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LEZIONE 3 e 4 – MACCHINE FOTOGRAFICHE E COME FUNZIONA UNA REFLEX

Dopo aver accennato come è nata approssimativamente la fotografia e le prime macchine fotografiche,
voglio parlare brevemente delle strade verso le quali le macchine fotografiche si sono evolute e quali sono i
principali tipi.

La fotografia si è senza dubbio evoluta verso la portabilità e verso la commercializzazione di massa. Al lato
estremo iniziale di una linea temporale evolutiva, possiamo di certo mettere il banco ottico. Questo non è
altro che una camera oscura (come quella che abbiamo già visto) con l’aggiunta di una lente a distanza
variabile rispetto al supporto fotografico, mediante un sistema a soffietto. In parole povere gli aggeggi con
cui fanno le foto di gruppo nei film ambientati nel primo ‘900.

Questi dispositivi fotografici facevano uso di lastre fotosensibili, così come diversi altri che ne sono derivati.
La vera rivoluzione della fotografia portatile e di massa, è stata la comparsa della pellicola. Un supporto
fotografico contenuto nei cosiddetti rullini di varie dimensioni e generi.

L’altro vero avvenimento principale dell’evoluzione fotografica è l’invenzione delle SLR. Single Lens Reflex.
Per ora mi limito a dire che una SLR (per gli amici REFLEX), si contraddistingue dalle altre da: OBIETTIVI
intercambiabili ed un MIRINO OTTICO.

Le reflex di oggi prendono il nome di DSLR, cioè Digital Single Lens Reflex. Le macchine fotografiche compatte
o quelle con lenti non intercambiabili, cosi come quelle istantanee, non sono DSLR.

Nell’era moderna della fotografia, le macchine sono state e vengono classificate principalmente in base alla
dimensione del supporto su cui “registrano” le immagini.

Con l’analogico troviamo:

- Pieno formato – Il tradizionale rullino che ha il FRAME (la singola immagine) grande circa 36mm x
24mm (chiamato generalmente 35mm)
- Medio formato – Macchine fotografiche più rare e sofisticate, nonché costose. I cui supporti, rullini
o mini lastre, hanno grandezza di 6cmx6cm o 5cmx6cm o comunque più grandi del 35mm ma più
piccole del 4”x5” (pollici)
- Banco ottico – che come sappiamo usa lastre maggiori di 4”x5”

Non consideriamo le istantanee.

Con il digitale il discorso diventa un po’ più complesso. Siccome all’inizio dell’era digitale, le possibilità
tecnologiche e produttive non permettevano di creare dei sensori di grandi dimensioni, anche per aspetti
economici, sono stati inventati sensori più piccoli ma che venivano e vengono tutt’ora classificati sempre
rispetto al formato pieno (FULL FRAME, cioè 36mm x 24mm). Questo viene considerato come unità di misura
1:1

Quindi oggi sul mercato troviamo:

- DSLR FULL FRAME – Macchine fotografiche con sensore digitale di 36mm x 24mm
- DSLR APS-C – Le più comuni. Macchine reflex che hanno sensori più piccoli il cui rapporto di
grandezza cambia leggermente da produttore a produttore. Il sensore APS-C Canon per esempio ha
un rapporto di 1:1,6
- DSLR APS-H – Ormai quasi scomparse o comunque rare sul mercato del nuovo. Sono macchine reflex
molto sofisticate. Create non per una convenienza economica ma per poter sfruttare il rapporto di
ingrandimento di 1:1,3 del sensore per foto naturalistiche ad animali, oppure foto astronomiche o
sportive.
(Devo necessariamente aprire una parentesi sul rapporto di ingrandimento che riprenderò
approfonditamente in futuro. Penso che tutti sappiamo che ogni macchina fotografica ha un obiettivo
attraverso il quale riceve la luce e quindi le immagini. Gli obiettivi sono composti da una serie di lenti
all’interno di essi. Senza addentrarci troppo nella meccanica e nelle regole fisiche che regolano il
funzionamento di un obiettivo, diamo per appurato che il fascio di luce che vi entra ha delle proprietà
fisiche ben definite. Questo fascio di luce, dunque, verrà proiettato sul sensore, dallo stesso obiettivo,
sempre allo stesso modo, ed avrà di conseguenza una determinata area di incidenza. La nostra macchina
mantiene l’obiettivo ad una distanza costante dal sensore. Se immaginiamo di proiettare questo fascio di
luce su di un sensore FULL FRAME e su di un sensore APS-C, è facile intuire che parte di questo fascio di
luce fuoriuscirà dai lati del sensore APS-C, in quanto più piccolo, e quello che verrà inviato alla memoria
della macchina fotografica sotto forma di immagine, sarà, in questo caso, solamente ciò che è stato
effettivamente proiettato sul sensore.

