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Fotografare significa scrivere con la luce. Come qualsiasi altra forma di scrittura anche la
fotografia possiede una propria grammatica ed un proprio lessico, che bisogna conoscere.
L’invenzione della fotografia fu messa a punto negli anni trenta del XIX secolo ad opera di un
francese, Nicephore Niepce, che da anni sperimentava la capacità di alcune sostanze di reagire
all’azione della luce. Sfruttando le conoscenze secolari sulle proprietà della camera obscura,
Niepce perfezionò un sistema di sensibilizzazione di una lastra di stagno mediante l’utilizzo di
Bitume di Giudea.
L’invenzione di Niepce fu perfezionata negli anni successivi dal lavoro congiunto con Louise
Daguerre, altro inventore francese, ritenuto da Niepce un esperto di ottica, famoso per avere
sperimentato qualche anno prima il diorama.
Ai due francesi, dobbiamo aggiungere l’inglese Henry Fox-Talbot, che negli stessi anni, e in
assoluta indipendenza, compiva le stesse scoperte, giungendo ad un risultato molto simile al
procedimento odierno (negativo-stampa).
Dalla collaborazione dei due nacque un procedimento fotografico, su rame, definito in un secondo
momento Dagherrotipo, che presto ebbe una larghissima diffusione in tutto il mondo, dando a
Daguerre un’enorme notorietà e relegando Niepce, a causa della sua prematura scomparsa, nel
dimenticatoio.
Fotografia come magia
La fotografia, concepita come autoritratto della natura, nasceva non più dall’abilità del pittore ma
dalle possibilità di quei mezzi tecnici che avrebbero cambiato l’immagine per sempre.
Fino ad allora l’immagine era stata considerata sempre un artificio, per quanto fatto ad arte. Con
l’invenzione della fotografia aumentò la fiducia dell’uomo nella sua possibilità di comprendere e
domare la natura, conferendo al suo prodotto una dose maggiore di naturalità.
La fotografia creò un’assoluta rivoluzione nel campo delle arti figurative:
a) Che cosa sarà d’ora in poi la somiglianza?
b) Quando la fotografia potrà diventare creativa al pari della pittura?
c) Potrà mai essere considerata arte?
Queste erano le prime domande che investirono il mondo della fotografia, alle quali ne seguiranno
molte altre.
Secondo Andrè Bazin: “tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo; solo nella fotografia ne
godiamo l’assenza”. I fotografi da sempre hanno cercato di riempire il vuoto causato da questa
“assenza”, aggirando il carattere marginale del loro contributo al risultato finale, tentando di ridurre
il coefficiente di indeterminazione, tipico della fotografia, giungendo spesso a risultati che
tradiscono lo specifico fotografico
Le scelte operative del fotografo
Secondo i “benpensanti” la fotografia non poteva essere accolta nell’elite delle arti visive perché
fortemente dominata del suo aspetto meccanico (Croce). Svalutata e ridotta a mestiere praticato dai
delusi della pittura (Baudelaire), la fotografia pian piano seppe conquistarsi il posto di riguardo che
le spettava nel panorama delle arti figurative.
Ben presto, infatti, vennero comprese tutte le sottili e importanti scelte operative che il fotografo era
tenuto a compiere per far sì che il suo prodotto visivo fosse grammaticalmente e sintatticamente
corretto.
Sotto il nome di scelte operative del fotografo vanno le seguenti operazioni:
a) Scelta dello strumento fotografico (tipo di macchina fotografica);
b) Scelta dell’ottica (tipo di obiettivo);
c) Scelta della pellicola (tipologia, formato e sensibilità della pellicola);
d) Scelta del punto di vista (posizionamento del fotografo rispetto al soggetto);
e) Disposizione degli elementi (inquadratura e composizione);
f) Interventi successivi allo scatto (fotomontaggi, ritocchi manuali o digitali);
g) Formato di stampa (possibilità di effettuare ingrandimenti);
Gli strumenti della fotografia: obiettivi
Lunghezza Focale
La lunghezza focale è la distanza fra il centro ottico dell’obiettivo e il piano della pellicola quando
l’obiettivo proietta l’immagine di un punto così lontano per cui anche le radiazioni più esterne del
primo cono luminoso si possono considerare parallele fra loro. La lunghezza focale è, in pratica, la
minima distanza fra obiettivo e pellicola, è espressa in mm e definisce l’angolo di ripresa
dell’obiettivo.
Obiettivi Normali: I cosiddetti “normali” sono quegli obiettivi che hanno una lunghezza focale pari
alla lunghezza della diagonale della pellicola corrispondente.
Esempio: 24x36 = 50mm; 6x6 = 80mm; 6x7 = 90mm
Sono degli obiettivi di norma molto luminosi e otticamente corretti, che conferiscono alla
fotografia una distribuzione dei piani del tutto simile a quella percepita dall’occhio umano ed hanno
un angolo di campo di circa 45°.
Obiettivi Grandangolari: Si definiscono grandangolari tutti quegli obiettivi che hanno lunghezza
focale inferiore a quella dell’obiettivo normale di riferimento.
Esempio: Per il sistema fotografico che adotta la pellicola 135 (24x36) gli obiettivi grandangolari
più diffusi sono: 35mm, 28mm, 24mm, 20mm etc.
Sono degli obiettivi di norma molto luminosi ma otticamente non sempre corretti, che conferiscono
alla fotografia una distribuzione dei piani allungata rispetto a quella percepita normalmente
dall’occhio umano ed hanno un angolo di campo superiore ai 45° (fino a 180° ed oltre).
Teleobiettivi: Si definiscono teleobiettivi tutte quelle ottiche fotografiche che hanno lunghezza
focale superiore a quella dell’obiettivo normale di riferimento.
Esempio: Per il sistema fotografico che adotta la pellicola 135 (24x36) i teleobiettivi più diffusi
sono: 85mm, 135mm, 180mm, 300mm, 400mm etc.
Sono degli obiettivi di norma poco luminosi ma otticamente abbastanza corretti, che conferiscono
alla fotografia una distribuzione dei piani schiacciata rispetto a quella percepita normalmente
dall’occhio umano ed hanno un angolo di campo inferiore ai 45° (fino a 4° ed oltre).
Apertura Massima del Diaframma
La massima apertura del diaframma indica il valore massimo che compare sull’apposita ghiera
posta su qualsiasi obiettivo (eccezion fatta per quelli di ultimissima generazione in cui detta ghiera è
assente). Questa caratteristica è legata alla possibilità di scattare fotografie in presenza di poca luce
e perciò viene anche definita come la massima “luminosità” dell’obiettivo.
Tempi e diaframmi
Le condizioni di luce che trova un fotografo nelle diverse situazioni di ripresa sono infinite (luce del
sole, pioggia, nebbia, interni luminosi e interni bui). E’ necessario per ottenere una fotografia
correttamente esposta regolare il passaggio della quantità di luce attraverso l’obiettivo, azionando
un apposito meccanismo a lamelle chiamato diaframma.
