sono trasferite insieme al prodotto) e macchine a trasferimento intermittente (le
stazioni di assemblaggio sono statiche); le seconde possono essere a trasferimento asincrono
(libero) o a trasferimento sincrono, a sua volta di tipo rotante o in linea. Nella slide 9 si vede un
esempio di macchina dedicata con sei stazioni di tipo rotante; in corrispondenza di ciascuna di
queste stazioni viene effettuata un’operazione elementare, e quella rappresentata è
un’operazione di aggiunta di un componente tramite un sistema di alimentazione a tazza vibrante:
i sistemi di alimentazione con la tazza vibrante prevedono una tramoggia dove vengono versati
alla rinfusa i componenti (solitamente di dimensioni medio-piccole) e poi sistemi per la selezione
dei componenti in termini di corretto orientamento.

• Le macchine per l’assemblaggio automatico con soluzioni a trasferimento sincrono rotante


hanno un numero di stazioni relativamente basso e svolgono operazioni relativamente
semplici, ma hanno un’elevata produttività (le cadenze produttive sono tanto più alte
quanto più semplici sono le operazioni di assemblaggio e quanto più piccoli sono i
componenti)
• Le macchine per l’assemblaggio automatico con soluzioni a trasferimento sincrono in linea
hanno una cadenza fissa, consentendo in questo caso di svolgere un numero di operazioni
non limitato a poche unità ma molto superiore se la complessità del prodotto lo richiede
• Le macchine per l’assemblaggio automatico con soluzioni a trasferimento asincrono
permettono di avere dei piccoli buffer tra una stazione e l’altra per ottimizzare e bilanciare
meglio le linee
L’assemblaggio robotizzato include sistemi come ad esempio un braccio robotizzato che effettua
operazioni di assemblaggio prelevando da pallet componenti già ben orientati, sistemi basati su
tazze vibranti per l’orientamento di componenti relativamente semplici oppure ancora nastri
trasportatori che consentono di orientare componenti precedentemente disposti alla rinfusa.
Nella slide 15 si vede un esempio: si può versare un elevato numero di componenti alla rinfusa e
poi con accorgimenti di tipo meccanico (sensori che rilevano il corretto orientamento del
componente) selezionare solo quelli correttamente orientati. Naturalmente su una linea asincrona
si possono collocare sia sistemi robotizzati sia operatori che possono addirittura interagire
direttamente tra di loro.
Scelta della tecnologia del sistema di assemblaggio. Il diagramma della slide 17 evidenzia una
caratteristica dei sistemi: in ascissa è rappresentato il volume produttivo e in ordinata è
rappresentato il costo unitario di assemblaggio. Una delle curve è una retta orizzontale che, in
linea di principio, non si modifica a livello di valore del costo unitario al variare del volume di
produzione: come già anticipato questa retta si riferisce all’assemblaggio manuale; le altre
soluzioni di assemblaggio sono rappresentate dalle restanti curve: ad esempio, i sistemi robotizzati
e quelli con macchine dedicate possono dare vantaggi in termini di costo rispetto al riferimento
(che è l’assemblaggio manuale) solo se il volume di produzione annuo è molto elevato, altrimenti
conviene indubbiamente l’assemblaggio manuale. Tanto più complesso è il sistema utilizzato, in
particolare per le macchine dedicate, tanto più elevati sono i volumi produttivi necessari per avere
convenienza: nell’esempio della slide, per volumi produttivi inferiori al milione di pezzi non è
conveniente ricorrere a macchine dedicate proprio perché la necessità di ripartire l’investimento
fatto su una macchina specificatamente progettata per quel prodotto richiede un numero elevato
di pezzi. Nella mappa della slide 18 è rappresentata la condizione ottimale di utilizzo che può
orientare la scelta dei sistemi di assemblaggio: in ascissa vi è il numero di componenti (quindi
questa può rappresentare la complessità del prodotto) e in ordinata vi è il volume produttivo nel
periodo di ritorno dell’investimento (payback period) stabilito; i diversi colori identificano la
convenienza di un certo sistema rispetto ad un altro: in generale per bassi volumi produttivi
conviene sempre l’assemblaggio manuale indipendentemente dal grado di complessità del
prodotto, mentre se i volumi produttivi sono alti conviene puntare su macchine dedicate a
trasferimento sincrono se la complessità del prodotto è ridotta e su macchine dedicate a
trasferimento asincrono se la complessità del prodotto è alta; ancora, se la complessità del
prodotto è alta ma i volumi produttivi sono medio-alti è più conveniente investire
nell’assemblaggio robotizzato. Attenzione: la mappa di convenienza si modifica quando viene
variato il payback period: ad esempio, all’aumentare del payback period la slide 19 mostra che il
campo di convenienza dell’assemblaggio manuale si riduce mentre si espande quello
dell’assemblaggio automatico. Un’ulteriore considerazione vale per la complessità del prodotto,
come mostra la slide 20: detto NT il numero totale di componenti per tutte le varianti del prodotto
e detto NA il numero di componenti per assemblaggio, il rapporto NT/NA è un indicatore di
complessità: se vale 1 abbiamo una sola variante di prodotto, mentre se vale 1,5 la mappa di
convenienza si modifica spostandosi verso l’alto (ciò significa che l’assemblaggio manuale meglio si
adatta a situazioni di elevata varietà dei prodotti).
Design For Assembly (DFA)
La metodologia Design For Assembly è stata sviluppata dai professori americani Boothroyd e
Dewhurst insieme al professore inglese Knight. Essa studia il prodotto dal punto di vista dei
processi di fabbricazione (siano questi di assemblaggio o di realizzazione fisica dei singoli
componenti) e vede come collocazione naturale la fase di progettazione concettuale del prodotto,
quando si ha una prima idea di prodotto. Come illustra la slide 2 la metodologia si inserisce in un
ciclo di iterazioni che si tentano di fare rapidamente e immediatamente a valle della definizione
del layout generale del prodotto (se il prodotto è ad esempio un’auto significa che abbiamo preso
decisioni generali, come la collocazione del motore, il tipo di trazione, se l’auto è ibrida); dopo
aver definito aspetti così generali è bene introdurre le analisi innanzitutto DFA, quindi lo studio
della progettazione del prodotto per l’assemblaggio, per poi passare a veloci valutazioni degli
aspetti legati ai costi per la realizzazione fisica dei singoli componenti (DFM) che aiutano anche a
selezionare i materiali e i processi produttivi in modo consapevole; il passaggio finale che precede
la progettazione esecutiva è l’ottimizzazione dei processi, che si ripercuote ovviamente su tutto il
processo tramite iterazioni. Il gruppo di lavoro in questa fase coinvolge poche persone e confronta
a basso costo più alternative progettuali, sebbene le informazioni disponibili siano limitate e le
stime di costo non siano perfette. La metodologia DFA quindi viene collocata nelle valutazioni
iniziali per consentire quelle scelte di compromesso iniziali che poi vincolano fortemente le fasi
successive.
La metodologia consiste nei passi fondamentali esposti nella slide 3:
1) Si determina secondo certi criteri il numero minimo teorico di componenti Nmin che
consentono a un certo prodotto di funzionare
2) Si fa una stima del tempo associato alle operazioni di assemblaggio T est con la
configurazione del prodotto che si sta analizzando; questa operazione viene fatta
consultando un database costruito osservando le operazioni di assemblaggio
3) Si calcola l’indice DFA, che consente di valutare in modo quantitativo delle alternative
progettuali
4) Si ottimizza il prodotto dal punto di vista dell’assemblaggio; ciò richiede la soluzione di
problematiche di assemblaggio introdotte dalle scelte che sono state fatte e, idealmente, la
riduzione del numero di componenti, che è un fattore chiave per la semplificazione dei
processi di assemblaggio e in generale della produzione
1) Criteri per l’identificazione dei componenti teoricamente eliminabili. Sono stati menzionati al
passo 1 della metodologia dei criteri per valutare il numero minimo teorico di componenti in grado
di garantire il corretto funzionamento di un prodotto. L’obiettivo fondamentale è quello di
indagare sulla possibilità di eliminare alcune delle parti che sono assemblate per diventare un
prodotto; l’analisi inizia dalla parte base seguendo in ordine logico la sequenza di assemblaggio.
Per fare correttamente questa valutazione è importante non considerare limitazioni derivanti da
aspetti tecnici o economici, inoltre occorre valutare rispetto a tutte le parti già assemblate.
Il primo criterio è ragionare sulla necessità di avere materiali differenti. Con riferimento al
materiale di cui sono costituiti i componenti già presenti bisogna valutare se il componente i-
esimo deve necessariamente essere realizzato in un materiale non appartenente alle classi di
materiali già implementate, alla luce però delle proprietà fondamentali dei materiali come ad
esempio la conduttività elettrica o la trasparenza.
Il secondo criterio è l’osservazione che in alcuni casi deve esserci un movimento relativo, quindi ci
dobbiamo chiedere: affinché il prodotto funzioni il componente deve muoversi rispetto a tutte le
parti già assemblate? Nel caso dell’esempio della slide 6 il pistone è un elemento che non può
essere eliminato. Attenzione: se si tratta di piccoli spostamenti che possono essere consentiti da
elementi di tipo elastico allora il componente può essere candidabile all’eliminazione.

Il terzo criterio è la sua necessità per consentire l’assemblaggio di altre parti: il coperchio
dell’esempio della slide 7 deve essere mantenuto separato dal resto perché se non ci fosse la
possibilità di accedere alla cavità per inserire il pistone allora l’assemblaggio sarebbe irrealizzabile.
Ci sono poi dei “default”, che sono situazioni in cui i componenti in questione sono sempre
considerati eliminabili: è questo il caso di tutti i sistemi di fissaggio. Osservando l’esempio della
slide 8, immaginiamo che per ragioni di accessibilità, di funzionamento o di manutenzione il foro
centrale sia indispensabile ma durante le normali attività debba essere chiuso: la soluzione a
sinistra risolve certamente il problema ma lo fa anche quella a destra con un numero di
componenti decisamente inferiore e con un costo minore. C’è poi da considerare che la soluzione
di sinistra offre garanzie maggiori nel caso in cui vi fossero fluidi in pressione all’interno della
cavità, ma in linea teorica si può trovare un’alternativa anche in questo caso.
Altri componenti sempre candidabili all’eliminazione sono i sistemi di connessione: se i due
componenti della slide 9 devono essere collegati tra loro allora tutti i connettori
indipendentemente dalla propria funzione specifica sono considerati eliminabili, di conseguenza se
devono esserci connettori questi sono ridotti al minimo o se possibile i due elementi vengono
posti a contatto diretto.
2) Stima del tempo di assemblaggio. La seconda informazione essenziale richiesta è la stima del
tempo richiesto per l’operazione di assemblaggio. Questa valutazione viene fatta in modo distinto
per il tempo richiesto per l’operazione di prelievo e di orientamento del componente (handling
time) rispetto al tempo richiesto per l’inserimento dello stesso (insertion time); la loro somma darà
il tempo di assemblaggio (assembly time). Tenere separate queste due valutazioni consente di
affrontare l’enorme varietà di situazioni che si possono presentare nella realtà industriale.
Procediamo dunque cercando di capire come i database con i tempi stimati per le operazioni
elementari di assemblaggio, siano queste di movimentazione o di inserimento, sono stati costruiti.

Le dimensioni influenzano i tempi per le operazioni sia di movimentazione che di inserimento; ogni
componente viene descritto da due dimensioni, che sono la dimensione principale (size) e lo
spessore (thickness).
Altri indicatori fondamentali sono gli angoli di simmetria rispetto alla direzione di inserimento:
l’angolo α è quello ortogonale rispetto alla direzione di inserimento, e ci si deve chiedere qual è
l’angolo minimo che dev’essere realizzato tra diverse alternative di inserimento valide. Nella slide
12 si vede che nel caso della sfera abbiamo infinite posizioni possibili tutte equivalenti e quindi
α=0°, nel caso del cilindro e del parallelepipedo abbiamo due possibili direzioni di inserimento e
quindi α=180° e nel caso dei tre solidi in basso abbiamo una sola possibile direzione di inserimento
e quindi α=360°; l’angolo consente di accedere al database dei tempi in modo differenziato, e ci
aspettiamo che i valori più bassi di angolo α siano associati a tempi più brevi. L’angolo β invece
rappresenta la simmetria rispetto alla direzione di inserimento; nella slide 13 si vede che per una
sfera, un cilindro o un perno cilindrico abbiamo infinite possibilità di inserimento e quindi β=0°,
per i due solidi in basso a sinistra abbiamo due possibili direzioni di inserimento e quindi β=180° e
nel caso del solido in basso a destra abbiamo una sola possibile direzione di inserimento e quindi
β=360°. Anche questo indicatore sarà associato a tempi differenziati.
Esiste poi una casistica di operazioni che possono portare a tempi elementari per le operazioni di
assemblaggio via via maggiori. In generale i tempi aumentano se:

• Sono richieste due mani per prelevare il componente oppure se occorre applicare una
forza per attuare la separazione di due o più componenti
• Il componente non mantiene la propria posizione con la sola forza di gravità
• Si devono utilizzare due mani per prelevare e separare la parte di nostro interesse
• Il componente richiede un’attenzione particolare perché facilmente danneggiabile da
operazioni di movimentazione e/o inserimento
• Il componente è scivoloso o può rotolare via
• Il componente ha parti taglienti, dato che vi saranno precauzioni particolari da adottare
• Il componente ha grandi dimensioni, se è pesante e se è deformabile
• Il componente è eccessivamente piccolo e va collocato con pinzette o altro
• Sono richieste attrezzature particolari per assemblare un certo componente
• Sono necessarie più persone per prelevare o assemblare il componente
• Si opera con apparecchiature di sollevamento (come una gru o un carroponte) o
attrezzature di movimentazione
Per quello che riguarda i tempi di inserimento essi vengono dilatati se:

• L’operatore è impossibilitato a vedere la zona in cui è richiesta l’operazione di


assemblaggio e quindi deve usare il tatto per individuare la posizione corretta
• L’operatore deve compiere manovre non naturali per la sua attività
• Il processo di inserimento non è facilitato da alcuni accorgimenti, come ad esempio la
presenza di smussi
• I componenti in fase di inserimento tendono ad impigliarsi o a bloccarsi come conseguenza
di un loro non perfetto allineamento
• È richiesto l’utilizzo di una forza o di regolazioni successive per le operazioni (quando c’è
interferenza è però necessario)
• Il componente deve essere mantenuto in posizione con una mano mentre l’altra esegue
l’effettiva operazione
• Si devono spostare gli assemblati parziali e poi prelevarli nuovamente senza dare valore
aggiunto al prodotto
• Si deve sollevare il componente durante l’allineamento e l’inserimento
• Il componente dev’essere assemblato ad una certa distanza dall’operatore

Sono poi stati studiati aspetti di dettaglio legati ad esempio all’accessibilità dei punti in cui viene
inserito un determinato componente. La slide 38 mostra due casi: uno in cui l’accesso è ridotto e
la visibilità è limitata (a) e uno in cui si ha solo un accesso ridotto (b); in entrambi i casi l’accesso
ridotto è dovuto alla distanza (o clearance) della vite da una certa parete. I due diagrammi a lato
mostrano l’andamento del tempo richiesto per iniziare l’operazione di avvitatura in modo corretto
in funzione della clearance per una data configurazione della parte terminale della vite: questo
tempo può variare da 1 secondo a 7 secondi nelle situazioni più penalizzanti. Ovviamente più
semplice è l’operazione di assemblaggio meno costosa è. Naturalmente se ci si sposta su oggetti
geometricamente più complicati come ad esempio un dado emergono difficoltà legate
all’impossibilità di usare certi strumenti a causa della clearance. La slide 40 mostra un esempio di
operazione di rivettatura: anche qui i tempi cambiano in funzione delle distanze A e B, e gli effetti
sono differenti a seconda che vi sia o meno una visibilità limitata del punto d’interesse.
3) Indice DFA. Con i passi 1 e 2 della metodologia DFA abbiamo individuato rispettivamente il
numero minimo teorico di componenti Nmin e una stima del tempo associato alle operazioni di
assemblaggio Test; possiamo adesso definire l’indice DFA come segue:
𝑇ℎ𝑒𝑜𝑟𝑒𝑡𝑖𝑐𝑎𝑙 𝑀𝑖𝑛𝑖𝑚𝑢𝑚 𝑇𝑖𝑚𝑒 3 ⋅ 𝑁𝑚𝑖𝑛
𝐷𝐹𝐴 𝐼𝑛𝑑𝑒𝑥 = =
𝐸𝑠𝑡𝑖𝑚𝑎𝑡𝑒𝑑 𝐴𝑠𝑠𝑒𝑚𝑏𝑙𝑦 𝑇𝑖𝑚𝑒 𝑇𝑒𝑠𝑡
Come si vede dunque moltiplicare Nmin per 3 secondi fa ottenere a numeratore il tempo minimo
teoricamente richiesto per l’operazione di assemblaggio. Perché per 3 secondi? Perché 1,5 secondi
corrispondono al tempo minimo tipicamente richiesto per un’operazione di prelievo ben
progettata e perché gli altri 1,5 secondi corrispondono al tempo richiesto per un’operazione di
inserimento quando non siano presenti penalizzazioni dovute a difficoltà di varia natura. A
denominatore invece si ha la sommatoria dei tempi stimati consultando un database.
L’individuazione di questi semplici indicatori consente di calcolare un indice di efficienza del
prodotto dal punto di vista delle operazioni di assemblaggio, che appunto consente di valutare
quantitativamente la bontà della progettazione di prodotto dal punto di vista dell’assemblaggio
manuale in questo caso. Vedremo in seguito degli esempi di come nel dettaglio implementare le
metodologie.
4) Ottimizzazione del prodotto dal punto di vista dell’assemblaggio. Vediamo subito che cosa si
può fare per migliorare un prodotto dal punto di vista dell’assemblaggio:

• Ridurre il numero di componenti


• Incoraggiare l’utilizzo di assemblaggi modulari, quindi avere dei sottosistemi assemblati
come prodotti indipendenti e successivamente incorporarli in un componente più
complesso
• Stratificare le operazioni di assemblaggio
• Eliminare le necessità di regolazione (allineamento preciso)
• Eliminare i connettori
• Utilizzare parti che rimangono ferme nel punto in cui vengono collocate
• Utilizzare parti che hanno caratteristiche che facilitano il corretto posizionamento ed
allineamento delle stesse
• Eliminare eventuali riorientazioni del prodotto (se si riesce a progettare il prodotto in modo
che le riorientazioni non siano richieste si facilitano le operazioni di assemblaggio)
• Facilitare la movimentazione delle parti
• Indicare in distinta base componenti normalizzati che si trovano già sul mercato per evitare
di introdurre costi non necessari (aspetto più di costo che di assemblaggio)
Altri accorgimenti possono essere introdotti tramite esempi: dal punto di vista della progettazione
di prodotto le tre soluzioni presentate nella slide 43 sono da considerare equivalenti in termini di
funzionalità (tutte devono limitare lo spostamento angolare del componente in alto rispetto a
quello in basso); esse sono disposte in ordine decrescente di numero di caratteristiche
geometriche. Per quanto riguarda le operazioni di inserimento è già stata data l’indicazione di
favorire soluzioni dove viene facilitata la corretta collocazione del prodotto, in modo che
l’operatore non sprechi tempo nel posizionare correttamente e nel mantenere in posizione il
componente: la slide 44 mostra a destra che una diversa configurazione geometrica facilita
l’inserimento di una molla. Ancora, la slide 45 illustra che nel primo caso l’inserimento del
componente è più difficile a causa della necessità di far combaciare contemporaneamente quattro
punti mentre nel secondo caso l’inserimento è facilitato sia dalla presenza di smussi sia dalla
necessità di far combaciare contemporaneamente due punti per volta. Nella slide 46 si vede
un’operazione di assemblaggio che può essere resa difficile dal fatto che il componente dev’essere
rilasciato prima di essere messo in posizione: accorgimenti come quello di permettere il
posizionamento prima del rilascio garantiscono sicuramente una miglior qualità nell’assemblaggio.
Un altro aspetto fondamentale è l’accessibilità, che più è alta più riduce i tempi di assemblaggio:
nella slide 47 si vede che le viti sono più accessibili nella figura di destra rispetto alla figura di
sinistra, e nonostante ciò la funzionalità del prodotto rimane inalterata.
Procedura per l’assemblaggio manuale. Parliamo della procedura da seguire per analizzare un
prodotto secondo la metodologia DFA, con attenzione particolare all’assemblaggio manuale. Il
primo passo da fare è recuperare informazioni sul prodotto che vogliamo analizzare: potremmo
avere a disposizione disegni, viste 3D del prodotto e schizzi oppure potremmo già avere a
disposizione un campione, che potrebbe essere già un prototipo del prodotto; indipendentemente
da ciò che si ha a disposizione, dopo aver recuperato informazioni sulla configurazione del
prodotto e dei suoi principali componenti dobbiamo disassemblare il prodotto in modo fisico o
virtuale e seguire poi una sequenza di passi operativi, come l’assegnazione di un numero di
identificazione ad ogni pezzo rimosso. Successivamente è opportuno utilizzare una tabella per la
raccolta dati nella quale riporteremo i dati fondamentali dell’analisi, e infine inizieremo
l’assemblaggio partendo dal componente principale. La metodologia prevede di valutare le diverse
situazioni legate al prelievo, alla manipolazione, all’orientazione e all’inserimento del componente;
per farlo in modo corretto dobbiamo ipotizzare di effettuare un’operazione alla volta. A ciascun
componente viene dedicata una riga della tabella, nella quale annotiamo eventuali operazioni
aggiuntive. Dopo aver applicato i criteri secondo cui candidare un componente all’eliminazione si
inseriscono i tempi elementari delle operazioni di manipolazione e di inserimento, e alla fine della
procedura ciò che si ottiene è una stima dei tempi richiesti per l’operazione di assemblaggio e
l’indice DFA.
Esistono anche alcune note che riguardano eventuali scostamenti dal metodo: ad esempio si
sottolinea che spesso non è realistico aggiungere un componente per volta, e anzi due componenti
vengono assemblati in simultanea; un suggerimento è di conseguenza quello di dividere per 1,5 i
tempi stimati. Attenzione: il metodo DFA non intende sostituire i metodi tradizionali di analisi dei
tempi di assemblaggio che vengono analizzati per ottimizzare le operazioni di assemblaggio, ma ha
l’obiettivo di confrontare configurazioni alternative di prodotto (quindi valutare in modo assoluto
il tempo richiesto per le operazioni di assemblaggio non è l’obiettivo principale del metodo). C’è
una seconda nota che riguarda il modo in cui i componenti sono presentati all’operatore: in questo
metodo si ipotizza che i componenti siano alla rinfusa, ma di nuovo ciò porterebbe all’introduzione
di modifiche solo qualora si volesse fare una stima adeguata dei tempi di assemblaggio (il metodo
DFA si propone di confrontare alternative progettuali, e se in entrambi i casi l’ipotesi è quella di
presentare all’operatore componenti alla rinfusa allora non ci sono differenze).
Esempio I di applicazione del metodo. Nella slide 51 è riportato il disegno di un assemblato fatto
di un componente base entro il quale lavora un pistoncino, di un piston stop che ne limita la corsa,
di una molla che ne contrasta l’azione, di un coperchio e di due viti per il fissaggio di quest’ultimo.
Per analizzare il prodotto usiamo la tabella della slide 52:

• Colonna 1: si riporta in maniera progressiva il numero identificativo di ogni componente


• Colonna 2: si riporta il numero di volte che una certa operazione dev’essere eseguita
• Colonna 3: si riporta un codice che aiuta a identificare la casistica per quanto riguarda la
manipolazione del componente
• Colonna 4: si riporta una stima del tempo di manipolazione a partire dal codice della
colonna 3
• Colonna 5: si riporta un codice che aiuta a identificare la casistica per quanto riguarda
l’inserimento del componente
• Colonna 6: si riporta una stima del tempo di inserimento a partire dal codice della colonna
5
• Colonna 7: si riporta la stima del tempo di assemblaggio complessivamente richiesto per
quel componente, dato dalla somma dei tempi nelle colonne 4 e 6
• Colonna 8: si riporta il costo dell’operazione, dato dal prodotto del tempo della colonna 7
con il costo dell’operazione per unità di tempo
• Colonna 9: si riporta un “1” per i componenti teoricamente necessari e uno “0” per i
componenti teoricamente eliminabili
• Andando a considerare i tempi stimati e il numero di componenti teoricamente necessari
possiamo calcolare l’indice DFA di valutazione dell’efficienza delle operazioni di
assemblaggio per una data configurazione del prodotto
Database dei tempi stimati. Le tabelle nella slide 53 rappresentano la stima dei tempi legati alla
manipolazione dei singoli componenti nel caso di assemblaggio manuale. Le tabelle sono suddivise
per situazioni: la prima riguarda operazioni di assemblaggio che possono essere svolte con una
sola mano, la seconda riguarda operazioni di assemblaggio con una sola mano ma con attrezzature
ausiliarie, la terza riguarda operazioni di assemblaggio con due mani e la quarta riguarda
operazioni di assemblaggio con due mani in situazioni particolari (componenti di grandi
dimensioni) che richiedono ulteriori specifiche in termini di tempi di manipolazione. Le tabelle
sono suddivise in righe numerate da 0 a 9 e in colonne anch’esse numerate da 0 a 9; nella tabella
della slide 52 le prime due cifre del codice identificativo del prodotto sono rispettivamente il
numero di riga e il numero di colonna della tabella della slide 53. A seconda della situazione nelle
tabelle sono riportati altri criteri per valutare in modo più accurato il tempo richiesto: prendendo
ad esempio la situazione ad una sola mano, dal punto di vista delle colonne la tabella è divisa in
due sezioni, che sono “parti facilmente afferrabili e maneggevoli” e “parti che presentano
difficoltà nella manipolazione”; ogni sezione vede una suddivisione in due sottosezioni a seconda
dello spessore, che può essere superiore o inferiore ai 2 mm; a sua volta, ogni sottosezione è
suddivisa in altre sottosezioni a seconda della dimensione principale. Una volta identificata la
colonna esatta occorre trovare la riga, e per fare ciò si calcola la somma degli angoli α e β: fatto
anche questo passaggio si trova la casella interessata, che dà il tempo per una data operazione
elementare.
Le tabelle nella slide 54 rappresentano la stima dei tempi legati all’inserimento dei singoli
componenti nel caso di assemblaggio manuale. Le tabelle sono suddivise per situazioni: la prima
riguarda componenti che vengono aggiunti ma non fissati immediatamente, la seconda riguarda
componenti che vengono fissati contestualmente all’operazione di inserimento e la terza riguarda
operazioni di collegamento/fissaggio distinte. Con riferimento alla prima tabella, la suddivisione in
righe permette di tenere conto degli effetti di accessibilità e visibilità limitate mentre la
suddivisione in colonne riguarda il fatto che sia necessario o meno mantenere con una mano il
componente in posizione, la facilità nell’allineamento o nel posizionamento del componente
durante la fase di assemblaggio e l’eventuale resistenza che il componente oppone
all’inserimento. Con queste tabelle si arriva a identificare la casella che contiene il tempo di
inserimento stimato.
La slide 55 illustra i risultati dell’esempio sopra esposto. Nella colonna 9 l’elemento cover ha
assegnato uno 0 perché non c’è motivo per ritenere che sia realizzato in un materiale (acciaio)
diverso da quello dell’elemento piston stop (plastica): ecco allora che la cover diventa una
candidata eliminabile per il fatto che si potrebbe inglobare al piston stop. Anche le viti nella
colonna 9 hanno uno 0 perché sono sempre ritenute potenzialmente eliminabili. Un’altra cosa da
fare è osservare nelle colonne dei tempi di manipolazione e di inserimento quali elementi hanno i
tempi più alti. L’analisi così condotta porta ad avere un indice DFA pari a 0,29, che sta ad indicare
un’efficienza del 29%.
Procedura per la riprogettazione. Per riprogettare un prodotto esistente dobbiamo riflettere sui
componenti identificati come teoricamente eliminabili e sui tempi più elevati che si possono
leggere nelle colonne delle tabelle apposite. Nella slide 58 viene proposta una configurazione
alternativa del prodotto visto nell’esempio precedente: non ci sono più viti, il piston stop è stato
incorporato con la cover, il pistoncino è stato reso più facilmente assemblabile facilitando
l’inserimento nel foro del main block. La slide 59 mostra i risultati associati a questa nuova
configurazione: i componenti sono tutti teoricamente necessari e portano ad avere un indice DFA
di 0,9, che sta ad indicare un’efficienza del 90%. Si sottolinea che, nei casi reali, un indice DFA di
qualche decina di punti percentuali è da ritenere molto buono.
Esempio II di applicazione del metodo. Nella slide 60 è visibile un registratore di pressione che,
nella slide 61, mostra avere un indice DFA del 7%; nella tabella è inoltre possibile notare che vi
sono righe dedicate ad operazioni aggiuntive che non vedono l’inserimento di un componente e
quindi non richiedono l’attribuzione di uno 0 o di un 1 oppure di un tempo di manipolazione. Il
prodotto riprogettato nella slide 62 ha un numero di componenti molto minore, un sistema di
connessione semplificato e in generale altre ottimizzazioni, e in effetti il suo indice DFA è del 19%.
Benefici dell’applicazione del metodo DFA. I risultati prodotti dalla metodologia DFA in molti casi
applicativi sono riassunti dalla slide 63: con questa metodologia infatti è possibile identificare
componenti che possono essere eliminati perché incorporati a livello di funzionalità insieme ad
altri, fare valutazioni quantitative di costi e ottenere suggerimenti per il miglioramento della
qualità nelle primissime fasi dello sviluppo di prodotto, valutare in modo oggettivo e quantitativo
le alternative progettuali, guidare iniziative di riduzione dei costi del prodotto e addirittura, se si
vanno ad affinare le stime dei tempi di assemblaggio, di definire dei costi obiettivo, ossia dei costi
rispetto ai quali si devono confrontare i fornitori di un’azienda che sta pensando a un nuovo
prodotto e quindi deve anche commissionare a terzi la realizzazione fisica di alcuni componenti.
Diversi casi di studio hanno dimostrato che con la metodologia DFA si hanno riduzioni percentuali
molto significative su indicatori importanti come tempi di assemblaggio, numero di operazioni di
assemblaggio, numero di sistemi di fissaggio separati, difettosità dovute ai processi di
assemblaggio, interventi di assistenza post-vendita, tempi di sviluppo di un nuovo prodotto,
numero di componenti in produzione e numero di fornitori. Inoltre, il metodo riduce in modo
significativo anche le spese generali: una delle ricadute principali è avere un numero minore di
componenti (quindi meno scorte da gestire, meno stazioni di assemblaggio, meno attrezzature per
l’assemblaggio automatico, meno attrezzature di produzione dedicate e meno disegni tecnici,
istruzioni operative e documentazione tecnica di supporto al prodotto) e anche il numero di sub-
assemblati e di operazioni ad essi collegate (quindi meno attrezzature e utensili dedicati richiesti
dalle operazioni di assemblaggio).
In termini di impatto sulla produzione si evidenzia che le operazioni di assemblaggio spesso
rappresentano una frazione molto significativa dei costi diretti per manodopera; nella slide 66
vengono confrontati i tempi per la manodopera di produzione legati alle operazioni di
assemblaggio, alla fabbricazione dei singoli componenti, alle attività di controllo qualità e ad altre
operazioni: le operazioni di assemblaggio richiedono più tempo delle altre per le due categorie di
prodotto considerate. Intervenire con una riduzione dei costi legati all’assemblaggio vuol dire
ridurre i costi diretti per manodopera in modo importante perché si interviene sulla voce
principale di costo di manodopera. Nella slide 68 sono confrontati diversi settori industriali e sono
raggruppate le iniziative che si possono introdurre per migliorare il prodotto: intervenire con
l’utilizzo di nuovi materiali, con lo studio dei tempi associati alle operazioni produttive e su altri
aspetti organizzativi (bilanciare le linee di assemblaggio, introdurre concetti che riducono gli
sprechi, … ma senza intervenire sul design del prodotto) può contribuire a tagliare i tempi di
assemblaggio, ma gli interventi più significativi sono quelli legati all’introduzione di diverse
tecniche per produrre e collegare tra di loro i componenti, quelli legati all’automazione delle
operazioni di assemblaggio e, soprattutto, quelli legati alla progettazione di prodotto e di processo
con la consapevolezza delle implicazioni sui processi di assemblaggio (e questo infatti è proprio il
campo operativo della metodologia DFA). Riprogettare il prodotto ha quindi spesso il potenziale di
miglioramento maggiore.
Per quanto riguarda l’automazione, il ripensamento del prodotto può modificare le scelte aziendali
in modo anche significativo. Immaginiamo che un prodotto sia inizialmente configurato come
visibile nella figura a sinistra della slide 69: con riferimento a questa configurazione a 24
componenti, la sua realizzazione tramite assemblaggio manuale è quella più costosa ed è possibile
ridurre questa frazione (se i volumi di produzione lo consentono) introducendo una qualche forma
di automazione; un ripensamento del prodotto che lo porta, a parità di funzionalità, ad avere 4 o
addirittura 2 componenti permette di avere costi legati all’assemblaggio manuale inferiori anche ai
costi legati all’assemblaggio automatizzato con 24 o 8 componenti.
Ulteriori benefici sono legati agli aspetti qualitativi: sappiamo che migliorare il prodotto dal punto
di vista dell’assemblaggio ha come risultato principale la riduzione del numero di componenti;
ridurre il numero di componenti significa anche ridurre il numero di fasi produttive, le regolazioni
da portare in fase di assemblaggio, il numero di componenti da accoppiare, le problematiche
legate alle catene di tolleranze, le difficoltà degli operatori, i materiali da gestire e le attrezzature
dedicate alle operazioni di assemblaggio. Tutto questo consente di realizzare condizioni
migliorative dal punto di vista qualitativo; un esempio è rappresentato nella slide 71 in cui vi è una
correlazione tra la difettosità riscontrata e l’indice DFA, identificata dalla Motorola su alcuni
componenti: gli indici DFA più elevati sono associati a valori più bassi di difettosità, mentre gli
indici DFA più bassi sono associati a valori più alti di difettosità. Nelle slide 72 e 73 si vede che
all’aumentare del tempo richiesto per le operazioni di assemblaggio aumenta anche il numero
medio di difetti riscontrato per operazione di assemblaggio.
È possibile introdurre un modello quantificatore della difettosità. Indicando con D 0 la probabilità di
avere un’operazione di assemblaggio difettosa, con D i la probabilità di avere un componente
difettoso installato, con N0 il numero di operazioni di assemblaggio e con N i il numero di
componenti possiamo esprimere la probabilità di avere un prodotto difettoso come:
𝐷𝑢 = 1 − (1 − 𝐷0 ) ⋅ 𝑁0 ⋅ (1 − 𝐷𝑖 ) ⋅ 𝑁𝑖
A parità di difettosità per singola operazione e singolo componente, se si riduce il numero di
operazioni di assemblaggio e il numero di componenti di cui è fatto un determinato prodotto
allora si riduce anche il numero di prodotti difettosi.
La metodologia DFA in un gruppo di lavoro. La metodologia DFA esprime il suo massimo
potenziale nelle fasi di sviluppo concettuale e lì concentra le riflessioni legate alle eventuali
problematiche che potrebbero insorgere in fasi successive, quindi costringe a riflettere molto
presto anche sulle conseguenze in termini di tempi e costi di assemblaggio. Inoltre, agevolando il
lavoro di gruppo la metodologia DFA aiuta a costruire una consapevolezza di team, il quale sente il
prodotto come un suo risultato; il fatto che vi sia un team facilita anche gli interventi successivi, la
collaborazione per trovare soluzioni ai problemi riscontrati e una più rapida introduzione di
modifiche al prodotto. Occorre infine evitare di affezionarsi così tanto alla propria progettazione al
punto di non voler considerare le alternative, magari migliori, suggerite da altri.
Design For Automatic Assembly (DFAA)
Vediamo qualche indicazione aggiuntiva per migliorare la progettazione di prodotto dal punto di
vista dell’assemblaggio automatizzato, in particolare l’efficienza dei processi di assemblaggio
automatizzati: con le moderne tecnologie è possibile fare molte cose tra cui automatizzare
praticamente qualunque processo di assemblaggio, e in questo paragrafo vedremo com’è possibile
raggiungere questo obiettivo a costi inferiori agendo soprattutto sull’handling (prelievo,
manipolazione, trasferimento) dei componenti, che è la parte dell’assemblaggio più critica da
automatizzare, e poi anche come agevolare la fase di inserimento e fissaggio dei componenti.