Da qui si capisce che mentre un sensore Full Frame riceve l’intero fascio di luce, un sensore più piccolo ne
riceve solo una parte e di conseguenza l’immagine scattata sarà “ingrandita”. In pratica noi non avremo
una immagine fisicamente più grande, ma solo ravvicinata, di quello che stiamo fotografando.)

Vari produttori di macchine fotografiche digitali hanno, negli ultimi anni, sviluppato diversi tipi di sensori ed
a volte anche inventato degli standard propri.

Troviamo sensori da 1” di larghezza, oppure sensori chiamati 4/3, micro 4/3 e così via.
All’utente amatoriale tutto ciò poco importa visto che sullo schermo del pc vedrà immagini quasi identiche a
prima vista, cosa che per molti è più che soddisfacente.

Oltre alle DSLR ed alle compatte (macchine quasi completamente automatiche e con ottica integrata) oggi
troviamo sul mercato un boom destinato a crescere sempre di più e che forse un giorno potrebbe mandare
in pensione le DSLR, cioè le MIRRORLESS. Come dice la parola stessa, macchine senza specchio. Spiegherò
più approfonditamente cosa si intende per specchio ma, in linea di massima, le mirrorless sono macchine con
obiettivo intercambiabile ma senza mirino ottico, spesso sostituito da mirino elettronico.

Ultimamente sono state prodotte anche macchine fotografiche digitali Medio Formato ma parliamo di
sistemi molto sofisticati, con lenti dedicate e di utilizzo esclusivamente professionale.

Un breve accenno ai Megapixel è ora doveroso.

Dopo tutto questo discorrere sulla grandezza dei sensori, penso che venga spontanea la domanda: ma allora
cosa sono i Megapixel? Detto tra noi, soprattutto da 10 anni a questa parte, i megapixel sono lo strumento
diabolico più utilizzato dalle case produttrici per vendere macchine fotografiche alle masse.

Basti pensare che il 90% degli utenti medi fotografici non ha bisogno di macchine che superano i 16
Megapixel. E potrebbero vivere felicemente anche con 12 Megapixel per il resto della loro vita.

Tutti i sensori digitali sono formati da pixel, cioè dei “puntini” ricettori di informazioni luminose. Sappiamo
che ogni raggio luminoso è composto da fasci di colore che compongono l’iride. Combinandosi, riescono a
creare qualsiasi colore esistente in natura. I pixel “approssimano” la composizione della luce scomponendola
in tre colori: il rosso, il verde ed il blu. Quindi ogni pixel legge le percentuali di questi tre colori presenti nella
luce ricevuta e crea delle immagini digitali mediante queste informazioni. Ogni dispositivo che usa pixel, sia
ricettori che trasmettitori, segue lo stesso funzionamento basato sul modello di colore RGB (Red, Green,
Blue).
Ora, siccome le dimensioni del sensore sono costanti, un maggiore numero di Megapixel (cioè Milioni di Pixel
calcolati dal rapporto lato x lato) implica una maggiore densità di informazioni. Quindi in teoria un sensore
con più megapixel dovrebbe essere migliore di uno che ne ha meno.