Oltre la quantità di luce che andrà ad impressionare la pellicola dobbiamo tener conto del tempo in
cui questa quantità data di luce colpirà la pellicola. Lo strumento che regola il tempo di esposizione
si trova all’interno della macchina fotografica e si chiama otturatore.
Quando sulla nostra pellicola giunge la giusta quantità di luce la fotografia sarà correttamente
esposta. Se giungerà una quantità minore della luce necessaria la fotografia si dirà sottoesposta, in
caso contrario, la fotografia si dirà sovraesposta.
La scelta della coppia giusta fra le due variabili dell’esposizione (tempo e diaframma) è regolata
dall’esposimetro (sistema elettronico di controllo luminoso posto internamente alla macchina
fotografica), una volta che abbiamo impostato la sensibilità della pellicola (terza variabile
dell’esposizione).
La scelta di un diaframma più o meno chiuso o più o meno aperto inciderà direttamente sulla
profondità di campo (valori numerici del diaframma indicati dalla lettere f: 1,8 – 2,8 – 4 – 5,6 – 8 –
11 – 16 – 22).
La scelta di un tempo più o meno lungo o più o meno breve inciderà direttamente sulla resa
dinamica del soggetto ripreso (valori numerici dei tempi di otturazione espressi in frazioni di
secondo: 1” – 2 – 4 – 8 – 15 – 30 – 60 – 125 – 250 – 500 – 1000 ….).
Profondità di campo
Definiamo “campo” di una fotografia lo spazio in essa rappresentato, da quello più vicino a quello
più lontano.
Immaginiamo una semiretta che, lungo l’asse di ripresa, arrivi all’infinito: si definisce “profondità
di campo” la zona che, lungo questa immaginaria semiretta, apparirà esattamente nitida nella foto.
L’estensione della profondità di campo, cosa diversa dalla messa a fuoco, si determina
diaframmando. A valori “aperti” di diaframma corrisponderà una scarsa profondità di campo, a
valori “chiusi” corrisponderà un’elevata profondità di campo.
Gli strumenti della fotografia: pellicole
Le pellicole sono i supporti su cui si imprime l’immagine fotografica.
Sono costituiti da un sottile strato plastico emulsionato con sostanze fotosensibili e differiscono per
: a)Tipologia (negativo bianconero, negativo colore, diapositiva a colori);
b)Sensibilità (da 25 a 3200 ISO ed oltre);
c)Formato (135, 120, APS, Pellicola Piana).
La luce in fotografia
Le sorgenti luminose utilizzabili in fotografia sono:
a. Luce solare;
b. Luce continua;
c. Luce flash.
Al momento di realizzare una fotografia dobbiamo sempre tenere conto della o delle sorgenti
luminose presenti, valutandone l’intensità, la direzione e la temperatura colore.
La luce ha sempre un colore, anche quando non ce ne accorgiamo. Tale colorazione si chiama
dominante cromatica ed è un fattore di cui tener conto al momento dello scatto. La temperatura
colore si misura in gradi Kelvin (K). Una luce neutra, con nessuna colorazione in particolare,
corrisponde a circa 5.500 K
La luce continua
L’illuminazione continua è utilizzata di norma in sala di posa ed è creata per mezzo di illuminatori
specifici con lampade al tungsteno con temperatura colore compresa tra 3400 e 3200 K.
Esistono in commercio da alcuni anni degli illuminatori a tubi fluorescenti, con temperatura colore
di 5500 K.
L’effetto di tutte le fonti di luce continua può essere direzionato, amplificato o ammorbidito per
mezzo di paraluce, bank, softbox e pannelli riflettenti
La luce flash
L’illuminazione flash è utilizzata sia in sala di posa che in esterno.
Esistono due tipi di flash quelli a torcia, strettamente collegati con la macchina fotografica (potenza
espressa in NG) e quelli professionali da studio (potenza espressa in w/s).
Conoscendo il NG dei flash a torcia e impostato il tempo sincro nella macchina fotografica
possiamo ricavarci l’ultimo parametro necessario con questa semplice formula:
f = NG/m
L’effettiva luce emessa dai flash professionali da studio (espressa in w/s) si misura con degli
strumenti specifici chiamati esposimetri.
Come con le lampade a luce continua anche la luce dei flash può essere direzionata e ammorbidita
con l’utilizzo di parabole, softbox e ombrelli.
Primi utilizzi professionali della fotografia
Determinante alla rapida diffusione della fotografia fu la voglia, tutta borghese, di possedere una
propria immagine “lasciata come un’impronta dei propri tratti, dettagliata, sicura, precisa”. Intesa
come rappresentazione e soprattutto auto-rappresentazione di quella classe sociale in crescita di
aspirazioni, presenza e potere. Già negli anni quaranta del XIX secolo aprirono i battenti nelle
grandi città atelier fotografici dedicati esclusivamente al ritratto. Questi ambienti, confacenti al
decoro borghese, si arricchirono sempre più di mezzi tecnici per la “produzione seriale” delle
immagini.
Dove non esistono atelier permanenti, passano con regolarità fotografi itineranti che impiantano
improvvisati studi fotografici, nei quali comincia a sfilare una clientela sempre più allargata e
sempre più popolare. In tale situazione il canone estetico diventa la “fretta”. Si lascia poco spazio
alla rappresentazione accademica e, molto semplicemente, i corpi si stagliano su sfondi uniformi e
neutri, privi di riferimenti pregnanti e caratterizzati grazie all’ausilio di quei pochi oggetti che il
modello porta con sé. Sono questi gli anni dei grandi sommovimenti sociali, ideologici e culturali
che attraversano tutta l’Europa. Questi cambianti investono anche la fotografia, contribuendo,
ulteriormente, alla sua diffusione
Il primo ritratto pubblicitario
Nel 1875 il filantropo inglese Thomas John Barnardo, per promuovere l’attività dell’orfanotrofio da
lui diretto, sperimentò una sottile forma di pubblicità, ritraendo i suoi giovani ospiti sia al momento
dell’arrivo che al momento dell’adozione.
La straight photography
Con The Steerage Alfred Stieglitz propone una visione fotografica diretta e spoglia, asciutta al
limite della brutalità, documentaria come atto di registrazione: assolutamente e unicamente pura.
Il modernismo fotografico
Il modernismo imboccò la strada dell’attenzione estrema alla forma, che passa attraverso la
forzatura, sia tecnica, sia dello sguardo, per evidenziare posizioni e sperimentare nuovi modi di
visione del mondo. La fotografia cominciava a scardinare la sua immagine tradizionale, passando
attraverso l’accentuazione del suo carattere frammentario, rifiutando la centratura dell’immagine,
evidenziando il taglio che esclude e non circoscrive.
L’immagine non fu più concepita come ricerca compositiva mirante all’armonia estetica interna, ma
come luogo di confronto di forze e di forme, che da loro contrasto disarmonico suggeriscono
rapporti nuovi tra le forme stesse. Prevale la frammentazione del corpo, realizzata attraverso tagli
molto ravvicinati e arditi. Le parti del corpo evidenziate vengono sovraccaricate visivamente,
eroticamente e esteticamente.