Handling. Come anticipato, la macro-attività più critica dal punto di vista dell’automazione è
proprio quella dell’handling:
1) In generale possiamo dire che per avere un’automazione efficiente, quindi che comporti un
costo possibilmente contenuto, è fondamentale che i componenti siano progettati in modo
tale da essere facilmente prelevati e allineati come richiesto. Il sistema a più basso costo
per raggiungere l’obiettivo di avere i componenti tutti ordinati e pronti per essere
assemblati e inseriti nel prodotto è sostanzialmente versarli alla rinfusa nella tramoggia di
una tazza vibrante dato che poi questi vengono, per l’azione vibrante del dispositivo,
allineati come richiesto; per fare ciò si devono adottare degli accorgimenti di tipo
meccanico i quali dovranno essere tanto più complessi quanto più geometricamente
sofisticato è il prodotto, e ci sono anche alcune attenzioni da porre nella progettazione di
prodotto per semplificare questi dispositivi. Vediamo quali sono questi accorgimenti:
innanzitutto come abbiamo già visto per l’assemblaggio manuale è importante che i
componenti, quando sono alla rinfusa, non vadano ad impigliarsi l’uno con l’altro, e ciò è
meno probabile se le forme dei componenti sono differenti; la stessa cosa vale per le
molle, ad esempio: quelle con le estremità aperte si impigliano molto più facilmente
rispetto a quelle con le estremità chiuse. Chiaramente possiamo avere i componenti
presentati in modo molto ordinato su dei pallet o su dei nastri trasportatori, ma quella
soluzione è intrinsecamente più costosa. Altri accorgimenti sono quelli di evitare di avere
elementi molto sottili che possono sovrapporsi quando trasportati, elementi flessibili,
elementi facilmente danneggiabili da un sistema di riordino come quello a tazza vibrante,
elementi adesivi o magnetici (le forze elettrostatiche possono vincere la forza di gravità in
componenti estremamente piccoli), elementi con superfici abrasive che possano
danneggiare i sistemi di movimentazione automatica e in generale elementi che sono
troppo leggeri (la resistenza dell’aria crea problemi) o troppo grandi in dimensioni. Non
sempre si ha la possibilità di scegliere, ma se ci sono dei margini di scelta queste indicazioni
sono quelle che favoriscono una movimentazione automatica efficiente delle parti.
2) Ulteriori accorgimenti hanno a che fare con le simmetrie: se i componenti sono simmetrici
e facciamo in modo che questi siano il più simmetrici possibile questo può contribuire,
anche se non è detto che questo possa effettivamente ridurre in modo significativo i costi;
se possibile quindi è suggerito evitare situazioni di asimmetria, però allo stesso tempo è
possibile che componenti simmetrici possano portare a difficoltà nell’allineamento rispetto
a fori piccoli come mostrato nella slide 5 (con un sistema di visione avente un minimo di
sensoristica e di software possiamo comunque risolvere in modo egregio il problema). Se
un componente deve per forza essere asimmetrico è bene che lo sia dal punto di vista
dimensionale e/o geometrico, e non dal punto di vista “estetico” (un diverso colore della
parte destra e sinistra di un componente che invece è geometricamente simmetrico,
rivestimenti o qualche altra caratteristica non geometrica): anche qui certi sistemi di
visione possono risolvere il problema ma complicano inutilmente l’automazione. Inoltre è
opportuno che l’asimmetria se c’è sia ben evidente: le dimensioni dovrebbero essere
almeno del 10% di differenza, in modo tale che semplici accorgimenti meccanici possano
facilitare l’orientamento rapido del componente. L’ideale è che le asimmetrie si possano
individuare osservando il profilo del componente rispetto alla direzione della sua
dimensione principale: questo è molto più facile da gestire dal punto di vista
dell’orientamento con banali accorgimenti.
Insertion. Per avere un efficiente assemblaggio di tipo automatizzato è opportuno agire anche
sull’inserimento del componente nel prodotto; anche qui si vogliono adottare accorgimenti per
poter utilizzare stazioni di assemblaggio che siano le più semplici possibili, magari già disponibili
sul mercato (sistemi di movimentazione a 4 assi ad esempio sono molto più semplici rispetto a
sistemi robotizzati che certamente risolvono il problema ma a costi nettamente superiori).
1) Un primo accorgimento è quello di evitare per quanto possibile la necessità di riorientare il
componente durante le fasi di assemblaggio perché non c’è valore aggiunto nel riorientare
un componente (vedremo un esempio di modalità di assemblaggio a strati successivi che
evita questa necessità).
2) Altro accorgimento: abbiamo visto nell’assemblaggio manuale le piccole complicazioni che
sono legate al fatto di dover trattenere in una specifica posizione con qualche sistema di
fissaggio il componente fintantoché non viene montato il successivo; se riusciamo ad
evitare questa necessità semplifichiamo anche l’assemblaggio automatico.
3) Come già citato per l’assemblaggio manuale e a maggior ragione per l’assemblaggio
automatico se vogliamo ridurre i costi dobbiamo fare in modo che le stazioni di
assemblaggio siano non di grande precisione, quindi se vogliamo evitare di dover investire
in sistemi molto accurati dal punto di vista della loro capacità di posizionarsi una specifica
coordinata dobbiamo introdurre accorgimenti come quelli visibili nella slide 9: ad esempio,
se si tratta di viti avere parti terminali come quelle rappresentate nella parte in basso
dell’immagine favorisce le operazioni di assemblaggio automatico (non c’è infatti la
richiesta di un perfetto allineamento tra l’asse di inserimento del pezzo e l’asse del foro in
cui questa deve essere avvitata); nell’immagine a sinistra si capisce che l’assemblaggio
automatizzato è favorito se la molla può essere posizionata per semplice gravità.
4) Per semplificare i sistemi di assemblaggio automatico è opportuno che il prodotto possa
essere assemblato “per strati successivi”, nel senso che ad un componente base dobbiamo
andare via via ad aggiungere gli altri componenti in modo seriale tutti dallo stesso lato o
nella stessa direzione; nell’esempio della slide 10 può bastare un sistema di
movimentazione a 4 assi senza fare uso di automazione a più assi.
5) Quando possibile dobbiamo evitare che siano presenti forze di inserimento elevate perché
ciò imporrebbe anche per la stazione di assemblaggio automatico accorgimenti particolari.
6) In generale, accorgimenti come quelli citati consentono di evitare l’utilizzo di sistemi a più
assi di quelli strettamente necessari per l’assemblaggio del prodotto, che sono molto
costosi: se riusciamo a semplificare il concept di prodotto per consentire l’utilizzo dei
sistemi di assemblaggio automatico più banali possibili allora queste saranno
probabilmente le soluzioni più efficienti e meno costose.
Certamente l’automazione aiuta, al punto che oggi abbiamo a disposizione sistemi robotici
avanzati e moltissime tecnologie per conoscere la posizione e l’orientamento dei componenti e
che consentono di progettare in modo adattivo i percorsi che deve fare un determinato dispositivo
automatico per prelevare i componenti (i software oggi a disposizione sono molto flessibili e
consentono di programmare virtualmente anche gli assemblaggi più complessi), ma questa
complessità è gratuita se abbiamo la possibilità di semplificare il prodotto: nella slide 11 è
riportato un esempio che mostra due alternative progettuali, una da 24 parti e una da 2 parti, ed è
sicuramente meno costoso un assemblaggio automatico per la seconda soluzione rispetto alla
prima (forse addirittura non è nemmeno economicamente giustificato l’assemblaggio automatico
per la seconda: l’assemblaggio è talmente rapido che potrebbe essere svolta in modo efficiente
anche manualmente da un operatore). In ottica concurrent engineering riflettere anche sulle
operazioni di assemblaggio è importante: il progettista di prodotto tipicamente come primo
mestiere si deve concentrare sulla funzionalità del prodotto, ma se ha modo di riflettere e
pervenire a soluzioni come quella appena presentate sarà un progettista di maggior successo.
Design For Serviceability (DFS)
Vediamo l’ultimo argomento che chiude le attenzioni che dobbiamo prestare in fase di
progettazione dal punto di vista dell’assemblaggio e degli aspetti collegati: parliamo di
manutenzione e, nello specifico, di progettazione di prodotto per la manutenzione, chiamata in
inglese “Design For Serviceability” o “Design For Service” (DFS). L’obiettivo della DFS è quello di
prestare attenzione in fase di progettazione di prodotto per facilitare gli interventi di
manutenzione e limitarne il tempo dedicato. Si ricorda che vi sono due tipi di manutenzione: la
manutenzione programmata e la manutenzione che dobbiamo fare quando il dispositivo non
funziona a causa di un guasto che ne previene l’utilizzo in sicurezza; in entrambi i casi è importante
poter svolgere queste attività in tempi il più possibile brevi. Dal punto di vista del cliente ciò che
conta oltre all’esperienza d’uso di un prodotto sono i costi che deve sostenere, i quali
comprendono anche i costi legati alle necessarie manutenzioni; ovviamente il cliente desidera un
prodotto che abbia costi sostenibili dal punto di vista della manutenzione e che richieda tempi di
manutenzione relativamente brevi. Dal punto di vista dei costruttori di dispositivi di vario tipo
abbiamo la necessità di tenere d’occhio queste problematiche perché tutto ciò che va riconosciuto
in garanzia ha dei costi, quindi un prodotto che dà problemi sul mercato sarà un prodotto poco
redditizio per l’azienda (un prodotto problematico dal punto di vista dell’affidabilità e degli
interventi di manutenzione può ridurre la reputazione che un’azienda si è costruita negli anni;
alcune aziende hanno puntato ad esempio su prodotti con bassissime necessità di manutenzione
combinate a servizi di assistenza post-vendita, comprese riparazioni e manutenzioni, di
eccellenza). La progettazione del prodotto dal punto di vista della manutenzione è perciò un
aspetto che va trattato in modo integrato con le altre attenzioni che poniamo in fase di sviluppo
del prodotto, e se lo facciamo presto nelle fasi di sviluppo evitiamo di fare iterazioni successive
volte a risolvere problematiche importanti di tipo manutentivo.
Linee guida per il DFS. Elencheremo una serie di linee guida e cercheremo di fare degli esempi.
1) La prima attenzione sta nel migliorare l’affidabilità del prodotto: il prodotto ideale è quello
che non ha bisogno di manutenzione, ma nei casi reali se un prodotto ha qualche problema
è bene che per ripararlo vi sia la minima spesa in termini di tempo, denaro e difficoltà
2) Dobbiamo progettare il prodotto in modo tale che i componenti che hanno bisogno di
manutenzione (si pensi a tutti quelli che appunto hanno una durata tipica inferiore a quella
del prodotto nel suo complesso) siano facilmente identificabili e accessibili: ad esempio, se
deve essere rimosso qualche elemento di copertura ciò deve avvenire facilmente.
Idealmente i componenti da sottoporre a manutenzione dovrebbero essere tutti localizzati
da un lato del prodotto, e inoltre è importante fare in modo che i componenti a mortalità
più elevata ovvero quelli che più frequentemente dobbiamo sostituire siano gli ultimi ad
essere assemblati e quindi i primi a cui possiamo accedere quando facciamo l’intervento di
sostituzione di alcune parti
3) Per facilitare l’accessibilità dobbiamo rendere possibile una rapida e facile rimozione dei
componenti su cui stiamo intervenendo mediante l’utilizzo di sistemi di collegamento a
incastro o comunque di sistemi rapidi per poter ridurre i tempi di intervento e i metodi di
collegamento che sono invece poco adatti per interventi successivi alla fabbricazione del
prodotto (un prodotto con rivetti, saldature, tecniche adesive di vario tipo o brasature ad
esempio viene sì riparato ma in tempi maggiori); fortunatamente molti degli accorgimenti
progettuali che abbiamo già citato per facilitare l’assemblaggio, specialmente la riduzione
della numerosità dei componenti, facilitano in genere anche le operazioni di manutenzione
4) Alcuni componenti andranno per forza sostituiti, e l’ideale sarebbe fare in modo che questi
possano essere rimpiazzati senza dover disassemblare e successivamente riassemblare altri
componenti non direttamente coinvolti con queste operazioni o comunque parti che
richiedono parecchio tempo per essere installate
5) Un altro aspetto importante è prestare attenzione ad accorgimenti progettuali che
consentano una facile riparazione del prodotto quando questo è in esercizio in un certo
luogo: ciò significa puntare a far intervenire per quanto possibile direttamente
l’utilizzatore, pertanto l’ideale è che il prodotto possa essere disassemblato in modo
intuitivo e riparato con attrezzature molto comuni. Ciò contribuisce a ridurre i costi per
l’azienda perché, ad esempio, questa non ha necessità di inviare personale specializzato in
altri Paesi per eseguire interventi di manutenzione (il che significa meno personale, meno
costi per la sua formazione e la necessità di gestire solo le parti di ricambio)
6) Altro aspetto molto frequentemente considerato è quello della modularità: per facilitare le
operazioni di manutenzione vengono spesso usati dei sottoassiemi chiamati “moduli” che
svolgono una specifica funzione all’interno della configurazione del prodotto e spesso sono
anche pensati per poter essere facilmente sostituiti. Attenzione, però: l’utilizzo di moduli
implica la loro completa sostituzione anche quando se ne rompe solo una piccola parte, ma
la logica è quella di facilitare l’intervento di manutenzione e questo compromesso si è
spesso visto essere una soluzione efficace
7) Altro punto di attenzione è la facilità con cui testiamo il prodotto per identificare il
problema: se pensiamo alle possibili problematiche del prodotto in fase di utilizzo e
rendiamo semplice identificare i problemi con strumentazione comunemente disponibile
facciamo una buona attività di progettazione. Oggi è via via sempre più frequente
implementare funzionalità di auto-diagnosi e di rilevamento automatico delle
problematiche, e per quanto possibile queste tipologie di valutazione dovrebbero essere
semplici, comunemente disponibili e facilmente accessibili. Il prodotto deve poter essere
testato quando è ancora assemblato
8) Abbiamo già citato come attenzione per l’assemblaggio in generale l’uso di parti
normalizzate, facilmente reperibili sul mercato: ciò è molto importante perché permette di
ridurre i costi legati alla gestione delle scorte delle parti di ricambio, che sono un capitale
immobilizzato che tendiamo a minimizzare (più parti comuni a molti prodotti vengono
utilizzate per la progettazione di uno specifico prodotto tanto minori saranno i costi
associati alla loro gestione); inoltre, se queste parti sono facilmente reperibili sul mercato
anche in luoghi di utilizzo molto lontani dall’azienda che ha realizzato quel prodotto
possiamo ridurre ulteriormente i costi di intervento sul campo
9) È importante introdurre sistemi di avviso di malfunzionamento dei componenti, cosa che al
giorno d’oggi viene usualmente segnalata tramite qualche tipo di elettronica e di software
10) Un ulteriore accorgimento è la codifica chiara, univoca e semplice dei componenti da
sostituire o comunque su cui intervenire
11) È importante inserire accorgimenti per evitare comportamenti impropri da parte degli
utilizzatori nel momento in cui questi devono identificare il componente, disassemblarlo e
riassemblarlo ma anche per evitare problematiche in momenti successivi
12) In fase di progettazione si deve riflettere sulla possibilità di isolare facilmente le parti che
devono essere sostituite e di fornire tracciabilità dei guasti
13) È opportuno mettere a disposizione degli utilizzatori parti di ricambio per componenti che
tipicamente si guastano, quindi con l’esempio delle auto avremo fusibili o lampadine
14) Se le protezioni (come il cofano dell’auto) non si possono rimuovere, è bene che possano
autosostenersi una volta aperte
15) È importante che interventi di manutenzione non comportino rischi per le persone, quindi
dobbiamo evitare che vi siano parti taglienti che possano ferire le persone, fumi pericolosi,
scariche elettriche e meccanismi che possano schiacciare le dita o in cui si possano
impigliare i vestiti
16) Bisogna fornire un piano di manutenzione programmata chiaro, completo e
immediatamente comprensibile anche agli utilizzatori non professionali (ovviamente a
monte ci dev’essere anche un ingegnerizzazione del prodotto per ridurne la necessità)
17) Dev’esservi facilità di accesso: se ad esempio dobbiamo sostituire dei fluidi dev’esserci
spazio anche per la loro evacuazione
18) Nella configurazione del prodotto è importante stare attenti al fatto che i componenti
vicini a quelli da sostituire non siano troppo fragili. Le parti fragili o soggette a
danneggiamento durante il servizio dovrebbero essere protette o rinforzate

DFA e manutenzione. Tutte queste indicazioni sono fonte di riflessione per migliorare il prodotto.
Molti punti di attenzione per facilitare l’assemblaggio hanno ricadute positive dal punto di vista
della manutenzione, e in particolare si parla di numerosità dei componenti (se il prodotto è
realizzato con un numero minore di componenti probabilmente gli interventi di manutenzione
saranno più rapidi, e questo ha a che fare anche con il concetto di modularità del prodotto) e
dell’utilizzo di sistemi di fissaggio distinti dai componenti funzionali (se ne riduciamo l’utilizzo
avremo delle ricadute positive anche per quanto riguarda la manutenzione). Vediamo l’esempio
della slide 12: quando dobbiamo cambiare la lampadina dell’auto in figura si rende necessario
smontare completamente non solo il faro ma anche la parte frontale dell’auto per un totale di 32
componenti da disassemblare e riassemblare, e questo è assolutamente inaccettabile.
Database di tempi standard per operazioni di manutenzione. Per risolvere problemi come questo
dobbiamo porvi più attenzione in fase di progettazione riflettendo sulle conseguenze che essa ha
sulla manutenzione. Sono state sviluppate varie metodologie che permettono di fare ciò in modo
strutturato; la metodologia di analisi consiste sostanzialmente nel fare un percorso analogo a
quello che abbiamo già visto per il DFA. Si tratta innanzitutto di valutare i tempi richiesti dalle
diverse operazioni elementari di disassemblaggio e di riassemblaggio di prodotti sottoposti a
manutenzione osservando l’ergonomia dell’operatore, le problematiche di accesso, la
strumentazione necessaria, la direzione in cui dev’essere effettuata l’operazione, eventuali
complicazioni per la rimozione dei componenti dovute a corrosione o parti fragili che si possono
rompere e infine la facilità con cui prelevare e riposizionare le attrezzature; facendo attenzione a
questi aspetti e osservando un gran numero di casi studio sono stati costruiti dei database simili a
quelli visti per il DFA: nella slide 16 ad esempio sono riportate diverse condizioni (di accessibilità e
di difficoltà di rimozione) nelle quali ci si può trovare a rimuovere una vite alle quali sono associati
dei tempi codificati. Immaginando di analizzare dal punto di vista della manutenzione il prodotto
della slide 17 con quella determinata configurazione possiamo costruire una tabella con una
valutazione dei tempi legati al disassemblaggio del prodotto (slide 18): vi sono un codice
identificativo del prodotto, la numerosità delle volte in cui si eseguirà una certa operazione, i
tempi richiesti per prelevare qualche tipo di attrezzatura e una stima del tempo richiesto per
rimuovere un componente o eseguire una certa operazione; alla fine si valuta il tempo
complessivo per completare le operazioni elementari elencate a destra fino ad identificare il
componente che dev’essere sostituito, tempo che risulta essere di 104,3 secondi.
Criteri di disassemblaggio per la manutenzione. Facendo le operazioni di disassemblaggio
dobbiamo valutare secondo tre criteri, in modo analogo a quanto già visto per il DFA, la necessità
o meno della presenza di un certo componente e di conseguenza dell’operazione ad esso
associata; per dichiarare un certo componente/modulo o una certa operazione indispensabile
dobbiamo verificare che:
1) Il componente/il modulo rimosso è esso stesso/contiene il componente guasto che deve
essere riparato o, se si tratta di un’operazione, che è quella l’operazione fondamentale per
l’attività di manutenzione
2) Il componente/il modulo rimosso è una parte protettiva che deve racchiudere
completamente il componente su cui si intende intervenire o che deve proteggere
l’utilizzatore dal componente su cui si intende intervenire
3) Il componente/il modulo dev’essere rimosso per isolare il componente o il sub-assemblato
su cui si intende intervenire
Se nessuno di questi criteri è soddisfatto significa che il componente è eliminabile, quindi
procedendo nella valutazione dobbiamo identificare il numero minimo teorico di componenti N m
che possono essere giustificati per le operazioni di manutenzione.
Successivamente nell’intervento di manutenzione andiamo a sostituire il componente che si è
guastato e riassembliamo il prodotto, registrando un tempo di riassemblaggio di 130,9 secondi che
porta quindi il tempo totale stimato Ts necessario per eseguire l’operazione di manutenzione a
235,2 secondi (slide 20).
Operazione di manutenzione ideale e indici di efficienza. Per arrivare a una valutazione
quantitativa dobbiamo anche chiederci come potrebbe essere quell’operazione di manutenzione
in un caso ideale, e il caso ideale è quello che corrisponde a interventi di manutenzione in cui
(prima ipotesi) tutti i componenti richiesti dall’intervento sono facili da raggiungere e nessuna
attrezzatura è richiesta per lo svolgimento dell’operazione di manutenzione e in cui (seconda
ipotesi) 1/3 dei componenti possa essere rimosso con sistemi rapidi, quindi sistemi a incastro o
altre soluzioni che consentano una rapida rimozione e un successivo montaggio del componente.
Adottando queste due ipotesi e facendo la media pesata per quanto riguarda la rimozione e il
successivo montaggio del componente con i tempi riportati nella slide 22 troviamo un tempo
minimo ideale tmin di 9 secondi per l’attività di manutenzione per lo specifico componente; questo
numero ci serve per calcolare un indice DFS di efficienza dal punto di vista degli interventi di
manutenzione:
𝑡𝑚𝑖𝑛 ⋅ 𝑁𝑚
𝜂𝑡𝑖𝑚𝑒 =
𝑇𝑠
Se calcoliamo lo stesso indice per il prodotto riprogettato come nella slide 24 esso avrà valori
decisamente superiori; nel caso invece di prodotti più complessi o dove magari non è così evidente
la superiorità di una soluzione rispetto ad un’altra dal punto della manutenzione avere a
disposizione una metodologia quantitativa come quella illustrata è certamente di grande utilità.
Facciamo anche un cenno alla necessità di calcolare indicatori di efficienza dal punto di vista della
soluzione progettuale per la manutenzione nel caso frequente di più componenti che richiedono
manutenzione; ciò che facciamo è calcolare con una media pesata un indice di efficienza
complessivo dal punto di vista della manutenzione una volta noti gli indicatori di efficienza 𝜂𝑖 e le
frequenze dei guasti (o con cui i diversi eventi di manutenzione avvengono) 𝑓𝑖 :
𝜂1 ⋅ 𝑓1 + 𝜂2 ⋅ 𝑓2 + ⋯ + 𝜂𝑛 ⋅ 𝑓𝑛
𝜂𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙 =
𝑓1 + 𝑓2 + ⋯ + 𝑓𝑛
Per concludere, abbiamo visto le linee guida progettuali per migliorare il prodotto dal punto di
vista della manutenzione; il prodotto ideale chiaramente è quello che non ha bisogno di
manutenzione, ma visto che ciò è utopistico per quasi tutti i prodotti dobbiamo fare in modo che
le operazioni da svolgere siano le più rapide possibili, in particolare dando accessibilità alle parti da
sostituire. Chiaro che per prodotti anche di complessità non elevatissima bisognerà poi giungere a
delle soluzioni di compromesso: ci saranno infatti inevitabili conflitti tra le differenti operazioni di
manutenzione che devono essere espletate su un certo prodotto, e proprio per questo è
importante in ottica concurrent engineering che le attività di studio del prodotto dal punto di vista
della facilità di sottoporlo a manutenzione siano svolte nelle fasi iniziali di sviluppo del prodotto.
Design For Manufacture (DFM)
Con questo argomento entriamo nella progettazione del prodotto con attenzione alla sua
fabbricazione. Gli obiettivi principali di questa attività sono dare suggerimenti per migliorare il
progetto dal punto di vista della complessità del componente (diminuendola e riducendo quindi
anche il costo della produzione) e valutare i costi del prodotto con un numero minimale di
informazioni (infatti l’attività si colloca ancora nelle fasi preliminari di progettazione del prodotto)
al fine di quantificare gli effetti dei cambiamenti nel design. Naturalmente sia le linee guida sia i
metodi per valutare rapidamente i costi di produzione, quindi gli obiettivi del DFM, dipendono
dalla tecnologia: ecco allora che esistono linee guida e modelli di valutazione preventiva dei costi
specifici per le principali e più rappresentative tecnologie, che nel nostro caso sono machining
(lavorazioni per asportazione più diffuse, in particolare quelle con utensili da taglio) e injection
moulding (stampaggio a iniezione).

Design For Machining


Prima vedremo le linee guida per la progettazione di componenti soggetti a lavorazioni per
asportazione con riferimento a specifiche operazioni di machining e poi vedremo come è possibile
valutare in modo rapido e preventivo i costi di lavorazione per asportazione, per concludere con
degli esempi di strumenti software che si possono utilizzare.
Linee guida. In generale come possiamo mantenere la produzione mediante asportazione la più
semplice possibile? Innanzitutto dobbiamo cercare di usare componenti normalizzati, trovabili sul
mercato; in secondo luogo prima della lavorazione per asportazione bisogna cercare di utilizzare
altri processi che possano avvicinare il più possibile il pezzo alla forma finale desiderata (processi
di colata o di forgiatura net shape o near-net shape sono ottimi da questo punti di vista); ancora,
se dobbiamo lavorare dei semilavorati è bene che questi abbiano una forma e delle dimensioni
vicine a quelle desiderate per il prodotto lavorato; infine è importante specificare nei progetti dei
componenti caratteristiche geometriche normate perché questo consente di ricorrere a utensileria
normalizzata facilmente reperibile sul mercato a basso costo (inserire complessità gratuita è
insomma inutile perché non si aggiunge valore al prodotto e anzi se ne aumentano i costi).
Per quanto riguarda i materiali invece occorre scegliere correttamente i materiali sia sulla base
della loro adeguatezza all’applicazione per cui sono pensati sia sulla base del costo complessivo
minimo (sia del materiale sia della lavorazione: se un materiale costa meno ma ha una lavorabilità
peggiore che comporterebbe elevati tempi e costi per gli utensili allora è più conveniente scegliere
un materiale globalmente più costoso ma più economico da lavorare); inoltre, per quanto possibile
bisogna cercare di ricorrere a materiali in condizioni di fornitura facilmente reperibili sul mercato.
Passando alla progettazione di prodotto, la sfida qui è intanto quella di limitare il numero di
macchine utensili impiegate (il caso ideale è quello di ricorrere ad un’unica macchina per
produrre); un’altra buona idea è quella di progettare il componente in modo che la lavorazione si
possa fare con un unico fissaggio del pezzo sul macchinario per produrre (ad esempio, l’obiettivo
potrebbe essere quello di lavorare tutte le superfici del componente che viene fissato sul
mandrino di un tornio), così da ridurre i tempi e da aumentare l’accuratezza geometrica del pezzo
visto che non si deve riposizionare il pezzo. Poi, se sono previsti fori è bene che questi siano di
forma cilindrica (è la più semplice da realizzare), che abbiano rapporti di forma tali da consentire
l’uso di utensileria standard) e che abbiano direzione parallela o ortogonale alle direzioni
principali. Infine vale sempre l’indicazione generale per quanto riguarda le specifiche geometriche
di prodotto di indicare tolleranze che siano le più larghe possibili (geometriche, dimensionali, dello
stato della superficie).
Operazioni specifiche: lavorazioni al tornio. Sappiamo che al tornio è immediato produrre
superfici cilindriche mediante tornitura esterna, superfici piane mediante sfacciatura, superfici
interne mediante alesatura, filettature o troncature. Nella slide 7 sono riportate alcune relazioni
già note che consentono di calcolare la velocità media di taglio, il material removal rate (MRR) e il
tempo richiesto per l’operazione di tornitura; a seconda del macchinario e della specifica
operazione che eseguiamo con quel macchinario esistono delle caratteristiche geometriche che
possono essere realizzate in modo naturale e banale, quindi se specifichiamo per queste macchine
e per queste operazioni le geometrie più semplici dobbiamo aspettarci che queste richiedano il
minimo costo.
Operazioni specifiche: fresatura. Sappiamo che con la fresa è relativamente facile realizzare non
solo una superficie piana, ma anche scanalature e fori cilindrici di grandi dimensioni.
Esempi di linee guida. Quello che possiamo fare è valutare se il componente è stato progettato
rispettando quelle indicazioni che hanno lo scopo di semplificarne la produzione. In letteratura ci
sono linee guida basate sulla classificazione dei componenti in termini di simmetria e di rapporti di
forma:

• Le parti rotazionali di tipo disco sono componenti rotazionali con rapporto L/D≤0,5 (ad
esempio una ruota dentata) ottenibili a partire da materiali in forme facilmente reperibili
sul mercato (barre cilindriche, lastre, fogli) le cui superfici facili da realizzare sono quelle
cilindriche concentriche e quelle piane normali all’asse di rotazione del pezzo mediante
operazioni al tornio o mediante foratura; al contrario, le caratteristiche geometriche
difficili da realizzare per questi componenti sono superfici rastremate, non concentriche o
inclinate ma anche fori inclinati, raggi di raccordo piccoli o particolari su superfici nascoste
(per chiarezza, queste operazioni possono essere eseguite ma richiedono accorgimenti
particolari per essere realizzate, come ad esempio utensili dedicati, movimentazioni su assi
aggiuntivi, …). Le indicazioni sono dunque proprio quelle di evitare di realizzare superfici e
caratteristiche costose da produrre, di utilizzare per quanto possibile una sola macchina
per lavorare e di evitare riposizionamenti successivi del pezzo
• Le parti rotazionali corte sono componenti rotazionali con rapporto 0,5<L/D<3 ottenibili a
partire da materiali facilmente reperibili in forma di barre cilindriche. In generale per questi
componenti le operazioni, le caratteristiche geometriche facili da realizzare e le indicazioni
da seguire sono le stesse del caso precedente
• Le parti rotazionali lunghe sono componenti rotazionali con rapporto L/D≥3 (come ad
esempio un albero) ottenibili a partire da materiali facilmente reperibili in forma di barre
cilindriche. Le lavorazioni comuni per questi componenti sono la tornitura, la foratura, la
filettatura e l’alesatura al tornio. Le indicazioni sono quelle di evitare di lavorare superfici
interne lunghe e, se si fanno lavorazioni particolari (ad esempio lungo altre direzioni), di
specificare dimensioni normalizzate (esempio: sede per una linguetta)
Esistono chiaramente indicazioni anche per altre tipologie di componenti: ad esempio, se si ha a
che fare con delle piastre si sconsiglia di lavorare superfici difficili da raggiungere o di spessore
troppo ridotto e si consiglia invece di considerare come mettere in sicurezza fori adibiti al
mantenimento in posizione del pezzo durante la lavorazione, di considerare la possibilità di
lavorare più componenti insieme, di evitare la lavorazione di superfici nascoste e di cercare di
eseguire le lavorazioni con una sola macchina. Ancora, se si lavorano parti piatte non rotazionali
occorre evitare di maneggiare componenti troppo lunghi, di lavorare superfici lunghe e bisogna
invece cercare di partire da un semilavorato che ha già la forma generale richiesta. Quando si
lavorano pezzi tozzi a forma di parallelepipedo sono richieste attenzioni particolari: per
consentirne il fissaggio e la lavorazione è bene che vi sia una specifica superficie che faccia da
riferimento, poi occorre evitare che il pezzo venga riposizionato e infine bisogna considerare che
gli angoli interni che lo strumento può realizzare sono angoli con un raggio di raccordo dipendente
dallo strumento utilizzato (e comunque non netti). Se si parla invece di caratteristiche specifiche
come fori e filettature sappiamo che è molto più facile realizzarli con una punta elicoidale invece
che con una punta piatta.
Supporto con strumenti CAD. Per limitare errori così basilari esistono strumenti implementati nei
software comunemente utilizzati per la progettazione; un esempio è la funzionalità DFMXpress
inclusa in Solidworks: essa lancia un’analisi automatica del modello per evitare complicazioni come
quelle presentate, quali fori con un rapporto di forma troppo elevato, con fondo piatto o su
superfici non ortogonali all’asse del foro. Il limite di questo approccio che sfrutta le funzionalità dei
sistemi CAD è che si deve realizzare un modello geometrico.
Metodi per valutare in modo preventivo i costi di produzione. Per procedere con una stima dei
costi di produzione di un componente dobbiamo innanzitutto avere un modello di costo, che
possiamo identificare analiticamente come una sommatoria di vari termini ognuno dei quali
costituisce una componente a sé stante:
𝑡𝑚
𝐶𝑝𝑟 = 𝐶𝑚 + 𝑀 ⋅ 𝑡𝑙 + 𝑀 ⋅ 𝑡𝑚 + (𝑀 ⋅ 𝑡𝑐𝑡 + 𝐶𝑡 ) ⋅
𝑡
Il costo Cpr è da intendersi come costo unitario per la produzione di un componente; C m è il costo
del materiale che troviamo nel semilavorato che andremo a lavorare, M è il costo nell’unità di
tempo per l’utilizzo della risorsa (macchina utensile e manodopera necessaria per il suo
funzionamento), tl è il tempo improduttivo (in cui la macchina utensile è impegnata ma non sta
lavorando il pezzo in questione), tm è il tempo produttivo (in cui la macchina lavora effettivamente
il pezzo asportando materiale), tct è il tempo necessario per cambiare il tagliente, t è la vita del
tagliente e Ct è il costo per la fornitura di un tagliente affilato (per sostituzione o per riaffilatura).

