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MANUALE DI POWERBUILDING

Guida alla programmazione per l’allenamento di


forza e ipertrofia

Di Filippo d’Albero
A cura di Alex Piovan
A Nando
Sommario
1. Cos’è il Powerbuilding
2. I vantaggi di questo approccio
3. I principi fondamentali dell’approccio ibrido
4. fissare gli obiettivi
5. v.f.i. - volume, intensità e frequenza (programmazione)
5.2 il volume
5.3 l’intensità
5.4 la frequenza
5.5 conclusioni
6. Progressione dello stimolo allenante
6.1 progressione del volume
6.2 progressione dell’intensità
6.3 progressione della frequenza
6.4 densità dell’allenamento
6.5 rapporto tra le progressioni
7. la selezione degli esercizi
7.1 la selezione degli esercizi accessori (del dott. Riccardo padovan)
8. Conclusioni
Ringraziamenti
1.Cos’è il Powerbuilding

Un nuovo punto di vista


“Ogni passo avanti nella scienza è partito da un nuovo spunto
dell'immaginazione.”
John Dewey

Fino alla metà del XVI secolo gli esseri umani furono convinti che la
Terra fosse collocata al centro dell’universo e che gli altri pianeti le
ruotassero attorno. Questa visione dell’universo è definita geocentrica. Nel
1543 Copernico pubblicò il libro De revolutionibus orbium coelestium, nel
quale confutava questa convinzione riprendendo le teorie di Aristarco da
Samo e asserendo che, in realtà, al centro dell’universo c’era il sole. Il
punto di vista eliocentrico stravolse totalmente le dottrine fin ad allora
predominanti, per questo si parla di rivoluzione copernicana.

Credo sia legittimo che il lettore si senta un po’ spaesato; ha comprato


il Manuale di powerbuilding o un volume sull’astrofisica del ‘500?
Nessuna paura.
Possiamo dividere chi si allena in due gruppi: chi si concentra sulla
prestazione[1] e chi sull’ipertrofia (o, più in generale, sull’estetica). Tutti e
due i gruppi sono accomunati dalla convinzione che il proprio focus
primario sia il centro dell’universo della pesistica e che tutto il resto sia
accessorio e marginale o addirittura da evitare.
Lo scopo di questo volume è attuare una sorta di rivoluzione
copernicana che possa offrire un modo di approcciarsi all’allenamento il
più innovativo possibile, un punto di vista diverso da quello delle dottrine
finora esistenti. Lasciamo da parte la convinzione che forza e ipertrofia
siano l’una al centro e l’altra nella sua orbita, o viceversa, e comprendiamo
che si trovano entrambe nell’orbita di un sistema più grande: la cultura
fisica.
Una visione di questo tipo, che chiameremo ibrida, permette
innanzitutto di capire che non è necessario porre forza e ipertrofia dinanzi
a un aut aut: l’incremento di una favorirà l’incremento dell’altra, in un
circolo virtuoso che rende veri e propri atleti della cultura fisica, dediti al
raggiungimento della miglior versione di sé stessi grazie al miglioramento
sia delle prestazioni, che della condizione fisica.
Se questo libro raggiungerà il proprio scopo, chi lo leggerà con occhio
attento e curioso riuscirà a far proprie le nozioni che gli consentiranno di
provare a tracciare un proprio percorso o, quantomeno, di capire se un
percorso proposto da altri possa condurlo ai risultati desiderati. Affinché
questo obiettivo si concretizzi, è opportuna una breve digressione sulla
struttura del manuale.

Com’è strutturato questo libro


Alla base di tutto ci sarà la scienza. Alla fine del volume, infatti, è
presente la bibliografia dei testi di riferimento che si possono consultare
per verificare o approfondire quanto detto nel testo. Al giorno d’oggi,
l’ingente mole d’informazioni reperibile in rete convince chiunque di
avere gli strumenti necessari per sostenere qualsiasi convinzione.
Crediamo che questo sia sbagliato o almeno rischioso. È proprio nei
momenti di maggior caos che è necessario trovare un punto di ancoraggio,
ma la tempesta non basta a rendere valido ogni porto che ci illuda di poter
attraccare: al lasciarsi trasportare ingenuamente, è preferibile imboccare la
via dello studio e dell’approfondimento, così da basare le proprie idee
sugli studi scientifici degli esperti del settore - professori, ricercatori e
coach la cui credibilità sia data dal loro percorso, più che dall’immagine o
dalla popolarità.

In secondo luogo, penso sia più stimolante per il lettore che ogni
nozione scientifica sia filtrata dall’esperienza personale, che rende la teoria
più immediata e fruibile. Ogni passo di questo percorso sarà perciò
accompagnato da esperienze dirette e/o da esempi pratici, in cui si
applicheranno i principi enunciati a situazioni verosimili.

Da tutto questo verranno estratte, infine, le linee guida che


consentiranno di avere una “scaletta mentale” da seguire per giungere,
partendo dalla definizione dei propri obiettivi e passando per la
pianificazione degli allenamenti, al conseguimento dei risultati desiderati.
2. I VANTAGGI DI QUESTO
APPROCCIO
I vantaggi del powerbuilding sono di duplice natura: psicologica e
fisiologica. Prima di scoprirli, iniziamo ad approfondire il rapporto che
lega forza e ipetrofia.

Forza e ipertrofia
Si deve distinguere tra l’oggettività della forza e la soggettività
dell’estetica. La prima è oggettiva, e la si può misurare grazie al carico che
viene sollevato. La seconda è soggettiva, varia da persona a persona e
quindi non è misurabile.
Il progresso della forza, in quanto tangibile e fattuale, è l’indice del
miglioramento della propria condizione. Un riscontro di questo tipo è
vantaggioso soprattutto per gli atleti avanzati, i quali, a differenza dei
neofiti (che otterranno progressi estetici più immediati e visibili), potranno
continuare a tracciare la propria crescita anche quando l’adattamento del
corpo faticherà a manifestarsi.
Da anni si è a conoscenza del rapporto che lega forza e ipertrofia. La
forza che esprimiamo è influenzata da più fattori:

1. Dimensione del muscolo


2. Fattori neuromuscolari
3. Architettura di muscoli e tendini
4. Stato mentale
5. Skills motorie
6. Proporzioni antropometriche (meglio conosciute come leve, su
cui non possiamo influire in alcun modo)

La domanda che dobbiamo farci è: qual è l’impatto di questi fattori sul


risultato finale? Analizziamo alcune delle risposte che altri, prima di noi,
hanno dato a questo annoso problema.
Nel Volume 2, Issue 5 del mensile MASS, Eric Helms analizza uno
studio[3] di Cribb (2007), nel quale viene mostrata la correlazione tra
l’ipertrofia delle fibre muscolari e l’espressione di forza.
Cribb analizza come gli adattamenti neurali e motori rallentino in un
tempo molto più breve e abbiano un andamento asintotico, con una
pendenza iniziale molto marcata. Cosa significa? Che nel periodo iniziale
gli adattamenti neurali e motori sono repentini e generano gran parte dei
risultati ottenuti, mentre con l’avanzare della nostra esperienza in un dato
movimento e schema motorio questi adattamenti rallentano al punto da
divenire quasi stabili.
Dopo la prima fase, allora, cosa determina i progressi? Secondo Eric
Helms, fino all’80% del risultato finale dipende dall’acquisizione di nuova
massa muscolare. Ecco che, soprattutto per quanto riguarda gli atleti
avanzati, i progressi della forza in una determinata alzata sono un ottimo
parametro per tracciare i progressi ipertrofici dei gruppi coinvolti.
Parimenti, la fase di acquisizione dello schema motorio e degli adattamenti
neurali non è predisposta alla costruzione di massa muscolare, poiché il
carico che siamo in grado di muovere è nettamente inferiore a quello
necessario per generare una tensione meccanica sul muscolo sufficiente a
imporre un adattamento. In particolare per gli atleti avanzati, il connubio
tra questi due fattori rende interessante l’inserimento di movimenti di forza
capaci di stimolare l’ipertrofia generale e garantire un feedback sui
progressi.

I vantaggi psicologici dell’approccio ibrido


Prendiamo un atleta interessato solo al miglioramento estetico. Si
troverebbe, prima o poi, dinanzi a situazioni che potrebbero demotivarlo. È
probabile che in una fase di bulking (quindi volta all’incremento della
massa), oltre all’aumento della massa magra, avvenga un aumento della
massa grassa. Ciò non significa che diventerà sovrappeso: accumulare
grasso, nelle fasi di massa, è fisiologico.
Soffermiamoci un attimo su questo. Sempre più persone sono convinte
che per costruire massa muscolare in modo efficiente sia necessario
mantenere le percentuali di massa grassa costantemente basse. Questo
libro non tratta e non vuole trattare di alimentazione; tuttavia vorrei
lasciare i lettori con uno spunto su cui riflettere, con l’auspicio di instillare
in loro il desiderio di approfondire l’argomento. Innanzitutto, cerchiamo di
comprendere che ottimizzare e massimizzare sono due concetti differenti.
Prendiamo lo studio di Garthe et al. (2012)[4], svolto a partire
dall’osservazione di due gruppi di atleti di élite posti a un regime di
surplus calorico. Questa ricerca ha mostrato che coloro che hanno preso
peso a un ritmo elevato hanno poi avuto un incremento della massa
muscolare proporzionale agli atleti che hanno preso peso a un ritmo più
moderato, seppur con un incremento della massa grassa molto più
significativo. Quest’ultimo elemento è ciò che impedisce a questo
approccio di essere ottimale. La ragione è intuitiva, e prescinde dalla
percentuale di massa grassa che gli atleti possedevano in partenza: la
maggior parte degli utenti delle palestre ha come scopo il conseguimento
di un aspetto esteticamente migliore – obiettivo che richiede un incremento
di massa muscolare accompagnato da una graduale decrescita della massa
grassa. Se la fase di acquisizione di massa magra porta una maggiore
acquisizione di massa grassa, la fase successiva (nella quale l’obiettivo è
ridurre tale massa grassa) si fa più complessa. Il giusto compromesso sta
nel mezzo. I motivi sono due:

1. La costruzione di massa muscolare è un processo lento –


molto più lento rispetto alla perdita di massa grassa – e richiede
di rimanere in una condizione funzionale (ovvero in surplus
calorico) per periodi molto lunghi affinché gli effetti siano
riscontrabili a livello estetico.

2. Il driver primario degli adattamenti relativi alla massa


muscolare è l’allenamento. Pensiamo all’allenamento e
all’alimentazione come variabili separate, che però fanno parte
della stessa equazione. Quale delle due ci permette di costruire
più massa muscolare? In altre parole: se facessi la dieta e non mi
allenassi, acquisirei più o meno massa muscolare che se facessi
il contrario? La risposta è scontata: si metterebbe su più massa
muscolare allenandosi senza fare la dieta. È importante rimanere
a lungo in una condizione che ci permetta di ottimizzare e
massimizzare le nostre performance in palestra. Questa
condizione si raggiunge con un surplus calorico e trovandosi in
uno stato fisiologico di percentuale di massa grassa.

Il consiglio, quindi, è di non farsi guidare dal timore di aumentare di


qualche punto la propria percentuale di massa grassa – paura che, nei
peggiori casi, potrebbe portare a veri e propri disturbi alimentari -, ma di
rispettare la fisiologia del proprio corpo e creare un ambiente adatto alla
costruzione di nuova massa muscolare. Non si mal interpreti questa
riflessione come un suggerimento di stampo opposto, bensì come un invito
al buonsenso, sufficiente a guidarci in una crescita flessibile e moderata. In
commercio esistono numerosi testi che trattano a fondo questo argomento,
ma il mio consiglio è di farsi sempre affiancare da un esperto del settore
(un biologo nutrizionista) prima di prendere un qualsiasi tipo di decisione
in merito a diete e affini.
Torniamo ai benefici psicologici offerti dall’approccio ibrido.
Chi ha come obiettivo l’estetica, in una fase di massa, guardandosi allo
specchio si sconforterebbe nel constatare di non trovarsi nella condizione
fisica desiderata – per esempio, vedendosi meno definito di quanto
desidererebbe. È in questi casi che l’approccio ibrido si rivela vantaggioso:
non considerando soltanto l’estetica, ma osservando anche l’incremento
delle prestazioni nelle alzate, l’atleta non si troverebbe mai demotivato. Un
lieve aumento della massa grassa sarebbe immediatamente bilanciato dalla
soddisfazione data dalla crescita della propria forza. Viceversa, in una fase
di definizione un lieve calo delle prestazioni sarebbe giustificato da una
migliore condizione estetica.

I vantaggi fisiologici dell’approccio ibrido


La progressione della forza non ha solo vantaggi psicologici. Un
miglioramento di questo tipo impone al corpo di adattarsi per raggiungere
la condizione ottimale per esprimere al meglio la forza. Viceversa, il
miglioramento della condizione fisica permette all’atleta di incrementare
ulteriormente la propria forza. Perché?
Avere più forza significa utilizzare carichi maggiori nei nostri
allenamenti, il che comporta:
▪ un maggiore stress meccanico, che è lo stimolo primario
dell’ipertrofia. La tensione meccanica sulle fibre muscolari è
infatti determinata anche dal carico sollevato;
▪ un maggior volume di allenamento, che determina lo stimolo di
crescita a cui viene sottoposto il muscolo. Il carico è uno dei
fattori che compongono il volume, che si calcola così:
Volume = Ripetizioni x Serie x Carico

L’essere più forti, inoltre, non permette solo di utilizzare un carico


maggiore a parità di serie e di ripetizioni, ma anche di fare più serie o
ripetizioni a parità di carico.

La tensione meccanica è l’unico stimolo riconosciuto appieno dalla


comunità scientifica come driver ipertrofico. Cos’è la tensione
meccanica? Immaginiamo che il muscolo sia un elastico e che la
contrazione volontaria ne avvicini le estremità: questa è la fase concentrica
dell’alzata. Quello che dobbiamo riuscire a fare durante l’esecuzione dei
nostri esercizi è mantenere costante la tensione elastica sul muscolo target,
allungando e accorciando quanto più possibile questo elastico senza mai
perdere l’attenzione (inteso come smettere di concentrarsi affinché la
tensione sia a carico del muscolo di nostro interesse). Quest’alternarsi di
allungamento e accorciamento del muscolo produce delle micro lesioni
che comunicano al corpo l’esigenza di essere riparate e, così, rinforzate. Il
corpo impara a sopportare questo livello di stress nel caso vi fosse
sottoposto nuovamente[5]. La competenza d’esecuzione è pertanto
fondamentale nel determinare la risposta ipertrofica a un certo movimento.
Se durante la fase eccentrica di una distensione su panca piana togliamo la
tensione dai pettorali e la spostiamo su altre strutture e muscoli, l’esercizio
diventa meno efficiente nello stimolare la crescita di questo gruppo
muscolare e, data la riduzione della risposta elastica, dovremo ridurre il
carico.
Un altro fattore importante nel determinare il volume di tensione
meccanica che esercitiamo su una determinata struttura muscolare è il rom
(range of motion), ovvero la distanza complessiva percorsa
dall’articolazione in un movimento. Per valutare lo stimolo ipertrofico
parliamo di rom efficace, con cui indichiamo la porzione di rom che
rimane a carico del muscolo di nostro interesse. Quanto maggiore è il rom
efficace per ogni ripetizione, tanto maggiore è la tensione meccanica
accumulata nel muscolo a cui l’organismo reagirà con una maggior
risposta ipertrofica.

Unendo rom efficace e tensione meccanica otteniamo l’efficienza


tecnica. Con k[6] indichiamo la nostra percentuale di efficienza tecnica
(efficacia del rom e costante tensione muscolare sul muscolo target).
Il volume efficace è la porzione di volume in grado di stimolare la
risposta ipertrofica del nostro corpo. Per calcolarlo dobbiamo moltiplicare
il volume complessivo per il grado di efficienza tecnica:

Volume Efficace = k(Volume)

Ovvero:

Volume Efficace = k(Ripetizioni x Serie x Carico)

Il volume efficace è la quantità di tensione meccanica che


accumuliamo, e sarebbe pari al volume assoluto solo se si avesse
un’efficienza tecnica del 100%.
Dedicare grande attenzione al perfezionamento dell’esecuzione tecnica
(senza focalizzarsi solo sull’aumento del carico sollevato) è fondamentale.
I benefici ottenuti dal legame tra stress meccanico e volume allenante sono
tanto più netti quanto più è precisa l’esecuzione di un dato esercito. Questo
evidenzia un ulteriore vantaggio dell’approccio ibrido: unendo gli aspetti
più interessanti di bodybuilding e powerlifting, si prendono dal secondo tre
elementi fondamentali:

1. Focus sui multiarticolari


2. Lavoro incentrato su un numero limitato di esercizi
3. Focus sul perfezionamento del gesto motorio nel tempo

Quando parlo di “numero limitato di esercizi” intendo che dovremo


selezionare un gruppo di esercizi ottimali per i nostri obiettivi (che variano
in funzione del soggetto, delle sue esigenze e delle sue carenze/forze).
Questi esercizi non dovranno cambiare frequentemente, ma essere
perfezionati affinché l’efficienza tecnica e il carico utilizzato crescano
parallelamente. In questo modo l’esercizio sarà progressivamente più
allenante e determinerà la risposta ipertrofica, migliorando anche
l’efficienza con cui costruiremo la massa muscolare.

Il vantaggio, tuttavia, non è unilaterale, altrimenti l’approccio ibrido


avrebbe senso solo guardando alla forza come strumento accessorio per
l’ipertrofia. Anche la crescita ipertrofica è vantaggiosa per la forza, infatti:
▪ la forza, a parità degli altri elementi, è direttamente
proporzionale alla sezione trasversale del muscolo;
▪ in soggetti avanzati i progressi nella forza sono dovuti
principalmente a miglioramenti nella massa muscolare[7].
Questo legame è stato messo in evidenza anche da due studi volti
a mostrare la correlazione quasi lineare tra la massa muscolare dei
soggetti e la loro espressione di forza. Il primo di questi studi ha
utilizzato dei powerlift[8], il secondo la leg press[9]. Forza ed
ipertrofia cessano di essere solamente mezzo o solamente fine.
Entrambe sono il fine dell’altra in quanto mezzo per garantirne il
miglioramento.
Per rendere più chiaro questo concetto, schematizziamolo così:

Immaginiamo la massa muscolare come un palloncino e la forza come


l’acqua. Più acqua mettiamo nel palloncino, più questo si gonfia.
Parimenti, più forza “mettiamo” nel muscolo, più questo è costretto a
crescere. Questo è il processo per il quale la forza incrementa la massa
muscolare.
Si arriva però a un punto in cui non c’è spazio per ulteriore acqua nel
palloncino: servirà un palloncino più grande per contenere più acqua.
Travasata l’acqua in un palloncino più grande sarà necessario aggiungerne
di nuova, affinché il volume di questo torni a crescere. Questo è il
processo per cui una maggiore ipertrofia consente una maggiore progresso
della forza.
Perché serve una programmazione specifica
A questo punto si potrebbe sostenere che le dinamiche che correlano
forza e ipertrofia si inneschino automaticamente anche in allenamenti
“tradizionali”, quelli previsti dal bodybuilding e dal powerlifting. Ma
questo è vero solo in parte. In realtà, per sfruttare al meglio questo
meccanismo è fondamentale studiare una programmazione specifica e
adatta alle nostre caratteristiche, alla nostra situazione e ai nostri obiettivi
(tutti aspetti che tratteremo nei successivi capitoli).
Molti utenti medi della palestra con un approccio “classico” hanno
un’idea abbastanza chiara di dove vogliono arrivare, ma non prendono in
considerazione i metodi con cui verificare che la strada intrapresa sia
quella giusta. Immaginiamo di voler arrivare sulla cima di una montagna,
ma di iniziare il sentiero bendati: avremmo chiaro in mente dove vogliamo
arrivare, ma non saremmo in grado, durante il percorso, di verificare che la
direzione sia quella giusta. Come possiamo toglierci questa benda dagli
occhi?

Prendiamo spunto dalla descrizione dell’approccio ibrido di Eric


Helms[10].
L’approccio del bodybuilder medio si può racchiudere in:
▪ utilizzo di un ampio numero di esercizi;
▪ variazione molto frequente di questi esercizi;
▪ focus feeling oriented: si tende a basare il proprio approccio
principalmente sui feedback dati dalle sensazioni piuttosto che
quantificare oggettivamente il proprio progresso;
▪ vengono spesso evitati esercizi multi-articolari e complessi in
favore di tecniche di intensità come super-set, drop-set, rom ridotti
e rep forzate, rendendo quasi impossibile tracciare i propri
progressi.
Il powerbuilding mira a colmare queste lacune con un approccio in
cui si abbiano:
▪ una maggiore efficienza nell’organizzazione dell’allenamento;

▪ cura per la programmazione → gestione del V.I.F. (cfr. cap. 5);

▪ l’obiettivo di progredire nel tempo (diventando più forti, ma non


solo);

▪ ampio utilizzo di esercizi multi-articolari;


▪ vedere i sollevamenti come abilità da perfezionare nel tempo.

La compresenza di tensione meccanica e stress metabolico unita


all’alternarsi di periodi in cui l’una prevale sull’altro e viceversa
permetterà non solo di ottenere miglioramenti con un range più ampio, ma
anche di rendere l’allenamento più vario e divertente. Troppo spesso gli
approcci a bodybuilding e powerlifting sono monotoni, quando in realtà
potrebbero imparare molto l’uno dall’altro. Questo non vuol dire che i
bodybuilder debbano fare solo squat, panca e stacco e diventare
estremamente forti in questi tre esercizi (a meno che non interessi loro
gareggiare anche come powerlifter). Scopriamo i benefici che arrivano
dalle due specialità.

Cosa prendere del powerlifting


Quali sono gli elementi dell’allenamento per il powerlifting che
possono essere utili a un powerbuilder e quali quelli che potrebbero
essergli, invece, dannosi? Le pratiche di cui un powerbuilder può
beneficiare sono:

a) Progressione dello stimolo. Progredire per permettere un


adattamento continuo nel tempo è la chiave per continuare a crescere.
Uno dei metodi più semplici è sollevare pesi sempre più alti,
generando maggiori tensioni meccaniche nel muscolo.

b)Maggiore frequenza di allenamento. Mediamente ai bodybuilder


sembra piacere comprimere l’intero volume allenante settimanale di
un dato distretto muscolare in un’unica seduta (la classica bro split,
termine in voga negli ultimi anni). Questo è stato evidenziato anche
da uno studio del 2013, nel quale 127 bodybuilder agonisti hanno
dichiarato quanto frequentemente allenavano ogni gruppo muscolare.
Circa i 2/3 delle persone che hanno risposto hanno dichiarato di
allenarsi in monofrequenza, con un approccio ad alta intensità e
volume. Oggi abbiamo a disposizione un ampio bacino di evidenze
scientifiche che dimostrano che atleti ben allenati migliorano ad un
rateo maggiore suddividendo il loro volume allenante in 2 sedute
settimanali per gruppo muscolare[11]. Il motivo probabilmente
risiede nella preservazione delle prestazioni e della qualità media
dell’allenamento, oltre che in una migliore gestione della fatica.
Pensiamo di comprimere l’intero volume settimanale di un gruppo
muscolare (es. il gran pettorale) in un’unica sessione. In una classica
split dell’utente medio della palestra, per raggiungere un volume
settimanale di 13 serie allenanti (cioè un volume medio) in un’unica
seduta c’è bisogno di un programma simile a questo:

▪ Panca 4 x 6
▪ Spinte con manubri su panca inclinata 3 x 10
▪ Spinte con manubri su panca piana 3 x 10
▪ Croci ai cavi alti 3 x 12

Giunti alla fine dell’allenamento la qualità di movimento e la


concentrazione sono notevolmente ridotte. Inoltre il forte
affaticamento del muscolo target tende a favorire compensi che
portano i muscoli sinergici a “rubargli” lavoro.
Se invece dividessimo questo stesso volume in due sessioni
allenanti avremmo:

• GIORNO A:
▪ Panca 4 X 6
▪ Spinte con manubri su panca inclinata 3 X 10

• GIORNO B:
▪ Spinte con manubri su panca piana 3 X 10
▪ Croci ai cavi alti 3 X 12

Il volume settimanale sarebbe lo stesso, ma riusciremmo a


preservare la qualità di concentrazione e movimento a ogni sessione,
il che garantirebbe risultati migliori.

c)Maggiore utilizzo di multi-articolari. Diversi studi dicono che


l’aggiunta di esercizi di isolamento in soggetti non allenati non ha
portato alcun incremento nella magnitudo della risposta ipertrofica
rispetto al solo utilizzo di multi articolari. Uno studio della durata di
10 settimane, con 2 sessioni allenanti settimanali, non ha rilevato
alcuna differenza tra coloro che hanno espletato esercizi di
isolamento e coloro che non lo hanno fatto. In atleti con 2 o più anni
di esperienza la differenza nell’aggiunta di esercizi di isolamento è,
spesso, inferiore alle aspettative di molti nonché estremamente
soggettiva. La maggior parte della crescita muscolare è dovuta ai
multi-articolari.
d)Tempi di recupero superiori. Accorciare troppo i tempi di
recupero può avere un impatto negativo sull’outcome
dell’allenamento stesso. Porta verosimilmente a ridurre i carichi
utilizzati, e di conseguenza il volume totale. Inoltre, tempi di recupero
troppo brevi spingono a compiere meno serie e meno ripetizioni, il
che – sommato ai carichi inferiori di cui sopra – porta a una
diminuzione non indifferente del volume complessivo della seduta.
e) Perfezionare i movimenti. I movimenti multiarticolari generano
una risposta ipertrofica adeguata solo quando la qualità del pattern
motorio è sufficiente a permettere di usare carichi che la
stimolino adeguatamente. È necessario investire tempo ed energie
nell’apprendere e perfezionare questi movimenti, senza variarli
troppo spesso.

Cosa evitare del powerlifting


Dopo aver visto quali sono i benefici che l’approccio ibrido trae dal
powerlifting, esaminiamo cosa deve evitare:

a)Sollevare solo pesante. Allenarsi con carichi leggeri o pesanti, a


parità di volume, genera la stessa risposta ipertrofica. I carichi
pesanti generano, però, risposte maggiori in quanto a forza. Bisogna
quindi allenarsi solo con carichi pesanti? Assolutamente no.
Allenarsi con carichi elevati richiede molto più tempo perché, per
equiparare il volume, sono necessari un numero di serie molto
superiore e tempi di recupero dilatati. Inoltre, accumulare un volume
tale da generare un’adeguata risposta ipertrofica unicamente da
carichi elevati (>80% 1rm[12]) aumenta di molto lo stress sul sistema
nervoso centrale e il rischio di infortuni. Se, ad esempio, l’obiettivo
della sessione fosse un 90%x2x10 (dieci doppie al 90%), avremmo lo
stesso volume allenante (e quindi la stessa risposta ipertrofica)
facendo un 75%x8x3 (tre serie da otto rep al 75%). La seconda
ipotesi, però, richiederebbe molto meno tempo. Se invece
prendessimo in considerazione di eseguire lo stesso numero di serie
allenanti, in modo da rendere i tempi di allenamento simili,
noteremmo che un 75%x8x3 ha un volume del 33% superiore a un
90%x2x3: la prima scelta è molto più efficiente per accumulare
volume. Bisogna comunque ricordare che la risposta in quanto a
“forza” rimarrà superiore nel secondo caso poiché, per il principio di
specificità, migliorare nell’abilità “sollevare carichi massimali”
richiede di allenarsi con carichi massimali (>85% 1rm).
b) Troppo poca variazione negli esercizi. Alcuni muscoli (in
particolare dorsali, polpacci, bicipiti, capo corto del bicipite femorale
e deltoidi posteriori) non sono allenati in modo efficace dai big 3
(squat, panca e stacco). Variare troppo poco può essere problematico
tanto quanto variare troppo. Elementi come linea di spinta, presa,
tecnica di esecuzione dell’esercizio, posizione del corpo, ecc.
implicano differenti attivazioni del muscolo e questo genera
adattamenti differenti. Uno studio[13] evidenzia come, a parità di
volume, allenare le gambe con più esercizi anziché con uno solo
generi adattamenti ipertrofici uguali ma più equamente distribuiti.
Data la selezione molto limitata degli esercizi (che porta in alcuni casi
a sviluppi poco omogenei) e i carichi ingenti utilizzati, il rateo di
infortuni del powerlifting è superiore a quello del bodybuilding.

L’importanza di uno sviluppo omogeneo

Mi preme approfondire quest’ultimo punto. Senza scomodare studi e


ricerche, la logica e l’esperienza sul campo bastano a constatare quanto sia
cruciale ai fini della longevità di un atleta avere uno sviluppo omogeneo
dei propri gruppi muscolari, in particolare quando si ha la necessità di
esprimere molta forza ed eseguire movimenti complessi con carichi
elevati. Rubo un esempio da un campo di mia competenza: l’ingegneria.
Se pensiamo al corpo come a un insieme di leve sorretto da tiranti (si pensi
a un omino stilizzato, dove ogni segmento rappresenta un segmento osseo:
i tiranti sono l’insieme di muscoli, legamenti e tendini), possiamo capire
che è equilibrato e solido proporzionalmente a quanto sono in equilibro tra
di loro le forze generate dai tiranti. Se il nostro corpo è bilanciato e
sviluppato a 360° non solo siamo più gradevoli esteticamente, ma
possiamo anche esprimere più forza, in quanto la solidità generata da
questo equilibrio permette di trasmetterla meglio, dissipandone una
quantità inferiore. Lo stesso bilanciamento ci permette anche di ridurre
notevolmente il rischio di infortunio, in quanto gli stessi scompensi che
dissipano energia nelle espressioni di forza sovente ci espongono a
maggior usura e rischio d’infortunio.
Che una tecnica non efficiente rischi di condurre a un infortunio è
dimostrato dalla legge di conservazione dell’energia. Il termine “legge”
implica che, stando all’attuale progresso della conoscenza umana in
materia, questa teoria è esatta e si applica a tutti i fenomeni naturali, senza
eccezioni. Semplificando, questa legge dice: «sebbene l’energia possa
essere trasformata e convertita da una forma all’altra, la sua quantità totale
in un sistema isolato non varia nel tempo». Se una determinata quantità di
energia viene disperso durante l’esecuzione di uno o più esercizi, tale
energia non sparisce, ma viene dissipata sotto forma di attriti ed energie
parassite a danno delle strutture ossee, muscolari e tendinee. Questo, a
lungo andare, tende a usurarle e a generare le famose overuse injury
(infortuni da usura). Le overuse injury sono particolarmente frequenti in
coloro che utilizzano sempre gli stessi movimenti.
3. I principi fondamentali
dell’approccio ibrido
Analizziamo ora i principi fondamentali dell’approccio ibrido.
Stabiliamo una gerarchia che permetta di chiarire quali e perché sono
gli aspetti di maggior importanza nella programmazione per il
powerbuilding. Quest’ordine gerarchico sarà una sorta di linea guida da
seguire durante la strutturazione del programma.

