Sei sulla pagina 1di 35

Catania lezione 1

1. Che cosa significa “fotografare” ?

Fotografare significa scrivere con la luce. Come qualsiasi altra forma di scrittura anche la
fotografia possiede una propria grammatica ed un proprio lessico, che bisogna conoscere.

2. Che cosa è la fotografia ?

La fotografia è un procedimento ottico-chimico atto a fissare un’immagine, attraverso il


meccanismo della camera oscura, su uno schermo adatto.

L’invenzione della fotografia fu messa a punto negli anni trenta del XIX secolo ad opera di un
francese, Nicephore Niepce, che da anni sperimentava la capacità di alcune sostanze di reagire
all’azione della luce. Sfruttando le conoscenze secolari sulle proprietà della camera obscura,
Niepce perfezionò un sistema di sensibilizzazione di una lastra di stagno mediante l’utilizzo di
Bitume di Giudea.
L’invenzione di Niepce fu perfezionata negli anni successivi dal lavoro congiunto con Louise
Daguerre, altro inventore francese, ritenuto da Niepce un esperto di ottica, famoso per avere
sperimentato qualche anno prima il diorama.
Ai due francesi, dobbiamo aggiungere l’inglese Henry Fox-Talbot, che negli stessi anni, e in
assoluta indipendenza, compiva le stesse scoperte, giungendo ad un risultato molto simile al
procedimento odierno (negativo-stampa).
Dalla collaborazione dei due nacque un procedimento fotografico, su rame, definito in un secondo
momento Dagherrotipo, che presto ebbe una larghissima diffusione in tutto il mondo, dando a
Daguerre un’enorme notorietà e relegando Niepce, a causa della sua prematura scomparsa, nel
dimenticatoio.
Fotografia come magia
La fotografia, concepita come autoritratto della natura, nasceva non più dall’abilità del pittore ma
dalle possibilità di quei mezzi tecnici che avrebbero cambiato l’immagine per sempre.
Fino ad allora l’immagine era stata considerata sempre un artificio, per quanto fatto ad arte. Con
l’invenzione della fotografia aumentò la fiducia dell’uomo nella sua possibilità di comprendere e
domare la natura, conferendo al suo prodotto una dose maggiore di naturalità.
La fotografia creò un’assoluta rivoluzione nel campo delle arti figurative:
a) Che cosa sarà d’ora in poi la somiglianza?
b) Quando la fotografia potrà diventare creativa al pari della pittura?
c) Potrà mai essere considerata arte?
Queste erano le prime domande che investirono il mondo della fotografia, alle quali ne seguiranno
molte altre.
Secondo Andrè Bazin: “tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo; solo nella fotografia ne
godiamo l’assenza”. I fotografi da sempre hanno cercato di riempire il vuoto causato da questa
“assenza”, aggirando il carattere marginale del loro contributo al risultato finale, tentando di ridurre
il coefficiente di indeterminazione, tipico della fotografia, giungendo spesso a risultati che
tradiscono lo specifico fotografico
Le scelte operative del fotografo
Secondo i “benpensanti” la fotografia non poteva essere accolta nell’elite delle arti visive perché
fortemente dominata del suo aspetto meccanico (Croce). Svalutata e ridotta a mestiere praticato dai
delusi della pittura (Baudelaire), la fotografia pian piano seppe conquistarsi il posto di riguardo che
le spettava nel panorama delle arti figurative.
Ben presto, infatti, vennero comprese tutte le sottili e importanti scelte operative che il fotografo era
tenuto a compiere per far sì che il suo prodotto visivo fosse grammaticalmente e sintatticamente
corretto.
Sotto il nome di scelte operative del fotografo vanno le seguenti operazioni:
a) Scelta dello strumento fotografico (tipo di macchina fotografica);
b) Scelta dell’ottica (tipo di obiettivo);
c) Scelta della pellicola (tipologia, formato e sensibilità della pellicola);
d) Scelta del punto di vista (posizionamento del fotografo rispetto al soggetto);
e) Disposizione degli elementi (inquadratura e composizione);
f) Interventi successivi allo scatto (fotomontaggi, ritocchi manuali o digitali);
g) Formato di stampa (possibilità di effettuare ingrandimenti);
Gli strumenti della fotografia: obiettivi
Lunghezza Focale

La lunghezza focale è la distanza fra il centro ottico dell’obiettivo e il piano della pellicola quando
l’obiettivo proietta l’immagine di un punto così lontano per cui anche le radiazioni più esterne del
primo cono luminoso si possono considerare parallele fra loro. La lunghezza focale è, in pratica, la
minima distanza fra obiettivo e pellicola, è espressa in mm e definisce l’angolo di ripresa
dell’obiettivo.
Obiettivi Normali: I cosiddetti “normali” sono quegli obiettivi che hanno una lunghezza focale pari
alla lunghezza della diagonale della pellicola corrispondente.
Esempio: 24x36 = 50mm; 6x6 = 80mm; 6x7 = 90mm
Sono degli obiettivi di norma molto luminosi e otticamente corretti, che conferiscono alla
fotografia una distribuzione dei piani del tutto simile a quella percepita dall’occhio umano ed hanno
un angolo di campo di circa 45°.
Obiettivi Grandangolari: Si definiscono grandangolari tutti quegli obiettivi che hanno lunghezza
focale inferiore a quella dell’obiettivo normale di riferimento.
Esempio: Per il sistema fotografico che adotta la pellicola 135 (24x36) gli obiettivi grandangolari
più diffusi sono: 35mm, 28mm, 24mm, 20mm etc.
Sono degli obiettivi di norma molto luminosi ma otticamente non sempre corretti, che conferiscono
alla fotografia una distribuzione dei piani allungata rispetto a quella percepita normalmente
dall’occhio umano ed hanno un angolo di campo superiore ai 45° (fino a 180° ed oltre).
Teleobiettivi: Si definiscono teleobiettivi tutte quelle ottiche fotografiche che hanno lunghezza
focale superiore a quella dell’obiettivo normale di riferimento.
Esempio: Per il sistema fotografico che adotta la pellicola 135 (24x36) i teleobiettivi più diffusi
sono: 85mm, 135mm, 180mm, 300mm, 400mm etc.
Sono degli obiettivi di norma poco luminosi ma otticamente abbastanza corretti, che conferiscono
alla fotografia una distribuzione dei piani schiacciata rispetto a quella percepita normalmente
dall’occhio umano ed hanno un angolo di campo inferiore ai 45° (fino a 4° ed oltre).
Apertura Massima del Diaframma
La massima apertura del diaframma indica il valore massimo che compare sull’apposita ghiera
posta su qualsiasi obiettivo (eccezion fatta per quelli di ultimissima generazione in cui detta ghiera è
assente). Questa caratteristica è legata alla possibilità di scattare fotografie in presenza di poca luce
e perciò viene anche definita come la massima “luminosità” dell’obiettivo.
Tempi e diaframmi
Le condizioni di luce che trova un fotografo nelle diverse situazioni di ripresa sono infinite (luce del
sole, pioggia, nebbia, interni luminosi e interni bui). E’ necessario per ottenere una fotografia
correttamente esposta regolare il passaggio della quantità di luce attraverso l’obiettivo, azionando
un apposito meccanismo a lamelle chiamato diaframma.
Oltre la quantità di luce che andrà ad impressionare la pellicola dobbiamo tener conto del tempo in
cui questa quantità data di luce colpirà la pellicola. Lo strumento che regola il tempo di esposizione
si trova all’interno della macchina fotografica e si chiama otturatore.
Quando sulla nostra pellicola giunge la giusta quantità di luce la fotografia sarà correttamente
esposta. Se giungerà una quantità minore della luce necessaria la fotografia si dirà sottoesposta, in
caso contrario, la fotografia si dirà sovraesposta.
La scelta della coppia giusta fra le due variabili dell’esposizione (tempo e diaframma) è regolata
dall’esposimetro (sistema elettronico di controllo luminoso posto internamente alla macchina
fotografica), una volta che abbiamo impostato la sensibilità della pellicola (terza variabile
dell’esposizione).
La scelta di un diaframma più o meno chiuso o più o meno aperto inciderà direttamente sulla
profondità di campo (valori numerici del diaframma indicati dalla lettere f: 1,8 – 2,8 – 4 – 5,6 – 8 –
11 – 16 – 22).
La scelta di un tempo più o meno lungo o più o meno breve inciderà direttamente sulla resa
dinamica del soggetto ripreso (valori numerici dei tempi di otturazione espressi in frazioni di
secondo: 1” – 2 – 4 – 8 – 15 – 30 – 60 – 125 – 250 – 500 – 1000 ….).
Profondità di campo
Definiamo “campo” di una fotografia lo spazio in essa rappresentato, da quello più vicino a quello
più lontano.
Immaginiamo una semiretta che, lungo l’asse di ripresa, arrivi all’infinito: si definisce “profondità
di campo” la zona che, lungo questa immaginaria semiretta, apparirà esattamente nitida nella foto.
L’estensione della profondità di campo, cosa diversa dalla messa a fuoco, si determina
diaframmando. A valori “aperti” di diaframma corrisponderà una scarsa profondità di campo, a
valori “chiusi” corrisponderà un’elevata profondità di campo.
Gli strumenti della fotografia: pellicole
Le pellicole sono i supporti su cui si imprime l’immagine fotografica.
Sono costituiti da un sottile strato plastico emulsionato con sostanze fotosensibili e differiscono per
: a)Tipologia (negativo bianconero, negativo colore, diapositiva a colori);
b)Sensibilità (da 25 a 3200 ISO ed oltre);
c)Formato (135, 120, APS, Pellicola Piana).
La luce in fotografia
Le sorgenti luminose utilizzabili in fotografia sono:
a. Luce solare;
b. Luce continua;
c. Luce flash.
Al momento di realizzare una fotografia dobbiamo sempre tenere conto della o delle sorgenti
luminose presenti, valutandone l’intensità, la direzione e la temperatura colore.
La luce ha sempre un colore, anche quando non ce ne accorgiamo. Tale colorazione si chiama
dominante cromatica ed è un fattore di cui tener conto al momento dello scatto. La temperatura
colore si misura in gradi Kelvin (K). Una luce neutra, con nessuna colorazione in particolare,
corrisponde a circa 5.500 K
La luce continua
L’illuminazione continua è utilizzata di norma in sala di posa ed è creata per mezzo di illuminatori
specifici con lampade al tungsteno con temperatura colore compresa tra 3400 e 3200 K.
Esistono in commercio da alcuni anni degli illuminatori a tubi fluorescenti, con temperatura colore
di 5500 K.
L’effetto di tutte le fonti di luce continua può essere direzionato, amplificato o ammorbidito per
mezzo di paraluce, bank, softbox e pannelli riflettenti
La luce flash
L’illuminazione flash è utilizzata sia in sala di posa che in esterno.
Esistono due tipi di flash quelli a torcia, strettamente collegati con la macchina fotografica (potenza
espressa in NG) e quelli professionali da studio (potenza espressa in w/s).
Conoscendo il NG dei flash a torcia e impostato il tempo sincro nella macchina fotografica
possiamo ricavarci l’ultimo parametro necessario con questa semplice formula:
f = NG/m
L’effettiva luce emessa dai flash professionali da studio (espressa in w/s) si misura con degli
strumenti specifici chiamati esposimetri.
Come con le lampade a luce continua anche la luce dei flash può essere direzionata e ammorbidita
con l’utilizzo di parabole, softbox e ombrelli.
Primi utilizzi professionali della fotografia
Determinante alla rapida diffusione della fotografia fu la voglia, tutta borghese, di possedere una
propria immagine “lasciata come un’impronta dei propri tratti, dettagliata, sicura, precisa”. Intesa
come rappresentazione e soprattutto auto-rappresentazione di quella classe sociale in crescita di
aspirazioni, presenza e potere. Già negli anni quaranta del XIX secolo aprirono i battenti nelle
grandi città atelier fotografici dedicati esclusivamente al ritratto. Questi ambienti, confacenti al
decoro borghese, si arricchirono sempre più di mezzi tecnici per la “produzione seriale” delle
immagini.
Dove non esistono atelier permanenti, passano con regolarità fotografi itineranti che impiantano
improvvisati studi fotografici, nei quali comincia a sfilare una clientela sempre più allargata e
sempre più popolare. In tale situazione il canone estetico diventa la “fretta”. Si lascia poco spazio
alla rappresentazione accademica e, molto semplicemente, i corpi si stagliano su sfondi uniformi e
neutri, privi di riferimenti pregnanti e caratterizzati grazie all’ausilio di quei pochi oggetti che il
modello porta con sé. Sono questi gli anni dei grandi sommovimenti sociali, ideologici e culturali
che attraversano tutta l’Europa. Questi cambianti investono anche la fotografia, contribuendo,
ulteriormente, alla sua diffusione
Il primo ritratto pubblicitario
Nel 1875 il filantropo inglese Thomas John Barnardo, per promuovere l’attività dell’orfanotrofio da
lui diretto, sperimentò una sottile forma di pubblicità, ritraendo i suoi giovani ospiti sia al momento
dell’arrivo che al momento dell’adozione.
La straight photography
Con The Steerage Alfred Stieglitz propone una visione fotografica diretta e spoglia, asciutta al
limite della brutalità, documentaria come atto di registrazione: assolutamente e unicamente pura.
Il modernismo fotografico
Il modernismo imboccò la strada dell’attenzione estrema alla forma, che passa attraverso la
forzatura, sia tecnica, sia dello sguardo, per evidenziare posizioni e sperimentare nuovi modi di
visione del mondo. La fotografia cominciava a scardinare la sua immagine tradizionale, passando
attraverso l’accentuazione del suo carattere frammentario, rifiutando la centratura dell’immagine,
evidenziando il taglio che esclude e non circoscrive.
L’immagine non fu più concepita come ricerca compositiva mirante all’armonia estetica interna, ma
come luogo di confronto di forze e di forme, che da loro contrasto disarmonico suggeriscono
rapporti nuovi tra le forme stesse. Prevale la frammentazione del corpo, realizzata attraverso tagli
molto ravvicinati e arditi. Le parti del corpo evidenziate vengono sovraccaricate visivamente,
eroticamente e esteticamente.
Fotografia e Pop-Art
Gli anni sessanta sono il decennio del consumo e dell’immaginario. A livello artistico trionfa la Pop
Art che assume come proprio argomento le immagini del consumo, il consumo stesso e i
meccanismi di produzione. La fotografia divenne uno dei medium privilegiati, un oggetto fra gli
oggetti del consumo di massa. Il maggior esponente dell’arte pop fu Andy Warhol.
Nascono i sex-simbol così come le pin-up: la seduzione è il mezzo, la vendita è lo scopo, la merce è
la forma. Il corpo è al centro, ogni immagine sembra rimandare ad esso. Le copertine delle riviste e
la pubblicità diffondono l’immagine di una donna desiderabile, il cui corpo si offre, nudo almeno in
parte, frammentato nel gioco della seduzione che mostra, scopre e nasconde con malizia. L’esempio
più conosciuto in quest’ambito è quello di Playboy e delle sue playmate .