Fino ad un certo punto.

Questo perché’ i modi di fruire queste immagini digitali sono limitati e non necessitano di così tante
informazioni.

Un sensore da 12 Milioni di Pixel (12 Megapixel) restituisce una immagine di 4048 x 3040 pixel.

Per esempio, uno schermo full HD di una TV o di un computer possiede solamente 1920 x 1080 px. Quando
visualizziamo una immagine da 12mpx su uno schermo full HD, certo si vedrà benissimo, ma tutti i pixel in
eccesso saranno scalati ed approssimati per essere riprodotti dallo schermo che ha una densità minore di
pixel.

Per quanto riguarda la stampa, lo standard per una immagine stampata di qualità è di 300dpi. DPI significa
Dot Per Inch, cioè Punto Per Pollice. Il punto è sinonimo di pixel.

Un pollice (Inch) equivale a 25,4mm ed un foglio informato A4 e’ grande 297mm x 210mm.

Quindi:

297/25,4 = 11,69 x 300= 3507

210/25,4 = 8,27 x 300 = 2481

Allora per stampare una foto in formato A4 alla RISOLUZIONE di 300dpi, avremo bisogno (ottimale) di una
immagine digitale di almeno 3500 x 2500 pixel circa. Ancora più piccola di una immagine creata da un sensore
da 12 Megapixel.
Finalmente arriviamo al succo del discorso. Tutte queste parole per spiegare come funziona una macchina
fotografica. Forse un po’ troppe ma di certo utili a rispondere a domande e soddisfare dubbi che sarebbero
presto sorti.

Ecco la REFLEX. Un aggeggio meccanico (diventato anche elettronico con l’era digitale) composto da due parti
disassemblabili: il CORPO MACCHINA e l’OBIETTIVO (o LENTE).

Partiamo dal principio. Obiettivo e corpo macchina si assemblano mediante la BAIONETTA (volgarmente
chiamata attacco). Ogni produttore ha una propria baionetta, quindi obiettivi e corpi di diverse marche non
sono intercambiabili tranne che mediante l’utilizzo di adattatori, i quali creano più disagi che vantaggi. Non
è quindi una pratica comune.

Ogni tipo di baionetta ha una sigla che la contraddistingue. Canon usa per esempio la sigla “EF”, Nikon invece
la sigla “AF”

Tutti gli obiettivi sono composti da un certo numero di lenti di varie dimensioni, spessore, concave, convesse,
ravvicinate, ecc. Gli obiettivi si dividono principalmente in FISSI, o meglio, A FOCALE FISSA, e ZOOM.
Se è semplice capire cosa fa uno zoom, allora è altrettanto semplice capire cosa fa un obiettivo fisso. Resta
fisso. Dunque l’immagine che vediamo attraverso la macchina fotografica resta uguale, non può essere
avvicinata o allontanata a meno che non siamo noi a muoverci.

La lunghezza focale degli obiettivi viene espressa in mm (millimetri) più è piccolo il numero e meno ciò che
fotografiamo sembrerà ravvicinato. Al contrario, più è alto il numero, maggiore sarà l’ingrandimento di ciò
che vediamo.

All’interno di tutti gli obiettivi vi è il DIAFRAMMA. Il concetto è stato più o meno già spiegato. Il diaframma
è composto da una serie di lamelle che aumentano o diminuiscono l’apertura del foro stenopeico attraverso
il quale passa la luce che entra nel corpo macchina.

L’apertura del diaframma viene indicata da un numero preceduto dalla sigla lettera “f” (minuscola).

Questo numero indica sempre la massima apertura raggiungibile dall’obiettivo. Minore è il numero che segue
la f e maggiore è l’ampiezza di apertura di cui l’obiettivo è capace. In linea di massima, gli obiettivi con numero
di diaframma più piccolo sono più sofisticati e di conseguenza più costosi.