Fotografia e Pop-Art
Gli anni sessanta sono il decennio del consumo e dell’immaginario. A livello artistico trionfa la Pop
Art che assume come proprio argomento le immagini del consumo, il consumo stesso e i
meccanismi di produzione. La fotografia divenne uno dei medium privilegiati, un oggetto fra gli
oggetti del consumo di massa. Il maggior esponente dell’arte pop fu Andy Warhol.
Nascono i sex-simbol così come le pin-up: la seduzione è il mezzo, la vendita è lo scopo, la merce è
la forma. Il corpo è al centro, ogni immagine sembra rimandare ad esso. Le copertine delle riviste e
la pubblicità diffondono l’immagine di una donna desiderabile, il cui corpo si offre, nudo almeno in
parte, frammentato nel gioco della seduzione che mostra, scopre e nasconde con malizia. L’esempio
più conosciuto in quest’ambito è quello di Playboy e delle sue playmate .
La fotografia e il postmoderno
Secondo Lyotard il postmoderno segna la fine dei grandi racconti, dei sistemi di pensiero, per dare
spazio ai piccoli racconti, fatti di affermazioni e verità circoscritte e non sistematizzabili. In
quest’ambito, il corpo proposto, secondo Perniola, è un corpo superficie e inorganico, strumento di
una sessualità neutra, senza vita e senza anima. E’ un corpo “in tempo reale”, non è più l’immagine
ad assomigliare al corpo, ma sempre più il corpo ad assomigliare a un’immagine
La fotografia e il postorganico
Secondo Teresa Macrì: “i nuovi processi di ridefinizione dell’identità passano per l’innovazione
tecnologica in tutte le sue smisurate ellissi. Il corpo in costruzione è un’ibridazione fantastica tra
organico e inorganico, tra materia particellare e chip al silicio. Quello che il presente ci prospetta è
un corpo dalle contaminazioni molteplici e dalle funzionalità imprevedibili”.
Fotografia come linguaggio
Intesa come medium, cioè come linguaggio comunicativo, la fotografia possiede una sua
grammatica intrinseca, che la rende, quando questa viene applicata correttamente, un linguaggio
universalmente comprensibile.
Fotografare, etimologicamente, significa “scrivere con la luce”. Come qualsiasi altra forma di
scrittura, allora, anche la fotografia, per comunicare, cioè per “fare comune”, necessita dell’utilizzo
di alcune semplici regole morfologico-sintattiche.
Dal punto di vista lessicale, i suoi segni, o le sue parole, non vengono stabilite per convenzione, ma
sono diretta emanazione degli oggetti e dei soggetti ripresi e catturati dall’apertura dell’otturatore,
infatti, secondo Roland Barthes: “la fotografia è costituita dal fatto bruto del suo statuto di prova, di
testimonianza muta su cui non c’è niente da aggiungere”.
Durante le riprese fotografiche si utilizza il termine “esposizione” (dal latino ex-porre) che “esprime
benissimo l’idea del porre fuori qualcosa da un determinato contesto, in maniera tale che la cosa,
intesa come porzione della realtà, acquisti quella rilevanza che in precedenza, confusa tra il gruppo,
non poteva certo vantare, così che, strappata ai suoi normali rapporti di significazione, la cosa si
risemantizza”.
Fotografia e perdita dell’aura
Lo stretto rapporto tra oggetto e sua rappresentazione fotografica è stato materia di attenzione da
parte di Walter Benjamin che, partendo dalle condizioni fotografiche di riproduzione meccanica,
formulò, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, la famosa teoria della
perdita dell’aura, dando origine al relativismo storico della nozione estetica di originale.
L’aura costituisce la dimensione dell’autonomia dell’opera in rapporto al mercato e in rapporto al
valore di scambio. Privata dell’aura e quindi della sua autonomia estetica, un’opera d’arte diviene
un mero oggetto di scambio, prodotto per il consumo di massa.
Che cos’è esattamente l’aura? Essa è “un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione
unica di una lontananza. […] Ora, il bisogno di avvicinare le cose a se stessi, o meglio alle masse, è
intenso quanto quello di superare l’irripetibile e unico, in ogni situazione, mediante la sua
riproduzione. Giorno per giorno si fa valere sempre più incontestabilmente il bisogno di
impadronirsi dell’oggetto da una distanza minima, nell’immagine o meglio nella riproduzione”.
Benjamin, in accordo con il pensiero di Brecht, poneva attenzione all’avvento delle nuove tecniche
e al loro carattere di massa, da un angolo visuale per cui tale processo è considerato non solo
inevitabile, ma largamente positivo, in quanto pone termine a una concezione aristocratica dell’arte.
Fotografia come segno
Per Saussure tutti i sistemi culturali sono insieme di segni. Saussure stesso definì il segno come
l’unione di un significante e di un significato.
Nel caso della fotografia il significante è l’immagine visiva, il significato è l’immagine mentale.
La fotografia è comunque un sistema particolare di segni, che esprimono contorni e non concetti.
L’aspetto denotativo (la proprietà dei segni di designare un referente) è preminente rispetto a quello
connotativo (un significato secondario che si aggiunge a quello primario, che consente di dilatare
l’area di significazione di un segno).
Per mettere ordine all’interno del mondo dei segni il semiologo Charles Peirce operò una
classificazione sulla base delle relazioni tra segno e cosa:
a) icona (rappresenta l’oggetto per somiglianza);
b) indice (indica contiguità o connessione fisica e naturale);
c) simbolo (contiguità stabilita convenzionalmente).
Fotografia: messaggio senza codice
Secondo la classificazione peirceana la fotografia rientra nel secondo gruppo di segni: gli indici.
L’immagine fotografica di un oggetto o di una persona è la traccia indicale dell’oggetto o della
persona rappresentati. I contorni di luce dell’immagine fotografica sono la diretta emanazione della
realtà.
Sulla base di tali affermazioni Roland Barthes definì lo statuto della fotografia, come quello di un
messaggio senza codice. Se la fotografia è una traccia, non esiste un codice sovrastrutturale che
serva a tradurre i segni contenuti, ma gli stessi segni sono la spiegazione di loro stessi. L’immagine
di un oggetto è l’analogon del reale, ma non è il reale stesso, non si sostituisce mai all’oggetto
Infatti l’immagine fotografica opera per sottrazione: è un’operazione di tipo selettivo. Un
frammento di spazio e di tempo viene immobilizzato e tagliato fuori, attraverso l’inquadratura, da
tutto il resto.
Fotografia come messaggio
Il paradosso fotografico consisterebbe nella coesistenza di due messaggi: uno senza codice
(l’analogo fotografico) e l’altro con un codice (la retorica della fotografia).
Strutturalmente il paradosso non consiste nella collusione di un messaggio denotato e di un
messaggio connotato. Il messaggio connotato si sviluppa a partire da un messaggio senza codice.
Essendo costruita su un messaggio non codificato la fotografia, secondo Barthes, finirebbe per
presentarsi quale enigmatica ed inspiegabile collusione di naturale e culturale. Se non c’è codice
non c’è intervento umano, dunque il messaggio sarebbe di tipo naturale, viceversa nel momento in
cui scatta la connotazione c’è intervento dell’uomo e allora il messaggio diviene culturale.