La fotografia e il postmoderno
Secondo Lyotard il postmoderno segna la fine dei grandi racconti, dei sistemi di pensiero, per dare
spazio ai piccoli racconti, fatti di affermazioni e verità circoscritte e non sistematizzabili. In
quest’ambito, il corpo proposto, secondo Perniola, è un corpo superficie e inorganico, strumento di
una sessualità neutra, senza vita e senza anima. E’ un corpo “in tempo reale”, non è più l’immagine
ad assomigliare al corpo, ma sempre più il corpo ad assomigliare a un’immagine
La fotografia e il postorganico
Secondo Teresa Macrì: “i nuovi processi di ridefinizione dell’identità passano per l’innovazione
tecnologica in tutte le sue smisurate ellissi. Il corpo in costruzione è un’ibridazione fantastica tra
organico e inorganico, tra materia particellare e chip al silicio. Quello che il presente ci prospetta è
un corpo dalle contaminazioni molteplici e dalle funzionalità imprevedibili”.
Fotografia come linguaggio
Intesa come medium, cioè come linguaggio comunicativo, la fotografia possiede una sua
grammatica intrinseca, che la rende, quando questa viene applicata correttamente, un linguaggio
universalmente comprensibile.
Fotografare, etimologicamente, significa “scrivere con la luce”. Come qualsiasi altra forma di
scrittura, allora, anche la fotografia, per comunicare, cioè per “fare comune”, necessita dell’utilizzo
di alcune semplici regole morfologico-sintattiche.
Dal punto di vista lessicale, i suoi segni, o le sue parole, non vengono stabilite per convenzione, ma
sono diretta emanazione degli oggetti e dei soggetti ripresi e catturati dall’apertura dell’otturatore,
infatti, secondo Roland Barthes: “la fotografia è costituita dal fatto bruto del suo statuto di prova, di
testimonianza muta su cui non c’è niente da aggiungere”.
Durante le riprese fotografiche si utilizza il termine “esposizione” (dal latino ex-porre) che “esprime
benissimo l’idea del porre fuori qualcosa da un determinato contesto, in maniera tale che la cosa,
intesa come porzione della realtà, acquisti quella rilevanza che in precedenza, confusa tra il gruppo,
non poteva certo vantare, così che, strappata ai suoi normali rapporti di significazione, la cosa si
risemantizza”.
Fotografia e perdita dell’aura
Lo stretto rapporto tra oggetto e sua rappresentazione fotografica è stato materia di attenzione da
parte di Walter Benjamin che, partendo dalle condizioni fotografiche di riproduzione meccanica,
formulò, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, la famosa teoria della
perdita dell’aura, dando origine al relativismo storico della nozione estetica di originale.
L’aura costituisce la dimensione dell’autonomia dell’opera in rapporto al mercato e in rapporto al
valore di scambio. Privata dell’aura e quindi della sua autonomia estetica, un’opera d’arte diviene
un mero oggetto di scambio, prodotto per il consumo di massa.
Che cos’è esattamente l’aura? Essa è “un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione
unica di una lontananza. […] Ora, il bisogno di avvicinare le cose a se stessi, o meglio alle masse, è
intenso quanto quello di superare l’irripetibile e unico, in ogni situazione, mediante la sua
riproduzione. Giorno per giorno si fa valere sempre più incontestabilmente il bisogno di
impadronirsi dell’oggetto da una distanza minima, nell’immagine o meglio nella riproduzione”.
Benjamin, in accordo con il pensiero di Brecht, poneva attenzione all’avvento delle nuove tecniche
e al loro carattere di massa, da un angolo visuale per cui tale processo è considerato non solo
inevitabile, ma largamente positivo, in quanto pone termine a una concezione aristocratica dell’arte.
Fotografia come segno
Per Saussure tutti i sistemi culturali sono insieme di segni. Saussure stesso definì il segno come
l’unione di un significante e di un significato.
Nel caso della fotografia il significante è l’immagine visiva, il significato è l’immagine mentale.
La fotografia è comunque un sistema particolare di segni, che esprimono contorni e non concetti.
L’aspetto denotativo (la proprietà dei segni di designare un referente) è preminente rispetto a quello
connotativo (un significato secondario che si aggiunge a quello primario, che consente di dilatare
l’area di significazione di un segno).
Per mettere ordine all’interno del mondo dei segni il semiologo Charles Peirce operò una
classificazione sulla base delle relazioni tra segno e cosa:
a) icona (rappresenta l’oggetto per somiglianza);
b) indice (indica contiguità o connessione fisica e naturale);
c) simbolo (contiguità stabilita convenzionalmente).
Fotografia: messaggio senza codice
Secondo la classificazione peirceana la fotografia rientra nel secondo gruppo di segni: gli indici.
L’immagine fotografica di un oggetto o di una persona è la traccia indicale dell’oggetto o della
persona rappresentati. I contorni di luce dell’immagine fotografica sono la diretta emanazione della
realtà.
Sulla base di tali affermazioni Roland Barthes definì lo statuto della fotografia, come quello di un
messaggio senza codice. Se la fotografia è una traccia, non esiste un codice sovrastrutturale che
serva a tradurre i segni contenuti, ma gli stessi segni sono la spiegazione di loro stessi. L’immagine
di un oggetto è l’analogon del reale, ma non è il reale stesso, non si sostituisce mai all’oggetto
Infatti l’immagine fotografica opera per sottrazione: è un’operazione di tipo selettivo. Un
frammento di spazio e di tempo viene immobilizzato e tagliato fuori, attraverso l’inquadratura, da
tutto il resto.
Fotografia come messaggio
Il paradosso fotografico consisterebbe nella coesistenza di due messaggi: uno senza codice
(l’analogo fotografico) e l’altro con un codice (la retorica della fotografia).
Strutturalmente il paradosso non consiste nella collusione di un messaggio denotato e di un
messaggio connotato. Il messaggio connotato si sviluppa a partire da un messaggio senza codice.
Essendo costruita su un messaggio non codificato la fotografia, secondo Barthes, finirebbe per
presentarsi quale enigmatica ed inspiegabile collusione di naturale e culturale. Se non c’è codice
non c’è intervento umano, dunque il messaggio sarebbe di tipo naturale, viceversa nel momento in
cui scatta la connotazione c’è intervento dell’uomo e allora il messaggio diviene culturale.
Fotografia come messaggio
Alla percezione dell’immagine fotografica dà un grosso contributo la semiotica planare, che
analizza i linguaggi che fanno uso di un supporto bidimensionale. Secondo la semiotica planare il
testo visivo opera su due livelli:
a) figurativo, che determina la riconoscibilità delle rappresentazioni di oggetti e persone, in
relazione alla densità figurativa;
b) plastico, che determina le forme e i colori come si danno nella raffigurazione e nella
disposizione spaziale.
Per analizzare il livello plastico bisogna tenere conto di tre categorie:
a) topologiche (la disposizione degli elementi);
b) eidetiche (riguardano le forme degli oggetti, che a loro volta rimandano a convenzioni
sociali di senso. Le linee curve richiamano il femminile, quelle dritte il maschile, le oblique
il dinamismo o la caduta);
c) cromatiche (organizzate a partire dai tre colori primari - giallo, rosso e blu -da cui si
generano tutti gli altri, oppure dall’interazione del bianco e del nero).
Le idee centrali della fotografia
La fotografia, come possibilità di rappresentazione e di espressione, può essere utilizzata per
riprendere un’infinità di fatti naturali o artificiali. Ma al numero infinito di cose fotografabili non si
accoppia un numero infinito di idee da rappresentare. Una buona norma di qualsiasi forma di arte
visiva, per evitare di distrarre il fruitore, è quella di utilizzare una sola idea per volta.
Per mettere ordine nell’infinita possibilità di idee, utilizzeremo lo schema proposto da Nazareno
Taddei, che ha semplificato la materia come segue:

1. Idea documentaria;
2a. Idea narrativa-tematica;
2b. Idea narrativa-artistica;
3. Idea creativa
Idea documentaria
Le cose fotografate mantengono tutto il loro significato, si possono considerare come
COSE-OGGETTO. Il fotografo non è interprete, inventore o artista, ma è testimone. Protagonisti
delle fotografie di documentazione sono le cose e i fatti. Questa possibilità di rendere credibili cose
e fatti attraverso una rappresentazione fotografica è forse l’unico primato, e per di più difficile da
raggiungere, che la fotografia possiede.
Idea narrativa
Le cose fotografate mantengono in parte il loro significato, si possono considerare come
COSE-STRUMENTO. Il fotografo intende raccontare a modo proprio, esprimere giudizi, fare
valutazioni, indicare preferenze estetiche, proporre opinioni. Protagonista delle fotografie narrative
è il fotografo. Presentata così, però, l’idea narrativa assume contorni troppo vaghi, è dunque
necessaria una ulteriore distinzione in: idea narrativa-tematica e idea narrativa-artistica.
Con l’idea narrativa-tematica il fotografo cercherà di evidenziare idee che gli appartengono
(valutazioni, considerazioni, punti di vista, etc.).
Con l’idea narrativa-artistica il fotografo cercherà di evidenziare caratteristiche che appartengono
alle cose fotografate o alla loro disposizione nell’immagine (forme, colori, geometrie, accostamenti,
equilibri etc.).
Si noti come nei due casi l’idea di fondo resta la medesima: raccontare qualcosa sviluppando
caratteristiche latenti o evidenti della cose fotografate, che però mantengono anche nell’immagine
una parte dei loro significati diretti.
Idea creativa
Le cose fotografate sono occasioni per esprimere idee che con le cose stesse non hanno nulla a che
fare, le cose fotografate si possono infatti considerare COSE-PRETESTO. Il fotografo è un
operatore di creatività nella ricerca di forme non preesistenti, nella proposta di concettualità,
nell’invenzione di colori, nella magia di grafismi, collage, elaborazioni al computer, etc.
Protagonista di questo tipo di fotografia è appunto la creatività, ma intesa come valore in sé, anche
se, ovviamente, facente parte della fantasia del fotografo.
I tre livelli di significato
1° LIVELLO – Lettura dell’informazione materiale
L’informazione materiale di una fotografia evidenzia l’eventuale importanza della cosa fotografata.
Questa informazione materiale non va confusa con le foto fatte apposta per informare o
documentare: tutte le fotografie infatti, anche le più fantasiose, ci fanno conoscere qualcosa riferito
a ciò che nell’immagine è rappresentato. Il livello dell’informazione materiale, con il peso che il
tipo di foto gli assegnerà (massimo, elevato, scarso, medio, nullo) contribuirà a rendere evidente
l’idea centrale della fotografia e quindi il suo significato di comunicazione.
2° LIVELLO – Lettura del significato della fotografia
Il fotografo ha rappresentato il soggetto (cosa) in un certo modo affinché proprio attraverso il modo
(come) si arrivi a capire il significato (cosa + come = perché) della fotografia. Questo livello di
lettura è il sostanziale punto di arrivo della lettura intesa come comunicazione. Con questa lettura
comprenderemo l’idea che l’autore ha voluto comunicare, e quindi il segno fotografia avrà
adempiuto il suo compito.
3° LIVELLO – Lettura di un significato libero e personale
Succede spesso che una fotografia comunichi qualcosa oltre a ciò che l’autore desiderava
comunicare. Il colpevole è il lettore, che nella fotografia riconoscerà alcune cose che l’autore ha
inserito senza rendersene conto. Tali cose sono capaci di suscitare nel lettore sensazioni personali.
Questo livello può gratificare il lettore, ma spesso può allontanarci dalla comunicazione.
Indice e fotografia
Interessato all’indicalità dell’arte del XX secolo fu anche lo studioso dei media Philippe Dubois,
che identificò una coesistenza, alla tradizione estetica della mimesis, di un’estetica dell’indice, cioè
l’ “impossibilità di concepire il prodotto artistico senza includervi anche il processo di cui è frutto”.
Ma l’indice, per Dubois, si ferma allo stadio dell’ è stato, non si riempie di un vuol dire. La
referenzialità non esprime nessuna potenza di verità. “Per la sua genesi, la fotografia
necessariamente testimonia. Attesta ontologicamente l’esistenza di ciò che fa vedere. […] Ma ciò
non implica di per sé che essa significhi […] La fotografia non spiega, non interpreta, non
commenta. Essa è muta e nuda, piatta e opaca”.
Proseguendo nella sua ricerca Dubois si propose di dimostrare che “una parte molto importante
dell’arte contemporanea […] può essere considerata […] come un’evoluzione verso una
radicalizzazione della logica indicale, come se la fotografia, passato il tempo della sua affermazione
e della sua diffusione, una volta ben radicata la logica profonda e latente che la definiva, si fosse
messa a rivelare, a impregnare, a nutrire gli artisti”.
Secondo il pensiero di Franco Vaccari, il prodotto della macchina fotografica, l’immagine per
intenderci, è sempre un segno “già codificato”, perché si tratta di un “segno strutturato
dall’inconscio tecnologico del mezzo”, per la costruzione del quale intervengono, al momento dello
scatto, oltre all’inconscio tecnologico di cui si è fatta già menzione, anche l’inconscio sociale,
l’inconscio del fotografo ed anche, invadente e rumorosa, la “motivazione personale cosciente”.
A questa logica del segno il belga Henri Van Lier obietterà addirittura l’inconsistenza del suo
carattere di atto umano. Quella che noi chiamiamo fotografia è innanzitutto un’impronta, una
traccia prodotta da forze fisico-chimiche, “è una grafia della luce ad opera della luce stessa, che
l’uomo può soltanto raccogliere e provocare. I segni per Van Lier, analogici o digitali, sono sempre
segnali intenzionali, convenzionali e sistematici. Gli indici sono un particolare tipo di segni,
minimali, perché in sé non designano nulla, ma indicano soltanto. Per questa ragione Van Lier,
superando la tassonomia peirciana, parla, in riferimento alle impronte fotoniche di indizi, cioè di
effetti fisici di una causa, non intenzionali, né convenzionali, né appartenenti ad alcun sistema che
non sia quello fisico, e per questo non classificabili come segni.
Di natura assolutamente diversa sono le riflessioni di Jean-Marie Schaeffer, che pur riconoscendo
all’immagine fotografica il suo valore indicale di “corrispondenza proiettiva punto per punto fra
oggetto impressore e impronta fotonica, le attribuisce un soverchiante aspetto iconico di
rappresentazione visiva”. Schaeffer mise in rilievo non tanto l’atto di produzione, quanto l’atto di
ricezione, “non tanto il come fotografiamo quanto il come guardiamo una fotografia”.
Secondo Jean-Claude Lemagny “la fotografia non è segno e messaggio, e l’arte non è concetto e
materializzazione, ma entrambe sono riproposizioni della muta e opaca presenza delle cose. Se un
ruolo l’Arte Concettuale e le ricerche semiotiche hanno avuto, è stato quello di demistificare l’arte
come comunicazione di un significato […] e di far capire che la fotografia, in quanto arte, sfugge a
un approccio concettuale e semiotico”. Lemagny sostituì alla lettura semiologica della fotografia
quella estetica, non intendendo la fotografia come atto comunicativo, ma come atto artistico: “l’arte
non riduce a pezzettini le cose reali per farle entrare nel tritatutto di un codice che le ributterà fuori
dall’altra parte. Le opere d’arte possono trasmettere informazioni, ma […] in quanto opere d’arte,
esse non comunicano mai niente a nessuno. […] Dove c’è la comunicazione, non c’è più l’arte.
E’ l’ideologia della comunicazione che infesta l’arte. […] L’arte è contraria a qualsiasi
comunicazione perché non mira, come suo effetto, né al potere, né all’appropriazione, né all’uso
strumentale. […] L’arte non è il sapere”
La concettualità della fotografia
La presenza della fotografia nell’attuale congiuntura artistica segnala l’ennesimo spostamento della
ricerca verso il polo della concettualità e rilancia questo valore per ciò che riguarda l’identità stessa
della fotografia.
La concettualità si pone come elemento dialettico rispetto al polo della formalità. La formalità
equivale al primato dell’opera materialmente intesa, mentre la concettualità si definirà per
differenza rispetto ad essa. La categoria della concettualità va concepita come variabile e non
bloccata, storicamente mutabile.
Esiste una differenza sostanziale di possibilità concettuale fra fotografia in bianconero e fotografia a
colori. La fotografia in bianconero è già un’astrazione in sé. L’assenza del colore indica un notevole
scarto dalla realtà. Non è un caso che molti fotografi non utilizzino il bianconero perché non reale.
Quanto sopra affermato non vuol dire che tutte le fotografie in bianconero siano concettuali e che
quelle a colori non lo siano. Esistono esempi di bianconero ricco e sontuoso e casi di
concettualismo fotografico espresso attraverso il colore.
L’ Estetico e la fotografia
L’estetico è descrivibile come una particolare forma di artisticità che l’esclude l’opera,
richiamandone tutte le caratteristiche senza che queste poi confluiscano e si concretizzino nella
produzione di un manufatto. L’atteggiamento estetico si ferma al livello del comportamento, del
coinvolgimento sensoriale.
Appare chiaro che la fotografia occupi un ruolo mediano tra praticità ed arte del tutto simile a
quello attribuito all’estetico. La fotografia ha innegabilmente posto il problema di un’artisticità
allargata, quotidiana, domestica.
Nell’ambito dell’artisticità delle immagini dobbiamo distinguere tre categorie differenti:
1) Manuali (pitture e immagini affini);
2) Mediali non sintetiche (fotografia, cinema e video);
3) Mediali sintetiche (digitali).
La fotografia digitale
Il suo avvento ha destabilizzato la nostra idea di immagine, determinando la venuta meno della
contrapposizione tra pensiero concettuale e pensiero visivo, tra astratto e analitico. La generazione
della nuova immagine è determinata adesso dalla risoluzione, cioè da un calcolo numerico
bidimensionale e tridimensionale.
Tra i teorici prevale l’idea che il legame tra tecnologia chimica “ad impronta” e realtà, sia
completamente venuto meno con la tecnologia digitale a “traduzione numerica”.
Ogni barriera è stata abbattuta, anche quella della classificazione segnica. Le immagini digitali
hanno perso lo statuto di analogon del reale e pertanto non possono essere classificate come indici,
ma come icone indicali.
Gianfranco Bettetini ha tracciato una classificazione delle immagini di sintesi:
a) riproduzione di immagini (trasformazione digitalizzata di un’immagine) ;
b) rielaborazione di immagini (trasformazione di un’immagine digitalizzata in un’altra
immagine);
c) integrazione (composizione di una nuova immagine utilizzando più immagini);
d) produzione di immagini-oggetto (creazione di un’immagine derivata da un programma
matematico, che non ha un referente di partenza).
Con il superamento del sistema chimico cessa il principio della referenzialità di ferro, nata con
l’invenzione di Niepce e Daguerre.
Nella fotografia tradizionale si ha a che fare con una superficie emulsionata di materiale foto
sensibile (il negativo) capace di registrare l’azione della luce riflessa dai corpi che si trovano di
fronte all’obiettivo.
Nella fotografia digitale questa azione viene raccolta da un componente elettronico a forma
rettangolare denominato CCD (Charge Copuled Device). La superficie del CCD è disseminata di
milioni di piccolissimi elementi sensibili alla luce (pixel), che trasformano la luce in corrente
elettrica, più o meno intensa a seconda della quantità di luce ricevuta.
Il negativo chimico rappresenta in maniera analogica un certo soggetto, risultando sulla sua
superficie una traccia continua di variazioni tonali del tutto analoga alla continuità che la materia
presenta nel reale. Il negativo elettronico rappresenterà il medesimo soggetto in digitale, cioè in
modo discontinuo rispetto alla continuità della materia stessa, secondo un codice numerico binario
(0/1).
Secondo Manzini la questione delle immagini sintetiche sta nel rapporto con una particolare
dimensione del reale precedentemente inesistente.
La conseguenza più rilevante di tutti i fenomeni collegati all’immagine sintetica è il superamento
della necessità dell’ en plein air. Nel virtuale, infatti, tutto si può fare “come se”, senza
necessariamente essere in contatto autentico con le cose.
Come ha sottolineato Jean Louis Weissberg: “il virtuale non rimpiazza il reale: ne diventa una
forma di percezione, in un mixage dove entrambe le entità sono contemporaneamente necessarie”.
Il riconoscimento di questa connessione tra reale e virtuale prevede per forza di cose la
consapevolezza della simulazione e se “virtuale e reale sono due facce della stessa questione” il
“come se” di cui sopra non può avvenire in stato di narcosi ma nella consapevolezza piena e totale
della finzione.
Il digitale può aver cambiato qualcosa dal punto di vista sintattico ma non certo da quello
pragmatico, perché chimica o numerica una fotografia rimane una fotografia, continua a funzionare
nella logica del “come se”.
Si pensi al caso storico del fotomontaggio, praticato già vent’anni dopo l’invenzione della
fotografia, anch’esso privo di un referente diretto. Il fotomontaggio appare addirittura più avanzato
del digitale perché non può vantare nemmeno una referenza numerica, eppure funziona in senso
referenziale. La referenzialità era la condizione della sua stessa esistenza.
La falsa rivoluzione del digitale
Il digitale si presenta come una rivoluzione tangibile sul piano del mercato. Infatti con esso ci si
trova per la prima volta dinnanzi ad un vero e proprio sistema multimediale domestico, dal
momento che l’utilizzo di una macchina fotografica digitale o di uno scanner è strettamente
connesso al possesso ed all’uso di un PC sul quale scaricare, selezionare, archiviare, inviare e
manipolare le immagini.
Claudio Marra si pone alcune domande:
a) l’avvento della tecnologia digitale ha effettivamente prodotto un cambio di identità nello
statuto della fotografia?
b) per quale motivo questo eventuale cambio è stato e continua ad essere salutato con tanto
entusiasmo dai teorici che credono d’averlo rilevato?
Che la fotografia digitale sfugga al principio dell’indice, allo stato attuale, è pura fantateoria, alla
quale facciamo finta di credere. Ma alcuni dubbi sono legittimi:
a. Se anche ragionassimo in termini puramente tecnici è possibile dire che il processo digitale non
sia anch’esso un processo da “indice genuino”? In definitiva il principio dell’impronta rimane. La
differenza c’è perché abbiamo visto che si passa da un’impronta “tale e quale” nel chimico ad una
numerica nel digitale;
b. La fotografia digitale rimane un processo indicale perché comunque fondata su un principio di
relazione in presenza. Nessuno può contestare il fatto che per realizzare un’immagine digitale
occorra essere materialmente in faccia al soggetto. Il principio barthesiano dell’è stato è salvo e
confermato;
c. Nell’uso una fotografia rimane una fotografia, sia essa analogica o digitale. Una volta stabilitasi
una convenzione culturale rimane tale a prescindere dalla forma materiale che la incarna.
I generi fotografici
Esistono vari tipi di fotografia, per esigenze di sintesi ci limiteremo a tre grandi categorie:
a) fotografia giornalistica (secondo Lambert è lo specchio su cui si iscrivono i miti della nostra
società, è la forma di fotografia più innamorata del reale);
b) fotografia artistica (in cui sono più evidenti i valori dello stile, fra reale e astrazione);
c) fotografia pubblicitaria (serve per vendere un prodotto astratto dandogli vita reale in una messa in
scena che crea un’immagine verosimile).

Catania lezione 2
I generi fotografici
Esistono vari tipi di fotografia, per esigenze di sintesi ci limiteremo a tre grandi categorie:
a) fotografia giornalistica (secondo Lambert è lo specchio su cui si iscrivono i miti della nostra
società, è la forma di fotografia più innamorata del reale);
b) fotografia artistica (in cui sono più evidenti i valori dello stile, fra reale e astrazione);
c) fotografia pubblicitaria (serve per vendere un prodotto astratto dandogli vita reale in una messa in
scena che crea un’immagine verosimile).
La moda
La moda, come fenomeno mutevole dell’epoca in cui viviamo, riguarda “tutta l’esistenza
sovrastrutturale dell’uomo, dalla politica all’arte, dalla letteratura alle maniere di pensare”. Gli abiti
sono sempre stati usati come strumenti sociali allo scopo di affermare – come status symbol – le
particolari condizioni economiche e i ruoli determinati, rivelando, nel contempo, la nostra
weltanschauung e gli umori fondamentali della vita sociale.
La moda, strumento di piacere e di fascino visuale il cui valore è determinato dalla sua capacità
conativa e seduttiva, può essere adeguatamente compresa solo in rapporto ad un determinato
contesto sociale. Dal punto di vista della psicologia sociale, “la moda è, fra i fenomeni collettivi,
ciò che ci rivela, nel modo più immediato, la presenza della dimensione sociale nell’ambito dei
nostri comportamenti. La moda riguarda l’individuo e i gruppi sociali ed esiste solo in quanto vi è
reazione dell’individuo in rapporto al mondo esterno”.
La propagazione della moda
I modelli esplicativi della propagazione della moda sono:
a) a goccia (Simmel), che presuppone la società simile a una piramide dove le mode derivano
dell’alto per gocciolamento: al vertice della società, per qualsiasi ragione, si impone una
regola del gusto, cui segue un graduale adeguamento della massa sociale (andamento
verticale);
b) inseguimento e fuga (McCraken), che presuppone l’esistenza di una classe elitaria che crea
tendenze e una massa che cerca di imitarle inseguendo i continui mutamenti dell’avanguardia
sociale (andamento orizzontale).
Tali tentativi di modellizzazione, largamente condivisi per decenni, sono ampiamente contraddetti
dalla pratica quotidiana degli ultimi dieci-quindici anni delle ricerche di moda. Le tendenze più
seguite, infatti, vengono dalla strada e segnano il tramonto del total look e il trionfo del melting pop
vestimentario.
La moda del resto “è il regime del mutamento obbligatorio del gusto: qualche cosa che ieri non
piaceva ancora e domani non piacerà più, oggi riscuote l’approvazione generale”.
Lo sviluppo contemporaneo della moda non avrebbe potuto prodursi senza l’esistenza di uno
strettissimo rapporto tra domanda e offerta, che colloca la moda stessa nel più ampio regime della
produzione di massa, secondo le norme dell’economia di mercato. I continui cambiamenti
determinati dalla moda hanno causato un profondo mutamento dei suoi valori fondativi,
trasferendola dall’ambito del superfluo e dell’ornamentale ad un ambito primario nell’esistenza
quotidiana degli individui (toglietemi tutto ma non il mio Breil).
“La fotografia di moda è una menzogna, che acquista realtà solo sulla carta stampata”.
Chris Von Waggenheim
“Il mondo della fotografia di moda è una fonte sorprendente di piacere e fascino visuale”.
Alexander Liberman
“La moda rappresenta lo specchio rivelatore della società”
Giuliana Scimè
La moda, avendo trovato nella fotografia il principale mezzo di diffusione e di affermazione, non
può fare assolutamente a meno di essa. Sulla scorta dell’affermazione precedente, non bisogna
credere che la moda si identifichi tout court con l’immagine fotografica, ma senza di essa resterebbe
assolutamente separata dalla comunicazione. Tale rapporto privilegiato, tra moda e fotografia, ebbe
inizio nei primi del Novecento, dando origine ad alcuni degli esiti creativi di maggior rilievo del
secolo scorso. La fotografia di moda, soddisfacendo le naturali tendenze dell’uomo all’evasione, ha
avuto un processo evolutivo parallelo e di pari dignità agli sviluppi estetici dell’immagine
fotografica.
Con il ritratto la fotografia aveva dissacrato e distrutto il concetto di immagine tramandata solo dai
ricchi e dai nobili. Con la moda la rivoluzione operata dalla fotografia è stata ancora più radicale e
violenta.
Il rapporto tra moda, fotografia e mass media è oggi considerato strettissimo. Stranamente, però, il
genere “fotografia di moda” è fra i più tardi a comparire e svilupparsi. Ragioni tecniche di
riproduzione sulla pagina stampata e il ritardo nell’evoluzione della moda come industria hanno
rallentato il processo di qualche decennio.Nel 1880 venne messo a punto il processo meccanico
half-tone per la riproduzione dell’immagine assieme ai caratteri di stampa.
Da lì in poi la fotografia fece il suo ingresso nell’editoria periodica; divenendo il cardine attorno al
quale ruotano tutte le figure professionali coinvolte. La prima foto di moda apparve nel 1892 sulla
rivista francese La mode pratique.
Le prime fotografie di moda erano lo studio della donna. L’intento di base era quello di realizzare
un ritratto. L’illuminazione naturale, una rilassata e serena posa statica hanno dato vita a immagini il
cui effetto e il cui ricordo è ben fisso nella nostra mente.
Successivamente, trucco eccessivo e pose che sembrano uscite da una pantomina, da un balletto o
da una danza, crearono un mondo fittizio, artificiale, di gusto scenico. Un mondo che trasporta le
lettrici di tutti i giorni in un “paese che non c’è”, dove possono immaginare di indossare come in un
sogno quel particolare vestito e di emanare quel particolare fascino.
La fotografia di moda è quindi la visualizzazione delle immagini di sogno richieste dalla società del
tempo. L’orizzonte del sogno muta a seconda dei decenni, fino ad arrivare all’odierno “incubo”
espresso nelle fotografie dell’ultimo ventennio.
Nella prima fase la fotografia di moda trasse ispirazione della pittura e dell’arte figurativa in genere.
Nella seconda fase (a partire dagli anni ’50-’60) la fotografia di moda si è liberata dall’imitazione
per restituire un’immagine nuova della donna: più libera e sempre in movimento.
Paradossalmente oggi non è più la fotografia a imitare l’arte, ma l’arte a sconfinare nel campo della
fotografia. La fotografia di moda non si regge più sulle immagini per pochi eletti, ma sull’abilità del
fotografo di ritrarre gente dinamica, che vive e agisce.
Il fotografo di moda gode di una libertà di mezzi assoluta. In nessun altro campo vengono concessi
budget così generosi per spese, per i viaggi e per i materiali.
Anche fotografi non professionalmente dediti alla fotografia di moda, realizzarono, in quest’ambito,
alcune delle loro creazioni migliori. Il fotografo di moda, lavorando per le riviste o per gli stilisti ha
il compito di creare le immagini di uno o più capi di abbigliamento, allo scopo di “stimolare
emotivamente, per non dire oniricamente, i fruitori di quelle immagini per trasformarli in potenziali
consumatori”. Una fotografia di moda, quindi, non è mai la semplice riproduzione di una capo di
abbigliamento, ma la realizzazione di una messaggio pubblicitario, formalmente corretto, che,
attraverso un’idea e la sua raffigurazione, evoca illusioni: “la fotografia di moda esiste per mostrare,
creare e infine vendere uno stile”.
Il fotografo di moda
L’unità di stile personale diviene “marchio di fabbrica” dei grandi fotografi di moda. Essi non
modificano il proprio approccio al tema, non cambiano da un servizio all’altro
I fotografi di moda lavorano a stretto contatto con gli art director delle riviste o delle agenzie
pubblicitarie. Quelli di grande esperienza e di grande fama costruiranno lo shooting seguendo le
loro idee originali e successivamente indicheranno le proprie preferenze tra le immagini realizzate;
mentre quelli più giovani e meno esperti rimetteranno all’art director e allo staff editoriale ogni
scelta e decisione, limitandosi ad eseguire al meglio possibile i loro scatti.
Il fotografo di moda e le riviste
I fotografi di moda lavorano normalmente con pellicole bianconero o con diapositive a colori. Gli
scatti realizzati vengono analizzati e selezionati, solo una minima parte verrà pubblicata. Spesso, a
seconda delle esigenze editoriali, questi scatti vengono ritagliati per lasciar spazio ad altri elementi.
Una volta, per decidere il taglio definitivo di un’immagine, si usavano le fotocopie della stessa che
venivano sezionate fin quando non si arrivava al risultato desiderato. Oggi tale processo si fa al
computer con delle prove dirette di impaginazione.
Uno dei punti di forza della moderna fotografia di moda consiste nella capacità della macchina di
cogliere le donne nei loro movimenti più intimi, come attraverso gli occhi di un osservatore
invisibile.
In studio si ricorre a volte all’artificio per creare risultati naturali. La modella deve esagerare i
movimenti in modo che l’azione rimanga visibile anche sulla pagina stampata.
L’effetto bidimensionale comune tanto alla fotografia quanto alla pagina stampata della rivista è
finalizzato a imprimersi nella memoria. Sembra infatti che tutti noi possediamo notevoli difficoltà
nella visione tridimensionale e che la qualità bidimensionale della fotografia eserciti un tremendo
potere sulle nostre facoltà di memorizzazione.
Il fotografo di moda e le modelle
Le prime fotografie di moda erano molto simili a ritratti ben studiati. Come in ogni fotografia di
ritratto che si rispetti il rapporto di complicità tra fotografo e soggetto è determinante per la riuscita
finale. Oggi il profondo coinvolgimento del fotografo con la modella fa emergere il segreto insito
nella fotografia di moda: il contenuto erotico. La carica erotica che viene a crearsi nello studio si
trasforma in un ricordo durevole di una fugace relazione uomo-fotografo e modella-donna.
La presenza di molte donne fotografe nasce dall’essere in grado di cogliere, attraverso la propria
consapevolezza ed esperienza personale, quei precisi attimi di intimità e abbandono che pochi
uomini sanno considerare e comprendere.
Le modelle
Le modelle hanno sempre rappresentato uno degli elementi fondamentali della fotografia di moda.
Le prime modelle furono le donne della high society, che amavano farsi ritrarre con i loro preziosi
abiti. Successivamente tale figura acquisì connotazioni professionali con la nascita di agenzie di
model management sempre più organizzate e con contatti in tutto il mondo (vedi l’attuale Agenzia
Elite – www.elitemodel.com).
Le prime modelle professioniste rimasero però nell’anonimato. Solo dagli anni ’50 in poi (con
Richard Avedon) cominciò il culto della modella, sex symbol desiderato e osannato da uomini e
donne
Agli esordi della fotografia di moda era la perfezione di tratti che si ricercava in una modella. La
predilezione per un’impersonalità statuaria rientrava in una generale indifferenza verso l’essere
umano. Gli abiti e gli ambienti avevano più importanza
Oggi, invece, la personalità della modella è diventata fondamentale. Sono addirittura richieste
piccole imperfezioni nei lineamenti perché servono ad imprimere nella mente una particolare
donna. La modella è amata per quello che è, difetti compresi. Essere fotogenici significa essere
originali, non compressi in un modello convenzionale. Il fascino dell’unicità è l’afrodisiaco dei
giorni nostri.
Arte & Fotografia: la donna
Per gli artisti del passato il corpo femminile, vestito e non, ha sempre costituito il soggetto
principale e uno strumento per comprendere l’universalità. Se i capolavori del passato hanno
mantenuto un impatto durevole sull’osservatore, è stato perché dietro ogni forma di coinvolgimento
esiste un flusso di desiderio.
In ogni civiltà la sconvolgente rappresentazione di donne nude o vestite è stata una ricca fonte di
piacere e ha creato di volta in volta standard visuale di bellezza.
Donna & Fotografia: la seduzione
Siamo circondati da immagini di una presenza femminile tutta seduzione. Non a caso i pubblicitari
abbinano l’elemento erotico a qualsiasi merce per stimolare direttamente il desiderio di possesso
nella mente del lettore-spettatore.
La fotografia di moda è stata il terreno di formazione per gli esploratori di questo nuovo erotismo
ed è negli studi dei fotografi di moda che si è sviluppata la visione dell’attuale seduttrice.
Ogni tempo ha le sue immagini. Alcune immagini del passato erano “verginali”; lo sguardo erano
pudicamente rivolto a terra per mantenere una distanza fra l’osservatore e il soggetto. Oggi lo
sguardo diretto della donna è una provocazione colta e moltiplicata dalla fotografia.
Moda & Fotografia: gli scopi
Nella fotografia di moda è sempre presente l’esigenza di creare un’immagine che colpisca, diverta,
intrattenga o provochi, giacché è innata nell’uomo l’esigenza dell’evasione. I viaggi immaginari in
paesi lontani dove splendide donne stanno sdraiate ai bordi di piscine o su spiagge da sogno,
costituiscono un potente antidoto al grigiore quotidiano. La fotografia di moda diventa un’opera
visuale che sospende momentaneamente la percezione della vita di ogni giorno.
Molto spesso gli abiti possiedono una semplicità insufficiente in se stessa a fornire la varietà che
una rivista esige. E’ compito del fotografo creare immagini interessanti, che si distinguano dal
lavoro di chiunque altro.
Moda & Fotografia: altre figure
Per la realizzazione di un servizio di moda insieme al fotografo lavorano in sinergia, oltre all’art
director che coordina, una serie di assistenti, spesso anche uno scenografo e sempre un hair stilist e
un make-up artist.
Particolarmente importanti sono queste due figure. Alla base di una buona fotografia di moda ci
deve essere sempre una buona pettinatura e un buon trucco, confacenti alle esigenze del fotografo e
del servizio.
Moda & fotografia: i generi
All’interno del vasto concetto di fotografia di moda rientrano diversi generi fotografici che, per le
loro peculiarità tecniche, possono avere una vita autonoma:
1. Fashion photography (la fotografia di moda propriamente detta);
2. Beauty photography (genere coincidente spesso con la fotografia di ritratto);
3. Glamour photography (genere finalizzato alla realizzazione immagini sexy e ricche di
fascino);
4. Nude photography (genere finalizzato alla produzione di immagini del corpo ritratto nella
sua essenza formale).
Beauty photography
Questo genere fotografico è spesso identificato con la fotografia di ritratto. Dal ritratto puro e
semplice differisce per alcuni accorgimenti tecnici: tagli molto stretti, ricorso all’high key e scarsa
ricerca introspettiva. Professionalmente è diffusa nella fotografia pubblicitaria di categorie
merciologiche molto specifiche: gioielli e cosmetici.
Glamour photography
Questo genere fotografico è finalizzato alla produzione di immagini sexy e ricche di fascino. A
livello professionale trova spesso applicazione nella fotografia di underwear e swimwear.
Nude photography
Questo genere fotografico è finalizzato alla produzione di immagini del corpo ritratto nella sua
essenza formale. Le pose possono essere semplici e naturali (intime) o dirette e provocanti (stile
Playboy).
L’idea di nudo artistico in fotografia, rispetto al nudo pittorico è a grandi linee un falso. Quasi tutta
la fotografia di nudo ottocentesca che si proponeva come artistica tendeva in realtà ad aggirare le
barriere della censura legale e comunque della morale borghese, offrendo ipocritamente un prodotto
socialmente accettabile in virtù della sua appartenenza alla categoria dell’arte.
Una fotografia di nudo, indipendentemente dal suo scopo, risulta più provocante di un nudo dipinto,
questo accade perché, proponendosi come oggetto concettuale anziché formale, la fotografia
rimanda obbligatoriamente al momento “vero” della ripresa, momento che mantiene intatto il
fascino della verità, dell’esistito e dunque del potenzialmente esistibile.
Fashion photography
Gli usi professionali della fashion photography sono diversi. Tutti hanno la loro importanza
all’interno della comunicazione messa in atto dall’industria moda. Essi coinvolgono direttamente o
indirettamente: fotografi, stilisti, modelle, pubblicitari, art-director, copywriter, giornalisti, editori,
fashion manager etc.
I principali sono:
1. Pubblicità (Riviste e cartellonistica);
2. Copertine di riviste;
3. Redazionali (Descrittivi, Narrativi, Interpretativi);
4. Cataloghi (semplici pubblicazioni destinate alla distribuzione su larga scala e/o pregevoli
opere editoriali);
5. Sfilate (immagini destinate alla stampa specializzata);
6. Cronache di costume (immagini destinate ai rotocalchi);
7. Fotolibri (raccolte di immagini di grandi fotografi o di stilisti affermati);
8. Internet (immagini finalizzate alla vendita on-line dei prodotti);
9. Book per modelle.
La pubblicità della moda
Secondo Vanni Codeluppi il linguaggio pubblicitario della moda presenta una povertà rispetto alla
ricchezza segnica di altri settori merceologici. Cosa paradossale per un ambito in cui l’immaterialità
ha un peso determinante.
Secondo Roland Barthes nei servizi fotografici pubblicati sulle riviste di moda “il mondo è
ordinatamente fotografato sotto le specie di uno scenario, di uno sfondo, di una scena, insomma di
un teatro”. Niente come la moda si presta alla teatralità, alla messa in scena di sé e del mondo.
Vanni Codeluppi ha elaborato inoltre una griglia interpretativa decisiva per analizzare e mettere in
rilievo le diverse strategie comunicative della moda:

a) autonomia (modella in uno spazio illimitato e a-significante);


b) intimità (sfondo sempre a-significante ma modella con atteggiamento più naturale che mette
a nudo la sua natura di persona);
c) rappresentazione (viene messo in scena uno scorcio di vita, l’enfasi si sposta dal corpo della
modella al contesto in cui è inserita);
d) inclusione (osservatore invitato a partecipare da protagonista da uno sguardo ammiccante);
e) complicità (tutto il corpo ed il volto sono tesi a coinvolgere lo spettatore);
f) empatia (la modella perde importanza e si colloca in un ambiente quasi astratto che diviene
protagonista, prevale l’atmosfera psicologica).
Autonomia
(modella in uno spazio illimitato e a-significante)
Intimità
(sfondo sempre a-significante ma modella con atteggiamento più naturale che mette a nudo la sua
natura di persona);
Rappresentazione
(viene messo in scena uno scorcio di vita, l’enfasi si sposta dal corpo della modella al contesto in
cui è inserita);
Inclusione
(osservatore invitato a partecipare da protagonista da uno sguardo ammiccante);
Complicità
(tutto il corpo ed il volto sono tesi a coinvolgere lo spettatore);
Empatia
(la modella perde importanza e si colloca in un ambiente quasi astratto che diviene protagonista,
prevale l’atmosfera psicologica).
Le copertine dei fashion magazine
La copertina del fashion magazine ha la funzione di incuriosire e attrarre il lettore inducendolo
all’acquisto. Normalmente le fotografie pubblicate in copertina presentano un soggetto che guarda
dritto in macchina, effetto che si riproduce sulla pagina stampata come la proposta di un dialogo. Le
riviste di moda in commercio sono sempre più numerose. Alcune di esse sono ultracentenarie
(Vogue e Harper’s Bazaar) ed escono in numerose edizioni nazionali.
I redazionali delle riviste di moda
Il redazionale delle riviste di moda è una sottile forma di comunicazione pubblicitaria mascherata
da articolo di costume o da storia. Abbiamo detto che i redazionali possono essere di tipo
descrittivo, di tipo narrativo o di tipo interpretativo.
Il redazionale descrittivo serve semplicemente ed esplicitamente a mostrare un prodotto. La
realizzazione fotografica può essere semplice e lineare oppure può ricorre all’utilizzo di particolari
forme di illuminazione. Gli sfondi sono quasi sempre neutri e la modella si muove in maniera
naturale.
Il redazionale narrativo serve sempre a mostrare un prodotto, ma il prodotto non è più il solo
protagonista dell’immagine. La realizzazione fotografica non è quasi mai semplice e lineare. Il
fotografo ricorre spesso all’utilizzo di particolari forme di illuminazione e richiede al suo modello
una gestualità marcata. Gli sfondi non sono quasi mai neutri e molto spesso le fotografie vengono
ambientate al di fuori della sala di posa.
Il redazionale interpretativo serve anch’esso a mostrare un prodotto, ma lo fa in maniera
assolutamente marginale. Spesso si tratta di un articolo-intervista ad un personaggio famoso che,
mentre ci racconta qualcosa di sé, ci mostra degli abiti con assoluta naturalezza … quasi fossero i
suoi. A seconda del personaggio ritratto il fotografo trascina o si lascia trascinare verso la direzione
voluta.
I cataloghi di moda
Il catalogo realizzato da un’azienda di moda è finalizzato a mostrare i prodotti venduti per quella
stagione. Esistono vari tipi di cataloghi a seconda dei destinatari. Quelli realizzati come supporto
all’attività dei rappresentanti sono assolutamente descrittivi. Mostrano il prodotto senza aggiungere
nulla. Danno informazioni sui colori disponibili, sulle taglie e sui costi.
Vengono prodotti inoltre dei cataloghi destinati a una distribuzione più diffusa, rivolti quindi al
grande pubblico degli acquirenti, che conservano intatte le caratteristiche della fotografia
pubblicitaria non descrittiva ma finalizzata a suscitare emozioni e desiderio d’acquisto. Questi
cataloghi a volte raccolgono le immagini utilizzate per la cartellonistica e per le riviste. Dal punto di
vista fotografico, all’interno di questa categoria, possono esserci delle differenziazioni di qualità,
che dipendono dal tipo di linea di prodotto presentata.
Quando uno stilista, o un brand, vuole eccedere, non accontentandosi del normale catalogo di poche
pagine, stampato in maniera approssimativa, nascono prestigiose pubblicazioni editoriali, molto
ricercate sul mercato librario. In questi casi viene scelto un grande fotografo che, attraverso il suo
prezioso lavoro, saprà arricchire l’immagine dell’azienda (vedi il caso Avedon-Versace e quello
Parisotto-La Perla)
Le sfilate di moda
La fotografia delle sfilate di moda non ha mai finalità artistiche. E’ indirizzata a mostrare un evento
mediatico, rendendo possibile la sua presentazione sulle riviste specializzate. Le tecniche di ripresa
sono più reportagistiche che fashion.
Le cronache di costume
Anche la fotografia di costume non ha mai finalità artistiche. E’ indirizzata a mostrare un evento
mondano, rendendo possibile la sua presentazione sulle riviste specializzate, che “ad arte”
sottolineano che il personaggio “x” ha indossato il capo dello stilista “y”.
I fotolibri di moda
Sono dei pregevoli prodotti editoriali che mostrano la produzione artistica di un fotografo, di uno
stilista, di una modella oppure le tendenze di un determinato periodo (spesso cataloghi di importanti
mostre). Tali strumenti di consumo meno rapido delle riviste consentono alla fotografia di moda, di
per sé caratterizzata da un mutamento continuo, di tramandarsi nel tempo.
La moda su Internet
La moda su internet è presente grazie ai siti specializzati che possono avere carattere divulgativo,
promozionale, storico e, più frequentemente commerciale. I siti commerciali fanno un uso specifico
della fotografia di moda: quello descrittivo. Sono realizzati per vendere on-line i prodotti di una
determinata azienda e utilizzano immagini che mostrano il prodotto in maniera asettica.
I book per modelle
Le fotografie dei book per modelle stanno a cavallo tra il genere fashion e il genere beauty. Sono
finalizzate a mostrare le caratteristiche fisiche e somatiche di una modella/o o aspirante tale e
vengono raccolte, dopo accurata selezione, in cartoncini promozionali chiamati composit. Nei
composit troviamo spesso uno o più ritratti e delle figure intere. Il numero di fotografie presenti in
composit è mediamente di cinque immagini (una grande davanti e quattro più piccole dietro).
Lezione Catania 3
Parlare di fotografia di moda tentando di tracciare un percorso storico degli ultimi 150 anni è
impossibile senza ruotare attorno alla figura del fotografo. Fin dagli inizi il lavoro del fotografo di
moda è apparso in bilico tra arte e mestiere. Mai però come in questo caso un artista si è trovato
così preso fra la committenza (la casa di moda o lo stilista, il magazine e l’agenzia pubblicitaria) ed
il mezzo tecnico (la fotocamera, il laboratorio, il materiale sensibile, il retino tipografico).
Le foto di questi maestri resistono alle restrizioni della tecnica e della committenza, in qualche
modo ne escono rafforzate. Vengono alla mente i maestri del Rinascimento che raggiunsero il
massimo splendore proprio quando furono costretti a raffigurare scene religiose e la loro fantasia fu
fortemente imbrigliata dal tema obbligato.
Le origini
La fotografia di moda è, nella sua definizione più semplice, un’immagine realizzata per fornire una
descrizione di abiti o accessori da vendere. Gli inizi della storia di questo genere di fotografia
risalgono al 1850-60; ma solo intorno al 1880-90 la fotografia di moda entra nell’uso comune,
ottenendo un ruolo prettamente commerciale attraverso la pagina stampata. La sua affermazione in
tal senso va inoltre messa in relazione con una importante svolta tecnologica: l’invenzione e
l’applicazione pratica del processo di stampa denominato mezzotono (half-tone), grazie al quale una
singola foto poteva essere riprodotta tipograficamente un gran numero di volte assieme ai caratteri
di stampa.
Quindi anche se le prime fotografie di moda sono vecchie quanto l’arte fotografica stessa, il genere
si affermò decisamente circa cinquanta anni dopo, sulla carta stampata, dando inizio ad un sodalizio
che dura ancora oggi e senza il quale non si potrebbe sostanzialmente parlare di moda, nei termini
che ci sono noti.
Ai primi del Novecento l’industria della moda non era ancora nata e quindi non era lo stilista ad
essere al centro della scena, ma il proprietario dell’abito.
Un eloquente esempio di fotografie di abiti alla moda è dato dell’album della Contessa di
Castiglione, una raccolta di 288 fotografie realizzate dalla ditta Mayer & Pierson nel 1856. Questo
album rientra maggiormente nella categoria ritratto piuttosto che in quella della fotografia di moda.
Ma già negli anni 1860-70 molti ritrattisti cominciarono a mostrare un particolare interesse per il
lato moda dei loro ritratti. Tali immagini non possono essere considerate comunque fotografie di
moda, poiché il fine è il ritratto. L’unica utilizzazione della fotografia di moda a scopo
commerciale prima degli anni 1880 è quella della carte de visite.
Le prime immagini di moda pubblicate furono delle incisioni ricavate da fotografie che divennero
degli aiuti visuali per l’incisore, senza i quali non avrebbe potuto prescindere dalla modella in
carne e ossa.
La prima riproduzione in assoluto di una fotografia di moda avvenne nel 1892, sul periodico
francese La mode pratique. Nel 1901 a Parigi uscì il primo numero del periodico Les Modes che,
nel corso della pubblicazione, avrebbe fatto largo uso di illustrazioni fotografiche.
A Parigi nascono inoltre numerosi studi dediti alla fotografia di moda. I fratelli Seeberger furono
veri specialisti del genere. Utilizzarono come modelle signore dell’alta società che indossavano i
loro stessi abiti firmati dai più famosi sarti.
Il più importante studio del XIX secolo fu la Maison Reutlinger, in boulevard Montmartre a Parigi.
La produzione dello studio si sviluppò progressivamente dal ritratto convenzionale alle pose dei
figurini di moda disegnati a mano.
L’importanza del legame tra fotografia di moda e pagina stampata rende comprensibile il fatto che
la sua storia sia così strettamente legata al rapporto tra fotografo e staff editoriale. I principali editori
di moda furono Condè Nast, che nel 1909 acquistò Vogue, e William Randolph Hearst, che nel 1913
comprò Harper’s Bazaar. Ugualmente importanti sono le grandi redattrici di moda: Edna Woolman
Chase (Vogue 1914-1952), Carmel Snow (Harper’s Bazaar 1932-1958), Diana Vreeland (Harper’s
Bazaar 1937-1962 e Vogue 1962-1971) ed i famosissimi direttori artistici Alexej Brodovitch
(Harper’s Bazaar 1934-1958) e Alexander Liberman (Vogue dal 1941), che non si limitarono alla
sola creazione di progetti grafici per le riviste ma che guidarono anche i fotografi con consigli e
suggerimenti.
Edward Steichen (1879-1973)
Le prime vere fotografie di moda vennero realizzate nel 1911 da Edward Steichen, ebbero come
soggetto tredici abiti del sarto Poiret e furono pubblicate sul numero di aprile di Art et Decoration.
Lo stile utilizzato da Steichen, che fotografava anche altro, fu quello foto-secessionista, dalla messa
a fuoco morbida. Questo servizio, rivoluzionario per l’epoca, si distingueva per le pose e per il
movimento delle modelle.
Adolphe de Meyer (1869-1946)
Con Adolphe de Meyer si passò dalla stadio della documentazione diretta a quello di forma artistica
sulle pagine di Vogue USA. Condè Nast acquistando la rivista ne aveva rinnovato completamente
gli intenti, cambiando quella che era una pubblicazione un po’ snob per l’alta società in rivista
arbitro del gusto e della novità, specchio di uno stile di vita raffinato e all’avanguardia. Il Barone de
Meyer si adattava perfettamente a questo panorama. Dal punto di vista sociale aveva le carte in
regola: membro dell’entourage londinese del Principe di Galles, aveva sposato alla fine del secolo
Donna Olga Alberta Caracciolo, figlioccia del re d’Inghilterra.
Era entrato a far parte, inoltre, del gruppo di fotografi di avanguardia The Linked Ring, che si
proponevano di creare fotografie artistiche e di convincere il pubblico che anche la fotografia è una
forma d’arte.
Le sue sono immagini concepite con stile pittorialista, fatte di atmosfere vaghe e suggestive e con
effetti di luce delicati e scintillanti, che tendono a disintegrare la forma. Le sue immagini sono la
perfetta espressione della società elitaria del tempo, oziosa e opulenta. L’incontro con Condè Nast
era avvenuto nel 1913 a New York, dove de Meyer si era rifugiato allo scoppio della prima guerra
mondiale.
Edward Steichen (1879-1973)
Secondo Alexander Liberman la chiave della moderna fotografia di moda è rappresentata da una
foto di Edward Steichen del 1927 in cui Marion Morehouse sorride mostrando una grande umanità.
Steichen superò il mero compito descrittivo, andando oltre il documento di classe o di moda
giungendo ad un’immagine di donna nel suo momento di maggiore fascino.
Steichen fu capofotografo di Vogue dal 1922 al 1938, in questo periodo fu considerato uno dei più
eminenti fotografi americani nel campo della ritrattistica e della moda. Dal pittorialismo alla
straight photography, Steichen si evolve mostrando il nuovo status sociale della donna. Agli inizi
degli anni ‘30 era il dominatore incontrastato della fotografia di moda, grazie al suo gusto e alla
raffinatezza della sua tecnica. Fu proprio Steichen a scattare la prima foto a colori per Vogue (Vogue
USA, gennaio 1931).
Dal 1947 al 1962 diresse il Dipartimento di Fotografia al Museum of Modern Art di New York,
dove nel 1955 organizzò la mostra The family of man, che ottenne un successo straordinario e fu
esposta in tutto il mondo.
Man Ray (1890-1976)
Nel 1916 nacque Vogue UK e nel 1920 Vogue France. Il primo fotografo di fama a lavorare per
l’edizione francese fu Man Ray, che era stato invitato direttamente dal famoso sarto Paul Poiret. Per
Man Ray la fotografia di moda è un mezzo per finanziare le sue ricerche più creative. Preferisce
infatti la fotografia pubblicitaria, meglio pagata di quella redazionale.
Straordinario fu un servizio del 1925 in cui utilizzò a posto delle modelle i manichini della mostra
delle Arti Decorative, allestita al Grand Palais. Man Ray introdusse questo elemento rivoluzionario
che da allora diventò ricorrente. Man Ray non tenne conto delle convenzioni che governano la
moda sostenendo che: “è l’ispirazione e non l’informazione, la forza che lega assieme tutte le arti
creative”. L’abito era una mera scusa per liberare un’espressività fantasmagorica. Le sue foto sono
una testimonianza eloquente del vitale interscambio tra le varie forme artistiche, tipico della Parigi
degli anni ‘30.
Erwin Blumenfeld (1897-1969)
Sull’onda surrealista di Man Ray troviamo anche un altro fotografo, che unisce attività
professionale ai profondi influssi artistici della Parigi anni ’30: Erwin Blumenfeld.
Conosciuto per le sue fotografie di nudo, la sua carriera nella moda cominciò nel 1938 a Vogue
France e raggiunse il culmine a New York dove si trasferì nel 1941. Arrivò a risultati stupefacenti
con l’uso di svariati espedienti tecnici: solarizzazione, sovrastampa, combinazione di negativo e
positivo, sovrapposizione e moltiplicazione delle immagini.
Alcune delle tecniche da lui ideate hanno avuto grande influenza sulla fotografia di moda e di
pubblicità, come la tecnica del candeggio, grazie alla quale un viso è ridotto alla sola linea degli
occhi, della bocca e, vagamente, dei capelli
George Hoyningen-Huene (1900-1968)
Alla fine degli anni ‘20 la Francia attraversava un periodo di prosperità economica, mentre
l’America era alle prese con la Grande Depressione. In questo clima sereno arrivò a Parigi George
Hoyningen-Huene, barone baltico fuggito dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Nella sua fotografia si
concentrarono l’influsso surrealista e quello di Steichen.
Fu decoratore per Man Ray e come decoratore-illustratore fu assunto da Vogue. In poco più di un
anno divenne il primo fotografo dello studio parigino di Vogue, imprimendo il suo stile personale.
Nelle sue fotografie la modella non è più al centro delle foto ma accuratamente decentrata; gli spazi
vuoti vengono utilizzati in maniera brillante, con giochi di chiaroscuro sottolineando i fondali da lui
stesso creati.
Nel 1928 realizzò un servizio per cappotti servendosi come sfondo di simboli modernisti: aerei e
macchine sportive.
Tra le sue fotografie più famose bisogna ricordare una serie di scene da spiaggia, realizzate in
studio. Tali immagini rappresentano il culmine della composizione e del controllo stilistico e
tecnico di Huene. Il suo modo di fotografare fu fortemente condizionato dai problemi di staticità dei
soggetti a causa dell’obbligo, imposta da Condè Nast, di utilizzare la macchina fotografica di
grande formato.
Hoyningen-Huene fu il primo ad utilizzare modelli maschili senza sottolineare troppo la loro
connotazione sessuale. L’ambiguità tra reale e ideale rimase per lui una costante forma di
ispirazione. Essa deriva dell’influsso del classicismo della Grecia antica. Alcune sue immagini
grazie alla luce e all’atmosfera create hanno la monumentalità di un bassorilievo greco. Si delinea
una figura femminile classica, dalla forma eterea ed aggraziata e dalla dimensione quasi eroica,
nobile e perfetta.
Nel 1935 si trasferì a New York e nel 1946 andò a Hollywood come consulente per il colore per il
regista George Cukor.
La fotografia di moda a Berlino
Contrariamente a quanto si pensi, negli anni ‘30 del XX secolo la vera capitale della fotografia di
moda non era Parigi, bensì Berlino. Per una strana concomitanza di cause nella capitale tedesca si
erano concentrati numerosi sarti e numerose aziende dedite alla produzione di capi d’abbigliamento,
attorno alle quali erano sorte un discreto numero di riviste, cui lavoravano i circa trenta studi
fotografici presenti sulla scena.
Tali condizioni favorevoli vennero a cessare all’ascesa del terzo reich, che iniziò una sistematica
azione di smantellamento delle attività commerciali degli ebrei, che detenevano la maggioranza nel
settore moda berlinese. Molti sarti e molti fotografi emigrarono a Parigi prima e a New York poi.
Horst P. Horst (1906-1999)
Negli anni ’40 importante fu la figura del tedesco Horst P. Horst, amico, modello e discepolo di
Hoyningen-Huene. Horst studiò con Gropius ad Amburgo e a Parigi collaborò con lo studio Le
Corbusier. Grazie alla sua amicizia con Hoyningen-Huene fu introdotto nell’ambiente della
fotografia di moda. Quando l’amico si spostò a Harper’s Bazaar, Horst divenne il primo fotografo
di Vogue, non solo a Parigi ma anche a New York.
Quando arrivò a Vogue lo studio parigino era ancora organizzato come ai tempi di Steichen. Horst
preferì non utilizzare l’illuminazione diffusa, ma gli spot per enfatizzare i punti importanti di un
abito. Fra le sue collaborazioni prestigiose ci fu anche quella con Salvador Dalì.
Pur essendo stato il più significativo fotografo di moda degli anni ’40, Horst rappresentò un caso
singolare: non possedette mai una macchina fotografica, non fece mai una fotografia fuori dal suo
studio e non entrò quasi mai in camera oscura.
Le sue immagini influenzate da Steichen e vicine al classicismo di Hoyningen-Huene senza
condividerne il rigore, si distinguo per il loro aspetto teatrale, per lo spiccato umorismo e per i
riferimenti eclettici alla storia dell’arte. Nella sua opera “l’ordine neoclassico convive in perfetta
armonia con l’immaginazione barocca”. La sua fotografia più famosa è quella del busto-corsetto di
Mainbocher, che trae il suo effetto dalla forza grafica e dalla raffinatezza dell’illuminazione.
Cecil Beaton (1904-1980)
Cecil Beaton è il fotografo che meglio di tutti illustra l’integrazione esistente tra le varie arti negli
anni ‘30. Scrittore e illustratore, oltre che fotografo, si ispirò alle fonti più varie: ritrattistica inglese,
pittura rinascimentale, scenografia contemporanea, film hollywoodiani, surrealismo.
A dodici anni gli venne regalata una macchina fotografica, con la quale cominciò a ritrarre le sorelle
in costumi d’epoca o in abiti da sera ed in pose prettamente teatrali. Il teatro fu la sua altra grande
passione. Come scenografo vinse due Oscar per Gigi e My fair lady.
La carriera di Beaton cominciò nel 1926 con Vogue UK, cui iniziò a collaborare come illustratore.
Ben presto divenne ritrattista mondano, con immagini scintillanti, piene di costumi e scenografie
fantasiose; già nel 1927 cominciò a cimentarsi nella fotografia di moda. Venne notato subito dalla
redattrice Edna Woolham Chase, che lo condusse a Vogue USA.
“Voglio fotografare donne molto eleganti, che si tolgono un granellino da un occhio, o si soffiano il
naso, o si levano il rossetto dai denti. In altre parole, che si comportano come esseri umani …
sarebbe splendido se invece di fotografare una donna in abbigliamento sportivo in studio, la si
mettesse in un incidente d’auto, con sangue dappertutto e pezzi di automobili qua e là …”.
Un’importante tappa della sua carriera furono i ritratti di star del cinema realizzati per la rivista
Vanity Fair: <<La mia prima impressione di uno studio cinematografico fu così strana e fantastica
che sentii che non avrei mai potuto esaurire le mie possibilità fotografiche>>. Utilizzò spesso
elementi contrastanti ricercando un effetto surrealistico in cui è difficile tracciare una linea di
demarcazione tra il serio e l’ironico. Dal mondo del cinema prese l’idea delle grandi ombre, che
introdusse nelle sue opere in maniera originale.
George Platt-Lynes (1907-1955)
Costretto dalla crisi familiare a diventare professionalmente fotografo, George Platt-Lynes si
distinse per il suo taglio meno drammatico e più umoristico.
Famoso per le sue foto di ritratto, di balletto e principalmente di nudo maschile (è considerato un
anticipatore di Mapplethorpe, Ritts e Weber), nella moda raggiunse effetti originalissimi con mezzi
piuttosto semplici: utilizzò ad esempio pose non convenzionali, montaggi, accessori bizzarri e
inaspettati. Lavorò sia per Harper’s Bazaar che per Vogue (diresse gli studi hollywoodiani dal 1946
al 1948).
Platt-Lynes amò la teatralità nei gesti delle modelle e soprattutto la sottolineatura di trasparenti
tessuti e di accostamenti di forme. L’effetto surreale delle sue immagini veniva accentuato dai forti
contrasti tonali e dall’uso della luce (uno spot da 2000w in ogni angolo inferiore dell’inquadratura e
di uno puntato direttamente sul viso della modella).
Martin Munkacsi (1896-1963)
Il più radicale e rivoluzionario cambiamento del modo di realizzare le fotografie di moda si deve
all’ungherese Martin Munkacsi, famoso già negli anni ‘20 in Europa per le sue foto sportive. Venne
notato nel 1933 al suo arrivo a New York da Carmel Snow, appena passata a Harper’s Bazaar,
mentre era inviato della Berliner Illustrierte Zeitung (la principale rivista fotografica del mondo).
Egli si accostò al genere alla sua maniera, quella del reporter sportivo. Il risultato è quindi la logica
evoluzione della fotografia sportiva. Famoso il suo servizio di costumi e di abiti da spiaggia. Le
foto vennero scattate a Long Island con la modella Lucille Brokaw. Il risultato di quel servizio è
entrato nella storia della fotografia. Munkacsi portò un gusto per l’allegra e per l’onestà e un amore
per la donna in ciò che prima di lui era un’arte bugiarda, priva di gioia e di amore, compiendo un
sovvertimento in un’immagine che si stava avviando sulla strada dello stereotipo.
Il suo apporto sarà determinante per le generazioni successive. Per Richard Avedon le foto di
Munkacsi saranno la prima lezione di fotografia. Anche Henry Cartier-Bresson lo considera un
maestro riconoscendone l’enorme importanza innovativa ricordando sempre che Munkacsi aveva
scattato “quella foto che fu per me la scintilla che accese i fuochi d’artificio … e mi fece
improvvisamente capire che la fotografia poteva raggiungere l’eternità attraverso il momento”. Il
suo modo di fotografare mal si adattò alle pellicole a colori molto lente. Le sue foto in studio
perdettero gran parte dell’originalità dei lavori in esterni.
L’introduzione del Kodachrome (pellicola diapositiva a colori) aveva rappresentato una tappa
importante, facendo della foto a colori un elemento essenziale delle riviste di moda, segnando la
vittoria finale della fotografia sull’illustrazione di moda. Ma dovranno passare alcuni anni prima
che tali pellicole raggiungano la praticità di utilizzò delle già collaudate pellicole in bianconero.
Il debutto di Munkacsi a Harper’s Bazaar coincise con l’assunzione di Alexey Brodovitch come art
director. Brodovitch non limitò la sua attività ad una nuova veste grafica per le pagine redazionali,
rivoluzionate comunque da impaginazioni completamente nuove, ma fu il maestro di un’intera
generazione di nuovi artisti che avrebbero avuto modo di crescere sulle pagine della rivista.
Le donne nella fotografia di moda
Negli anni ’30 operarono fotograficamente nelle principali riviste anche una serie di fotografe che
per l’originalità dei loro lavori hanno lasciato il segno nella storia di questo genere fotografico. Fra
di esse ricordiamo Madame Yevonde, Madame d’Ora, Lee Miller (modella, fotografa e amante di
Man Ray), Toni Frissel e Louise Dahl-Wolfe.
Toni Frissel (1908-?)
Toni Frissel, una signora dell’alta società newyorchese, fu fotografa di moda per Vogue dal 1931 al
1942, per poi passare ad Harper’s Bazaar. Fu la prima ad utilizzare una macchina fotografica di
medio formato (una Rolleiflex) rompendo l’obbligo di lavorare con il grande formato. Grazie al
mezzo più agile riuscì a tradurre in immagini la mondanità sportiva di Long Island: donne che
corrono, passeggiano con il cane e vengono addirittura fotografate sott’acqua. Fu fortemente
influenzata da Martin Munkacsi.
Louise Dahl-Wolfe (1895-1989)
Durante la guerra nelle redazioni di moda dominano le donne, in particolare Louise Dahl-Wolfe.
Entrata a Harper’s Bazaar nel 1936 con Diana Vreeland, la Dahl-Wolfe fotografò per la rivista
americana fino al 1958. Nota per le sue ambientazioni insolite che suggeriscono uno stile di vita
rilassato, talvolta esotico (usò location particolari in anni in cui il turismo di massa non esisteva),
dove si muovono modelle dalle pose molto femminili, fu tra le prime a sperimentare il colore nella
fotografia di moda.
Le sue foto furono sempre accuratamente costruite con un perfetto equilibrio di luce e ombra e con
un’estrema attenzione alla combinazione dei colori, secondo l’influenza dello storico dell’arte Clive
Bell e della sua teoria della forma significante, secondo cui il colore è una parte inerente alla qualità
espressiva della forma e gli accostamenti di colore hanno peso emotivo.
Norman Parkinson (1913-1990)
Al di fuori dei confini americani tanti sono i fotografi che si dedicano alla moda lavorando per le
edizioni nazionali di Vogue e di Harper’s Bazaar. Il più innovativo di essi è sicuramente l’inglese
Norman Parkinson, che dal 1935 al 1940 lavorò per l’edizione inglese di Harper’s Bazaar, dove gli
venne chiesto di seguire il genere del “realismo in movimento”, inaugurato da Munkacsi. I redattori
inglesi non tennero conto che la fotografia di moda realistica e dinamica era fortemente
caratterizzata dalla americanità. Si adattava ad un modo di vestire e di essere più dinamico. Mal si
coniugava alla raffinata alta moda europea. Parkinson riuscì comunque a realizzare delle immagini
accattivanti e eleganti.
Dopo la guerra passò a Vogue. Lavorò in giro per il mondo per molte altre riviste (Life, Elle, Town
& Country), firmando fotografie piene di fascino e di spontaneità. Negli anni ’40 si fece notare per
il suo stile bucolico, mentre dal 1949 in poi, trasferitosi a New York, sarà l’aspetto urbano a
prevalere nelle sue immagini. Nel 1981 fu nominato fotografo ufficiale della famiglia reale inglese.
Clifford Coffin (1916)
Cominciò la sua carriera nei reparti pubblicitari della Texas Oil e della MGM, finendo per occuparsi
esclusivamente di fotografia. Dopo essere stato assistente a Vogue UK passò all’edizione americana,
dove fu tra i principali fotografi dal 1945 al 1955.
Irving Penn (1917)
“Una foto di moda è un ritratto; proprio come un ritratto è una foto di moda”
Irving Penn
Allievo di Alexey Brodovitch alla Philadelphia Museum School of Industrial Art, Irving Penn nella
sua lunga e fortunata carriera ha sempre mirato a valori assoluti: chiarezza formale ed elegante
verità.
Nel 1943 entrò a Vogue come assistente di Alexander Liberman, che lo guidò nei primi tentativi
fotografici. Nell’ottobre dello stesso anno realizzò una delle oltre 150 copertine da lui firmate
(immagine di still life), per passare subito alla moda e al ritratto. Sue fonti di ispirazione furono la
prospettiva di Paolo Uccello, la pittura metafisica di Giorgio De Chirico e l’attenzione per la moda
propria dei dipinti di Goya.
Eseguì ritratti in giro per il mondo ispirato dallo studio a luce del nord in cui poté lavorare nel 1948
a Cuzco in Perù. Alla luce di tale scoperta anche le sue immagini di moda crescono in progressione
diretta fino al suo primo servizio sulle collezioni di alta moda di Parigi nel 1950. Le foto sono
realizzate nello studio a luce del nord di una vecchia scuola di fotografia. Tutti gli elementi non
essenziali vengono eliminati a favore di una immagine semplice, ma rivoluzionaria proprio per la
sua estrema chiarezza e monumentalità.
Nel 1949 in polemica con le perfette immagini di moda che tendevano a promuovere la
periferizzazione dello sguardo dal centro del corpo alle sue estremità ricche di accessori (braccia,
collo, orecchie), realizzò una serie di immagini di nudo, intitolate Earthly Bodies, in cui richiamò
l’attenzione al centro della figura umana dandole forti connotazioni espressive.
Questa serie di nudi, dalla scultorea primordialità, fu realizzata utilizzando una particolare tecnica
di stampa che consente lo sbiancamento delle alte luci. Fonte di ispirazione fu sicuramente Le Viol
di Renè Magritte.
Nella fotografia di moda come nei ritratti e nello still life Penn tende sempre a fermare un momento.
Lo studio non è idealizzato ma spesso sono visibili i cavi elettrici o i bordi dei fondali. Si colloca
agli antipodi dello stile frivolo di Cecil Beaton.
Stretto fu il suo legame con la modella Lisa Fonssagrives, che diventerà suo moglie e con la quale
realizzerà alcuni capolavori indimenticabili come le immagini dell’abito da Arlecchino, la sirena o
l’odalisca con il turbante, quest’ultima con reminiscenze di Ingres o di Matisse.
Nelle immagini di still life Penn ebbe sempre uno spiccato e infallibile senso del design che utilizzò
anche per le sue foto di moda a colori. Per Irving Penn la fotografia è un esercizio razionale e
preciso. Dopo lungo e attento studio degli oggetti, dell’abito e della modella realizzava l’immagine
in pochi minuti.
Richard Avedon (1923)
Richard Avedon a 21 anni era già al vertice della fotografia di moda. La sua famiglia possedeva un
negozio di moda femminile, Avedon’s Fifth Avenue, e Richard era cresciuto tra abiti, modelle e
riviste di moda. Imitando le foto delle riviste cominciò a muovere i primi passi. La sua modella di
quegli anni fu la sorella minore: “Ogni famiglia pensa che i propri figli siano i più belli; ma mia
sorella Louise, che ho fotografato dai 14 ai 18 anni, era veramente una bellezza di prima classe, e
solo ora me ne rendo conto. Ho scoperto che fu lei il prototipo di bellezza dei miei primi anni come
fotografo di moda. Le mie prime modelle erano tutte brune, con naso piccolo, collo lungo e viso
ovale. Erano tutte ricordi di mia sorella. Il mio senso della bellezza si era sviluppato attraverso la
mia esperienza di lei”.
Avedon instaurò sempre un rapporto profondo e personale con il soggetto fotografato. Per questo
motivo la scelta della modella è sempre stata per lui di primaria importanza, perché determina una
collaborazione assolutamente non superficiale. Avedon va oltre la maschera della bellezza fino a
qualcosa di più profondo e spirituale: una sorta di ritratto. E’ stato proprio presentando un portfolio
di ritratti dei suoi colleghi della Marina Mercantile che ottenne il suo primo incarico ad Harper’s
Bazaar nel 1944, incaricato direttamente da Alexey Brodovitch, del quale ha seguito le lezioni
presso la New School of Social Research.
Nel 1947 era già il fotografo principale della rivista con un’immagine di donna di per sé
rivoluzionaria: non più divinità altera, ma ragazza alla moda, non bellissima ma fortemente reale.
Lui e Irving Penn saranno i dominatori incontrastati della fotografia di moda degli anni ’50. Il
movimento nelle sue foto deriva dal balletto ispirato principalmente dai film di Fred Astaire. Il suo
punto di forza, rimasto una costante nel tempo, è stata la sua capacità di evolversi in perfetto
accordo con le mutevoli condizioni sociali e con gli altrettanto mutevoli gusti del pubblico.
Ricordiamo i servizi stile paparazzo a Parigi degli anni 50 (periodo ritratto nel film Funny Face che
Avedon definì “vacanza dalla vita”).
All’inizio degli anni ‘60 le sue immagini cominciarono a perdere l’allegria e la spensieratezza del
decennio precedente e divennero un mezzo per esaminare e rappresentare la realtà . Le sue foto
possono essere considerate tra i più importanti documenti sociali del periodo proprio per la sua
capacità di comprendere bene ed esprimere chiaramente i comportamenti e gli atteggiamenti
mentali del momento in cui vive. Enorme fu lo scandalo provocato dalla foto della principessa
Paolozzi a seno nudo e il servizio per Harper’s Bazaar del gennaio 1965 in cui due modelle ed un
modello suggeriscono esplicitamente il mito dell’emancipazione sessuale degli anni ‘60, con un
sottofondo di ambiguità e alienazione.
“Mentirei se fotografassi con la luce naturale.
Essa è qualcosa cui devo rinunciare come l’infanzia”.
Avedon si stabilisce quindi in studio dando vita ad un nuovo stile, anche esso estremamente
originale e personale: la modella si muove, salta e ride sotto la luce dei flash. Il movimento e la
vivacità vengono così spostati in un ambiente neutro. Ne risulta un’immagine senza ambientazione,
che riflette l’atmosfera newyorchese in cui Avedon lavora, ma anche l’isolamento e la freddezza
verso cui sta scivolando la società. Dagli anni ‘70 in poi Avedon abbandona la fotografia di moda
usandola solamente per finanziare i suoi lavori più significativi, ritratti soprattutto.
Nella produzione fotografica di Avedon il ritratto riveste un ruolo fondamentale. Coglie i soggetti
con precisione chirurgica, nel formato 20x25 cm, frontalmente e su fondo bianco, facendogli
occupare tutta l’inquadratura.
Famoso è stato il suo servizio per Life su Marilyn Monroe, vestita come le dive del cinema del
passato.
Abbiamo già ricordato la ventennale collaborazione di Richard Avedon con la maison Versace. Le
immagini realizzate in quel periodo sono raccolte nel volume The naked and the dressed.
Nel 1997 ha realizzato le immagini per il famoso Calendario Pirelli.
Hiro (1930)
Yasuhiro Wakabayashi, nato a Shangai da genitori giapponesi, nel 1954 si trasferì in America per
studiare fotografia. Alla New School for Social Research conobbe Alexey Brodovitch che lo
presentò a Avedon. Dal 1966 al 1975, dopo essere stato assistente di Avedon, fu uno dei principali
fotografi di Harper’s Bazaar.
Secondo Avedon, Hiro possiede le caratteristiche del grande fotografo: il mistero e il perfezionismo.