• Il costo del materiale Cm può rappresentare più del 50% del costo totale. I costi dei
materiali vengono continuamente aggiornati nel tempo in funzione del mercato
• Il costo unitario di utilizzo della risorsa M tipicamente include anche il costo della
manodopera impiegata per far funzionare quella risorsa. Come si vede dal grafico della
slide 24 questa componente di costo dipende sicuramente dalla tipologia di macchinario
utilizzato per produrre e dal peso del pezzo (perché all’aumentare del peso aumenta la
taglia del macchinario richiesto)
• Il tempo improduttivo tl è composto da diverse componenti:
o Una componente ha a che fare con il carico e lo scarico del pezzo (questo dipende
fortemente dalla specifica macchina utensile utilizzata: ad esempio una macchina
potrebbe avere diversi livelli di automazione); anche qui il peso del pezzo è la
variabile più informativa per avere un’indicazione dei tempi: scelto un tipo di
sistema di afferraggio del pezzo, la tabella della slide 25 mostra che i tempi
aumentano all’aumentare del peso del pezzo stesso, fino ad arrivare alla necessità
di usufruire di un carroponte
o Altre componenti che incidono sul tempo improduttivo (ma necessario) sono quelle
relative al tempo richiesto per iniziare la lavorazione, al tempo richiesto per il setup
della lavorazione per uno specifico lotto da produrre e al tempo richiesto per un
setup avanzato dell’utensile; tutte dipendono dalla tipologia di macchinario
utilizzato. Il costo derivante dal tempo di setup va diviso per la dimensione del
lotto: se si ha a che fare con lotti piccoli il costo unitario sarà maggiore, mentre se si
ha a che fare con lotti grandi il costo unitario sarà minore perché meglio ripartito
o Un’altra componente è quella relativa alla movimentazione; esistono relazioni di
natura empirica come quella che segue, dove il tempo richiesto per il trasporto di
componenti dipende dalla distanza tra le macchine e dalla distanza che dev’essere
percorsa dal mezzo di trasporto:
𝑡𝑓 = 25,53 + 0,29 ⋅ (𝑙𝑝 + 𝑙𝑟𝑑 )
Questi tempi chiaramente dipendono dalla logistica aziendale
• Il tempo produttivo tm, ossia il tempo richiesto per eseguire la lavorazione, dipende dai
parametri di processo e si calcola abbastanza facilmente una volta che questi sono noti;
nella fase di progettazione preliminare però questi parametri non si conoscono ancora,
quindi in questa fase si fanno delle valutazioni assumendo che i parametri di processo che
saranno scelti saranno quelli corrispondenti al costo minimo della lavorazione, riportati in
letteratura. Attenzione: nella realtà potrebbero esserci limitazioni in termini di potenza al
mandrino, perciò non è detto che la velocità di taglio richiesta per condizioni di costo
minimo sia effettivamente raggiungibile (ecco allora che è più intelligente ipotizzare le
velocità di taglio che si hanno per la massima potenza disponibile al mandrino).
Sappiamo poi che all’aumentare della velocità di taglio il costo della lavorazione tende a
diminuire, il costo legato al tempo improduttivo rimane costante e il costo dell’utensile e il
costo legato al cambio utensile tendono ad aumentare; tutti insieme questi costi variano
con la velocità di taglio come rappresentato nella figura della slide 30, quindi è possibile
identificare una velocità di taglio ottimale che garantisce il minimo del costo totale per
produrre. In realtà si potrebbe anche scegliere la velocità ottimale secondo un criterio di
minimizzazione del tempo necessario per lavorare un pezzo: in tal caso all’aumentare della
velocità di taglio il tempo della lavorazione tende a diminuire, il tempo improduttivo
rimane costante e il tempo di cambio utensile tende ad aumentare. I due valori di velocità
di taglio ottimale identificano gli estremi di un intervallo di velocità di taglio che
garantiscono una lavorazione ad alta efficienza.
Ci sono altri fattori da considerare: come illustra la slide 31, la rugosità richiesta su una
particolare superficie influenza significativamente i tempi richiesti dalla lavorazione, e in
particolare più bassa è la rugosità più alti saranno i tempi di lavorazione e quindi i costi.
Adottando il modello di costo espresso dalla sommatoria di termini prima presentata, se si
vogliono realizzare le condizioni di costo minimo di solito si cerca un compromesso sul
costo che attribuiamo all’utensile. Consideriamo che il tempo richiesto dalla lavorazione è
inversamente proporzionale alla velocità di taglio secondo la costante di proporzionalità K
che dipende dall’operazione di asportazione e consideriamo anche la legge di Taylor, che
lega la velocità di taglio e la durata dell’utensile a dei valori di riferimento; identificando la
velocità di taglio che offre il costo minimo possiamo pervenire alla relazione che segue,
dove il costo minimo è calcolato andando ad inserire come tempo di lavorazione il valore
calcolato in corrispondenza della velocità di taglio ottimale di minimo costo:
𝑀 ⋅ 𝑡𝑚𝑐
𝐶𝑚𝑖𝑛 = 𝐶𝑚 + 𝑀 ⋅ 𝑡𝑙 +
1−𝑛
Se invece siamo consapevoli di limitazioni di potenza disponibile al mandrino possiamo
arrivare a quest’altra relazione, che ci consente di calcolare il costo di lavorazione quando
come tempo di lavorazione si inserisce il valore che si ha quando la velocità di taglio
impiegata è quella corrispondente alla massima potenza:
1
𝑛 𝑡𝑚𝑐 𝑛
𝐶𝑝𝑜 = 𝐶𝑚 + 𝑀 ⋅ 𝑡𝑙 + 𝑀 ⋅ 𝑡𝑚𝑝 ⋅ [1 + ⋅( ) ]
1 − 𝑛 𝑡𝑚𝑝
Il tempo richiesto per la lavorazione dev’essere poi maggiorato per quantità dipendenti
dalla specifica lavorazione, e in particolare dalla necessità di consentire agli utensili
impiegati di iniziare la lavorazione (slide 33).
I valori dei parametri di taglio sono usualmente tabulati per famiglia di materiali (slide 34);
ogni sistema di preventivazione ha un suo database che però si rifà allo stesso concetto
Strumenti software. Ciò che è complicato è fare tutte queste valutazioni in modo rapido, e una
soluzione per automatizzare questi calcoli è avere a disposizione dei software. Vedremo dapprima
un esempio di implementazione che può essere più adatto per la fase di progettazione
concettuale, quando ad esempio vogliamo collocare delle analisi DFA/DFM per avere rapidamente
a disposizione dati quantitativi su cui basarsi per valutare alternative progettuali (non sono infatti
disponibili modelli CAD 3D); poi vedremo un esempio di analisi di dettaglio che tipicamente si fa in
fasi successive.
Nel primo esempio (slide 37) si ha la necessità di valutare il costo delle lavorazioni in fase
preliminare di progettazione di un nuovo prodotto o di rivisitazione di un prodotto esistente,
quindi in una situazione di carenza di informazioni di dettaglio. È visibile in figura un assale
modulare prodotto dalla Carraro, che richiedeva un aiuto per migliorare il proprio sistema di
valutazione preliminare dei costi di produzione; ciò è stato fatto introducendo uno specifico
software che non richiede l’utilizzo di un modello CAD. Ciò che è stato fatto è sia
l’implementazione del metodo sia la sua validazione andandolo a confrontare con tempi standard
effettivamente disponibili in azienda. Lo studio condotto si è focalizzato su 5 componenti chiave
non normalizzati che richiedevano un certo tipo di lavorazioni per un totale di 160 operazioni di
asportazione e secondarie. Il software utilizzato sfrutta tre database: uno relativo ai materiali (19
categorie di materiali, con costi per tipologia di semilavorato, proprietà meccaniche, parametri di
taglio “ottimali”, energia specifica), uno relativo alle macchine utensili (7 categorie di macchine
utensili, con operazioni possibili, tempi di setup, cambio e posizionamento utensile, cambio pallet,
velocità e potenza al mandrino, costo orario) e uno relativo alle operazioni aggiuntive (lavorazioni
speciali, macchine dedicate, trattamenti termici, ecc.). Non avendo a disposizione un modello CAD
occorre descrivere il semilavorato di partenza come materiale, condizione di fornitura e
dimensioni, e bisogna anche inserire il numero totale di pezzi da produrre e le dimensioni del
lotto. Per quanto riguarda le specifiche operazioni il software non richiede di descrivere in
dettaglio la geometria del componente, però per una data tipologia di operazione vengono
richiesti le dimensioni minima e massima della lavorazione, la lunghezza lavorata, il materiale
dell’utensile e la rugosità richiesta: ciò consente di calcolare in modo automatico velocità di taglio
e avanzamento proposto. In questo caso non c’erano limitazioni né di velocità massima né di
potenza disponibile, pertanto si sono utilizzati parametri legati al costo minimo. Il procedimento si
può estendere ad altre tipologie di macchine. Esiste la possibilità di modellare lavorazioni che non
sono presenti nel database: compresa la relazione esistente tra le diverse variabili che entrano in
gioco nella dentatura (slide 41) è possibile calcolare il tempo per quella specifica operazione. In
alcuni casi in cui non vi sono molti dettagli è possibile rappresentare il costo unitario ad esempio
per un trattamento termico utilizzando informazioni come quelle riportate nella tabella della slide
42: l’incidenza per pezzo del costo del trattamento termico dipende dal peso del pezzo perché da
questo si può estrapolare il numero di pezzi che si possono lavorare contemporaneamente e di
conseguenza ripartire il costo del forno in questo caso. Le strade adottate nello studio sono state
due: la prima non prevedeva la conoscenza di geometria e dimensioni dei pezzi e delle lavorazioni
da effettuare e utilizzava parametri di processo medi, mentre la seconda pur non prevedendo
ancora la conoscenza di geometria e dimensioni dei pezzi e delle lavorazioni da effettuare
sfruttava parametri di processo ottimali e considerava di conoscere nel dettaglio gli utensili;
entrambi gli scenari di utilizzo sono poi stati validati, ossia messi a confronto con i tempi disponibili
come riferimento per il caso studio utilizzato: i risultati (slide 45) hanno dimostrato che il software
è in grado di replicare molto bene l’effettiva realtà produttiva, con scostamenti molto piccoli dai
valori di riferimento se si considera la seconda strada descritta (con la prima gli scostamenti sono
generalmente maggiori). Un confronto sul costo totale dei singoli componenti è visibile nella slide
46: ancora la seconda strada fa registrare una quasi concordanza con i dati in possesso della
Carraro, mentre la prima strada offre margini di scostamento più ampi (anche del 20%; errori di
quest’ordine di grandezza sono considerati comunque accettabili in condizioni di informazioni
disponibili limitate). Tutto ciò che fa il software si può fare anche in Excel implementando le
opportune relazioni di calcolo.
Nel secondo esempio (slide 47) si ha la necessità di valutare i costi delle lavorazioni per
asportazione quando, in fasi più avanzate dello sviluppo del prodotto, abbiamo a disposizione più
informazioni tra cui il modello CAD 3D del componente: in questo caso abbiamo molti più dettagli,
quindi valori specifici di rugosità e relativi alla geometria da lavorare ad esempio. Chiaramente ci si
aspetta delle valutazioni di costo più accurate, e possiamo utilizzare la valutazione dei costi non
solo per confrontare alternative progettuali (in realtà sarebbe già tardi per fare ciò dato che siamo
già nella fase di progettazione di dettaglio) ma anche per definire dei costi obiettivo per i singoli
componenti da lavorare per capire se conviene effettuare le lavorazioni internamente all’azienda
oppure rivolgersi ai fornitori. Attualmente il modello CAD viene reso disponibile per tutti i
componenti. In Solidworks è disponibile un modulo “costing” che consente di fare valutazioni di
costo per la produzione e in particolare per le lavorazioni di asportazione, ma in generale è difficile
che un ambiente CAD permetta di raggiungere un livello di accuratezza delle stime di costo adatto
a raggiungere obiettivi come quelli appena descritti; può invece essere utile per una prima
valutazione. I dati inseriti nei software sono fondamentali per cercare di migliorare l’accuratezza
dei calcoli che vengono effettuati. Un altro ambiente questa volta dedicato alla valutazione dei
costi (e non integrato a sistemi CAD) è LeanCOST: in esso si può importare il modello 3D, definirne
livelli di rugosità e tolleranze (dimensionali e geometriche) e lavorazioni, modificare i dettagli delle
lavorazioni in termini di parametri di processo, vedere le risorse utilizzate con le indicazioni dei
costi associati, confrontare l’impatto di macchine diverse sui costi e tanto altro.
Design For Injection Molding
Prima vedremo un’introduzione all’economia circolare, relativa alla realizzazione di componenti in
materiale polimerico, poi vedremo il processo di stampaggio a iniezione e in particolare gli stampi
impiegati nel processo per capire come andare ad affrontare le linee guida per il design di un
componente in plastica. Per concludere vedremo una metodologia per stimare i costi.
Economia circolare. I polimeri sono molto presenti nella vita di tutti i giorni perché consentono di
ottenere diverse proprietà in base all’uso specifico: il policarbonato ad esempio è trasparente
quasi come il vetro ma in confronto ad esso è più resistente, più facilmente formabile e utilizzabile
per essere prodotto in massa mediante stampaggio a iniezione. I materiali polimerici hanno visto
una importante crescita dal punto di vista commerciale che però non è stata accompagnata da
uno sviluppo efficiente per quanto riguarda il comparto manifatturiero, nel senso che sono stati
più veloci la richiesta e l’impiego dei materiali polimerici nei diversi comparti manifatturieri
rispetto all’industrializzazione e all’ingegnerizzazione del processo di fabbricazione; ciò comporta
due problematiche: una bassa competitività a livello globale (dovuta allo scarso livello di
ingegnerizzazione dal punto di vista industriale) e l’insostenibilità dell’industria manifatturiera
(l’utilizzo massivo di materiali polimerici ha un forte impatto sull’ambiente). La soluzione è quella
di educare i futuri ingegneri che opereranno nel settore dei componenti in plastica per innalzare il
livello tecnologico di processo e di prodotto, incrementando la competitività e sviluppando delle
opportunità di lavoro a livelli più alti. Dal 2004 al 2014 si è visto un incremento di quasi 100 milioni
di tonnellate di plastica prodotta (da 225 a 311), e la tendenza è quella di una crescita continua. I
fattori determinanti che guidano il mercato delle materie plastiche sono legati perlopiù ai bassi
costi di processo e alla facilità del ritorno degli investimenti nel medio-lungo periodo; ci sono poi
fattori legati alle caratteristiche intrinseche dei materiali polimerici, che sono le elevate proprietà
meccaniche, la facilità di essere lavorati e la facilità di ottenere prodotti ad elevata qualità dal
punto di vista geometrico, dimensionale ed estetico; infine, la possibilità di scegliere diverse
tipologie di materiale polimerico aventi diverse caratteristiche ha fatto sì che la plastica abbia
subito un’esplosione in tutti i comparti manifatturieri (dal packaging all’edilizia). Vi sono però delle
plastiche più utilizzate rispetto ad altre, specialmente nel settore del packaging: il polietilene
(usato per produrre componenti molto sottili come i flaconi), il polipropilene (uno dei più
lavorabili), il polivinilcloruro (utilizzato nel settore elettrico, nelle tubature e negli edifici grazie alla
buona resistenza al calore e alle buone proprietà meccaniche), il polistirene (trasparente e a basso
costo, impiegato nel packaging del settore agroalimentare in quanto biocompatibile) e il
polietilentereftalato (impiegato per realizzare la stragrande maggioranza delle bottiglie, cosa che
viene fatta per stampaggio ad iniezione prima e per stiratura poi). Il problema principale
nell’industria del packaging è che esso dà veramente un basso valore aggiunto dato che la plastica
ha solo lo scopo di contenere la bevanda (vero oggetto del mercato). Le principali applicazioni del
materiale plastico sono, in ordine decrescente, nel settore del packaging appunto (39,5%), nel
settore delle costruzioni edilizie (20,1%), nel settore dell’automotive (8,6%), nel settore
dell’elettronica (5,7%) e nel settore dell’agricoltura (3,4%), mentre il restante 22,7% è riferito ad
altri settori; alcuni settori come quello dell’automotive sono ad elevato valore aggiunto e sono in
grande sviluppo: ad esempio l’utilizzo di plastiche al posto dei materiali metallici consente di
ridurre il peso dei veicoli mantenendone però le performance. Il problema nell’utilizzo della
plastica è che essa viene troppo spesso dispersa nell’ambiente, e per risolvere questo problema
sono state adottate alcune strategie che ci portano a parlare di economia circolare: nell’immagine
della slide 9 è riportata la piramide gerarchica che è stata seguita finora nella gestione dei rifiuti
(derivanti soprattutto da materiali plastici) secondo la quale la maggior parte dei rifiuti veniva
depositata nelle discariche, poi al secondo posto si adottavano tecnologie di conversione
(riutilizzare i componenti in plastica più volte), al terzo posto si sfruttava il riciclaggio per realizzare
altri prodotti in materiale polimerico (con tutte le problematiche annesse dato che il materiale da
post-consumo è diverso rispetto al materiale “vergine”; fino a qualche anno fa i prodotti realizzati
con materiale da post-consumo erano davvero a bassissimo valore aggiunto, mentre oggi con lo
sviluppo dei sistemi per il riciclaggio della plastica si riesce ad ottenere una plastica riciclata con
buone proprietà impiegata anche per la realizzazione di componenti ad elevato valore aggiunto) e
infine al quarto posto si riduceva il consumo di plastica; la Comunità Europea ha adottato per il 21°
secolo una strategia di economia circolare che ha fatto assistere ad un’inversione nella gerarchia
appena presentata: in primo luogo si devono ridurre consumo e produzione di plastica, poi al
secondo posto c’è il riciclaggio, al terzo posto c’è la conversione dei componenti per il loro
riutilizzo e infine al quarto posto c’è l’accumulo di rifiuti in materiale polimerico nelle discariche.
Per quanto riguarda i processi manifatturieri di trasformazione delle materie plastiche vi sono
alcuni processi che predominano: l’estrusione (36%), lo stampaggio a iniezione (28%), il soffiaggio
(25%), la termoformatura (9%) e lo stampaggio rotazionale (2%). Ci focalizzeremo sul processo di
stampaggio a iniezione, il quale consente di ottenere pezzi di geometria anche molto complessa in
quanto si sfrutta il principio della replicazione (il materiale polimerico viene riscaldato e iniettato
in uno stampo per acquisirne la forma); come può dunque essere applicata la nuova strategia per
l’economia circolare al processo di stampaggio a iniezione? Innanzitutto si andrà ad agire sulla
riduzione di materiale plastico: ad oggi molti dei componenti in materiale polimerico sono
sovradimensionati in termini di spessore (perché spessori ridotti richiedono pressioni di iniezione
maggiori per riempire la cavità e possono dar luogo a difetti interni al componente causando
problemi di produzione e di prodotto finito), quindi una prima strategia per ridurre il consumo di
materiale polimerico è ridurre lo spessore dei componenti stessi e per fare ciò sarà necessario
adottare tecnologie più all’avanguardia per ovviare alle problematiche portate dagli spessori
ridotti. Una seconda soluzione riguarda la riduzione del volume e rende fondamentale lavorare sul
design del componente: nella slide 13 si vedono due modellizzazioni alternative della puleggia per
l’azionamento del cestello di una lavatrice: pur essendo funzionalmente equivalente all’altra, la
soluzione di destra occupa un volume che è quasi la metà di quello della soluzione di sinistra;
essendo il design più complesso l’azienda ha usato materiali più performanti (da un termoplastico
standard a un termoplastico ad elevate proprietà meccaniche, che qui è del polipropilene caricato
con fibre di vetro al 40%). Passando al secondo gradino della piramide prima descritta si può agire
anche sul riciclaggio, consapevoli però della riduzione della qualità del materiale da post-consumo:
materiale plastico sottoposto a stiratura vede uno stiro delle macromolecole del polimero il quale,
una volta rimacinato e riscaldato, risulterà essere molto più viscoso e quindi riempirà con
maggiore difficoltà lo stampo per realizzare il prodotto finito. Le tre soluzioni proposte (riduzione
degli spessori, riduzione del volume, utilizzo di materiale da post-consumo) richiedono un alto
livello di ingegnerizzazione di processo e di prodotto per poter essere implementate.
Polimeri. Un polimero è una molecola molto lunga formata da monomeri, ossia molecole
elementari; nella slide 16 si vede un monomero di etilene che, replicato più volte, crea una catena
che diventa così polietilene. I polimeri vengono classificati in tre famiglie: i polimeri termoplastici, i
polimeri termoindurenti e gli elastomeri; la classificazione è fatta in base a come le macromolecole
si legano tra di loro: nei materiali termoplastici vi sono legami deboli tra le macromolecole che
compongono il polimero (tali legami deboli possono essere sciolti e ripristinati andando a fornire
energia in forma di calore), nei materiali termoindurenti vi sono legami forti tra le macromolecole
che compongono il polimero (tali legami forti non possono essere sciolti) e negli elastomeri vi sono
legami forti ma molto meno diffusi tra le macromolecole che compongono il polimero (ecco
perché un elastomero può deformarsi molto). Chiaramente i materiali termoplastici sono riciclabili
mentre i materiali termoindurenti no.
Stampaggio a iniezione. I materiali termoplastici vengono processati tramite stampaggio a
iniezione, mentre i materiali termoindurenti no: in questo processo infatti si parte da un polimero
allo stato solido che viene fluidificato apportando calore, poi lo si inietta in uno stampo e infine lo
si raffredda fino ad ottenere la geometria finale. Il polimero solido iniziale si trova in forma di
pellets, i quali vengono versati in una tramoggia e processati mediante una vite divisa in tre zone
(alimentazione, fusione, pompaggio) che prende il materiale e lo fa scorrere in avanti sciogliendolo
per attrito viscoso; una volta accumulato il dosaggio necessario per realizzare il componente la vite
smette di ruotare e inizia a spingere il materiale all’interno dello stampo raffreddato ad acqua: il
materiale si raffredda progressivamente fino a solidificare e infine il pezzo viene estratto dalla
cavità. Il processo si basa sul principio della replicazione: non è un processo diretto (come una
fresatura o un processo di additive manufacturing) ma uno a doppio step, in cui il primo prevede
la realizzazione dello stampo e il secondo prevede la replicazione della superficie dello stampo da
parte del materiale polimerico iniettato. Nella slide 22 vengono seguiti gli step del processo in un
diagramma PVT (diagramma volume specifico-temperatura con curve parametrizzate sulla
pressione): la fase iniziale di plastificazione segue un’isobara e ci porta al punto 0, a partire dal
quale il polimero viene iniettato nello stampo seguendo un’isoterma ma aumentando la pressione
fino a raggiungere il punto 1; dal punto 1 al punto 2 c’è una fase di mantenimento in cui la
temperatura resta pressoché costante e la pressione aumenta ancora, poi dal punto 2 al punto 3
inizia la fase di compattazione del materiale: la pressione rimane costante ma il materiale inizia a
solidificare dentro lo stampo, motivo per cui sia la temperatura che il volume specifico si riducono.
Dal punto 3 al punto 4 si ha un raffreddamento isocoro del materiale durante il quale anche la
pressione cala; al punto 4 lo stampo viene aperto perché il materiale ha raggiunto la temperatura
per la quale può essere estratto, quindi il materiale torna alla pressione atmosferica e si raffredda
fino al punto 5: si vede dal grafico che durante questa operazione si assiste ad un’ulteriore
riduzione del volume specifico (ritiro volumetrico) del componente entro lo stampo. La
contrazione dal punto 4 al punto 5 è solitamente isotropa (cioè avviene nel piano), ma se avviene
in modo differenziale allora nel componente stampato insorgeranno tensioni residue che possono
essere pericolose perché se superano il modulo elastico del materiale riescono a deformare il
pezzo finito.
Stampo. Lo stampo ha la funzione di convogliare, di dare forma e di raffreddare il materiale
polimerico fino alla sua solidificazione, quindi svolge tutte le funzioni chiave del processo di
stampaggio a iniezione. Esso è estremamente complesso in quanto caratterizzato da diversi
componenti: solitamente si ha una piastra fissa, che rimane attaccata alla pressa, e una piastra
mobile, connessa al meccanismo a ginocchiera che si apre e si chiude; all’apertura dello stampo il
pezzo rimane quasi sempre aggrappato alla piastra mobile. Ci sono diverse tipologie di stampo:

• Stampo a due piastre. La plastica arriva dalla vite di plastificazione, fluisce all’interno dello
stampo e solidifica, poi lo stampo si apre, vengono azionati gli estrattori e si espelle il
componente dallo stampo stesso
• Stampo a tre piastre. La plastica arriva dalla vite di plastificazione, fluisce all’interno dello
stampo e solidifica; successivamente lo stampo si apre su due piani: il primo piano si apre
per poter estrarre la materozza, generata nei canali che connettono la vite di
plastificazione alla cavità, e il secondo piano si apre per poter espellere il componente
sempre con degli estrattori
Entrambi i sistemi presentati sono a canali freddi perché dalla vite di plastificazione fino al termine
della cavità il materiale viene tutto raffreddato, quindi si devono estrarre sia il componente che la
materozza (che devono entrambi solidificare prima di poter essere estratti). Rispetto ad uno
stampo a due piastre, uno stampo a tre piastre permette di posizionare il punto di iniezione del
materiale nella cavità dove si vuole perché quando la prima piastra si apre riesce a liberare tutto il
sistema di alimentazione, che può quindi essere estratto dall’interno dello stampo; nel sistema a
due piastre, invece, avendo una sola cavità si può stampare solo dal centro ma soprattutto si può
posizionare il punto di iniezione solo nel piano di partizione, che è dove lo stampo si apre
(altrimenti non si riesce a liberare la piastra contenente la materozza). Un secondo vantaggio
offerto dallo stampo a tre piastre è che vi è uno smaterozzamento (divisione della materozza dalla
parte stampata) che avviene in maniera automatica, sfruttando l’apertura dello stampo: quando la
seconda piastra si divide dalla prima avviene la rottura del punto di iniezione, quindi si possono
evitare eventuali step successivi (che si avrebbero con un sistema a due piastre) di divisione della
materozza dal prodotto finito. Così come ci sono dei vantaggi ci sono anche degli svantaggi nel
confronto: innanzitutto nei sistemi a canali freddi la materozza dev’essere stampata ed estratta ad
ogni ciclo, e siccome il tempo ciclo è proporzionale al quadrato dello spessore dello stampato si
capisce che se ad esempio il pezzo da stampare è simile ad un vassoio sottile il canale di iniezione
dovrà essere diametralmente esteso e quindi sarà la materozza, pezzo di scarto, a dominare il
tempo ciclo, il che è un controsenso e fa perdere notevolmente in produttività. Una seconda
limitazione è relativa allo stampo a tre piastre: l’utilizzo di una piastra intermedia incrementa la
complessità dello stampo e quindi anche i costi. Infine, servono macchine più grandi perché lo
stampo deve essere aperto di più in modo da poter estrarre sia il pezzo che la materozza.
Per ovviare alle limitazioni dei sistemi a canali freddi si utilizzano i sistemi a canali caldi (HRS): in
essi il sistema di distribuzione del polimero, dalla vite di plastificazione fino alla cavità, è
mantenuto alla temperatura di fusione del materiale, perciò il materiale arriva in cavità che è
ancora fluido; in questo caso non vi saranno materozze, però dall’altro lato il materiale che rimane
nei canali di distribuzione in attesa di essere iniettato nello stampaggio successivo può essere
soggetto a degradazione termica (se si fornisce troppo calore o se lo si fornisce per troppo tempo
le macromolecole iniziano a deteriorarsi e il materiale polimerico perde le sue caratteristiche
andando a degradare). Non avendo materozze i sistemi a canali caldi permettono di ridurre il
tempo ciclo, di essere più accurati nel controllo di processo e di non avere scarto di materiale.
Rispetto alle altre soluzioni i sistemi a canali caldi sono più costosi, e generalmente vengono
impiegati quando si hanno elevati volumi produttivi (e quindi tempi ciclo molto stretti) e quando
sono richieste proprietà estetiche molto importanti (non rimangono difetti sul pezzo).
Nella slide 30 vengono confrontati i sistemi a canali freddi con i sistemi a canali caldi: a livello di
libertà nel posizionamento del punto di iniezione vincono lo stampo a tre piastre e gli HRS contro
lo stampo a due piastre; a livello di consumo di materiale e di brevità di tempo ciclo vincono gli
HRS, seguiti dallo stampo a due piastre e dallo stampo a tre piastre; a livello di investimento
iniziale, di tempo di avvio e di manutenzione vince lo stampo a due piastre, seguito dallo stampo a
tre piastre e dagli HRS (aumenta infatti in questa direzione la complessità dei sistemi).
Varianti del processo di stampaggio a iniezione. Vediamo due varianti del processo di stampaggio
a iniezione molto interessanti soprattutto nell’ottica DFA. La prima variante è lo stampaggio a
iniezione 2K (ma anche 3K o 4K), dove il numero che accompagna la lettera K rappresenta il
numero di viti utilizzate nel processo; qui si sfruttano due materiali diversi che possono differire
tra loro o solo per il colore o anche per tipologia di materiale (in questo caso il componente non va
assemblato successivamente ma viene realizzato già nel suo stato finale). Una volta che viene
stampato il pezzo di competenza dello stampo A la tavola rotante su cui sono montati gli stampi
ruota e sopra allo stampato A si stampa B; la connessione tra i materiali avviene con legame
chimico (quindi i materiali devono essere chimicamente affini) e con dei sistemi meccanici di
aggancio. A fronte di un investimento iniziale maggiore si ha una linea più produttiva e
completamente automatizzata, una qualità migliore e meno problemi legati all’assemblaggio di più
parti. La seconda variante è il sovrastampaggio (insert injection molding): anche qui si elimina uno
step nella catena di assemblaggio del prodotto integrandolo nel ciclo di stampaggio; nella slide 33
è riportato l’esempio di un cacciavite ottenuto iniettando l’impugnatura in materiale polimerico
sopra lo stelo.
Le 6 P. Il mercato richiede prodotti aventi diverse funzionalità al loro interno, quindi in un’ottica di
design for dobbiamo tenere in considerazione che un componente viene progettato inglobando al
suo interno sempre più funzionalità ma anche tolleranze dimensionali più o meno strette, livelli di
rugosità superficiale precisi ed elementi distintivi tipici dell’azienda produttrice: tutto ciò complica
notevolmente il processo produttivo, il quale allo stesso tempo è pensato per una produzione di
massa. In definitiva si parla di un approccio non solo volto al design del pezzo inteso proprio come
progettazione del componente ma ad un design dell’intero processo produttivo, in quanto per
avere un processo di stampaggio a iniezione che sia efficace ed efficiente bisogna tenere in
considerazione le 6 P: product (il prodotto), performance (le prestazioni), profit (il profitto), plastic
(il materiale plastico), process (il processo) e post-consumer life and sustainability (lo
smaltimento); vediamo i vari punti singolarmente:
1) Plastic. Il materiale che si va a iniettare può essere di diversi tipi (termoplastico, a sua volta
amorfo o cristallino), di diversi colorazioni, di diverse composizioni; il panorama odierno
offre un range di materiali polimerici davvero vasto. I materiali polimerici possono essere
combinati anche tra loro o rinforzati con delle fibre per aumentarne ad esempio le
caratteristiche meccaniche o le performance meccaniche in esercizio. Si parla anche di
materiali conduttivi (termicamente o elettricamente) ma anche di materiali isolanti proprio
perché quello che si intende di fare è cercare di sostituire i materiali convenzionali con i
materiali polimerici, che come già anticipato garantiscono una certa leggerezza e una certa
processabilità
2) Process. I processi di trasformazione della plastica possono essere diversi (estrusione,
stampaggio a iniezione, iniettocompressione, ecc.). Durante il processo il materiale
polimerico, partendo appunto da granulo, viene riscaldato e trasformato assumendo poi la
forma del prodotto finito
3) Product. Il prodotto finito può essere il più vario possibile, come ad esempio un
contenitore, una pellicola, un pellet (ottenuto dalla combinazione di diversi materiali; si
parla di “compound”) o una fibra di rinforzo
4) Performance. Ogni prodotto deve garantire determinate prestazioni quali resistenza a
carichi termici, determinate proprietà meccaniche o anche proprietà ottiche ad esempio
5) Profit. L’efficacia di un processo si basa soprattutto sul profitto che si ottiene dalla vendita
del prodotto ottenuto mediante tale processo
6) Post-consumer life and sustainability. La sostenibilità del processo e lo smaltimento del
prodotto a fine vita costituiscono un requisito fondamentale quando si va a progettare
l’intero processo produttivo dato che bisognerà pensare poi a come smaltire il prodotto
alla sua fine vita
Tutte queste 6 P formano insieme la base su cui sono state stilate le linee guida che indicano come
scegliere, progettare e ottimizzare il processo produttivo per la realizzazione di componenti in
materiale polimerico.
Linee guida. Lo stampaggio a iniezione consente di ottenere componenti ad elevato valore
aggiunto, molto complessi nella forma e con ottime qualità estetiche e dal punto di vista delle
tolleranze geometriche e dimensionali. Il ciclo produttivo parte sempre con una richiesta da parte
del mercato a seguito della quale viene sviluppato un concept di prodotto; scremando le idee
anche con l’ausilio di prototipi si arriva ad un unico prodotto del quale si sviluppa poi il design
iniziale. Una volta definite le specifiche di prodotto si iniziano a scegliere il materiale e il processo
produttivo in modo da massimizzare il profitto all’interno del ciclo produttivo secondo le
opportune linee guida. Si passa quindi ad una procedura iterativa in cui prima si selezionano il
design e le specifiche di prodotto in modo tale che queste soddisfino il design iniziale e poi si fa
una prima procedura di progettazione dello stampo (dato che il prodotto finale è una replica dello
stampo, questo deve essere progettato di pari passo con il prodotto): le iterazioni proseguono
finché non si trova una soluzione ottimale in grado di soddisfare tutte le specifiche richieste dal
mercato; alla fine si manda in produzione lo stampo e si avvia il ciclo produttivo per realizzare il
componente in plastica.
Vi sono alcune linee guida da seguire nel design di componenti realizzati in plastica che sono
l’uniformità dello spessore, la progettazione di nervature di rinforzo, la progettazione di borchie di
accoppiamento (sempre nell’ottica di DFA), l’utilizzo di angoli che non siano spigoli vivi, la
dichiarazione della finitura superficiale e la presenza di tessiture sulla superficie, gli angoli di
sformo e i sottosquadri. Molte aziende in un’ottica di metal replacement prendono le
matematiche dei loro componenti realizzati magari in alluminio o in acciaio e vanno a realizzare
direttamente lo stampo senza badare minimamente a queste linee guida che servono appunto per
ottenere un componente che abbia una qualità ottimale per quanto riguarda il processo. Il design
del componente è molto importante nel processo dello stampaggio ad iniezione perché influisce
notevolmente sulle caratteristiche finali del pezzo, quindi una volta fatto lo stampo, montato lo
stampo in macchina e iniziato il processo di stampaggio la calibrazione del processo ci lascia un
margine di manovra molto ristretto per poter ottimizzare il pezzo se questo non è stato progettato
correttamente: ecco allora che i problemi vanno risolti a monte del processo produttivo già nella
fase di design.