Fotografia come messaggio
Alla percezione dell’immagine fotografica dà un grosso contributo la semiotica planare, che
analizza i linguaggi che fanno uso di un supporto bidimensionale. Secondo la semiotica planare il
testo visivo opera su due livelli:
a) figurativo, che determina la riconoscibilità delle rappresentazioni di oggetti e persone, in
relazione alla densità figurativa;
b) plastico, che determina le forme e i colori come si danno nella raffigurazione e nella
disposizione spaziale.
Per analizzare il livello plastico bisogna tenere conto di tre categorie:
a) topologiche (la disposizione degli elementi);
b) eidetiche (riguardano le forme degli oggetti, che a loro volta rimandano a convenzioni
sociali di senso. Le linee curve richiamano il femminile, quelle dritte il maschile, le oblique
il dinamismo o la caduta);
c) cromatiche (organizzate a partire dai tre colori primari - giallo, rosso e blu -da cui si
generano tutti gli altri, oppure dall’interazione del bianco e del nero).
Le idee centrali della fotografia
La fotografia, come possibilità di rappresentazione e di espressione, può essere utilizzata per
riprendere un’infinità di fatti naturali o artificiali. Ma al numero infinito di cose fotografabili non si
accoppia un numero infinito di idee da rappresentare. Una buona norma di qualsiasi forma di arte
visiva, per evitare di distrarre il fruitore, è quella di utilizzare una sola idea per volta.
Per mettere ordine nell’infinita possibilità di idee, utilizzeremo lo schema proposto da Nazareno
Taddei, che ha semplificato la materia come segue:
1. Idea documentaria;
2a. Idea narrativa-tematica;
2b. Idea narrativa-artistica;
3. Idea creativa
Idea documentaria
Le cose fotografate mantengono tutto il loro significato, si possono considerare come
COSE-OGGETTO. Il fotografo non è interprete, inventore o artista, ma è testimone. Protagonisti
delle fotografie di documentazione sono le cose e i fatti. Questa possibilità di rendere credibili cose
e fatti attraverso una rappresentazione fotografica è forse l’unico primato, e per di più difficile da
raggiungere, che la fotografia possiede.
Idea narrativa
Le cose fotografate mantengono in parte il loro significato, si possono considerare come
COSE-STRUMENTO. Il fotografo intende raccontare a modo proprio, esprimere giudizi, fare
valutazioni, indicare preferenze estetiche, proporre opinioni. Protagonista delle fotografie narrative
è il fotografo. Presentata così, però, l’idea narrativa assume contorni troppo vaghi, è dunque
necessaria una ulteriore distinzione in: idea narrativa-tematica e idea narrativa-artistica.
Con l’idea narrativa-tematica il fotografo cercherà di evidenziare idee che gli appartengono
(valutazioni, considerazioni, punti di vista, etc.).
Con l’idea narrativa-artistica il fotografo cercherà di evidenziare caratteristiche che appartengono
alle cose fotografate o alla loro disposizione nell’immagine (forme, colori, geometrie, accostamenti,
equilibri etc.).
Si noti come nei due casi l’idea di fondo resta la medesima: raccontare qualcosa sviluppando
caratteristiche latenti o evidenti della cose fotografate, che però mantengono anche nell’immagine
una parte dei loro significati diretti.
Idea creativa
Le cose fotografate sono occasioni per esprimere idee che con le cose stesse non hanno nulla a che
fare, le cose fotografate si possono infatti considerare COSE-PRETESTO. Il fotografo è un
operatore di creatività nella ricerca di forme non preesistenti, nella proposta di concettualità,
nell’invenzione di colori, nella magia di grafismi, collage, elaborazioni al computer, etc.
Protagonista di questo tipo di fotografia è appunto la creatività, ma intesa come valore in sé, anche
se, ovviamente, facente parte della fantasia del fotografo.
I tre livelli di significato
1° LIVELLO – Lettura dell’informazione materiale
L’informazione materiale di una fotografia evidenzia l’eventuale importanza della cosa fotografata.
Questa informazione materiale non va confusa con le foto fatte apposta per informare o
documentare: tutte le fotografie infatti, anche le più fantasiose, ci fanno conoscere qualcosa riferito
a ciò che nell’immagine è rappresentato. Il livello dell’informazione materiale, con il peso che il
tipo di foto gli assegnerà (massimo, elevato, scarso, medio, nullo) contribuirà a rendere evidente
l’idea centrale della fotografia e quindi il suo significato di comunicazione.
2° LIVELLO – Lettura del significato della fotografia
Il fotografo ha rappresentato il soggetto (cosa) in un certo modo affinché proprio attraverso il modo
(come) si arrivi a capire il significato (cosa + come = perché) della fotografia. Questo livello di
lettura è il sostanziale punto di arrivo della lettura intesa come comunicazione. Con questa lettura
comprenderemo l’idea che l’autore ha voluto comunicare, e quindi il segno fotografia avrà
adempiuto il suo compito.
3° LIVELLO – Lettura di un significato libero e personale
Succede spesso che una fotografia comunichi qualcosa oltre a ciò che l’autore desiderava
comunicare. Il colpevole è il lettore, che nella fotografia riconoscerà alcune cose che l’autore ha
inserito senza rendersene conto. Tali cose sono capaci di suscitare nel lettore sensazioni personali.
Questo livello può gratificare il lettore, ma spesso può allontanarci dalla comunicazione.
Indice e fotografia
Interessato all’indicalità dell’arte del XX secolo fu anche lo studioso dei media Philippe Dubois,
che identificò una coesistenza, alla tradizione estetica della mimesis, di un’estetica dell’indice, cioè
l’ “impossibilità di concepire il prodotto artistico senza includervi anche il processo di cui è frutto”.
Ma l’indice, per Dubois, si ferma allo stadio dell’ è stato, non si riempie di un vuol dire. La
referenzialità non esprime nessuna potenza di verità. “Per la sua genesi, la fotografia
necessariamente testimonia. Attesta ontologicamente l’esistenza di ciò che fa vedere. […] Ma ciò
non implica di per sé che essa significhi […] La fotografia non spiega, non interpreta, non
commenta. Essa è muta e nuda, piatta e opaca”.
Proseguendo nella sua ricerca Dubois si propose di dimostrare che “una parte molto importante
dell’arte contemporanea […] può essere considerata […] come un’evoluzione verso una
radicalizzazione della logica indicale, come se la fotografia, passato il tempo della sua affermazione
e della sua diffusione, una volta ben radicata la logica profonda e latente che la definiva, si fosse
messa a rivelare, a impregnare, a nutrire gli artisti”.
Secondo il pensiero di Franco Vaccari, il prodotto della macchina fotografica, l’immagine per
intenderci, è sempre un segno “già codificato”, perché si tratta di un “segno strutturato
dall’inconscio tecnologico del mezzo”, per la costruzione del quale intervengono, al momento dello
scatto, oltre all’inconscio tecnologico di cui si è fatta già menzione, anche l’inconscio sociale,
l’inconscio del fotografo ed anche, invadente e rumorosa, la “motivazione personale cosciente”.