Grande sperimentatore di tecniche, con le sue immagini volle abbattere gli ultimi limiti tecnici della
foto a colori e la sua opera, per quanto radicale, è di una bellezza limpida e magica.
Ben presto sviluppò un proprio stile che univa la vivacità di Avedon e la monumentalità di Penn. Le
sue fotografie hanno infatti un grosso impatto visivo, di grande chiarezza, tipico dell’approccio
pubblicitario, mentre la loro forza deriva da una semplicità classica, quasi astratta, dalla quale il
capo di abbigliamento, il gioiello o l’accessorio emergono nelle loro caratteristiche essenziali. Hiro
sorprende e sconvolge con le sue immagini costruite su elementi impossibili che obbligano ad
un’analisi accurata per individuare l’oggetto protagonista della fotografia di moda.
Le sue immagini più note sono le vedute ravvicinate e a colori di accessori moda, icone
monumentali in cui dominano il chiarore e la precisione. Utilizzò spesso temi che si riferiscono alla
conquista dello spazio. Il suo approccio è stato quello di uno scienziato e di uno sperimentatore,
soprattutto nel colore e nella luce. Ritenne che il ruolo del fotografo di moda coincida con quello
del reporter e del cronista. Secondo lui la sola bellezza delle fotografie non vuol dire nulla. Nelle
sue foto è quasi sempre presente un qualcosa, un particolare anche minimo, che conferisce ad esse
una connotazione contemporanea, che le lega al momento storico in cui vengono scattate.
Lezioni Catania 4
Gli anni ’60 e la swinging London
Gli anni ’60 si aprirono all’insegna della swinging London, l’asse dell’innovazione della moda e di
tutto quello che le giro intorno, fotografia compresa, si era spostato dagli Stati Uniti alla capitale
britannica.
La swinging London è in quegli anni il luogo d’elezione della rivoluzione giovanile, in cui ci si
ribella alle tradizioni culturali, morali e artistiche. E’ la scena in cui gli anni ‘60, come era del
dissenso, vengono meglio rappresentati: con la dimostrazioni contro la guerra, le richieste di uguali
diritti per le donne e le minoranze, la rivoluzione sessuale, con gli eccessi e le eccentricità.
Anche la moda londinese prese le distanze dall’alta moda, ispirandosi a nuove fonti: stile contadino,
women’s liberation, programma spaziale e pop art. Sempre a Londra opera Mary Quant che insieme
ad un piccolo gruppo di designer all’avanguardia rivoluzionano la moda, la clientela e i costi.
Il panorama fotografico fu dominato dei famosi “terribili tre”: David Bailey, Terence Donovan e
Brian Duffy insieme a una miriade di altri fotografi, più o meno noti, fra i quali emersero John
Cowan, Ronald Traeger e Melvin Sokolsky.
David Bailey (1938)
David Bailey fu il più famoso esponente della fotografia di moda degli anni ‘60, colui che ha
maggiormente contribuito a creare un alone epico intorno alla professione di fotografo: a lui si
ispirò Michelangelo Antonioni per la figura del protagonista di Blow up.
Bailey, famoso anche per il suo matrimonio e successivo divorzio con Catherine Deneuve, per le
sue relazioni con modelle affascinanti e per l’amicizia con le più acclamate star del rock, del cinema
e della cultura pop, ha rappresentato la Londra di questi anni con immagini vivide e indimenticabili.
Sotto contratto con Vogue dal 1960, Bailey fotografava come viveva, su un sottofondo di musica e
sesso. Le sue immagini furono fortemente influenzate dal cinema, soprattutto quello della Nouvelle
vague francese, improntate sempre alla freschezza e alla spontaneità. Furono fortemente
caratterizzate dalla scelta delle modelle, sempre famosissime e bellissime, da Jean Shrimpton a
Twiggy: << Le mie foto sono sprovviste di stile, ma sono i miei modelli ad averlo>>.
La provocazione rimase un suo tratto caratteristico anche dopo gli anni ‘60. Famoso il suo video
pubblicitario contro l’uso della pelliccia, in cui le modelle sfilano in passerella indossando pellicce
grondanti sangue.
Da Bailey in poi sono molti i fotografi a vivere o voler vivere secondo l’immagine dell’eroe
cinematografico descritta da Antonioni, senza limiti alle loro stravaganze stilistiche, di vita e anche
di compensi iperbolici.
Terence Donovan (1936-1996)
La carriera di Donovan si sviluppò nel classico modo del maestro col discepolo: assistente del
leggendario John French nel 1957, che allevò molti altri fotografi di moda, compreso David Bailey.
Poi, dopo aver lavorato come fotografo militare, nel 1959 aprì un proprio studio. All’età di 25 anni
decise che non voleva la seccatura di decidere cosa indossare ogni mattina, così ordinò un lotto di
giacche grigie di flanella, camicie bianche, scarpe nere e non sgarrò mai. Un comportamento non
certo comune per un fotografo di moda, ma niente in Donovan era comune.
Con Bailey e Duffy, Donovan creò la componente visuale del mito londinese degli anni sessanta:
divertirsi, fare sesso e fare soldi. Essi non erano interessati a quanto una modella possa rendere
elegante l’abbigliamento, essi volevano mostrare quanto il vestito possa far sembrare sexy la
modella. Una rivoluzione nel pensiero come nel look.
John Cowan (1929-1979)
Con le sue immagini John Cowan catturò lo spirito e l’esplosiva energia della rivoluzione nella
cultura britannica. Cominciò a lavorare come freelance nel 1958 e qualche anno dopo si avvicinò
alla carriera di fotografo di moda.
Importanti per la sua carriera furono i lavori realizzati per numerose riviste con la modella Jill
Kennington. Le sue immagini furono caratterizzate da un acuto dinamismo. Nel 1966 il suo studio
londinese fu il set principale per le riprese di Blow up di Michelangelo Antonioni.
Ronald Traeger (1938-1969)
Ronald Traeger, nonostante la prematura scomparsa, fu uno dei più significativi fotografi inglesi
degli anni ’60. Con le sue immagini ricche di fascino e di ironia seppe cogliere a pieno lo spirito del
suo tempo. Lavorò per Vogue e per le principali riviste di moda inglesi e internazionali. Pur
fotografando principalmente in bianconero fu un grande sperimentatore nel colore.
Melvin Sokolsky (1938)
Melvin Sokolsky fu uno dei più grandi fotografi degli anni ’60. Entrò a Harper’s Bazaar a soli 21
anni nel 1959 e per oltre un decennio affascinerà il pubblico dei lettori con le sue stupefacenti
immagini ricche di inventiva e di sapienza tecnica.
Bert Stern (1929)
Sulla scorta del mito del fotografo-eroe costruita a Londra, a New York Bert Stern fu tra quei pochi
che meglio adattarono l’immagine alla realtà. Owen Edwards scrisse di lui: <<Stern si affermò
subito e riuscì a volare più in alto degli altri. Ha fatto più soldi lui di qualsiasi altro fotografo prima,
durante o dopo. Il suo studio era enorme e lussuoso, con sala di posa a due piani, ogni sorta di
attrezzature ed accessori, uffici, biblioteca e appartamento all’attico>>. Nancy Hall-Duncan lo
definì “quintessential fast-living photographer”.
Prima di diventare fotografo lavorò come art director e il suo stile può essere definito pubblicitario,
in quanto egli dotò le sue fotografie di un’attrattiva immediata, grazie all’uso di elementi fuori dal
comune, tesi a sorprendere l’osservatore. Colpito da esaurimento nervoso, a causa dei ritmi frenetici
di lavorò, nel 1971 fu costretto a chiudere lo studio per farsi ricoverare. Pienamente ristabilito tornò
a lavorare in campo pubblicitario negli ’80.
Memorabile è stato il suo servizio fotografico con Marilyn Monroe, scattato pochi giorni prima
della morte dell’attrice.
Gian Paolo Barbieri (1940)
In Italia fattore determinante per la crescita di talentuosi fotografi di moda fu la nascita, a metà degli
anni Sessanta, di una edizione italiana di Vogue. Principale fotografo della rivista fu il milanese
Gian Paolo Barbieri, in cui l’influenza dell’elemento cinematografico è evidentissima. L’uso del
bianconero, la teatralità delle pose, la sequenzialità delle foto che sembrano costruire una storia da
copione cinematografico furono le caratteristiche della sua fotografia. Barbieri è fra i più attivi
fotografi italiani ancora oggi.
Gli anni ’70: sesso e violenza
Negli anni ‘70 cominciò il cosiddetto periodo incerto. Gli inserzionisti avevano smesso di spendere
denaro a profusione, l’elemento che aveva alimentato il culto dell’eroe-fotografo. Tutto venne
ridimensionato, New York perdette il suo ruolo guida e la politica editoriale delle grandi riviste
venne cambiata per venire incontro ai nuovi gusti del pubblico e alle esigenze degli inserzionisti
pubblicitari. Sulle pagine di Vogue trovano spazio i due fotografi più importanti del decennio:
Newton e Bourdin, nelle cui immagini è evidente la stretta connessione tra moda e cinema.
Entrambi godettero di una autonomia completa, che arrivò fino alla scelta degli abiti e al layout dei
servizi. I temi dominanti della fotografia di moda di quegli anni si svilupparono dalla tendenza
inaugurata nel decennio precedente: l’emancipazione sessuale. Per creare attenzione c’era
comunque bisogno di novità e quindi la fotografia di moda si rivolse a quelle forme di espressione
sessuale che attraevano l’attenzione: omosessualità, travestitismo, voyeurismo, violenza. Il fatto che
il cinema e la televisione abbiano abusato delle scene di sesso e violenza creò il presupposto
affinché la fashion photography ne potesse usufruire.
Guy Bourdin (1933-1991)
La caratteristica principale delle fotografie di Bourdin risiede nella composizione dell’immagine,
nella loro bellezza grafica e nell’atteggiamento con cui egli si accosta all’oggetto da fotografare.
Bourdin non illustra il prodotto, ma ne da una interpretazione. L’oggetto da presentare, scarpa, abito
o altro, occupa spesso una piccola porzione dell’immagine, ma Bourdin riesce comunque a
convogliare su di esso l’interesse dell’osservatore.
Il suo interesse per la forza grafica dell’immagine, e per il suo effetto finale, è evidente nella cura
che pone anche nell’impaginazione delle foto. E’ nota la sua predilezione per le doppie pagine, il
suo uso degli spazi bianchi, il raggruppamento di fotografie in multipli o sequenze, la ripetizione di
sezioni della stessa immagine. L’atto del girare pagina non equivale soltanto ad aprire e chiudere lo
spettacolo del servizio fotografico, ma anche a tagliare la figura con la quale ci siamo spazialmente
identificati – ad aprire e chiudere le sue gambe.
Nelle sue immagini la rappresentazione della violenza ha un fondamento quasi romantico, perché
vuole esprimere la vulnerabilità della donna. Sorridenti e spensierate se raffigurate in compagnia di
uomini, le donne sole acquistano invece un’espressione turbata, come minacciate da qualche
pericolo incombente. Creò un clima da minaccia continua, che rafforza il sentimento di
vulnerabilità delle modelle ritratte, che si contorcono nell’inquadratura. Nonostante ciò le modelle
sono sempre molto curate, pettinate e truccate con abiti sempre impeccabili.
L’uso del flash diretto, particolarmente crudo, rende la pelle pallida e i colori saturi. Pur utilizzando
raffigurazioni e temi scioccanti, non eccede mai nel compiacersi della violenza. Le sue immagini si
possono piuttosto definire ironiche, come ironiche sono le sue foto di moda erotiche, che
dell’erotismo alla Playboy denunciano la superficialità e transitorietà.
Helmut Newton (1920-2003)
Anche per Newton i motivi ispiratori sono sesso e mistero, ma le sue donne hanno sempre il
controllo della situazione, all’opposto della romantica vulnerabilità di Bourdin. All’inizio Newton è
attratto dalle situazioni drammatiche, con personaggi in fuga o inseriti in scenari di solitudine e di
abbandono. Ma scoprì ben presto le nuove possibilità derivanti dal collegare la moda al sesso e alla
ricchezza.
Le sue foto di moda, così come quelle erotiche, definiscono la nuova dimensione della sessualità
femminile degli anni ‘70, essenzialmente aggressiva e ambigua. Nonostante il rifiuto di molti
direttori di riviste a pubblicare le sue immagini, grazie ad esse Newton riuscì a diventare uno dei più
importanti fotografi di Vogue, Elle, Stern, Jardins des Modes e Marie Claire.
La modella di Helmut Newton è l’esemplare di un tipo, presentato con la fredda distanza di un
automa di carne; è un prolungamento della tecnologia che la manipola e la converte in oggetto. Il
suggerimento implicito della sua fotografia è che i soggetti siano stati estratti e surgelati da un
continuum narrativo che ne accentua la natura frammentata, quasi si trattasse di fotogrammi isolati
dal flusso filmico. Famose sono le sue immagini ambigue di donna-donna e donna-uomo
(cross-dressing) e quelle di relazione tra animato e inanimato tra donna e manichino umanizzato.
Newton, considerato un pioniere nel campo della moda per il suo uso del simbolismo erotico
accoppiato ai temi sado-masochistici, gioca continuamente sul filo dell’inganno, della presa in giro
nei confronti di chi osserva, tra seduzione e perversione, nudo e vestito, vero e finto. Nelle sue
immagini c’è sempre un certo distacco, un mancato coinvolgimento emotivo. Una caratteristica di
Newton è la mancanza di una precisa linea di demarcazione tra foto di moda e foto erotica.
Francesco Scavullo (1921-2004)
Francesco Scavullo, americano di origine italiana, è considerato il punto di riferimento della
fotografia di moda a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.
Fotografo professionista dedito alla moda già dagli anni ’50 il suo stile è stato ampiamente richiesto
dalle riviste in quest’epoca di passaggio. Oltre che grande fotografo di moda, Scavullo è considerato
un grandissimo ritrattista. Enorme è stato il successo sul mercato editoriale dei suoi fotolibri.
Sarah Moon (1941)
Per Sarah Moon, nome d’arte di Marielle Hadengue ex-modella, la finzione della fotografia di moda
si traduce in fantasie di donne eteree e delicate, donne che sembrano uscite da un sogno
impressionista. Ciò è anche dovuto alla tecnica di messa a fuoco morbida, già usata all’inizio del
secolo (De Meyer).
Il soft-focus ha però per la Moon una qualità narrativa originale: è infatti il suo personale
linguaggio per descrivere stati d’animo e immagini interiori. Ha lavorato per Vogue e Harper’s
Bazaar, firmando inoltre le campagne pubblicitarie per Cacharel. Le sue immagini non descrivono
direttamente il prodotto, ma evocano un mondo onirico e poetico, dolce e sfumato.
Deborah Turbeville (1938)
Simili sono le immagini di Deborah Turbeville, modella prima, redattrice di Harper’s Bazaar poi e
infine fotografa di moda con immagini sfuocate e tendenzialmente monocrome. Nelle sue immagini
troviamo per lo più gruppi di donne, in pose rilassate, vaghe, i cui sguardi non si incrociano mai e
nemmeno si rivolgo verso l’osservatore, come se ognuna fosse persa in un sogno o in un’angoscia
personale. Il suo servizio per Vogue realizzato in un bagno pubblico di New York fece molto
scalpore, suscitando notevole scandalo nell’ambiente della fotografia di moda.
Le sue sono figure statiche, sospese senza volontà di cambiamento. Nelle sue foto si incarna il senso
di alienazione presente nella cinematografia francese e italiana, arricchito dai concetti di mistero e
vulnerabilità di Bourdin. La Turbeville ebbe una particolare sensibilità per un’immagine costruita
scenograficamente sui moduli della metafisica ed il suo colore-non-colore ci riporta a certe
immagini di scarsi contrasti cromatici del passato, risultato di tecnologia embrionale.
Bruce Weber (1946)
Personalità di rilievo degli anni ‘80 fu Bruce Weber. Per lui la fotografia di moda è la vera
fotografia, che non è in concorrenza con le altre forme: <<anche se fotografo un ragazzo e una
ragazza vestiti, in un certo modo, non credo che questa sia una foto di moda. Amo le fotografie di
moda ma non le definisco in questo modo, perché basta che guardi un giornale e un quotidiano e
vedo splendide foto di moda. Sono sempre persone che esprimono uno stile di vita o che indossano
qualcosa di molto personale. Per me queste foto danno vita a qualcosa>>. Weber rifiutò lo snello ed
elegante modello europeo preferendo i robusti maschi americani, determinando un’importante
innovazione nella fotografia di moda maschile.
Herb Ritts (1952-2003)
Fotografo dallo spiccato genio creativo, Ritts si è affermato a partire degli anni ’70 nell’ambiente
di Hollywood eseguendo ritratti a personaggi del cinema, divenendo in breve tempo il fotografo
delle celebrità. Autore di servizi per Vogue, Esquire e Madamoiselle, ha lavorato anche per
l’industria discografica e per la moda firmando campagne per Calvin Klein, Armani e Versace. E’
famoso principalmente per i suoi nudi.
Marco Glaviano (1942)
Siciliano di nascita, ma americano d’adozione Marco Glaviano più che un fotografo di moda è il
fotografo delle modelle. Sue sono le immagini più glamour apparse sulle riviste degli ultimi
vent’anni che ritraggono le più celebri top model in costume da bagno o vestite solamente di sabbia.
Lavora abitualmente per riviste come Sport Illustrated e per la pubblicità.
Gli anni ’90: i fratelli Sorrenti
Se gli anni '80 sono una celebrazione dell'edonismo e del materialismo, il marchio degli anni '90 è
lo stile minimalista, apparentemente trasandato.
In America viene coniata l’espressione heroin chic per definire il fenomeno lanciato dall'industria
della moda, che vuole modelle pallide ed emaciate, con gli occhi segnati. Simboli di questa
tendenza furono alcune campagne di Calvin Klein che suscitarono scalpore. Protagonisti erano la
modella Kate Moss e il fotografo David Sorrenti, morto giovanissimo per ovedose. David veniva da
una famiglia di fotografi: sia la madre Francesca che il fratello Mario hanno lavorato per la moda,
quest'ultimo firmando alcune campagne per Calvin Klein e Ungaro.
Oggi la produzione di moda è troppo vasta per tentare di farne una sintesi per immagini. Se da un
lato la fotografia di moda tende a dividersi in due filoni, uno più commerciale e uno più artistico,
dall'altro si espandono i confini tra moda, pubblicità e arte; molti fotografi estendono la loro ricerca
al digitale e alla Visual Art.
E' storia che si sta ancora scrivendo e molti dei protagonisti degli anni 70-80 sono tuttora sulla
cresta dell'onda.
Oliviero Toscani (1942)
Figlio di un fotoreporter ha studiato fotografia alla Kunstgewerbeschule di Zurigo. Fotografo di
moda e per la pubblicità, dal 1982 al 2000 ha fatto della Benetton una delle marche più famose del
mondo, creandone l’immagine di marca. Nel 1990 ha creato e diretto Colours, rivista di successo
internazionale. Nel 1993 ha fondato Fabrica centro internazionale per le arti e la ricerca della
comunicazione moderna. Oggi si interessa di new media.
Ferdinando Scianna (1943)
Siciliano di Bagheria. Ha iniziato la sua carriera come reportagista lanciato da Leonardo Sciascia.
Per anni è stato l’inviato di L’Europeo a Parigi dove conobbe Henry Cartier-Bresson, che lo fece
entrare, primo fotografo italiano, nella prestigiosa agenzia Magnum. Nel 1987, chiamato da Dolce e
Gabbana, cominciò a lavorare per la moda. In questo contesto è riuscito a creare immagini cariche
di cultura mediterranea, rispondendo alle esigenze dei committenti.
Annie Leibowitz (1949)
Fotografa americana conosciuta per i suoi ritratti di celebrità della politica, della musica e dello
sport. Lavora anche per le riviste, la moda e la pubblicità. Si ispira alla grande tradizione della
ritrattistica americana. Suo maestro è stato Arnold Newman. Molto famoso il suo ritratto di John
Lennon con Yoko Ono.
Fabrizio Ferri (1952)
Cominciò come fotoreporter politico per passare presto alla fotografia di moda, dove si affermò in
pochi anni. E’ stato anche un capace imprenditore fotografico. Nel 1983 infatti ha fondato a Milano
Industria Superstudio (3000 mq di studi fotografici) e qualche anno dopo Industria Superstudio
Overseas a New York (5000 mq). Nel 1997 ha pubblicato Aria il primo fotolibro realizzato
interamente con tecniche di ripresa in digitale.
Patrick Demarchelier (1944)
Patrick Demarchelier è uno dei più grandi fotografi di moda contemporanei. E’ universalmente
conosciuto anche come ritrattista. La sua fortuna cominciò alla fine degli anni ’70 a New York. Il
suo modo di lavorare si sposa bene alla collaborazione con tutte le figure creative impegnate nella
moda e per questo è molto apprezzato e ricercato dalle redazioni delle più importanti riviste.
Peter Lindbergh (1944)
Peter Lindbergh è uno dei più fotografi più apprezzati e imitati della fotografia di moda
contemporanea. E’ stato definito il “poeta del glamour”. Le sue fotografie, dal primo servizio per
Stern nel 1978, sono richiestissime dalle principali riviste di settore del mondo. Preferisce lavorare
in bianconero e ama dare ai suoi lavori una valenza narrativa forte.
Ellen Von Unwerth (1954)
Di origine austriaca. Prima modella e poi fotografa dallo stile facilmente identificabile. Le sue
modelle sono sempre sexy ed esprimono gioia di vivere. L’erotismo nelle sue immagini è
debordante. Lavora abitualmente per le principali riviste di moda e per la pubblicità.
Joyce Tenneson (1941)
Joyce Tenneson ha raggiunto una notevole fama sia nel campo della fotografia d’arte che in quello
della fotografia commerciale. Lavora nella beauty e nella fashion photography per le riviste e per
la pubblicità.
Paolo Roversi (1947)
Dopo un inizio da reportagista, nel 1973 a Parigi scoprì il mondo della moda. Fu assistente di Guy
Bourdin, divenendo uno dei principali fotografi-artisti del settore. Ha realizzato numerose
campagne pubblicitarie (Dior, Krizia, YSL e Alberta Ferretti) e a lavorato per Vogue, Harper’s
Bazaar, Elle, i-D e Marie Claire. Il suo stile è riconoscibilissimo e contraddistinto da una semplicità
di toni. Famosi sono i suoi nudi in high key.
Mario Testino (1954)
Fotografo peruviano di origini italo-irlandesi. Nel 1976 si trasferì a Londra dedicandosi alla foto di
moda e al glamour. Le sue immagini sono caratterizzate dai colori accesi e dalle ambientazioni
volutamente estreme. Lavora per Vogue e per numerose campagne pubblicitarie.
Steven Meisel (1954)
Approdò alla fotografia di moda agli inizi degli anni ’80 dopo aver lavorato come illustratore. La
sua folgorante carriera di fotografo di moda, uno dei più apprezzati dei nostri giorni, cominciò con
la rivista americana Lei e prosegue soprattutto con Vogue Italia. Nel 1992 realizzò con Madonna il
libro Sex e firmò un contratto in esclusiva per Condè Nast (Vogue, Glamour, GQ).
Jean Baptiste Mondino (1949)
Grafico, art director, fotografo e regista di spot pubblicitari e videoclip, Mondino è un creatore di
nuove immagini e uno dei principali fotografi dell’ultima generazione. E’ stato uno dei primi a
manipolare le immagini in digitale sfruttando le possibilità di intervento sul colore. Le sue
immagini sono sempre forti e sofisticate e vengono ispirate dalla cultura popolare.
Inez Van Lamsweerde (1963)
Fotografa olandese. Grande sperimentatrice delle nuove tecnologie digitali. Lavora per l’editoria e
per la pubblicità.
David LaChapelle (1963)
Conseguito il diploma alla North Carolina School of Arts, si trasferì a New York. Visse al
Greenwich Village circondato da una fauna assolutamente al di sopra delle righe. A New York
durante un concerto degli Psichedelic Furs al Ritz, conobbe l’uomo che cambierà il suo destino:
Andy Warhol.
Divenuto il “favorito” di Warhol, cominciò a lavorare come fotografo per Interview, la rivista
fondata qualche anno prima dal guru della Pop Art, dimostrando, da subito, un approccio alla
“materia luminosa” assolutamente inconsueto.
Il primo contatto con la fotografia LaChapelle l’aveva avuto nel 1970, all’età di sette anni, durante
un viaggio con la famiglia a Puerto Rico. Fu letteralmente guidato dalla madre, che si prestò come
modella, a realizzare delle fotografie del tutto simili a quelle delle coeve riviste di moda. La signora
LaChapelle, animata da spirito narcisistico e da sincera volontà materna di far divertire il figlio,
costruì dei veri e propri set fotografici, in cui il piccolo David poté realizzare il suo primo, seppur
insolito, shooting, limitandosi a premere il pulsante di una fotocamera automatica
La concezione della fotografia come rottura assoluta del reale, acquisita in tenera età, lo
accompagnerà per tutta la sua folgorante carriera. La fotografia per lui è celebrazione
dell’artificialità, assoluta evasione e divertimento, esaltato attraverso l’utilizzo di colori esasperati e
di un peccaminoso glamour.
La macchina fotografica, come strumento della materializzazione del pensiero, divenne l’emblema
della sua identità. Attraverso i suoi occhi ogni persona diviene bella, quindi la fotografia per
LaChapelle si oggettivizza come un break di bellezza, come una fulminea interruzione della
quotidianità banale e asfittica. Ma la bellezza non va cercata, ma sempre ed assolutamente creata.
La bellezza, quindi, è creazione originale, anche illogica, ma sicuramente originale: “io guardo alla
bellezza che sta nelle cose e cerco di scoprirne gli aspetti ironici. Provo a creare impronte che siano
divertenti. Con le mie fotografie mi sento artefice di un commento alla bellezza”.
Bellezza e creatività sono i principali elementi della ricerca di LaChapelle, che, nelle sue rare
interviste, cita spesso Hiro che disse: “se quando guardi attraverso l’obiettivo vedi qualcosa che hai
già visto prima allora non scattare”.
Con il suo obiettivo ha inquadrato la moda, creando una visione alternativa, fatta di colori, di
sensualità irridente, di allegria, che nasce dalla contaminazione delle culture pop, cyber, punk e
rock, che lo stesso descrive come american trash culture. Fortemente influenzato dalla sensualità
estrema e dalla creatività di Helmut Newton, negli anni è riuscito ad elaborare un personalissimo
stile che è divenuto marchio, rendendo le sue immagini stilisticamente sempre riconoscibili.
Senza porsi alcuno scrupolo, mischia il reale con l’inventato, raccontando una realtà che esiste solo
nella sua fantasia, per realizzare la quale, quando non c’è altra soluzione, usa con sapienza e
parsimonia il digitale, ritenendo più divertente e stimolante costruire gli oggetti piuttosto che
integrarli con dei trucchi informatici. Il computer per lui è assolutamente schiavo della macchina
fotografica, perché senza un buon fotografo tutta la tecnologia del mondo non potrà produrre una
buona immagine.
L’artista americano, pur sapendo che la rispettabilità deriva dall’accettare passivamente le
convenzioni, ha sempre inteso il proprio lavoro come il rifiuto di esse. Convinto che la fotografia,
ontologicamente, esprima un taglio, uno strappo dalla realtà, in quanto riproduce il mondo per
frammenti. Non esiste più un criterio di verità, conta solo quello che si vuole realizzare, lo stesso
LaChapelle dichiara: “non ritengo di essere obbligato ad essere realista; le persone sono già così
realiste che non ne avrebbero bisogno. Mi sento perciò libero di esplorare altre idee. Le mie foto
sono una reazione contro questo pseudorealismo tanto in voga presso i fotografi di moda, sono più
oneste. Non voglio imitare né Nan Goldin né Larry Clark. Preferisco creare dei sogni, fuggire la
realtà. Essi si presentano come il prodotto della mia immaginazione e non come delle istantanee”.
Volutamente caramellose e plasticate, le sue immagini, dunque, sono l’occasione speciale attraverso
la quale si diverte a creare situazioni grottesche e impossibili, per le quali utilizza, come
protagonisti, vip, idoli e icone divinizzate da MTV e dai global media, creando una sorta di teatro
disarmonico. Ed al teatro è ispirata anche la sua visione della moda, estrinsecata in immagini lampo,
forti, ricche di humour e dinamismo, in cui si mescola uno stile molto grafico con una visione
scenica, che si può identificare con l’energia espressa dagli attori sul palcoscenico.
L’uso del colore è saturo e violento, quasi fosforescente, con dominanti all’estremo della scala
cromatica, ma sempre ottenuto con le tecniche di stampa tradizionale, che ha affinato al meglio per
conseguire gli effetti desiderati.
Geniale quanto spietata, la sua è un’analisi di un mondo finto quanto gli ambienti e le situazioni che
ritrae, specchio di un mondo vacuo, caotico, senza direzione, che è solo apparenza, senza spazio per
sentimenti né analisi interiore. Le sue immagini sono senza profondità, ma ricchissime di emozione
visiva; sono un gioco teso all’estremo della forma che, se da un lato esprime l’insofferenza verso
l’essenza della fotografia, dall’altro libera l’immaginario e lo rende meno intimo e più palese.
Anche lui come Warhol è un celebratore dello star system, immortalato in un’infinità di ritratti. Il
richiamo al maestro della pop art non deve far pensare, comunque, ad un appiattimento di
LaChapelle sul patrimonio iconografico del suo mentore.
I ritratti realizzati dal giovane fotografo americano sono la naturale evoluzione del linguaggio pop;
l’operazione artistica di LaChapelle si potrebbe definire, in un’epoca in cui il volto dei personaggi
famosi è amplificato da tutti i canali di informazione, come iperpop.
Numerose all’interno dei suoi lavori sono le citazioni pittoriche. Famosa e clamorosa quella tratta
dal Giardino delle Delizie di Hieronimus Bosch e riproposta nell’immagine pubblicitaria per
Alexander McQueen intitolata Hieronimus Bosch Love Affairs, in cui ha tenuto conto oltre che della
lezione del maestro fiammingo anche di quella di Robert Mapplethorpe.
Grazie al suo stile originale LaChapelle è richiestissimo dalle riviste (non ha nessun contratto di
esclusiva), dalla pubblicità e dell’industria discografica, per la quale ha realizzato anche dei
videoclip (Moby, Christina Aguilera).
Ha realizzato due calendari su commissioni provenienti dall’Italia. Il primo con Valeria Marini per
la rivista Chi e l’altro per la Lavazza.

Potrebbero piacerti anche