Spesso si cita la storia del barattolo che deve essere riempito, metafora,
a seconda del contesto, della vita o del tempo. Per far sì che esso riesca a
contenere il maggior numero di elementi possibile, senza tuttavia escludere
quelli più importanti, è necessario iniziare inserendoci quelli
imprescindibili, rappresentati come i più voluminosi (in genere palline da
ping pong). Successivamente, via via che lo spazio diminuisce, ci si
metteranno dentro elementi sempre più piccoli (come dei sassolini), fino a
colmare i piccoli spazi rimasti vuoti con la sabbia e l’acqua. I primi
elementi sono quelli più importanti nella vita di un individuo, quelli
necessari al suo sostentamento e alla sua felicità. Il resto – ovvero ciò che
può essere utile ma non necessario o piacevole ma non utile – va inserito
successivamente, affinché colmi gli interstizi. Se lo si fosse aggiunto prima
- se, ad esempio, la prima cosa inserita nel vaso fosse stata l’acqua - non si
sarebbe potuto aggiungere nient’altro: l’acqua avrebbe occupato tutto lo
spazio disponibile.
Facendo nostra questa metafora e adattandola al contesto (consci di
rovinarne l’impatto emotivo), facciamo finta che il barattolo sia il
protocollo di allenamento e gli elementi con cui possiamo riempirlo i
singoli componenti della programmazione e dell’allenamento.
Come detto poco fa, la prima cosa da fare è mettere nel contenitore
(leggi: nel protocollo) gli elementi fondamentali, insostituibili, le palline
grandi, che occuperanno la maggior parte dello spazio. Nel nostro caso le
palline grandi sono il V.I.F. (volume, intensità, frequenza). Solo dopo aver
assicurato la presenza del V.I.F. potremo occuparci di riempire gli spazi
vuoti con ulteriori elementi – senza dimenticare che anche la disposizione
di questi ultimi va stabilita in funzione della loro rilevanza[14].

Stabilire l’ordine di importanza: il confronto tra


variabili
Come decidiamo quali elementi inserire per primi?
Se una delle variabili che utilizziamo nella pianificazione del nostro
allenamento è di maggiore rilevanza rispetto a un’altra, estrapolata dal
contesto e isolata dalle altre dovrà essere in grado di generare risultati di
magnitudo e durata superiori rispetto a quella con cui la confrontiamo.
Facciamo un esempio pratico analizzando due variabili

Progressione dello stimolo allenante vs Selezione dell’esercizio

e immaginiamo un atleta che voglia aumentare la massa muscolare del


gran pettorale. Quale delle due variabili che stiamo analizzando ha un peso
maggiore, e perché? Mettiamole a confronto.

▪ Nel caso di focus specifico sulla selezione dell’esercizio scegliamo


un esercizio in cui il gran pettorale è coinvolto maggiormente e
che, sulla carta, genera una risposta ipertrofica superiore.
Scegliamo quindi le croci con manubri. In questo modo abbiamo
una selezione dell’esercizio più specifica alla risposta che
vogliamo ottenere, il che nel breve termine potrebbe
effettivamente risultare in una risposta ipertrofica superiore (solo
a pari qualità esecutiva del gesto).[15] Estrapolando la variabile
dal contesto e valutandola come elemento a sé stante otteniamo
che il nostro atleta fa croci con manubri senza progredire, cioè
mantenendo nel tempo lo stesso carico:

croci con manubri: 20kg x 10 x 3 (3 serie da 10 ripetizioni con


un peso di 20 kg).

In questo modo gli adattamenti ipertrofici nel gran pettorale


stalleranno molto velocemente. L’esercizio risulterà in un
adattamento acuto nel breve periodo, poiché superiore nel
coinvolgimento del muscolo target, ma il progresso di questo
adattamento tenderà a scemare molto velocemente. La risposta
ipertrofica complessiva nel lungo periodo sarà quindi molto bassa.

▪ Nel caso di focus specifico sulla progressione dello stimolo


allenante l’esercizio che usiamo è la panca piana. L’obiettivo
primario dell’atleta di questo esempio è una maggiore ipertrofia,
quindi nel tempo accumulerà sempre più volume in questo
esercizio. Passerà così dal fare un 60kgx10x5 a un 70kgx10x5, poi
un 70kgx10x6, e così via.

La prima scelta potrebbe generare risultati superiori nel breve termine,


ma preferendo la seconda l’atleta sarà in grado di dare stimoli di alta
magnitudo grazie alla progressione nella difficoltà del suo allenamento.
Per questo motivo la risposta ipertrofica sarà sempre maggiore.
Questo metodo porta a stallare molto più lentamente, garantendo di
accumulare nuova massa muscolare molto più a lungo.
Ecco dimostrato che la progressione ha un peso superiore rispetto alla
selezione dell’esercizio.
Questo confronto è il metodo che possiamo utilizzare, una volta
stabiliti gli obiettivi, per stabilire l’ordine di importanza degli elementi che
compongono il nostro protocollo.

Ancora sul metodo


Un buon metodo prevede di curare tutti gli aspetti per ottimizzare
l’esito del nostro allenamento, ma è importante dare il giusto peso e la
giusta priorità agli elementi che più incidono sul risultato finale.
Smettiamola di perderci nella cura maniacale dei dettagli tralasciando le
basi. Troppo spesso succede che, “quando il saggio indica la luna, lo stolto
guarda il dito”. Distogliere lo sguardo dalle troppe dita che indicano
soluzioni facili per rivolgersi alla razionalità, alla logica e alla scienza è
l’invito di questo libro. Il metodo per la valutazione della rilevanza di un
elemento che ho esposto nel paragrafo precedente è un insegnamento a cui
tengo in modo particolare e che auspico di trasmettere adeguatamente in
questo volume. In precedenza ho fatto un’analisi analoga, comparando
alimentazione e allenamento e mostrando come il secondo abbia un
impatto più significativo sul risultato finale (qualora esso sia l’acquisizione
di massa muscolare) poiché, isolando le due variabili, è l’allenamento a
generare un adattamento più proficuo. Per esigenze di chiarezza, ripeto
brevemente quanto esposto:
▪ Se l’allenamento è costante e di buona qualità, ma non seguo
un’alimentazione corretta, acquisirò massa muscolare.
▪Se seguo una rigida tabella alimentare, ma non mi alleno, molto
difficilmente acquisirò massa muscolare.
Questo tipo di analisi necessita di una quantomeno discreta conoscenza
delle singole variabili interessate dalla strutturazione di un programma di
allenamento. Acquisite queste conoscenze, saremo in grado di individuare
gli aspetti ai quali riservare la nostra attenzione e, nel caso di stallo dei
risultati, di ristrutturare il nostro approccio. Sarà come indossare un paio di
occhiali capaci di filtrare le oscenità perpetrate con tracotanza dai fin
troppi sedicenti esperti di fitness e dispensatori di segreti (banali quanto
inefficaci o rischiosi). Non esistono segreti che possano essere rivelati, né
scorciatoie che possano essere intraprese. Non esistono metodi per ottenere
bicipiti di quaranta centimetri allenandosi cinque minuti a casa. Non
esistono diete che in un mese genereranno un corpo erculeo. Esistono lo
studio minuzioso, la ricerca indefessa, il dubbio costante: sono questi i
motori del sapere, capaci di mettere in discussione verità fino a un attimo
prima ritenute indiscutibili qualora le evidenze lo imponessero. “La forza
di gravità non si stabilisce per alzata di mano”.
4. Fissare gli obiettivi
Specificità
Immaginiamo un arciere che, impugnato l’arco, dovesse scoccare la
freccia. Qual è la prima cosa che farebbe? Fissare l’obiettivo.
Che si tratti di un bersaglio, di un nemico o della classica mela posata
sulla testa di un compagno temerario, è fondamentale avere ben chiaro
dove si vuole che quella freccia vada a conficcarsi. Ogni azione, la mira, la
tensione della corda dell’arco, la parabola della freccia devono essere
finalizzate al colpire l’obiettivo. In altre parole, ogni aspetto deve essere
specifico rispetto all’obiettivo.
Tuttavia la specificità è un aspetto troppo spesso sottovalutato nel
mondo dello sport. Ma che si intende con specificità?
Nel libro Scientific Principles of Strength Training (2015), il PhD
Mike Israetel scrive:

Il principio di specificità ci dice che come ci alleniamo riflette ciò che stiamo cercando di
ottenere. In modo più specifico alla phase potentiation, i sotto-principi di adattamento diretto
e compatibilità delle modalità allenanti ci dicono che non possiamo allenarci, con
produttività massima, per tutto allo stesso momento.

Più semplicemente: se vogliamo massimizzare i risultati in uno


specifico adattamento, dobbiamo allenarci in modo specifico per
quell’adattamento. Non potremo mai ottenere il massimo dei risultati in
due adattamenti diversi.
Senza sapere a cosa puntiamo è impossibile tracciare un percorso che
ci porti direttamente lì. Abbiamo mai preparato un esame universitario
senza sapere l’argomento dell’esame? Potremmo essere fortunati e,
leggendo dei libri a caso, imbatterci in un volume che contenga
informazioni utili, ma non sarebbe più probabile che centrare un bersaglio
bendati e fatti girare su sé stessi. L’allenamento non fa eccezione.
Frequentare la palestra con costanza e allenarsi senza un principio
specifico potrebbero far ottenere i risultati sperati, ma è improbabile che
questo accada.
Teniamo il parallelo con lo studio: come non possiamo tenere due libri
aperti sulla scrivania e studiare una riga dell’uno e una riga dell’altro
acquisendo tutte le nozioni, così non possiamo allenarci con due diversi
obiettivi nello stesso momento e sperare di ottimizzare i risultati di
entrambi.
Israetel introduce altri due aspetti:

▪ adattamento diretto: per massimizzare i progressi in un’abilità (per


esempio la forza) dobbiamo allenarla in modo specifico per un
tempo sufficientemente lungo, senza che in questo periodo
l’obiettivo cambi;

▪ compatibilità delle modalità allenanti: se allenassimo tutte le


abilità contemporaneamente, gli adattamenti specifici di una si
ripercuoterebbero negativamente sugli adattamenti necessari alle
altre. Esistono però alcune abilità che non solo possono coesistere,
ma che possono anzi essere reciprocamente vantaggiose.

Riassumendo, per massimizzare l’outcome dell’allenamento dobbiamo:

1. allenarci in modo specifico per il nostro obiettivo;


2. mantenere questo stile di allenamento per un periodo
sufficientemente lungo affinché questi adattamenti si
concretizzino;
3. alternare fasi che siano compatibili tra loro e, se
possibile, cercare di innescare una catena grazie alla quale il
conseguimento degli obiettivi delle prime agevoli il
conseguimento degli obiettivi delle successive.

Rappresentazioni della specificità: il ventaglio e il


triangolo delle capacità condizionali
Addentriamoci in aspetti più tecnici.
Un modo molto interessante di raffigurare la specificità è quello usato
da Mike Israetel nel suo libro Scientific Principles of Strenght Training,
scritto insieme a Chad Wesley Smith. Israetel rappresenta la specificità
come un ventaglio, i cui raggi raffigurano uno specifico adattamento con
agli estremi adattamenti opposti, come per esempio forza ed endurance.
Questi adattamenti si ripercuotono negativamente l’uno sull’altro. Se
si vuole eccellere nell’endurance, gli adattamenti che otterremo attraverso
gli allenamenti specifici per questo obiettivo deterioreranno quelli ottenuti
dagli allenamenti per la forza.

Un’altra rappresentazione efficace di questo concetto è il triangolo


delle capacità condizionali.
Questo triangolo è usato di solito nei volumi scientifici del mondo
accademico. Immaginiamo un triangolo ai cui vertici siano collocate le tre
capacità condizionali: forza, velocità e resistenza. Questo triangolo, una
volta “compilato” con le caratteristiche dell’atleta, sarà rappresentativo
delle sue capacità e di come esse sono ripartite. L’area di sviluppo
complessivo di tali abilità è limitata, determinata geneticamente. Nessun
atleta potrà mai riempire completamente il proprio triangolo e ogni atleta
avrà un triangolo differente da quello di tutti gli altri. Chiunque avrà, fin
dalla nascita, segmenti di lunghezza differente relativi alle tre abilità e sarà
pertanto predisposto per una di esse piuttosto che per le altre. Questo ci
impone di dare la priorità a un unico obiettivo per ottimizzare
l’adattamento di nostro interesse.
Potremmo vedere il nostro triangolo come le mappe dei vecchi
videogiochi, quelle tutte nere che, man mano che scoprivamo un’area, si
coloravano, rivelandone le caratteristiche. Ecco: possiamo tracciare lo
sviluppo delle nostre capacità allo stesso modo ricorrendo al triangolo
della capacità condizionali. Una volta colorato, sarà la mappa delle nostre
capacità atletiche. L’unica differenza rispetto alla mappa dei videogiochi è
che non potremo mai colorare l’intero triangolo, come se avessimo un
numero di passi limitato.
Ed ecco tornare l’importanza della specificità: dobbiamo cercare di
raggiungere solo le mete che ci interessano davvero, consci di non poter
percorrere un tragitto illimitato. Come dicono in America: «jack of all
trades, ace of none», ovvero «bravo in tutto, eccellente in nulla». Questo,
ovviamente, vale per tutti gli sport.

Adattamenti e abilità
Perché abbiamo speso così tanto tempo per parlare di specificità? Dove
si posiziona l’ipertrofia nel triangolo? Possiamo rispondere a entrambe le
domande con un’unica risposta.
L’ipertrofia è un adattamento, non un’abilità. Non è possibile
allenare un adattamento, lo si può solo indurre mediante il miglioramento
di un’abilità.
In natura essere belli non è una caratteristica necessaria alla
sopravvivenza, mentre lo sono le tre abilità che abbiamo collocato ai
vertici del triangolo (forza, velocità e resistenza). Il corpo umano non
avverte fisiologicamente l’esigenza di diventare più bello, ma può
diveltarlo a mezzo di un allenamento mirato a migliorare una (o più) di
queste abilità.
Sì, abbiamo sottolineato come non si possa riempire l’intero triangolo,
e dunque parlare di più abilità potrebbe risultare fuorviante. Le abilità
condizionali descrivono le tre differenti capacità di base di tradurre
l’energia in un gesto atletico. Pertanto, esse si possono combinare. Tra la
forza e la velocità troveremo la forza veloce (esplosività), mentre tra la
forza e la resistenza troveremo la forza resistente.
Come si arriva all’ipertrofia? Grazie a un adattamento indotto
dall’allenamento di tutte le sfaccettature della capacità denominata
“forza”. Per ottenere il massimo sviluppo ipertrofico un atleta deve
dedicare attenzione - in ordine di importanza - a:

1. Forza resistente
2. Forza massima
3. Forza veloce
La forza resistente si trova al primo posto per coloro che desiderano un
adattamento ipertrofico. Come per ogni altro sport, anche nel
powerbuilding si deve essere consci dell’inevitabilità di alcuni
compromessi. Questo, più che per gli utenti che vogliono ottimizzare
l’estetica (giacché la forza massima ricopre comunque un fattore rilevante
nella costruzione ipertrofica), è vero soprattutto per gli atleti che vogliono
eccellere nel powerlifting. Quest’ultimi, pur giovando anche
dell’allenamento delle altre, per ottenere il massimo dei risultati dovranno
riservare una maggiore attenzione alla forza massima.

Le relazioni tra gli adattamenti


Immaginiamo di avere a che fare con una persona che si presenti da
noi aspirando a gareggiare sia come maratoneta, che come powerlifter.
Dovremmo rendere chiaro fin da subito che non potrà ottenere il massimo
in entrambi gli ambiti, in quanto l’adattamento per l’uno ha un’influenza
negativa sull’adattamento per l’altro.
Quanto spesso siamo proprio noi quella persona?
Tutti vorremmo diventare più ipertrofici, eppure più definiti. Avere
spalle, braccia e petto grossi, ma addominali asciutti e scolpiti, riuscendo
inoltre a sollevare carichi maggiori rispetto agli amici che si allenano
insieme a noi. Ma in questo modo andremmo a ricercare adattamenti che
cozzerebbero fra di loro. Cercare di diventare più definiti difficilmente va
d’accordo con il cercare di essere più forti e più ipertrofici.
Al contrario, diventare più forti e più ipertrofici sono due adattamenti
che non solo convivono bene, ma che si favoriscono l’un l’altro. Tuttavia,
nonostante questa sorta di “fratellanza” tra questi adattamenti, il massimo
rendimento dell’uno o dell’altro si otterrà solo attraverso una maggiore
specificità nella struttura del nostro allenamento.
È accaduto anche a me di ambire a diventare più ipertrofico e più forte
allo stesso tempo, e di trovarmi scoraggiato nel realizzare che durante le
varie fasi dell’allenamento era prevalentemente uno a progredire,
“lasciando indietro” l’altro.
Scoraggiarsi è insensato, dal momento che è proprio la progressione
nell’uno che favorirà, modificato il focus primario, la progressione
nell’altro. Questo lo devono tener presente soprattutto le persone che si
demoralizzano nel cambiare focus, convincendosi di allenare un aspetto a
discapito di un altro. È un modo sbagliato di osservare le cose, ed equivale
a trovarsi di fronte a un quadro e osservare la cornice convincendosi di
guardare l’opera intera.
Il vero atleta di powerbuilding, ambendo a gareggiare sia in uno sport
di forza che in uno sport di estetica, deve modificare il proprio focus in
modo estremamente specifico in relazione alle esigenze più immediate,
arrivando quasi a isolare i due aspetti.
A ridosso di una gara di bodybuilding è quasi scontato che l’esigenza
di ridurre il più possibile la percentuale di massa grassa intacchi le
performance delle alzate. Viceversa, in vista di una gara di powerlifting,
un eccessivo volume di muscolazione ci porterebbe ad affaticarci tanto da
non consentirci di dare il meglio al momento della gara. Stiamo parlando,
chiaramente, di livelli agonistici.

Per gli amatori gli aspetti descritti poco fa sono meno visibili, dato che
i passaggi tra un focus e l’altro sono molto meno significativi. Il connubio
dei due elementi può pertanto essere molto più accentuato e solido durante
tutta la preparazione. De-adattarsi rispetto a uno stimolo (ovvero
sensibilizzarne nuovamente la ricezione da parte del corpo) è molto utile
per migliorare le prestazioni. Bisogna abituarsi a passare da un focus
all’altro per tutta la durata della preparazione, imparando a non
demoralizzarsi se l’aspetto che in una fase non viene allenato
primariamente manifesta uno stallo o un lieve calo.
5. V.I.F. – Volume, Intensità e
Frequenza (Programmazione)
Fissato l’obiettivo, si può procedere alla programmazione
dell’allenamento.
Per strutturare un allenamento efficace è fondamentale la gestione
delle tre variabili fondamentali, ovvero:

1. volume, che determina in modo primario quanto


adattamento otterremo;
2. intensità, che determina in modo primario quale
adattamento otterremo;
3. frequenza, determina in modo primario con che efficienza
(o in quanto tempo) otterremo questo adattamento.

La gestione di queste variabili nel breve periodo (ovvero all’interno di


un microcilo) è chiamata programmazione.

Dentro il programma: microcicli, mesocicli e


macrocicli
Il microciclo è l’unità minima in cui si raggruppano varie sessioni di
allenamento – così da poterle eventualmente ripetere. Un programma
classico prevede un determinato numero di sessioni allenanti da compiere
in una settimana: in questo caso, il microciclo corrisponde a una settimana.
La struttura di un ipotetico microciclo che prevede quattro sessioni
allenanti in una settimana sarà:

▪ Giorno 1: Allenamento A
▪ Giorno 2: Allenamento B
▪ Giorno 3: Allenamento C
▪ Giorno 4: Allenamento D

La durata del microciclo, tuttavia, non deve essere necessariamente di


7 giorni. Si può pensare per esempio a strutturare il proprio allenamento su
5 sessioni allenanti (A B C D E) con solo 3 sessioni a settimana. Si avrà:
• Settimana 1
▪ Giorno 1: Allenamento A
▪ Giorno 2: Allenamento B
▪ Giorno 3: Allenamento C

• Settimana 2
▪ Giorno 1: Allenamento D
▪ Giorno 2: Allenamento E
▪ Giorno 3: Allenamento A
In questo caso il microciclo avrà una durata di (circa) 10 giorni.
I microcicli sono a loro volta contenuti in una struttura temporale di
durata maggiore, chiamata mesociclo.

Il mesociclo è la somma dei microcicli che hanno obiettivi e struttura


simili.
Riprendendo l’esempio di poco fa: se abbiamo un microciclo di 4
sessioni allenanti settimanali il cui obiettivo sia la costruzione di nuova
massa muscolare e ad esso facciamo seguire altri 6 microcicli con struttura
e obiettivo uguali, l’insieme di questi microcicli costituirà un mesociclo
volto all’aumento della massa muscolare.
Il “contenitore” più ampio questa volta è il macrociclo, che
rappresenta l’alternarsi dei mesocicli fino al raggiungimento dell’obiettivo
finale, per poi riprendere con un nuovo macrociclo, che vedrà alternarsi
un’altra volta gli stimoli del precedente.

I cicli nel powerlifting


Nel caso del powerlifting si ha prevalentemente l’alternarsi di:
▪ periodo di costruzione muscolare e consolidamento tecnico
(mesociclo di accumulo);
▪ periodo di conversione di questi in forza generale (mesociclo di
intensificazione/trasformazione);
▪ periodo di test/gara (mesociclo di picco).
Solitamente questi 3 mesocicli compongono il macrociclo di un
powerlifter, che inizia dopo una competizione e termina con quella
successiva.
Quanto più avanza l’esperienza di un atleta, tanto più questi periodi
tendono a dilatarsi. Nel caso di atleti olimpici, infatti, il macrociclo ha
spesso durata pari all’intero quadriennio olimpico, senza prevedere una
performance massima durante le competizioni che precedono le olimpiadi.
In breve
Abbiamo introdotto i concetti cardine di programmazione (argomento
di questo capitolo) e periodizzazione (infra cap. 6). Ricapitolando
sinteticamente:

- la programmazione è la strutturazione dell’allenamento che


interessa la gestione delle variabili fondamentali (VIF) nel breve
periodo, ossia la sessione di allenamento e il microciclo;
- la periodizzazione è la strutturazione dell’allenamento che interessa
la variazione e la progressione delle variabili fondamentali (VIF)
nel medio lungo periodo, ossia i mesocicli e i macrocicli.

Come strutturare il microciclo: le basi


Per strutturare un programma con la massima efficacia, la prima cosa
da fare (nonché la più importante) è strutturare correttamente e
coerentemente il nostro microciclo. Dobbiamo quindi porci alcune
domande:

▪ A quale volume sottoporsi, e perché?


▪ A quale intensità sottoporsi, e perché?
▪ Quante volte a settimana ci si può allenare?
▪ Qual è il numero ottimale di volte in cui si deve stimolare
(settimanalmente) un determinato muscolo? Quante volte a
settimana si deve praticare un determinato esercizio per
ottimizzarne il miglioramento?
Grazie alle risposte a queste domande avremo la base su cui strutturare
il microciclo in modo efficace ed efficiente.

Banalmente, il microciclo è quello che nelle palestre si chiama


“scheda”. Nella nostra esperienza, a meno che non abbiamo avuto a che
fare con coach o istruttori con un certo livello di preparazione, ci siamo
trovati a eseguire la stessa “scheda” che eseguivano tutti gli altri iscritti
della nostra palestra, identica per chiunque e comprensiva di un unico
microciclo, da ripetere di solito per un mese e senza avere chiara la logica
di quell’allenamento. Per evitare che succeda di nuovo, vediamo come
strutturare un microciclo coerente con gli obiettivi e che faciliti il loro
raggiungimento.
Recenti studi hanno dimostrato che, se l’obiettivo è puramente estetico,
la programmazione ricopre un ruolo più importante della periodizzazione.
Questo potrebbe suggerire che la periodizzazione non sia necessaria per
chi è interessato solo all’estetica. Vorrei tuttavia esporre la mia opinione
personale, che si discosta a tratti dalle conclusioni di alcuni di questi studi.
Non credo, infatti, che sia del tutto vero che la periodizzazione non generi
benefici per un bodybuilder; ne illustro qui le ragioni:

1. programmare una progressione specifica dello stimolo


allenante rende più semplice tracciare volume e intensità
(variabili fondamentali). Riadattare lo stimolo sarà quindi più
semplice, sottoponendo l’organismo a uno di entità maggiore
qualora fosse necessario;

2. credo che, come spesso accade, lo studio trascuri di


considerare adeguatamente la variabile ‘tempo’. È vero (e lo
dimostra lo studio stesso) che la periodizzazione, nel breve
periodo, non produce risultati significativi per chi mira
all’ipertrofia. Sarebbe però interessante analizzare i
miglioramenti di performance e forza nel tempo raccogliendo i
dati di alcuni bodybuilder sottoposti a un programma
periodizzato. È verosimile che adattamenti di forza superiori per
coloro che periodizzano l’allenamento (evidenziati anche dallo
studio) permettano di: a) accumulare più volume data la migliore
efficienza nel farlo e l’incremento del carico medio utilizzato; b)
generare tensioni meccaniche di entità superiore. Più è efficiente
l’accumulo di volume, più se ne potrà accumulare,
incrementando la tensione meccanica e generando risposte
ipertrofiche maggiori;

3. variare l’obiettivo specifico della programmazione,


alternando periodi di focus sulla progressione del volume a
periodi di focus sulla progressione dell’intensità, genera
“freschezza mentale”, rendendo più vario e divertente
l’allenamento. In più, disabituandosi a una variabile, una volta
che questa verrà reintrodotta genererà una risposta maggiore
(almeno in acuto). È ipotizzabile che queste risposte acute non
comportino una differenza significativa a breve termine, ma,
dopo diversi anni, potrebbero accumularsi fino a divenire
percepibili.

Come strutturare il microciclo: i range di


ripetizioni e i sistemi energetici
Una delle domande più frequenti è: quante ripetizioni bisogna fare
per esercizio?
Uno dei luoghi comuni più diffusi è che l’esecuzione di un basso
numero di ripetizioni abbia effetti solo sulla forza, un numero di ripetizioni
medio sulla muscolazione e un numero di ripetizioni elevato sulla
definizione. Questa convinzione è fondata? Non al 100%.
Si è dimostrato che a parità di volume, indipendentemente dal
numero di ripetizioni che si eseguono, si ottiene lo stesso stimolo
ipertrofico.[16]
Come si è giunti a questa dimostrazione? In uno studio, Brad
Schönfeld ha equiparato i volumi di allenamento di due gruppi: il primo si
è allenato a 3 ripetizioni per l’intero periodo, il secondo si è attenuto a un
range di muscolazione più canonico (8-12 rep). Entrambi i gruppi hanno
manifestato, alla fine dello studio, lo stesso incremento di massa
muscolare.
Qual è il primo dato utile che ci dà questo studio? Che il driver
primario dell’ipertrofia è il volume.
Non solo: indipendentemente dall’obiettivo, se l’allenamento è ben
strutturato il risultato finale sarà proporzionale al volume di allenamento
dedicato a quell’obiettivo – mantenendosi, ovviamente, a un volume
recuperabile, che non porti a sovrallenamento o infortuni.
Questo mostra come, anche quando si ha come obiettivo la forza e ci si
allena con intensità maggiore, la quantità di volume resta il fattore che
determina la progressione.
Se ne conclude che il volume determina quanto ci adattiamo.
Nello stesso studio, a parità di volume, gli atleti che l’hanno
accumulato a un’intensità media superiore hanno ottenuto progressi
maggiori riguardo alla forza. Perché?
Possiamo spiegarlo ricorrendo a due concetti esposti in precedenza:

a) specificità: sollevare carichi più pesanti è specifico rispetto al


migliorare nel sollevamento di carichi pesanti;

b) quando si sollevano carichi pesanti il sistema energetico dominante


è sempre di più l’anaerobico alattacido, o dei fosfati (che è il
sistema utilizzato per la produzione di grandi quantità di energia
in lassi di tempo molto brevi, come gli sforzi esplosivi).
Utilizzando frequentemente questo sistema energetico lo si rende
più efficiente, portandoci a progredire nelle attività che vi fanno
ricorso.

I sistemi energetici principali sono 3:


▪ Aerobico
▪ Anaerobico lattacido
▪ Anaerobico alattacido

Questi tre sistemi servono a un unico obiettivo: produrre ATP da


utilizzare nella cellula muscolare per far sì che possa contrarsi. La
differenza che c’è tra i tre sistemi sta nel substrato che viene utilizzato e
nei relativi sistemi metabolici che vengono reclutati per produrre energia.
A determinare quale dei tre sistemi energetici viene selezionato per
produrre energia sono l’intensità e la durata dello sforzo.

Il sistema energetico principale dei lavori a bassa intensità e lunga


durata è quello aerobico. Difficilmente lo si usa in palestra. Viene invece
ricercato negli sport di resistenza, come la maratona o il ciclismo.
Accademicamente si dice che questo sistema energetico venga utilizzato
negli sforzi più lunghi di 45-60 secondi. Produce ATP sfruttando la
respirazione cellulare, che avviene nei mitocondri delle cellule con un
processo molto conosciuto e studiato, detto anche ciclo di Krebs. Questo
processo viene utilizzato per ossidare prevalentemente i lipidi (grassi)
oppure il glicogeno stoccato nel muscolo scheletrico o nel fegato. Questo è
il sistema energetico che consente di produrre più ATP. Fino a che
l’intensità dello sforzo rimane al di sotto della soglia anaerobica questo è il
sistema energetico di riferimento.

Una volta superata questa soglia entrano in gioco i due sistemi


energetici che ci interessano di più: il sistema anaerobico lattacido e
alattacido.
Entrambi i sistemi energetici vanno a braccetto con l’ipertrofia
muscolare ed entrambi sono correlati all’allenamento della forza e
dell’ipertrofia. Nello specifico, powerlifting e bodybuilding sono sport
dove entrambi i sistemi energetici vengono usati per costruire muscolo, il
famoso muscolo che utilizziamo poi per eseguire l’1rm in una gara di
powerlifting o per flexare sotto le luci di un palco di bodybuilding.

Partiamo dal sistema anaerobico lattacido.


Dei due sistemi energetici, è quello che viene scelto quando lo sforzo è
di intensità media o medio-alta, e accademicamente si attesta lo spettro
dello sforzo tra i 6/8 e i 45/60 secondi.
Questo è il sistema energetico principale negli sport di forza resistente
– quindi, oltre al bodybuilding e al powerlifting, anche in molte altre
discipline, come ad esempio la corsa a ostacoli o i 400m.
Il susbrato principale di questo sistema energetico è il glicogeno
muscolare, il quale, non potendo essere ossidato tramite l’ossigeno (del
quale siamo in debito, per vita dell’elevata intensità dello sforzo), viene
scomposto in glucosio con un processo detto glicogenolisi. Il glucosio è
poi utilizzato per essere scisso in ATP e Piruvato. Il piruvato diviene in
seguito acido lattico.
Il prolungarsi di questo tipo di sforzo nel tempo causa affaticamento
nel muscolo per via dell’accumulo di lattato (acido lattico) e altri
metaboliti. Il nome lattacido è dato proprio dal fatto che questo sistema
energetico porta l’accumulo di lattato: il fattore che principalmente limita
il ricorso a tale sistema.