A questa logica del segno il belga Henri Van Lier obietterà addirittura l’inconsistenza del suo
carattere di atto umano. Quella che noi chiamiamo fotografia è innanzitutto un’impronta, una
traccia prodotta da forze fisico-chimiche, “è una grafia della luce ad opera della luce stessa, che
l’uomo può soltanto raccogliere e provocare. I segni per Van Lier, analogici o digitali, sono sempre
segnali intenzionali, convenzionali e sistematici. Gli indici sono un particolare tipo di segni,
minimali, perché in sé non designano nulla, ma indicano soltanto. Per questa ragione Van Lier,
superando la tassonomia peirciana, parla, in riferimento alle impronte fotoniche di indizi, cioè di
effetti fisici di una causa, non intenzionali, né convenzionali, né appartenenti ad alcun sistema che
non sia quello fisico, e per questo non classificabili come segni.
Di natura assolutamente diversa sono le riflessioni di Jean-Marie Schaeffer, che pur riconoscendo
all’immagine fotografica il suo valore indicale di “corrispondenza proiettiva punto per punto fra
oggetto impressore e impronta fotonica, le attribuisce un soverchiante aspetto iconico di
rappresentazione visiva”. Schaeffer mise in rilievo non tanto l’atto di produzione, quanto l’atto di
ricezione, “non tanto il come fotografiamo quanto il come guardiamo una fotografia”.
Secondo Jean-Claude Lemagny “la fotografia non è segno e messaggio, e l’arte non è concetto e
materializzazione, ma entrambe sono riproposizioni della muta e opaca presenza delle cose. Se un
ruolo l’Arte Concettuale e le ricerche semiotiche hanno avuto, è stato quello di demistificare l’arte
come comunicazione di un significato […] e di far capire che la fotografia, in quanto arte, sfugge a
un approccio concettuale e semiotico”. Lemagny sostituì alla lettura semiologica della fotografia
quella estetica, non intendendo la fotografia come atto comunicativo, ma come atto artistico: “l’arte
non riduce a pezzettini le cose reali per farle entrare nel tritatutto di un codice che le ributterà fuori
dall’altra parte. Le opere d’arte possono trasmettere informazioni, ma […] in quanto opere d’arte,
esse non comunicano mai niente a nessuno. […] Dove c’è la comunicazione, non c’è più l’arte.
E’ l’ideologia della comunicazione che infesta l’arte. […] L’arte è contraria a qualsiasi
comunicazione perché non mira, come suo effetto, né al potere, né all’appropriazione, né all’uso
strumentale. […] L’arte non è il sapere”
La concettualità della fotografia
La presenza della fotografia nell’attuale congiuntura artistica segnala l’ennesimo spostamento della
ricerca verso il polo della concettualità e rilancia questo valore per ciò che riguarda l’identità stessa
della fotografia.
La concettualità si pone come elemento dialettico rispetto al polo della formalità. La formalità
equivale al primato dell’opera materialmente intesa, mentre la concettualità si definirà per
differenza rispetto ad essa. La categoria della concettualità va concepita come variabile e non
bloccata, storicamente mutabile.
Esiste una differenza sostanziale di possibilità concettuale fra fotografia in bianconero e fotografia a
colori. La fotografia in bianconero è già un’astrazione in sé. L’assenza del colore indica un notevole
scarto dalla realtà. Non è un caso che molti fotografi non utilizzino il bianconero perché non reale.
Quanto sopra affermato non vuol dire che tutte le fotografie in bianconero siano concettuali e che
quelle a colori non lo siano. Esistono esempi di bianconero ricco e sontuoso e casi di
concettualismo fotografico espresso attraverso il colore.
L’ Estetico e la fotografia
L’estetico è descrivibile come una particolare forma di artisticità che l’esclude l’opera,
richiamandone tutte le caratteristiche senza che queste poi confluiscano e si concretizzino nella
produzione di un manufatto. L’atteggiamento estetico si ferma al livello del comportamento, del
coinvolgimento sensoriale.
Appare chiaro che la fotografia occupi un ruolo mediano tra praticità ed arte del tutto simile a
quello attribuito all’estetico. La fotografia ha innegabilmente posto il problema di un’artisticità
allargata, quotidiana, domestica.
Nell’ambito dell’artisticità delle immagini dobbiamo distinguere tre categorie differenti:
1) Manuali (pitture e immagini affini);
2) Mediali non sintetiche (fotografia, cinema e video);
3) Mediali sintetiche (digitali).
La fotografia digitale
Il suo avvento ha destabilizzato la nostra idea di immagine, determinando la venuta meno della
contrapposizione tra pensiero concettuale e pensiero visivo, tra astratto e analitico. La generazione
della nuova immagine è determinata adesso dalla risoluzione, cioè da un calcolo numerico
bidimensionale e tridimensionale.
Tra i teorici prevale l’idea che il legame tra tecnologia chimica “ad impronta” e realtà, sia
completamente venuto meno con la tecnologia digitale a “traduzione numerica”.
Ogni barriera è stata abbattuta, anche quella della classificazione segnica. Le immagini digitali
hanno perso lo statuto di analogon del reale e pertanto non possono essere classificate come indici,
ma come icone indicali.
Gianfranco Bettetini ha tracciato una classificazione delle immagini di sintesi:
a) riproduzione di immagini (trasformazione digitalizzata di un’immagine) ;
b) rielaborazione di immagini (trasformazione di un’immagine digitalizzata in un’altra
immagine);
c) integrazione (composizione di una nuova immagine utilizzando più immagini);
d) produzione di immagini-oggetto (creazione di un’immagine derivata da un programma
matematico, che non ha un referente di partenza).
Con il superamento del sistema chimico cessa il principio della referenzialità di ferro, nata con
l’invenzione di Niepce e Daguerre.
Nella fotografia tradizionale si ha a che fare con una superficie emulsionata di materiale foto
sensibile (il negativo) capace di registrare l’azione della luce riflessa dai corpi che si trovano di
fronte all’obiettivo.
Nella fotografia digitale questa azione viene raccolta da un componente elettronico a forma
rettangolare denominato CCD (Charge Copuled Device). La superficie del CCD è disseminata di
milioni di piccolissimi elementi sensibili alla luce (pixel), che trasformano la luce in corrente
elettrica, più o meno intensa a seconda della quantità di luce ricevuta.
Il negativo chimico rappresenta in maniera analogica un certo soggetto, risultando sulla sua
superficie una traccia continua di variazioni tonali del tutto analoga alla continuità che la materia
presenta nel reale. Il negativo elettronico rappresenterà il medesimo soggetto in digitale, cioè in
modo discontinuo rispetto alla continuità della materia stessa, secondo un codice numerico binario
(0/1).
Secondo Manzini la questione delle immagini sintetiche sta nel rapporto con una particolare
dimensione del reale precedentemente inesistente.