Esempio di obiettivo:

Nikon AF-S DX 18-55mm f/3.5-5.6

Saltando le prime sigle che vedremo in futuro, questo obiettivo è dunque:

- Zoom che va da 18mm a 55mm


- Ha diaframma che a 18mm può aprire fino ad f3.5, invece a 55mm può aprire solamente fino ad f5.6

Ecco dunque una nuova nozione legata la diaframma. Molti zoom, soprattutto quelli meno sofisticati ed
economici, hanno un diaframma ad apertura massima variabile. Gli obiettivi a focale fissa hanno invece
sempre e comunque un solo numero di apertura massima diaframma.

Più o meno tutti gli obiettivi, sia fissi che zoom, sia costosi che economici, possono chiudere il diaframma fino
a f22.
Superato l’obiettivo, il fascio di luce, e quindi la futura immagine, entra nel corpo macchina e rimbalza su uno
specchio. Da qui dunque deriva il nome di REFLEX. Tutte le macchine fotografiche che non usano il metodo
che spiegherò adesso, non sono reflex.

Lo specchio nelle reflex non ha fini relativi alla creazione dell’immagine, ma serve semplicemente a veicolare
fino al nostro occhio ciò che stiamo INQUADRANDO attraverso l’obiettivo.

Dopo essere rimbalzata sullo specchio, l’immagine, entra nel PENTAPRISMA. Questo non è altro che un
blocchetto di cristallo le cui facce, angolate tra di loro, riescono a far rimbalzare l’immagine proveniente dallo
specchio fino a farla arrivare al nostro occhio tramite il MIRINO.

Il rigonfiamento che è presente sulla sommità di tutte le reflex non è dunque messo lì per fare posto al flash,
bensì contiene il pentaprisma. Il flash integrato è arrivato molto dopo.

Il mirino usato dalle reflex si chiama MIRINO OTTICO, proprio perché’ sfrutta regole di trasmissione ottica
della luce. Come accennavo in precedenza, le fotocamere che non utilizzano il meccanismo dello specchio e
del pentaprisma, ma che hanno comunque obiettivi intercambiabili, vengono dette MIRRORLESS e, non
potendo veicolare fisicamente l’immagine dall’obiettivo al mirino, hanno sostituito quest’ultimo con un
MIRINO ELETTRONICO il cui funzionamento è a questo punto palese.

Ora viene il bello. Fin qui non abbiamo scattato nemmeno una foto. Ma allora cosa succede quando
premiamo quel benedetto pulsante?

Se ci facciamo caso, mentre guardiamo nel mirino e scattiamo una foto, l’immagine scompare per qualche
frazione di secondo. Questo perché’ in quel momento avviene la magia della fotografia.

Lo specchio si alza e libera il passaggio della luce verso l’OTTURATORE.

Ecco un altro termine che abbiamo già incontrato. L’otturatore non è altro che il tappo della scatola che
togliamo e rimettiamo per far passare solamente la luce necessaria a creare la foto.

Dunque, rispettando i TEMPI DI SCATTO che abbiamo impostato, l’otturatore si apre per una frazione di
secondo e lascia che la luce, finalmente, vada sul sensore, giusto il tempo necessario per creare la foto.

Il tempo durante il quale l’otturatore rimane aperto viene indicato in frazioni di secondo e in secondi.

La maggior parte delle macchine fotografiche comuni possono lasciare aperto l’otturatore da un minimo di
1/3000 di secondo ad un massimo di 30”.

Altre macchine più sofisticate superano questi valori.

Nel caso delle macchine digitali, l’immagine è ora diventata, appunto, digitale. Mediante il meccanismo dei
pixel che ho spiegato in precedenza, essa viene ora mostrata sullo schermo LCD ed è già immagazzinata della
memoria della fotocamera.

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