Uno sforzo di durata molto ridotta ci permette di lavorare alla massima


intensità, alla quale riusciamo a reclutare il sistema energetico
anaerobico alattacido.
Il substrato di questo sistema sono i fosfati presenti nella cellula
muscolare (quindi il creatinfosfato e l’ATP stessa). Accademicamente
viene citato quando lo sforzo è inferiore agli 8/10 secondi. Per questa
ragione viene utilizzato quando necessitiamo di una contrazione muscolare
immediata, ovvero quando dobbiamo eseguire sforzi rapidi ed
estremamente intensi.
Nella cellula muscolare, una molecola di fosfocreatina cede il proprio
gruppo fosfato per trasformare una molecola di ADP in ATP.
Naturalmente la fosfocreatina si forma nella cellula muscolare a riposo,
quando una molecola di creatina è libera di legarsi a una molecola di
fosfato.

La percentuale di carico utilizzata determina il sistema energetico che


si attiva, e con ciò quante ripetizioni siamo in grado di fare in una serie e
quanto tempo durerà quest’ultima (in altri termini, il nostro sforzo).
Determina anche il volume massimo tollerabile: a livello strutturale e
neurale, percentuali di carico maggiori comportano maggiore stress per
unità di volume.
Facciamo un esempio. Immaginiamo che il nostro atleta abbia un
massimale di stacco di 200 kg. Nel caso gli fosse richiesto di utilizzare, ad
allenamento, il 50% del suo massimale (ovvero 100 kg) sarebbe facilmente
in grado di espletare un numero elevato di ripetizioni in una singola serie
(perfino 20 o più). La durata della serie sarebbe quindi di gran lunga
maggiore (facendolo scivolare dal sistema energetico anaerobico alattacido
a quello lattacido, il che genera adattamenti differenti) e il volume
accumulabile nettamente superiore, essendo lo stress strutturale e neurale
molto limitato. Se questo atleta facesse 4 serie da 20 ripetizioni con il suo
50% accumulerebbe un volume complessivo di 8000kg di stacco in questa
seduta. Incrementiamo ora l’intensità, portandola all’85% (170kg). In
questo caso l’atleta avrebbe grosse difficoltà a eseguire più di 5/6
ripetizioni. Al fine di mantenere una tecnica di esecuzione corretta e di
limitare il rischio infortuni, lavorerebbe sulle 3 ripetizioni. Date l’entità e
la durata dello sforzo, il sistema energetico attivato maggiormente sarebbe
quello anaerobico alattacido. Il carico genererebbe stress e adattamenti
neurali e strutturali maggiori. L’allenamento per la forza, proprio di questo
sistema energetico, è l’unico che sia stato dimostrato generare adattamenti
positivi anche a livello di struttura ossea (maggiore densità) e di struttura
tendinea, rendendoci capaci di sorreggere senza danni stress sempre
maggiori nel tempo. In questo caso, la durata della serie sarebbe
nettamente ridotta. Di riflesso, anche il volume accumulabile in questa
sessione risulterebbe limitato. Se l’atleta facesse 5 serie da 3 con il suo
85% (170kg), avrebbe un volume complessivo di 2550kg (più o meno del
70% inferiore rispetto al primo esempio).
Possiamo quindi concludere che l’intensità determina il come ci
adattiamo.

Come strutturare un microciclo: la frequenza


Da una recente metanalisi (anch’essa del dott. Schonefeld) a proposito
della frequenza ottimale di stimolo riservato a un gruppo muscolare è
emerso che, se l’obiettivo è l’ipertrofia, è di 2 sessioni allenanti a
settimana.
Secondo alcuni esperti, tra cui il dott. Israetel, la frequenza ottimale di
stimolo di un gruppo muscolare varia in funzione della forza e della
dimensione di quest’ultimo, arrivando a consigliare da un minimo di 1
sessione allenante settimanale (per gruppi muscolari dominanti e grandi,
che non abbiamo intenzione di far crescere ulteriormente nel breve
periodo) a un massimo di 4-5 sessioni allenanti settimanali per i muscoli
più deboli e piccoli. Perché?
▪ Una maggior frequenza, a parità di volume, permette di ripartire
quest’ultimo in giornate o sessioni differenti, migliorando la
qualità media dell’allenamento. Evitando di sottoporre un distretto
muscolare a troppo stress (ovvero eseguendo serie allenanti dopo
averne già accumulato molto), sarà preservata la qualità
d’esecuzione e della contrazione, nonché il carico medio
utilizzato.
▪ L’incremento della sintesi proteica provocato dall’allenamento è
risultato avere una durata molto inferiore rispetto a quella
ipotizzata in passato, il che spiega come una frequenza più elevata
negli stimoli a cui un distretto muscolare è sottoposto lo
“mantiene in uno stato di crescita costante”.

Scostandoci per un momento da una prospettiva muscolo-centrica,


possiamo interpretare la frequenza anche da un punto di vista alzata-
centrico, precipuo per coloro che hanno come obiettivo la performance
atletica. La pratica frequente di un determinato schema motorio permette
di consolidarlo e ottimizzarlo con maggiore facilità e in un tempo minore,
perché, esponendoci più spesso ai nostri errori, saremo più inclini a
correggerli.
Alcuni studi[17] dicono che le alte frequenze si traducono in un netto
vantaggio quando applicate a movimenti complessi (nel caso degli studi, i
powerlift) il cui obiettivo è la costruzione di forza. Una maggiore
frequenza, pertanto, specie se volta all’incremento della forza e delle
prestazioni, consente di conseguire più velocemente gli obiettivi
prestabiliti. Concludiamo, perciò, che la frequenza determina in quanto
tempo e con quale efficienza ci adattiamo.

Come strutturare il microciclo: ripartizione del


volume e D.U.P.
Come possiamo ripartire il volume nel modo più efficace possibile?
Richiamiamo l’obiettivo che abbiamo fissato all’inizio del nostro
percorso. È infatti basandoci su di esso che dobbiamo ripartire il volume
del nostro allenamento nei vari rep range.
Eppure poco fa abbiamo affermato che non conta il numero di
ripetizioni eseguite, ma il volume totale. Perché allora bisognerebbe
suddividere il volume in tutti i rep range possibili?
Ultimamente la ricerca ha dimostrato che se si stimola il muscolo a più
rep range contemporaneamente si ottengono i migliori risultati sia dal
punto di vista ipertrofico che da quello della forza: vengono infatti
stimolati in modo più omogeneo i diversi tipi di fibra muscolare presenti
nei muscoli.
Una struttura di questo tipo si chiama D.U.P. (daily ondulating
periodization) e consiste nel ripartire i rep range attraverso i vari
allenamenti settimanali oppure nell’inserirli tutti all’interno di un’unica
seduta.
Onde evitare fraintendimenti, ci tengo a fare una digressione sulla
struttura del D.U.P.
Esistono due metodi principali di D.U.P., ovvero HPS e HSP
(hypertrophy – power – strength; hypertrophy – strenght – power), così
organizzati:

▪ La prima giornata è dedicata all’ipertrofia


▪ La seconda giornata è dedicata alla potenza
▪ La terza giornata è dedicata alla forza.

A seconda che si decida di strutturare la programmazione seguendo il


metodo HPS o HSP si avrà, ovviamente, una diversa collocazione delle
rispettive sedute allenanti (il microciclo non deve per forza essere
composto da tre giorni).
Che differenze ci sono tra i due metodi?
Il metodo HSP è ideato per le persone che si concentrano su un lavoro
di potenza, al quale vogliono dedicarsi quando più fresche. Di solito
l’allenamento più faticoso è quello di ipertrofia. Collocando l’allenamento
di forza nel mezzo, sarà quello che risentirà maggiormente della fatica
derivante dalla seduta ipertrofica, mentre l’allenamento per la potenza
gioverà del maggiore recupero ottenuto grazie a una pausa più lunga. È
quindi un approccio indicato per chi pratica sport dove la componente di
potenza ricopre un ruolo molto importante.
Per coloro che praticano sport di forza (e in particolare per powerlifter
e powerbuilder) la componente principale è la forza. La potenza, invece,
ricopre un ruolo marginale, poiché:
▪ Le esecuzioni troppo esplosive hanno effetti poco rilevanti sullo
sviluppo ipertrofico, in quanto rendono più difficile mantenere la
tensione sul muscolo target. Va aggiunto che il carico necessario
per avere un effettivo stimolo di potenza è troppo basso per
generare tensioni meccaniche adeguate;
▪ l’espressione massima di forza è, in genere, molto lenta. Pensiamo
a un massimale di squat, panca o stacco: a volte necessita anche di
più di dieci secondi per essere completato. Incrementare la
velocità è quindi aspecifico rispetto al gesto di gara.
Per ovviare a questi problemi si modifica la struttura seguendo un
ordine HPS. In questo modo la sessione di potenza vale come recupero
attivo prima della sessione di forza, coadiuvandone i risultati. Al
contempo, per interessare in modo specifico l’abilità “forza” (e di
conseguenza l’adattamento ipertrofico), la giornata s diventa giornata t,
dove t sta per technique.
Per far sì che l’allenamento tecnico sia specifico al nostro obiettivo è
necessario che il movimento sia tanto simile al movimento di gara quanto
basta per avere un transfer, nonché abbastanza facile da lasciarci
concentrare sull’esecuzione tecnica.

Il movimento di gara ha tre caratteristiche salienti:

1. si utilizza un carico del 100% (o nell’intorno di questo: con una


programmazione ideale, in gara si dovrebbe raggiungere questa
percentuale);
2. si esegue una sola ripetizione;
3. lo sforzo è molto intenso e la velocità è bassa.
Cosa fare affinché l’esercizio sia specifico?

Occorrono carico adeguato e basse ripetizioni.


Ad esempio, ci si allena ad alto buffer (75-85% 1rm) con un rep range
di 1-3. Questo rende l’allenamento sufficientemente leggero da essere
rigenerativo in vista dell’allenamento di forza, il carico sufficientemente
pesante da essere allenante e il volume non eccessivo (così da non violare
la funzione di “recupero attivo” funzionale alla successiva seduta di forza).
Gli approcci con cui si struttura un programma in D.U.P. sono per lo
più due.
Nel primo esistono giornate dedicate a un certo stimolo: penso al
PHAT di Layne Norton o ai programmi D.U.P. HPS di Helms e Zudros,
nei quali sono presenti giorni dedicati ad adattamenti specifici.

Nel caso del PHAT si ha:

▪ Power Lower
▪ Power Upper
▪ Hypertrophy Lower
▪ Hypertrophy Upper

Nel caso dell’HPS si ha:


▪ Ipertrofia
▪ Potenza
▪ Forza
▪ Forza
Per quanto riguarda il secondo approccio, invece, si ha un’ondulazione
specifica al movimento o al muscolo interessato. Si possono incontrare
giornate in cui sono presenti stimoli di forza per un gruppo e di ipertrofia
per un altro (il che rimanda alla struttura del metodo Hatfield, nel quale
all’inizio della seduta si concentra l’attenzione sui movimenti di forza, per
poi spostarla a quelli di ipertrofia). Ecco un’esemplificazione di una seduta
secondo il metodo Hatfield[18]:

▪ Quadricipiti, forza: Squat 5x5


▪ Quadricipiti, tensione meccanica: Pressa 4x8-12
▪ Quadricipiti, stress metabolico: Leg Extension 4x15-20

Segue, invece, un esempio di seduta secondo il metodo Hatfied con


coinvolgimento di più gruppi muscolari:

▪ Quadricipiti, forza: Squat 5x5


▪ Petto, tensione meccanica: Spinte con manubri 4x8-12
▪ Spalle, stress metabolico: Alzate laterali 4x15-20

Se l’obiettivo principale è la forza, conviene accumulare il 75/85% del


volume con serie a basse ripetizioni (tra 1 e 5) e il restante con serie di
muscolazione a numero di rep medio (6-12) e le cosiddette serie di
“pompaggio”, o più scientificamente di stress metabolico (12-15).
Viceversa, se l’obiettivo è l’estetica conviene invertire la ripartizione
del volume riservando maggior spazio alle serie di muscolazione.
Queste sono le ragioni che determinano la ripartizione del volume
totale.
Come strutturare il mesociclo: variare il focus
Abbiamo visto, tuttavia, che l’ottimizzazione della propria condizione
fisica si ottiene grazie all’alternanza del focus nelle diverse fasi
dell’allenamento.
Questo è anche ciò che preferisco fare io. Mi piace passare da fasi in
cui si ha uno stress metabolico maggiore a periodi in cui ci si concentra
sulle tensioni meccaniche. Quest’alternanza di stimoli non solo darà una
maggior spinta ipertrofica, ma permetterà di continuare a crescere per un
lasso di tempo maggiore, oltre a rendere l’allenamento più vario,
divertente e stimolante sul lungo termine, migliorando così l’aderenza.
La periodizzazione a blocchi è un altro utile supporto alla gestione
dell’alternanza degli stimoli.
Per aderire al principio di adattamento diretto dobbiamo strutturare il
nostro protocollo in modo da sottoporre il corpo a uno stimolo duraturo. Il
periodo tipico di durata di un blocco (mesociclo), variabile in funzione
delle nostre esigenze e della nostra esperienza, difficilmente ha una durata
inferiore alle 4 settimane (limite minimo), e si aggira in media intorno alle
6-8 settimane. Costante nel mesociclo è invece il tipo di adattamento
ricercato.
Il principio di compatibilità delle modalità allenanti viene rispettato
grazie all’alternanza di 3 diversi blocchi:

▪ Accumulo o Fase estensiva

▪ Intensificazione o Fase intensiva o di trasformazione

▪ Picco o Fase di realizzazione (presente quasi solo nei


programmi di powerlifting)

1. Accumulo o fase estensiva. Gli adattamenti target di questa fase


sono: ipertrofia, capacità di lavoro, consolidamento delle skill
motorie. Quali stimoli possiamo sottoporre al corpo, per ottenere tali
adattamenti?Si deve accumulare volume (sia col passare del tempo,
che per unità di tempo), in modo da indurre i primi due adattamenti.
Per farlo occorre concentrarsi su rep range alti e/o variazioni delle
alzate che permettano di lavorare sul perfezionamento degli schemi
motori. Ho posto questi elementi come alternative perché si possono
adottare due diverse strategie. Rep range alti e carichi bassi (60-75%
1rm) nelle alzate di gara per un powerlifter implicano una forte
riduzione della specificità e possono essere quindi trattati come
variazioni del movimento di gara. Un numero di rep elevato e un
carico contenuto permettono di lavorare molto bene sulla tecnica, in
quanto il carico sarà sufficientemente basso da permettere di mirare
alla perfezione del gesto tecnico e l’alto numero di ripetizione
permetterà, all’interno dello stesso set, di “aggiustare il tiro” qualora
si notasse un errore o un’esecuzione imprecisa. A seconda delle
predilezioni individuali, un coach potrebbe optare per una variazione
tecnica di un’alzata che esponga una difficoltà motoria o un difetto
d’esecuzione per “attaccarlo direttamente” oppure lavorare sul
movimento di gara, praticandolo il più spesso possibile per tentare di
curare i difetti dello schema motorio e della tecnica. In entrambi i
casi, in questa fase è corretto cercare di ottenere un miglioramento
della tecnica di esecuzione degli esercizi fondamentali del nostro
protocollo di allenamento. Si può, inoltre, inserire una quantità
maggiore di lavoro accessorio allo scopo di stimolare l’ipertrofia
generale. Questo approccio è molto più tipico per un bodybuilder.

2. Intensificazione o fase intensiva/di trasformazione. L’obiettivo


di questa fase è trasformare il lavoro fatto fin qui in una maggiore
espressione di forza generale. Questo implica una riduzione delle
ripetizioni medie per serie e della densità di allenamento; il carico
invece aumenta. L’ipertrofia conseguita e il miglioramento degli
schemi motori sottendono la possibilità di raggiungere nuovi livelli di
forza, che, a loro volta, permetteranno (quando torneremo in fase di
accumulo) di utilizzare carichi medi più alti e/o fare più ripetizioni
con gli stessi carichi, rendendo più efficiente l’accumulo di volume.
Questo approccio è molto più tipico per un powerlifter[19].
3. Fase di Picco o realizzazione. Questa fase prevede di
realizzare la performance costruita nei blocchi precedenti. Si ha
un’ulteriore riduzione di volume, densità e varietà in favore di un
nuovo incremento di intensità e specificità. Gli obiettivi, in questo
frangente, restano mantenere la capacità di esprimere il gesto
tecnico-atletico specifico di un dato sport e dissipare quanto più
possibile la fatica, in modo da eseguire la miglior performance
possibile in un determinato giorno (quello del test o della gara).
Questa fase il più delle volte non è presente nei programmi per il
bodybuilding, perché è tipica degli sport che prevedono una
prestazione atletica.

Non è casuale che abbia scelto di evidenziare come il blocco di


accumulo sia strutturato in modo simile alla programmazione per il
bodybuilding e quello di intensità alla programmazione per il powerlifting.
Questo stile di periodizzazione è molto interessante per un atleta ibrido,
che, in funzione del suo obiettivo attuale, potrà nell’arco dell’anno
dedicare più attenzione a un blocco piuttosto che a un altro (ripetendone
uno, se necessario), così da lavorare in modo specifico all’adattamento
target. Se l’obiettivo è l’acquisizione di massa muscolare, si lavora con
un’alternanza di blocchi in cui quello di accumulo ha un ruolo primario. Se
l’obiettivo è la forza generale, l’importanza primaria spetta all’intensità.
Un errore comune è ritenere questi tipi di periodizzazione contrastivi,
pensando che l’uno implichi l’esclusione dell’altro. Al contrario, credo sia
più proficuo tentare di sommare quanto di positivo sia ottenibile da
ciascuno di questi approcci: si possono alternare mesocicli con obiettivi
specifici, come previsto dalla periodizzazione a blocchi, e microcicli con
un’ondulazione giornaliera dello stimolo allenante (DUP, Daily
Ondulating Periodization) - pur senza infrangere il principio di
adattamento diretto. Come?
Con un’ondulazione giornaliera dello stimolo allenante all’interno
dei blocchi specifici.
In una fase di accumulo l’ondulazione interessa range di ripetizioni alti
e mantiene il focus sulla progressione del volume. Ad esempio:

▪ Giorno 1: 3x9, che diventerà con il tempo un 4x12


▪ Giorno2: 3x7, che diventerà con il tempo un 4x10
▪ Giorno3: 3x5, che diventerà con il tempo un 4x8

In una fase di intensificazione, invece, l’ondulazione potrebbe


presentarsi così:

▪ Giorno 1: 4x6 che diventerà con il tempo un 4x5 con 10kg in più
della settimana 1
▪ Giorno2: 4x4 che diventerà con il tempo un 4x3 con 10kg in più
della settimana 1
▪ Giorno3: 4x2 che diventerà con il tempo un 4x1 con 10kg in più
della settimana 1

In questo modo i due stili di programmazione sono combinati, senza


perdere di vista la necessità di progredire nel volume (per la progressione,
cfr. cap. 6).
5.2.Il Volume
Parliamo ora di volume. Che cos’è? Il volume è il driver primario
dell’ipertrofia.
Dalla ricerca degli ultimi anni è emerso che esiste una certa
proporzionalità tra la quantità volume a cui una persona si sottopone e la
risposta ipertrofica che ottiene dall’allenamento. Bisogna tuttavia tener
presente che ogni individuo è un caso a sé e avrà sempre un proprio limite
massimo di volume sopportabile. Per chiarire questo aspetto dobbiamo
riferirci al rom e alla tensione meccanica. Il volume ottimale è determinato
tenendo conto di questi due fattori: a seconda di chi vi sottoporrà, è a causa
loro che uno stesso volume potrà risultare insufficiente o esagerato.

In che modo il volume influenza l’allenamento?

Se si vuole migliorare, è fondamentale imparare ad allenarsi in una


fascia di volume adatta a caratteristiche ed esigenze individuali.
Prima di andare oltre, è opportuno capire dove va ricercata l’origine
del volume. Il volume è creato, banalmente, da “quanto ci alleniamo”.
Questa definizione è però troppo vaga. Spingiamoci un po’ più in là e
affermiamo che la vera espressione del volume è data dal lavoro, che in
fisica è definito come
la grandezza scalare data dal prodotto della componente della forza nella direzione
dello spostamento per lo spostamento eseguito.

Lasciando da parte definizioni troppo settoriali, possiamo affermare


che – per quanto ci riguarda – con lavoro intendiamo il carico che
spostiamo per il numero di ripetizioni eseguite per il numero di serie
che facciamo per la strada che compie questo peso. Rendendolo con una
formula, abbiamo:

L = kg x reps x set x p

dove p è la lunghezza dello spazio percorso dal peso che viene


spostato.
Dal momento che alcuni fattori di questa equazione sono più difficili
da misurare di altri, sono sostanzialmente tre gli elementi da tenere in
considerazione:

1) tonnellaggio, ovvero “carico utilizzato x numero di serie x numero


di ripetizioni”. È utilizzato soprattutto nel powerlifting in quanto è
un metro di misura utile per valutare il lavoro effettivo fatto su
una determinata alzata ed è utile per tracciare il volume nel tempo
dei fondamentali. Risulta però meno efficace come parametro ai
fini della valutazione del volume in ambito ipertrofico, dal
momento che è difficile valutare l’impatto di una selezione più
ampia di esercizi sul tonnellaggio;

2) serie allenanti settimanali. È un parametro utilizzato soprattutto


nel bodybuilding. Le serie si valutano in questo caso per gruppo
muscolare, così da avere una valutazione più dettagliata della
ripartizione del volume in base al tipo di esercizio. Esempio:
potremmo valutare quante serie allenanti settimanali di esercizi in
isolamento per il gran pettorale o multiarticolari per il deltoide fa
il nostro atleta. Ovviamente questa valutazione del volume non
prende in considerazione il carico utilizzato nell’esercizio ed è
perciò meno precisa nel valutare il rapporto tra volume ed
intensità;

3) ripetizioni allenanti per seduta. Questo parametro è utilizzato


soprattutto nel bodybuilding. Le ripetizioni si valutano in questo
caso per gruppo muscolare. Valgono gli stessi principi che per le
serie allenanti settimanali, ma con una comodità in più per
strutturare programmi ibridi con giornate dedicate a stimoli
differenti: potremo avere un numero di rep allenanti differente a
seconda che si tratti di una seduta mirata all’ipertrofia o alla forza.
Ovviamente questa valutazione del volume non prende in
considerazione il carico utilizzato nell’esercizio e come tale è
meno precisa nel valutare il connubio tra volume e intensità);

4) volume relativo. Questo parametro è utilizzato soprattutto nel


powerlifting[20]. È volto a evitare alcuni problemi insiti nel ricorso
al tonnellaggio come parametro, in quanto il tonnellaggio non può
in alcun modo rappresentare la difficoltà reale del volume che si
sta accumulando. Per una persona che solleva 200kg di squat fare
delle triple con 170kg sarebbe efficace, poiché 170kg
equivarrebbe all’85% del massimale di riferimento. Viceversa,
eseguire 10 ripetizioni con 100kg non risulterebbe affatto
allenante, poiché 100kg equivarrebbe solo al 50% del massimale
di riferimento. Se usassimo il tonnellaggio come solo parametro
per valutare il volume di lavoro di un atleta rischieremmo di
ritenere più allenante una serie da 10 ripetizioni con 100kg. Come
limitare questa percezione erronea? Sostituendo il carico allenante
con la % dell’1rm nell’equazione del calcolo del tonnellaggio, che
risulterebbe: serie x ripetizioni x %1rm. In questo modo si tiene
in considerazione anche la prossimità al massimale con cui si è
accumulato il volume di lavoro.

Nonostante sia difficile – e nei fatti impossibile – tenere traccia dello


spostamento per valutare il lavoro compiuto, è importante ricordare che
rimane una delle componenti che determinano il volume totale e che, in
quanto tale, conta tanto quanto le altre variabili. Per un longilineo - o
semplicemente per una persona alta -, a parità di variabili, un allenamento
risulta molto più stressante di quanto non sia per un brevilineo - o una
persona bassa. Nel calcolo del lavoro complessivo, il rom va considerato
come somma dei rom articolari necessari per completare lo spostamento
del carico. Lo stesso spostamento assoluto del bilanciere può essere frutto
di diverse somme di rom, che producono perciò lavori differenti. Anche
per questo la tecnica d’esecuzione e le leve hanno un peso non da poco nel
valutare il lavoro complessivo.
Tuttavia nulla vieta di utilizzare un ibrido ottenuto dall’unione dei tre
parametri. Trovo efficiente unire le serie allenanti settimanali per gruppo
muscolare e le ripetizioni per sessione. Una sessione di forza si aggira
sulle 40 rep e una di ipertrofia sulle 90 rep (questi sono esempi
estremamente generici). Raggiungiamo il target complessivo ripartendo le
serie allenanti in queste due sessioni, e strutturiamole internamente
tenendo conto delle linee guida per le ripetizioni.

16 serie allenanti settimanali per un dato gruppo muscolare.


▪ FORZA:

1. Esercizio 1 5x5 (25 REP – 5 SERIE)


2. Esercizio 2 3x6 (18 REP – 3 SERIE)

Per un totale di 43 REP ALLENANTI e 8 SERIE.

▪ IPERTROFIA:
1. Esercizio 1 3x8 (24 REP – 3 SERIE)
2. Esercizio 2 3x12 (36 REP – 3 SERIE)
3. Esercizio 3 2x15 (30 REP – 2 SERIE)[21]
Per un totale di 90 REP ALLENANTI e 8 SERIE.

Facciamo un’ulteriore analisi. Poniamo che l’esercizio 1 delle due


giornate sia lo stesso e che sia l’esercizio fondamentale, ovvero quello su
cui si incentra la progressione dello stimolo nel tempo (per una trattazione
specifica della progressione, cfr. cap. 6). Per accertare che nel tempo
avvenga una progressione, si potrebbe tracciare il volume relativo dedicato
a tale esercizio.
Prendiamo lo squat come esercizio fondamentale per la catena cinetica
anteriore delle gambe. Se il soggetto sottoposto all’allenamento ha un
massimale di 200kg, potrebbe eseguire il 5x5 con un 77,5% del suo 1rm e
il 3x8 con un 70%. Si avrebbe:

▪ Forza: Squat 160kgx5x5

▪ Ipertrofia: Squat 140kgx8x3s

A questo punto si può tracciare il volume dedicato all’alzata in esame.


Per ricavare il volume relativo complessivo è sufficiente sommare i volumi
relativi delle singole sedute:

▪ Forza: 77,5% x 5 x 5 = 18,75

▪ Ipertrofia: 70% x 8 x 3 = 16,8

▪ Volume relativo settimanale = 35,55

Questo ci permette di capire con maggior precisione quanto lavoro


stiamo dedicando a una determinata alzata in ogni momento della nostra
preparazione.

Stabilito come si genera il volume e come possiamo quantificarlo,


bisogna chiarire che c’è una fascia di volume all’interno della quale si
migliora. Se il volume che raggiungiamo è inferiore al livello a cui
ambiamo non solo non progrediamo, ma rischiamo addirittura di
deteriorare le nostre performance e le nostre caratteristiche estetiche; se
superiamo il tetto massimo di questa fascia ottimale ci affatichiamo più di
quanto il nostro corpo sia in grado di recuperare e deterioriamo comunque
i risultati ottenuti. Questa sottile linea rossa, tuttavia, non è così netta.
Immaginiamo di avere in tasca un portafoglio con al suo interno 100€ e
di sapere che ogni giorno troveremo nuovamente 100€, indipendentemente
da quanti ne spendiamo oggi. La spesa massima recuperabile è quindi di
100€. Nel nostro caso si parla di massimo volume recuperabile, ossia la
quantità massima di volume che possiamo “spendere” riuscendo a
recuperarla in breve tempo.
Se spendessimo quei 100€ e ci indebitassimo per ulteriori 10€, il
giorno seguente, incassata la somma quotidiana, i nostri creditori
verrebbero a chiederci la somma loro dovuta, e partiremmo non più da
100€, ma da 90€. A lungo andare, se non cambiassimo le nostre abitudini,
ci ritroveremmo senza un soldo ancor prima di “incassare” la somma
quotidiana. Questa situazione è chiamata overreach e consiste nel
superamento del massimo volume recuperabile. L’overreach porta un
deterioramento dei progressi e, se protratto nel tempo, può sfociare
nell’overtraining (sovra-allenamento), situazione deleteria che deve
essere assolutamente evitata.
Tuttavia, un overreach contenuto (definito anche functional
overreach), può essere benefico. Se raggiunto prima di una fase di
riduzione del volume allenante piuttosto intensa, può stimolare il
cosiddetto rebound effect: una riduzione momentanea delle prestazioni che
sfocia, grazie al successivo scarico, in un adattamento più che
proporzionale. Per massimizzare i progressi è bene che buona parte dei
blocchi di allenamento terminino in un functional overreach (ovvero nel
superamento di ciò che nel blocco precedente eravamo in grado di
sostenere). L’effetto “rimbalzo” ci permetterà di massimizzare i risultati
sul lungo termine.
Anche in questo caso la visione non deve limitarsi a bianco e nero: non
esiste una linea di demarcazione netta che separi overreach e overtraining.
La differenza sta nella funzionalità di tale overreach, che cessa di essere
funzionale se risulta eccessivo, ovvero se lo scarico che lo segue non è
sufficiente a supercompensarlo.
Questa specificazione deve essere presa come un monito, e non come
uno scoraggiamento: l’overtraining è raro per le persone che si allenano
con i sovraccarichi, soprattutto se si fa attenzione al recupero. Il corpo è in
grado di sostenere grandi moli di lavoro, ben più elevate di quanto le
persone credano. Inoltre, uno dei fattori più significativi per il verificarsi
dell’overtraining è la multifattorialità dell’allenamento. Cosa significa?
Che le persone impegnate in sport che implicano il ricorso a più capacità
motorie (MMA, crossfit, rugby, ecc.) o che prevedono quantità di lavoro
enormi (come nuoto, ciclismo, weightlifting, ecc.) sono più esposte a
questo rischio. Ricercare parallelamente adattamenti in abilità diverse,
come abbiamo visto, induce uno stress sistemico e strutturale di portata
superiore.

È più facile supporre che l’utente medio incorra in una condizione di


under recovering, piuttosto che in una di overreaching. Non ci si deve mai
scordare di prestare al recupero la dovuta attenzione – non meno di quanta
se ne presti all’allenamento – al fine di creare le condizioni che consentano
di accumulare il maggior volume allenante possibile.

Cosa fare per ottimizzare i risultati nel tempo?

1) Ridurre al minimo lo stress. A tal proposito, alcuni esperti


consigliano la meditazione, efficace nel dissipare gli stress della
vita di tutti i giorni. Non ho mai praticato quest’attività, né l’ho
approfondita: personalmente, prediligo la lettura.