La conseguenza più rilevante di tutti i fenomeni collegati all’immagine sintetica è il superamento
della necessità dell’ en plein air. Nel virtuale, infatti, tutto si può fare “come se”, senza
necessariamente essere in contatto autentico con le cose.
Come ha sottolineato Jean Louis Weissberg: “il virtuale non rimpiazza il reale: ne diventa una
forma di percezione, in un mixage dove entrambe le entità sono contemporaneamente necessarie”.
Il riconoscimento di questa connessione tra reale e virtuale prevede per forza di cose la
consapevolezza della simulazione e se “virtuale e reale sono due facce della stessa questione” il
“come se” di cui sopra non può avvenire in stato di narcosi ma nella consapevolezza piena e totale
della finzione.
Il digitale può aver cambiato qualcosa dal punto di vista sintattico ma non certo da quello
pragmatico, perché chimica o numerica una fotografia rimane una fotografia, continua a funzionare
nella logica del “come se”.
Si pensi al caso storico del fotomontaggio, praticato già vent’anni dopo l’invenzione della
fotografia, anch’esso privo di un referente diretto. Il fotomontaggio appare addirittura più avanzato
del digitale perché non può vantare nemmeno una referenza numerica, eppure funziona in senso
referenziale. La referenzialità era la condizione della sua stessa esistenza.
La falsa rivoluzione del digitale
Il digitale si presenta come una rivoluzione tangibile sul piano del mercato. Infatti con esso ci si
trova per la prima volta dinnanzi ad un vero e proprio sistema multimediale domestico, dal
momento che l’utilizzo di una macchina fotografica digitale o di uno scanner è strettamente
connesso al possesso ed all’uso di un PC sul quale scaricare, selezionare, archiviare, inviare e
manipolare le immagini.
Claudio Marra si pone alcune domande:
a) l’avvento della tecnologia digitale ha effettivamente prodotto un cambio di identità nello
statuto della fotografia?
b) per quale motivo questo eventuale cambio è stato e continua ad essere salutato con tanto
entusiasmo dai teorici che credono d’averlo rilevato?
Che la fotografia digitale sfugga al principio dell’indice, allo stato attuale, è pura fantateoria, alla
quale facciamo finta di credere. Ma alcuni dubbi sono legittimi:
a. Se anche ragionassimo in termini puramente tecnici è possibile dire che il processo digitale non
sia anch’esso un processo da “indice genuino”? In definitiva il principio dell’impronta rimane. La
differenza c’è perché abbiamo visto che si passa da un’impronta “tale e quale” nel chimico ad una
numerica nel digitale;
b. La fotografia digitale rimane un processo indicale perché comunque fondata su un principio di
relazione in presenza. Nessuno può contestare il fatto che per realizzare un’immagine digitale
occorra essere materialmente in faccia al soggetto. Il principio barthesiano dell’è stato è salvo e
confermato;
c. Nell’uso una fotografia rimane una fotografia, sia essa analogica o digitale. Una volta stabilitasi
una convenzione culturale rimane tale a prescindere dalla forma materiale che la incarna.
I generi fotografici
Esistono vari tipi di fotografia, per esigenze di sintesi ci limiteremo a tre grandi categorie:
a) fotografia giornalistica (secondo Lambert è lo specchio su cui si iscrivono i miti della nostra
società, è la forma di fotografia più innamorata del reale);
b) fotografia artistica (in cui sono più evidenti i valori dello stile, fra reale e astrazione);
c) fotografia pubblicitaria (serve per vendere un prodotto astratto dandogli vita reale in una messa in
scena che crea un’immagine verosimile).
Catania lezione 2
I generi fotografici
Esistono vari tipi di fotografia, per esigenze di sintesi ci limiteremo a tre grandi categorie:
a) fotografia giornalistica (secondo Lambert è lo specchio su cui si iscrivono i miti della nostra
società, è la forma di fotografia più innamorata del reale);
b) fotografia artistica (in cui sono più evidenti i valori dello stile, fra reale e astrazione);
c) fotografia pubblicitaria (serve per vendere un prodotto astratto dandogli vita reale in una messa in
scena che crea un’immagine verosimile).
La moda
La moda, come fenomeno mutevole dell’epoca in cui viviamo, riguarda “tutta l’esistenza
sovrastrutturale dell’uomo, dalla politica all’arte, dalla letteratura alle maniere di pensare”. Gli abiti
sono sempre stati usati come strumenti sociali allo scopo di affermare – come status symbol – le
particolari condizioni economiche e i ruoli determinati, rivelando, nel contempo, la nostra
weltanschauung e gli umori fondamentali della vita sociale.
La moda, strumento di piacere e di fascino visuale il cui valore è determinato dalla sua capacità
conativa e seduttiva, può essere adeguatamente compresa solo in rapporto ad un determinato
contesto sociale. Dal punto di vista della psicologia sociale, “la moda è, fra i fenomeni collettivi,
ciò che ci rivela, nel modo più immediato, la presenza della dimensione sociale nell’ambito dei
nostri comportamenti. La moda riguarda l’individuo e i gruppi sociali ed esiste solo in quanto vi è
reazione dell’individuo in rapporto al mondo esterno”.
La propagazione della moda
I modelli esplicativi della propagazione della moda sono:
a) a goccia (Simmel), che presuppone la società simile a una piramide dove le mode derivano
dell’alto per gocciolamento: al vertice della società, per qualsiasi ragione, si impone una
regola del gusto, cui segue un graduale adeguamento della massa sociale (andamento
verticale);
b) inseguimento e fuga (McCraken), che presuppone l’esistenza di una classe elitaria che crea
tendenze e una massa che cerca di imitarle inseguendo i continui mutamenti dell’avanguardia
sociale (andamento orizzontale).
Tali tentativi di modellizzazione, largamente condivisi per decenni, sono ampiamente contraddetti
dalla pratica quotidiana degli ultimi dieci-quindici anni delle ricerche di moda. Le tendenze più
seguite, infatti, vengono dalla strada e segnano il tramonto del total look e il trionfo del melting pop
vestimentario.
La moda del resto “è il regime del mutamento obbligatorio del gusto: qualche cosa che ieri non
piaceva ancora e domani non piacerà più, oggi riscuote l’approvazione generale”.
Lo sviluppo contemporaneo della moda non avrebbe potuto prodursi senza l’esistenza di uno
strettissimo rapporto tra domanda e offerta, che colloca la moda stessa nel più ampio regime della
produzione di massa, secondo le norme dell’economia di mercato. I continui cambiamenti
determinati dalla moda hanno causato un profondo mutamento dei suoi valori fondativi,
trasferendola dall’ambito del superfluo e dell’ornamentale ad un ambito primario nell’esistenza
quotidiana degli individui (toglietemi tutto ma non il mio Breil).
“La fotografia di moda è una menzogna, che acquista realtà solo sulla carta stampata”.
Chris Von Waggenheim
“Il mondo della fotografia di moda è una fonte sorprendente di piacere e fascino visuale”.