• Uniformità dello spessore della parete. È molto usuale trovare dei componenti con una
variazione di spessore al loro interno: questo è completamente da evitare per quanto
riguarda il processo di stampaggio a iniezione, quindi nella fase di co-design tra progettista
e cliente si deve essere in grado di poter modificare la geometria del pezzo dove possibile;
dove ciò non è possibile si cercherà di agire sul design dello stampo, e infine se non ci sono
altri margini di manovra si andranno a ritoccare i parametri di processo. Nella slide 45 si
vedono delle proposte che vanno dalla peggiore alla migliore: la soluzione peggiore è
quella di iniettare il materiale polimerico nel lato a spessore ridotto e poi avere una
variazione di spessore importante alla fine del componente, e siccome lo stampo attorno al
componente è mantenuto ad una temperatura molto più bassa rispetto a quella della
plastica non appena questa tocca le pareti dello stampo inizia a raffreddarsi; dato che
vogliamo garantire che la plastica riempia completamente la cavità dello stampo con un
determinato livello di pressione (per andare a compensare eventuali ritiri volumetrici) e
con una determinata temperatura (per uniformare il più possibile il pezzo) devono esserci
un gradiente di temperatura e un gradiente di pressione uniformemente distribuiti
all’interno del pezzo. Iniettando dunque la plastica dalla parete più sottile si va incontro al
rischio di veder solidificare prima la parte a parete sottile, cosa che non consentirebbe di
riempire completamente la cavità. Questa soluzione può essere migliorata un minimo
agendo sul design dello stampo e quindi posizionando il punto di iniezione nella parte più
spessa in modo tale da garantire il completo riempimento della parte; sorge però un altro
problema a causa della variazione di spessore: infatti, la variazione di spessore darà luogo
ad un raffreddamento differenziale nella parte sottile (che solidificherà per prima) e nella
parte spessa (che solidificherà per ultima). Durante il raffreddamento diminuiscono
temperatura, pressione e volume specifico e il materiale circostante viene richiamato verso
la zona in fase di solidificazione, ma se il materiale disponibile a un certo punto finisce
allora si formano delle cavità all’interno del componente spesso accompagnate da tensioni
residue, le quali possono deformare il componente se superano il modulo elastico del
materiale. Il miglioramento successivo può essere introdotto agendo sul design del pezzo:
se ad esempio si “raccorda” il passaggio da uno spessore all’altro si riesce ad uniformare le
distribuzioni di temperatura e di pressione interne al pezzo ma comunque c’è sempre la
differenza di spessore. Una soluzione ancora migliore è quella di realizzare uno spessore
medio uniforme (ovviamente ciò dev’essere possibile: se lo scalino è funzionale va
mantenuto). La soluzione migliore per lo stampaggio iniezione è infine quella di utilizzare
spessori sottili aumentando la rigidezza del componente mediante l’inserimento di
nervature. Dalla soluzione peggiore a quella migliore abbiamo apportato delle modifiche al
design molto importanti
• Progettazione di nervature di rinforzo. Le nervature vengono molto utilizzate nel processo
di stampaggio sia perché vanno a irrigidire il componente finito sia perché consentono di
risparmiare materiale (è infatti possibile stampare componenti a spessore più sottile se
vengono implementate nel pezzo); le nervature vengono disposte nella direzione in cui il
componente è sollecitato oppure compensano l’effetto bordo (che tende a richiamare la
parete verticale verso l’interno nel processo di stampaggio) irrigidendo le pareti verticali e
mantenendole quindi in posizione
• Progettazione di borchie di accoppiamento. Sempre nell’ottica di DFA con lo stampaggio a
iniezione si possono realizzare borchie che fungano da sedi per eventuali accoppiamenti ad
esempio con delle viti autofilettanti: in questo modo si integra l’elemento di fissaggio nel
pezzo. Come design, l’introduzione della borchia viene compensata con l’uniformazione
dello spessore e con l’utilizzo di nervature (che irrigidiscono la borchia). Le borchie sono
critiche perché creano zone a spessore più elevato a causa delle quali, quando il materiale
si raffredda, si può formare un risucchio che danneggia l’estetica del componente; ciò può
essere evitato scaricando lo spessore in prossimità della borchia e inserendo delle
nervature che consentano una maggior resistenza del componente
• Utilizzo di angoli che non siano spigoli vivi. La prima cosa che viene da dire riguarda
ancora la variazione di spessore in prossimità dello spigolo, il quale può diventare sede di
cavità e di tensioni residue che possono inclinare le pareti o anche rompere il pezzo. Per
risolvere il problema si possono utilizzare dei raccordi sugli spigoli esterni oppure inserire
delle nervature che consentano di irrigidire la parete verticale. Per quanto riguarda gli
spigoli c’è un altro discorso da fare, relativo più che altro al design dello stampo: dato che
lo stampo è il negativo del componente da stampare diventa problematico realizzare
tasche a spigolo vivo; una possibilità è usare l’elettroerosione a tuffo, ma questo è un
processo molto lungo e costoso che tra l’altro accentua la rugosità superficiale dello
stampo dando problemi estetici (la superficie dello stampo è rugosa e non lucida) e di
aumento della forza necessaria per estrarre il componente (il materiale polimerico
iniettato va infatti a replicare il profilo di rugosità, quindi più alta è la differenza tra cresta e
valle più importanti saranno i sottosquadri interni al componente che la forza di estrazione
dovrà vincere per poter completare l’estrazione dallo stampo; se la forza di estrazione è
troppo elevata si possono creare delle deformazioni sul pezzo). Lo spigolo vivo quindi è da
evitare proprio perché può essere realizzato all’interno solamente con tecnologie come
l’elettroerosione; si potrebbero usare delle frese a candela per realizzare uno spigolo vivo,
ma comunque il risultato non sarebbe quello desiderato. La soluzione più praticabile
quando abbiamo degli spigoli vivi è nuovamente quella di modificare il design della parte
andando a raccordare i diversi spigoli vivi
• Dichiarazione della finitura superficiale e presenza di tessiture sulla superficie. Finitura
superficiale e tessiture sulla superficie vengono scelte durante la fase di design del
componente. Abbiamo diverse finiture, che possono andare dalla lucidatura con paste
diamantate fino a processi che consentono di ottenere comunque finiture meno spinte (in
termini di rugosità superficiale Ra si passa dagli 0,01 μm ai 4 μm): più bassa è la rugosità
richiesta più aumentano i costi (la richiesta di finiture molto spinte viene fatta solamente
per i componenti estetici o per componenti che devono soddisfare alcune funzionalità, ad
esempio nel campo dell’ottica; negli altri casi si mantiene una finitura dello stampo
derivante direttamente dal processo di asportazione, come accade per la fresatura o per
l’elettroerosione). Le tessiture (o textures) vengono solitamente generate mediante un
processo di ablazione laser e servono a ricreare un particolare effetto sulla superficie del
componente stampato
• Angoli di sformo. Nello stampaggio a iniezione il componente come ultimo step deve
essere estratto dallo stampo; è molto importante definire un certo angolo di sformo per
ridurre le forze di estrazione in quanto c’è una certa forza di attrito tra plastica e stampo
che deve essere vinta. Il valore dell’angolo di sformo varia al variare della rugosità (più
rugosa è la superficie più facilmente si creano dei micro-sottosquadri tra plastica e stampo,
quindi più alta sarà la forza richiesta: per abbassarla si aumenterà l’angolo di sformo) e del
tipo di materiale utilizzato (ogni materiale è caratterizzato da una sua viscosità, la quale va
ad interfacciarsi con il grado di replicazione, ossia quanto la plastica replica lo stampo:
minore è la viscosità maggiore è il grado di replicazione). In generale, all’aumentare della
rugosità e al diminuire della viscosità aumentano il grado di replicazione e quindi la forza
richiesta per estrarre il pezzo e quindi gli angoli di sformo necessari. Il grado di replicazione
è influenzato però anche dal processo, e in particolare dalla temperatura dello stampo,
dalla temperatura del fuso, dalla pressione di impaccamento e dalla velocità di iniezione:
più alti sono questi parametri più si replica
• Sottosquadri. Un elemento che non permette allo stampo di aprirsi nel piano di
ripartizione crea un sottosquadro. Si osservi l’esempio della slide 51: se si volesse realizzare
un foro sulla superficie laterale di un componente stampato sarebbe necessario inserire un
movimento laterale (ad esempio in acciaio) capace di creare il sottosquadro desiderato e di
spostarsi una volta che sarà necessario estrarre il pezzo. Per limitare le problematiche
legate ai sottosquadri bisogna sempre chiedersi in fase di progettazione se è davvero
necessario inserire elementi che comportano la presenza di sottosquadri dato che ogni
sottosquadro complica ulteriormente lo stampo incrementandone quindi anche il costo
Queste linee guida dunque danno indicazioni su come progettare il componente dal punto di vista
del design, ma abbiamo anche detto che è importante dare seguito a questi accorgimenti
intervenendo sul design dello stampo.
• Numero di cavità. La scelta del numero di cavità (ossia quanti pezzi si riescono a stampare
ad ogni ciclo) influisce sulla scelta della macchina (la macchina viene solitamente scelta in
base alle forza di chiusura che deve esercitare durante il processo di stampaggio, e
maggiore sarà il numero di cavità maggiori saranno la pressione, l’area proiettata e la forza
di chiusura necessaria; la forza di chiusura è data dal prodotto tra la pressione massima di
iniezione e l’area proiettata), sul layout dello stampo (più cavità si inseriscono nello stampo
più grande sarà il pacco stampo; si dovrà scegliere di usare un sistema a canali freddi se il
numero di cavità è piuttosto limitato, mentre si dovrà scegliere di usare un sistema a canali
caldi se il numero di cavità è elevato) e sul processo produttivo (ogni cavità deve uscire
uguale all’altra, quindi più cavità si hanno più difficile sarà gestire il processo di stampaggio
a iniezione). Il posizionamento delle cavità ha gli obiettivi di ridurre le dimensioni del pacco
stampo e il volume del sistema di alimentazione nel caso in cui si utilizzi un sistema a canali
freddi (per ridurre il consumo di materiale); per posizionare le cavità abbiamo diversi
layout, visibili nella slide 55: di solito si utilizzano il 2 o il 4, che sono rispettivamente quello
“a griglia” e quello “ibrido”, derivante dalla combinazione del 2 con il 3
• Sistema di alimentazione. Nella slide 56 è visibile il sistema di alimentazione: lo sprue (o
carota) è il canale che connette la vite di plastificazione al piano di partizione, mentre i
runners sono le guide primarie e secondarie che veicolano la plastica fino alla cavità alla
quale accedono attraverso il gate. La materozza è tutto ciò che è compreso tra vite e gate,
mentre tutto ciò che va dal gate in poi è cavità
• Design del gate. Vedremo alcune linee guida su come posizionare il gate e che tipo di gate
scegliere. Il design del gate deve soddisfare alcune esigenze funzionali: deve consentire di
avere un de-gating (quindi una separazione del pezzo dalla materozza) automatico, deve
garantire una buona estetica del componente (non deve cioè lasciare segni) e infine dato
che il gate è la sezione minima attraverso cui deve fluire la plastica deve evitare sforzi di
taglio troppo elevati (che possono causare la degradazione del materiale a causa
dell’eccessivo stiro esercitato sulle macromolecole) o cadute di pressione troppo alte (si
deve infatti garantire una certa pressione al termine della cavità al netto delle perdite di
carico causate dal riempimento di tutta la materozza e di tutta la cavità). Nella slide 59 si
vede che esistono vari tipi di gate: un esempio è il film gate, nel quale il materiale iniettato
permane in una camera di compressione dove la pressione aumenta in attesa che la
plastica riesca a fluire attraverso la zona di sezione più ristretta; questo tipo di gate
consente di avere un flusso unidirezionale all’interno del pezzo, mentre un pin gate dà
luogo ad un flusso radiale e un edge gate dà luogo prima ad un flusso radiale e poi ad un
flusso unidirezionale, che è quello da preferire perché permette di avere una distribuzione
delle pressioni che sia la più uniforme possibile. Nella slide 60 sono illustrati due
componenti assoggettati a diversi metodi di iniezione a seconda del posizionamento del
gate: in entrambi i casi abbiamo un riempimento fondamentalmente radiale, ma la
diversità nel posizionamento comporta anche un diverso bilanciamento della pressione
all’interno della cavità; ciò che si desidera avere è un gradiente di pressione che sia il più
omogeneo possibile per non avere zone maggiormente impaccate e zone minormente
impaccate così da consentire una contrazione uniforme sul pezzo. Il posizionamento del
gate deve tenere conto anche dell’estetica del componente: se per un pezzo si vuole un
alto livello estetico non si potrà certo posizionare il gate sul centro della faccia “estetica”
perché altrimenti rimane il segno, quindi si dovrà iniettare in zone più nascoste oppure
all’interno del pezzo sulla faccia che non è “estetica”. Un altro aspetto da tenere in
considerazione nel posizionamento del gate è l’effetto di esitazione: il polimero
usualmente va a riempire per prime le zone in cui incontra minore resistenza e per ultime
le zone in cui incontra maggiore resistenza, quindi eventuali appendici laterali più strette
potrebbero non essere riempite completamente se il gate non ha un posizionamento
opportuno (occorre comunque controllare sempre se magari il testimone lasciato dal gate
può dare alcune limitazioni poi nella funzionalità del componente). Un ultimo
accorgimento deve tenere in considerazione il fatto che il gate dev’essere posizionato in
modo da evitare che una prematura solidificazione del materiale in condotti più stretti
impedisca di riempire completamente la cavità
Queste sono tutte scelte che vanno fatte nella fase di progettazione del componente: come si
capisce, nei processi produttivi ci dev’essere una forte integrazione tra design del componente e
design del processo produttivo perché non può andare in produzione uno stampo per il quale non
sono state prese in considerazione tutte le problematiche relative al suo possibile design. Ecco
allora che è fondamentale che vi sia un’attività di co-design tra chi progetta il pezzo, chi progetta
lo stampo e chi progetta e avvia il processo produttivo perché il processo è molto complesso e
deve tenere in considerazione tutti i vari aspetti che concorrono insieme alla qualità del
componente finito.
Metodi per valutare in modo preventivo i costi di produzione. I principali costi che vanno a
comporre il costo del prodotto finito sono quelli relativi al materiale (sia come materia prima sia
come quantità di scarto durante il processo), quelli relativi allo stampo (per il materiale dello
stampo, per le operazioni di realizzazione dello stampo) e quelli relativi al processo (legati al
tempo ciclo e al rendimento del processo di stampaggio a iniezione). Il costo del prodotto finito è
dato dal rapporto tra la somma di costo dello stampo, costo del materiale e costo del processo
(tutti da ritenere come “costi per singola parte”) e un rendimento; ogni componente di costo
incide in proporzione differente a seconda della tipologia di componente che si stampa: ad
esempio, una fascetta viene prodotta in grande quantità rispetto ad un connettore elettrico e
inoltre dai punti di vista funzionale ed estetico ha requisiti meno stringenti, pertanto è lecito che la
componente di costo prevalente sia nel caso della fascetta quella legata al materiale e al processo
e nel caso del connettore elettrico quella legata allo stampo e al processo.
I costi relativi al materiale sono calcolati come il prodotto tra il volume della parte, la densità del
polimero a temperatura ambiente, il costo al chilo del polimero e un fattore che tiene conto del
materiale consumato durante l’avvio del processo o degli sprechi e che dipende dalla tipologia del
design che si andrà ad utilizzare per lo stampo, in particolar modo dal design del sistema di
alimentazione:
𝐶𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙/𝑝𝑎𝑟𝑡 = 𝑉𝑝𝑜𝑙𝑦𝑚𝑒𝑟 ⋅ 𝜌𝑝𝑜𝑙𝑦𝑚𝑒𝑟 ⋅ 𝜅𝑝𝑜𝑙𝑦𝑚𝑒𝑟 ⋅ 𝑓𝑠𝑐𝑟𝑎𝑝

Lo spreco è chiaramente minore per i sistemi a canali caldi e infatti f scrap è minore e poco influente.
La tabella della slide 70 illustra l’ordine di grandezza dei costi al chilo del materiale: si vede che più
aumentano le performance del materiale più aumenta il costo. Nella slide 71 è presentato un
esempio in cui si vuole calcolare lo spessore che deve avere un componente in plastica al variare
del materiale per eguagliare la rigidezza dello stesso componente realizzato in acciaio con
spessore noto: si va dai 3,7 mm del polietilene passando ai 2,8 mm dell’ABS fino ai 2,0 mm del
policarbonato rinforzato al 30% con fibre di vetro, però bisogna sempre valutare l’economia
globale della scelta e quindi capire se scegliere un materiale meno performante ma meno costoso
o più performante ma più costoso.
I costi relativi al processo sono calcolati come il prodotto tra il rapporto tra tempo ciclo e numero
di cavità e il costo orario del sistema (pressa+operatore) convertito in costo al secondo:
𝑡𝑐𝑦𝑐𝑙𝑒 𝑅𝑚𝑜𝑙𝑑𝑖𝑛𝑔
𝐶𝑝𝑟𝑜𝑐𝑒𝑠𝑠/𝑝𝑎𝑟𝑡 = ⋅
𝑛𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑖𝑒𝑠 3600
L’unica variabile da calcolare è il tempo ciclo; esso viene in genere stimato mediante simulazione
numerica o con la seguente formula, che lo valuta come 4 volte il quadrato dello spessore
massimo del componente moltiplicato per un fattore di efficienza del ciclo:
2
𝑡𝑐𝑦𝑐𝑙𝑒 = 4 ⋅ ℎ𝑤𝑎𝑙𝑙 ⋅ 𝑓𝑐𝑦𝑐𝑙𝑒 𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑐𝑦

Di nuovo fcycle efficiency dipende dalla tipologia di stampo che utilizziamo e in particolare dal grado di
automatizzazione che proponiamo nel nostro sistema: nella slide 73 il valore più alto si ha per un
sistema a canali freddi con un ciclo semiautomatico (la macchina stampa un pezzo, apre lo stampo
e si ferma per permetterne all’operatore la rimozione) e il valore più basso si ha per un sistema a
canali caldi con un ciclo completamente automatizzato. La tabella della slide 74 presenta il costo
del processo di stampaggio per i tre casi dell’esempio presentato prima (componenti a rigidezza
equivalente): il tempo ciclo è proporzionale al quadrato dello spessore, quindi spessori maggiori
porteranno tempi ciclo e conseguentemente costi di processo maggiori; non solo: il tempo di
raffreddamento, che da solo costituisce circa il 60% del tempo ciclo, scende drasticamente
passando dal polietilene al policarbonato rinforzato al 30% in vetro. In definitiva, il policarbonato
rinforzato al 30% con fibre di vetro aumenta la produttività del sistema e fa risparmiare sui costi di
processo rispetto alle altre due alternative, ma dall’altro lato come materiale ha un costo
superiore e inoltre richiede la realizzazione dello stampo in un materiale dalla durezza superficiale
elevata perché i materiali caricati con fibra sono molto abrasivi.
I costi relativi allo stampo sono calcolati come il prodotto tra il rapporto tra costo totale dello
stampo e dimensione del lotto produttivo che dovrà essere realizzato con quello stampo (prima
cioè del fine vita di quello stesso stampo) e un fattore associato alla manutenzione dello stampo:
𝐶𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙 𝑚𝑜𝑙𝑑
𝐶𝑚𝑜𝑙𝑑/𝑝𝑎𝑟𝑡 = ⋅ 𝑓𝑚𝑎𝑖𝑛𝑡𝑒𝑛𝑎𝑛𝑐𝑒
𝑛𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙
Stampi più complessi richiedono una manutenzione diversa, quindi f maintenance varierà con la
tipologia dello stampo. Come determinare il costo totale dello stampo C total mold? In letteratura
vengono proposti due approcci, di cui il primo è una funzione di costo e il secondo sfrutta la
similarità di costi.

• Funzione di costo. Abbiamo un nuovo stampo che possiede diverse caratteristiche (x 1, …,


xn); il modello ha l’obiettivo di determinare una funzione matematica che vada ad
interpolare le diverse caratteristiche (che sono le variabili indipendenti) e, attraverso
questa funzione, di determinare il costo dello stampo. Il modello è molto accurato ma
difficilmente utilizzabile perché richiede di sviluppare tutto il progetto dello stampo per
poter definire la funzione di costo, risultando molto dispendioso in termini di tempo
• Similarità dei costi. Abbiamo un nuovo stampo che possiede diverse caratteristiche (x 1, …,
xn); il modello prevede di fare un’assunzione: se nello storico si hanno stampi aventi
caratteristiche simili allora due caratteristiche simili avranno all’incirca lo stesso costo. Il
costo così ottenuto è approssimativo, e comunque è richiesto uno storico importante per
poter confrontare le caratteristiche in maniera approfondita
L’approccio che seguiremo noi è una combinazione dei due: per prima cosa identificheremo le
caratteristiche simili e le raggrupperemo in gruppi, poi per ogni gruppo si stimerà una funzione di
costo; il costo totale sarà dato dalla somma dei costi relativi ad ogni gruppo:
𝑛

𝐶𝑡𝑜𝑡 = ∑ 𝐶𝑖−𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑔𝑟𝑢𝑝𝑝𝑜


𝑖=1

Per quanto riguarda il costo dello stampo identifichiamo tre diversi gruppi: il costo della base (1), il
costo della cavità (2) e i costi relativi alla personalizzazione dello stampo (3) (movimenti interni allo
stampo, sistemi di raffreddamento particolari, ecc.).
1) La base dello stampo è un oggetto abbastanza semplice: un blocco di acciaio con delle
features interne per l’allineamento. Determinarne il costo è altrettanto semplice dato che
basterà sommare ad una costante a1 il prodotto tra la massa della base e il costo al chilo
del materiale in cui è realizzata:
𝐶𝑚𝑜𝑙𝑑 𝑏𝑎𝑠𝑒 = 𝑎1 + 𝑀𝑚𝑜𝑙𝑑 ⋅ 𝜅𝑚𝑜𝑙𝑑 𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙
La costante a1 è determinata a livello empirico su una popolazione di stampi. Quella
indicata sopra è la funzione di costo per il gruppo (1); in essa sarà necessario decidere le
dimensioni della base porta-stampo (che ovviamente dipende dalle dimensioni del
componente da stampare) e determinare il materiale da utilizzare. Nella slide 82 sono
riportate le formule necessarie al calcolo dei vari parametri relativi alle dimensioni e anche
una serie di possibili materiali per la base (Alcoa QC10 è una lega di alluminio usata per
realizzare stampi prototipali o che devono stampare pochi pezzi: materiali come questi
sono facili e veloci da lavorare per asportazione, smaltiscono bene il calore e pesano poco,
però costano mediamente più degli acciai; gli acciai invece differiscono per la durezza e il
loro costo aumenta all’aumentare di quest’ultima)
2) Il costo delle cavità è dato dal prodotto tra costo di una singola cavità, numero di cavità e
un fattore di sconto:
𝐶𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑖𝑒𝑠 = 𝐶𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 ⋅ 𝑛𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑖𝑒𝑠 ⋅ 𝑓𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜𝑢𝑛𝑡
Il termine fcavity discount esprime il beneficio che si ha nel realizzare più cavità al posto di una;
vale 1 se ncavities=1 e vale meno di 1 se ncavities>1. Il primo problema è determinare il costo di
ogni singola cavità, che è dato dalla somma del costo del materiale utilizzato per realizzare
la cavità con il costo delle operazioni di asportazione e il costo per la finitura superficiale:
𝐶𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 = 𝐶𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙 + 𝐶𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑚𝑎𝑐ℎ𝑖𝑛𝑖𝑛𝑔 + 𝐶𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑓𝑖𝑛𝑖𝑠ℎ𝑖𝑛𝑔
Ognuna delle tre componenti sopra scritte rappresenta un sottogruppo per il quale
andremo a calcolare la relativa funzione di costo.
Il costo del materiale utilizzato per realizzare la cavità è dato dal prodotto tra volume della
cavità, densità del materiale utilizzato per la cavità e costo al chilo del materiale utilizzato
per la cavità:
𝐶𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙 = 𝑉𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙 ⋅ 𝜌𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙 ⋅ 𝜅𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙
Il volume della cavità è a sua volta funzione di tre parametri formulati come visibile nella
slide 84.
Il costo delle operazioni di asportazione è dato dal prodotto tra tempo stimato per le
diverse lavorazioni e costo orario delle lavorazioni:
𝐶𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑚𝑎𝑐ℎ𝑖𝑛𝑖𝑛𝑔 = 𝑡𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑚𝑎𝑐ℎ𝑖𝑛𝑖𝑛𝑔 ⋅ 𝑅𝑚𝑎𝑐ℎ𝑖𝑛𝑖𝑛𝑔 𝑟𝑎𝑡𝑒
Questo costo dipende principalmente dalla complessità geometrica del componente, dalle
proprietà del materiale, dal tipo di processo per asportazione adottato, dal costo della
manodopera e dalla qualità richiesta per gli inserti della cavità. Partiamo dalla stima del
tempo associato alle diverse lavorazioni: un primo approccio empirico prevede di dividere
tutto in gruppi e di calcolare le funzioni di costo associate ad ogni gruppo, mentre un
secondo approccio si avvale di una simulazione numerica per quello che riguarda i processi
di asportazione; la seconda strada fornisce una funzione di costo più precisa ma richiede di
essere già ad una fase avanzata di progettazione, mentre la prima strada consente di avere
una maggior rapidità e agilità nel caso di cambiamenti. Questa prima strada prevede di
stimare il tempo come segue:
𝑓𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑥𝑖𝑡𝑦 ⋅ 𝑓𝑚𝑎𝑐ℎ𝑖𝑛𝑖𝑛𝑔
𝑡𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑚𝑎𝑐ℎ𝑖𝑛𝑖𝑛𝑔 = (𝑡𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 + 𝑡𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑎𝑟𝑒𝑎 ) ⋅
𝑓𝑚𝑎𝑐ℎ𝑖𝑛𝑖𝑛𝑔 𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒𝑛𝑐𝑦
Dove tcavity volume e tcavity area sono i tempi necessari per lavorare rispettivamente il volume e
l’area e fcavity complexity, fmachining e fmachining efficiency sono dei fattori che tengono conto
rispettivamente della complessità geometrica, del tipo di operazione di asportazione svolta
e dell’efficienza dell’operazione di asportazione. Ci sono diverse strategie di lavorazione: a
parità di tempo una sgrossatura rimuove più volume di materiale rispetto ad una finitura
ma dà una qualità superficiale inferiore. Andando più a fondo, i tempi nella parentesi sopra
sono rispettivamente definiti come:
𝑉𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙 𝐴𝑝𝑎𝑟𝑡 𝑠𝑢𝑟𝑓𝑎𝑐𝑒
𝑡𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑣𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 = 𝑡𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑎𝑟𝑒𝑎 =
𝑅𝑚𝑎𝑐ℎ𝑖𝑛𝑖𝑛𝑔 𝑅𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙 𝑎𝑟𝑒𝑎
Dove Rmachining è l’MRR relativo al volume, Apart surface è l’area della superficie totale del
componente e Rmaterial area è l’MRR relativo all’area. Il fattore relativo alla complessità
geometrica tiene conto del fatto che più un componente è complesso più tempo si impiega
per realizzarlo; esso viene stimato come il rapporto tra il prodotto tra area della superficie
totale del componente e spessore del componente e il volume effettivo della parte:
𝐴𝑝𝑎𝑟𝑡 𝑠𝑢𝑟𝑓𝑎𝑐𝑒 ⋅ ℎ𝑤𝑎𝑙𝑙
𝑓𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑥𝑖𝑡𝑦 =
𝑉𝑝𝑎𝑟𝑡
La slide 89 mostra come anche solo inserendo dei raccordi più sensibili e alcune features
all’interno del pezzo il fattore fcavity complex diventa maggiore di 1. Il fattore relativo al tipo di
operazione di asportazione svolta ha i valori visibili nella slide 90; solitamente la tecnologia
utilizzata per realizzare gli stampi è la fresatura (e infatti f machining vale 1), ma ad esempio
per componenti assial-simmetrici si può usare la tornitura (e infatti fmachining vale 0,5) e per
componenti particolarmente complessi si deve usare l’elettroerosione (e infatti fmachining
vale 4). Infine, per quanto riguarda il fattore che tiene conto dell’efficienza dell’operazione
di asportazione solitamente ad esso viene assegnato il valore 0,25 perché si tiene conto del
fatto che è richiesto molto tempo per sviluppare la sequenza di operazioni di asportazione,
procurarsi e controllare gli utensili da taglio, eseguire il setup e altre attività.
Il costo per la finitura superficiale, che rappresenta dal 5% al 30% del costo totale dello
stampo e che dipende dal grado di finitura (finiture molto spinte richiedono costi maggiori
perché occupano più tempo), è dato dal prodotto tra tempo richiesto per ottenere una
certa finitura su una determinata superficie dello stampo e costo orario della lavorazione di
finitura:
𝐶𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑓𝑖𝑛𝑖𝑠ℎ𝑖𝑛𝑔 = 𝑡𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑓𝑖𝑛𝑖𝑠ℎ𝑖𝑛𝑔 ⋅ 𝑅𝑓𝑖𝑛𝑖𝑠ℎ𝑖𝑛𝑔 𝑟𝑎𝑡𝑒
Un componente può avere finiture diverse su facce differenti, quindi per calcolare il tempo
che compare nella formula occorre discretizzare il componente in zone diverse, ognuna
delle quali avrà una determinata finitura o tessitura superficiale:
𝐴𝑖𝑝𝑎𝑟𝑡 𝑠𝑢𝑟𝑓𝑎𝑐𝑒
𝑡𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑓𝑖𝑛𝑖𝑠ℎ𝑖𝑛𝑔 = ∑ 𝑖
𝑅𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑓𝑖𝑛𝑖𝑠ℎ𝑖𝑛𝑔
𝑖
Dove Aipart surface
è l’area della superficie i-esima e Ricavity finishing è l’MRR relativo all’area della
superficie i-esima. La tabella della slide 92 mostra che i finishing rate delle lavorazioni che
garantiscono una rugosità superficiale molto bassa sono anch’essi molto piccoli, e in effetti
richiedendo molto tempo una finitura di questo tipo può facilmente rappresentare almeno
il 30% del costo totale dello stampo.
Il secondo problema è determinare il numero di cavità. Il grafico nella slide 93 evidenzia
che il costo totale per ogni singola parte (curva superiore) ha una forma a U ed è funzione
del numero di cavità; per determinare un intervallo di valori del numero di cavità che
minimizza il costo totale per ogni singola parte si procederà in maniera iterativa, calcolando
i singoli costi di ogni singolo gruppo al variare del numero di cavità e scegliendo alla fine
quel numero che contemporaneamente minimizza il costo e bilancia il sistema (infatti è
difficile avere un sistema bilanciato con ad esempio 5 cavità: in genere se ne scelgono 4 o
6).
Il terzo problema è determinare il fattore di sconto: nella tabella della slide 94 sono
riportati diversi valori di fcavity discount al variare del numero di cavità per stampo, e si vede
che più questo numero è alto più si abbassa il fattore di sconto
3) Il costo relativo alla personalizzazione è variegato ed è relativo al costo delle cavità e al
costo dello stampo; è definito come segue:
𝑖 𝑖
𝐶𝑐𝑢𝑠𝑡𝑜𝑚𝑖𝑧𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 = 𝐶𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑖𝑒𝑠 ⋅ ∑ 𝑓𝑐𝑎𝑣𝑖𝑡𝑦 𝑐𝑢𝑠𝑡𝑜𝑚𝑖𝑧𝑖𝑛𝑔 + 𝐶𝑚𝑜𝑙𝑑 𝑏𝑎𝑠𝑒 ⋅ ∑ 𝑓𝑚𝑜𝑙𝑑 𝑐𝑢𝑠𝑡𝑜𝑚𝑖𝑧𝑖𝑛𝑔
𝑖 𝑖
Dove Ccavities e Cmold base sono rispettivamente il costo delle cavità (2) e il costo della base
dello stampo (1) mentre ficavity customizing e fimold customizing sono dei coefficienti che
corrispondono ai fattori che governano rispettivamente il costo della personalizzazione
degli inserti delle cavità e il costo della personalizzazione della base dello stampo; l’indice i
si riferisce ad esempio al sistema di alimentazione, al sistema di raffreddamento o al
sistema di estrazione. Gli unici parametri da determinare nella formula sopra per poter
definire una funzione di costo sono proprio questi fattori, e come mostra la slide 96 essi
vengono solitamente tabulati: se per esempio utilizziamo uno stampo a due piastre a canali
freddi avremo ffeed system feed system
cavity customizing=0,05 e fcavity customizing =0,1, mentre se utilizziamo un sistema a
canali caldi valvolato entrambi i fattori si alzano; in generale, più complesso è il sistema (di
alimentazione, di raffreddamento, di estrazione, …) più alti saranno il grado di
personalizzazione e quindi il costo relativo alla personalizzazione
Computer Aided Engineering (CAE)
Nell’ambito della concurrent engineering era già stato presentato un grafico come quello nella
slide 2, che in ascissa ha il tempo a partire dal concept di prodotto fino al lancio sul mercato
passando per la fase di test, di produzione e di verifica; le due curve in esso riportate hanno
andamenti opposti: la flessibilità decresce perché le possibilità di prendere decisioni riguardanti il
design del componente diventano via via più ristrette con l’avanzare dello sviluppo del prodotto,
mentre la conoscenza del prodotto cresce mano a mano che si avanza nel ciclo produttivo. Questa
tendenza è tipica di un processo di sviluppo prodotto convenzionale, in cui non si integrano nelle
diverse fasi strumenti di prototipazione virtuale e quindi tecnologie computer aided. Il ciclo
produttivo convenzionale si basa su un processo iterativo di design, di costruzione di un prototipo
(semplice o complesso in termini di funzionalità) e di test: completato un ciclo di questo tipo si
modifica il design iniziale e si ricomincia fino a quando non vengono soddisfatti i requisiti del
prodotto (solo a questo punto infatti verrà mandato in produzione). Un approccio di questo tipo è
molto oneroso in termini di tempo e di costi.
e-Design. Il problema dell’eccessivo numero di iterazioni può essere risolto introducendo degli
ambienti virtuali all’interno dei quali poter applicare modifiche al componente ridefinendone il
design e testandolo senza dover produrre materialmente alcun prototipo funzionale.
Nell’ambiente virtuale i modelli geometrici e fisici del componente sono simulati e rappresentati in
modo da poter essere testati e da poter così fornire una conoscenza del prodotto molto più
elevata nelle prime fasi del ciclo di sviluppo prodotto, come evidenzia il grafico di sinistra della
slide 5; il grafico di destra, invece, mostra le ripercussioni che l’adozione di tecniche di e-Design ha
sui costi: un approccio tradizionale vede costi massimi verso la fine del ciclo di sviluppo prodotto,
mentre un approccio di e-Design vede costi massimi traslati all’inizio del ciclo, quando le modifiche
possono ancora essere apportate in maniera agile, snella e soprattutto meno costosa. Con un
ambiente virtuale chiaramente si impiegano molte più risorse nella prima fase di design del
componente, ma ciò garantisce che le fasi successive siano più “scorrevoli” in quanto alcune delle
relative problematiche sono già state risolte all’inizio. A differenza dell’approccio tradizionale in
cui la fase di design è molto breve, le tecniche virtuali comportano una dilatazione della fase di
design al fine di incrementare la conoscenza del prodotto; contemporaneamente le fasi successive
vengono ristrette con le tecniche virtuali, mentre nell’approccio tradizionale queste possono
essere anche molto lunghe.

La prototipazione virtuale è la spina dorsale dell’approccio di e-Design; essa consiste nella


costruzione di un prototipo virtuale in ambiente CAD per trasformare le informazioni derivanti dal
concept in un modello che porti al suo interno il maggior numero di informazioni (il CAD infatti
riassume le geometrie del prodotto in termini di quote e tolleranze, le proprietà del materiale con
cui esso è realizzato e le sue proprietà estetiche). Nella fase di design vi è anche una fase di test in
cui vengono messe alla prova le proprietà del componente in base alle funzionalità richieste da
specifiche di prodotto mediante sistemi CAE (anch’essi ambienti virtuali); i risultati si riflettono
direttamente sul CAD, in un ciclo iterativo CAD-CAE che una volta soddisfatte le specifiche
richieste arriva a convergenza e permette quindi di passare alla fase di produzione. Di nuovo, tra la
fase di design e la fase di produzione trova spazio un altro ambiente virtuale, questa volta di tipo
CAM, in cui viene simulato il processo produttivo ad esempio per stimare i costi relativi alla
produzione.
CAE. Il Computer Aided Engineering (CAE) è una tecnologia che si basa sull’aiuto da parte di
sistemi virtuali per analizzare le geometrie derivanti dal CAD: in sostanza permette di testare,
simulare e analizzare i diversi comportamenti del componente in forma di prototipo virtuale
realizzato con tecniche CAD al fine di validare, ridefinire e ottimizzare il suo design. Ciò in ogni caso
vale tanto per il prodotto quanto per il processo perché ci dev’essere intercomunicazione costante
tra la fase di design e la fase di manufacturing (ogni modifica apportata al design si tramuta in un
grado di complessità e in un’ottimizzazione differenti per quello che riguarda il processo
manifatturiero). Con un approccio tradizionale per il fatto che vengono richieste simultaneamente
più funzionalità diverse allo stesso prodotto diventerebbe complicato e dispendioso realizzare
prototipi fisici per poter testare ognuna di queste specifiche desiderate, mentre con il CAD si
realizza un prototipo (in cui ogni componente viene discretizzato in elementi finiti) e con il CAE lo
si mette alla prova, modificando eventualmente i componenti, i materiali con le relative proprietà
meccaniche e le condizioni di prova; inoltre, ogni risposta di un prototipo fisico deve essere
misurata, il che comporta costi per la sensoristica e difficoltà intrinseche, e la produzione di un
prototipo fisico ha anche un certo impatto ambientale. Il CAE quindi offre diversi vantaggi, che si
trasmettono tanto nel prodotto quanto nell’efficienza del ciclo produttivo.
Il CAE viene impiegato in aree diverse: può essere utilizzato per eseguire analisi di sforzo e
deformazione su componenti o assiemi secondo un approccio FEA (Finite Element Analysis), analisi
CFD (Computational Fluid Dynamics), analisi MBD (Multibody Dynamics) e MBK (Multibody
Kinematics) in cui si studia il comportamento di componenti aventi cinematismi e caratteristiche
differenti, analisi di simulazioni di processo (per operazioni come colata e formatura; si può ad
esempio stimare la forza necessaria per forgiare un componente e valutare se la pressa posseduta
dall’azienda è in grado di esercitarla) e ottimizzazioni di prodotto e di processo (in particolare,
ottimizzazione dei parametri di processo). Nell’approccio tradizionale, ad esempio, per produrre
un componente con lo stampaggio a iniezione si progetta il pezzo, poi si progetta lo stampo (e già
qui vi saranno problematiche che obbligheranno a tornare alla fase di progettazione) e infine si
progetta il processo, fase sulla quale ricadranno tutte le problematiche accumulate in precedenza;
agire sui parametri di processo però non consente di modificare la qualità del componente, quindi
bisognerebbe tornare alla progettazione dello stampo o addirittura al design del componente
generando dei costi molto elevati. Se invece si integrano fin da subito design del prodotto, design
dello stampo e progettazione del processo produttivo si riesce a risolvere in ambiente virtuale la
situazione problematica che si presenterebbe fisicamente con un approccio tradizionale. Dall’e-
Design emergono delle linee guida, ossia delle indicazioni, su come realizzare lo stampo e su quali
parametri di processo adottare per lo stampaggio.
Concetti fondamentali. Vediamo come funziona la simulazione numerica, sia essa di prodotto o di
processo. Innanzitutto presentiamo la differenza tra CAE e simulazione numerica: il CAE è un
approccio che prevede l’utilizzo di un ambiente virtuale per prevedere il comportamento del
componente o del processo e che va ad integrarsi al ciclo produttivo; la simulazione numerica,
intesa come simulazione agli elementi finiti, è invece una procedura che va a risolvere determinate
condizioni. Molti fenomeni ingegneristici possono essere espressi tramite equazioni di governo e
condizioni al contorno. Supponendo ad esempio di avere un centro di lavoro verticale (slide 18) e
di volerne verificare il comportamento (elastico, termico e di altra natura) abbiamo per ogni
fenomeno che vogliamo analizzare delle equazioni di governo e delle condizioni al contorno che
però sono equazioni differenziali non risolvibili analiticamente; ciò che si fa è discretizzare il
continuo in elementi finiti e procedere alla risoluzione delle equazioni con l’approccio agli
elementi finiti, assumendo consapevolmente il rischio di avere necessariamente delle
approssimazioni. Il problema viene dunque ricondotto ad un set di equazioni della forma:
[𝐾 ] ⋅ {𝑢} = {𝑓 }

Dove [K] è la matrice delle proprietà (come la rigidità, la conducibilità termica, la viscosità del
fluido, la permittività dielettrica, …), {u} è il vettore del comportamento (che contiene le incognite,
come gli spostamenti, la temperatura, la velocità del fluido, il potenziale elettrico, …) e {f} è il
vettore delle azioni (come la forza, il flusso termico, la forza corporea, la quantità di carica, …). Per
risolvere il sistema si dovrà invertire la matrice [K]:
{𝑢} = [𝐾 ]−1 ⋅ {𝑓 }

È molto difficile risolvere le equazioni algebriche per l’intero dominio, motivo per cui si dividerà il
dominio in un numero di elementi piccoli (per ridurre il numero di errori) e semplici. Per risolvere
le equazioni abbiamo una polinomiale che viene interpolata per ogni singolo elemento e ogni
singolo elemento ha un nodo di connessione con quelli ad esso adiacenti. Eseguita la suddivisione,
si impongono le proprietà e le condizioni al contorno e con il calcolatore si risolvono per ogni
elemento in cui è stato discretizzato il dominio le equazioni, ottenendo così le incognite del
vettore {u}.
Procedura del CAE. Il CAE si compone di tre diversi step: uno di pre-processing, uno di processing e
uno di post-processing. Nello step di pre-processing l’utente deve selezionare la tipologia di analisi
(strutturale, modale, …), la tipologia di elemento in cui discretizzare il continuo (2D o 3D, lineare o
quadratico, con elementi di tipo trave, piastra o solido; ogni scelta condiziona la soluzione delle
equazioni di governo: più accurata è la suddivisione migliore è il risultato ma maggiore è il tempo
di calcolo), le proprietà del materiale (modulo elastico, coefficiente di Poisson, coefficiente di
dilatazione termica, densità, …); successivamente deve realizzare i nodi, connetterli con gli
elementi e applicare le condizioni al contorno (vincoli e carichi). Nello step di processing vengono
risolte le diverse equazioni a carico del calcolatore. Nello step di post-processing l’utente osserva i
risultati ottenuti dalla simulazione e li valuta, conscio degli errori di approssimazione.
Benefici del CAE. Il CAE viene utilizzato nelle prime fasi di design del componente per simulare e
verificare in ambiente virtuale le prestazioni del pezzo e dell’intero processo produttivo, così da
acquisire fin da subito il maggior numero possibile di informazioni non solo sul prodotto ma anche
sul processo e da poter quindi risparmiare tempo e denaro. Il CAE inoltre permette di ridurre
eventuali errori nella fase di design e di disegno proprio perché con esso si riesce a sviluppare
tutto nella fase di sviluppo virtuale del prodotto. L’impatto dei parametri modificati può essere
valutato con maggiore accuratezza dato che non si ha la necessità di realizzare prototipi. Definito il
modello CAD e attribuite le proprietà del materiale, si può utilizzare lo stesso modello per
analizzare diverse sue funzionalità. Infine, l’utilizzo dell’ambiente virtuale favorisce lo scambio di
informazioni dato che CAD, CAE e CAM sfruttano tutte un linguaggio virtuale.
CAE applicato alla formatura dei materiali metallici. I processi di cui parliamo sono la formatura
su componenti lamiera (stampaggio, tranciatura, rullatura, …) e in generale processi bulk
(forgiatura, estrusione, …). Esistono diversi software che permettono di simulare questi processi,
che principalmente si dividono in multipurpose e dedicated: i software multipurpose sono multi-
fisici (quindi permettono di simulare non solo problemi di tipo meccanico ma anche di tipo
termico, fluidodinamico, elettrico, …), dando quindi un’elevata flessibilità operativa (anche per il
fatto che creano modelli numerici personalizzati così da simulare processi particolari con l’utilizzo
di materiali non convenzionali) e un ampio range di output; la loro complessità d’altro canto
comporta la necessità di avere operatori competenti ed esperti nel campo della modellazione
geometrica e richiede anche lunghi tempi sia di modellazione che di calcolo, e spesso è necessario
attivarsi dal punto di vista sperimentale per calibrare i modelli inseriti (ad esempio potrebbe
capitare di dover calcolare i coefficienti di una legge implementata dall’utilizzatore che descrive il
comportamento reologico del materiale). Vengono solitamente impiegati nell’ambito della ricerca
e dello sviluppo oppure per modellare processi produttivi molto particolari. I software dedicated
nascono invece con l’obiettivo di simulare un particolare processo produttivo o una ristretta
famiglia di processi produttivi, quindi sono solitamente noti i coefficienti delle leggi descriventi il
comportamento dei materiali (già esistenti), esistono dei modelli predefiniti e i tempi di
modellazione e di calcolo sono più ristretti (anche perché ci sono meno opzioni tra cui scegliere);
chiaramente la flessibilità di questi software è minore dato che non permettono di simulare altri
processi al di fuori di quelli per cui sono stati progettati.
I software dedicated a loro volta si dividono in base ai processi: i processi di deformazione della
lamiera (una dimensione è trascurabile rispetto alle altre due) e i processi di deformazione massivi
(nessuna delle tre dimensioni è trascurabile). Le lamiere vengono modellate come elementi shell a
3 o 4 lati rappresentanti la linea media delle lamiere stesse e i cui nodi non permettono di simulare
una rotazione attorno all’asse perpendicolare al piano della lamiere. I solidi vengono modellati
come elementi brick con facce a 3 o 4 lati e i cui nodi hanno tutti i gradi di libertà.
In tutti i software gli input sono costituiti dalla geometria del pezzo e degli utensili, dai parametri
di processo (cinematica degli utensili, campo di temperature operative, modelli di scambio
termico, modelli per i fenomeni di attrito, …), dalle proprietà del materiale (modello reologico,
densità, calore specifico, coefficiente di espansione termica, …) e dalle condizioni al contorno
(piani di simmetria, condizioni di simmetria rispetto a certi assi, forze, vincoli, …).
È importante avere chiaro qual è l’obiettivo della simulazione numerica quando si va ad
implementare un modello: le scelte che vengono fatte in fase di modellazione, infatti, influiscono
in maniera pesante sugli output del modello e sulla sua accuratezza. Gli output tipici di un modello
sono, per un processo di forgiatura, la geometria finale del componente, i carichi di formatura (un
cliente potrebbe richiedere un pezzo che per essere ottenuto può necessitare di un macchinario
che l’azienda non possiede), la pressione di interfaccia sugli utensili (se è eccessiva si può
intervenire sul design degli stampi al fine di diminuirla: ciò garantisce una vita degli stampi
maggiore), l’angolo di ritorno elastico (che in realtà è più interessante in un processo di piegatura
della lamiera), i campi termici (consentono di controllare qual è la temperatura del materiale
durante il processo: la forgiatura di un acciaio deve avvenire mentre questo si trova in fase
austenitica, quando i carichi sono minori e la formabilità del materiale è più alta), il flusso del
materiale (utile per capire la presenza di eventuali vuoti) e l’inizio della formazione di difetti,
cricche o cambiamenti microstrutturali.
Nei processi di deformazione tipicamente si lavora in campo plastico e quindi si può usare il
modello di materiale rigido e linearmente incrudente; se però interessa valutare il ritorno elastico
è necessario usare modelli che comprendano la parte elastica della curva sforzo-deformazione.
Computer Aided Quality (CAQ)
Parlando di Computer Aided Quality (CAQ) ci riferiamo a metodi per garantire la qualità del
prodotto in fase di progettazione e di produzione: infatti, oltre a progettare e a produrre un
componente dobbiamo garantirne la funzionalità, che spesso dipende fortemente dalla geometria
dei componenti.
Metrologia industriale. La metrologia industriale (o metrologia geometrica) ha un ruolo
fondamentale perché consente di concretizzare la comunicazione tra le tre entità chiave, che sono
la volontà di garantire una certa funzionalità dei diversi componenti meccanici (function), la
necessità di incorporare nella progettazione tramite le specifiche geometriche di prodotto
indicazioni utili a raggiungere questo obiettivo (quindi definizione di geometrie nominali e
tolleranze che devono essere rispettate; design) e l’utilizzo di queste informazioni per tenere sotto
controllo la produzione (ad esempio con il controllo statistico di processo su alcune grandezze
geometriche chiave e con tutte le attività che in generale facciamo per garantire la qualità della
produzione e quindi il buon funzionamento del prodotto nel momento in cui sarà utilizzato;
manufacture). Nella slide 5 è riportato un esempio che fa riferimento ad un sistema cilindro-
pistone per i motori a combustione interna: esso fa capire che nel tempo si è passati da una
semplice attenzione alle dimensioni (gioco tra pistone e cilindro) alla necessità di tenere sotto
controllo altri aspetti come ad esempio le tolleranze e le specifiche di forma, il corretto
posizionamento, la presenza di altri organi meccanici fondamentali e la verifica della superficie
microstrutturata interna del cilindro, il che ha aumentato la complessità del problema arricchendo
la complessità dei disegni tecnici e dei modelli CAD con tolleranze sempre più dettagliate. Un
secondo esempio è riportato nella slide 6 e vuole ribadire il fatto che vi sono molte iterazioni tra
progettazione e produzione: l’attività di progettazione produce disegni e specifiche che vanno
perfezionati, e la metrologia industriale è fondamentale per comprendere se le tolleranze
specificate sono in grado di garantire che un certo prodotto funzioni e sia affidabile; se così non
fosse dovremmo introdurre specifiche geometriche più calibrate sull’effettiva funzionalità che
vogliamo controllare, così da ridurre l’incertezza di specifica. La misurazione geometrica è
importante non solo in fase di sviluppo prodotto ma anche in fase di produzione, durante la quale
non si può pensare di usare solo strumentazioni sofisticate come le macchine di misura a
coordinate (CMM, che vedremo in seguito) ma anche strumenti più semplici che ad esempio
garantiscono tempi di misurazione molto brevi. In produzione si fa anche controllo statistico di
processo: tramite alcuni diagrammi si osservano gli andamenti nel tempo di alcune grandezze
significative misurate così da assicurarsi che la qualità della produzione sia costante e conforme
alle specifiche. La metrologia geometrica adotta tecnologie che vengono raggruppate in tecniche
di metrologia delle superfici (per caratterizzare lo stato della superficie fino a risoluzioni
nanometriche ed avere un controllo diretto delle funzionalità legate alla microgeometria della
superficie stessa), di metrologia della forma (per verificare requisiti di forma con accuratezze del
decimo di micrometro), di metrologia a coordinate (cioè l’insieme delle tecniche e delle
strumentazioni di misura in grado di rilevare la geometria tridimensionale dei componenti) e di
metrologia legata alle macchine utensili (ad esempio per verificare gli assi di un centro di tornitura
si può usare un interferometro laser).
Controllo della qualità nel processo di produzione industriale. In progettazione tipicamente si
rappresenta il prodotto con un modello CAD 3D o con disegni tecnici in cui viene documentato
l’intento del progettista tramite le specifiche geometriche di prodotto; quando ci avviamo verso la
produzione dobbiamo garantire che ciò che è stato incorporato nelle specifiche geometriche di
prodotto sia effettivamente realizzato nei prodotti fabbricati e quindi definiamo dei piani di
controllo che consentono di identificare quali caratteristiche del prodotto devono essere verificate
attraverso delle misurazioni; infine, quando effettivamente iniziamo la produzione dobbiamo
integrare la necessità di verificare che ciò che viene prodotto sia conforme alle specifiche e quindi
eseguiremo una serie di misurazioni su dei campioni. Tutto ciò si può pianificare con molto
anticipo, addirittura nelle prime fasi di sviluppo prodotto non appena si hanno a disposizione un
modello CAD 3D e le relative specifiche geometriche; il problema comunque non è banale perché
l’integrazione del mondo CAD con il mondo dei sistemi di misura impiegati nell’ambito della
metrologia industriale non è ancora stata perfezionata.
Programmazione dei sistemi di misura. Nella programmazione dei sistemi di misura il dato di
input è il modello tridimensionale del prodotto completo di specifiche geometriche d’interesse
(definite da un opportuno piano di controllo) e l’obiettivo è la programmazione dei percorsi che il
tastatore o la sonda deve effettuare sul pezzo al fine di acquisire le misurazioni, poi naturalmente
occorrerà valutare i risultati ottenuti confrontandoli con le specifiche e quindi determinare se il
prodotto è conforme o meno; oggi questo processo può essere altamente automatizzato.
Macchine di misura a coordinate (CMM). Nell’industria la tipologia di CMM più utilizzata è quella
a ponte (fisso o mobile), che consente di lavorare con prodotti di volume attorno al metro cubo;
esiste poi quella a pilastri, la quale invece permette di verificare componenti con dimensioni di
parecchi metri (è tipica di industrie aerospaziali); ancora, c’è quella a braccio orizzontale, che
normalmente si trova nella configurazione a doppio braccio, spesso utilizzata nell’industria
automobilistica; infine c’è quella per applicazioni speciali (macchina ottica, ad esempio). Queste
macchine consentono di raggiungere accuratezze anche sub-micrometriche. Come funziona la
misurazione? La sonda (che può essere a contatto ma può anche sfruttare un sistema di
triangolazione) entra in contatto con il pezzo e, tramite delle righe ottiche, ne rileva la posizione
attraverso le tre coordinate cartesiane; i punti vengono elaborati dai software di misura e
trasformati nelle dimensioni che si vogliono misurare.
Integrazione tra mondo CAD e mondo della misurazione industriale. In questo corso ci
concentriamo sugli aspetti computer aided, quindi non ci soffermeremo troppo sugli aspetti legati
alla misurazione bensì sull’integrazione tra mondo CAD e sistemi di misura a coordinate, che sono
oggi dotati di un proprio ambiente software per programmare il sistema di misurazione stesso.
Nella slide 14 sono rappresentate quattro diverse situazioni:

• L’approccio tradizionale consiste nel lavorare in ambiente CAD in maniera non integrata dal
punto di vista digitale con il mondo della misurazione industriale: ne deriva la necessità di
trasferire manualmente le informazioni tramite letture di disegni; il processo è dispendioso
in termini di tempo e si presta ad errori nell’interpretazione dei disegni
• Un primo approccio digitale richiede che il sistema CAD sia evoluto a sufficienza per poter
generare all’interno dell’ambiente CAD stesso il percorso di misura; questo viene poi
esportato nel software di misura dedicato, eseguito e valutato. Questo approccio ha dei
limiti, specialmente quando si vogliono utilizzare le tecnologie di misura più sofisticate:
ecco allora che la sua adozione è suggerita per casi semplici, in particolare quando si tratta
di fare misure dimensionali (e non verifiche di tolleranze geometriche) e quando vengono
utilizzate tecnologie di misura abbastanza consolidate (e non avanzate)
• Un secondo approccio digitale, che tra l’altro riscontra il più alto tasso di successo nel
trasferimento completo di informazioni dal mondo CAD al mondo della misura, prevede di
non trattare l’aspetto metrologico nell’ambiente CAD e anzi di utilizzare software di misura
evoluti: in questo caso si importa il modello CAD 3D nell’ambiente di misurazione e poi si
programma qui il sistema per eseguire e valutare le misurazioni
• Un terzo approccio digitale è adottato dalle grandi aziende utilizzatrici dei sistemi di misura
che non gradiscono l’idea di vincolarsi ad un particolare fornitore di tecnologia: in questo
caso si sfruttano pacchetti software indipendenti sia dai sistemi CAD sia dai sistemi di
misura per idealmente convertire il modello CAD in istruzioni di misurazione in formati
neutri che possano poi essere interpretati ed utilizzati su sistemi di misura di diversi
costruttori di strumenti
Sia i disegni tecnici che i modelli CAD rappresentano in maniera semplificata l’oggetto reale, quindi
danno informazioni parziali che non consentono di programmare in modo automatico i sistemi di
misura. I modelli 3D vengono importati nei software di misura e poi vengono trasformati in base
per la programmazione del sistema di misura; il trasferimento dei modelli da sistemi CAD a sistemi
di misura a coordinate tipicamente fa perdere alcune informazioni. Per i modelli esistono diversi
formati neutri ma anche soluzioni proprietarie; il formato neutro STEP garantisce nel tempo un
tasso di successo sempre più elevato nel trasferimento di informazioni geometriche, comprese le
tolleranze, verso i sistemi di misura a coordinate: le informazioni non importate dovranno essere
integrate manualmente dall’operatore. Alcuni problemi sono spesso legati al fatto che il sistema di
riferimento che il progettista ha implementato nel modello CAD è assolutamente inutilizzabile per
la misurazione perché sta in un punto che non ha corrispondenza fisica nel pezzo che si deve
misurare. In generale il modello CAD può essere utilizzato come base per la programmazione di
sistemi di misura a coordinate; la successiva esecuzione in modalità automatica della misurazione
fa acquisire dei risultati che, confrontati con le informazioni relative alla geometria nominale,
consentono di verificare se il pezzo è conforme o meno alle specifiche.
Programmazione di una macchina di misura a coordinate. Come prima operazione si importa il
modello CAD 3D del pezzo che dev’essere misurato, poi occorre rappresentare il sistema di misura
(in questo caso una macchina di misura a coordinate), il sistema di fissaggio del pezzo e la
geometria del sistema tastatore e, fatto questo, si possono infine programmare i percorsi di
misurazione, sia quelli di avvicinamento al pezzo che quelli di scansione. È anche possibile fare
verifiche di collisione e definire dei volumi di sicurezza all’esterno dei quali la macchina si può
muovere in libertà.
Benefici dell’integrazione tra mondo CAD e mondo della misurazione industriale. L’unione dei
mondi CAD e di misura è un mezzo di concurrent engineering: possiamo infatti definire anche i
dettagli dell’attività di misurazione fin dalla fase di progettazione, e in più se si apportano delle
modifiche è possibile propagarle in modo semplice e semi-automatico dai modelli CAD alle
programmazioni delle macchine di misura. Tutto ciò viene fatto non solo per guadagnare tempo (e
quindi per non dover aspettare l’arrivo del pezzo per effettuare la programmazione a bordo
macchina) ma anche per ottimizzare l’utilizzo della strumentazione (che è molto costosa e quindi è
bene che abbia tempi improduttivi ridotti e che non sia danneggiata da collisioni), per valutare in
modo accurato la durata delle attività di misurazione e per pianificare meglio le misurazioni.
Finora abbiamo parlato di integrazione CAD-misura a monte della misurazione, ma possiamo
integrare anche a valle: dopo aver effettuato la misurazione otteniamo dei risultati che possono
essere riversati in modo automatico con opportune interfacce nei sistemi che le aziende utilizzano
per gestire i dati di prodotto (cioè sistemi gestionali come SAP), e in questo modo si è in grado di
capire per ciascun prodotto ispezionato quali sono i risultati delle misurazioni e di mettere a
disposizione questi ultimi a svariati livelli in ambito aziendale.
Sistemi di misura a coordinate (CMS). Sono sistemi di misura a coordinate tutti quei sistemi che
sono in grado di acquisire punti sulle superfici di nostro interesse; una prima classificazione è
innanzitutto tra sistemi cartesiani e non-cartesiani: tra i secondi troviamo i bracci di misura, che
acquisiscono punti con ad esempio un tastatore a contatto la cui posizione è nota dalla lunghezza
dei segmenti e dalle misure angolari rilevate dagli encoder; sono sistemi portatili, che possono
essere trasportati dove serve ma che mediamente sono meno accurati rispetto alle macchine di
misura a coordinate (si parla infatti di un ordine di grandezza del centesimo di millimetro).
Possiamo poi trovare soluzioni di acquisizione di punti con contatto fisico e senza contatto fisico
tra la sonda e il pezzo per sistemi sia cartesiani (macchine che eseguono misure a partire dal
rilevamento di un’immagine del componente) che non-cartesiani (macchine che usano tecnologie
di misura di tipo triangolazione laser). Volendo fare una classificazione delle tecniche utilizzate
per le misurazioni industriali di tipo geometrico possiamo distinguere innanzitutto tra tecniche a
contatto e tecniche senza contatto; tra quelle a contatto vi è l’acquisizione con strumentazione
manuale da banco (calibri e micrometri) e quella con CMM/CNC, che può rilevare singoli punti o
scansionare in continuo con delle linee; tra quelle senza contatto vi sono le tecniche acustiche,
magnetiche, a raggi X e ottiche (le più diffuse a livello industriale), tra cui troviamo la
triangolazione laser e la proiezione di luce strutturata. I sensori ottici si possono classificare in
metodi 1D, 2D e 3D in base alla necessità di movimentazione o meno per effettuare la misurazione
in modo completo: i metodi 1D acquisiscono un solo punto e quindi devono essere spostati
tramite qualche dispositivo nelle altre due direzioni per effettuare le misurazioni mancanti
(esempio: triangolazione laser di singolo punto), i metodi 2D acquisiscono un’intera curva
(esempio: lama di luce laser) e i metodi 3D acquisiscono un’intera superficie tridimensionale senza
che vi sia movimentazione fisica tra pezzo e strumento (esempio: proiezione di luce strutturata).
Vale la pena fare un cenno anche alla tecnologia a raggi X: essa viene impiegata da almeno due
decenni in ambito industriale per eseguire l’analisi dei materiali, ma di recente i raggi X vengono
impiegati in ambito industriale per la misura di dimensioni e la verifica di tolleranze geometriche di
componenti meccanici; con la tecnologia a raggi X si può scansionare un oggetto e confrontarlo
con il modello CAD 3D per rilevare gli scostamenti dalle dimensioni nominali (il vantaggio della
tecnologia a raggi X è che essa può scansionare anche zone normalmente inaccessibili alle
tecnologie usuali), ma si possono anche scansionare prodotti assemblati per vedere le zone in
effettivo contatto e scansionare prodotti per rilevarne le porosità interne o l’orientamento,
l’integrità e le dimensioni delle fibre. A livello generale, in un confronto tra tecniche di misura
senza contatto (con riferimento principalmente ai sistemi ottici) e tecniche di misura a contatto le
prime hanno come maggiori vantaggi rispetto alle seconde la rapidità di acquisizione e la
numerosità di informazioni (e quindi il numero di punti che compongono il modello digitale) ma
hanno come limite l’accuratezza dato che in genere non raggiungono le prestazioni metrologiche
delle tecniche a contatto. Esistono molteplici applicazioni dei sistemi di misura senza contatto in
ambito manifatturiero: la tolleranza naturale di un processo di forgiatura si misura in millimetri o,
al più, in decimi di millimetro, quindi un sistema ottico è assolutamente adeguato per digitalizzare
in pochi secondi una pala per turbina forgiata e vedere se i due lati presentano un’abbondanza e/o
una carenza di sovrametallo rispetto ai riferimenti utilizzati per la lavorazione, ad esempio; un
pezzo come questo sarebbe da scartare, e invece con le tecniche digitali utilizzate correntemente
nella metrologia industriale si può recuperare il pezzo: facendo un best fit rispetto alla geometria
finale da ottenere possiamo calcolare degli offset (delle correzioni) da apportare rispetto alle
superfici di allineamento utilizzate per la lavorazione per asportazione (che segue l’operazione di
forgiatura), e ottimizzando gli offset che utilizzeremo per allineare il pezzo sulla fresatrice a 5 assi
possiamo recuperare il pezzo e migliorare l’efficienza della produzione. La metrologia industriale si
impiega anche durante le fasi produttive (e non solo alla fine della produzione) per verificare che i
componenti siano lavorati correttamente. Un’altra applicazione è quella di reverse engineering,
per la quale si ricrea la geometria di un componente acquisendo vari punti e costruendone un
modello CAD 3D: ciò può essere utile per sviluppare una nuova parte a partire da un prototipo,
modificare un componente esistente di cui non è disponibile un modello CAD 3D, utilizzare
tecniche moderne come la produzione additiva e la programmazione CAM e infine fare la
manutenzione di stampi (di forgiatura, ad esempio). Le operazioni di reverse engineering
prevedono una sequenza di fasi successive, che a meno di particolarizzazioni per specifiche
operazioni o specifici software sono le seguenti: si esegue il setup dello scanner 3D e si prepara il
pezzo da analizzare, si digitalizza il componente con un dispositivo di misura a coordinate
ottenendo una nuvola di punti, si filtra la nuvola eliminando i punti associati ad informazioni
ridondanti, si allineano diverse viste del componente, si fanno operazioni di modellazione
costruendo delle geometrie di supporto e delle superfici ed ottenendo così il modello CAD 3D del
componente iniziale e infine si confronta il risultato dell’operazione di modellazione con
l’informazione iniziale (ossia la nuvola di punti) per verificare l’accuratezza del modello ricostruito;
un’ulteriore fase potrebbe essere quella di confrontare il pezzo reale rispetto al modello CAD che è
stato ricostruito utilizzando un sistema di misura che magari è più lento ma più accurato (come
una macchina di misura) con l’obiettivo di capire quanto fedele è la rappresentazione digitale
rispetto al componente di partenza.
Sistema GPS. In riferimento alla qualità di un prodotto, quello che si tiene a precisare è che tra
l’80% e il 90% delle funzionalità e dei test che si devono fare sul prodotto stesso sono analisi
dimensionali. Quando si parla di sicurezza nella produzione si parla di analizzare le specifiche
tecniche, le quali vengono utilizzate per la produzione di un pezzo e devono essere poi verificate
nel momento in cui si va ad analizzare se il prodotto finito è funzionale o meno; dal confronto si
ottengono informazioni sull’eventuale conformità del prodotto alle specifiche tecniche volute dal
progettista. La specifica e la verifica sono attività completamente separate all’interno di
un’azienda, però comunque devono essere messe a contatto per garantire il successo dell’azienda
stessa. I valori di tolleranze geometriche riportate in un disegno tecnico sono in continua
diminuzione (circa un ordine di grandezza ogni 50 anni), che va di pari passo con l’aumento
dell’accuratezza dei sistemi di misura. Le macchine di misura possono essere fornite con diversi
sensori, ed è l’applicazione a determinare il sensore da usare: ad esempio, componenti in plastica
possono essere facilmente deformati o danneggiati da sistemi tattili e quindi entrano in gioco dei
sistemi ottici (telecamere, sensori a linea laser, …).
Il sistema GPS è una struttura piramidale nella quale vengono riportate norme fondamentali,
norme generali e norme applicative del sistema ISO, il quale si contrappone al sistema ASME
americano. In cima alla piramide ci sono la ISO 8015 e la ISO 14638, che definiscono le regole del
sistema GPS: nella ISO 8015 sono definite le regole per il sistema GPS stesso; tra le più importanti
vi sono il principio di indipendenza (secondo cui ogni specifica geometrica all’interno di un disegno
tecnico dev’essere considerata indipendentemente dalle altre specifiche geometriche), le
condizioni di riferimento (secondo cui la temperatura standard di riferimento, che dà significato
alle tolleranze geometriche indicate nei disegni tecnici, è di 20°C, così come invocato nella ISO 1) e
il principio di dualità (secondo cui la specifica e la verifica sono indipendenti tra loro). Nella ISO
14638 viene riportata la matrice ISO, che è suddivisa nelle parti di specifica, conformità e verifica e
che viene riportata e opportunamente calcolata alla fine di ogni norma ISO per individuarne il
campo di applicazione. Nella parte centrale della piramide abbiamo poi le norme generali, che
riportano le definizioni e la definizione del modello per la verifica geometrica, e alla base della
piramide abbiamo le norme relative alle applicazioni. Le diverse norme vengono suddivise anche
in base a cosa si vuole verificare all’interno di un prodotto, come la struttura (dimensione, forma,
localizzazione, orientamento dei diversi componenti) e la superficie (ondularità, rugosità). Nel caso
in cui andiamo ad analizzare gli errori dimensionali di un pezzo dobbiamo tenere conto del fatto
che le dimensioni vengono suddivise in dimensioni locali, globali, calcolate e statistiche: l’errore
locale di distanza punto-punto viene calcolato quando si ha la possibilità di collezionare tutti i
punti del profilo di un cilindro e di definirne il centro gaussiano, poi si definiscono il diametro
minimo e il diametro massimo e si verifica che entrambi siano all’interno della specifica
geometrica definita dal disegnatore (tra l’altro, quando non è presente nessun’altra specifica nel
disegno tecnico allora di default un diametro dev’essere misurato come un sistema punto-punto);
il sistema GPS però pecca nel non definire uno standard secondo cui definire l’interpolazione tra
due punti di acquisizione successivi per poter poi andare ad individuare il centro gaussiano del
profilo acquisito. Esistono diverse definizioni del diametro (diametro gaussiano, media del profilo
misurato; diametro del massimo cerchio inscritto; diametro del cerchio circoscritto), e questo ci fa
capire come le diverse definizioni e i diversi simboli applicabili in un disegno tecnico producano
risultati differenti: ecco allora che è importante specificare nel disegno tecnico qual è la
dimensione da valutare, che rappresenta anche la funzionalità del componente stesso. Per quanto
riguarda l’ISO 1101, al suo interno sono riportati diversi simboli, inseriti anche nei disegni tecnici,
che vengono suddivisi in errori di forma, di orientamento, di localizzazione e di run-out.
Applicazione delle norme GPS. Si sottolinea innanzitutto che le normative GPS tentano di
eliminare le libere interpretazioni all’interno di un disegno tecnico, motivo per cui sono nati diversi
tools che aiutano nell’obiettivo. Per quanto riguarda le applicazioni della norma, ad esempio con la
rielaborazione della ISO 1101 è stata introdotta la possibilità di definire le superfici su cui misurare
la linearità: il misuratore così sa già quali sono le linee per l’analisi di linearità, fornite dal
disegnatore tecnico il quale si è proposto una certa funzionalità della superficie. La ISO 1101
presenta anche una tabella che istruisce su come completare l’indicatore delle tolleranze
geometriche: prima di tutto si definisce un simbolo, poi la zona e la caratteristica geometrica e
infine il sistema di riferimento per la tolleranza stessa; ogni simbolo ha la sua funzione e ha lo
scopo di ridurre le ambiguità nell’interpretazione del disegno tecnico. Il filtro, molto importante
nella verifica di una caratteristica geometrica, va definito all’interno della tolleranza stessa e può
trasformare notevolmente le misurazioni fatte su un pezzo; non è stato definito alcun default per
quanto riguarda il filtro, il diametro del tastatore per la misura di un pezzo e il metodo di
associazione; il filtro influenza molto la definizione della linearità e delle diverse specifiche
geometriche e tecniche di un disegno tecnico, pertanto va definito per evitare confusioni. Per il
filtro non è possibile avere un default nel sistema GPS, pertanto è indefinito e dev’essere dato dal
disegnatore tecnico per evitare l’ambiguità della tolleranza geometrica stessa. La tolleranza
geometrica della slide 46 è una tolleranza di linearità con riferimento a linee parallele al piano A;
0,3 mm è il valore della tolleranza, quindi è il lasso all’interno del quale si deve trovare il profilo
misurato; il codice “G08-” indica che il filtro da usare è un filtro gaussiano passa-basso (sarebbe
stato passa-alto se il - si fosse trovato prima della G) di valore 0,8; la seconda lettera G definisce il
metodo di associazione del profilo misurato: in questo caso si parla di un metodo associativo
gaussiano (sappiamo che per le tolleranze di forma l’elemento associativo di default sarebbe
l’elemento Minimax). Sono presenti diverse norme ISO specifiche per gli errori di linearità,
planarità, rotondità e cilindricità. Ogni tolleranza geometrica dev’essere specificata in un disegno
tecnico stabilendo un certo default (globale o per singola tolleranza). La tolleranza di rotondità è la
distanza radiale minima tra due cerchi concentrici che contengono tutto il profilo acquisito; la
norma ISO 17450 definisce le sezioni su cui applicare, su un cilindro, la rotondità stessa: sulla
geometria misurata si deve definire l’asse gaussiano e poi le sezioni da considerare per misurare la
rotondità sono quelle ad esso perpendicolari (non si deve usare l’asse meccanico di rotazione della
macchina di misura); nella slide 54 si vede un esempio di tolleranza geometrica di rotondità: il
filtro qui presente ha codice “CB1-” dove “CB” per “closing ball” e “1” è il diametro del tastatore
con cui misurare la forma di rotondità; c’è poi un secondo filtro gaussiano passa-basso e un
metodo associativo gaussiano. Un elemento fondamentale nella misura della rotondità è il
numero minimo di punti utilizzati per la misurazione stessa. La tolleranza di parallelismo richiede
la definizione del valore della tolleranza, del filtro, l’elemento associativo dei diversi punti misurati
delle diverse sezioni per ottenere l’asse gaussiano (che dev’essere contenuto nel cilindro definito
dalla tolleranza) e i riferimenti.
Product Manufacturing Information. Nel passato il processo di produzione di un prodotto era
molto lineare e le varie fasi di progettazione, produzione e misura erano distinte e poco integrate
tra di loro: la progettazione (CAD) era incentrata sulla funzionalità del prodotto, l’update dei
disegni tecnici non era chiaro e richiedeva tempi e costi consistenti anche perché la
documentazione poteva presentare magari un modello CAD 3D e le tolleranze 2D; per la
produzione (CAM) si usavano modelli CAD su cui venivano generati modelli CNC dato che non
contenevano informazioni per la produzione, inoltre servivano programmatori CNC con esperienza
che andassero a definire i parametri di lavorazione considerando le tolleranze che andavano
rispettate; per quanto riguarda la misurazione (CAQ) si dovevano rilevare tutte le tolleranze dal
disegno tecnico per poi trascriverle sul programma di misura (con perdite di tempo, gran
dispendio di energie, errori di trascrizione, ambiguità, …), quindi anche qui erano richiesti
programmatori esperti che compensassero la mancanza di informazioni. Nel passato, poi,
l’elaborazione e il controllo erano una semplice checklist “OK/not OK” per la consegna e
comunque i risultati erano di difficile interpretazione (pertanto non potevano essere usati per
migliorare la produzione o il disegno tecnico stesso); il pezzo che veniva consegnato veniva
montato e solo in sede di montaggio e test se ne valutava la correttezza. Nel futuro, invece, ciò
che ci si propone anche attraverso le PMI (Product Manufacturing Information) è una conformità
della comunicazione all’interno dell’azienda tra disegnatore, produttore e metrologo, così da
ottenere una sinergia tra processi che permette di ridurre il tempo di produzione, di consegna e di
processo necessario per il miglioramento dei prodotti stessi. La tendenza per quello che riguarda
la metrologia è la “digitalizzazione”, nel senso che i dati e le informazioni vengono gestiti in modo
globale e veloce così da poter essere messi subito a disposizione della produzione e della
costruzione al fine di migliorare processo e prodotto. Il termine “digitale” nasce dalla teoria del
segnale; attualmente il termine “digitalizzazione” intende tutto quel processo di dati scambiati
all’interno di un’azienda che seguono il reparto produttivo dalla costruzione alla produzione fino al
controllo della qualità di un certo pezzo. La produzione digitale è una modalità di produzione che
crea, gestisce, memorizza, distribuisce, processa e comunica le informazioni in forma digitale. Sulla
base di questo trend si sono sviluppati, all’interno delle diverse agenzie di sviluppo del settore,
degli standard che supportano la definizione del modello matematico al quale vengono anche
associate le caratteristiche geometriche e le tolleranze del modello stesso; il sistema americano
basa la produzione sull’aggiunta di informazioni note come PMI (informazioni che vanno a
supportare il processo di produzione e di misura del pezzo stesso; includono le dimensioni e le
tolleranze geometriche e anche l’inspection plan) al modello matematico. All’interno della
produzione di un prodotto il sistema di misura a coordinate permette di prendere le informazioni
in input, che sono le PMI, per definire il programma di misura, effettuare la misura nella pratica e
valutare i risultati derivanti dall’inspection plan; i risultati in output possono essere utilizzati per
migliorare il programma di realizzazione del pezzo o il design del pezzo stesso. Gli standard
internazionali utilizzati al momento per supportare le PMI, quindi le geometrie associate alle
tolleranze sul modello matematico, sono la ISO 16792, la ASME 14.41 e la JEITA ET-5102 (versione
1); in tutte queste norme vengono definiti dei sistemi di specifica, ossia come applicare le diverse
tolleranze sul modello matematico, e non viene invece affrontato il sistema di verifica. Lo scopo
della ISO 16792 è quello di definire i requisiti per la preparazione, revisione e presentazione del
prodotto digitale secondo due metodi, ossia quello che contiene solo il modello e quello che
contiene modello e disegno tecnico in formato digitale; la norma definisce la visualizzazione delle
tolleranze geometriche in un modello 3D per supportare un sistema CAD (anche la ISO 1101, in cui
vengono definite le tolleranze geometriche, nella sua ultima revisione ha introdotto la
visualizzazione delle tolleranze in modello 3D). Il sistema PMI consente al disegnatore di
implementare le tolleranze di forma e dimensionali sul modello CAD; tali informazioni vengono
usate nella produzione e nella misura del pezzo stesso. Il modello CAD viene usato nella
produzione e nella misurazione; i risultati della misurazione possono essere usati per migliorare sia
la produzione che la costruzione del prodotto. Lo scopo dell’utilizzo delle PMI è anche quello di
ridurre gli errori dovuti all’incertezza derivante dalla definizione del measuring plan (piano di
misura) e dall’interpretazione dell’operatore, di velocizzare la generazione del piano di misura e di
aumentare l’efficienza della misurazione in generale. Modello matematico e disegno tecnico
vengono dunque fusi in un unico formato che permette di visualizzare non solo le dimensioni 3D e
le geometrie del pezzo ma anche le relative tolleranze geometriche.
Per quanto riguarda la programmazione di una macchina CMM possono essere seguite due vie: la
prima via è mediante disegno tecnico e modello matematico e la seconda via è mediante un
modello matematico con le PMI per la generazione automatica del piano di misura; questa
seconda via è più facile, veloce, affidabile (in quanto esente da errori derivanti dalla trascrizione e
dall’errata interpretazione delle tolleranze geometriche) e supporta diversi software CAD. La
generazione di un piano di misura viene affrontata in tre diverse fasi: la prima è l’importazione del
modello matematico con le relative PMI, che vengono riconosciute dal software; la seconda è la
selezione delle tolleranze geometriche da generare nel piano di misura; la terza è l’importazione e
la generazione delle caratteristiche geometriche e degli elementi di misura in modo automatico. Il
software CALYPSO lavora su due livelli: la riproduzione degli elementi di misura (piani, cilindri,
cerchi, assi, …) e la valutazione delle caratteristiche geometriche relative agli elementi di misura.
Mediante l’importazione delle PMI e la generazione automatica del piano di misura si assiste
quindi alla generazione automatica delle caratteristiche geometriche e degli elementi di misura,
inoltre le tolleranze vengono importate automaticamente dal modello CAD insieme al nome del
misurando e della tolleranza geometrica; l’utilizzatore invece ha la necessità di definire la strategia
di misurazione per gli elementi di misura (se questa non viene definita automaticamente), i filtri
(anche se questi non sono definiti né nel disegno tecnico/nelle PMI né come pre-settings del
programma), il sistema di coordinate base dell’elemento e un cubo di clearance plane all’interno
del quale viene collocato il pezzo per creare in modo automatico il percorso del tastatore
scongiurando collisioni tra tastatore e pezzo. Si capisce allora che l’utilizzo del modello CAD con le
relative PMI permette di risparmiare notevole tempo (fino all’80%) nella produzione o nella
realizzazione del piano di misura, e per di più è anche indipendente dall’utilizzatore (garantendo
una maggior sicurezza) ed è compatibile con i più comuni sistemi CAD sul mercato. L’operatore
deve configurare il tastatore: in base a quanto richiesto dal disegnatore tecnico (se specificato) o
in base alla proprie conoscenze egli deve definire la geometria e il diametro del tastatore e deve
fissare il pezzo in modo appropriato così che l’orientamento del tastatore e l’orientamento del
programma di misura coincidano. Dopo aver effettuato la misurazione del pezzo si ottiene un
protocollo di misura in cui vengono riportate le diverse caratteristiche geometriche, il loro valore
nominale, le loro tolleranze, la deviazione del valore misurato rispetto al valore nominale e
l’informazione su quali caratteristiche geometriche sono in tolleranza o meno; ciò può essere fatto
in formato digitale oppure direttamente sulle PMI, così da informare direttamente la produzione o
il progettista su quali siano le tolleranze problematiche senza dover leggere e interpretare
protocolli di misura. La distanza tra due piani va definita come distanza tra le due superfici
considerate perché il tastatore ha la possibilità di tastare queste due superfici (se questa distanza
viene definita attraverso una o più linee non si ha la possibilità di impiegare un sensore tattile); per
quanto riguarda un cilindro, se si vuole indicarne la forma come specifica geometrica in un sistema
CAD si hanno due possibilità: la si può associare all’asse del cilindro oppure al mantello del
cilindro; nel primo caso quando si importa questa specifica geometrica nel programma di misura
compare un errore perché non è possibile assegnare ad un asse un elemento geometrico come la
forma cilindrica, mentre nel secondo caso si ha la possibilità di tastare e misurare il mantello del
cilindro per andare a definire la caratteristica geometrica come tolleranza. All’interno del software
di misura si può simulare il tastatore e il processo di misura così da ottimizzare i tempi e da
migliorare il programma di misura senza occupare la macchina di misura; per facilitare la
realizzazione del programma di misura è anche possibile definire strategie di misura specifiche per
gli elementi geometrici importati direttamente dal modello CAD con le rispettive PMI: ad esempio,
in base al valore del rapporto L/D di un cilindro si andrà a misurare un diverso numero di sezioni.
La definizione a priori del programma di misura consente una forte automatizzazione del piano di
misura stesso e anche un notevole risparmio di tempo per il fatto che non serve una
programmazione complessa della strategia di misura. Con l’utilizzo delle PMI cosa funziona al
100%? Vengono importati e riconosciuti in modo appropriato dal programma di misura
diametri, distanze e tutte le caratteristiche derivanti dal sistema GPS; al contrario, tra gli elementi
da sistemare manualmente vi sono dimensioni dovute a geometrie complesse e a sistemi non
ancora implementati secondo normativa, e in alcuni casi occorre anche definire i sistemi di
riferimento indicati nelle tolleranze. La programmazione che include le PMI al confronto con la
programmazione classica (senza PMI) produce un notevole guadagno di tempo (considerando che
nel tempo calcolato per la programmazione con PMI viene inclusa anche la quota parte
riguardante l’aggiustamento della strategia di misura e la definizione del tastatore,
dell’allineamento del pezzo, …). Naturalmente la corretta interpretazione delle PMI è legata alla
corretta implementazione delle PMI sul modello CAD, perciò è fondamentale l’interazione tra
disegnatore e metrologo.
Caso studio: il progetto HOTGAUGE. Il progetto HOTGAUGE viene qui introdotto al fine di fare un
esempio di come le misurazioni a coordinate possono aiutare molto ad ingegnerizzare un processo
produttivo; il contesto è la produzione di pale per turbina dalla geometria complessa e realizzate
in materiali molto difficili da lavorare. I prodotti si ottengono con una catena di processo che inizia
da una forgiatura a caldo di sbozzati che richiedono tempi piuttosto lunghi per il raffreddamento,
e tra l’altro in questi processi è fondamentale controllare le caratteristiche metallurgiche per
ottenere le proprietà desiderate. Le produzioni avvengono a lotti di produzione di 50-100 pezzi in
cui il tasso di difettosità dei prodotti forgiati può anche superare il 30%, quindi per ridurre lo
scarto è opportuno avere informazioni di ritorno al processo quanto più rapidamente possibile;
dato che ciò contrasta con l’attesa di lunghi tempi dovuti al raffreddamento, il progetto nasce
proprio con l’obiettivo di velocizzare il trasferimento di informazioni a partire dai prodotti forgiati.
La forgiatura avviene in più step, quindi durante il processo stesso sarà possibile variare i
parametri di processo (regolazione degli stampi, forze, numero di colpi da assestare al forgiato per
ottenere la geometria desiderata, …). Il problema è che in fase di raffreddamento tipicamente si
hanno fenomeni di distorsione geometrica delle pale dovuti al fatto che i percorsi di
raffreddamento non sono sincronizzati su tutta la pala. La conseguenza è che si devono aumentare
i sovrametalli, il che comporta la necessità di intervenire in modo più significativo con le
lavorazioni per asportazione successive; la tipologia di materiali da lavorare però fa sì che anche
una piccola quantità di sovrametallo in meno da lavorare comporti un notevole impatto
economico positivo per quanto riguarda la lavorazione per asportazione stessa. La catena di
processo prevede che si parta da una forgiatura a caldo seguita da un raffreddamento e che infine
si esegua una lavorazione per asportazione. Tipicamente le misurazioni geometriche sono fatte
una volta completato il raffreddamento a valle della forgiatura (per controllare che vi siano i
sovrametalli previsti e che il pezzo non sia distorto in maniera eccessiva) e al termine della
lavorazione stessa; l’idea è quella di anticipare le misurazioni così da poter valutare la conformità
geometrica del forgiato proprio al termine dell’operazione di forgiatura, eseguendo misure a caldo
(non solo: si vorrebbero anche fare misurazioni a caldo all’uscita della fornace e quindi a monte
del processo di forgiatura, così da conoscere meglio l’effettiva geometria degli sbozzati che
preleviamo dal forno e inseriamo tra gli stampi). Le misure di temperatura a caldo in realtà
permettono non solo di intervenire sul processo di forgiatura aggiustandone i parametri di
processo ma anche di migliorare ciò che avviene a valle: se conosciamo la geometria a fine
forgiatura possiamo cercare di governare i processi di raffreddamento ottimizzandone i percorsi.
Le misurazioni a caldo possono certamente essere eseguite con strumenti da banco quali i
comparatori ma ciò rappresenta un problema in termini di ripetibilità, accuratezza e sicurezza; la
soluzione migliore è costituita dalla metrologia non a contatto, che può sfruttare due principi di
misura: il tempo di volo e la triangolazione laser. L’analisi di quello che era lo stato dell’arte nei
riguardi della metrologia non a contatto insieme al fatto che i prodotti in questione erano ad
elevato valore aggiunto ha portato a concludere che era necessario investire in vere misurazioni
3D per il fatto che misurare il prima possibile durante la produzione poteva comportare importanti
benefici tra cui la riduzione delle lavorazioni per asportazione successive. Il progetto ha portato a
sviluppare un sistema di misurazione che include fino a otto sensori a triangolazione laser ciascuno
dotato di lama laser in grado di rilevare il profilo del componente (spostato all’interno dello
scanner attraverso un opportuno sistema di movimentazione) e dei pirometri per misurare in
modo sincronizzato con l’acquisizione geometrica la temperatura superficiale del componente. Dai
sensori rileviamo un’immagine da cui si estrae un profilo, e la combinazione di profili diventa una
rappresentazione della sezione nella posizione i-esima del componente; se l’aspetto geometrico
viene sincronizzato con l’informazione di temperatura si ottiene una nuvola di punti avente
informazioni sulla temperatura superficiale: il modello tridimensionale frutto della misurazione, in
genere alleggerito tramite opportuna meshatura, viene allineato ad un modello di riferimento (un
modello CAD o un’altra mesh che rappresenta lo stesso componente ad esempio in un diverso
stadio di raffreddamento), e a questo punto possiamo estrarre le informazioni che ci interessano
come la mappa degli scostamenti su sezioni significative oppure 3D e altri parametri significativi
(ad esempio per valutare la distorsione geometrica di una pala è interessante estrarre per l’i-esima
sezione parametri di traslazione in x, in y e in z o di rotazione e confrontarli con quelli della sezione
ideale). I sensori di misura dimensionale vengono mantenuti ad una certa temperatura mediante
un sistema di raffreddamento combinato ad aria e ad acqua. Uno dei problemi era quello di
combinare i profili acquisiti dagli otto sensori in un unico profilo: con tecniche di fusione dei dati è
stato comunque possibile mediare le informazioni derivanti da eventuali dati ridondanti per
ottenere, anche mediante opportuni filtri, un profilo pulito. Un secondo problema è rappresentato
dal fatto che i sensori emettono lame di luce laser che non sono tutte complanari e che il prodotto
scansionato non è a sezione costante: ci può infatti essere un disallineamento di tipo offset
(distanza tra i piani) o di tipo angolare (piani inclinati uno rispetto all’altro); la soluzione trovata è
in grado di correggere i dati acquisiti dai singoli sensori prima di combinarli. Il risultato è che nelle
zone a maggior pendenza si è passati da errori anche di 0,5 mm (prima di applicare il metodo, con
la sola registrazione meccanica dei sensori) ad errori 5-10 volte più piccoli (dopo l’applicazione del
metodo), assolutamente compatibili con l’accuratezza dei sensori e le condizioni di misura. Per
dimostrare l’accuratezza del dispositivo è necessario cercare di rappresentare al meglio le
condizioni che si manifestano durante la misurazione e utilizzare campioni tarati di diversa
lunghezza all’interno del volume di misura e dimensionalmente stabili alle elevate temperature
con un coefficiente di dilatazione termica che sia il più basso possibile per minimizzare gli errori
della prova: si è dunque deciso di usare delle piastrine in vetroceramica di dimensione nota
particolarmente stabili in un certo range di temperatura; esse sono state misurate su una
macchina di misura a contatto cercando di replicare l’analisi dati su entrambi i dispositivi
(macchina di misura a contatto e dispositivo ottico). I risultati ottenuti evidenziano scostamenti dal
valore di riferimento (misurazioni ottenute su macchina di misura a contatto) dell’ordine dei 5
centesimi di millimetro, che è un risultato molto positivo se si considera che le prestazioni attese
del sistema in termini di errore massimo ammissibile erano definite come 2 decimi di millimetro.
Con i dati ottenuti è possibile condurre analisi di distorsioni: tipicamente si definisce una porzione
della nuvola di punti che rappresenta l’allineamento del pezzo e, rispetto a questo sistema di
riferimento, si studia una certa sezione della pala osservando come questa è distorta. Per le analisi
fatte nel progetto il riferimento era la prima acquisizione, rispetto alla quale si osservavano le
successive distorsioni: chiaramente si è dovuto tener conto della dilatazione termica e quindi
correggere in modo dinamico la posizione della sezione in funzione della temperatura; si sono
ottenuti grafici che diagrammano l’andamento di un parametro di distorsione (come la rotazione
di torsione) al variare della temperatura del pezzo. Sono stati studiati anche diversi sistemi di
raffreddamento delle pale, realizzando grafici temperatura-tempo al variare del sistema di
raffreddamento. Questo caso studio ha dunque mostrato una modalità di implementazione della
triangolazione laser ad alta velocità che ha permesso di sviluppare un nuovo sistema di misura a
coordinate in grado di effettuare misurazioni a pochi istanti dalla forgiatura (ossia quando le
temperature sono elevate) con un’accuratezza molto buona.
Computer Aided Manufacturing (CAM)
In questo capitolo relativo al Computer Aided Manufacturing (CAM) vedremo una breve
introduzione, la descrizione della configurazione hardware delle macchine a controllo numerico, il
fissaggio dei componenti, come creare lo zero macchina e le strategie di lavorazione.
Introduzione. Iniziamo con il posizionare il CAM all’interno del ciclo produttivo di un componente:
mentre il CAD e il CAE si posizionano nella fase di design del componente ed aiutano a congelare la
geometria del componente, il CAM va posizionato all’interno dei processi manifatturieri e quindi
nella fase di produzione vera e propria del componente; si parte con il process planning andando a
definire i diversi step di lavorazione: il CAM in questo senso può essere utilizzato anche per
l’approvvigionamento dei materiali in quanto mediante l’utilizzo di software CAM riusciamo a
prevedere ad esempio la vita di un utensile in base ai metri di lavorazione che è chiamato a
svolgere ma riusciamo anche a prevedere e ottimizzare il consumo di materiale e addirittura i
percorsi utensili, in modo da minimizzare l’usura dei taglienti. Nelle prime fasi, quindi, il CAM è
utilizzato per pianificare il processo di produzione e supportare l’approvvigionamento di materiale.
Successivamente il CAM viene utilizzato nel vivo della produzione come guida del percorso utensili
delle diverse macchine utilizzate, e infine si rientra nel controllo qualità, nel packaging e infine
nell’inserimento all’interno del mercato. Possiamo dire che la prima fase di CAM è più una
simulazione di processo e ci consente di usare tale strumento in maniera previsionale per vedere
di quanto materiale abbiamo bisogno e per capire quali sono i tempi e gli utensili richiesti per
realizzare un determinato componente. L’output del CAM è il part program, il quale viene inserito
all’interno di una macchina a controllo numerico ed è necessario per guidare gli assi durante i cicli
di lavorazione; il CAM però non è solamente limitato a processi manifatturieri intesi come processi
di asportazione di truciolo, anzi può essere inserito anche all’interno del controllo qualità (quando
ad esempio abbiamo una macchina di misura a coordinate, la quale per misurare il componente
richiede la generazione di un part program) e anche in questo caso si può utilizzare un software
CAM per guidare il tastatore nell’andare a misurare il componente; ciò vale anche per il packaging:
quando ad esempio questo viene automatizzato ed è richiesto l’utilizzo di bracci meccanici o
robotizzati anche in questo caso la movimentazione dei diversi assi dei robot o dei bracci
automatizzati viene svolta attraverso l’utilizzo di software CAM. I requisiti per la produzione sono
tempo, qualità e costi: dobbiamo essere in grado di realizzare un componente in risposta al
mercato in tempi molto rapidi, cercare di mantenere un certo livello di qualità richiesta dalle
specifiche di prodotto e infine massimizzare il profitto (quindi minimizzare i costi a fronte di una
qualità e perciò un costo di vendita più elevati). Questi tre drivers sono quelli che ci guideranno nel
progettare i componenti e dunque nel fare le diverse scelte delle lavorazioni che andremo a
svolgere per ottenere il componente finito.
Definizione, obiettivi, benefici, applicazioni. Il CAM è l’utilizzo di alcuni software tramite
calcolatore per controllare l’avanzamento e le coordinate delle macchine per lavorazione o altre
macchine collegate al processo produttivo di un componente. L’obiettivo primario del CAM è
quello di creare una produzione che sia la più veloce, efficace ed efficiente possibile andando a
prevedere in questo caso le strategie di lavorazione ottimali, e quindi l’ottimizzazione del processo
e dei parametri di processo in modo tale da minimizzare i tempi e massimizzare la qualità del
componente lavorato. Passando ai benefici dell’utilizzo del sistema a controllo numerico, per
quanto riguarda i sistemi convenzionali (manuali) le operazioni erano svolte da operatori e da
macchine con l’impossibilità di svolgere operazioni simultanee, non vi erano standard qualitativi (i
processi erano soggetti a errori umani), vi era un basso livello di produttività e una limitazione a
geometrie di tipo semplice; con l’avvento dei sistemi a controllo numerico si è stati in grado di
ridurre notevolmente il tempo di produzione e i costi relativi alla manodopera con un conseguente
aumento della qualità dei componenti realizzati e un incremento della produttività (andando a
ridurre il fattore umano nella realizzazione dei componenti), si è riusciti anche a realizzare
componenti molto più complessi in tempi molto più ragionevoli e infine vi è stato anche un
aumento della sicurezza nelle lavorazioni in quanto l’operatore una volta settato il componente è
chiamato a lavorare davanti ad un’interfaccia macchina-operatore senza “entrare con le mani” nel
processo produttivo. Per quello che riguarda le applicazioni, come abbiamo già detto il CAM non è
esclusivamente legato a processi per asportazione (si hanno processi di tornitura, fresatura,
foratura, rettifica, elettroerosione, laser ablation, taglio ad acqua) ma è utilizzato anche per il
rapid prototyping (quindi processi di additive manufacturing, i quali richiedono la generazione di
un part program per depositare il materiale su strati successivi) e per il controllo qualità (ad
esempio, il tastatore di una macchina di misura a coordinate tocca i diversi punti del componente
seguendo il part program generato da un software dedicato che ci consente di identificare i diversi
punti in base al modello di partenza). I software CAM partono naturalmente da un modello CAD,
quindi c’è una forte interazione tra la fase di design con la generazione di un file tridimensionale e
la fase di generazione dei percorsi utensili. Nella slide 7 è riportato uno schema classico per quel
che riguarda l’utilizzo del CAM:

• Manufacturing model creation: si parte dal modello del nostro componente e dal modello
del pezzo da lavorare per creare il modello del componente da realizzare
• Manufacturing set-up: si vanno a definire gli utensili da taglio, le macchine da utilizzare,
l’ancoraggio del componente alla macchina e la geometria (e quindi le diverse strategie) di
lavorazione: anche se siamo in ambiente virtuale dobbiamo già prevedere ad esempio
come fissare il componente, che strategie di lavorazione applicare per poter ottimizzare i
tempi e infine che tipologie di utensili utilizzare per realizzare il nostro pezzo, quindi il
primo step dell’utilizzo del CAM, quello di pianificazione della produzione del pezzo,
consiste nell’analizzare il modello tridimensionale derivante dal CAD e nel definire in linea
di massima i diversi step per realizzare il componente; questi step possono prevedere
l’utilizzo di un unico processo manifatturiero, come una semplice tornitura, o diverse
tipologie di processi manifatturieri, come una combinazione tra tornitura e fresatura: in tal
caso bisogna valutare se utilizzare ad esempio due processi disgiunti o magari un centro di
lavoro che contiene al suo interno sia il processo di fresatura che il processo di tornitura (i
due processi combinati possono anche essere completamente diversi, come può essere un
processo di additive manufacturing seguito da una ripresa in un processo di fresatura).
Quindi nei casi più semplici avremo un unico processo manifatturiero mentre nei casi più
complessi vi saranno diverse tipologie di processo, e in entrambi i casi questi processi
devono essere definiti nelle prime fasi in quanto quello che dobbiamo garantire è il minor
tempo possibile (se dobbiamo combinare ad esempio due processi dobbiamo riuscire a
ottenere la geometria “finale” nel primo processo e poi con un trasferimento del
componente da un centro di lavoro all’altro eseguire le ultime lavorazioni: si evita
sostanzialmente di muovere il pezzo più volte)
• Tool-path creation: si vanno a definire i percorsi utensile, che sono un po’ gli output dei
software CAM; si entra nel sistema hardware, quindi nella macchina, andando a inserire al
suo interno il part program
• Machining: la macchina muoverà gli assi in base alle coordinate prestabilite facendo
ottenere il componente finito
Configurazione hardware di una macchina a controllo numerico (CNC). Il CAM è spesso legato al
concetto di controllo numerico in quanto l’output del CAM è un part program che viene inserito
all’interno di macchine a controllo numerico. Le macchine a controllo numerico sono macchine
che svolgono le loro movimentazioni in base a un part program che dà i diversi comandi ai diversi
assi e sono sostanzialmente composte da una MCU (Machine Control Unit) e dalla macchina
stessa; l’MCU è a sua volta suddivisa in due parti, che sono la DPU (Data Processing Unit) e la CLU
(Control Loop Unit): la DPU legge e decodifica il part program e invia le informazioni alla CLU, che
controlla e guida i diversi assi all’interno della macchina e, se è previsto un controllo retroattivo,
acquisisce anche il segnale di retroazione nel controllo della movimentazione degli assi e va a
correggerla durante la lavorazione. Le caratteristiche principali dei sistemi a controllo numerico
sono relative al posizionamento degli assi, che può essere di tipo punto-a-punto, parassiale o
continuo, alle tipologie di misurazione per aumentare l’accuratezza dei diversi sistemi, con
l’utilizzo di encoder e tachimetri, e infine ai loop di controllo, che possono essere aperti o chiusi. Il
funzionamento di una macchina CNC è il seguente: l’input costituito dal part program viene
inserito all’interno della MCU e letto dalla DPU, la quale invia i dati (motion data) al sistema di
movimentazione che, attraverso la CLU, va a svolgere la movimentazione degli assi; vi è poi un
sistema di feedback di retroazione che va a retroagire sulla CLU e a correggere eventuali errori di
movimentazione degli assi. Il tutto viene visualizzato da una display unit, che è la MMI (Machine
Man Interface), attraverso la quale l’operatore può controllare lo stato di avanzamento della
lavorazione e il posizionamento degli assi. Importante nei sistemi a controllo di coordinate è la
movimentazione degli assi visto che il pezzo viene lavorato grazie al movimento reciproco tra
componente da lavorare e utensile; chiaramente più assi si riescono a muovere all’interno di un
sistema a controllo numerico più complesse saranno le geometrie che si riescono ad ottenere con
quel determinato sistema (si parla di sistemi fino a 5-6 assi). Nelle macchine a controllo a
coordinate ogni asse di movimentazione è equipaggiato da un driving device, quindi da un motore
elettrico, che va a rimpiazzare quella che nei sistemi convenzionali era la classica manovella per la
movimentazione degli assi; schematizzando e semplificando le cose e abbiamo due tipologie di
movimentazione degli assi (slide 12): da un lato possiamo avere una movimentazione di tipo
lineare per la quale un motore elettrico viene collegato ad una vite a ricircolo di sfere che
trasforma il moto rotatorio dell’albero in un moto traslatorio della tavola portapezzo (se il pezzo
viene movimentato linearmente allora l’utensile ha un moto di rotazione, come accade nella
tornitura, e viceversa, come accade nella fresatura), dall’altro lato possiamo avere una
movimentazione di tipo rotazionale per la quale un motore elettrico viene collegato ad una
puleggia che mediante una cinghia trasforma il moto rotatorio dell’albero in un moto rotatorio del
mandrino (al mandrino nel caso di fresatura e al mandrino portapezzo nel caso di tornitura). Gli
assi di movimentazione vengono definiti seguendo solitamente la regola della mano destra e
questo viene fatto principalmente nel caso di macchine per asportazione come la fresatura o
l’elettroerosione dove a muoversi sostanzialmente è l’utensile, il quale viene messo in rotazione
rispetto al componente; la regola della mano destra definisce la terna X,Y,Z: solitamente l’asse Z
viene attribuito all’utensile mentre gli assi X e Y vengono attribuiti sia all’utensile che alla tavola
portapezzo (dipende comunque dalla configurazione della macchina che utilizziamo); nel caso di
sistema a 5 assi (slide 13) abbiamo due assi ausiliari A e C rispettivamente di rotazione e di
basculamento della tavola portapezzo che permettono di liberare eventuali sottosquadri e di
realizzare geometrie molto complesse. Nella slide 14 vi è un esempio relativo alla tornitura: l’asse
Z è dato alla movimentazione in direzione assiale dell’utensile mentre l’asse X è dato alla
movimentazione in direzione trasversale dell’utensile (il pezzo in questo caso è messo in
rotazione); nella slide 15 vi è un esempio relativo alla fresatura: l’asse Z è dato alla
movimentazione dell’utensile in direzione ortogonale rispetto alla tavola portapezzo mentre gli
assi X e Y sono dati alle movimentazioni lungo direzioni tra loro ortogonali della tavola portapezzo;
nel caso di 5 assi è più comune trovare la configurazione per cui gli assi X,Y,Z sono tutti e tre
attribuiti all’utensile mentre gli ausiliari di rotazione e basculamento sono attribuiti alla tavola
portapezzo (questo però dipende sempre dalla macchina che andremo a utilizzare). Passiamo ora
a parlare del posizionamento degli assi:

• Il posizionamento punto-a-punto (PTP) prevede di dare come input alla macchina il punto
iniziale e il punto finale; è una tipologia di movimentazione molto accurata che però
prevede alcuni vincoli: il primo vincolo è relativo al fatto che non riusciamo a controllare la
traiettoria dato che solitamente un sistema CNC si muove dal punto iniziale al punto finale
secondo un’interpolazione lineare e quindi con il percorso più breve (in realtà esistono
anche alcuni sistemi CNC che si possono muovere secondo un asse per volta). Questa
tipologia di posizionamento non può dunque essere utilizzata per andare a lavorare un
componente per il quale è richiesto il continuo contatto tra utensile e pezzo proprio perché
non si riesce a controllare la traiettoria tra un punto e l’altro, mentre è più indicata per
realizzare operazioni quali la foratura, la filettatura o l’alesatura di componente. Il
posizionamento PTP dell’utensile rispetto al pezzo viene fatto quando l’utensile non è in
presa sul componente ma solo per un posizionamento rispetto al piano X-Y in posizione di
sicurezza (con l’utensile fuori dal piano di lavoro) e successivamente, una volta che
l’utensile ha raggiunto la sua posizione, si inizierà ad esempio il ciclo di foratura, di
filettatura o di alesatura affondando lungo la coordinata Z e concentrandosi
esclusivamente sul punto definito sul piano X-Y
• Il posizionamento parassiale consente di muovere un asse alla volta (quindi in questo caso
riusciamo a controllare lo spostamento solo dell’asse X o solo dell’asse Y) facendo ottenere
traiettorie di tipo rettilineo con la possibilità di gestire la velocità durante lo spostamento
dell’utensile o del pezzo; questa tipologia di posizionamento trova applicazione nel caso in
cui andiamo a svolgere delle operazioni di contornatura durante il processo ad esempio di
fresatura di pezzi rettangolari o comunque aventi le facce parallele ai piani di spostamento
della macchina. In questo caso abbiamo pieno contatto tra utensile e pezzo da lavorare, e
si asporta materiale fintantoché si sposta l’utensile. Chiaramente questa tipologia di
lavorazione è limitata a lavorazioni di tipo 2D, quindi fissata una coordinata Z ci si riesce a
muovere secondo traiettorie rettilinee seguendo un solo asse senza la possibilità di
combinare movimenti su assi multipli
• Il posizionamento di tipo continuo (o contornatura) consente lo spostamento simultaneo
su 3 assi o addirittura anche su 5 attraverso un controllo numerico della posizione e della
velocità; con questa tipologia di posizionamento vi sarà comunque un’interpolazione tra
punto e punto tra le diverse coordinate, però si riusciranno a profilare o realizzare
geometrie molto più complesse rispetto al caso precedente del controllo parassiale (la
geometria del componente finito sarà chiaramente associata alla traiettoria utensile).
Anche in questo caso si asporta materiale fintantoché si sposta l’utensile. Vi sono diverse
tipologie di lavorazione che possono seguire diverse tipologie di posizionamento che
abbiamo visto, e per quel che riguarda il posizionamento continuo (che è il più utilizzato nei
processi di asportazione di truciolo) possiamo utilizzare 2 assi per eseguire lavorazioni di
contouring di tipo 2D, 2 assi e mezzo per eseguire lavorazioni di contouring di tipo 2D con
uno spostamento incrementale in Z, 3 assi per eseguire lavorazioni di contouring di tipo 3D
e 5 assi per eseguire lavorazioni su geometrie complesse o free-form
Sistemi di misurazione delle coordinate. Chiaramente tutte le movimentazioni devono essere
misurate in modo tale da sapere come si sta muovendo la tavola portapezzo o il mandrino
utensile, e per fare questo utilizziamo dei sistemi di misura delle coordinate. Nella slide 22 è
schematizzata una macchina CNC in cui a sinistra della linea verde vi è la MCU mentre a destra vi è
la parte hardware che serve a movimentare gli assi. Parliamo prima dei sistemi di controllo delle
coordinate per quel che riguarda la posizione dell’utensile: per attuare questo controllo si
utilizzano degli encoder, i quali sono dispositivi in grado di controllare il posizionamento degli assi;
nel caso di esempio che vedremo utilizzeremo degli encoder rotativi, che sono quelli
maggiormente utilizzati nei sistemi per asportazione di truciolo. Vi sono encoder assoluti e
incrementali che possono lavorare con diversi principi di funzionamento (ottici, magnetici,
induttivi, laser).

• L’encoder assoluto riesce a fornire un valore assoluto delle coordinate alle quali si trova il
nostro componente. Nella slide 24, in cui si utilizza un sistema ottico, abbiamo un disco
caratterizzato da zone di trasparenza e zone di ombra calettato all’albero di rotazione e un
trasmettitore (dei fototransistor) che emette un segnale luminoso, il quale viene recepito e
tramutato in segnale binario da un ricevitore (l’accuratezza nella misurazione degli encoder
dipende da quanti bit utilizziamo); per ogni posizione dell’albero si ha un codice binario che
viene registrato dal sistema. Come già detto stiamo misurando la posizione di una
rotazione, ma questa viene tramutata in traslazione della tavola portapezzo con una vite a
ricircolo di sfere. Il vantaggio dell’encoder assoluto è che se si spegne la macchina e la si
riavvia il sistema è in grado di riconoscere la posizione corrente dell’albero
• L’encoder incrementale si basa sullo stesso principio di funzionamento dell’encoder
assoluto ma su un sistema di conteggio delle rivoluzioni, quindi la risoluzione qui è data da
360 fratto n con n numero di zone di luce che avremo nel nostro componente. Nella slide
25 abbiamo un disco caratterizzato da zone di trasparenza e zone di ombra calettato
all’albero di rotazione e un trasmettitore (dei fototransistor) che emette un segnale
luminoso, il quale viene recepito e tramutato in segnale binario da un ricevitore: per ogni
spostamento angolare il sistema “conta” la rotazione dell’albero. Lo svantaggio
dell’encoder incrementale è che se si spegne la macchina e la si riavvia il sistema non è in
grado di riconoscere la posizione corrente dell’albero e quindi ricomincia a contare da 0
(all’avviamento della macchina c’è una procedura di reset degli encoder che andrà a
ritrovare lo zero). Se l’albero ruota in entrambi i sensi occorre aggiungere una seconda
track sfalsata di 90° in modo da riuscire a identificare in quale dei due versi si sta
muovendo l’albero e di conseguenza la tavola portapezzo. Gli encoder di tipo incrementale
hanno alcuni vantaggi rispetto a quelli assoluti che sono quelli relativi al fatto che con
encoder incrementali è possibile misurare la distanza, la velocità e la posizione lineare
mentre con gli encoder di tipo assoluto si è in grado di misurare con buona precisione la
posizione angolare; in effetti gli encoder incrementali sono quelli più utilizzati nei sistemi a
controllo numerico perché ci consentono di ricavare il maggior numero di informazioni
durante i processi di lavorazione (quando si lavora per asportazione ad esempio non si
misura solo la posizione degli assi ma anche la loro velocità e la loro accelerazione, in modo
tale da performare il processo di asportazione nel miglior modo possibile)
Questo per quel che riguarda i sistemi di misurazione relativi allo spostamento. Abbiamo visto che
ci sono due tipologie di sistema di movimentazione: i sistemi di movimentazione degli assi, che
tramutano un movimento di tipo rotatorio in un movimento di traslazione, e i sistemi di rotazione,
che nel caso di fresatura movimentano il mandrino e quindi l’utensile mentre nel caso di tornitura
movimentano il mandrino portapezzo; in questo secondo caso dobbiamo essere in grado di
misurare la velocità di rotazione e per far ciò ci avvaliamo di un tachimetro, che va a misurare il
numero di giri al minuto. Come vengono integrati i sistemi di controllo all’interno delle macchine a
controllo numerico? Nella slide 29 è visibile una schematizzazione di un sistema a controllo
numerico: abbiamo una prima parte di controllo della posizione (collegato all’encoder) e di
controllo della velocità (collegato al tachimetro), poi abbiamo il motore che aziona l’albero il quale
grazie alla vite a ricircolo di sfere va a muovere la tavola portapezzo. Nel caso in cui abbiamo un
loop semi-chiuso (o loop aperto) abbiamo un encoder legato solamente all’albero del motore che
misura la rotazione dell’albero stesso e quindi la traslazione della tavola portapezzo; il sistema è
aperto proprio perché le informazioni in ingresso non subiscono nessuna modifica a seguito di una
retroazione dei sistemi di controllo. Nel caso in cui abbiamo un loop chiuso (slide 30) invece vi è
un sistema di controllo connesso anche alla tavola portapezzo che invia dei segnali di retroazione
ad uno strumento di compensazione del movimento degli assi; tale strumento di compensazione
va a correggere le diverse velocità e i diversi spostamenti dei sistemi di controllo. In definitiva la
differenza è che mentre nel caso di sistema aperto abbiamo solo un controllo di posizione senza
nessuna retroazione nel caso di sistema chiuso abbiamo anche una retroazione che va a far sì che
la posizione corrente della tavola portapezzo venga confrontata con la posizione controllata
dall’encoder e che successivamente vi sia una correzione nel caso in cui vi sia una discrepanza tra
le due (per sistemi dove è richiesta un’elevata precisione nella lavorazione dovremo avere un loop
di tipo chiuso); la struttura della macchina e la struttura dell’hardware della macchina influiscono
in maniera molto pesante su quella che sarà la qualità del componente intesa sia come qualità
estetica sia come qualità di tipo geometrico-dimensionale (relativamente ai sistemi di controllo).
Fissaggio del componente. La qualità di una lavorazione dipende fortemente anche dal fissaggio
del componente da lavorare, al punto che il fissaggio è solitamente il primo step ad essere
considerato nella progettazione del workflow di un componente. Esistono diverse metodologie di
fissaggio del componente: possiamo fissare il componente direttamente sulla tavola oppure
possiamo utilizzare ad esempio una morsa, e ciò condiziona la tipologia di lavorazione che si potrà
eseguire (una foratura, ad esempio, non si potrà fare nel primo caso). Una maggiore complessità di
fissaggio ce l’abbiamo su pezzi cilindrici in quanto non si possono utilizzare delle morse piane: in
tal caso si utilizzano delle morse appositamente sagomate oppure dei mandrini portapezzo.
Creazione dello zero macchina. Importante è anche settare i sistemi di riferimento perché la
macchina non sa dove si trova il pezzo rispetto ai propri sistemi di riferimento; per far questo
siamo chiamati a impostare uno zero macchina, ossia la posizione del sistema di riferimento
pezzo. La macchina ha già dei suoi sistemi di riferimento: R solitamente è il sistema di riferimento
alla corsa massima del nostro sistema, M è il sistema di riferimento della nostra macchina (della
tavola portapezzo) e W è il sistema di riferimento del pezzo stesso. Solitamente quello che si fa è
andare a toccare con l’utensile o con un tastatore le diverse caratteristiche del grezzo di partenza
e successivamente, in base ai piani che si trovano, si va a definire quello che è lo zero pezzo. Anche
dove posizionare lo zero è molto importante e chiaramente deve essere tenuto in considerazione
durante la progettazione del part program in quanto lo zero pezzo deve coincidere tra quello che
viene fuori dal CAM, quindi il part program, e quello che si va a settare realmente in macchina.
Come si fa a impostare lo zero? Si può usare direttamente l’utensile andando a sfioro sul
componente (ci si avvicina con l’utensile fintantoché non si lavora di poco il pezzo e là si setta lo
zero pezzo) oppure si utilizzano dei tastatori che vanno a contatto con il componente (in questo
caso si sarà molto più accurati nell’andare a posizionare lo zero pezzo); la seconda soluzione
richiede più tempo rispetto alla prima ma consente di avere una precisione maggiore nel settare il
sistema di riferimento pezzo, ma la scelta di una soluzione o dell’altra dipende anche dalla
tipologia di lavorazione che stiamo facendo: ad esempio se stiamo svolgendo un’operazione di
sgrossatura è sufficiente andare a contatto con l’utensile sul blocco di partenza, mentre se stiamo
svolgendo un’operazione di finitura è importante centrarsi in maniera corretta e molto precisa sul
componente già lavorato. Questo per quel che riguarda il posizionamento nel piano X-Y;
chiaramente dev’essere fatto il posizionamento anche nella coordinata Z, e questo costituisce un
problema perché tutti gli utensili hanno lunghezze diverse. Come si fa allora a calcolare la
lunghezza utensile? Si usa uno dei seguenti tre metodi (in ordine crescente di efficacia): il primo
metodo prevede di andare a contatto con il componente muovendosi esclusivamente in Z, il
secondo metodo prevede di utilizzare i blocchetti 1-2-3 (blocchetti calibrati che hanno le
dimensioni di 1, 2 e 3 pollici) per toccare appunto i blocchetti al posto del pezzo e il terzo metodo
prevede di utilizzare un tastatore e di andare a sfioro con l’utensile proprio sul tastatore. Per il
secondo e il terzo metodo è necessario conoscere la differenza di quota tra la cima del
blocchetto/del tastatore e il componente da lavorare: per fare ciò si sostituisce all’utensile un
comparatore e si va a determinare la differenza tra le due quote; in questo modo si riesce a
conoscere la lunghezza dell’utensile e poi a compensare quest’ultima utilizzando questo secondo
step di azzeramento del portautensile. Questa operazione è molto importante dato che la
coordinata Z è quella che va ad influire sulla profondità di passata durante la lavorazione, che è un
parametro fondamentale nei processi per asportazione. Riassumendo, il centraggio in X-Y viene
svolto utilizzando un comparatore o andando a toccare direttamente il componente, mentre per
quel che riguarda la compensazione della lunghezza dell’utensile questa viene fatta adottando uno
dei tre approcci presentati; la lunghezza dell’utensile viene poi immagazzinata nella macchina, in
modo che ogni portautensile abbia il suo utensile definito da un determinato codice e la lunghezza
di quest’ultimo (ciò consente di evitare di eseguire ogni volta la misurazione della lunghezza
dell’utensile), ma qualora si decidesse di cambiare l’utensile allora si dovrebbe rieseguire la
procedura.
Strategie di lavorazione. Ora vedremo una carrellata di strategie di lavorazione facendo
riferimento ad uno dei processi più utilizzati nell’asportazione di truciolo che è la fresatura,
tuttavia molti concetti potranno essere estesi ad altre tipologie di lavorazione per asportazione
come ad esempio una tornitura o ad esempio altri processi come l’elettroerosione. Prima di
svolgere le operazioni di asportazione vere e proprie deve essere definita una strategia di
lavorazione, la quale comprende un insieme di lavorazioni per asportazione che messe insieme ci
consentiranno di ottenere il componente finito; in base alla tipologia di geometria che vogliamo
ottenere dobbiamo scegliere l’esatta strategia di lavorazione, che va a influire in maniera molto
pesante sul tempo di produzione, sulla finitura e anche sulle tolleranze geometriche e
dimensionali del componente. Ogni strategia di lavorazione richiede la scelta appropriata di un
utensile per non perdere in efficienza: ad esempio, per svolgere una spianatura è meglio utilizzare
un utensile adeguato come quello riportato nella slide 41 alla voce “face mill” rispetto ad un
utensile sferico come quello riportato nella slide 40 alla voce “ball endmill”: il primo infatti oltre ad
essere multitagliente con inserti in metallo duro ha anche diametri molto più ampi, quindi è più
efficiente nell’asportare materiale; al contrario, qualora si dovesse finire una superficie in
contornatura sarebbe più opportuno scegliere un utensile ad esempio sferico in grado di garantire
un punto di contatto (e quindi un ingaggio) minimo tra utensile e pezzo e una miglior finitura
superficiale. Altri utensili per la fresatura sono utensili a candela integrali (square endmill), utensili
toroidali (ball nose endmill; è presente un certo raggio al termine dell’utensile) e punte da forare,
punte da centraggio, punte per realizzare smussi e punte per la spianatura dei componenti.
La prima lavorazione che vediamo è la fresatura di spallamenti (shoulder milling), la quale include
al suo interno tre diverse tipologie, che vedremo una per volta: la fresatura di spallamenti
combinata con una spianatura, la bordatura e la fresatura periferica e infine la fresatura di
spallamenti su pareti sottili. Partiamo dalla fresatura di spallamenti combinata con una
spianatura, che lavora contemporaneamente due superfici attraverso la spalla dell’utensile
(fresatura periferica) e il piano inferiore dell’utensile (spianatura); solitamente è richiesto
l’ottenimento di uno spallamento ad angolo retto, quindi si adottano utensili o integrali a candela
o utensili con inserti aventi un angolo di registrazione opportuno. Le frese utilizzate sono frese
tradizionali, a candela, per contornatura o a disco. La fresatura di spallamenti dà luogo durante la
lavorazione ad elevate forze radiali che la rendono piuttosto impegnativa; vediamo una serie di
linee guida indicative: nel caso di fresatura di spallamenti ma comunque in generale la fresatura
concorde è sempre la scelta prioritaria (una delle regole base della fresatura è quella di avere lo
spessore del truciolo in uscita tendente a zero, e questo lo si ottiene con una fresatura concorde;
nella fresatura discorde invece il fatto che l’ultima porzione di truciolo asportata abbia lo spessore
massimo genera elevate forze di taglio ed elevate temperature, le quali possono portare alla
formazione del tagliente di riporto o comunque ad una maggior usura dell’utensile) ed è
particolarmente importante quando si realizzano spallamenti dato l’angolo di registrazione
dell’utensile di 90°; la selezione del passo della fresa dipende dalla stabilità dell’intero sistema
(quindi sono compresi la macchina utensile, il pezzo e il sistema di bloccaggio con cui viene
ancorato il pezzo alla tavola di movimentazione) e dal materiale da lavorare (quindi dalle
caratteristiche del componente): viste le elevate forze radiali in gioco con un angolo di
registrazione di 90° dobbiamo avere un sistema stabile che limiti al minimo le vibrazioni dell’intero
sistema; se la profondità dello spallamento è inferiore al 75% della lunghezza del tagliente la
qualità della superficie verticale sostanzialmente non richiede ulteriori processi di finitura e perciò
non sarà necessario lasciare del sovrametallo durante la lavorazione; più profondo è il taglio più è
importante scegliere velocità di taglio inferiori per evitare vibrazioni dell’intero sistema (se il
sistema vibrasse la qualità superficiale ne risentirebbe parecchio: in tal caso si consiglia di ridurre
la velocità di taglio e di aumentare l’avanzamento per dente). Passiamo ora alla bordatura e alla
fresatura periferica: la lavorazione di un bordo è un’operazione di fresatura laterale che viene
attuata con passate di contornatura dell’utensile, quindi la fresatura laterale e la bordatura sono
delle opzioni della fresatura periferica in cui viene generata solamente la superficie laterale
sfruttando lo spallamento dell’utensile; quando si usa lo spallamento ad esempio di una fresa a
candela per eseguire un profilo viene generata una serie di cuspidi (slide 46) la cui altezza Rt è
determinata dal diametro D della fresa, dall’avanzamento per dente fz e dal run-out dell’utensile
(che è la rotazione fuori dall’asse dell’utensile), il quale va ad aumentare sensibilmente la
“grandezza” della cuspide durante la lavorazione:
𝑓𝑧2
𝑅𝑡 =
4⋅𝐷
Il run-out sfalsa l’avanzamento per dente, quindi porta alla generazione di cuspidi più pronunciate
sulla superficie alterando la finitura superficiale del componente lavorato. Le frese multitagliente
hanno valori di run-out solitamente superiori a quelli delle frese in metallo duro integrale, quindi
anche per la lavorazione di spallamenti è importante scegliere se utilizzare frese integrali o frese
multitagliente con inserti intercambiabili. Maggiore è il diametro della fresa maggiore è il numero
dei denti, e questo riduce la distanza tra punti alti e punti bassi della cuspide: ecco perché nella
formula sopra scritta il diametro entra al denominatore per la determinazione dell’altezza delle
cuspidi. Per ottenere una finitura superficiale migliore con questa lavorazione si suggerisce di
utilizzare una fresa in metallo duro integrale appunto per ridurre il livello di run-out, dei mandrini
ad elevata precisione sempre per ridurre il run-out dell’utensile e uno sbalzo (ossia una distanza
tra tagliente ed afferraggio nel mandrino della macchina) che sia il minore possibile in modo tale
da evitare vibrazioni o deflessioni dell’utensile. Vediamo infine la fresatura di spallamenti su
pareti sottili. Gli spallamenti hanno un rapporto altezza/spessore ridotto se questo è inferiore a
15:1, moderato se compreso tra 15:1 e 30:1 ed elevato se maggiore di 30:1. Le strategie di
lavorazione per le pareti sottili variano in base all’altezza e allo spessore della parete, e il numero
di passate è sostanzialmente determinato dalla profondità di taglio assiale (ossia in direzione
dell’asse dell’utensile); in genere si adotta una strategia a zig-zag come riportato nella slide 48 per
la quale si lavora prima un lato della parete e poi l’altro con passate alternate così da generare
minori forze di taglio (che possono deflettere il componente), e usualmente si lascia una certa
tolleranza su entrambi i lati per poter successivamente eseguire un processo di finitura.
La seconda lavorazione che vediamo è la spianatura (face milling), la quale include al suo interno
tre diverse tipologie, che vedremo una per volta: la spianatura generale, la fresatura ad
avanzamenti elevati e la spianatura pesante. Partiamo dalla spianatura generale: la spianatura è
uno dei processi di fresatura più utilizzati, e può essere performata utilizzando una vastissima
gamma di utensili; solitamente le frese con angolo di registrazione di 45° sono quelle più utilizzate,
ma si utilizzano anche frese con inserti rotondi e frese per spallamenti retti. L’angolo di
registrazione è l’angolo tra il tagliente principale dell’inserto e la superficie del pezzo, ed è un
parametro che incide in maniera molto pesante sullo spessore del truciolo, sulle forze di taglio e
sulla durata dell’utensile; anche in questo caso la scelta dell’utensile va fatta non solo a livello di
tipologia di utensile ma anche a livello di struttura dei taglienti dell’utensile, così da determinare
corretti angoli di registrazione: un angolo di registrazione di 90° dovrà per forza essere utilizzato
nel caso in cui si debbano realizzare degli spallamenti retti, mentre angoli di registrazione più bassi
(45° o addirittura 10°, che sono quelli più utilizzati insieme all’angolo di 90°) si potranno utilizzare
solamente per eseguire lavorazioni di spianatura; quando si riduce l’angolo di registrazione si
riduce lo spessore del truciolo per un determinato avanzamento per dente, e questo
assottigliamento del truciolo fa sì che il materiale si distribuisca maggiormente sul fianco del
tagliente andando ad aumentare in maniera abbastanza sensibile gli avanzamenti della tavola
durante la lavorazione. Nel caso di angolo di registrazione di 90° il campo di applicazione
principale è la fresatura di spallamenti retti: la fresa genera forze radiali nella direzione di
avanzamento e basse forze assiali sulla superficie lavorata, e ciò favorisce la fresatura di pezzi con
struttura debole, pareti sottili o fissaggi instabili; nel caso di angolo di registrazione di 45° il campo
di applicazione principale è la spianatura generale: vi è un buon bilanciamento tra forze di taglio
radiali e assiali, e inoltre per l’utilizzo di questa determinata tipologia di utensili sono richieste
minori potenze della macchina per svolgere le lavorazioni; infine, nel caso di angolo di
registrazione di 10° vengono impiegate frese ad avanzamento elevato o frese che prevedono
strategie a tuffo: in questo caso viene generato un truciolo molto sottile che permette di
raggiungere avanzamenti per dente molto elevati con piccole profondità di taglio, quindi si lavora
con avanzamenti elevati della tavola di movimentazione pezzo riducendo i tempi di lavorazione
ma anche la profondità di passata rispetto alle frese con angolo di registrazione a 45° o a 90°.
Come varia lo spessore del truciolo al variare al variare dell’angolo di registrazione? Lo spessore
massimo dei trucioli è uno dei parametri più importanti per il processo di fresatura e influisce
sensibilmente sulla produttività e sull’affidabilità del processo stesso; solitamente si cerca di
mantenere un valore di spessore del truciolo che non sia né troppo basso (per evitare scarse
prestazioni o difetti come ad esempio la spalmatura del truciolo sulla superficie del componente
senza andarlo a rimuovere) né troppo alto (per evitare di sovraccaricare il tagliente, cosa che può
portare ad una sua maggiore usura o anche alla sua rottura); tutto va inteso in base alla tipologia
di lavorazione che si sta svolgendo: se siamo interessati ad una sgrossatura pesante dove
dobbiamo rimuovere una grande quantità di materiale sia sul piano che a livello di profondità di
passata sarà più conveniente utilizzare un angolo di registrazione elevato (ad esempio 60°) così da
poter spingere anche le profondità di passata, viceversa se si deve eseguire un’operazione di
finitura dove si intende rimuovere poco materiale in termini di profondità di passata allora sarà più
conveniente utilizzare un angolo di registrazione basso così da aumentare sensibilmente
l’avanzamento per dente e dunque la velocità dell’operazione di fresatura. Per quanto riguarda la
spianatura generale sostanzialmente durante il taglio si deve evitare di creare degli ingressi e delle
uscite intermittenti nel tagliente in quanto questi possono generare la rottura del tagliente: ecco
allora che si evita di fresare su interruzioni del pezzo in quanto i tagli di tipo intermittente sono
impegnativi per i taglienti dell’utensile; nel caso in cui questo non fosse possibile bisognerà ridurre
l’avanzamento del 50% sull’area del pezzo contenente queste interruzioni così da mantenere
trucioli sottili nel taglio di uscita. Anche per la spianatura è sempre meglio utilizzare una fresatura
concorde per una buona formazione dei trucioli ed è sempre bene prevedere un ingresso
incrementale sul pezzo, tale da non generare un urto. Passiamo ora alla fresatura ad avanzamenti
elevati, tipo di lavorazione usualmente identificata come “HSM” (High-Speed Machining): essa
viene utilizzata per lavorare materiali come alluminio o ghisa per i quali si possono utilizzare
velocità di taglio superiori ai 1000 m/min ottenendo un elevato avanzamento della tavola; è
possibile svolgere la spianatura utilizzando frese con bassi angoli di registrazione così da avere
avanzamenti per dente molto elevati (fino a 4 mm/dente) a discapito però della profondità di
passata. Vediamo infine la spianatura pesante, solitamente eseguita su semilavorati forgiati o
laminati a caldo, pezzi fusi o comunque mediante fresatrici a portale molto grandi; se si adotta
questo tipo di lavorazione vuol dire che devono essere rimosse grandi quantità di materiale, il che
porta alla generazione di elevate temperature e forze di taglio che pongono determinate esigenze
per gli utensili: il tagliente principale è soggetto a carichi pesanti e ad un’usura angolare dovuta
alle scaglie abrasive quando la profondità di taglio si avvicina a zero, quindi in questo caso è
consigliato l’utilizzo di utensili con angoli di registrazione di 60° in modo tale da avere buone
capacità in termini di profondità di passata, forze di taglio piuttosto costanti e infine l’effetto di
assottigliamento del truciolo (che consente di utilizzare velocità di avanzamento maggiori rispetto
a quelle che si avrebbero per un angolo di registrazione di 90°). Dovendo rimuovere molto
materiale serve un elevato MRR, e utilizzando un angolo registrazione di circa 60° saremo in grado
di ottenere un buon compromesso tra avanzamenti, formazione del truciolo e velocità di
avanzamento per dente.
La terza lavorazione che vediamo è la profilatura (profile milling), impiegata quando si vogliono
ottenere delle forme complesse; in questo caso si utilizzano frese con inserti rotondi e raggiati per
svolgere operazioni di sgrossatura e semi-sgrossatura e frese a candela con testa sferica per
operazioni di finitura e super-finitura. Per la complessità delle forme richieste la profilatura
richiede sostanzialmente l’utilizzo di fresatrici a 3 assi o a 5 assi. Più grande è il componente e più
complicata è la configurazione da lavorare più diventa importante la pianificazione del processo, e
in particolar modo nella profilatura abbiamo diversi step di lavorazione che consistono in una
sgrossatura, una semi-finitura e una finitura: per quanto riguarda la sgrossatura in genere si fanno
due o tre step successivi di lavorazione dei quali il primo andrà a rimuovere la maggior quantità di
materiale mediante un utensile sferico (ma in certi casi anche a candela); la semi-finitura viene poi
eseguita utilizzando un utensile sferico per lasciare una quantità di sovrametallo pressoché
costante, il quale è la chiave per un buon processo di finitura. Il sovrametallo costante viene
impiegato come criterio alla base di una produttività regolare ed elevata delle operazioni di
profilatura; per raggiungere la massima produttività in queste operazioni è importante adattare le
dimensioni della fresa alle diverse operazioni specifiche, quindi non è detto che vi sia un cambio
dell’utensile tra operazioni di sgrossatura e operazioni di finitura, e l’obiettivo fondamentale è
generare un sovrametallo uniformemente distribuito sul pezzo in modo tale da avere pochi
cambiamenti nel carico e nella direzione di lavoro per ogni utensile utilizzato, così da ridurre le
vibrazioni ed impedire un degradamento della qualità estetica del componente. Nel processo di
profilatura, in particolar modo per quel che riguarda la finitura, si utilizzano utensili di tipo sferico
solitamente inclinati rispetto al piano di lavorazione; nella slide 59 si vede il caso di una finitura per
profilatura di un piano non inclinato: andremo chiaramente inclinare l’utensile proprio per evitare
che non vi sia asportazione di truciolo (avremmo una velocità di taglio pari a zero nel punto di
contatto tra utensile e pezzo se questi due fossero un ortogonale all’altro), ma solitamente questo
problema non si pone in quanto andremo a finire superfici free-form (superfici complesse nello
spazio che saranno inclinate rispetto al piano ortogonale della macchina); in genere la finitura di
superfici piane si esegue con operazioni di spianatura, mentre la finitura di superfici complesse si
esegue con operazioni di profilatura mediante l’utilizzo di utensili sferici (in tal caso infatti
avremmo la necessità di seguire un profilo nello spazio e dunque avremmo già l’inclinazione
dell’utensile rispetto alla superficie del componente). Nella slide 60 sono riassunte le
caratteristiche di diversi tipi di utensili impiegati per il processo di profilatura partendo da un
utensile a inserti rotondi fino ad arrivare ad utensili integrali sferici che vengono utilizzati per il
processo di finitura (da sinistra verso destra abbiamo quindi le diverse fasi di sgrossatura, semi-
sgrossatura, semi-finitura e finitura): cambia la stabilità dell’utensile proprio perché siamo
chiamati ad asportare via via meno materiale (nel processo di sgrossatura siamo interessati ad
asportare il maggior quantitativo di materiale nel minor tempo possibile e dobbiamo utilizzare un
utensile che abbia requisiti di stabilità molto elevati, mentre nei processi di finitura o di super-
finitura non sono richiesti requisiti di stabilità elevati perché abbiamo una distribuzione ottimale
delle forze grazie al fatto che è stato lasciato un sovrametallo equamente distribuito sulla
superficie del pezzo); cambia anche la profondità di passata: è media per utensili a inserti sferici o
utensili ball nose mentre è molto ridotta per utensili integrali; cambia la produttività, mentre
rimane costante la versatilità (tuttavia nel caso in cui si avessero delle forme abbastanza
complesse e libere nello spazio si avrebbe una maggiore versatilità con un utensile integrale).
Considerazioni finali. Questo per quello che riguarda le diverse strategie di lavorazione per
ottenere un componente per fresatura. Ovviamente la strategia di lavorazione va definita prima di
iniziare la lavorazione: solitamente si parte con operazioni di spianatura per rimuovere l’eventuale
sovrametallo dal blocco di partenza e solo successivamente si eseguono operazioni di profilatura
per sgrossatura fino a terminare con operazioni di contornatura per finire la superficie del pezzo.
La finitura del componente finito non dipende solamente dalla tipologia di strategia che si adotta
ma anche dalle dimensioni e dal tipo dell’utensile, dall’overlap tra le diverse passate (quindi dal
passo radiale tra una passata e la successiva), dalla direzione di taglio (concorde o discorde) e
dall’orientazione della lavorazione; come si vede nella slide 63, utilizzando la stessa strategia con
lo stesso utensile e lo stesso passo radiale ma con due diverse orientazioni della lavorazione si
vede che la finitura superficiale (quindi la qualità della superficie del componente e la generazione
delle creste precedentemente menzionate) è differente: per un’orientazione lungo l’asse Y (figura
di destra) il risultato è nettamente migliore rispetto a quello per un’orientazione lungo l’asse X
(figura di sinistra). La soluzione ottimale è comunque sempre quella di utilizzare una direzione che
sia normale alla superficie, generando quindi dei percorsi utensile che seguono in qualche modo
l’orientazione della superficie; per superfici free-form questo è molto difficile, ma utilizzando dei
software per la generazione del percorso utensile questo è facilmente ottenibile sfruttando le
caratteristiche geometriche del pezzo: per superfici complesse dove la normale alla superficie
segue diverse direzioni punto per punto è importante generare un percorso utensile che segua
l’orientazione della superficie per ottenere la finitura ottimale della superficie stessa rimuovendo
sempre lo stesso quantitativo di materiale. Abbiamo anche visto che le strategie vanno scelte in
base alla geometria che si vuole ottenere (da una semplice spianatura fino alla realizzazione di
superfici complesse con una contornatura e una profilatura), che si adopereranno utensili sempre
diversi in base alla lavorazione che si vuole eseguire e infine che l’orientazione della generazione
del percorso utensile va ad influire sensibilmente sulle caratteristiche superficiali del pezzo. Quello
che è importante però è anche garantire un graduale inserimento dell’utensile all’interno del
componente, sia per la generazione di superfici esterne che per la generazione di superfici interne;
nella slide 67 è riportato a sinistra un ingresso a tuffo con due diversi livelli di lavorazione e a
destra un ingresso a rampa inclinata di 5°: nel primo caso, utilizzando un angolo di attacco di 90°,
l’utensile entrerà in presa in maniera completa sul pezzo generando elevate forze di taglio in un
brevissimo lasso di tempo, mentre nel secondo caso, avendo un inserimento graduale dell’utensile
nel componente, si riesce ad avere un attacco graduale tra utensile e componente limitando
l’insorgenza delle forze di taglio. È certamente preferibile la soluzione a rampa rispetto a quella
che vede tutti i taglienti al lavoro nello stesso istante di tempo sia per una questione di forze che
per una questione di usura. Non si posiziona mai uno step radiale pari al diametro dell’utensile ma
solitamente si utilizza una percentuale di questo più bassa (al massimo il 95% in genere) per avere
uno step over (profondità di taglio radiale) e non andare in presa con tutto l’utensile durante la
lavorazione; lo stesso concetto vale anche muovendosi sulle rampe di ingresso e sulle rampe di
uscita durante le lavorazioni. Una lavorazione che prevede un ingresso a tuffo è più performante
in termini di tempo perché non aggiunge movimentazioni dell’utensile come invece accade per
una lavorazione con ingresso a rampa, tuttavia è più gravosa perché si sollecita in maniera molto
pesante l’utensile durante l’ingaggio con il pezzo e si producono vibrazioni e/o scheggiamenti dei
denti durante l’ingresso. L’ingresso a rampa è quello più comunemente utilizzato nelle operazioni
di sgrossatura e per la realizzazione di tasche interne, ma ci sono anche altre tipologie di ingaggio
tra utensile e pezzo: ad esempio, la strategia ad arco tangente viene solitamente utilizzata nelle
operazioni di finitura o di ripresa (qualora si fosse lasciato un sovrametallo derivante
dall’operazione di sgrossatura ad esempio sulla tasca interna si dovrà svolgere un’operazione di
finitura, e anche in questo caso l’ingaggio tra utensile e materiale da lavorare dovrà avvenire in
maniera graduale utilizzando un arco tangente) sia in ingresso che in uscita per evitare il distacco
dell’utensile dal pezzo e quindi il decadimento delle forze di taglio, che potrebbero dar luogo a
vibrazioni e di conseguenza a difetti superficiali. Solitamente l’ingresso e l’uscita dell’utensile
vengono posizionati nello stesso punto anche per evitare di allungare il tempo di lavorazione. Le
strategie di ingresso e di uscita dell’utensile sono svariate e chiaramente vengono selezionate in
base alla tipologia di lavorazione che stiamo svolgendo: nel caso di un’operazione esterna (come
può essere una profilatura esterna o una spianatura) e di operazioni di finitura si può utilizzare un
ingresso tangente, mentre nel caso di un’operazione interna (come può essere ad esempio una
sgrossatura di una tasca interna) si deve per forza utilizzare una strategia a rampa o a elica. La
differenza tra sgrossatura e finitura solitamente sta anche nella profondità di taglio; per quanto
riguarda i processi di finitura si lavora principalmente col fianco dell’utensile avendo così elevate
profondità di passata e basse profondità di taglio radiali, mentre per quanto riguarda i processi di
sgrossatura vi sono due approcci: nel primo si utilizzano elevate profondità di passata e ridotte
profondità di taglio radiali mentre nel secondo si utilizzano basse profondità di passata ed elevate
profondità di taglio radiali. Chiaramente le strategie di ingresso e di uscita sono più importanti dal
punto di vista della finitura qualora si svolgano operazioni di finitura di superfici mentre sono più
importanti dal punto di vista della generazione delle forze di taglio qualora si svolgano operazioni
di sgrossatura. Per quanto riguarda l’ingresso e l’uscita si utilizzano parametri di processo ridotti
rispetto a quelli poi utilizzati nel corso della lavorazione; tali parametri verranno scelti in base alla
tipologia di utensile adoperato e alla tipologia di materiale lavorato. Solitamente si definiscono
prima il materiale del pezzo da lavorare e le caratteristiche dell’utensile (tipologia, diametro e
numero di denti) e poi i parametri di processo (velocità di taglio, avanzamento per dente, …): per
quanto riguarda le velocità di taglio vi è un range consigliato, e il valore da prendere dev’essere
dettato anche dal tipo di lavorazione che stiamo svolgendo (ad esempio, se si esegue una
spianatura su una superficie non continua occorrerà prendere un valore nella parte bassa del
range). Una volta determinati velocità di taglio e avanzamento per dente saremo in grado di
determinare tutti gli altri parametri, quindi la velocità di rotazione del mandrino, la velocità di
avanzamento della tavola portapezzo, la velocità in ingresso e la velocità in uscita (anche al variare
della strategia di ingresso e di uscita). Come ultima cosa si definiscono i parametri geometrici della
lavorazione, quindi la profondità di passata e lo step over; solitamente si adotta una relazione che
prevede come massima profondità di passata un valore pari a 0,1 volte il diametro dell’utensile e
come massimo step over un valore pari a 1,0 volte il diametro dell’utensile (questo perché siamo
limitati dal diametro utensile; non viene comunque mai utilizzato il 100% del diametro ma una
percentuale minore che varia tra il 90% e il 95%).
CNC Programming
Program planning. Fare “program planning” significa seguire una strategia per garantire una
buona lavorazione del componente: si parte da informazioni iniziali, poi si valuta la complessità
della parte e si svolge il part program andando a scegliere gli utensili e le strategie necessari per
garantire la qualità del componente finito. Non c’è una procedura ideale: dipende sempre dalle
considerazioni fatte sulla complessità della parte; un ambiente virtuale tra l’altro permette di
effettuare diverse prove per aiutare a capire quale possa essere la migliore strategia relativamente
alla geometria di partenza. Inizia tutto dal modello 3D, frutto del trasferimento dalla fase
concettuale di design alla fase di manufacturing; il primo step per definire le operazioni utensile è
proprio quello di esaminare il modello 3D e di identificare le features più critiche e le determinate
lavorazioni necessarie per realizzare il componente. La slide 5 mostra come a seconda di come
viene realizzato il disegno tecnico, ossia di come vengono definite le quote e le tolleranze
dimensionali, la programmazione manuale porti ad una diversa determinazione delle coordinate
(in maniera incrementale o in maniera assoluta) o ad una diversa collocazione dell’origine del
sistema di riferimento. Ciò vale anche per le tolleranze geometriche: ad esempio, in base alle
informazioni ricevute sul parallelismo dei piani o sulla forma del pezzo si capirà come posizionare il
componente in morsa, agendo sul setup del componente; altre informazioni, come ad esempio la
finitura superficiale, andranno a definire la scelta dell’utensile e i parametri di processo. Di fatto il
ponte tra CAD e CAM è il disegno tecnico, che si porta dietro tutte le informazioni relative al
componente, pertanto esso dev’essere attentamente ispezionato prima di generare qualsiasi part
program (cioè il codice in grado di generare poi la movimentazione degli assi della macchina
utensile). Le diverse scelte andranno poi trasferite anche nella scelta dei diversi percorsi utensile.
La realizzazione di un part program quindi non è solo la generazione di un codice privo di ogni
forma di errore, ma anche la definizione dell’ordine delle strategie, degli utensili e dei parametri di
processo atti a garantire la qualità del componente finito rispettando le specifiche di prodotto.
Struttura di un part program. Un part program è strutturato principalmente seguendo quattro
termini base: i caratteri, le parole, i blocchi e il programma. Il carattere è l’unità più piccola del
part program e può trovarsi in forma di numeri, lettere o simboli; i caratteri vengono combinati tra
loro definendo così prima le parole e poi dei codici alfanumerici. La parola quindi è la
combinazione di caratteri così da dare origine ad una singola istruzione del part program;
solitamente ogni parola inizia con una lettera maiuscola ed è seguita da un numero che
rappresenta il codice o il valore del part program: ad esempio, alcune parole tipiche indicano la
posizione degli assi, l’avanzamento, le velocità o dei comandi preparatori. I blocchi si ottengono
dalla combinazione di diverse parole, e rappresentano quindi una linea di comando composta da
istruzioni multiple che verranno poi lette e seguite dalla macchina utensile. Il programma, infine, è
costituito da un insieme di blocchi; tipicamente inizia con un codice identificativo del part program
che viene poi seguito da una sequenza di blocchi e di istruzioni in carattere alfanumerico e che
termina con un simbolo o un codice di stop. Si analizzi ad esempio il blocco della slide 14: N25 è il
numero del blocco o della sequenza, e in genere è un numero incrementale; G90 è una parola e
quindi un comando, che qui identifica la modalità assoluta di spostamento; G00 è anch’essa una
parola e quindi un comando, che qui identifica la modalità rapida di movimentazione degli assi;
X13.0 Y4.6 identifica il posizionamento delle coordinate; M08 è una funzione che va ad attivare il
lubrificante. Le principali lettere impiegate nelle strutture del part program sono le seguenti: D
identifica l’offset del raggio utensile, F identifica il feed rate, G identifica i comandi preparatori, I, J
e K vengono in genere utilizzate in combinazione con i comandi G02 e G03 per l’interpolazione
circolare, M identifica delle funzioni relative alla macchina, N identifica il numero di blocco, S
identifica la rotazione del mandrino, T identifica l’utensile e infine X, Y e Z identificano le diverse
coordinate nei piani della macchina.
Comandi preparatori (G). Partiamo con l’analizzare i comandi preparatori (G). Questa tipologia di
comandi ha il solo obiettivo di preparare il sistema di controllo ad un determinato input: ad
esempio, G00 imposta la macchina per un movimento in rapido ma non esegue il movimento,
mentre G81 prepara la macchina per eseguire un ciclo di foratura ma non le fa fare alcun foro. I
comandi G in sostanza preparano l’unità di controllo al fine di accettare le istruzioni relative al
programma; possono essere posizionati anche in blocchi a sé stanti e, essendo comandi modali,
rimangono attivi in tutto il part program finché non si introdurrà un altro comando G relativo alla
stessa tipologia di comando (ad esempio sostituendo G00 con G01 o G02 oppure sostituendo G90
con G91).
Funzioni relative alla macchina (M). Le funzioni relative alla macchina (M) possono essere
suddivise in due tipologie: funzioni associate direttamente alla macchina (relazionate ad
operazioni fisiche della macchina stessa, come la rotazione del mandrino, il cambio utensile, il
cambio pezzo, la lubrificazione, …) e funzioni legate al programma (terminano un programma,
chiamano un sottoprogramma, …). Una funzione M a differenza di un comando G può essere
indicata in un’unica riga di codice (e quindi in un unico blocco) senza altre informazioni
supplementari, tuttavia per non allungare troppo il part program viene generalmente inserita
all’interno di un altro blocco. Le principali funzioni M sono riportate nella slide 22.
Definizione delle dimensioni all’interno di un part program. Abbiamo visto come definire l’origine
pezzo, che si discosta dall’origine macchina, e nel part program possiamo definire le coordinate in
riferimento alla movimentazione degli assi in due modalità: la prima è la modalità assoluta (G90),
in cui si esprimono le coordinate facendo sempre riferimento all’origine, e la seconda è la
modalità incrementale (G91), in cui si esprimono le coordinate facendo sempre riferimento alla
posizione attuale dell’utensile. Per entrambi i comandi G90 e G91 vi è la possibilità di
movimentare un singolo asse o entrambi gli assi contemporaneamente.
Comandi per il controllo del mandrino (S). I comandi per il controllo del mandrino (S) vanno ad
indicare la velocità di rotazione del mandrino, solitamente espressa in [rpm]; nella maggior parte
delle macchine utensili il mandrino può ruotare in senso orario e antiorario, e ciò viene espresso
rispettivamente con le funzioni M03 e M04 dopo l’indicazione di velocità con un comando S.
Comandi per il controllo del feed rate (F). I comandi per il controllo dell’avanzamento (F)
identificano il feed rate solitamente in [mm/min]. Sono anch’essi di tipo modale, perciò
fintantoché non si cambia il valore di F tutti movimenti di tutti gli assi vengono svolti alla velocità
di avanzamento impostata per ultima; questo vale a meno che non si utilizzi il comando G00: esso
infatti imposta di default l’avanzamento in rapido definito nelle impostazioni di ogni singola
macchina. Al contrario, se si impostano dei movimenti G01, G02 o G03 è necessario definire il
valore del feed rate perché altrimenti la macchina utilizzerà l’ultimo valore di feed rate impostato.
Comando G00: posizionamento rapido. Il comando G00 è un comando modale ed è riferito al
posizionamento dell’utensile: solitamente gli spostamenti in rapido vengono fatti quando si
cambia utensile, si misura l’utensile o si devono fare spostamenti lunghi dell’utensile per cambiare
posizione di attacco nella strategia. Queste tipologie di movimenti vengono solitamente fatte in un
piano di sicurezza in cui si è sicuri che l’utensile non vada in collisione con il pezzo e con la
macchina. G00 non richiede un valore di feed rate (quindi una funzione F): infatti, qualsiasi valore
si attribuisca a F verrà ignorato se inserito dopo G00; se si vuole far muovere l’utensile ad una
velocità diversa da quella prefissata per il movimento in rapido si dovrà utilizzare ad esempio il
comando G01 per un’interpolazione lineare seguito da un comando F con la velocità desiderata. Si
ricorda che i movimenti in rapido sono quelli durante i quali l’utensile non è in ingaggio con il
pezzo e che i movimenti per la lavorazione sono quelli durante i quali l’utensile è in ingaggio con il
pezzo (sono associati ai comandi G01, G02 e G03 di interpolazione dei punti).
Comando G01: interpolazione lineare. Il comando G01 è un comando modale e va ad interpolare
linearmente diversi punti; nel blocco dev’essere seguito dalle coordinate X, Y e Z e da F per
indicare la velocità di avanzamento dell’utensile. Viene utilizzato per realizzare delle traiettorie
rettilinee lungo uno o più assi (in questo secondo caso unirà due punti compiendo il minor tragitto
possibile, quindi se c’è un ostacolo lungo la traiettoria lo si andrà a colpire: in tal caso occorrerà
muoversi lungo singoli assi). Tutti i comandi di spostamento dell’utensile sono preceduti da G90 o
da G91 così da avere la certezza di utilizzare il sistema di riferimento desiderato.
Cicli fissi. Per realizzare operazioni che solitamente utilizzano un posizionamento dell’utensile su
un piano di sicurezza e poi vengono eseguite lungo l’asse Z (come ad esempio la foratura, la
filettatura e l’alesatura, tra le altre) si possono impiegare dei cicli fissi; questi hanno la seguente
struttura: movimento in rapido sul piano X-Y fino alla posizione del foro, movimento in rapido
lungo l’asse Z per avvicinare l’utensile al pezzo, esecuzione della lavorazione da parte dell’utensile
lungo l’asse Z utilizzando il feed rate (velocità di avanzamento) impostato, ritorno dell’utensile
lungo l’asse Z al piano di sicurezza. Tutte queste informazioni possono essere riassunte in un
singolo blocco utilizzando un ciclo fisso che ha la struttura N… (identifica il numero del blocco) G…
(di solito G98 o G99 a seconda che si voglia far tornare l’utensile rispettivamente alla posizione
iniziale o alla posizione specificata dal comando R) G… (identifica il numero di ciclo e quindi il tipo
di lavorazione eseguita) X… Y… (identificano la posizione nel piano del foro) R… (identifica la quota
lungo Z del piano di sicurezza) Z… (identifica la profondità della lavorazione eseguita) F… (identifica
il feed rate che verrà mantenuto solamente durante l’operazione e non per i movimenti in rapido).
Comandi G02 e G03: interpolazione circolare. I comandi G02 e G03 necessitano di ulteriori
informazioni, come ad esempio il piano di lavorazione, il punto di inizio e di fine dell’arco, il centro
e il raggio; G02 indica un’interpolazione circolare di tipo orario e G03 indica un’interpolazione
circolare di tipo antiorario. Nella slide 34 sono riportati due esempi relativi a come esprimere il
comando G02 o G03: nel primo si definiscono le coordinate del centro rispetto al punto di inizio
dell’arco con I e J e si specificano queste due grandezze nella riga di comando anticipate dal
comando preparatorio G02 o G03 e dalle coordinate X e Y del punto di fine dell’arco, mentre nel
secondo si definisce solamente il raggio e si specifica questa grandezza nella riga di comando
anticipata dal comando preparatorio G02 o G03 e dalle coordinate X e Y del punto di fine dell’arco.
Comandi G41 e G42: compensazione dell’utensile. Quando si definiscono delle traiettorie nel CAM
gli spostamenti sono riferiti all’asse utensile, e questo è comodo nella scrittura del part program
ma non è accettabile in quanto il contatto avviene tra fianco utensile e pezzo e non tra asse
utensile e pezzo: per operazioni come quelle di contornatura, allora, occorre definire i contorni del
componente (e non la traiettoria dell’asse dell’utensile) compensando il raggio dell’utensile.
L’informazione in ingresso è il diametro dell’utensile, il quale se la macchina ha un magazzino
utensili viene solitamente specificato dal comando di cambio utensile M06 T1: in tal caso la
macchina fa affidamento al proprio database e sa che nella posizione T1 si trova un certo tipo di
utensile con una certa lunghezza e un certo diametro. Per la compensazione dell’utensile si
utilizzano i comandi G40, G41 e G42, che sono anch’essi comandi modali: in particolare, G40
rimuove la compensazione, G41 è una compensazione del raggio utensile verso sinistra rispetto
alla direzione di avanzamento dell’utensile e G42 è una compensazione del raggio utensile verso
destra rispetto alla direzione di avanzamento dell’utensile. La compensazione dell’utensile insieme
alla direzione di rotazione dell’utensile andranno a definire la tipologia di lavorazione, che può
essere concorde o discorde (slide 38). I comandi G41 e G42 danno effetti diversi a seconda che
vengano posizionati all’interno dello stesso blocco o in blocchi diversi: con riferimento alla slide 39
nel primo caso si definisce la modalità assoluta di spostamento (G90), si azzera la compensazione
del raggio utensile (G40), si cambia l’utensile (M06 T3), si imposta un’interpolazione lineare (G01)
definendo il punto di partenza (X0 Y0), dal punto di partenza in poi si attiva la compensazione
utensile (G41) e si esegue un’interpolazione lineare (G01) fino ad un secondo punto (X0,500
Y1,700), però con queste istruzioni la traiettoria viene completamente sfalsata perché la
compensazione avviene proprio mentre si fa l’interpolazione lineare; dato che G41 è un comando
modale viene mantenuto anche nella riga di codice successiva, nella quale si tiene Y1,700 e si
esegue un’interpolazione lineare fino a X1,500. Nel secondo caso della slide 39 invece la situazione
è diversa: si cambia l’utensile (M06 T3), si definisce la modalità assoluta di spostamento (G90), si
attiva subito la compensazione utensile (G41), si imposta un’interpolazione lineare (G01)
definendo il punto di partenza (X0 Y0) ma questa volta con la compensazione del raggio utensile
già attivata e ci si muove prima fino a X0,500 Y1,700 e poi, tenendosi a Y1,700, fino a X1,500
sempre con la compensazione del raggio utensile attivata. Nella slide 40 è riportato un esempio di
esercizio in cui vengono forniti l’origine del sistema di riferimento, l’altezza del profilo, il diametro
dell’utensile e la quota Z di inizio (l’utensile si trova già in X0 e in Y0); il codice che si deve scrivere
come soluzione è il seguente:

• O1001: è il nome del codice


• N10 G90 G17 M06 T1: si attiva la modalità assoluta di spostamento lungo il piano X-Y e si
esegue il cambio utensile selezionando l’utensile T1
• N20 S1000 F300 M03 M08: si inizializza la rotazione dell’utensile, si specifica il feed rate, si
mette in rotazione oraria il mandrino e si aziona il lubrorefrigerante
• N30 G00 X-10 Y-10: si fa uno spostamento in rapido si va a X-10 e a Y-10, uscendo dal pezzo
• N40 G01 Z-10: si esegue l’avvicinamento dell’utensile verso il piano di lavoro
• N50 G91 G41: si attiva la modalità incrementale di spostamento e si compensa il raggio
utensile verso sinistra
• N60 G01 X10 Y10: si esegue uno spostamento di 10 verso destra e di 10 verso l’alto a
partire dalla posizione X-10 Y-10 (infatti è stato settato uno spostamento incrementale)
• N70 G01 Y55: si esegue uno spostamento di 55 verso l’alto con interpolazione lineare
• N80 G01 X55: si esegue uno spostamento di 55 verso destra con interpolazione lineare
• N90 G02 Y-10 I0 J-5: si esegue un’interpolazione circolare oraria indicando, rispetto al
punto di inizio dell’arco (posizione corrente), le coordinate del punto di fine dell’arco (X0,
non riportata perché superflua, e Y-10) e le coordinate del centro del cerchio (I0 J-5)
• N100 G03 Y-20 I0 J-10: si esegue un’interpolazione circolare antioraria indicando, rispetto
al punto di inizio dell’arco (posizione corrente), le coordinate del punto di fine dell’arco (X0,
non riportata perché superflua, e Y-20) e le coordinate del centro del cerchio (I0 J-10)
• N110 G02 Y-10 I0 J-5: si esegue un’interpolazione circolare oraria indicando, rispetto al
punto di inizio dell’arco (posizione corrente), le coordinate del punto di fine dell’arco (X0,
non riportata perché superflua, e Y-10) e le coordinate del centro del cerchio (I0 J-5)
• N120 G01 X-32: si esegue uno spostamento di 32 verso sinistra con interpolazione lineare
• N130 G03 X-8 Y-8 I0 J-8: si esegue un’interpolazione circolare antioraria indicando, rispetto
al punto di inizio dell’arco (posizione corrente), le coordinate del punto di fine dell’arco
(che questa volta sono X-8 Y-8) e le coordinate del centro del cerchio (I0 J-8)
• N140 G01 Y-7: si esegue uno spostamento di 7 verso il basso con interpolazione lineare
• N150 G01 X-30: si esegue uno spostamento di 30 verso sinistra con interpolazione lineare
• N160 G90: si attiva la modalità assoluta di spostamento
• N170 G00 Z100: si esegue uno spostamento in rapido alla quota Z100
• N180 G00 X0 Y0: si esegue uno spostamento in rapido all’origine X0 Y0
• N190 M05: si spegne il mandrino
• N200 M09: si spegne il lubrorefrigerante
• N210 M30: si termina il programma
Additive Manufacturing (AM)
Esigenze in ambito industriale. La prima necessità è quella di accelerare i tempi di sviluppo di
nuovi prodotti; una fase importante è quella della prototipazione, ossia della preparazione dei
primissimi componenti fisici che possono consentire al team di sviluppo del nuovo prodotto di fare
alcuni test (non possiamo infatti fare tutto in modo virtuale, ma dobbiamo realizzare dei
componenti, assemblarli e verificare che tutto funzioni come ci si aspetta): la prima necessità è
dunque quella di produrre il più rapidamente possibile componenti anche di geometria complessa.
La seconda necessità fa riferimento ad aspettative generali che si hanno tanto nel settore
aerospaziale quanto in quello automotive (e in tanti altri): la riduzione della massa del prodotto
(anche per avere una migliore efficienza nell’utilizzo delle risorse) e della quantità di materiali
utilizzati durante i processi produttivi tenendo conto anche degli scarti di lavorazione, la riduzione
del numero di componenti e l’aumento della possibilità di personalizzazione di un prodotto (molto
importante ad esempio nella realizzazione di protesi biomedicali, dove chiaramente ogni paziente
ha requisiti diversi e dove una particolare struttura della protesi aiuta l’osseo-integrazione). Vale
poi la pena ricordare quanto visto ad esempio in termini di lavorazioni convenzionali per via
sottrattiva, nelle quali si va ad asportare per passaggi successivi il materiale in eccesso con gli
svantaggi appunto di avere una grande quantità di materiale di scarto, varie difficoltà nella
programmazione della macchina CNC e anche certe restrizioni sulla libertà delle operazioni da
svolgere. Per quanto riguarda la collocazione dell’additive manufacturing, nei contesti
recentemente di tendenza (come lo sviluppo delle industrie 4.0, dell’Internet of things, ecc.)
vediamo spesso citato l’additive manufacturing perché è il tipo di processo produttivo che meglio
rappresenta il punto di incontro tra il mondo digitale e quello delle macchine, delle lavorazioni più
tradizionali.
Cos’è l’additive manufacturing. In estrema sintesi l’additive manufacturing (AM) o fabbricazione
additiva è l’insieme di tutte quelle tecnologie che ci consentono di realizzare oggetti fisici a partire
da una loro rappresentazione digitale; ciò viene fatto aggiungendo materiale, da cui il nome, e lo
stile tipico seguito nella quasi totalità è quello della costruzione per strati successivi senza l’utilizzo
di attrezzature dedicate, nel senso che non si hanno stampi: questo è il principale punto di forza di
queste tecnologie. Originariamente le prime tecnologie additive venivano impiegate solo nella
prototipazione rapida, mentre oggi anche grazie ai loro costi decrescenti e alla loro maggiore
“maturità” si utilizzano per la produzione diretta di componenti.
Principio base. Il concetto generale è quello di trasformare un oggetto digitale 3D in un
componente fisico mediante la deposizione di materiale per strati successivi; vi sono diverse
possibilità a seconda dello stato in cui si trova il materiale adoperato: ad esempio si può applicare
della polvere nella zona di lavoro e poi consolidarla tramite un raggio laser abbassando
progressivamente la piattaforma su cui si sta realizzando l’oggetto e rieseguendo l’operazione un
numero molto grande di volte. Il componente finale può essere anche molto complesso.
L’approccio di base è quindi quello di costruire per strati successivi; al diminuire dello spessore
dello strato aumenta il livello di dettaglio e quindi anche la qualità dell’approssimazione rispetto
all’oggetto desiderato ma contemporaneamente incrementa il numero di strati da costruire, e
questo può avere delle conseguenze significative sulla durata complessiva della lavorazione: anche
qui a seconda della tecnologia sarà quindi opportuno definire lo spessore dello strato ottimale per
minimizzare i tempi e ottenere una buona qualità. Come già detto quasi tutte le macchine per la
fabbricazione additiva costruiscono per stati successivi e si differenziano tra di loro per i materiali
che possono essere utilizzati (solido, liquido, polveri, …), per la modalità di realizzazione degli strati
e per come i vari strati sono legati tra di loro; queste differenze determinano aspetti come
l’accuratezza del prodotto finito anche in termini di qualità superficiale, le proprietà dei materiali,
le proprietà meccaniche, i tempi di produzione, la necessità di operazioni successive per
ottimizzare il componente appena realizzato, la taglia della macchina utilizzata e i costi generali del
macchinario e del processo. L’approccio costruttivo additivo ha il grandissimo vantaggio di liberare
completamente dalle restrizioni dei processi produttivi tradizionali: si possono infatti realizzare
strutture molto complesse che possono aiutare a dare certe proprietà di resistenza o rigidezza
strutturale indipendentemente dalla complessità geometrica delle strutture stesse perché si tratta
solo di programmare il percorso di un raggio laser o di un’altra fonte di energia che utilizziamo per
la costruzione.
Processo produttivo tramite AM. Si parte da una rappresentazione 3D dell’oggetto che si vuole
realizzare, la si converte in formato tipicamente STL, si trasferisce il file alla macchina, si esegue il
setup della macchina, si avvia la costruzione e si rimuove il pezzo finito una volta completata, si
attuano se necessario delle lavorazioni aggiuntive e infine si può utilizzare l’oggetto prodotto.
Confronto tra AM e asportazione tramite macchina CNC. Vale la pena confrontare la
fabbricazione additiva e la fabbricazione per asportazione:

• Innanzitutto la prima asporta materiale scartandone molto mentre la seconda lavora per
strati scartando solo il materiale relativo alle geometrie di supporto e ad eventuali
lavorazioni di finitura successive
• In termini di materiali con le tecnologie additive si sono lavorati dapprima materiali
polimerici e solo successivamente anche compositi, materiali metallici e ceramici, mentre
le lavorazioni di asportazione sono prevalentemente pensate per materiali metallici e
materiali “morbidi”
• La fabbricazione additiva dà ancora qualche problema in termini di affidabilità del processo
a causa della scarsa qualità geometrica, della bassa integrità dei componenti realizzati e del
tasso di difettosità (relativamente elevato rispetto a quello delle lavorazioni per
asportazione), mentre le lavorazioni per asportazione consentono di realizzare componenti
con forme e proprietà molto ben definite e con un basso tasso di difettosità
• Esistono lavorazioni per asportazione ad alta velocità, e questa velocità di rimozione del
materiale è sicuramente maggiore della velocità di deposizione del materiale; tuttavia, le
macchine per l’additive manufacturing sono interessanti perché grazie alla loro capacità di
produrre indipendentemente dalla complessità geometrica del componente possono
consentire di fabbricare in un’unica fase un componente che tipicamente per asportazione
richiederebbe più fasi produttive
• In termini di complessità geometrica l’additive manufacturing è assolutamente insensibile
alla complessità geometrica (nel senso che i tempi di lavorazione non dipendono dalla
complessità geometrica del componente), mentre le lavorazioni per asportazione
richiedono macchine più sofisticate e un maggior numero di afferraggi, tra le altre cose,
quando le forme diventano più complesse; certe geometrie sono addirittura impossibili per
le lavorazioni per asportazione
• Per quanto riguarda le accuratezze è vero che esistono tecnologie in grado di lavorare con
risoluzione dell’ordine della decina di micrometri però questo non significa che
l’accuratezza del componente che andiamo a costruire sia di quest’ordine di grandezza:
durante il processo di costruzione additiva infatti si manifestano fenomeni di natura
termica principalmente ma non solo che portano ad un deterioramento dell’accuratezza.
Ciò fa capire che la risoluzione nel caso della fabbricazione additiva non è un’informazione
completa sulle prestazioni complessive in termini di accuratezza delle macchine, ma
comunque è un’indicazione importante in termini di caratteristica geometrica più piccola
riproducibile (in un certo senso questo ha un parallelo nell’accuratezza di posizionamento
di una macchina utensile e nelle dimensioni minime che possono avere gli utensili, che
pure vanno a limitare le dimensioni minime delle caratteristiche geometriche da realizzare)
• A livello di programmazione possiamo affermare che la programmazione di una macchina
per l’additive manufacturing è relativamente facile per il ridotto numero di impostazioni
rispetto ad una macchina CNC; rimane comunque fondamentale la corretta scelta dei
parametri di processo. C’è anche un aspetto legato a eventuali danni per un errato
settaggio del lavoro: nel caso di macchina CNC si rischia ad esempio di mandare l’utensile
in collisione con il pezzo con conseguenze potenzialmente molto serie, mentre nel caso di
macchina per l’additive manufacturing al limite si scarterà il pezzo che si stava lavorando
• Parlando di costi si capisce che nel caso di lavorazioni additive il costo per unità di prodotto
è fondamentalmente indipendente dal numero di pezzi prodotti perché non ci sono
sostanziali economie di scala nell’andare a fabbricare in modo additivo; al contrario, nelle
lavorazioni convenzionali è necessario utilizzare attrezzature dedicate (stampaggio,
forgiatura, ecc.) e quindi il numero di componenti da produrre influenza fortemente il
costo unitario del prodotto: in particolare, all’aumentare del numero di pezzi da produrre
si ripartisce il costo dell’investimento iniziale su un maggior numero di componenti e
quindi il costo unitario del prodotto decresce
Vantaggi dell’AM. L’additive manufacturing consente di avere un vantaggio nella produzione
quando la sua capacità di produrre geometrie complesse viene sfruttata appieno: per fare un
esempio, la personalizzazione dei componenti non richiede la costruzione di nuove attrezzature o
di nuovi stampi ma impone solo di variare il percorso che deve fare un certo raggio di energia.
Un’altra grande possibilità è rappresentata dalla sostituzione di assemblati con componenti
monolitici costruiti con tecnologia additiva, il che consente di ottimizzare la topologia del
componente che si vuole realizzare ma anche di avere una minimizzazione della quantità di
materiale utilizzato (per il fatto che si deposita materiale solo dove veramente serve) e una forte
riduzione delle masse (aumentando le dinamiche dei componenti o migliorandone il
comportamento a livello termico). L’additive manufacturing permette poi, come già detto, di
avere geometrie molto complesse purché i costi di produzione lo permettano, pertanto un
progettista può fare scelte più liberamente per ottenere un componente che sia il più performante
possibile. Parliamo anche di aspetti logistici: avere la possibilità di costruire un componente in
tempi relativamente rapidi partendo da polveri, liquidi e solidi apre la strada alla fabbricazione
locale del componente necessario, nel senso che non si dovrà più produrre un pezzo in un certo
luogo per poi spedirlo in giro per il mondo ma lo si potrà produrre direttamente lì dove serve.
Cenni storici sullo sviluppo dell’AM. La tecnologia dell’additive manufacturing è partita addirittura
prima degli anni ‘80 con alcune prime attività sperimentali non ben documentate. I primi brevetti
sono comparsi all’inizio degli anni ‘80, e in particolare il brevetto forse più conosciuto e che ha
dato lo slancio più forte allo sviluppo della tecnologia è stato quello di Charles Hull: egli ha
brevettato la tecnica stereolitografica e ha poi fondato “3D Systems”, uno dei principali costruttori
di sistemi per la fabbricazione additiva. Successivamente sono comparse altre tecnologie: aziende
come Helisys ad esempio costruivano componenti a partire da fogli di carta tagliati con laser e
incollati tra di loro; nel 1989 è comparsa la tecnica FDM, che vedremo, e per la prima volta si iniziò
a parlare di “3D printing” grazie alla relativa tecnica specifica sviluppata presso il MIT. Per quanto
riguarda le applicazioni inizialmente, nel 1988, si parlava dell’utilizzo di queste tecnologie per la
prototipazione rapida, poi negli anni ‘90 si parlava di queste tecnologie per accelerare i processi
tradizionali; a partire dai primi anni 2000 l’additive manufacturing si è sviluppato ed è stato
adottato in vari settori tra i quali quello automotive, quello aerospaziale e quello biomedicale. La
prototipazione rapida è un processo per creare rapidamente un modello da cui si deriverà poi il
prodotto finito partendo da un modello digitale; essa permette di testare idee e fornisce un
riscontro durante il processo di sviluppo del prodotto, favorendone tra l’altro l’accelerazione. In
questo contesto il primo obiettivo da perseguire è realizzare un componente che abbia la forma
generale desiderata, così da poter fare alcune valutazioni di carattere generale; se invece si
vogliono fare prove di assemblaggio in generale si devono già avere certi requisiti di accuratezza
sufficienti per poter eseguire l’assemblaggio; se infine vogliamo addirittura fare delle prove
funzionali, il che richiede di replicare sul prototipo proprietà del materiale simili a quelle definitive,
è necessario avere a disposizione materiali adeguati all’applicazione. Anche per fare la semplice
prototipazione allora è importante che l’accuratezza e le proprietà dei materiali utilizzati siano
rappresentative delle tecnologie definitive per la produzione. Le tecnologie additive però come già
accennato possono facilitare la produzione tradizionale: con “rapid casting” si intende l’utilizzo di
pezzi realizzati con tecnologie additive come modelli base per tecniche di colata, mentre con
“rapid tooling” si intende l’adozione di tecnologie additive per produrre inserti per stampi che
servono per realizzare serie limitate di semplici componenti in plastica per stampaggio a iniezione
risparmiando il costo di fabbricazione di stampi in materiali metallici; è poi possibile utilizzare gli
oggetti realizzati per farne delle repliche tramite la tecnica siliconica, quindi ci sono diverse
possibilità per sfruttare le tecnologie additive per replicare componenti nei materiali tradizionali.
In ogni caso, la potenzialità più grande delle tecnologie additive viene dal loro utilizzo per
fabbricare componenti in materiale polimerico e in materiale metallico che possono essere
utilizzati direttamente: questo è stato fatto con le tecnologie che si sono sviluppate negli ultimi
decenni.
Classificazione e descrizione dei processi AM. Le tecnologie additive possono essere classificate in
base allo stato della materia prima, che può trovarsi in forma di fogli, in forma fusa, in forma
liquida o in forma di polveri, e in base alla tecnica di costruzione, che può prevedere l’utilizzo di
una fonte di energia concentrata puntualmente, di più fonti di energia concentrate puntualmente,
di un ugello a più punti di deposizione del materiale o di strumenti per la deposizione simultanea
di un’intera sezione 2D. La normazione ha portato ad una classificazione delle tecnologie additive
in sette categorie:
1) Stereolitografia. Si parte da una resina liquida e con un raggio laser si consolida il
materiale. Una resina fotosensibile viene fatta polimerizzare tramite l’azione di un raggio
UV che, in modo localizzato, la indurisce; guidando opportunamente il raggio laser nei
punti di interesse, abbassando progressivamente la piattaforma e utilizzando una barra che
distribuisce uno strato uniforme di resina si riesce quindi, per strati successivi, a realizzare il
componente di interesse. Spesso insieme al componente viene realizzata una struttura di
supporto che ha la funzione di evitare che il componente si deformi in fase di produzione.
Le macchine possono avere taglie molto diverse
2) Estrusione di materiale. Si deposita il materiale fuso per estrusione attraverso un ugello.
Per la precisione, un filamento di materiale viene fatto fondere appena prima di essere
depositato dall’ugello; il materiale fuso viene depositato per strati successivi su una
piattaforma dove si raffredda e solidifica. Tipicamente si utilizzano due materiali: il
materiale da costruzione vero e proprio e il materiale di supporto appositamente pensato
per essere rimosso dopo la produzione. È una tecnica nota anche come “FDM” (Fused
Deposition Modeling), e anche qui le macchine hanno dimensioni molto diverse
3) Material jetting. Si deposita il materiale in modo discreto attraverso una serie di ugelli in
maniera più rapida di quanto consente la precedente tecnologia e con una risoluzione
addirittura più elevata. Esiste la possibilità di impiegare una serie di materiali differenti con
caratteristiche e funzionalità attese distinte
4) Binder jetting. Si consolida un letto di polveri in modo localizzato aggiungendo un legante.
Nello specifico, un rullo distribuisce le polveri del materiale d’interesse in modo uniforme
in corrispondenza di una piattaforma di costruzione dove una testina distribuisce un
legante che incolla le particelle; spesso il prodotto di questa operazione viene posto in un
forno dove, a seguito di un trattamento termico, può assumere caratteristiche meccaniche
interessanti a seconda dei materiali utilizzati
5) Laminazione di fogli. Si compattano dei fogli di materiale tramite incollaggio. Il foglio di
materiale viene posto sopra lo strato precedente, viene tagliato da un raggio laser o da un
coltello, viene incollato allo strato precedente anche grazie ad un rullo fusore che attiva
termicamente la sostanza adesiva di cui è cosparso il foglio e si realizza il componente. Lo
stesso concetto è stato sviluppato anche attraverso tecniche di saldatura ad ultrasuoni
consolidando addirittura materiali di tipo metallico
6) Powder bed fusion. Si consolida un letto di polveri usando una sorgente localizzata di
energia (raggio laser o fascio di elettroni, tipicamente). Si basa sull’utilizzo di un letto di
polveri (metalliche, ceramiche, polimeriche, …) che viene attivato termicamente in modo
localizzato per essere consolidato per strati. È anche nota come “SLS” (Selective Laser
Sintering) e forse è la tecnica più importante per le applicazioni meccaniche; nel caso in cui
si utilizzino polveri metalliche il processo prende il nome di “SLM” (Selective Laser Melting)
ma conserva il principio di funzionamento: la polvere metallica viene distribuita ed
uniformata in spessore, si aziona un raggio laser concentrato o un fascio di elettroni in
vuoto (“EBM”, Electron Beam Melting)
7) Direct energy deposition. Si deposita direttamente il materiale che viene consolidato
tipicamente con una sorgente laser. L’idea è quella di avere un materiale d’apporto in
forma di filo che, in modo continuo, viene portato in corrispondenza del punto d’azione di
un raggio laser o di un fascio elettronico; questo consente di ottenere una pozza fusa che
poi solidifica e consente di produrre per strati successivi in modo additivo. Un’altra
variante consiste nell’apportare in modo continuo del materiale in forma di polvere tramite
un gas inerte (ad esempio argon) in corrispondenza del punto d’azione di un raggio laser:
esso liquefa la polvere che poi solidifica e ci consente di ottenere il componente

Spesso si realizza anche una fabbricazione ibrida, che affianca alle tecnologie additive le
convenzionali lavorazioni per asportazione ad esempio per migliorare la finitura superficiale e
l’accuratezza geometrico-dimensionale del componente, le quali sono un po’ i punti deboli delle
tecniche AM.
Punti deboli delle tecnologie AM. Partiamo dal fatto che ci sono limitazioni in termini di
dimensioni di ciò che possiamo realizzare: si possono infatti realizzare solo componenti di
dimensioni inferiori a quelle della macchina; parti di grandi dimensioni possono essere prodotte in
segmenti ed essere successivamente assemblate, ma questo chiaramente richiede del tempo
aggiuntivo. I tempi di produzione di un singolo componente per additive manufacturing possono
essere di svariate ore, mentre in termini di catena di processo i tempi diventano più interessanti
(per capire meglio, certamente un componente ottenuto per stampaggio a iniezione si ottiene in
pochi secondi, ma la realizzazione dello stampo che permette di fare ciò è molto onerosa in
termini di tempo). La qualità delle superfici, la risoluzione e le proprietà meccaniche finali non
sono delle migliori: la rugosità delle superfici è molto superiore a quella che usualmente si richiede
ad altri processi, e inoltre le proprietà meccaniche dei componenti dipendono fortemente dalla
qualità del consolidamento che si è effettuato (ad esempio spesso ci sono fenomeni di fusione
parziale delle polveri che limitano le proprietà meccaniche del componente). È importante
sottolineare che i costi possono essere importanti sia per l’attrezzatura di additive manufacturing
che per i materiali da impiegare. È necessario introdurre delle normative perché senza
un’adeguata regolazione potrebbero esserci forti implicazioni sociali e commerciali. Un altro
fattore di primaria importanza è rappresentato dall’intensità delle tensioni residue che sono
indotte dai rilevanti gradienti termici che si hanno in un processo additivo. Nonostante queste
limitazioni le tecnologie additive si stanno diffondendo in svariati settori anche grazie ai costi
decrescenti delle tecnologie e delle materie prime, quindi troveranno sempre più spazio: diversi
studi hanno previsto una crescita molto forte del valore di mercato di queste tecnologie.
Catena di processo dell’additive manufacturing
Sono state viste le sette categorie normate di processi di additive manufacturing; ciò che si vedrà
in questo capitolo è la catena di processo generale che si segue in tutti i casi. Le diverse tecnologie
si differenziano tra di loro ad esempio per lo stato della materia prima e per la sorgente attiva, ma
hanno anche degli aspetti comuni. Cerchiamo quindi di capire meglio il flusso di lavoro, già
introdotto, che va dall’identificazione della geometria 3D che si intende realizzare fino alla
realizzazione fisica del prodotto finito, comprese le lavorazioni secondarie: da un processo di
progettazione si sviluppa il modello 3D (Conceptualization and CAD model), poi a partire proprio
da questo modello si produce una rappresentazione digitale “semplificata” in formato STL/AMF
(STL/AMF model); a questo stesso risultato però si può pervenire anche attraverso un altro
metodo (Reverse engineering) che è la digitalizzazione di un componente esistente tramite un
qualche dispositivo di misura che genera una nuvola di punti. In ogni caso, ottenuto in un modo o
nell’altro il modello nel formato prestabilito lo si trasferisce al sistema (File transfer to machine
and STL manipulation) e si operano delle scelte, tra cui l’orientamento del pezzo e la progettazione
di elementi di supporto; in seguito il modello 3D viene ulteriormente processato, e in particolare
viene “affettato” per preparare i percorsi che verranno seguiti per la costruzione del pezzo (Slicing
the file and the final build file) e vengono definiti i parametri di processo a seconda del processo
utilizzato. In seguito si prepara la macchina (Machine setup) secondo altri parametri di processo
specifici, si realizza la parte (Part fabrication) e si eseguono le operazioni secondarie (Post-
processing); in tutte queste ultime fasi in particolare è molto importante che il processo sia
caratterizzato, ad esempio se fa uso di polveri, in termini di caratteristiche delle polveri utilizzate
(cioè dev’essere nota la distribuzione di particelle in termini dimensionali), ma è fondamentale
anche che il processo sia ì monitorato in termini di aspetti geometrici (e non solo) per assicurare la
qualità del prodotto finale e verificare che quanto prodotto sia conforme alle specifiche.
Conceptualization and CAD. Il CAD è l’uso di sistemi computerizzati per supportare la creazione, la
modifica, l’analisi o l’ottimizzazione di un design. Il software CAD viene utilizzato per incrementare
la produttività del progettista, la qualità del design e la comunicazione tramite documentazione e
per creare un database per la produzione. L’output di un sistema CAD si trova spesso nella forma
di file elettronici per lo stampaggio, l’asportazione o altre operazioni di fabbricazione. Nel definire
la geometria che deve avere il componente possiamo trarre benefici dalle caratteristiche uniche
dei processi di additive manufacturing a livello di complessità della forma (quali ad esempio
l’insensibilità alla complessità geometrica, la possibilità di realizzare geometrie personalizzate, la
libertà nella progettazione e la riduzione del peso), di complessità funzionale (quali ad esempio la
fabbricazione di meccanismi operazionali e l’integrazione di componenti che altrimenti sarebbero
assemblati) e di complessità del materiale (quali ad esempio la possibilità di impiegare materiali
diversi in zone diverse del componente e di realizzare una gradazione in termini di composizione
dei materiali).
Design For Additive Manufacturing, benchmarking, Design For Metrology. Dobbiamo anche
ricordarci delle attenzioni che devono essere prestate per il confronto tra tecnologie: la variabilità
che possiamo osservare in termini di prestazioni delle tecnologie additive è molto grande perché vi
sono diversi processi ma anche perché cambiano le prestazioni della macchina (da costruttore a
costruttore) e del materiale (il quale nominalmente è lo stesso ma nella realtà non lo è), e tale
variabilità si traduce in un’ulteriore variabilità da componente a componente (i pezzi non sono
nominalmente identici). La necessità di governare questa elevata variabilità ha portato allo
sviluppo di numerosi metodi e relativi campioni per confrontare diversi sistemi tra di loro; tali
campioni hanno geometrie e dimensioni diversificate, e la pretesa è che questo sia
rappresentativo delle capabilities del processo. Attenzione: quando si fanno sperimentazioni di
questo tipo per mettere a confronto più tecnologie è molto importante che le caratteristiche
geometriche degli elementi che vengono costruiti siano facilmente misurabili perché altrimenti la
variabilità del confronto è limitata, quindi quando parliamo di “Design For Metrology” intendiamo
la progettazione di componenti che siano facili da misurare con le tecnologie più accurate.
Reverse engineering. La reverse engineering è un’altra possibile strada per arrivare al modello 3D.
L’acquisizione di punti può avvenire con tecnologie differenti, da quelle tradizionali a contatto fino
ai sistemi ottici e alle tecniche basate sui raggi X.
STL/AMF model. Indipendentemente dal percorso scelto si arriva ad una rappresentazione 3D
tipicamente sotto forma di mesh a triangoli. Il formato di file più diffusamente utilizzato per
questo tipo di operazione è il formato STL, ideato per le primissime operazioni dell’additive
manufacturing (fine anni ‘80): consiste in una rappresentazione fatta di triangoli, ognuno dei quali
viene identificato attraverso le coordinate X,Y,Z dei propri vertici e dalla normale alla superficie. Se
le superfici sono piane il numero di triangoli della mesh sarà ridotto e questi saranno più grandi,
mentre se le superfici sono a forma libera richiederanno un numero maggiore di triangoli di
piccole dimensioni. Un aspetto fondamentale è legato alla definizione della risoluzione
appropriata per i successivi passaggi; la risoluzione viene incrementata aumentando il numero di
triangoli e riducendone le dimensioni, tuttavia non ha significato introdurre triangoli tali da dar
luogo ad un’imperfezione inferiore a quella a cui dà luogo il processo. Si vanno a definire
opportuni parametri di tolleranza cordale o di controllo angolare ad esempio per controllare il
numero di triangoli. Risulta molto facile incorrere in errori quando si ha a che fare con il formato
STL, il che ha portato all’introduzione di strumenti per la riparazione dell’STL: essa consiste nel
verificare che il modello sia chiuso ed esente da errori e altre problematiche.
Un formato più evoluto messo a punto nel contesto della normazione internazionale è il formato
AMF, dedicato alle operazioni di additive manufacturing: esso supporta meglio nelle operazioni e
fornisce anche informazioni aggiuntive (ad esempio a livello estetico).
File transfer to machine and STL manipulation. Pervenuti ad una rappresentazione semplificata
dell’oggetto da costruire si passa alle scelte che hanno a che fare con altri aspetti importanti, quali
ad esempio l’orientamento del componente all’interno dell’ambiente di lavoro che va ad influire
notevolmente sulle proprietà meccaniche del componente (carichi di trazione sono meglio
sopportati se applicati in direzione parallela agli strati costruiti) e sulle tempistiche di costruzione.
La scelta dell’orientamento del pezzo è importante anche per garantire la qualità della
costruzione: ad esempio, quando si lavora con materiali metallici si riescono a contenere le
tensioni residue (che sono tipicamente conseguenza di gradienti termici molto elevati) se
scegliamo un orientamento che limita l’area della superficie che viene costruita durante ciascun
ciclo di fabbricazione; ancora, un’orientazione corretta è importante anche perché permette di
ridurre le strutture di supporto, le quali richiedono però lavorazioni e materiale aggiuntivi. Queste
strutture di supporto hanno principalmente tre obiettivi: forniscono supporto al materiale che
dev’essere depositato ad una certa altezza, evitano deformazioni durante il processo dovute al
peso delle porzioni già costruite e interagiscono positivamente in termini di scambio termico
fornendo anche un certo irrigidimento per ridurre i fenomeni di distorsione; le funzioni che
svolgono sono di dissipazione termica per l’estrusione di materiale, la powder bed fusion e la direct
energy deposition e di supporto meccanico un po’ per tutte le lavorazioni con l’eccezione del
binder jetting, per il quale in linea teorica le strutture di supporto non sono necessarie.
Ovviamente vi sono anche delle controindicazioni legate alle strutture di supporto: in particolare,
richiedono dei tempi aggiuntivi per essere progettate, costruite e rimosse, peggiorano la qualità
delle superfici su cui si trovano, comportano uno spreco di materiale, richiedono un certo
consumo di energia per poter essere realizzate e limitano la libertà geometrica. In conclusione
quindi l’orientazione del pezzo e la scelta delle strutture di supporto sono aspetti fondamentali di
cui si deve tenere conto quando si progetta un componente.
Slicing the file and final build file. In questa fase si deve ad esempio preparare il percorso che
l’ugello o il raggio di energia deve compiere. Nel caso di un raggio laser si dovranno decidere le
distanze tra gli strati da costruire e anche tra le traiettorie del laser, e naturalmente queste scelte
avranno degli effetti sulla qualità del prodotto che si otterrà. La fase di slicing, in cui si va ad
affettare il modello, consiste nell’individuare le sezioni che devono essere costruite; queste sezioni
possono essere in un numero molto rilevante dato il ridotto passo di costruzione (anche 10 μm) e
rappresentano un’approssimazione perché viene loro attribuito uno spessore finito quando invece
sono di spessore infinitesimo. Chiaramente lo spessore degli strati determina la risoluzione e la
velocità dell’operazione. La costruzione additiva per strati porta inevitabilmente ad ottenere un
prodotto a gradini, il cui spessore decresce all’aumentare della risoluzione; tutte le imperfezioni
dovute alla costruzione additiva vengono ad essere comprese in un volume di materiale aggiuntivo
che dev’essere poi rimosso per migliorare la finitura delle superfici (per questioni funzionali,
estetiche, … delle superfici). In fase di costruzione le scelte in termini di orientamento e spaziatura
dei percorsi laser influenzano le tensioni residue conseguenza degli elevati gradienti termici che
causano contrazioni differenziate del materiale. Per ciascuno degli strati costruiti ci sono ulteriori
scelte da fare: è sì importante concentrarsi sul contorno esterno della sezione ma anche sui
percorsi interni, nel senso che è bene che i percorsi del raggio laser ad esempio non siano gli stessi
per strati consecutivi ma anzi che si alternino in direzioni diverse con il procedere della
deposizione di strati successivi. Infine, quando facciamo queste operazioni dobbiamo ricordarci
anche dei materiali di supporto: in tal caso ad esempio si può caratterizzare la zona di supporto
con un percorso laser più rado, in modo che la struttura risultante abbia caratteristiche
meccaniche tali da assicurare la funzione di supporto ma anche da consentire una facile rimozione
della struttura di supporto stessa.
Machine setup. Preparato il file che dev’essere lanciato in macchina si devono fare ulteriori
valutazioni relative ai parametri di processo della specifica tecnologia scelta all’interno dei
software di gestione dei sistemi additive. Il laser viene impiegato in quattro delle sette tipologie
fondamentali di processi additive con funzioni diverse a seconda della tecnologia: nel caso delle
resine che fotopolimerizzano si tratta di apportare energia per far solidificare la resina lavorando
tipicamente nel campo ultravioletto; nel caso di incollaggio di lamine invece il laser serve per
fondere il materiale e separare ciò che interessa per la costruzione da ciò che viene scartato; nel
caso del letto di polvere il laser serve per ottenere la fusione localizzata della polvere, passaggio
fondamentale per ottenere il pezzo. La scelta della tecnologia laser dipende dall’interazione che i
diversi laser hanno con i materiali che vengono utilizzati per la costruzione. Per quanto riguarda le
scelte relative ai materiali abbiamo una varietà molto elevata tra materiali solidi (polimeri
termoplastici per l’estrusione di materiale; carta, polimeri e metalli per la laminazione di fogli; fili
di materiale ad esempio metallico per la direct energy deposition), liquidi (fotopolimeri sensibili ai
raggi UV per la stereolitografia; cere e fotopolimeri sensibili ai raggi UV per il material jetting) e
polveri (polimeriche o metalliche con legante per il binder jetting; polimeriche o metalliche per la
powder bed fusion; metalliche per la direct energy deposition); concentriamoci su alcuni concetti
che hanno a che fare con polveri metalliche: esse possono avere morfologia e distribuzione
dimensionale diverse che influenzeranno in maniera differente i processi di aggregazione.
Solitamente si usa una miscela di polveri; in termini di morfologia delle particelle è preferibile
quella sferica perché facilita la deposizione delle polveri e l’ottenimento di una densità elevata
mentre in termini di distribuzione dimensionale è utile che vi siano particelle di dimensioni
differenti perché in questo modo le particelle più piccole inserendosi negli interstizi lasciati da
quelle più grandi consentono di aumentare la densità del prodotto che si fabbrica (dall’altro lato
però particelle più fini possono dare problematiche in termini di danni alla salute). Per
caratterizzare le polveri esistono diverse tecniche: il microscopio elettronico a scansione (SEM)
consente certamente di controllare la morfologia e in parte anche di valutare le dimensioni, anche
se per valutare le dimensioni si utilizzano più di frequente tecniche di osservazione ottica e
tecnologie basate sull’utilizzo dei raggi X (tomografia computerizzata); è anche importante capire
se le particelle contengono delle porosità dato che queste hanno determinati effetti sulla
costruzione del pezzo.
Part fabrication. A questo punto siamo pronti per la fabbricazione, e quando questa è completata
estraiamo il pezzo. Durante la costruzione del pezzo è buona idea monitorare il processo: ci sono
diverse possibilità, tra cui tecniche per l’osservazione coassiale della pozza fusa (punto in cui il
laser va a liquefare una polvere) e tecniche per l’osservazione dello strato superficiale in fase di
lavorazione; tutte queste tecniche consentono di monitorare strato per strato la costruzione del
pezzo, così da individuare tempestivamente eventuali problematiche del processo (addirittura
anche in tempo reale). Gli spunti offerti da queste osservazioni aprono la strada a tecniche di
miglioramento del controllo di processo ad esempio attraverso una reimpostazione dei parametri
di processo.
Post-processing. Per concludere, a seguito dell’esecuzione di tutte le operazioni secondarie
possiamo certificare la qualità del prodotto realizzato dimostrando che ciò che è stato costruito
corrisponde a ciò che era nelle intenzioni: ciò si può fare con tecniche di misura a contatto (nel
caso di geometrie semplici) e con tecniche di misura non a contatto (quando le geometrie sono
complicate diventa infatti più intelligente affidarsi alla tomografia computerizzata per evitare di
adottare tecniche distruttive). Il controllo qualità consente anche di individuare eventuali difetti
interni alla superficie: ancora una volta la tecnica tomografica è vincente perché consente di
valutare in modo non-distruttivo le eventuali porosità non solo in termini di distribuzione
dimensionale ma anche di localizzazione nel volume con accuratezza molto elevata; lo stesso si
può fare anche con osservazioni al SEM ma con la necessità di sezionare fisicamente il pezzo. Un
cenno va fatto anche riguardo la rugosità superficiale: le imperfezioni geometriche che
osserviamo sulla superficie sono generalmente rilevanti nel caso delle tecniche di fabbricazione
additiva (diverse decine di micrometri, quindi almeno un ordine di grandezza in più rispetto alle
operazioni di finitura tramite lavorazioni per asportazione).

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