2) Dormire a sufficienza. Sempre più studi dimostrano la


correlazione tra sonno, performance e capacità di recupero. Non è
questa la sede idonea per un’analisi dettagliata dell’importanza del
sonno, ma la indico (sia in termini di quantità, che di qualità)
come elemento portante su cui basare l’ottimizzazione del
recupero.
3) Avere un bilancio energetico positivo o neutro, poiché trovarsi
in condizione di deficit calorico riduce la nostra capacità di
accumulare volume.

Fasce di volume specifiche: forza e ipertrofia


Abbiamo detto che il volume è la magnitudo dell’adattamento che
imponiamo al nostro corpo. Il volume determina, quindi, quanto
avanziamo, quanto ci adattiamo, quanti risultati otteniamo. Sia parlando di
forza, che di ipertrofia, questo adattamento è proporzionale al volume a cui
ci sottoponiamo, ma forza e ipertrofia hanno fasce specifiche di volume
differenti. I tre parametri fondamentali della programmazione sono
consustanziali l’uno all’altro: non possono essere svincolati, ma si
“limitano” a vicenda. Nessun programma intelligente ha tutti e tre i
parametri troppo elevati perché, se così fosse, si andrebbe incontro a un
affaticamento eccessivo. In particolare il volume ha un grande impatto sul
livello di fatica. Bisogna tenere a mente che la fatica è specifica per lo
stimolo che la genera. È vero che con il volume si accumula velocemente,
ma, se ciò avviene a basse intensità, incorriamo in una fatica più
sistemica che strutturale, e dunque molto più semplice da dissipare
anche in brevi lassi di tempo. Al contrario, una fatica molto più neurale e
strutturale (raggiunta ad alta intensità) necessita di un tempo di gran
lunga maggiore per essere smaltita. Tenendo conto anche del rischio di
infortunio a cui espone, ecco perché accumulare tanta fatica ad alta
intensità è controproducente e sconsigliato.

Fissati i concetti di genesi del volume, quantità di volume e


affaticamento, possiamo affacciarci ai diversi approcci pratici esistenti.
Attualmente le due scuole di pensiero che godono di maggior seguito sono
quelle dei già citati Helms e Israetel.
L’approccio di Helms prevede che, posto un obiettivo, ci si mantenga
al minimo volume efficace (MED – Minimum effective dose) che
permetta di arrivare alla meta designata. Perché il minimo? Perché,
aumentando man mano lo stimolo, si ha molto più spazio per progredire
nel tempo. In più si tengono al minimo il rischio infortuni e il rischio
burnout (affaticamento psicologico, con conseguente rischio di
abbandono dell’allenamento).
Mike Israetel, dal canto suo, spinge in direzione contraria. Abbraccia
infatti la teoria MRV (maximum recoverable volume), il massimo volume
recuperabile. Il suo ragionamento può essere spiegato così: nella tua
condizione attuale, qual è il massimo volume che ti si può somministrare
che tu sia in grado di recuperare, così da massimizzare al 100% i progressi
che sei in grado di esprimere in questo momento? Israetel cerca di
estremizzare i progressi. Si mantiene sulla soglia di un perenne overreach e
cerca di portare a casa i maggiori risultati possibili, aumentando la
frequenza degli scarichi.

La fascia di volume a cui ho fatto riferimento prima è quella che si


trova circa a metà strada tra questi due estremi: ecco l’area in cui
dobbiamo stare per l’intera durata del nostro ciclo. La strategia potrebbe
consistere nel partire dalla soglia minima e aumentare la quantità
accumulata fino ad arrivare al limite massimo – o leggermente al di sopra
– per poi scaricare e recuperare.

Questa strategia si chiama hi fatigue debt (“ad alto debito di fatica”) e


di solito ha risultati più rapidi nel breve periodo, esponendo tuttavia a un
maggior rischio di infortuni. Se confrontati con la sua controparte (la low
fatigue debt, di cui parleremo nel paragrafo seguente) implica livelli di
fatica di gran lunga superiori. Inoltre, richiede scarichi più frequenti e
significativi (anche dal punto di vista qualitativo). Occorre perciò
strutturarla nel modo più accurato possibile.

L’opposto della hi fatigue debt è la low fatigue debt (“a basso debito
di fatica”), che prevede di mantenersi sempre al minimo volume efficace
per garantire un progresso costante nel tempo, riducendo al minimo il
rischio di infortunio dovuto all’accumulo di fatica. Protocolli di questo
tipo hanno, perciò, mesocicli di una durata media sensibilmente superiore
e minor frequenza di microcicli e scarichi.

Non sono d’accordo con chi sostiene di dover stare sempre “con
l’acqua alla gola” sull’MRV, poiché sono convinto abbia più rischi che
vantaggi. Dato che questo sport è una maratona e non uno sprint, bisogna
pensare alla longevità dell’atleta (da natural, per ottenere ottimi risultati,
occorrono tanti anni e tanta costanza). “Tirare sempre con l’acqua alla
gola” non è una delle strategie migliori. Apprezzo di più un approccio
ibrido: non stare per forza al minimo volume recuperabile, ma strutturare i
propri blocchi allenanti con un’oscillazione fra il minimo e il massimo;
una programmazione in cui si abbiano sporadici mesocicli di “shock”,
strutturati in modo più affine a un mesociclo hi fatigue debt, alternati a
periodi in cui si lavora a livelli di stress inferiori, favorendo così il
recupero (low fatigue debt).

In questo momento vi starete chiedendo: come possiamo definire la


fascia ottimale? In due modi.
Innanzitutto bisogna tener conto di alcune linee guida dettate dagli
esperti del settore. Se parliamo delle serie allenanti settimanali, Israetel
(grazie agli studi svolti sui suoi atleti) asserisce che il volume di
mantenimento (dunque un volume che permetta di mantenere i risultati
senza incappare in deterioramenti) lo si ottiene in una fascia che va dalle 6
alle 8 serie allenanti settimanali per gruppo muscolare. Il minimo volume
efficace (per ottenere un progresso) va dalle 8 alle 10 serie - fino anche
alle 12 - a seconda dell’anzianità di allenamento. Dalle 15 alle 20 serie si
ha il massimo volume recuperabile.
Giacché stiamo parlando per linee generali e non riflettendo su casi
specifici si tenga presente che, per ciascun atleta, il volume di
mantenimento, il minimo volume efficace e il massimo volume
recuperabile saranno differenti e varieranno nel tempo a seconda della sua
anzianità di allenamento, del suo avanzamento come atleta e
dell’ammontare di stress nella vita quotidiana, fuori dalla sala pesi.

Quando si parla di ripetizioni allenanti settimanali le linee guida sono


differenti: tra le 40 e le 70 ripetizioni allenanti per sessione (40 sono
specifiche per l’intensità; 70 per l’ipertrofia e il volume) con una cadenza
di 2-3 allenamenti a settimana per lo stesso gruppo muscolare. Il bacino da
cui pescare le ripetizioni è quindi molto alto, e va dalle 80 alle 270.
Il mio consiglio è porsi al minimo volume efficace consigliato,
rimanere a quel volume per circa 6 settimane (o almeno tra le 4 e le 8) e
valutare se si ci sono progressi, considerando che, se capacità di
reclutamento e schema motorio sono ben consolidati, gran parte dei
progressi nella performance deriva da nuova massa muscolare. L’indice
del progresso, anche a livello ipertrofico, diventa così la prestazione stessa.
Questo è utile soprattutto agli atleti con un avanzamento tale per cui è
difficile vedere a occhio nudo i progressi ottenuti in brevi periodi. La
strategia di base è: se stiamo progredendo nel tempo, manteniamo quel
volume fin quando stalliamo, dopodiché scarichiamo e proviamo ad
aumentarlo.

Se ci si riferisce ai risultati di un’alzata specifica, il tonnellaggio è il


fattore di massimo rilievo. In questo caso possiamo prevedere delle
giornate di test in cui valutare i progressi da un punto di vista oggettivo.
Ad esempio: eseguiamo il massimo numero di ripetizioni con un carico
che, all’inizio del programma, ci consentiva di non completarne più di 5.
Se ne eseguiamo più di 5, abbiamo la prova oggettiva del nostro
miglioramento e possiamo desumerne che il tonnellaggio dedicato a
quest’alzata è compreso tra il minimo volume efficace e il massimo
volume recuperabile. Se, invece, il test risulta in una prestazione invariata
o, nel peggiore dei casi, inferiore, ci sono due possibilità:

▪ siamo al di sopra del massimo volume recuperabile;

▪ siamo al di sotto del minimo volume efficace.

Come se ne viene a capo? Se il nostro stato di forma è buono, è


verosimile che la mole di allenamento sia stata troppo esigua e che
l’adattamento non sia stato conseguito o, addirittura, che le performance
siano calate.
Se ci sentiamo stanchi, percepiamo inappetenza o una peggiore qualità
del sonno, avvertiamo dolori articolari e il desiderio di allenarci è ridotto
(tutti “sintomi” di un overreaching non funzionale), è verosimile che la
mole di lavoro sia eccessiva.
Attraverso queste osservazioni capiremo come adattare il volume di
allenamento nel blocco successivo. Con il susseguirsi dei blocchi la
precisione nel fare delle previsioni si acuirà sempre più, accostandosi con
accuratezza crescente agli effettivi outcome dei nostri allenamenti.

Un altro metodo interessante è strutturare un protocollo in cui si


comincia da un certo volume e, di settimana in settimana, lo si incrementa
fino al peggioramento delle prestazioni. Quando si verifica questo
deterioramento prestazionale, si scarica. In seguito si intraprende un
secondo blocco con l’obiettivo di superare il volume che ha portato al
deterioramento delle prestazioni nel primo caso. Lo scopo di questo test è
valutare se il limite raggiunto è dovuto all’eccessivo accumulo di fatica
nelle settimane che hanno preceduto il picco di volume, o se è il picco di
volume stesso a limitare il nostro progresso. Strutturare un protocollo che
parta dagli stessi volumi e termini in volumi maggiori, ma di durata
complessiva inferiore rispetto al primo blocco, è una strategia utile a
valutare se il volume della settimana in cui sono deteriorate le prestazioni è
in effetti il nostro massimo volume recuperabile in questo momento del
nostro percorso. Va considerato anche che, con l’aumentare dell’anzianità
di allenamento, il nostro massimo volume recuperabile andrà
probabilmente crescendo.
A partire da questo momento, ogni blocco dovrà arrivare a quello
stesso volume? No.
Si è trattato solo di un test per valutare la quantità di volume che
possiamo reggere attualmente. Ora ci possiamo rapportare a esso lasciando
un minimo di margine. Ad esempio, se scopriamo che 18 serie allenanti
equivalgono al nostro massimo volume recuperabile, potremmo pensare di
strutturare 3 mesocicli così:

▪ 1° Mesociclo: 10 serie allenanti → 12 serie allenanti → 14 serie


allenanti

▪ 2° Mesociclo: 12 serie allenanti → 14 serie allenanti → 16 serie


allenanti

▪ 3° Mesociclo: 14 serie allenanti → 16 serie allenanti → 18/20 serie


allenanti

In questo modo ci spingiamo a 20 serie allenanti (su un tetto massimo


di 18) solo una volta in tre mesocicli. Ciò significa che solo una volta ci
siamo addentrati in una condizione di overreach, senza pertanto stressare
eccessivamente il corpo e mantenendoci sempre in una fascia che ci
consentisse di migliorare. Un overreach pianificato in questo modo si
chiama overreacch funzionale. L’overreach funzionale serve a stimolare
un progresso maggiore di quello medio nelle prestazioni o nella risposta
ipertrofica. È una sorta di spinta ulteriore. È uno strumento molto potente e
importante, ma non semplice da gestire, poiché l’impatto sul recupero e il
rischio infortuno sono nettamente superiori nella settimana in cui lo si
applica rispetto alle precedenti. Lo si deve quindi valutare caso per caso,
per determinare la frequenza di somministrazione adatta e le variabili in
gioco (intensità, frequenza, volume). Una regola ormai consolidata è
lasciare una settimana di scarico attivo post-overreach, proprio allo scopo
di dissipare quanto più possibile la fatica accumulata in questo periodo.
Ma non tutti i mesocicli devono terminare in Overreach!
La ricerca di un progresso in più variabili contemporaneamente è
estremamente pericolosa. Durante queste fasi, valutare il massimo volume
recuperabile è un passaggio da non prendere sottogamba e occorre tenere a
mente che è correlato all’intensità media a cui ci si pone. Che si veda
l’intensità media come intensità dello sforzo medio o come intensità di
carico, a ciascun grado d’intensità corrisponderà una diversa capacità
di accumulare volume. Pensare di accumulare il proprio massimo volume
recuperabile, testato a un livello d’intensità media del 60%, lavorando a
un’intensità media del 90% è la ricetta perfetta per un disastro: non solo si
supererà di gran lunga il proprio MRV, ma ci si esporrà a un concreto
rischio di infortuni.
5.3.L’Intensità
Come il volume determina la magnitudo degli adattamenti,
l’intensità ne determina il tipo.
Questa è la principale distinzione tra le due variabili, ma le differenze
non finiscono qui: volume e intensità hanno anche due scopi differenti,
nonostante la relazione che le lega. Abbiamo detto più volte che il volume
è il driver primario dell’ipertrofia. L’intensità, invece, è il driver
primario della forza.

I periodi dell’allenamento
Come abbiamo anticipato, le alte intensità non sono sostenibili ad alti
volumi e, viceversa, gli alti volumi non sono sostenibili ad alte intensità.
Nelle schede, in genere, la priorità è alterna o si hanno periodi di
“compromesso”, in cui si cerca una via di mezzo. Ecco i periodi che si
possono incontrare:
1. Periodo di accumulo: è il periodo di costruzione e richiederà
più tempo a chi ha come focus primario l’ipertrofia (e dunque
l’estetica).

2. Periodo di intensificazione (compromesso): è caratterizzato da


valori medi sia di intensità che di volume. È il periodo in cui si
costruisce la forza. In molti sono convinti che la forza si costruisca ad
altissime intensità, ma in realtà la si sviluppa a intensità intermedie
(75-85% del nostro 1RM), mantenendo il rep range medio a sua volta.
Parlando di RPE e autoregolazione[22], ci muoviamo tra le 4 e le 6
ripetizioni a RPE medio-alti (8 o 9) - quindi serie abbastanza pesanti,
ma non da poche esecuzioni ad altissime intensità.

3. Periodo di picco: serve a realizzare una prestazione. Si


preserva la condizione che abbiamo raggiunto nel tempo riducendo
però la fatica che abbiamo accumulato per conseguirla, così da poter
dare il meglio al momento della prestazione. Il picco tipico per gli
atleti che vogliono competere nelle gare di powerlifting è strutturato
ad altissima intensità e bassissimo volume, cosicché mantenga la
condizione specifica che vogliono conservare in questo periodo
(ovvero l’espressione di forza su un’unica ripetizione) e far
decrescere la fatica. Nel picco l’obiettivo è consolidare la capacità
specifica dello sport in cui si gareggia. Nel powerlifting questo
periodo è cruciale, perché è quello che consente di trasformare il
lavoro accumulato precedentemente in una prestazione specifica che,
in questo caso, è la massima espressione di forza massimale in una
singola ripetizione dei tre fondamentali (squat, panca e stacco). Se è
vero che il periodo che costruisce la forza è l’intensificazione,
altrettanto corretto è che l’utilità dell’intensificazione viene meno se
non siamo in grado di esprimere questa nuova forza nel momento più
rilevante: la gara. Il picco, in quest’ottica, assume un ruolo di estrema
importanza, oltre a essere uno dei periodi di maggior complessità per
ciò che concerne la programmazione per l’aumento della forza.
Ma come si valuta questa intensità? Ci sono vari metodi:
1. Non la si valuta affatto. Questo approccio è adottato da chi
raggiunge il fallimento a ogni serie – che è a suo modo una forma di
autovalutazione, in quanto consiste nel valutare il carico che ci porta a
fallire in quella specifica ripetizione. Traducendo questo concetto in
RPE, questa strategia consiste nell’allenarsi sempre a RPE 10.

2. Valutazione dell’intensità in funzione della percentuale del


proprio 1RM.

3. Uso dell’RPE (rate of perceived exertion). Esso serve ad


autoregolare la scelta del carico in funzione della difficoltà che deve
avere una particolare serie allenante. Negli ultimi anni gli studi
scientifici attestano i vantaggi dell’autoregolazione, anche rispetto al
lavoro basato sulle percentuali e soprattutto per gli atleti che lavorano
per la forza (per i quali, a parità di volume, la differenza in termini di
riposta ipertrofica non ha raggiunto rilevanza ai fini statistici). Come
abbiamo ribadito più volte, a determinare la risposta ipertrofica è
principalmente il volume. Per un aumento della forza, invece, l’RPE
sembra vantaggioso rispetto all’uso delle percentuali. L’RPE ha
anche i suoi svantaggi: doversi autoregolare implica una curva di
apprendimento del metodo molto più lunga nel tempo rispetto al
lavoro con le percentuali. In quest’ultimo caso, l’atleta che va in
palestra deve limitarsi a leggere dalla scheda il carico che deve usare
ed eseguire l’esercizio. Quando parliamo di autoregolazione, invece,
l’atleta deve arrivare ad avere una coscienza di sé tale da permettergli
di capire quale carico deve utilizzare per un dato esercizio e di saper
interpretare i feedback che il suo corpo gli invia durante la sessione
allenante (fondamentali per stabilire se il carico scelto è giusto,
troppo basso o troppo alto). D’altor canto, questo metodo permette di
adattare di volta in volta il carico utilizzato, basandosi sul livello di
prestazione di quella specifica giornata. Questo strumento si rivela
essere molto potente ed efficiente poiché, quando si programma in
percentuale, lo si fa basandosi su un dato misurato (nella maggior
parte dei casi) molte settimane prima della seduta in questione. Per
esempio, potrebbe rendersi necessaria la riduzione del carico a causa
di una momentanea condizione meno prestante rispetto a quella di
quando si era sancito il record personale di riferimento; oppure, al
contrario, la condizione potrebbe essere migliore rispetto a quella del
giorno delle misurazioni, il che ci consentirebbe alzate più allenanti e
con esse una risposta maggiore. Un piano ben strutturato dovrebbe
portare a un incremento delle prestazioni nel tempo. Dovrebbe quindi
capitare spesso di trovarsi in condizioni migliori di quelle del
momento in cui si era fatto il test. Inoltre, a pari %1RM, le
performance degli atleti possono essere molto diverse: una serie da 6
ripetizioni con l’80%1RM potrebbe essere impossibile per un atleta e
di riscaldamento per un altro; dipende da caratteristiche genetiche e
dal livello atletico.
Con questo non voglio dire che l’RPE sia sempre da preferirsi al
lavoro percentuale, né che questo non sia mai applicabile con
successo nelle programmazioni, anzi. Usare le percentuali ha alcuni
vantaggi rispetto all’RPE: permette di tracciare con alta precisione la
quantità di lavoro eseguito dall’atleta e di utilizzare questi dati per
assicurare una progressione del volume nel tempo. Avere chiaro in
mente quanto l’atleta si stia allenando e quanto si allenerà è uno
strumento fondamentale per la pianificazione dell’allenamento. Lo
svantaggio che il ricorso alle percentuali manifesta rispetto all’RPE è
principalmente il mancato adattamento del carico in funzione della
condizione momentanea dell’atleta. Questo svantaggio si può
dribblare con strumenti come le AMRAP (serie nelle quali si fa il
massimo numero di ripetizioni possibili) o singole pesanti per
valutare i progressi nell’alzata e riadattare periodicamente il
massimale, seguendo quindi l’andamento delle condizioni dell’atleta.
Come sempre, è possibile combinare i due approcci (opzione molto in
voga tra i coach americani) facendo una singola (o un basso numero
di rep) a un determinato RPE a inizio sessione e utilizzarla come
riferimento per calcolare la percentuale su cui lavorare nella sessione.
Ricordo che l’efficacia dell’RPE è strettamente legata alla
psicologia dell’atleta. Un atleta incline a lasciarsi trasportare tenderà a
sovrastimare le sue capacità, accumulando una quantità di fatica
maggiore di quella desiderata ed esponendosi a un rischio di
infortunio molto elevato. Parimenti, un atleta d’indole più mite
tenderà a sottovalutare le proprie capacità e ridurrà l’efficacia
dell’allenamento usando carichi inferiori alle sue capacità. Dalla mia
esperienza professionale ho evinto che questa condizione è la più
comune. È importante che l’atleta sia in grado di analizzare a mente
fredda la sua condizione escludendo il lato emotivo dalla valutazione.

4. Uso combinato RPE e %1RM. Come al solito, nel nostro


settore si trascura spesso la possibilità di combinare metodi diversi.
Da coach, ho potuto sperimentare tanto su di me quanto su atleti di
tutti i livelli. Cerco sempre di cercare parallelismi tra il mondo
ingegneristico e quello della scienza dello sport: per parlare della
modulazione dell’intensità nel tempo, mi rifaccio al concetto di
“campionamento e quantizzazione di un segnale”. Al contrario di ciò
che molti credono, il massimale non cresce linearmente. Può essere
perciò utile capire come modulare lo stimolo somministrato all’atleta
affinché ricalchi l’andamento ondulato reale delle sue capacità. Lo
strumento RPE – di cui ho detto poco fa – esiste per questo. Il
problema di questo metodo è l’errore umano di valutazione delle
proprie performance; errore che si riduce quando l’atleta diventa più
competente e che è legato ad aspetti psicologici. Per evitare grossi
errori dovuti all’inesperienza dell’atleta e al suo ego, i metodi RPE e
% possono essere combinati: il risultato è molto efficace. Per farlo ci
sono diversi modi:

a. range di carico % legato a RPE: diamo all’atleta un range entro


cui mantenere i carichi in base alla condizione del giorno, e usiamo l’RPE
per definire l’intensità di sforzo della serie o della sessione. In questo
modo indirizziamo la scelta del carico e rendiamo più semplice l’uso del
metodo a RPE, limitando i possibili errori di valutazione. Un esempio
pratico:
Squat ➔ 4x6x80% + o - 2,5% @8

L’atleta può quindi adattare il carico intra-serie o inter-serie per


mantenere il livello di sforzo percepito richiesto (in questo caso 8);

b. range di ripetizioni a una determinata % legato a RPE: diamo


all’atleta un certo numero di ripetizioni da eseguire con un certo carico
(espresso in %). La ripartizione di ripetizioni e serie allenanti dipende
dallo sforzo percepito. Con questa strategia facciamo un altro passo verso
la completa autoregolazione. Inoltre, è adatta a lavori ad alta densità. Un
esempio pratico:
Squat ➔ 40x70% @8

L’atleta usa il 70% del suo 1RM ed esegue il numero di serie (a RPE
8) che serve ad accumulare il volume previsto in quella seduta;

c. range di serie a una determinata % legato a RPE: diamo


all’atleta un carico di lavoro (espresso in %) e il numero di ripetizioni da
eseguire a ogni serie, e stabiliamo lo sforzo percepito da raggiungere.
Abbiamo una struttura di questo tipo:

Squat ➔ X x 4x80% @8 [dove X è il numero di serie che l’atleta


eseguirà]

L’atleta fa tante serie da 4 con l’80% del suo 1RM quante servono a
raggiungere un RPE 8.

Abbiamo detto che l’intensità interessa soprattutto le persone che


hanno come obiettivo principale la forza. Quest’affermazione esula chi ha
fini estetici dal prestare attenzione a questa variabile? Assolutamente no,
dedicare alcune fasi all’intensità può tornare utile anche a chi guarda
all’ipertrofia. Ecco le principali ragioni:
1. periodo in cui si sposta il focus dal volume comporta uno
stimolo diverso da quello a cui il corpo è abituato, il che consente di
evitare un possibile stallo;

2. un periodo a intensità più alta e volumi più bassi porta a


desensibilizzarsi dallo stimolo che riceviamo più spesso (il volume)
cosicché, tornando a ricevere quello stesso stimolo, generi in noi una
risposta migliore;

3. la forza è importante anche per chi ha come obiettivo


l’ipertrofia: il carico che utilizziamo in un certo rep range è pur
sempre uno dei tre parametri che determinano il volume. Anche lo
stress meccanico che interviene sul muscolo è proporzionale al carico
utilizzato (a parità di esecuzione tecnica) e, come abbiamo visto in
precedenza, lo stress meccanico è la matrice primaria dell’ipertrofia.

Abbiamo visto che in una programmazione si alternano fasi a maggior


volume e fasi a maggior intensità. Questo non significa che l’intensità
debba rimanere invariata per un intero periodo. I recenti studi scientifici
dicono che il D.U.P.[25] sembra il metodo con maggior riscontro positivo.
Come sappiamo, il D.U.P. consiste nel modificare l’approccio
all’allenamento di seduta in seduta (ritagliandone una di forza, una di
ipertrofia, una di potenza). Quest’ondulazione dell’intensità non deve a
tutti i costi abbracciare ogni range possibile, anzi: può essere specifica. Se
vogliamo sfruttare questo metodo in una fase di accumulo, per esempio,
possiamo fare sedute con un’intensità più elevata rispetto alle altre
mantenendo l’intensità media della fase al di sotto dell’intensità media
di una fase d’intensificazione.

A prescindere dal nostro obiettivo, in programmazione troviamo


l’alternanza di almeno due periodi (tre, se serve una fase di picco): il
periodo di accumulo e il periodo di intensificazione. Basarsi su una
programmazione più complessa è interessante anche per chi è interessato
al bodybuilding tradizionale, soprattutto per atleti intermedi e avanzati. In
questo caso l’intensità deve essere sempre un po’ inferiore rispetto al
volume, ma l’alternanza dei due stimoli ha come obiettivo il
miglioramento delle prestazioni nei rep range di nostro interesse: tra le 5 e
le 12 ripetizioni. Viceversa, le persone interessate alla forza avranno un
approccio focalizzato sull’intensità, lasciando spazio a periodi di picco nei
quali si ridurrà la fatica per esprimere al meglio la prestazione.
A noi interessa sapere come ibridare i diversi approcci per raggiungere
la miglior condizione di sempre. In questo caso, cosa possiamo fare?
Cambiare il focus primario degli allenamenti in funzione di
obiettivi specifici in un dato momento del percorso.
Se nel periodo X l’obiettivo è l’estetica, occorre concentrarsi su
blocchi di accumulo di volume. Se nel periodo Y l’obiettivo è competere o
migliorare le proprie prestazioni, si deve dare più rilievo all’intensità e alla
progressione dell’intensità nel tempo.

All’inizio della sezione dedicata all’intensità abbiamo affermato che


volume e intensità sono vincolati l’uno all’altra e che, mentre il volume
determina la quantità degli adattamenti, l’intensità ne determina il
tipo.
Giunti a questo punto siamo in grado di stabilire qual è la fascia di
intensità adatta a conseguire gli obiettivi desiderati. Stabilita, dobbiamo
considerare il volume che rimane a disposizione e ripartirlo coerentemente
nelle fasce di intensità adatte. Lo ripeto: alternare diversi tipi di stimolo è
l’ideale, ma sta al buonsenso riservare più spazio a quelli più specifici per
l’obiettivo a cui ambiamo.
Pensiamo alle sedute allenanti come a una serie di bicchieri vuoti
messi su un tavolo di fronte a noi. Ogni bicchiere corrisponde a una seduta
allenante. Abbiamo due caraffe, anch’esse vuote, e due rubinetti: uno
specifico per il volume e uno specifico per l’intensità. La quantità di
volume e intensità con cui possiamo riempire le rispettive brocche,
tuttavia, è limitata e inversamente proporzionale. Se riempiamo fino
all’orlo la caraffa dedicata al volume, dal rubinetto dell’intensità non
uscirà nemmeno una goccia. Questo perché, come sappiamo, non è
pensabile allenarsi sia ad alta intensità che ad alto volume. Consci di
questo, dobbiamo stabilire per prima cosa il nostro obiettivo e determinare
quanto volume vogliamo versare in una brocca e quanta intensità vogliamo
versare nell’altra. Se il fine è estetico “prendiamo” più volume, se invece il
fine è prestazionale “prendiamo” più intensità. Ora dobbiamo “riempire” i
singoli bicchieri (i singoli allenamenti). Anche in questo caso non
possiamo versare in un bicchiere molta intensità e molto volume, perché
strariperebbe (infortunio o burnout). È opportuno partire dall’aspetto che
più ci interessa (tenendo conto di quanto detto sull’approccio D.U.P.) e poi
ultimare la preparazione con il contenuto dell’altra caraffa, in modo
coerente e complementare. Ecco servita la ricetta allenante specifica per le
nostre esigenze.
5.4.La frequenza
Che cos’è la frequenza? Possiamo definire questa variabile in tre modi:
▪ quanto frequentemente ci alleniamo;

▪ quanto frequentemente alleniamo un determinato gruppo


muscolare;

▪ quanto frequentemente alleniamo una determinata alzata.

Anche la frequenza va gestita in base alle nostre esigenze. Se il nostro


fine è l’ipertrofia, conviene concentrarsi sui gruppi muscolari
allenati; se il fine è performativo, valutiamo la frequenza di
allenamento di un’alzata.

L’idea di frequenza di allenamento di un gruppo muscolare è un po’


obsoleta. Il nostro corpo non funziona per unità sconnesse fra loro: durante
l’esecuzione di un esercizio non sarà mai coinvolto un unico gruppo
muscolare in isolamento. Le trazioni complete (cioè portando il petto alla
sbarra) non coinvolgono solo il dorso e i bicipiti, ma anche – seppur in
maniera inferiore – il capo lungo del tricipite. Il vero isolamento di un
gruppo muscolare non esiste e, anche se strutturiamo i nostri allenamenti
suddividendo le sedute allenanti per gruppi muscolari, non colpiamo mai
una zona del nostro corpo solo il numero di volte previsto dalla
programmazione.
Una precisazione: la capacità di isolare un dato muscolo non deve essere
vista come un elemento dato per certo e immutabile. È una capacità che
può essere allenata, migliorata e perfezionata nel tempo. Molti esperti di
bodybuilding sono convinti che sia proprio questa capacità a separare atleti
di livello medio-basso e atleti d’élite. Ciò non toglie che il completo
isolamento di un muscolo sia, nelle più rosee supposizioni, quasi
impossibile. È bene non dimenticarsene.

La frequenza di allenamento
Iniziamo ad analizzare la frequenza dal primo dei tre modi di confrontarsi
con essa: quanto frequentemente ci alleniamo. Una delle domande più
gettonate è: quante volte dobbiamo allenarci a settimana? In generale, si
consiglia dalle tre volte in su. Questa affermazione non è dettata da
particolari evidenze scientifiche, ma da osservazioni empiriche: due
sedute, infatti, risultano essere insufficienti per accumulare un volume
adatto a dare all’organismo sufficiente stimolo per continuare a crescere,
specie quando non si è più neofiti.
Per avere più chiaro il numero di allenamenti che dobbiamo fare a
settimana, calcoliamo l’indice di efficienza nell’accumulo del volume. È
constatazione prescientifica che allenarsi più spesso semplifichi il
raggiungimento del volume necessario.
Immaginiamo di dover accumulare (in media) 15 serie allenanti
settimanali per i principali movimenti del nostro corpo. Partendo dal basso,
abbiamo:

▪ estensione della caviglia;

▪ estensione del ginocchio;

▪ flessione del ginocchio;

▪ estensione dell’anca;

▪ spinta orizzontale;

▪ spinta verticale;

▪ trazione orizzontale;

▪ trazione verticale.

Questi sono i movimenti a cui è necessario prestare maggior attenzione.


Ad essi, si devono aggiungere lavori specifici riservati a distretti muscolari
non adeguatamente stimolati dalla selezione generica dei movimenti.
Vediamo come si raggiunge, con facilità, un numero di serie complessive
molto elevato (certe volte anche superiore a 100).
Prendiamo come numeri di riferimento 100 serie e recuperi di 3 minuti
(tempo veritiero per atleti che eseguano anche esercizi mirati allo sviluppo
della forza, i quali, in genere, necessitano di un recupero maggiore) e
aggiungiamo un tempo medio d’esecuzione di circa 1 minuto per esercizio.
Otteniamo così una stima del tempo di allenamento settimanale:

100 serie x 1 min di esecuzione x 3 min di recupero = 400 min


settimanali.[26]
Ecco perché due sedute di allenamento sono insufficienti: portare a
compimento l’intero protocollo richiederebbe che ciascuna duri, circa, 3
ore e 30 minuti. E senza tener conto dell’ovvia perdita di tempo che si ha,
nelle palestre, aspettando che si liberi un macchinario, andando a riempire
la borraccia, eccetera. Preservare concentrazione e qualità dei movimenti
per un lasso di tempo così esteso è difficile, se non impossibile; questo ci
porta a riflettere sull’efficacia dell’allenamento. Una seduta troppo lunga
e un accumulo di volume eccessivo per un’unica sessione generano un
affaticamento fisico e mentale insostenibile. Un allenamento non
equilibrato risulta controproducente: la qualità e l’efficacia rischiano di
calare sensibilmente. Pertanto, la ripartizione del volume in un maggior
numero di allenamenti settimanali risulta funzionale (anche) a ovviare a
questo rischio.
Bisogna determinare una frequenza di allenamento che sia adatta alla
nostra routine. Il numero di sedute deve adattarsi alle nostre esigenze:
pretendere di allenarsi per due ore cinque o sei volte alla settimana se si è
lavoratori, genitori e magari impegnati anche con altre attività (hobby,
passioni, ecc.) sarebbe poco oggettivo. Il rischio principale di una
frequenza di allenamento eccessiva è sviluppare uno stress che
comprometta l’aderenza al protocollo. Il primo passo è stabilire le nostre
possibilità in termini di tempo ed energie.
Un principiante (il quale ha bisogno di accumulare meno volume) può
allenarsi anche solo 3 volte alla settimana. Progredendo al grado
intermedio, sarà consigliato spostarsi sulle 4 o 5 sessioni settimanali. E
così via, fino ad arrivare a essere atleti avanzati, per i quali sono opportuni
fino a 5 o 6 allenamenti settimanali. È importante tenere a mente che
l’importanza di gestire e recuperare lo stress del singolo allenamento
cresce proporzionalmente alla frequenza. Pensare di spingere allo
sfinimento ad ogni seduta come se ci si allenasse solo tre volte a settimana
(a parità di volume e sforzo), anche quando gli allenamenti sono 5 o 6,
rischia di essere deleterio.

La frequenza di allenamento dei singoli gruppi


muscolari
Entriamo ora più nello specifico. Stabilito il numero di sedute, quante
volte dobbiamo allenare ogni gruppo muscolare?
Consiglio il minor numero di sedute utile ad accumulare il volume
necessario senza perdere di vista l’efficienza dell’allenamento.
Dalle meta-analisi di Brad Schönfeld è emerso che allenare un gruppo
muscolare due volte a settimana permette di ottenere risultati
oggettivamente migliori rispetto a farlo una sola volta. Passare da due a tre
allenamenti settimanali non ha invece evidenziato miglioramenti sensibili.
Secondo Mike Israetel si può fare una distinzione sulla base del tipo di
distretto muscolare: i distretti muscolari più grandi e più forti (e quindi in
grado di generare molta più fatica e molto più stress) beneficiano di una
frequenza di allenamento minore (intorno alle due), mentre i distretti
muscolari più piccoli e meno forti (in grado di tollerare meno fatica e
meno stress) beneficiano di una frequenza maggiore. Questa è la seconda
variabile che dobbiamo tenere in considerazione.
La terza, invece, è il nostro obiettivo performativo riguardo a una specifica
alzata. Per quanto riguarda la forza, infatti, pare che le alte frequenze
generino adattamenti superiori. Questo è dimostrato da uno studio, nel
quale la nazionale norvegese di powerlifting è stata divisa in due gruppi
sottoposti a un protocollo di allenamento uguale per volume e intensità e
diverso per frequenza. L’uno era basato su tre sessioni allenanti
settimanali, l’altro su sei. Il protocollo di sei allenamenti ha portato
risultati di forza e performance nettamente superiori al gruppo che si
allenava tre volte a settimana. Questo si verifica perché, essendo la forza
una skill fortemente legata alle capacità motorie, di reclutamento
muscolare e al pattern delle alzate dell’atleta, un’alta frequenza permette di
affinare la tecnica di esecuzione e diventare più esperti. Da questo
incremento della precisione esecutiva deriverà inevitabilmente un
miglioramento della performance[27][28].

Cenni sulla progressione della frequenza


Riprendiamo l’efficienza tecnica e sfruttiamola per comprendere come
periodi dedicati a una maggiore frequenza allenante di una o più alzate
possano essere utili e, per certi versi, interessanti – specie al fine di
apportare migliorie sul piano tecnico. Questo progresso ci permetterà di
rendere il volume cui ci sottoporremo più allenante, il che non solo avrà un
impatto sulla qualità del movimento (e quindi su tutte le attività quotidiane
e atletiche che sfruttano uno schema motorio analogo), ma anche
sull’efficacia dell’allenamento a fini ipertrofici.
Come i distretti muscolari più o meno grandi, anche il carico assoluto sul
bilanciere influenza la frequenza allenante. All’aumento del carico
assoluto corrisponde un incremento proporzionale dello stress strutturale e
della fatica che esso induce sul nostro SNC. All’accrescersi delle
prestazioni atletiche, perciò, è opportuno che corrisponda un’equilibrata
riduzione della frequenza di allenamento.
5.5 Conclusioni
Possiamo iniziare a strutturare un programma di allenamento adatto
alle nostre finalità. La prima pedina che dobbiamo muovere – come
abbiamo visto – sono i nostri obiettivi: occorre capire dove vogliamo che
ci conduca il percorso che stiamo per tracciare.

Fatta questa prima mossa:

1. selezioniamo la fascia d’intensità specifica alle nostre


esigenze (il tipo di adattamento che ricerchiamo);

2. determiniamo il volume necessario per raggiungere il nostro


obiettivo;

3. valutiamo il numero di sessioni settimanali (tenendo conto del


tempo a disposizione e dell’efficienza dei singoli allenamenti);

4. ripartiamo il volume nelle varie fasce d’intensità e nelle


diverse sessioni di allenamento.

L’obiettivo dell’atleta è x (dove x sta per ‘forza’, ‘estetica’, ‘fitness’,


ecc.). Facciamoci aiutare da alcune domande.

▪ Quale fascia d’intensità è la più adatta a stimolare l’adattamento


desiderato?

▪ Quanto volume deve accumulare per raggiungerlo?

▪ Quali sono le caratteristiche del suo stile di vita (tipo e orario di


lavoro; famiglia; impegni extra-lavorativi; impedimenti di altro
genere)?

Dopo aver trovato le risposte, mettiamole in relazione tra di loro,


ovvero proiettiamo le caratteristiche del suo stile di vita sui suoi obiettivi.
Lo scopo è cercare di capire quanto sia razionalmente fattibile e quale sia
il miglior modo per riuscirci. Anche in questo caso, seguiamo delle
semplici domande.

▪ Qual è il volume massimo, il più vicino possibile a quello ottimale


per i suoi obiettivi, che può pensare di raggiungere?

▪ Quali sono i focus primari per i suoi scopi? Di questi si deve tenere
conto per stabilire il grado di intensità (percepita) più consono al
suo protocollo.

▪ In quante sessioni allenanti settimanali conviene suddividere queste


quantità affinché siano efficienti, senza portare lo stress a un
livello tale da rischiare di compromettere l’aderenza al
programma?[29]

Un lavoro professionale prevede di strutturare il protocollo seguendo le


linee guida proposte dall’attuale letteratura scientifica. Solo in seguito si
rielabora l’approccio in funzione dei dati relativi al singolo atleta raccolti
sul campo, affinché sì adatti sempre più alle risposte individuali.
Immaginiamo la stesura di un programma come il lavoro di un sarto:
prima di conoscere il cliente, si crea una proposta di modello a partire da
un manichino generico che sembri adatto alle caratteristiche che ci
interessano. È solo dopo aver preso le effettive misure e aver fatto provare
il modello che si procederà con la sistemazione del capo affinché aderisca
alla perfezione al corpo del cliente. Il nostro protocollo è molto simile:
sottoponiamo l’atleta a un allenamento “standard” e lo usiamo come
benchmark per analizzare i feedback (progressione dei carichi,
miglioramento della composizione corporea, eccetera) incrociandoli con i
dati di partenza (volume di allenamento, intensità media, frequenza,
eccetera). Così facendo l’approccio diventa sempre più specifico.
6.Progressione dello stimolo allenante
La progressione degli stimoli: la benzina del
miglioramento
Il principio del sovraccarico progressivo è il principio fondamentale
per permettere che gli adattamenti continuino nel tempo. Ciò è di grande
importanza sia per chi ha come obiettivo l’espressione della forza, sia per
chi ha come obiettivo l’ipertrofia. Purtroppo il principio di progressione è
da molti concepito esclusivamente come progressione del carico allenante.
In realtà le variabili che devono progredire vanno determinate in funzione
del blocco di allenamento in cui ci si trova, il quale a sua volta sarà
determinato dall’obiettivo che ci siamo posti in una certa fase della
programmazione. Tuttavia, è fuori discussione che una progressione sia
necessaria.
Sottoporre il corpo a degli allenamenti significa sottoporlo a uno
stimolo che genera uno stress (strutturale e sistemico). Il nostro corpo
reagisce a uno stimolo adattandosi a esso, ovvero cercando di raggiungere
la condizione alla quale quello stimolo non risulti più tanto stressante da
richiedere un adattamento. Ciò significa che, raggiunta quella condizione,
se la quantità di stimolo non aumenta il corpo non avrà più la necessità di
migliorare la propria condizione. Questo significherebbe nessun
miglioramento! È pertanto opportuno far progredire, di pari passo alla
nostra condizione, anche lo stimolo a cui ci sottoponiamo, così da spostare
sempre più in là la condizione target e continuare a spingere il corpo a
migliorare. Per spiegare questo concetto molto spesso si ricorre al mito di
Milo da Crotone, che portava il vitello sulle spalle - esempi come questo si
possono trovare in rete. Qui, per non rifarci a una metafora abusata,
cercheremo di esprimere lo stesso concetto in modo ancora più intuitivo.
Postuliamo che il nostro corpo sia un’automobile e lo stimolo a cui lo
sottoponiamo la benzina che la fa muovere. All’inizio del nostro percorso
abbiamo un’utilitaria, riforniamo il serbatoio e percorriamo il primo tratto.
Man mano che raggiungiamo le tappe, la macchina che ci viene messa a
disposizione diventa più grande, più veloce, più capiente, più voluminosa e
con un motore più prestante. Più avanziamo, dunque, più sarà la benzina di
cui avremo bisogno per coprire le stesse tratte che all’inizio avevamo
coperto con meno carburante. Questo perché far procedere un veicolo
molto più prestante implica un consumo molto maggiore. Quindi più
“avanzato” sarà il veicolo a nostra disposizione (il nostro corpo), più sarà
la benzina necessaria a farlo andare avanti (lo stimolo a cui lo
sottoponiamo). Questa è solo una metafora; i miglioramenti diventeranno
sempre più esigui e ardui da ottenere man mano che progrediremo, ma è
impensabile continuare a farlo senza che gli stimoli progrediscano di pari
passo. Se mantenessimo uno stimolo invariato anche dopo esserci adattati
ad esso, rischieremmo addirittura di scivolare in una condizione di
regressione.

Fitness fatigue model


È importante avere chiaro, inoltre, che la progressione non sarà
costante e continua nel tempo: in alcuni momenti, ci sarà; in altri, dovremo
imparare a “tirare i remi in barca”. Il concetto di gestione delle fasi (che
prevede l’alternarsi di momenti in cui si deve spingere una variabile a
nuovi livelli per generare uno stimolo d’intensità superiore e di momenti in
cui gli stimoli sono invece volutamente ridotti) è legato al concetto di
fitness e fatica (fitness fatigue model): la nostra condizione è data dal
netto di queste due variabili.
Per la gestione della fatica sono importanti i periodi in cui lo stimolo
sta al di sotto della soglia che siamo in grado di sostenere. Per ottenere un
miglioramento della fitness è necessario stimolare il corpo a generare
fatica, la quale si sommerà a quella già presente. Nelle fasi di stimolo
maggiore la fatica accumulata crescerà, coprendo in parte i risultati che
abbiamo ottenuto in quanto a miglioramento della fitness.
La fatica accumulata, però, non dovrà mai essere eccessiva, altrimenti
aumenterà il rischio di overreaching non funzionale: overtraining,
burnout e infortuni. Per questo motivo è fondamentale gestire la
progressione delle variabili con un occhio attento all’andamento della
fatica nel tempo.
Tuttavia, il trend di progressione deve essere positivo per tutto il
periodo dell’allenamento, onde evitare situazioni di stallo o di
peggioramento. Nel capitolo precedente abbiamo determinato le variabili
dell’allenamento da gestire per ottimizzare i miglioramenti. In questo
capitolo, assunto che una progressione non è solo consigliata ma
necessaria, comprenderemo come impostare le progressioni intra-
variabili e inter-variabili, ovvero la progressione specifica di ognuna
delle variabili, e la progressione generale frutto della combinazione e delle
relazioni fra le progressioni delle singole variabili.
6.1 Progressione del volume
Quante volte abbiamo detto che il volume è il driver primario
dell’ipertrofia? Poco importa: melius abundare quam deficere. Il volume è
il driver primario dell’ipertrofia!
La progressione nel volume è la principale per coloro che si pongono
come obiettivo l’aumento della massa muscolare. Parlare della
progressione del volume limitandosi a trattarlo come driver dell’ipertrofia
è, tuttavia, riduttivo. Se il volume è la prima variabile di cui ci occuperemo
è a causa della sua assoluta rilevanza. Esponendo il concetto in termini
semplicistici: se vogliamo assicurarci di continuare a progredire sempre
nel tempo, anche quando saremo atleti più avanzati, è di cruciale
importanza allenarsi sempre meglio e sempre di più.
Nel capitolo relativo al volume (cfr. 5.2), abbiamo detto di poter
leggere questa variabile come indice di “quanto ci adattiamo”. Per questo
motivo, indipendentemente dalla fase e dal suo obiettivo, sono solito
consigliare la presenza di una progressione volumetrica. Se messo a
confronto con il classico concetto di programmazione lineare (che
prevede una progressione inversa tra intensità e volume, ovvero il
passaggio da una fase iniziale ad alto volume e bassa intensità a una fase
finale con basso volume e alta intensità), questo consiglio potrebbe
sembrare paradossale. Nondimeno la mia indicazione è quella di conoscere
con precisione l’obiettivo prefissato e di selezionare l’intensità di carico
necessaria a soddisfarlo. Conoscendo questo dato possiamo valutare il
volume di picco da raggiungere e lavorare a ritroso per costruire il nostro
blocco di allenamento.

Ogni blocco di allenamento avrà un volume di picco. È importante


tracciare questi volumi e la loro evoluzione in modo da conoscere la
quantità di stimolo a cui sottoporre l’atleta. Abbiamo visto che le variabili
non sono svincolate tra di loro, pertanto è conveniente tracciare per
ognuno dei nostri atleti (o per noi stessi) 3 volumi di riferimento:

▪ Volume di Picco in Accumulo (65-80% 1RM)

▪ Volume di Picco in Intensificazione (75-90% 1RM)


▪ Volume di Picco in Realizzazione (85-100% 1RM)

Dobbiamo ricordarci che le variabili che compongono il volume di


allenamento sono diverse:

▪ ripetizioni;

▪ serie;

▪ carico (utilizzeremo la % del nostro 1rm, giacché il volume


relativo risulta più indicativo come parametro).

Queste sono le tre variabili che si devono gestire per avere una
progressione nel volume. È necessario per forza lavorarle tutte e tre
contemporaneamente? Assolutamente no. Anzi, è meglio sfruttare un
modulo che si focalizzi su una di esse alla volta. In modo più chiaro:
progredire in modo specifico in una delle tre variabili, mantenendo le
altre costanti.

Propongo un esempio di progressione delle ripetizioni allenanti:

▪ Settimana 1: 3 serie da 8 ripetizioni

▪ Settimana 2: 3 serie da 9 ripetizioni

▪ Settimana 3: 3 serie da 10 ripetizioni

In alternativa, si può impostare un range di ripetizioni all’interno del


quale progredire nell’arco delle settimane:
curl con bilanciere: 4 serie tra le 8 e le 12 ripetizioni
Selezionato un carico x con il quale siamo in grado di eseguire 4 serie
da 8 ripetizioni, manteniamo il carico costante fino a che non saremo in
grado di eseguire 4 serie da 12 ripetizioni. Una volta capaci di eseguire 4
serie da 12 ripetizioni con questo carico, lo aumentiamo. Più avanzati
siamo, più sarà utile aumentare il range di ripetizioni nel quale progredire.
Questo metodo è particolarmente indicato per esercizi accessori e di
isolamento, rispetto ai quali la programmazione del carico allenante è
complessa e la progressione più lenta nel tempo.
Prendiamo ad esempio le alzate frontali, nelle quali il salto da un
manubrio al successivo implica in genere un notevole incremento dello
sforzo percepito e della difficoltà esecutiva. In questo caso, giova partire
da un range molto ampio come quello in esempio (8-12).
Al contrario, un esercizio come la lat machine, che ammette una
discreta progressione del carico nel tempo, può essere programmato fin da
subito con un range più stretto (per esempio 8-10 ripetizioni).

Un esempio di progressione delle serie allenanti:

▪ Settimana 1: 3 serie da 8 ripetizioni

▪ Settimana 2: 4 serie da 8 ripetizioni

▪ Settimana 3: 5 serie da 8 ripetizioni

Un’altra strategia prevede di strutturare la progressione combinando le


due opzioni, alternandole di settimana in settimana:
▪ settimana 1: 5 x 5

▪ settimana 2: 6 x 5 (progressione delle serie allenanti)

▪ settimana 3: 6 x 6 (progressione delle ripetizioni)

Ancor meglio sarebbe che questa alternanza interessasse periodi più


estesi. Quando si pianifica una progressione, va quindi tenuto in
considerazione anche il livello di sforzo percepito. Pertanto non si
dimentichi che una progressione delle ripetizioni allenanti ha su di esso un
impatto più significativo rispetto a una progressione delle serie allenanti.

Per far sì che la progressione sia efficace è bene lasciare aperto un


discreto margine di crescita, avendo chiaro che:

1. la progressione dello stimolo ricopre un ruolo più importante


rispetto alla magnitudo massima dello stimolo stesso;

2. avere alcune settimane di lavoro prima di affrontare la parte


realmente impegnativa del blocco di allenamento fa sì che, una volta
raggiunta questa fase, si sono già ottenuti alcuni adattamenti positivi
che permettono di superare con maggiore facilità la sfida imposta
dalla progressione.

Valutare lo sforzo percepito e usarlo per la


progressione
Per valutare lo sforzo percepito ci sono diversi modi. Noi utilizziamo
principalmente l’RPE e la percentuale di 1rm. Ma come utilizzare questi
strumenti?
Iniziamo con un esempio di progressione di un esercizio fondamentale
programmato sul suo 1RM. Prendiamo, questa volta, una OHP (over head
press o military press) e stimiamo un massimale di 100kg. In media, un
5rm si assesta nell’intorno del 87,5% del carico massimale; possiamo
quindi dire che il nostro 5rm OHP sia 87,5 kg. Qualora eseguissimo 3
ripetizioni, avremmo un margine per serie di 2 ripetizioni (ovvero un rpe
8). In questo modo il margine di progressione è limitato e l’affaticamento
si accumula molto velocemente: se facessimo 3 serie da 3, sarebbe
verosimile che l’ultima ci portasse molto vicino al nostro limite (rpe 9,
ovvero una sola ripetizione di riserva). Questo rende la sessione molto
tassante, il che impatta negativamente la capacità di progredire nel tempo.
Viceversa, un buffer troppo ampio rende poco allenante la sessione: il
volume relativo sarebbe insufficiente e la distanza dal cedimento
eccessiva. La prossimità al cedimento è un fattore molto importante per
avere uno stimolo di magnitudo valido dal punto di vista ipertrofico; si
tenga quindi in considerazione anche questo fattore.
Per le ragioni fin qui esposte, trovo strategicamente astuto strutturare
progressioni che partano da un rpe 6 (circa) ed evolvano verso un rpe 8
(circa). In ambedue i casi lo sforzo percepito è relativo alla prima serie
allenante. Perciò, con l’avanzare delle settimane e l’aumento del volume,
la prossimità al cedimento aumenterà sempre più, rendendo maggiore lo
stimolo ipertrofico.
Riprendiamo l’esempio precedente. Si è suggerito di partire con un rpe
6; scegliamo quindi di utilizzare l’87,5% del nostro 1rm di OHP e
ipotizziamo 4 serie alla settimana:

➢ Settimana 1: 87,5kg x 1 x 4s (per un volume relativo di 350, con


la quarta serie che si assesta ad un rpe di 7-8).
Supponiamo ora di aggiungere una serie allenante per settimana per le
due seguenti settimane. Otterremo:

➢ Settimana 3: 87,5kg x 1 x 6s (per un volume relativo di 525,


dove la sesta serie ha un rpe si 7-8 circa).
Data la progressione di queste settimane, si suppone che la prima serie
allenante risulti facile quanto basta per non rappresentare più un rpe 6.
Perciò la settimana successiva il numero di ripetizioni allenanti può essere
aumentato:

➢ Settimana 4: 87,5kg x 2 x 6s (per un volume relativo di 1050. Il


volume è cresciuto notevolmente e – poiché lo sforzo percepito è
più sensibile all’incremento delle serie - l’rpe si avvicina 9,
ovvero molto prossimo al cedimento.)

Valutare gli esiti della progressione


E ora, che si fa? Progrediamo ancora? Dipende.
Progredire costantemente è impossibile. Un periodo di scarico attivo,
volto al defaticamento, potrebbe essere una saggia decisione. Questo
periodo di scarico può essere sfruttato per testare le prestazioni e valutare
se il programma ha generato, fin qui, un adattamento.
Forza e massa sono strettamente connesse tra loro: se siamo diventati
più forti in un esercizio è molto probabile che i muscoli coinvolti si siano
sviluppati. Seguendo questo ragionamento, vediamo come valutare la
nostra onda di volume e la sua efficacia nel renderci più forti e più
ipertrofici.
A inizio programmazione eravamo in grado di espletare 5 ripetizioni di
OHP con al massimo 87,5kg. Durante la settimana di scarico[30] possiamo
eseguire un test di massime ripetizioni con 87,5kg. Qualora fossimo in
grado di eseguire più di 5 ripetizioni, avremmo la prova oggettiva del
successo del protocollo.
Come proseguire? Come leggere il risultato dell’amrap, se il
miglioramento non è chiaro o se si è addirittura registrato un
peggioramento? In questo caso è utile incrociare i dati di recupero, quali:

▪ qualità del sonno

▪ recupero percepito

▪ fame/sazietà
▪ sonnolenza

▪ fastidi articolati

▪ affaticamento muscolare

▪ doms

▪ ecc.

Incrociandoli con il risultato dell’amrap, possiamo imbatterci in queste


situazioni:

I. Miglioramento delle prestazioni e dati del recupero


ottimali: ci siamo adattati positivamente allo stimolo allenante senza
incorrere in overreaching. Possiamo permetterci di affrontare un
blocco con un volume di picco leggermente superiore.
II. Miglioramento delle prestazioni e dati del recupero negativi: ci
siamo adattati positivamente allo stimolo allenante incorrerendo in
overreaching. In funzione dell’entità dell’overreaching possiamo
decidere se modulare leggermente verso il basso il volume oppure
mantenere invariato il volume di picco nella programmazione futura.
III. Stallo delle prestazioni e dati del recupero ottimi: non ci siamo
adattati positivamente allo stimolo allenante, né siamo incorsi in
overreaching. Sarà necessario affrontare un blocco con un volume di
picco superiore.
IV. Stallo delle prestazioni e dati del recupero pessimi: non ci
siamo adattati positivamente allo stimolo allenante e siamo incorsi in
overreaching. Abbiamo ecceduto con il volume; sarà dunque
necessario affrontare un blocco con un volume inferiore e, se
possibile, estendere la durata del recupero attivo di un’altra settimana,
al fine di dissipare al meglio la fatica.
V. Peggioramento delle prestazioni e dati del recupero ottimi: ci
siamo adattati negativamente allo stimolo allenante senza incorrere in
overreaching. Sarà necessario affrontare un blocco con un volume di
picco sensibilmente superiore.
VI. Peggioramento delle prestazioni e dati del recupero pessimi:
ci siamo adattati negativamente allo stimolo allenante e siamo incorsi
in overreaching. Abbiamo ecceduto di molto con il volume; sarà
necessario affrontare un blocco con un volume drasticamente
inferiore e, se possibile, estendere la durata del recupero attivo di
un’altra settimana, al fine di dissipare al meglio la fatica.
Infine, è bene seguire uno stile di vita che favorisca il recupero dagli
allenamenti pesanti, senza attribuire per forza la responsabilità dei mancati
risultati alla struttura del protocollo di allenamento.
Tuttavia, se si segue un’alimentazione sana e bilanciata e con un
apporto calorico sufficiente a sostenere i nostri allenamenti, la qualità e la
durata del sonno sono adeguate e non si eccede nell’attività fisica al di
fuori della palestra, questa analisi dovrebbe fotografare in modo piuttosto
accurato la condizione in cui ci troviamo.

Analizzati i vantaggi di una progressione nel volume allenante, i


metodi per strutturarla e le strategie di valutazione e reindirizzamento,
possiamo procedere con la progressione dell’intensità.
6.2 Progressione dell’intensità
La progressione dell’intensità è quella più usata e conosciuta nel
mondo dell’allenamento di forza e prestazione. Tuttavia in molte palestre,
benché l’obiettivo più diffuso sia l’ipertrofia, i personal trainer
propongono ai clienti schede statiche, che vanno seguite per un dato
numero di settimane, al termine delle quali saranno sostituite. La
progressione principale, in questo caso, è quella dell’intensità: la struttura
rimane uguale, ma viene aumentato il carico utilizzato. Questo
comporta anche una progressione del volume, ma la variabile specifica che
aumenta nel tempo è il carico utilizzato: l’allenamento diventa più intenso.
Questo tipo di progressione è orientato per lo più a periodi di
intensificazione o di picco, che servono a trasformare il lavoro svolto in
una performance migliore – in altre parole, servono a “realizzare la forza”.
Questa fase è molto facile da capire: consiste nell’aggiungere carico sul
bilanciere a ogni seduta, il che dovrebbe stimolare la forza in modo
specifico.
La semplicità di questo passaggio, però, non deve ingannarci: caricare
il bilanciere a caso non è mai un buon comportamento. Intensità, volume e
frequenza coesistono e sono interrelati, perciò le rispettive progressioni
devono essere strutturate in modo coerente. Cercare di progredire in tutte
genererebbe uno stress che non saremmo in grado di sopportare e
controllare. Se ci troviamo in un periodo in cui dobbiamo concentrarci
sull’intensità, la sua progressione non deve per forza far progredire anche
il volume. Al contrario, il volume dovrebbe rimanere costante o decrescere
a vantaggio della variabile che ci interessa. I carichi cresceranno, mentre le
ripetizioni o le serie complessive settimanali dovranno essere ridotte.
Questo può sembrare in contraddizione con quanto spiegato fin qui,
ovvero che il volume e l’intensità non devono avere un andamento inverso
all’interno dello stesso mesociclo (o blocco). Ma come si struttura una
progressione del carico senza trascurare questa linea guida? I metodi di
applicazione della progressione d’intensità più efficaci sono tre:

1. progressione d’intensità media di blocco in blocco;

2. progressione d’intensità per introdurre un blocco di intensità


superiore (a me piace chiamarli microcicli di ponte);
3. progressione d’intensità per avere un picco di stress a fine
blocco (microcicli di shock).

Vediamo come e quando applicare queste progressioni.

Progressione d’intensità media di blocco in blocco


La progressione d’intensità di blocco in blocco parte dal concetto di
progressione del volume come driver dell’adattamento ed è strutturata in 3
blocchi con volumi di picco e intensità media differenti:

▪ Accumulo (65-80% 1RM)

▪ Intensificazione (75-90% 1RM)

▪ Realizzazione (85-100% 1RM)

Ciascuno di questi blocchi ha uno o più volumi di picco differenti,


soprattutto se formato da più mesocicli consecutivi con lo stesso obiettivo.
Nel passaggio da un blocco al successivo c’è un aumento dell’intensità
media. Questo tuttavia non impedisce di mantenere l’intensità media
costante all’interno del blocco e lavorare su una progressione del volume.
Il volume di partenza e il volume di picco sono tanto più bassi, quanto più
alta è l’intensità media, eppure anche per il volume si registra una
progressione. Chiariamo con un esempio.

1) Fase di accumulo:

❖ Settimana 1
▪ Giorno 1: 3 x 8 x 70%

▪ Giorno 2: 3 x 6 x 75%

▪ Giorno 3: 3 x 4 x 80%

❖ Settimana 4
▪ Giorno 1: 6 x 8 x 70%

▪ Giorno 2: 6 x 6 x 75%
▪ Giorno 3: 6 x 4 x 80%

2) Fase di intensificazione:

❖ Settimana 1
▪ Giorno 1: 3 x 6 x 75%
▪ Giorno 2: 3 x 4 x 80%
▪ Giorno 3: 3 x 2 x 85%

❖ Settimana 4
▪ Giorno 1: 5 x 6 x 75%
▪ Giorno 2: 5 x 4 x 80%
▪ Giorno 3: 5 x 2 x 85%

3) Picco:

❖ Settimana 1
▪ Giorno 1: 3 x 4 x 80%
▪ Giorno 2: 3 x 2 x 85%
▪ Giorno 3: 3 x 1 x 90%

❖ Settimana 4
▪ Giorno 1: 4 x 4 x 80%
▪ Giorno 2: 4 x 2 x 85%
▪ Giorno 3: 4 x 1 x 90%

All’interno di questi mesocicli il volume progredisce, nonostante di


blocco in blocco i volumi decrescano a favore di una crescita dell’intensità
media.
Questa è la progressione d’intensità che consiglio per gli esercizi
fondamentali: la tecnica esecutiva varia a seconda del carico; prima di
aumentarlo, preferisco mantenerlo costante per le settimane necessarie a
consolidare lo schema motorio, la qualità esecutiva e (di conseguenza) la
qualità dello stimolo allenante.

Le progressioni a breve termine


Le altre due progressioni a cui abbiamo accennato sono progressioni a
breve termine, ovvero di microciclo in microciclo.
La prima serve a introdurre a un programma di intensità superiore, e
mira a rendere meno pesante il passaggio; la seconda a raggiungere un
picco di stress in una specifica settimana, detta “di shock”.
Come e quando le applichiamo? La logica è la stessa di poco fa, ma
l’obiettivo è l’opposto.
Noi programmiamo a ritroso: fissiamo l’obiettivo della
programmazione stabilendo l’intensità media, poi decidiamo quanto
stimolo ricevere dal volume di picco. Determinati questi due parametri, si
va incontro a tre possibilità:

1) dobbiamo incrementare l’intensità media di carico del 10% o più;

2) dobbiamo raggiungere un picco d’intensità di carico non


sostenibile per più di una o due settimane;

3) dobbiamo testare le entrate di gara.

In questi casi (e in quelli dati dal sovrapporsi di queste circostanze) è


bene lavorare sul breve termine per agevolare il raggiungimento dei nostri
obiettivi e ridurre il rischio di infortuni e burnout.

Se dobbiamo incrementare l’intensità media del 10% o più, fissati


obiettivi e parametri di programmazione risaliamo al volume relativo di
inizio programma. Una volta trovato, sottraiamo una piccola percentuale
del carico allenante: in questo modo otteniamo una settimana con una
struttura identica alla prima, ma con una % media inferiore. Questa sarà la
settimana introduttiva al programma, anche detta settimana di ponte. Un
esempio.

Obiettivo: Intensificazione
Intensità di carico: 75-85 %
Volume di Picco: 4870
Settimana di picco (ultima del programma):

- Giorno 1: 5 x 6 x 75% (Volume Relativo = 2250)


- Giorno 2: 5 x 4 x 80% (Volume Relativo = 1600)
- Giorno 3: 6 x 2 x 85% (Volume Relativo = 1020)
Programmando a ritroso, arriviamo alla prima settimana della nostra
programmazione di picco.
Settimana 1 del nuovo programma:

- Giorno 1: 4 x 5 x 75% (Volume Relativo = 1500)


- Giorno 2: 4 x 3 x 80% (Volume Relativo = 960)
- Giorno 3: 5 x 1 x 85% (Volume Relativo = 340)

Per realizzare la settimana di ponte sarà sufficiente calare del 2,5%


l’intensità di carico rispetto alla settimana 1.
Settimana di ponte:

- Giorno 1: 4 x 5 x 72,5% (Volume Relativo = 1450)


- Giorno 2: 4 x 3 x 77,5% (Volume Relativo = 930)
- Giorno 3: 5 x 1 x 82,5% (Volume Relativo = 330)

Ecco realizzato il seguente programma:


▪ Settimana 1; Giorno 1: 4x5 72,5% (Volume Relativo = 1450) ➔
Settimana 4; Giorno 1: 5x6 75% (Volume Relativo = 2250)

▪ Settimana 1; Giorno 2: 4x3 77,5% (Volume Relativo = 930) ➔


Settimana 4; Giorno 2: 5x4 80% (Volume Relativo = 1600)

▪ Settimana 1; Giorno 3: 5x1 82,5% (Volume Relativo = 330) ➔


Settimana 4; Giorno 3: 6x2 85% (Volume Relativo = 1020)[31]

I casi in cui consiglio questo tipo di progressio sono più complessi.


Sconsiglio di avere un picco di intensità in concomitanza con un picco di
volume, anche se questo può essere utile a un atleta di forza qualora stesse
andando verso un picco pre-gara.
Il picco è la fase in cui si ha la massima intensità: l’obiettivo è
preservare la fitness, ridurre la fatica, consolidare lo schema motorio e
riuscire a eseguire una singola ripetizione massimale con un carico il più
alto possibile.
È fondamentale usare carichi che siano prossimi al nostro massimale.
Inoltre, per prepararsi a una performance agonistica è necessario testare
(almeno) l’entrata in gara e, quando possibile, anche la seconda
chiamata[32]. Prima e seconda chiamata si aggirano nell’intorno del 92,5-
95% del nostro 1rm, un carico decisamente impegnativo e potenzialmente
pericoloso. Dobbiamo perciò cercare di spendere il minor tempo possibile
nel prendere abbastanza confidenza con il carico e con l’esecuzione, così
da essere nelle migliori condizioni il giorno della gara.
Per farlo, strutturiamo un programma con una percentuale di carico
media leggermente inferiore a quella che desideriamo, così da non
stressare troppo il corpo a livello strutturale. Gli infortuni da usura sono
sensibilmente più frequenti quando il carico orbita troppo a lungo
nell’intorno del nostro 1rm. Il modo di applicazione è quello esposto poco
sopra, ma per comodità propongo ora un esempio limitato a una giornata.
Immaginiamo di voler testare l’entrata e la seconda chiamata in gara,
ovvero il 92,5% e il 95% del nostro 1rm. Ecco l’intensità di picco delle
ultime due settimane del programma:

▪ settimana n-1: intensità di picco 92,5%

▪ settimana n: intensità di picco 95%

Tutto ciò che resta da fare è calare l’intensità (per esempio al 90%) per
il periodo rimanente del programma di picco.
È importante tener presente che con l’avanzare del livello e della forza
assoluta dell’atleta sarà necessario allungare il blocco di picco
proporzionalmente a quanto l’atleta sarà vicino al suo massimo potenziale
genetico.
Alla maggior parte dei lettori di questo libro, tuttavia, sconsiglio di
pianificare blocchi di lavoro che superino le 4-5 settimane di picco.
Lavorare con percentuali di carico tanto alte, oltre a rendere l’allenamento
più tassante e pericoloso, risulta poco efficiente per accumulare volume
nel tempo, costruire massa muscolare e acquisire lo schema motorio.
Durante un lavoro di questo tipo si passa da un protocollo low set – high
rep, all’opposto low rep – high set. In questo modo possiamo ripetere più
volte il movimento e impostare (a parità di volume) intensità e carico medi
più alti, il che è specifico per il nostro obiettivo: incrementare il carico
utilizzato. Si aggiunga che ripetere molte volte una serie dello stesso gesto
ci permette di interrompere l’esecuzione, riflettere sulla tecnica e sulla
correttezza del movimento e tornare a eseguirlo in modo più preciso e
pulito.
Tuttavia, non va trascurata la multifattorialità della progressione dello
stimolo allenante: il volume relativo di picco diminuirà con l’avanzare
dell’intensità media (anche se a blocchi).
6.3 Progressione della frequenza
A che serve la progressione della frequenza allenante? La
progressione di questa variabile ha molte sfaccettature, le quali, a mio
parere, sono un po’ meno definite rispetto a quelle relative a volume e
intensità.

Una giusta frequenza


In una fase incentrata sull’aumento dell’ipertrofia, il volume
complessivo da accumulare è maggiore. Se le sessioni settimanali con cui
possiamo accumulare il volume sono di più, sarà più facile raggiungere
l’obiettivo; evitando sessioni troppo lunghe, che comprometterebbero
l’esecuzione tecnica dei movimenti, aumentando il rischio di infortuni e
riducendo efficienza ed efficacia dello stimolo ipertrofico.
Anche esagerare con la frequenza, però, può avere gravi conseguenze.
In una fase di volume affrontiamo singole sessioni molto pesanti, che
necessitano di un adeguato recupero. Eccedere in frequenza, ovvero
affrontare la sessione successiva senza aver recuperato a sufficienza, può
portare ad accumulare troppa fatica – il che, come sappiamo, può essere
molto rischioso.
Viceversa, quanto più ci orientiamo verso l’intensità, tanto più la
sessione diventa tassante. Lo stress a cui sottoponiamo il corpo è uno
stress di tipo neurale e strutturale, e richiede un tempo di recupero
molto maggiore. Se la specificità del movimento aumenta, soprattutto
quando l’obiettivo è l’espressione della forza, la frequenza con cui
stimoliamo il corpo deve esse ridotta, perché lo stimolo induce molta più
fatica e rende l’esecuzione più complessa. Anche in questo caso è
importante non esagerare. L’esecuzione del gesto e la sua ripetizione sono
ciò che ci serve: ridurre troppo la frequenza porterebbe a un progresso
inferiore.
La domanda che dobbiamo porci non cambia: che cosa voglio
ottenere?

Una giusta frequenza: se l’obiettivo è l’ipertrofia


Gli studi più recenti dicono che, quando l’obiettivo è estetico, la
frequenza consigliata per stimolare l’ipertrofia è di due sessioni
settimanali. Molti esperti sostengono che l’efficacia della frequenza sia
correlata ad altri fattori, come distensione e forza del muscolo, oltre che
all’avanzamento dell’atleta[33]. Iniziamo con due sessioni settimanali
(concentrandoci soprattutto su uno specifico distretto muscolare), e poi
cambiamo la frequenza per lavorare anche sui muscoli carenti.
All’inizio, nella scheda, i vari gruppi muscolari sono in equilibrio;
poi si arriva a uno squilibrio che ci spinge a “sistemare” il nostro
assetto estetico concentrandoci più su alcuni che su altri. Occorre
quindi una progressione del volume, favorita da una progressione della
frequenza. Il volume è minore nella singola sessione, ma maggiore nel
complesso.
Quando aumentiamo la frequenza, dobbiamo tenere conto dell’impatto
della singola sessione sul recupero necessario. Bisogna alternare sessioni
ad alto impatto e sessioni più leggere (pur sempre stimolanti, ma non
troppo stressanti) fino al conseguimento del volume target con la
frequenza desiderata.

Una giusta frequenza: se l’obiettivo è la forza


Se l’obiettivo è la forza, la gestione della frequenza è “alzata-centrica”,
ovvero basata sulla progressione dell’alzata che ci interessa. Anche in
questo caso consiglio di cominciare con due sessioni settimanali per
ciascuna alzata.
L’impatto di ogni alzata sul recupero è tanto più elevato, quanti più
gruppi muscolari l’alzata coinvolge e quanto più alto è il carico sollevato.
Possiamo stilare una “classifica” delle alzate, dalla più alla meno incisiva
sui tempi di recupero:

1) Stacco
2) Squat
3) Panca

La frequenza opportuna è inversamente proporzionale all’impatto


dell’alzata: si consiglia di allenare la panca con frequenza elevata, lo squat
con frequenza media e lo stacco con frequenza bassa. Come anticipato,
ritengo che 2 sessioni settimanali siano comunque un buon punto di
partenza. Per quanto riguarda lo stacco, a causa dello stress che genera,
una sola sessione è una scelta cauta. A questo punto, come far progredire
la frequenza?

Come far progredire la frequenza


Dobbiamo tenere sotto controllo alcuni parametri:

▪ volume di picco del blocco;


▪ intensità media del carico;
▪ progressione dell’alzata;
▪ volume per sessione dell’alzata.

Ma come sono collegati?


L’intensità media del carico definisce l’impatto strutturale e
sistemico della sessione: un allenamento al 90% 1rm è molto più stressante
di un allenamento al 60% 1rm, per cui richiederà un recupero più lungo.
Ad alte intensità, cerchiamo di limitare la frequenza a un numero congruo
di sessioni (indicativamente, non più di tre settimanali, di cui una
“leggera”).
Il secondo parametro da considerare è la progressione dell’alzata.
Chiediamoci: l’alzata sta progredendo nel tempo? stiamo diventando più
forti? a parità di ripetizioni, solleviamo più chili? a parità di chili, facciamo
più ripetizioni? Se le risposte sono affermative, è probabile che non sia
necessario aumentare il volume, e quindi nemmeno la frequenza. Al
contrario, la mancata progressione potrebbe suggerire di aumentare la
frequenza (e con essa il volume).
L’incremento della frequenza ha due benefici:

▪ permette di accumulare volume con più facilità: aiuta a


raggiungere gli obiettivi, specie se il volume di picco o il volume
per sessione sono tanto alti da rendere difficile concludere
l’allenamento;

▪ permette di praticare più spesso l’alzata: la forza è un’abilità,


perciò la pratica frequente è condizione necessaria affinché si
consolidi lo schema motorio.

È normale che la frequenza non abbia un incremento regolare. Questo


vale anche per la sua “tendenza”.
Torniamo allo squilibrio tra gruppi muscolari. Con l’aumento della
forza assoluta e del livello, un ulteriore incremento della frequenza non è
necessario. Al contrario, favorire il recupero riducendola potrebbe avere
effetti benefici.
6.4 Densità dell’allenamento
Cerchiamo di definire la densità di allenamento.
La densità di allenamento è l’unità di misura con cui valutiamo
quanto volume accumuliamo in un determinato periodo. Per sfruttare
questa variabile abbiamo a disposizione due modi:

▪ ridurre i tempi di recupero: l’allenamento è più breve e il volume


(per unità di tempo) maggiore;

▪ aumentare il volume allenante nello stesso lasso di tempo: la


durata dell’allenamento è la stessa, ma il volume è di più.

Altri strumenti che possono essere utilizzati per raggiungere


quest’obiettivo sono tecniche di allenamento specifiche, quali super-set,
jump-set, giant-set, circuit training, stripping, eccetera[34].

Quando va gestita la densità di allenamento


La gestione della densità di allenamento viene usata in diversi ambiti;
io la preferisco per ottimizzare l’accumulo di volume e incrementare la
capacità di lavoro.
Anche se fin qui non ne abbiamo parlato, la capacità di lavoro è un
concetto importante nella letteratura che riguarda la scienza
dell’allenamento. La capacità di lavoro è la capacità di un atleta di
sottoporsi, recuperare e adattarsi ad alti volumi di lavoro. Più un atleta è
avanzato, maggiore è la quantità di volume necessario per migliorare.
La capacità di lavoro dell’atleta deve crescere nel tempo. Accumulare
molto volume in poco tempo stimola il sistema cardiovascolare, spingendo
il corpo a un recupero più veloce (sia tra serie sia tra sedute).
A differenza di un blocco di intensità (dove si hanno, per esempio,
serie da 5 ripetizioni con l’80% del proprio massimale e recuperi medio-
lunghi, di 3-5 minuti), in una fase di accumulo (nella quale si cerca anche
un incremento della capacità di lavoro) si incontrano serie con più
ripetizioni intervallate da recuperi più brevi. L’alto numero di ripetizioni,
permesso da un’intensità media relativamente bassa, rende le serie
allenanti più lunghe, alternando il sistema energetico primario a quello
anaerobico lattacido.
Va ricordato che tutti i sistemi energetici sono sempre coinvolti negli
allenamenti, ma, in base all’intensità e alla durata dello sforzo, solo uno è
dominante.
Prendiamo un allenamento particolarmente voluminoso e denso:

▪ Squat 70% x 10 x 6s; recupero: 1-2’

Dobbiamo eseguire 6 serie da 10 ripetizioni (60 ripetizioni totali) di


squat al 70%rm, con un recupero di 1 o 2 minuti (piuttosto ridotto per
questo tipo di movimento). Un grande sforzo per il nostro sistema
cardiocircolatorio:

▪ un movimento complesso come lo squat, che permette di usare un


carico elevato e richiede il lavoro simultaneo di gran parte dei
muscoli del corpo, accostato alla manovra di valsalva (per
preservare la sicurezza esecutiva), richiede un grande dispendio di
energie e implica un forte stimolo cardiovascolare;

▪ un tempo di recupero così ridotto fa accumulare molta fatica ed è,


tra le varie serie, insufficiente dal punto di vista cardiocircolatorio.
La domanda anaerobico-lattacida è elevata e stimola un
adattamento del rispettivo sistema energetico, rendendo la sfida
meno impegnativa in futuro.

La progressione della densità può essere usata anche come strumento


per lo stimolo dell’ipertrofia sarcoplasmatica: maggiore densità implica
maggiore accumulo di metaboliti nei muscoli coinvolti. Ad essere allenata,
perciò, è anche la forza resistente.
Un efficiente accumulo di volume nel tempo, un maggiore stress
metabolico e un lavoro sulla forza resistente costituiscono una ricetta
molto potente per lo stimolo ipertrofico. Sempre più esponenti della
comunità scientifica appoggiano il ricorso allo stress metabolico come
stimolo ipertrofico, pur senza dimenticare che la variabile più importante
rimane lo stress meccanico imposto al muscolo[35].
Raggiunta una buona qualità esecutiva, un blocco di accumulo che
prevede un incremento del volume può essere reso più efficace ed
efficiente a mezzo di una progressione della densità allenante, che ci
permette di accumulare lo stesso volume con più efficienza (in meno
tempo) e rendere più intenso lo stimolo metabolico sui muscoli interessati.
Stilato il programma di allenamento, preferisco dare più attenzione ai
movimenti complessi che consentono di muovere un carico maggiore. I
movimenti multi-articolari sono i migliori per agevolare una
progressione nel tempo, e permettono di accumulare più volume (e in
modo più efficiente) per vari distretti muscolari. Dobbiamo dare la priorità
a questi esercizi, quali binari su cui far viaggiare la progressione, senza
lesinare sulla precisione tecnica. A essi, chiaramente, bisogna affiancare
degli esercizi accessori, che ci consentiranno di ottenere un risultato più
omogeneo, lavorando in modo specifico dove i multi-articolari non
arrivano (cfr. cap. 7).

Si può guardare alla progressione della densità come a uno strumento


per accumulare volume per i distretti muscolari e per gli esercizi accessori
in modo efficiente. Non tutti coloro che frequentano la palestra hanno la
possibilità di sottoporsi a sessioni di allenamento di lunga durata; è in
questi casi che una gestione oculata della densità di allenamento può
permettere una progressione dello stimolo senza eccedere nella durata
della singola sessione, evitando di “ingombrare” la quotidianità.
6.5 Rapporto tra le progressioni
Dopo aver visto i vari tipi di progressione degli stimoli allenanti e
averne analizzato le caratteristiche, scopriamo ora come si pongono le une
rispetto alle altre. Alcune hanno un legame più stretto – come la
progressione nella frequenza e quella nel volume, o la progressione nella
densità e quella nel volume. La progressione più isolata, che difficilmente
sposa le altre variabili, è quella della densità. Il più delle volte, quando
progrediamo nell’intensità, le altre variabili devono essere decrementate:
poiché il tipo di fatica dovuto a un lavoro molto intenso è più strutturale
che sistemico, l’affaticamento dovuto all’intensità è sensibilmente
maggiore di quello dovuto alle altre progressioni.
Per capire la correlazione tra le variabili è opportuno approfondire,
seppur brevemente, i tipi di fatica e come influenzano il sistema e il
recupero.

Un allenamento ben strutturato perturba l’omeostasi del corpo agendo


direttamente su quattro aspetti fisiologici a essa correlati[36]:

I. Riserve Energetiche
II. Segnalazione Cellulare
III. Il sistema nervoso
IV. Struttura Tissutale

Cominciamo dalle riserve energetiche. Abbiamo già parlato di sistema


energetico e di come l’intensità relativa di allenamento abbia un impatto
diretto sul sistema energetico attivato dalla sessione allenante (cfr. cap. 5).
Ogni sistema energetico ha una riserva preferenziale a cui attingere:

• anaerobico alattacido (dei fosfati): ATP e creatinfosfato;


• anaerobico lattacido: glucosio/glicogeno;
• aerobico: grassi.

L’allenamento con sovraccarico genera risposte ormonali nel nostro


corpo. Per quanto riguarda la segnalazione cellulare ci interessano:
• ormoni autocrini;
• ormoni paracrini;
• ormoni endocrini.

Passiamo al sistema nervoso centrale. Chiunque si sia allenato con i


pesi – in particolare coloro che si sono sottoposti ad allenamenti incentrati
sull’incremento della forza – sa che anche lo stress del sistema nervoso
varia proporzionalmente all’intensità relativa del carico (ma anche di
quella assoluta). Più il carico è alto, più lo è l’influenza sulla fatica.
Gli aspetti principali del sistema nervoso interessati sono:

• il sistema nervoso centrale (SNC);


• cellule della Glia;
• il sistema nervoso periferico (SNP).

Infine, abbiamo lo stress tissutale:


• strutture cellulari del muscolo e proteine;
• fascia muscolare;
• tendini;
• legamenti;
• ossa.

Ciascuno degli elementi elencati fin qui necessita di uno specifico


periodo di recupero, volto a ripristinare la condizione fisiologica originaria
e dissipare la fatica.

• Fosfati → Minuti
• Glicogeno → Giorni
• Sistema Nervoso → Giorni/Settimane
• Tessuti → Settimane/Mesi

Quando programmiamo, non possiamo ignorare che un’alta intensità


vincolerà a tempi di recupero più distesi. Le altre variabili (in particolare
frequenza e volume) dovranno pertanto essere calibrate tenendo conto di
questo aspetto.

L’impatto della fatica[37]


Prima di approfondire, è importante soffermarsi sull’impatto che la
fatica ha sui fattori in questione. Più conosciamo la fatica, meglio
possiamo gestirla.

I. Riserve Energetiche

a. Difficoltà nel generare forza ➔ Diminuzione dell’intensità di


allenamento.

b. Difficolta nel completare numerose serie pesanti ➔


Diminuzione del volume allenante.

c. Incremento dello sforzo percepito.


d. Segnale di interruzione dei processi anabolici nella cellula.

II. Il sistema nervoso

a. Riduzione dell’impulso neurale al muscolo ➔ riduzione


dell’espressione di forza.

b. Peggioramento della coordinazione intra ed inter muscolare ➔


peggioramento dei pattern motori sotto carico.

c. Riduzione della capacità di apprendimento del SNC ➔


peggiore acquisizione della tecnica.

III. Segnalazione Cellulare

a. Innalzamento del cortisolo ➔ Catabolismo muscolare.

b. Riduzione della produzione endogena di testosterone ➔


riduzione del segnale anabolico al muscolo.

c. Incremento dell’intensità e durata dei DOMS ➔ impatto diretto


sul ripristino delle riserve di glicogeno muscolare.

d. Innalzamento dei livelli di AMPk ➔ Catabolismo muscolare.

e. Riduzione dell’mTOR ➔ riduzione del segnale anabolico al


muscolo.

IV. Struttura Tissutale

a. Microlesioni dei tessuti che, sul lungo termine, se non si ha una


gestione adeguata del recupero, possono generare infortuni,
infiammazioni croniche e molti altri effetti spiacevoli.

Come combattere queste conseguenze negative?


Come ogni fase allenante ha una variabile che domina sulle altre e una
differente correlazione tra quest’ultime, così anche la fatica accumulata ha
diverse origini e viene ripartita con diverse proporzioni tra gli elementi
sopra elencati. Per contenere questi effetti è fondamentale lo scarico, che
deve essere calibrato in funzione della fase in cui ci si trova.
L’intensità media di allenamento influenza il tipo di adattamento che
otteniamo tanto quanto il tipo di fatica che accumuliamo. Il volume
determina quanta di questa fatica accumuliamo.
Lo scarico deve tener conto del volume: quanto più volume abbiamo
accumulato, tanto più volume dobbiamo sottrarre per dissipare la fatica
accumulata. E quanto più è elevata l’intensità media di lavoro del blocco,
tanto più duraturo deve essere lo scarico.
Una buona regola da ricordare: la variabile da regolare in fase di scarico è
quella che ha influenzato di più l’accumulo di fatica nell’ultimo periodo.
Facciamo qualche esempio che richiami anche la periodizzazione a
blocchi:

Mettere insieme le progressioni


È opportuno programmare le progressioni in relazione all’evolvere
degli obiettivi nel tempo. Come abbiamo visto nel capitolo precedente,
anche la progressione va adattata, nel macrociclo, a seconda dell’obiettivo
specifico del blocco di allenamento in questione. Se stiamo programmando
un blocco di accumulo, la progressione tipica di quel blocco sarà una
progressione del volume e – tendenzialmente – anche della frequenza.
Viceversa, un blocco di intensificazione avrà come variabile primaria
l’intensità. Nei casi di lavori più specifici si potranno certamente avere dei
mix di progressioni all’interno di un unico blocco. Per esempio: un blocco
di intensità e un blocco di volume di un atleta che ha come unico obiettivo
l’estetica possono prevedere entrambi una progressione nel volume,
partendo da un’intensità mediamente un po’ più alta e un volume più basso
e aumentando man mano il volume pur mantenendo costante l’intensità. Al
contrario, per chi ha come obiettivo la forza potremmo assistere a un
incremento della variabile intensità, anche all’interno di un blocco
dedicato all’accumulo di volume.
I vari tipi di progressione coesistono, ma si influenzano
reciprocamente. È basandoci su questa reciproca influenza che dobbiamo
strutturarle e periodizzarle nel modo più coerente possibile ai nostri
esercizi.

La strutturazione delle progressioni deve tener conto anche del livello


dell’atleta.
Per un novizio è preferibile lasciare molto spazio, inizialmente, a una
progressione nel volume. Questo atleta è molto lontano dal suo potenziale
ipertrofico e ha un margine di miglioramento molto ampio, il che gli
garantisce risultati maggiori nel breve termine. Potremmo dire che (circa)
la metà del suo anno di allenamento può essere dedicata all’accumulo di
volume e l’altra metà dell’anno ripartita tra i periodi di intensificazione e i
periodi di picco.
Se invece gli obiettivi sono prestazioni e forza, quanto più l’atleta è
esperto, tanto più ha bisogno di dedicarsi alla progressione dell’intensità e
ai periodi di picco (quindi alla realizzazione delle performance). Più alto è
il livello dell’atleta, più è necessario che lo stimolo sia specifico
all’obiettivo da conseguire. In questo modo si ottiene un transfer che gli
consente di migliorare nell’abilità che sta cercando di allenare.

Obiettivi specifici e variabili primarie


Ogni blocco di allenamento ha un obiettivo specifico. In funzione
dell’obiettivo del blocco dobbiamo fare più attenzione a una specifica
variabile. Analizziamo il ruolo delle variabili in ciascuno dei blocchi per
favorirne l’efficacia[38].

• ACCUMULO

- Intensità: medio-bassa e costante. Ricerchiamo l’efficienza


nell’accumulo del volume: un’intensità troppo alta ci imporrebbe
tempi di recupero elevati intra-serie ed intra-allenamenti,
portandoci ad accumulare fatica troppo velocemente.

- Volume: crescente ed elevato. Il nostro obiettivo è l’ipertrofia,


ragion per cui il volume è la variabile che più ci interessa in
questa fase.

- Frequenza: elevata e costante. Per facilitare l’accumulo di volumi di


lavoro elevati è importante che la frequenza sia alta, così da
rendere più efficiente e qualitativamente superiore il lavoro.

- Densità: elevata. Una densità di lavoro elevata: a) genera un


maggiore stress metabolico, incrementando la risposta ipertrofica;
b) rende più efficiente l’accumulo di volume, riducendo la durata
media della sessione di allenamento, permettendoci di accumulare
più lavoro nello stesso lasso di tempo.

- Selezione degli esercizi (specificità): ampia (bassa specificità). In


questo modo lavoriamo sulla forza e sull’ipertrofia generale e, nel
caso di un powerlifter, dedichiamo volume ai distretti meno
coinvolti dagli esercizi principali.

• INTENSIFICAZIONE:

- Intensità: medio-alta e, in funzione degli obiettivi, crescente.

- Volume: moderato, ma crescente. Anche in questo caso consiglio un


graduale incremento del volume, qualora l’intensità fosse
costante. Nel caso di intensità crescente, viceversa, consiglio un
volume costante, per evitare di innalzare troppo la fatica. In un
blocco di allenamento ben strutturato saranno presenti entrambe le
strategie, in periodi alternati.

- Frequenza: moderata e costante o in riduzione. Poiché l’impatto


dell’intensità è più strutturale che sistemico, il tempo necessario
per recuperare a pieno tra le sessioni è maggiore. È bene
diminuire la frequenza, così da evitare infortuni e permettere
all’atleta di avere performance superiori negli allenamenti.

- Densità: ridotta. Carichi maggiori impongono recuperi maggiori,


così da preservare la qualità esecutiva e ridurre al minimo il
rischio di infortuni. Va aggiunto che un recupero parziale
impatterebbe le performance nelle singole serie e il carico
utilizzabile, ostacolando il conseguimento dell’obiettivo di questo
blocco.
- Selezione degli esercizi (specificità): moderata. In questa fase è
bene concentrarsi su esercizi che agevolino il sovraccarico
progressivo (qualora l’obiettivo fosse l’ipertrofia generale e/o
l’estetica) o il consolidamento del pattern motorio (qualora
l’obiettivo fosse la performance). Cerchiamo di consolidare le
capacità coordinative e neurali specifiche al nostro obiettivo.

• PICCO:

- Intensità: molto elevata e crescente. Per il principio di specificità,


dal momento che in gara dovremo eseguire un’unica ripetizione
massimale, lavoriamo a carichi che tendano al nostro 1rm.
- Volume: basso. L’impatto strutturale di queste intensità è ingente,
perciò il volume deve essere contenuto o si rischia di eccedere
nella fatica e di incorrere in infortuni.
- Frequenza: bassa. È necessaria la frequenza minima utile ad
accumulare il volume necessario. La singola sessione, infatti,
ricadrà fortemente sui nostri tessuti e sul nostro sistema nervoso,
richiedendo un lasso di tempo maggiore per un recupero adeguato.
- Densità: estremamente ridotta. Per preservare la qualità esecutiva e
ridurre al minimo il rischio infortuni, i carichi massimali
necessitano di un recupero completo tra le serie.
- Selezione degli esercizi (Specificità): massima specificità al gesto di
gara. In questa fase il nostro obiettivo è diventare il più esperti
possibile nel gesto di gara, in modo da massimizzare le
performance in pedana. Alleneremo quasi esclusivamente le alzate
specifiche del nostro sport.
7.La selezione degli esercizi
Come selezionare gli esercizi? Abbiamo lasciato questo argomento
alla fine della parte teorica di questo volume, tuttavia è un tassello molto
importante nella programmazione dell’allenamento.
In sala pesi, si tende a fare una distinzione tra esercizi “base” ed
esercizi “complementari”. Questa suddivisione si basa principalmente sulla
biomeccanica degli stessi.
• I primi hanno traiettorie riconducibili a delle rette e solitamente
coinvolgono più articolazioni e muscoli.
• I secondi hanno traiettorie riconducibili a degli archi di
circonferenza, solitamente coinvolgono una sola articolazione e
sono di isolamento per un muscolo target.
Io tendo a suddividere ulteriormente gli esercizi di base in due
sottocategorie: gli esercizi fondamentali e gli esercizi per l’ipertrofia
generale.

1. Esercizi base

1.1 Esercizi fondamentali à sono gli esercizi che si prestano


meglio al sovraccarico e all’accumulo di tensioni meccaniche sul
muscolo. Poiché si tratta di esercizi con bilanciere o a catena chiusa la
performance media e il carico assoluto sono maggiori. Inoltre, avendo
la possibilità di ricorrere ai micro-carichi grazie all’uso del bilanciere,
un incremento del peso sarà, in proporzione al carico complessivo,
molto più gestibile. La progressione, favorita dall’aggiunta di carichi
sempre sostenibili, sarà più graduale e il rischio di incorrere in uno
stallo minore. Garantendo un uso di carichi elevati e l’attivazione di
più strutture muscolari concorrenti, sono anche gli esercizi che
rendono più efficiente ed efficacie l’accumulo di volume nel tempo.
Potremmo definirli come la condizione necessaria ma non sufficiente
per il conseguimento dei migliori risultati.
Consiglio di selezionare almeno un esercizio fondamentale su cui
pianificare la programmazione e le relative variabili per ogni piano di
lavoro. Avremo quindi un esercizio per ognuna delle seguenti
categorie: spinta verticale; spinta orizzontale; tirata verticale; tirata
orizzontale; accosciata; flesso-estensione dell’anca.
1.2) Esercizi per ipertrofia generale → possiamo dire che sono le
“variazioni” degli esercizi fondamentali. I fondamentali sono il
fulcro della nostra scheda, questo secondo tipo di esercizi è
complementare al primo. L’esempio classico è quello della
panca piana, che viene spesso coadiuvata con un movimento
per un’area del muscolo che la panca piana non fa lavorare
adeguatamente: la panca inclinata con manubri. Quest’ultimo
esercizio attiva maggiormente i fasci clavicolari del petto, con
un range di movimento maggiore e un angolo di spinta che
coinvolge maggiormente l’area di nostro interesse. In un
ambito di prestazioni e forza, invece, la panca piana classica
può essere affiancata da una panca stretta per lavorare nello
specifico sui tricipiti, qualora fosse questo il punto debole. Se
invece lo fosse l’esecuzione, potremmo concentrarci su
specifiche tecniche, come eccentriche o concentriche rallentate
o fermi più lunghi, che ci porteranno a solidificare il pattern
motorio, vincolandoci ad aver un maggior controllo della
traiettoria.

2. Esercizi accessori (non complementari) à sono esercizi


determinati più dal fine che dall’esercizio in sé. Gli esercizi
accessori fanno da “contorno” ai nostri esercizi principali
• per sopperire a delle carenze muscolari;
• per stimolare a livello ipertrofico quei muscoli che non vengono
stimolati a dovere dal lavoro principale;
• per ottenere degli adattamenti posturali desiderati;
• per la prevenzione degli infortuni o per recuperare dagli stessi.
Quindi, parlando di esercizi accessori, ci riferiamo sia a esercizi base
che a esercizi complementari, purché volti al conseguimento degli obiettivi
di cui sopra.
Anche in questo caso tutto dipende dalla specificità. La redistribuzione
del volume tra queste categorie è determinata dai nostri obiettivi
proporzionalmente alla loro priorità. Ma questo non è sempre vero. Il
principio di specificità ci dice che “come ci alleniamo riflette ciò che
stiamo cercando di ottenere” (da Scientific Principles of Strength Training,
Mike Israetel, PhD). Questo comporta che la priorità delle categorie di
esercizi vari in funzione dell’obiettivo specifico della nostra
programmazione e del blocco in cui ci troviamo. Se in una certa fase della
nostra programmazione l’obiettivo primario è una rieducazione posturale o
il recupero da un infortunio, gli esercizi accessori (a cui altrimenti si
dedicherebbero attenzione e volume ridotti) devono essere al centro
dell’allenamento. Parimenti, in un blocco volto allo stimolo ipertrofico gli
esercizi di ipertrofia generale devono avere un ruolo di rilievo.
Eccetto specifici casi in cui bisogna solo porsi la domanda “qual è il
mio obiettivo attuale?”, quando si lavora alla struttura di un protocollo di
allenamento si distribuisce il volume a disposizione seguendo
quest’ordine:

1. Esercizi fondamentali
2. Esercizi per ipertrofia generale
3. Esercizi accessori

Ricapitolando…
Le fondamenta del programma richiedono che si ripartiscano
settimanalmente gli esercizi fondamentali, i quali determineranno la base
del protocollo e il “tempo” della scheda (ossia il numero di sedute
settimanali). Una volta gettate le basi, innalzeremo il secondo livello del
programma affiancando ai fondamentali gli esercizi di ipertrofia generale.
Infine, aggiungeremo gli esercizi accessori.
Riprendo un passaggio del capitolo 3 che chiarisce i principi
fondamentali dell’approccio ibrido:

Per far sì che esso riesca a contenere il maggior numero di elementi


possibile, senza tuttavia escludere quelli più importanti, è necessario
iniziare col riporci quelli imprescindibili, rappresentati come i più
voluminosi. Successivamente, via via che lo spazio diminuisce, si
procederà con l’inserirci elementi sempre più piccoli, fino a colmare i
minimi spazi rimasti vuoti con la sabbia e dell’acqua.

Questo è il filo logico che dobbiamo seguire. È vitale comprendere che


gli esercizi fondamentali sono i più importanti nella struttura del nostro
allenamento: come ribadito, sono quelli che ci permettono la massima
efficienza ed efficacia nel raggiungimento dello stimolo ipertrofico. Se un
atleta ha poco tempo a disposizione, deve concentrarsi per lo più su questi
esercizi, in quanto capaci di stimolare la crescita di un numero maggiore di
gruppi muscolari contemporaneamente.
Come dobbiamo selezionare ogni tipo di esercizio?[39]
1) Esercizi fondamentali.
a. Powerlifter. Se l’obiettivo è gareggiare nel powerlifting siamo
vincolati ai tre esercizi con cui si svolgerà la competizione: squat,
panca e stacco. Con questi copriremo la selezione di esercizi basata
sui piani: spinta orizzontale, accosciata e flesso-estensione
dell’anca. È bene accostare un esercizio fondamentale a ogni piano di
lavoro rimanente: spinta verticale, trazione orizzontale e verticale.
Infine, dato che ogni powerlifter che si rispetti necessita di
accumulare molto volume dalle 3 alzate di gara, è consigliato inserire
alcuni esercizi di rieducazione posturale onde evitare lo sviluppo di
una cifosi eccessiva.

b. Bodybuilder. Nella presente trattazione, per comodità,


raggruppiamo sotto l’etichetta di “bodybuilder” tutti coloro che si
allenano con un obiettivo principalmente estetico. Quando si vuole
uno sviluppo ipertrofico ed estetico si deve cercare un esercizio
fondamentale che consenta una progressione nel tempo, l’uso di un
carico pesante, che richieda un movimento il più completo possibile,
ma soprattutto nel quale il muscolo target sia completamente
attivo. La selezione degli esercizi non deve quindi limitarsi in alcun
modo all’inventario del powerlifting, né agli esercizi considerati
“obbligatori”. Ogni atleta, in base alle sue leve, alle sue capacità di
attivazione, alle skill motorie e al feeling personale svilupperà una
selezione di esercizi su cui impostare la propria progressione.
Tornando ai piani di lavoro, possiamo usare come esempio
l’accosciata: alcuni saranno in grado di sfruttare appieno le
potenzialità di un movimento come il back squat, mentre altri
preferiranno il front squat e altri ancora la pressa. L’importante è che
lo stimolo meccanico generato dall’esecuzione dell’esercizio sia
accumulato prevalentemente sul muscolo di nostro interesse. Allo
stesso modo, spostandoci sulla spinta orizzontale, la scelta della
panca inclinata piuttosto che della panca piana potrebbe essere la
scelta vincente se si mira all’estetica. Molti fanno l’errore di
confondere powerbuilding e powerlifting, ma per chi non ha
intenzione di competere non è detto che limitarsi all’esecuzione dei
tre esercizi fondamentali debba per forza essere il miglior approccio.
Tuttavia, sconsiglio di eliminarli del tutto dalla scheda.

c. Atleta ibrido. Un discorso a parte merita chi ha interesse nel


competere in entrambi gli sport. In questo caso, bisogna fare
attenzione sia alla ripartizione del volume tra una categoria e
l’altra che alla selezione degli esercizi: devono evolversi nel tempo
in funzione dell’obiettivo della programmazione. È auspicabile che
gli esercizi di accosciata, spinta orizzontale e flesso-estensione
dell’anca siano rispettivamente squat, panca e stacco; bisogna però
contestualizzare questa affermazione tenendo conto della
competizione successiva. È molto difficile ottenere il massimo in
entrambe le discipline, al netto di doti genetiche particolari grazie alle
quali gli esercizi che generano il massimo ritorno per il nostro
investimento sono proprio i powerlift. Coloro che vogliono
avventurarsi nell’agonismo di tutt’e due le discipline, devono
comprendere a quale delle due occorre dedicare un focus maggiore.
Una regola basilare è che programmazione e selezione degli esercizi
dovrebbero rispecchiare la competizione più vicina, favorendo
l’obiettivo attuale a scanso di quello futuro.

2) Esercizi per ipertrofia generale → Il lavoro di ipertrofia generale


deve essere molto più mirato: nel caso l’obiettivo fosse la prestazione,
esso deve colpire le debolezze dell’alzata, che si suddividono in
debolezze dovute allo schema motorio o all’ipertrofia. In base a
questo scegliamo l’esercizio più adatto alle nostre esigenze: se
abbiamo deficit motori, inseriremo variazioni che ci faranno spendere
più tempo nella posizione che non siamo in grado di governare bene:
isometrie, esecuzioni rallentate e altre variazioni degli esercizi che
espongano la nostra debolezza, così da obbligarci a risolverla. In
questo caso si consiglia di mantenere anche l’esercizio “normale”,
così da stimolare in maniera specifica l’arco di movimento che
dobbiamo aggiustare per poi applicare gli accorgimenti emersi e
consolidati nella seduta dedicata al movimento privo di variazione.
Quando, invece, il problema prestazionale è causato da un problema
muscolare, dobbiamo optare per una variazione del movimento in cui
si lavori sull’efficienza. L’espressione di forza è estremamente
specifica al gesto nel quale essa deve avvenire e agli angoli che hanno
le giunture nel momento in cui questo avviene. Cosa significa questo?
Che se abbiamo il tricipite debole, benché uno skullcrusher o un cable
pushdown siano più specifici per il tricipite, una panca stretta risulta
più efficace, in quanto la dinamica esecutiva è più simile a quella
dalla panca piana (ma più specifica per il tricipite) e garantisce così
un miglior transfer sull’esercizio fondamentale. Quando, invece, gli
obiettivi sono estetici, questa selezione va fatta basandosi su quelle
che reputiamo essere le aree carenti. Ricerchiamo dunque quegli
specifici esercizi che possano corroborare lo stimolo degli esercizi
fondamentali con delle variazioni che ci consentano di colpire più
precisamente i distretti che vogliamo migliorare. A mio parere è
molto interessante, in questo caso, fare esercizi che abbiano un range
di movimento il quanto più ampio possibile, nel quale venga
coinvolto quello specifico muscolo. Un range più ampio fa sì che
venga accumulato maggior lavoro, che genera uno stimolo maggiore
nei confronti del muscolo. Inoltre, se selezioniamo un esercizio che
sia a range completo e che abbia come motore primario per l’intero
range il muscolo che vogliamo colpire, abbaimo i vantaggi dello
stretch sotto carico e del picco di contrazione. Possiamo quindi
applicare una varietà di esercizi più eterogenea. Questo, però, non
vuol dire che essi debbano variare più frequentemente: significa che il
numero di stimoli differenti a cui possiamo ricorrere nel microciclo
(tipicamente una settimana) può essere più ampio, senza dover
sempre eseguire gli stessi esercizi. Questo, tuttavia, non è
obbligatorio, anche se “colpire un muscolo da più angolazioni
diverse” potrebbe rivelarsi una strategia vincente.
3) Esercizi di isolamento e stress metabolico → Giovano per lo più
di range di movimento parziali e tensioni continue: dobbiamo
generare uno stress metabolico nel muscolo target. Come fare?
Circoscrivendo il più possibile il movimento al muscolo che
vogliamo sviluppare faremo risultare tutto il lavoro a suo carico. È
ottima una selezione di esercizi che abbiano un range di movimento
parziale nel quale è attivo in maniera predominante uno specifico
distretto, che abbiano picchi di contrazione o che si prestino a
tecniche di intensità che stimolano lo stress metabolico, come
macchinari e cavi. I cavi, ad esempio, consentono di avere una
tensione continua sul muscolo, il che fa accumulare il lattato in modo
più veloce ed efficiente di quanto non faccia un esercizio in cui si
perde tensione durante il movimento. Questo tipo di esercizi riguarda
per lo più i gruppi muscolari piccoli, che allenati secondo strategie
non metaboliche riducono il loro contributo all’esecuzione dal
momento che la muscolatura accessoria predomina, poiché più forte.
In quel caso, il lavoro non è specifico alla crescita di questi muscoli.
7.1 La selezione degli esercizi accessori
(del dott. Riccardo Padovan)

1. Premessa
Nella vita ho subito molti infortuni dovuti a incidenti stradali: bulging
discali, frattura del mento, instabilità rotulea con conseguente condropatia,
eccetera. Con la genetica non mi è andata meglio: i primi fastidi
osteoarticolari - tra scoliosi e rettificazione generalizzata del rachide - mi
hanno accompagnato fin dai sedici anni. Tuttavia, compiuti i diciassette
iniziai ad allenarmi con i pesi, una passione che non mi ha più
abbandonato e che nel tempo è cresciuta sempre più, spingendomi ad
approfondire gli aspetti preventivi dell’allenamento. Qualche anno dopo
mi sono laureato al Corso di Laurea Magistrale in Scienze e Tecniche
dell’Attività Motoria Preventiva e Adattata.
Più la mia esperienza cresceva, più mi chiedevo se portare sul campo
quello che studiavo sui libri e sperimentavo su me stesso potesse essere
una buona idea e, dopo quattro anni di esperienza in sala pesi, decisi di
svolgere l’attività di coach come libero professionista, portando diversi
atleti a gareggiare nel powerlfiting e nel bodybuilding.
Per trasparenza, cito i migliori risultati raggiunti ad oggi nel
powerlifting:

▪ Medaglia d’oro -47 M1 e tre ori (uno per specialità) all’European


Classic Powerlifting;
▪ Championships for Masters (2018), Helsingborg;
▪ Medaglia d’oro -47 e due record nazionali al IV Campionato
Italiano Assoluto Open di Powerlifting Classic (finali 2018);
▪ Medaglia d’oro -66 J alla 16° Coppa Bertoletti di Panca Raw
(2019).

Io stesso ho gareggiato nell’ambiente del bodybuilding, per la


precisione nella categoria Man Physique:

▪ 1° classificato al Trofeo Tino Montanara nella categoria Novice


Man Physique Tall (2018);
▪ 2° classificato al 3°Granprix Cervia Natural Muscle NBFI nella
categoria Man Physique Open Medium (2018);
▪ 4°classificato al 10° Campionato Nazionale (finali) NBFI categoria
Man Physique Open Medium (2018);

Altre gare a cui mi piace prendere parte sono quelle di specialità nella
panca piana - esercizio che adoro, ma nel quale sono poco più che un
dilettante. I miei migliori risultati sono stati i 110kg nella -69 in FIPE
(2018), che mi hanno portato un bronzo ai regionali su 11 atleti, e i 125kg
a 75,52kg in FIPL (2019).
Dal 2019 sono entrato a far parte del team del Nerd Training Center.

Perché vi ho raccontato tutto questo? Per spiegare come abbia reso il


“lavoro accessorio” in palestra una parte fondamentale del mio
allenamento. Fare degli esercizi che mi permettessero di stare meglio nella
vita di tutti i giorni era un percorso obbligato, ma è stato molto efficace.
Un esempio banale, ma che i più non concepiscono: sapete che per
migliorare il diffusissimo mal di schiena la soluzione migliore sono
esercizi mirati e specifici, e non il riposo totale o l’astensione da qualsiasi
attività che possa richiedere uno sforzo? In una prima fase (se acuta) sarà
senza dubbio opportuno riposarsi, ma farlo più del necessario indebolirà e
renderà poco elastiche le uniche strutture che potrebbero salvarvi: i vostri
muscoli. La conseguenza sarà un peggioramento del vostro problema.
Prima di additarmi come millantatore, leggete gli studi del dottor McGill;
mi ringrazierete.

1.2 Leggi muscolari


Veniamo a ciò che ci interessa: gli esercizi accessori nell’allenamento
ibrido.
Mi piace pensare al corpo umano come a un insieme di muscoli che
lavorano all’unisono e non come a un insieme di segmenti slegati tra loro:
questo rende imprescindibili l’anatomia e la fisiologia. Partiamo dalla
seconda, citando alcune leggi muscolari essenziali per la comprensione di
questo capitolo.

Legge della plasticità muscolare


La lunghezza delle fibre è proporzionale all’accorciamento ottenuto dalla loro
contrazione e questo è uguale a circa la metà della lunghezza delle fibre.
Ci possiamo trovare di fronte a 4 movimenti che il muscolo può
compiere:
1. Allungamento completo, accorciamento completo;

2. Allungamento completo, accorciamento incompleto;

3. Allungamento incompleto, accorciamento completo;

4. Allungamento incompleto, accorciamento incompleto.

Poiché i nostri muscoli rispondono a determinati stimoli (in questo


caso movimenti contro una resistenza), col tempo e la ripetizione degli
stessi si avrà un adattamento morfologico che modificherà anche la
postura, in peggio o in meglio.
Ma in che modo questi quattro movimenti agiscono effettivamente sul
nostro muscolo a riposo?
1. Un movimento eseguito con allungamento e accorciamento
completi (per esempio le croci ai cavi) aumenterà la componente
contrattile proporzionalmente alla diminuzione della componente
tendinea. La lunghezza a riposo rimarrà invariata, mentre la velocità
aumenterà.

2. Un movimento eseguito con allungamento completo e


accorciamento incompleto (per esempio il curl su panca a 60°)
aumenterà la componente tendinea in maggior misura rispetto alla
diminuzione della componente contrattile. A riposo, il muscolo sarà
più lungo ma meno veloce.

3. Un movimento eseguito con accorciamento completo e


allungamento incompleto (per esempio il curl alla panca Scott)
diminuirà la componente contrattile, mentre la componente tendinea
rimarrà inalterata. A riposo, il muscolo risulterà più corto.

4. Un movimento eseguito con allungamento e accorciamento


incompleti (per esempio la panca piana con bilanciere) porterà alla
riduzione di entrambe le componenti, con l’ovvio effetto di avere un
muscolo a riposo più corto.

Prima di vedere come applicare questa preziosa legge, voglio citarne


altre due, che ci serviranno per strutturare i nostri esercizi accessori.

Legge di Starling
La forza di un muscolo è direttamente proporzionale alla lunghezza delle sue fibre
all’inizio della contrazione. Un esempio. Il cuore, che è composto da miocardiociti (tessuto
muscolare non molto differente da quello scheletrico) aumenta la propria forza di eiezione
(sistole) tanto quanto più dura la fase di riempimento (diastole). Questo accade perché il
sangue che entra nel ventricolo pre-stira le cellule muscolari, determinando la conseguente
espressione di forza.

Legge di Schwann
La forza assoluta di un muscolo diminuisce man mano che esso si accorcia
contraendosi, come i corpi elastici.

1.3 Selezione esercizi accessori[41]


Quali esercizi scegliere come accessori per il nostro allenamento?
Dipende dagli esercizi base; dipende dallo scopo dell’allenamento;
dipende, come già detto, da eventuali infortuni pregressi.
Ho deciso di suddividere gli esercizi in base al distretto muscolare più
interessato, anche se, da amante del powerbuilding come sono, non amo le
distinzioni nette quando si parla di allenamento con sovraccarico.

1.3.1 Gran pettorale


Se state leggendo questo manuale, quasi sicuramente lo allenate già
alla grande con la panca piana. Ed è proprio per questo che associare ad
essa un esercizio accessorio non sarebbe una cattiva idea.
La ragione che più mi interessa in quanto specialista della prevenzione
infortuni è l’adattamento di questo muscolo a livello posturale. Nella
panca piana, il gran pettorale non riceve né un allungamento massimo, né
un accorciamento massimo: il movimento è vincolato al bilanciere.
Riprendiamo le leggi del capitolo precedente e verifichiamo cosa
otterremo: un muscolo a riposo più corto. Dov’è il problema? In quanto
intrarotatore dell’omero (specie con i fasci più sterno-costali), il gran
pettorale a riposo tenderà a produrre una postura cifotizzata, con
conseguente riduzione dello spazio subacromiale. Lo spazio subacromiale
deve rimanere intatto se non si vuole incorrere in infortuni alla spalla, che
tipicamente avvengono in palestra proprio perché si è trascurato questo
aspetto.
Come evitarlo?
Con esercizi che rispettino due movimenti: allungamento completo e
accorciamento incompleto.
Nel caso del gran pettorale, l’esercizio preferibile sono le spinte con
manubri su panca inclinata: grazie alla catena cinetica aperta, riusciremo
a raggiungere il massimo allungamento muscolare e, grazie alla
distribuzione del peso per effetto della gravità, non raggiungeremo
l’accorciamento completo.

Per quanto riguarda l’inclinazione, il mio consiglio è di stare tra i 15° e


i 45°.
Trattandosi di un esercizio accessorio, suggerisco un numero
ripetizioni medio-alto, tra le 8 e le 12: vi costringerà a selezionare pesi che
non compromettano lo schema motorio della panca piana a livello nervoso.

1.3.2 Deltoide
Il deltoide ha tre fasci principali (senza citare quelli infiniti del
Kapandji), che hanno azioni talvolta antagoniste tra loro. Per semplicità ci
focalizzeremo sul gruppo “spalla” più che sulle sue componenti.
Un esercizio fondamentale è il military press (che consiglio di
eseguire in piedi e non da seduti o peggio al multipower) con bilanciere. I
powerbuilder possono programmare questo esercizio in ottica di forza; i
powerlifter possono sfruttarlo come accessorio in quanto si tratta di una
spinta verticale, utile a chi pratica uno sport che la prevede solo
orizzontale.
A prescindere dalla specifica disciplina, consiglio un esercizio
accessorio aggiuntivo: il lento con manubri su panca inclinata.
Il motivo di questa scelta richiama quello delle spinte con manubri su
panca inclinata: lavorare in massimo allungamento e in accorciamento
incompleto per giovarne a livello posturale.
Perché la military press da seduti no e il lento con manubri sì?
Nel military press da seduti il carico lombare sarà maggiore che in
piedi, non essendoci il sostegno degli arti inferiori. Ricorrendo ai manubri
si eviterà questo problema: il peso usato sarà minore sia per la componente
di catena aperta dell’esercizio (che non permette di caricare lo stesso peso
del military press), sia per la modalità di esecuzione.
Considerando le azioni dei vari capi del deltoide, per chi adotta un
approccio ibrido potrebbe essere utile inserire delle alzate laterali (per il
capo laterale) o delle alzate posteriori (per il capo posteriore) qualora vi
fosse una carenza di questi distretti.
Qualche indicazione ulteriore:
▪ poiché si tratta di un esercizio monoarticolare e riferito a un
muscolo piccolo, caricare poco peso. Inoltre, la spalla è la nostra
articolazione più mobile e in quanto tale anche la più instabile;
▪ nelle alzate laterali, il gomito deve essere solo leggermente flesso e
non arrivare a 90°;
▪ per le alzate posteriori consiglio la versione su panca inclinata a
30° e non quella che si vede fare da seduti, con lombare
totalmente invertita, che in alcuni soggetti potrebbe causare o
aumentare la lombalgia.

1.3.3 Gran dorsale


Nei “big three” del powerlifting il gran dorsale viene allenato, ma
principalmente in isometria; anche questo comporta degli adattamenti
posturali.
A tal proposito, propongo un test di mobilità per il gran dorsale: lo si
tenti e si verifichi se lo si riesce a superare.
Suggerisco di inserire una tirata verticale, che può essere il pullup (se
riuscite a espletare almeno dieci ripetizioni a peso corporeo con
un’esecuzione pulita) o la lat machine.
Perché proprio questi esercizi? Il motivo è sempre lo stesso: la tirata
verticale ci permette di avere allungamento completo e accorciamento
incompleto.
La programmazione in ottica di forza dipende dagli obiettivi
dell’allenamento. In ogni caso, è opportuno cercare di replicare l’assetto
scapolare che si ha nella panca piana: petto in fuori, spalle ben aperte e
lombare inarcata. Proprio l’opposto della hollow position che va tanto in
alcuni video tutorial.
Perché s’incontrano due metodi tanto diversi tra loro? Uno è corretto e
l’altro no? Dipende!
Se vogliamo certi adattamenti posturali - ovvero la postura cifotizzata -
dobbiamo evitare quella posizione in allenamento.
Se si è powerbuilder o bodybuilder, allora va inserita anche una tirata
orizzontale per completare gli schemi motori e colpire a livello di
ipertrofia tutti i distretti della schiena. La mia preferita è il pulley, per il
controllo che riesco a percepire in questo esercizio, ma anche il rematore
con bilanciere andrà bene (magari dai pin, in modo da avere sempre un
riferimento preciso per ogni ripetizione, senza oscillazioni eccessive del
busto).
Per quanto riguarda il pulley, si tenga a mente che è di fatto come fare
un rematore in piedi, ruotati di 90°: le gambe vanno tenute leggermente
flesse, senza perdere la lordosi fisiologica lombare. Meglio lasciar stare le
esecuzioni anni ‘80 di Arnold: non siamo negli anni ‘80 e… non siamo
neanche Arnold! Sconsiglio vivamente di flesso-estendere la lombare
mentre si esegue questo esercizio perché, anche se seduti, il carico grava
comunque a livello delle vertebre lombari, facendo fare un movimento ben
poco salutare ai dischi intervertebrali.

1.3.4 Bicipite
È giunto il momento del parlare del muscolo più amato dagli uomini: il
bicipite. E sì, vi consiglio di allenarlo.
Oltre alla soddisfazione personale, va allenato per il suo ruolo nella
postura a livello della spalla. Infatti, nonostante entrambi i capi di questo
muscolo siano biarticolari, è quello lungo ad avere un effetto di chiusura,
se accorciato. Quindi, avendo sempre ben chiaro il secondo esempio della
legge della plasticità muscolare, l’esercizio che mette in allungamento il
capo lungo del bicipite brachiale è il curl con manubri su panca
inclinata.
Apro una piccola parentesi relativa alla legge di Starling; non l’ho
ancora nominata, ma in realtà interviene in tutti gli esempi che ho fatto.
Con questi esercizi accessori stiamo puntando a determinati muscoli o capi
articolari, ma come facciamo a interessarne specifici, soprattutto quando si
parla di capi diversi dello stesso muscolo? Sfruttando la loro lunghezza
all’inizio della contrazione (o, per fare i nerd, il numero di ponti actina-
miosina disponibili all’inizio della stessa).
Torniamo ai nostri curl su panca inclinata. È preferibile
un’inclinazione della panca tra i 60 e i 75°. Andare oltre i 60° potrebbe
essere decisamente rischioso per le spalle, anche se devo ammettere di non
aver ancora visto un’esecuzione decente a simili inclinazioni, cosa
abbastanza logica data l’anatomia dell’articolazione presa in causa (e la
mobilità di chi frequenta le palestre).
Mi piacerebbe non dover fare questa precisazione, ma temo sia
obbligata: questo esercizio va eseguito con i manubri. Utilizzare un
bilanciere non avrebbe alcun senso, visto che non si pre-stirerebbero né il
capo breve né il capo lungo, per ovvie ragioni di ingombro, e nemmeno si
accorcerebbero a dovere. Diventerebbe una specie di alzata frontale.
Consiglio la supinazione per sfruttare appieno l’azione principale del
bicipite brachiale e per lavorarlo in totale allungamento.

1.3.5 Tricipite
Spesso il tricipite viene trascurato perché, non essendo uno dei
leggendari “muscoli dello specchio” (gran pettorale, bicipite, addome,
deltoide), perde di importanza agli occhi degli utenti. Peccato che con i
suoi tre fasci vada a occupare 2/3 della circonferenza del braccio: se si
vogliono braccia grosse, è un ottimo alleato. Estetica a parte, anche il
tricipite è importante a livello posturale, essenzialmente a causa del suo
capo lungo.
In un programma tipico da powerlfiting, il tricipite lavora attivamente
nella panca piana. Il problema è che non lavora in allungamento. Prima di
tutto, quindi, occorre capire come fare a pre-stirare il capo lungo.
Immagino che ormai il meccanismo sia chiaro: bisogna puntare sulle
estensioni del tricipite a omero flesso. Più sarà flesso, più allungamento
del capo muscolare otterremo.
Un ottimo esercizio è lo skullcrushers con manubri su panca piana
o leggermente inclinata. Preferisco evitare il bilanciere per avere un
lavoro più omogeneo tra i due arti e per evitare problematiche articolari a
livello dei gomiti. Una valida alternativa è l’esecuzione dello stesso
esercizio al cavo basso (con la testa rivolta verso di esso).
Se c’è sufficiente mobilità, un altro esercizio che consiglio è il french
press in piedi al cavo basso, cioè un’estensione di gomito a omero
totalmente flesso. Mi raccomando: affinché il principio di allungamento
completo non venga meno, è opportuno eseguire l’esercizio a full rom, e
non solo parzialmente.

1.3.6 Addome
Siamo arrivati all’addome. Sappiamo che con addome intendiamo
diversi muscoli: il retto, gli obliqui esterni e interni e il trasverso.
Anche i powerlifter dovrebbero dedicare all’addome un po’ di tempo.
Perché?
Nonostante squat e stacco attivino il core, sono più tassanti per la parte
posteriore dello stesso, cioè lombari, erettori, spinali e via dicendo. Un
esercizio di addominali servirà a controbilanciare il lavoro fatto con questi
due big.
In questo caso non chiamerò in causa le leggi menzionate fin qui, ma
proporrò esercizi che riflettano solamente la postura tenuta nel farli.
Per chi fa powerlifting, la soluzione migliore è il plank. In base al
livello atletico, lo si può fare senza ausili, con un rialzo sotto ai piedi o con
i piedi agli anelli. Anche il side plank è un ottimo esercizio, se non
migliore, e consigliato anche dal dr. McGill per prevenire o curare il mal
di schiena.
Per chi si allena nel bodybuilding questi esercizi vanno benissimo, ma
ci si può cimentare anche nel reverse crunch su panca addome. La
difficoltà aumenta all’aumentare dell’inclinazione della panca. Mi
raccomando: esecuzione lenta e controllata, senza inutili slanci.
1.3.7 Cosce e glutei
Perché raggruppare questi muscoli in un’unica categoria?
Perché con squat e stacco li si costruisce massivamente (a patto di
sapersi attivare correttamente sotto carico).
Se si è powerlifter, gli unici esercizi che si possono aggiungere sono i
monolaterali, ai quali ricorrere se si riscontrano notevoli differenze di
circonferenza (e probabilmente di forza) tra i due arti: affondi
all’indietro, in camminata e bulgarian squat. Questi esercizi non solo
permetteranno di colpire singolarmente gli arti inferiori, ma aiuteranno nel
migliorare il controllo e la propriocezione degli stessi. Negli utenti che
presentano notevoli differenze tra i due arti (più di 2 cm di circonferenza),
non è infrequente notare anche un diverso controllo tra i due, sovente a
discapito di quello meno sviluppato. Questo perché i compensi attuati nei
due big hanno un adattamento maggiore a livello dell’arto più sollecitato.
A bodybuilder e atleti ibridi – benché gli esercizi sopracitati vadano
bene – suggerisco di considerare anche le classiche leg extension e leg
curl, specie nel periodo che precede la gara, al fine di indurre il delinearsi
di alcuni ulteriori dettagli estetici.
Nel caso di una carenza muscolare o di una scarsa attivazione dei
glutei, la soluzione è l’hip trust, da eseguirsi con carichi adeguati se si
vogliono ottenere buoni risultati.

1.3.8 Polpacci
Tendo a mettere sempre un esercizio per il gastrocnemio a chi alleno, a
prescindere che lo scopo sia la forza o l’ipertrofia. Se da un lato serve a
riempire il gap dei due big su questo distretto, dall’altro serve anche a
preservare (se non aumentare) la mobilità della caviglia.
Spesso si sente affermare che “i polpacci non crescono, o li hai di
genetica o niente”. A chi lo afferma rispondo: e scommetto che li alleni
con costanza da anni e con una tecnica adeguata, vero?
I muscoli del polpaccio rispondono allo stimolo dell’allenamento con
sovraccarichi come tutti gli altri muscoli scheletrici del nostro corpo.
Ovviamente in alcuni soggetti risponderanno meglio che in altri, ma
questo accade con tutti i muscoli. Il punto è un altro. Raramente ho visto
atleti eseguire adeguatamente i calf; per lo più ci si imbatte in movimenti
parziali e fatti alla velocità della luce, il cui unico risultato è far perdere
tempo a chi ha davvero bisogno di usare il macchinario.
Il mio consiglio è eseguire i calf alla pressa o al multipower su step,
quindi a ginocchia distese. In questo modo verrà pre-stirato il
gastrocnemio (o gemelli) a scapito del soleo. Il primo, infatti, è più
voluminoso del secondo, nonché il diretto responsabile della mobilità della
caviglia (i tibiali lo possono essere in minor parte). Nello specifico:
posizionare 1/3 della pianta del piede sulla pedana o sullo step e scendere
col tallone finché si ha il controllo del movimento, poi spingere fino ad
arrivare in punta, sempre col massimo controllo possibile. Un errore
comune è far collassare la caviglia internamente; dovrà invece essere
mantenuta in asse con la tibia e il piede.

1.4 Ho finito!
Con queste poche pagine ho trattato praticamente tutti i distretti che ci
interessa allenare e salvaguardare nell’allenamento in palestra. Sono
consapevole della miriade di altri esercizi che esistono, ma in quanto
sostenitore del powerbuilding e dell’approccio sportivo in generale,
ritengo che sia preferibile concentrarsi su un numero ristretto di esercizi
per non perdere energie e tempo. Credo fermamente che ci si debba
concentrare sul fare meno e farlo meglio – mi riferisco al numero di
esercizi e non al volume.
L’esempio è sempre lo stesso: se voglio migliorare la mia battuta a
tennis, la allenerò una volta a settimana, magari con un’infinità di varianti
negli altri giorni, o allenerò la battuta tutti i giorni, senza arrivare al
cedimento tecnico?

Concludo rivolgendomi direttamente ai lettori: spero facciate tesoro di


queste nozioni, le ho apprese in oltre dieci anni di allenamento e studio e le
condivido con la speranza che vi aiutino a diventare più forti e più grossi e
che vi preservino dagli infortuni in palestra come nella vita di tutti i giorni,
per poterle vivere al massimo entrambe.
8.Conclusioni
Voglio concludere questo libro guardando quanto esposto fin qui da
una prospettiva più pratica, che dia conto delle possibili applicazioni del
mio metodo e del mio approccio alla programmazione per i miei clienti.
Per farlo, analizzerò i percorsi di alcuni atleti che alleno, di diversi livelli e
con diversi obiettivi. Una precisazione: sconsiglio di usare questi
protocolli. Se avete letto con attenzione il manuale, avete ben chiara
l’importanza di una programmazione specifica e personale, che in alcun
modo può essere rimpiazzata da schede pensate per altri atleti, con
obiettivi e caratteristiche diversi. E non fatevi ingannare da possibili
somiglianze: ciascuno di noi ha tratti che lo rendono unico.
Nel mostrare come strutturare una programmazione, ho insisto molto
sull’importanza di porsi le domande giuste; ora analizzerò le domande e le
risposte che sono servite a me per allenare i miei atleti. Spero che ne
facciate tesoro, e vi invito a “sporcarvi le mani” per trovare da voi le
vostre risposte e il vostro metodo di valutazione.

CASO DI STUDIO NUMERO 1

Atleta: Matteo Moretto

Caratteristiche:
Peso Corporeo: 80kg ca.

Anzianità di allenamento: >10 anni

Livello: powerlifter alto nella classifica nazionale


Obiettivo: Aumentare il total nel powerlifting per migliorare i
piazzamenti nazionali e internazionali.

Fissato l’obiettivo, dobbiamo trovare il modo di raggiungerlo. La


prima cosa da fare è capire dove ci troviamo: le competizioni future, i
massimali, il livello di preparazione.

Matteo si è presentato da me a giungo 2019, dopo i trials di


powerlifting raw, nei quali si è qualificato alla WEC (campionato west
Europa di powerlifting) di settembre e agli open di ottobre dello stesso
anno[42].

Quando abbiamo iniziato a collaborare i suoi massimali erano:

▪ Squat: 265kg

▪ Panca: 177,5kg

▪ Stacco: 255kg

▪ Total: 697,5kg

Questi massimali gli erano valsi il terzo posto nella categoria -83kg.

Matteo è un atleta molto avanzato: è uno degli squattisti più forti in


italia nella sua categoria di peso e un panchista di élite. Inoltre, ha grandi
difficoltà nello stacco.
Avevamo poco tempo a disposizione per prepararlo non a una, ma a
ben due gare, che avrebbe per di più sostenuto nell’arco di poche
settimane. Per essere precisi: mancavano 11 settimane alla prima
competizione, e 17 alla seconda. Poiché non avevo dati precisi sulle
programmazioni precedenti, ho deciso di cominciare con un volume medio
rispetto ai powerlifter agonisti che alleno.
Matteo ha una muscolarità molto sviluppata, ed è probabile che sia
molto vicino al suo massimo potenziale ipertrofico.

Date queste premesse, ho optato per una fase estensivo-intensiva:


avevamo poco tempo, non abbastanza per una fase di accumulo e una di
intensità complete; le ho quindi legate con un protocollo in cui l’intensità
media era elevata, paragonabile a quella di una fase di intensificazione, ma
con volume crescente, e in quantità superiore a quanto prescriverei
altrimenti in questa fase.
Il protocollo a cui è stato sottoposto era molto pesante dal punto di
vista della fatica prodotta, perciò abbiamo effettuato spesso controllo delle
sue condizioni.
I volumi e la loro progressione sono riportati nella tabella. Al termine
delle prime 5 settimane abbiamo inserito uno scarico seguito da un test
delle prestazioni.
La struttura del mesociclo era la seguente:
Ho selezionato gli esercizi partendo da tre scelte:

- Accumulare buona parte del volume di lower body con lo stacco.


Uno degli obettivi, infatti, era colmare il divario che c’era tra lo
stacco e lo squat.

- Limitare il lavoro accessorio della schiena e delle spalle, poiché


erano gruppi dominanti, e concentrarsi sul petto e sugli arti.

- Mantenere bassa la frequenza delle alzate: 3 squat - 4 panche - 2


stacchi

Dopo le 6 settimane introduttive del programma abbiamo ottenuto un


aumento del massimale teorico nello squat, un leggero calo nella panca e
uno stallo nello stacco. Ho deciso quindi di variare i volumi così:
La struttura dell’allenamento è diventata:
Poiché i parametri del recupero rilevavano un overreach non
funzionale, abbiamo ridotto i volumi di panca e stacco; quello dello squat è
stato invece aumentato per preservare lo stimolo rivolto al lower body.

Matteo non ha leve adatte allo stacco: volumi di lavoro ingenti


generavano troppa fatica. Abbiamo preferito ridurre il volume e aumentare
l’intensità, ricorrendo allo squat come stimolo di ipertrofia principale
anche per i distretti muscolari coinvolti nello stacco, e stimolare con il
lavoro mirato solo la forza massimale e la tecnica di esecuzione sport-
specifica.

Al termine di queste 3 settimane abbiamo fatto un test senza scarico,


nel quale abbiamo rilevato un miglioramento del massimale di riferimento
di tutte e tre le alzate.

Abbiamo dedicato le due settimane che ci separavano dalla gara al


picco di intensità. L’obiettivo era ottenere il massimo stimolo sport-
specifico e uno scarico pre-gara volto a dissipare la fatica in eccesso. La
struttura è stata la stessa che abbiamo già visto, mentre i parametri di
volume e intensità sono stati i seguenti:
Il total previsto in gara era di 705kg, così suddiviso: 267,5kg di squat;
177,5kg di panca; 260kg di stacco.

Il giorno della gara Matteo ha totalizzato 270kg di squat, 177,5kg di


panca e 260kg di stacco, per un totale di 707,5kg: la sua miglior
performance di sempre, nonché la prima medaglia d’oro in una gara
completa, sia di livello nazionale che internazionale (con 2,5 kg in più del
total previsto).

Dopo la gara avevamo 6 settimane per preparare quella successiva.


Questa volta, però, disponevamo di diversi dati utili a pianificare al meglio
il protocollo. Abbiamo optato per un incremento della frequenza della
panca, con l’aggiunta di serie con carico e numero di rep autoregolati[43].
La gestione delle variabili è stata la seguente:
Si possono vedere un ulteriore calo nello stacco a favore dello squat e
un notevole incremento nella panca (dovuto all’aggiunta di una sessione
settimanale). Dell’intera programmazione, questo è stato il blocco che ha
dato più risultati: un incremento dei massimali teorici di tutte e tre le
alzate.
Anche in questo caso le ultime due settimane hanno mantenuto la
stessa struttura, con un picco di intensità seguito da un test pre-gara.

Struttura:
Il totale previsto in gara era di 715kg, così suddiviso: 270kg di squat;
180kg di panca; 265kg di stacco.

Il giorno della gara Matteo ha totalizzato 275kg di squat, 177,5kg di


panca e 265kg di stacco, per un totale di 717,5kg: un nuovo record (e con
2,5 kg in più del previsto); e il suo miglior posizionamento di sempre agli
open: secondo posto.

Visto il “rammarico” per il mancato obiettivo in panca – dovuto per


altro a un problema delle scarpe di Matteo –, abbiamo deciso di ripetere la
settimana di picco pre-gara e di partecipare, solo due settimane dopo, al
campionato italiano di panca piana.
Matteo è arrivato secondo, sollevando 182,5kg (nuovo record
personale) e superando l’attuale record italiano di panca piana in gara
completa.

Ora stiamo procedendo a una lunga fase di accumulo. L’obiettivo è


“riempire” la categoria di peso per alzare ulteriormente l’asticella delle
prestazioni agonistiche. Inoltre, stiamo lavorando allo stacco sumo per
appianare il dislivello tra squat e stacco.

CASO DI STUDIO NUMERO 2

Atleta: Filippo d’Albero

Caratteristiche:

Peso Corporeo: 76kg ca.

Anzianità di allenamento: >5 anni

Livello: powerlifter a metà della classifica nazionale

Obiettivo: migliorare il total nel powerlifting per migliorare i


piazzamenti nazionali; migliorare la composizione corporea e l’estetica;
ottenere un piazzamento di rilievo nel prossimo campionato nazionale di
stacco da terra.

Ho scelto di portare uno scorcio del mio percorso come esempio anche
perché, a differenza di Matteo, preferisco lavorare in autoregolazione. Può
perciò essere interessante vedere come, sebbene il coach sia lo stesso
(ebbene sì: io), gli approcci possano essere diversi a seconda delle
esigenze.

Come sappiamo, una volta fissato l’obiettivo cerchiamo di


“fotografare” la situazione attuale per scegliere come procedere. Il mio
passato agonistico negli sport di forza mi ha causato non pochi infortuni e
disturbi. Un infortunio che mi limita particolarmente nell’allenamento
quotidiano – e in particolare nel powerlifting – è quello alle spalle. Fin
dall’infanzia soffro di lassità legamentosa a entrambe le spalle: da
bambino ero in grado di lussarmele e riposizionarle, e lo facevo spesso per
gioco. Questo, sommato a un carente tono muscolare della zona, ha fatto sì
che l’articolazione fosse soggetta a lussazioni e sublussazioni.

Nel mio periodo agonistico nelle MMA e nella lotta ho subito molti
infortuni alle spalle, dai quali sono derivate una lesione del cercine della
spalla destra pari all’85%, la lesione di Hill-Sachs e una lesione di tendini
e legamenti dell’articolazione. Ho subito due operazioni, e ad oggi vanto
un innesto osseo con viti in titanio, una protesi alla testa dell’omero e vari
“aggiustamenti” di tendini e legamenti.
Avrei dovuto subire la stessa operazione anche alla spalla sinistra, ma
per via di grosse difficoltà nel periodo post-operatorio ho preferito evitare.
Da qui è iniziato il mio percorso con i pesi, inizialmente volto a
riabilitarmi per gli sport da combattimento.

Una digressione tanto lunga potrebbe sembrare inutile, ma mettere a


fuoco la storia sportiva di ogni atleta è importante per capirne i limiti, le
esigenze e, dunque, per prendere le decisioni migliori.

La mobilità in extra-rotazione delle mie spalle è molto limitata, in


particolare quella della destra – ho una placca di osso che limita i
movimenti dell’articolazione per evitare nuove lussazioni. La mobilità
limitata e la fragilità e scarsa stabilità dell’articolazione mi provocano
molti fastidi; e mi infortuno facilmente con i movimenti di squat e panca.
Con il tempo ho capito che uno dei miei limiti più grandi è la quantità di
volume sostenibile nella singola seduta di queste due alzate. Ecco il primo
aspetto di cui tenere conto: necessito di spezzare il volume necessario a
progredire in più sessioni, così da poterlo tollerare senza infortuni o
infiammazioni.

Poiché ho uno studio di personal training nel quale trascorro quasi tutte
le mie giornate, posso permettermi di allenarmi come e quando voglio,
purché i miei impegni lavorativi lo consentano. Necessitando di diverse
sessioni e non avendo molto tempo da dedicare ai workout giornalieri, ho
deciso di stabilire una frequenza allenante di 5 volte a settimana, riducendo
il volume della singola sessione e con esso il tempo necessario a espletarla.
I miei fastidi articolari sono legati anche al carico. Vincoli di tempo e
vincoli di carico mi hanno spinto a concentrarmi sulla densità degli
allenamenti: i miei recuperi (che sono brevi per un powerlifter) mi
impongono l’uso di carichi medi inferiori, ma mi permettono di
accumulare più volume nel poco tempo a disposizione.

Notate bene: ho mostrato pima due variabili che negli altri esempi
hanno rilevanza minore. Questa è la prova che sono le nostre esigenze a
sancire la rilevanza di una variabile che in altri casi potrebbe essere
secondaria.

Abbiamo così fissato i primi tasselli della mia programmazione:

▪ 5 allenamenti settimanali da 1h30min, per un totale di 7,5h


settimanali di allenamento;

▪ massimo volume tollerabile per seduta di squat e panca: 3-4 serie;

▪ alta frequenza di squat e panca;

▪ alta densità allenante, per ovviare al poco tempo disponibile.

Parliamo ora di volume: quanto me ne occorre?


Nel mio caso, squat e panca hanno sempre avuto un miglioramento
proporzionale al volume che ci dedicavo; ma il volume che produceva
progressi si traduceva spesso in infortuni.
Il massimo rateo di progressi nello squat l’ho avuto tra le 13 e le 18
serie allenanti settimanali, mentre per la panca tra le 16 e le 20. Il volume
dedicato allo stacco è molto limitato: rispondo meglio a volumi ridotti e
intensità medie elevate; la maggior parte del volume e dello stimolo
ipertrofico per le gambe lo accumulo con lo squat.

Analizzando questi elementi, ho pianificato una prima fase di


accumulo, formata da due onde di volume. Alla fine della prima – con una
progressione lineare delle ripetizioni per serie –, avrei adattato il volume
del blocco successivo in base ai risultati ottenuti nelle singole esecuzioni
pesanti.

La ripartizione settimanale delle 3 alzate è stata:


▪ Squat ➔ 13/16 serie settimanali, con un massimo di 3/4 serie per
sessione → 4 sessioni allenanti settimanali (16/4=4)

▪ Panca ➔ 16/20 serie settimanali, con un massimo di 3/4 serie per


sessione → 5 sessioni settimanali (20/5=4)

▪ Stacco ➔ 9 serie allenanti settimanali. Preferisco una bassa


frequenza: lo stacco influenza molto il recupero necessario → 2
sessioni settimanali; una da 5 serie e una da 4.

Poiché voglio una programmazione sport-specifica, riservo sempre


almeno un giorno a settimana all’allenamento delle tre alzate, nel mi
concentro sul lavoro tecnico. Questo mi serve per perfezionare
l’esecuzione e le abilità coordinative e motorie, nonché per dissipare fatica
tra il giorno di ipertrofia e quelli di forza.

Le sessioni di forza di squat e stacco sono separate, ma non alleno mai


lo stacco senza aver fatto priamo uno squat o una sua variante, così da
abituarmi ad affrontare l’alzata con le gambe affaticate come avverrà in
gara.
Il mio obiettivo è diventare più forte, per questo la selezione degli
esercizi accessori è secondaria alla programmazione principale. Ad ogni
modo, arricchisco il lavoro di powerlifting con esercizi accessori che mi
permettano di sviluppare un corpo più bilanciato e armonioso, e che
combattano gli aspetti posturali negativi dovuti alla pratica sport-specifica.

CASO DI STUDIO NUMERO 3

Atleta: Alberto Stella

Caratteristiche:
Peso Corporeo: 83kg c.a. ad inizio collaborazione

Anzianità di allenamento: >3 anni

Livello: Bodybuilder amatoriale


Obiettivo: debuttare nella prima gara di Men’s physique con la miglior
condizione possibile.

Includo il suo protocollo perché Alberto è stato il primo atleta seguito


dal nostro team a gareggiare nel bodybuilding, guadagnando ben 3
medaglie in competizioni nazionali. Abbiamo così la conferma che
l’approccio ibrido funziona anche nei casi in cui l’obiettivo è l’estetica.
Ho iniziato ad allenare Alberto nel dicembre del 2018, quando si è
presentato da me con una buona fisicità e molto potenziale. I fattori che
necessitavano di maggiore lavoro erano:
▪ skill motorie;

▪ forza generale;

▪ ipertrofia generale.

Alberto aveva una struttura eccezionale; mentalità e capacità di


esprimersi in palestra valide; naturalezza ed eleganza nel posing innate.
Per dire meglio: mi sono trovato tra le mani una tela da disegno
eccezionale. Per prima cosa, ho scelto di accumulare colori sulla
tavolozza.
Alberto aveva buone linee, però mancava di spessore. In più, notai scarsa
competenza negli schemi motori di base. Pensai che il suo potenziale
ipertrofico fosse limitato da un basso rendimento tecnico nelle alzate, che
precludeva l’efficacia del volume accumulato. Decisi pertanto di ridurre
drasticamente il numero di esercizi per un periodo abbastanza lungo, e di
concentrarsi sui movimenti multi-articolari di cui doveva migliorare
l’esecuzione. Una tecnica più precisa avrebbe giovato alle esecuzioni di
tutti gli esercizi. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, ci siamo
concentrati sulla forza: una scelta difficile da digerire per i miei
powerlifter, che spesso devono concentrarsi sull’ipertrofia.

La struttura del suo allenamento è stata la seguente:


Ricorda il programma di base di un powerlifter, non è vero? Se vi state
chiedendo perché l’abbia pensato per un bodybuilder, inizio a rispondervi
mostrando l’aumento dei suoi massimali.

Questo miglioramento, dovuto a una qualità esecutiva sempre più alta,


ha determinato uno sviluppo ipertrofico notevole. Inoltre, il lavoro di
squat, panca e stacco ha fatto crescere lo spessore del tronco grazie a un
aumento dell’ipertrofia del petto e degli erettori spinali.

Da un protocollo tipico del powerlifting ci siamo spostati all’approccio


ibrido.
Concluso questo protocollo, abbiamo deciso di debuttare nel Men’s
physique, quando Alberto ha sofferto un infortunio durante lo stacco per
un errore tecnico (amplificato dalla forte perdita di peso).
Quando abbiamo iniziato a preparare la gara, lo sviluppo ipertrofico
generale era stato notevole, ma alcuni distretti muscolari richiedevano
maggiore attenzione, poiché molto rilevanti nella valutazione di una
competizione come il Men’s physique. Grazie al lavoro di powerlifting,
schiena, petto e gambe erano molto sviluppati; abbiamo quindi dedicato il
lavoro degli ultimi mesi al blocco spalla-braccio, cercando di portarlo allo
stesso livello del resto del corpo per presentare il classico v-shape
accentuato – caratteristica fondamentale nella categoria in cui gareggiava
Alberto. In quel periodo, Riccardo Padovan è entrato ufficialmente nel
nostro team. Esperto di bodybuilding ed esercizi accessori, ci ha affiancato
nella preparazione di Alberto, prendendone le redini nelle ultime fasi
prima della gara. Cambiare il focus ha modificato la struttura
dell’allenamento in questo modo:
Gli ultimi mesi prima della gara, dedicati a un lavoro specifico sui
gruppi carenti e determinati dal lavoro di forza e ipertrofia delle prime fasi,
hanno permesso ad Alberto di salire sul palco nella migliore condizione
possibile, guadagnando il secondo posto alla selezione Nord Italia NBFI
2019 (sia come junior che come open) e il secondo posto al Campionato
Italiano NBFI 2019 (a un solo punto di distanza dal vincitore). Un debutto
nel bodybuilding che non avrebbe potuto inorgoglirci di più.
RINGRAZIAMENTI
Siamo arrivati alla fine di questo manuale. Spero che ciò che ho
provato a trasmettervi sia arrivato forte e chiaro, e che possiate utilizzarlo
per strutturare protocolli di allenamento intelligenti ed efficaci con cui
esprimere al meglio il vostro potenziale.
Se state leggendo queste righe significa che avete avuto fiducia in me e
nel mio lavoro comprando il libro, e che siete arrivati alla fine: vi ringrazio
con tutto il cuore. Per me non è scontato e significa molto.

Con sincero affetto,


Filippo.
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in Medicine and science in sports and exercise, 45: 2158-2165, 2013.

Wernbom M., Augustsson J., and Thomee R., The influence of


frequency, intensity, volume and mode of strength training on whole
muscle cross-sectional area in humans, in Sports medicine (Auckland,
NZ) 37: 225-264, 2007.

Zourdos M.C. et al., Modified dup model produces greater


perfomances than a tradizional configuration in powerlifter, in The
Journal of Strength and Conditioning Research 2016
NOTE

[1] In questa sede, al termine “forza” si è preferito il termine “prestazione”, al fine di non
generare l’errata idea che con i sovraccarichi si lavori unicamente per la forza e per l’estetica,
quando, in realtà, esistono anche lavori incentrati sull’endurance muscolare e sull’esplosività.

[2]Per semplicità ed esigenze di brevità utilizzeremo qui la definizione di powerbuilder per tutti gli
atleti con un obiettivo ibrido e a tutti gli utenti medi delle palestre.

[3] Lo studio è reperibile al seguente link: https://www.massmember.com/products/mass-


subscription/categories/647954/posts/2101730

[4] Lo studio è reperibile al link


https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/17461391.2011.643923.

[5] Questa visione è di certo semplicistica, ma serve a dare un’immagine di ciò a cui ci si
riferisce con l’espressione “tensione meccanica”.

[6] L’elemento k racchiude tutti i fattori che abbiamo esposto fin qui in questo capitolo.

[7] questo è particolarmente vero per movimenti come la panca piana e lo squat.

[8] Brechue WF1; Abe T (2002), https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11990746

[9] René Koopman; Luc J. C. van Loon (2009), http://jap.physiology.org/content/106/6/2040

[10] Questo paragrafo è una rivisitazione dell’articolo di Eric Helms reperibile su


https://3dmusclejourney.com/. Poiché ritengo si tratti di uno dei contributi scientifici più chiari ed
efficaci, lo riporto (in italiano) senza eccessive modifiche, al fine di renderlo fruibile al maggior
numero di lettori possibile.
[11] Con frequenze di 3 o più sedute settimanali non si è riscontrato un miglioramento
statisticamente rilevante.

[12] Ripetizione massimale, ovvero il massimo carico con cui riusciamo a eseguire una e non
più d’una ripetizione.

[13] Changes in exercises are more effettive than in loading schemes to improve muscle
strength, Fonseca, R.M., et al., J Strength Cond Res, 2014. 28(11): p. 3085-92 e ripreso in The
muscle strength and training pyramid di Eric Helms (cfr. bibliografia di riferimento).

[14] È chiaro che, prima del V.I.F., il primo passo deve essere stabilire gli obiettivi. Tuttavia,
vista la rilevanza di questo passaggio, abbiamo deciso di riservargli un capitolo specifico (cfr. cap.
4).

[15] Bisogna osservare che, nonostante alcuni studi (mediante l’uso di EMG) dimostrino che le
croci con manubri generano un’attività maggiore nel gran pettorale, la qualità dell’esecuzione della
panca piana ha un notevole impatto nel coinvolgimento del muscolo target durante l’alzata.
L’importanza del gesto tecnico vale chiaramente anche per le croci: affinché l’esercizio sia
proficuo, l’esecuzione deve essere il più precisa possibile. Quale che sia l’esercizio scelto,
un’esecuzione poco accurata ne comprometterebbe i risultati.

[16] Il che è vero solo in parte: la tensione meccanica è comunque fondamentale per lo stimolo
ipertrofico. Quando si va su un numero di ripetizioni molto alto, il carico non deve decrescere al
punto da rendere non allenante la serie; altrimenti ci sarebbe possibile crescere sollevando una
penna per tantissime volte, ma questo non accade.

[17] In particolare uno studio sulla frequenza delle alzate della squadra di powerlifting
norvegese, di cui si trovano l’abastract e il link per la lettura qui:
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/m/pubmed/29324578/

[18] S’intende che gli esempi siano molto riduttivi. Il loro scopo serve solo a rendere un’idea
generale di ciò di cui si sta parlando.

[19]
Come anticipato, quest’alternanza di stimoli genera un circolo
virtuoso, in cui l’una fase è propedeutica all’altra e ne viene poi
positivamente influenzata.
[20] Io stesso prediligo, nella programmazione personale, questo metodo.

[21] I numeri sono solo esemplificativi

[23] Traducibile in italiano con “Rateo di Sforzo Percepito”.

[24] A seconda del profilo psicologico dell’atleta, potremmo trovarci di fronte a persone che
sottostimano o sovrastimano il loro massimale.
[25] Per approfondire il D.U.P. si invita il Lettore a fare riferimento all’introduzione del
capitolo 5 – V.I.F.

[26]
A questa stima, dobbiamo mettere in conto di aggiungere anche il
tempo impiegato per lo stretching e il riscaldamento.
[27] Vale anche in questo caso il consiglio di non interpretare quanto esposto come un dogma;
non voglio consigliare a chiunque di eseguire le alzate con elevata frequenza nell’arco della
settimana: la frequenza con cui si allena un’alzata deve essere scelta tenendo a mente tre principi
generali:
- quantità di volume necessario per progredire;
- impatto sulla fatica;
- frequenza minima per generare adattamenti positivi.
[28] Per una trattazione più dettagliata a questo proposito, cfr. infra cap. 6.

[29] Ovviamente, qui si fa riferimento al primo approccio con un atleta che non conosciamo.
Qualora lo conoscessimo o avessimo strutturato - in precedenza - altre sue programmazioni,
avremmo dati di partenza a cui rifarci per basare le nostre analisi.

[30] Magari verso la fine, così da essere certi di aver dissipato sufficiente fatica.

[31] Si
noti che la progressione del carico allenante avviene tra la prima
e la seconda settimana.
[32] Nel powerlifting si hanno tre tentativi per sollevare il massimo carico possibile.

[33] In particolare la meta-analisi di Brad Schoenfeld.

[34] Per aumentare l’ipertrofia si può fare ricorso a queste tecniche di allenamento. Tra di esse,
consiglio soprattutto i jump-set, in quanto esiste un discreto bacino di ricerche che ne evidenzia le
proprietà. Quali? La differenza principale tra i jump-set e le altre tecniche, per esempio i super-set,
è che nei primi non si ha un altrettanto evidente deterioramento della tecnica nel tempo, dal
momento che nei jump-set si accostano movimenti di due gruppi muscolari diversi, antagonisti tra
loro, le cui esecuzioni consentono, alternatamente, il riposo dell’altro, favorendo una tecnicità
superiore ed un carico medio utilizzato più alto.
[35] Per ottimizzare la risposta ipertrofica è comunque consigliato
stimolarlo in entrambi i modi.
[36] Ognuna di queste variabili necessita di tempi differenti per dissipare la fatica accumulata
ed essere ripristinata.
[37] I concetti fisiologici analizzati sono stati presi dal libro Scientific principles of training del
Phd Mike Israetel
[38] Per ciascun blocco, abbiamo evidenziato la variabile cui è dedicato primariamente.

[39] Per facilitare la consultazione, suddividiamo gli atleti in tre possibili categorie, cosicché
ciascun lettore possa individuare più comodamente la propria.
[40] Quali struttura e leve perfette per queste alzate e capacità coordinative ed esecutive
eccellenti

[41] Salvo diversa indicazione, per tutti gli esercizi di questo capitolo consiglio di preferire un
RPE tra il 7 e il 9, poiché le esecuzioni devono essere curate e non si deve mai arrivare a cedimento.

[42] Si tratta di un campionato di massimo rilievo nazionale.

[43] Matteo era molto più competente nelle serie a basse ripetizioni, e le prescrizioni di alte
ripetizioni non venivano quasi mai rispettate.

Alcuni riferimenti dettagliati sono già presenti nel testo. In questa sezione si elencano manuali,
[44]

paper e pubblicazioni che mi sono stati utili nella stesura del volume, alcuni dei quali (come per es.
alcuni studi del dottor Schoenfeld) ho ampiamente citato, e di cui consiglio la lettura per
approfondire gli argomenti trattati.

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