Alexander Liberman
“La moda rappresenta lo specchio rivelatore della società”
Giuliana Scimè
La moda, avendo trovato nella fotografia il principale mezzo di diffusione e di affermazione, non
può fare assolutamente a meno di essa. Sulla scorta dell’affermazione precedente, non bisogna
credere che la moda si identifichi tout court con l’immagine fotografica, ma senza di essa resterebbe
assolutamente separata dalla comunicazione. Tale rapporto privilegiato, tra moda e fotografia, ebbe
inizio nei primi del Novecento, dando origine ad alcuni degli esiti creativi di maggior rilievo del
secolo scorso. La fotografia di moda, soddisfacendo le naturali tendenze dell’uomo all’evasione, ha
avuto un processo evolutivo parallelo e di pari dignità agli sviluppi estetici dell’immagine
fotografica.
Con il ritratto la fotografia aveva dissacrato e distrutto il concetto di immagine tramandata solo dai
ricchi e dai nobili. Con la moda la rivoluzione operata dalla fotografia è stata ancora più radicale e
violenta.
Il rapporto tra moda, fotografia e mass media è oggi considerato strettissimo. Stranamente, però, il
genere “fotografia di moda” è fra i più tardi a comparire e svilupparsi. Ragioni tecniche di
riproduzione sulla pagina stampata e il ritardo nell’evoluzione della moda come industria hanno
rallentato il processo di qualche decennio.Nel 1880 venne messo a punto il processo meccanico
half-tone per la riproduzione dell’immagine assieme ai caratteri di stampa.
Da lì in poi la fotografia fece il suo ingresso nell’editoria periodica; divenendo il cardine attorno al
quale ruotano tutte le figure professionali coinvolte. La prima foto di moda apparve nel 1892 sulla
rivista francese La mode pratique.
Le prime fotografie di moda erano lo studio della donna. L’intento di base era quello di realizzare
un ritratto. L’illuminazione naturale, una rilassata e serena posa statica hanno dato vita a immagini il
cui effetto e il cui ricordo è ben fisso nella nostra mente.
Successivamente, trucco eccessivo e pose che sembrano uscite da una pantomina, da un balletto o
da una danza, crearono un mondo fittizio, artificiale, di gusto scenico. Un mondo che trasporta le
lettrici di tutti i giorni in un “paese che non c’è”, dove possono immaginare di indossare come in un
sogno quel particolare vestito e di emanare quel particolare fascino.
La fotografia di moda è quindi la visualizzazione delle immagini di sogno richieste dalla società del
tempo. L’orizzonte del sogno muta a seconda dei decenni, fino ad arrivare all’odierno “incubo”
espresso nelle fotografie dell’ultimo ventennio.
Nella prima fase la fotografia di moda trasse ispirazione della pittura e dell’arte figurativa in genere.
Nella seconda fase (a partire dagli anni ’50-’60) la fotografia di moda si è liberata dall’imitazione
per restituire un’immagine nuova della donna: più libera e sempre in movimento.
Paradossalmente oggi non è più la fotografia a imitare l’arte, ma l’arte a sconfinare nel campo della
fotografia. La fotografia di moda non si regge più sulle immagini per pochi eletti, ma sull’abilità del
fotografo di ritrarre gente dinamica, che vive e agisce.
Il fotografo di moda gode di una libertà di mezzi assoluta. In nessun altro campo vengono concessi
budget così generosi per spese, per i viaggi e per i materiali.
Anche fotografi non professionalmente dediti alla fotografia di moda, realizzarono, in quest’ambito,
alcune delle loro creazioni migliori. Il fotografo di moda, lavorando per le riviste o per gli stilisti ha
il compito di creare le immagini di uno o più capi di abbigliamento, allo scopo di “stimolare
emotivamente, per non dire oniricamente, i fruitori di quelle immagini per trasformarli in potenziali
consumatori”. Una fotografia di moda, quindi, non è mai la semplice riproduzione di una capo di
abbigliamento, ma la realizzazione di una messaggio pubblicitario, formalmente corretto, che,
attraverso un’idea e la sua raffigurazione, evoca illusioni: “la fotografia di moda esiste per mostrare,
creare e infine vendere uno stile”.
Il fotografo di moda
L’unità di stile personale diviene “marchio di fabbrica” dei grandi fotografi di moda. Essi non
modificano il proprio approccio al tema, non cambiano da un servizio all’altro
I fotografi di moda lavorano a stretto contatto con gli art director delle riviste o delle agenzie
pubblicitarie. Quelli di grande esperienza e di grande fama costruiranno lo shooting seguendo le
loro idee originali e successivamente indicheranno le proprie preferenze tra le immagini realizzate;
mentre quelli più giovani e meno esperti rimetteranno all’art director e allo staff editoriale ogni
scelta e decisione, limitandosi ad eseguire al meglio possibile i loro scatti.
Il fotografo di moda e le riviste
I fotografi di moda lavorano normalmente con pellicole bianconero o con diapositive a colori. Gli
scatti realizzati vengono analizzati e selezionati, solo una minima parte verrà pubblicata. Spesso, a
seconda delle esigenze editoriali, questi scatti vengono ritagliati per lasciar spazio ad altri elementi.
Una volta, per decidere il taglio definitivo di un’immagine, si usavano le fotocopie della stessa che
venivano sezionate fin quando non si arrivava al risultato desiderato. Oggi tale processo si fa al
computer con delle prove dirette di impaginazione.
Uno dei punti di forza della moderna fotografia di moda consiste nella capacità della macchina di
cogliere le donne nei loro movimenti più intimi, come attraverso gli occhi di un osservatore
invisibile.
In studio si ricorre a volte all’artificio per creare risultati naturali. La modella deve esagerare i
movimenti in modo che l’azione rimanga visibile anche sulla pagina stampata.
L’effetto bidimensionale comune tanto alla fotografia quanto alla pagina stampata della rivista è
finalizzato a imprimersi nella memoria. Sembra infatti che tutti noi possediamo notevoli difficoltà
nella visione tridimensionale e che la qualità bidimensionale della fotografia eserciti un tremendo
potere sulle nostre facoltà di memorizzazione.
Il fotografo di moda e le modelle
Le prime fotografie di moda erano molto simili a ritratti ben studiati. Come in ogni fotografia di
ritratto che si rispetti il rapporto di complicità tra fotografo e soggetto è determinante per la riuscita
finale. Oggi il profondo coinvolgimento del fotografo con la modella fa emergere il segreto insito
nella fotografia di moda: il contenuto erotico. La carica erotica che viene a crearsi nello studio si
trasforma in un ricordo durevole di una fugace relazione uomo-fotografo e modella-donna.
La presenza di molte donne fotografe nasce dall’essere in grado di cogliere, attraverso la propria
consapevolezza ed esperienza personale, quei precisi attimi di intimità e abbandono che pochi
uomini sanno considerare e comprendere.
Le modelle
Le modelle hanno sempre rappresentato uno degli elementi fondamentali della fotografia di moda.
Le prime modelle furono le donne della high society, che amavano farsi ritrarre con i loro preziosi
abiti. Successivamente tale figura acquisì connotazioni professionali con la nascita di agenzie di
model management sempre più organizzate e con contatti in tutto il mondo (vedi l’attuale Agenzia
Elite – www.elitemodel.com).
Le prime modelle professioniste rimasero però nell’anonimato. Solo dagli anni ’50 in poi (con
Richard Avedon) cominciò il culto della modella, sex symbol desiderato e osannato da uomini e
donne
Agli esordi della fotografia di moda era la perfezione di tratti che si ricercava in una modella. La
predilezione per un’impersonalità statuaria rientrava in una generale indifferenza verso l’essere
umano. Gli abiti e gli ambienti avevano più importanza
Oggi, invece, la personalità della modella è diventata fondamentale. Sono addirittura richieste
piccole imperfezioni nei lineamenti perché servono ad imprimere nella mente una particolare
donna. La modella è amata per quello che è, difetti compresi. Essere fotogenici significa essere
originali, non compressi in un modello convenzionale. Il fascino dell’unicità è l’afrodisiaco dei
giorni nostri.
Arte & Fotografia: la donna
Per gli artisti del passato il corpo femminile, vestito e non, ha sempre costituito il soggetto
principale e uno strumento per comprendere l’universalità. Se i capolavori del passato hanno
mantenuto un impatto durevole sull’osservatore, è stato perché dietro ogni forma di coinvolgimento
esiste un flusso di desiderio.
In ogni civiltà la sconvolgente rappresentazione di donne nude o vestite è stata una ricca fonte di
piacere e ha creato di volta in volta standard visuale di bellezza.
Donna & Fotografia: la seduzione
Siamo circondati da immagini di una presenza femminile tutta seduzione. Non a caso i pubblicitari
abbinano l’elemento erotico a qualsiasi merce per stimolare direttamente il desiderio di possesso
nella mente del lettore-spettatore.
La fotografia di moda è stata il terreno di formazione per gli esploratori di questo nuovo erotismo
ed è negli studi dei fotografi di moda che si è sviluppata la visione dell’attuale seduttrice.
Ogni tempo ha le sue immagini. Alcune immagini del passato erano “verginali”; lo sguardo erano
pudicamente rivolto a terra per mantenere una distanza fra l’osservatore e il soggetto. Oggi lo
sguardo diretto della donna è una provocazione colta e moltiplicata dalla fotografia.
Moda & Fotografia: gli scopi
Nella fotografia di moda è sempre presente l’esigenza di creare un’immagine che colpisca, diverta,
intrattenga o provochi, giacché è innata nell’uomo l’esigenza dell’evasione. I viaggi immaginari in
paesi lontani dove splendide donne stanno sdraiate ai bordi di piscine o su spiagge da sogno,
costituiscono un potente antidoto al grigiore quotidiano. La fotografia di moda diventa un’opera
visuale che sospende momentaneamente la percezione della vita di ogni giorno.
Molto spesso gli abiti possiedono una semplicità insufficiente in se stessa a fornire la varietà che
una rivista esige. E’ compito del fotografo creare immagini interessanti, che si distinguano dal
lavoro di chiunque altro.
Moda & Fotografia: altre figure
Per la realizzazione di un servizio di moda insieme al fotografo lavorano in sinergia, oltre all’art
director che coordina, una serie di assistenti, spesso anche uno scenografo e sempre un hair stilist e
un make-up artist.
Particolarmente importanti sono queste due figure. Alla base di una buona fotografia di moda ci
deve essere sempre una buona pettinatura e un buon trucco, confacenti alle esigenze del fotografo e
del servizio.
Moda & fotografia: i generi
All’interno del vasto concetto di fotografia di moda rientrano diversi generi fotografici che, per le
loro peculiarità tecniche, possono avere una vita autonoma:
1. Fashion photography (la fotografia di moda propriamente detta);
2. Beauty photography (genere coincidente spesso con la fotografia di ritratto);
3. Glamour photography (genere finalizzato alla realizzazione immagini sexy e ricche di
fascino);
4. Nude photography (genere finalizzato alla produzione di immagini del corpo ritratto nella
sua essenza formale).
Beauty photography
Questo genere fotografico è spesso identificato con la fotografia di ritratto. Dal ritratto puro e
semplice differisce per alcuni accorgimenti tecnici: tagli molto stretti, ricorso all’high key e scarsa
ricerca introspettiva. Professionalmente è diffusa nella fotografia pubblicitaria di categorie
merciologiche molto specifiche: gioielli e cosmetici.
Glamour photography
Questo genere fotografico è finalizzato alla produzione di immagini sexy e ricche di fascino. A
livello professionale trova spesso applicazione nella fotografia di underwear e swimwear.
Nude photography
Questo genere fotografico è finalizzato alla produzione di immagini del corpo ritratto nella sua
essenza formale. Le pose possono essere semplici e naturali (intime) o dirette e provocanti (stile
Playboy).
L’idea di nudo artistico in fotografia, rispetto al nudo pittorico è a grandi linee un falso. Quasi tutta
la fotografia di nudo ottocentesca che si proponeva come artistica tendeva in realtà ad aggirare le
barriere della censura legale e comunque della morale borghese, offrendo ipocritamente un prodotto
socialmente accettabile in virtù della sua appartenenza alla categoria dell’arte.
Una fotografia di nudo, indipendentemente dal suo scopo, risulta più provocante di un nudo dipinto,
questo accade perché, proponendosi come oggetto concettuale anziché formale, la fotografia
rimanda obbligatoriamente al momento “vero” della ripresa, momento che mantiene intatto il
fascino della verità, dell’esistito e dunque del potenzialmente esistibile.
Fashion photography
Gli usi professionali della fashion photography sono diversi. Tutti hanno la loro importanza
all’interno della comunicazione messa in atto dall’industria moda. Essi coinvolgono direttamente o
indirettamente: fotografi, stilisti, modelle, pubblicitari, art-director, copywriter, giornalisti, editori,
fashion manager etc.
I principali sono:
1. Pubblicità (Riviste e cartellonistica);
2. Copertine di riviste;
3. Redazionali (Descrittivi, Narrativi, Interpretativi);
4. Cataloghi (semplici pubblicazioni destinate alla distribuzione su larga scala e/o pregevoli
opere editoriali);
5. Sfilate (immagini destinate alla stampa specializzata);
6. Cronache di costume (immagini destinate ai rotocalchi);
7. Fotolibri (raccolte di immagini di grandi fotografi o di stilisti affermati);
8. Internet (immagini finalizzate alla vendita on-line dei prodotti);
9. Book per modelle.
La pubblicità della moda
Secondo Vanni Codeluppi il linguaggio pubblicitario della moda presenta una povertà rispetto alla
ricchezza segnica di altri settori merceologici. Cosa paradossale per un ambito in cui l’immaterialità
ha un peso determinante.
Secondo Roland Barthes nei servizi fotografici pubblicati sulle riviste di moda “il mondo è
ordinatamente fotografato sotto le specie di uno scenario, di uno sfondo, di una scena, insomma di
un teatro”. Niente come la moda si presta alla teatralità, alla messa in scena di sé e del mondo.
Vanni Codeluppi ha elaborato inoltre una griglia interpretativa decisiva per analizzare e mettere in
rilievo le diverse strategie comunicative della moda: