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L’uomo totale nella sua pittura.

Attraversamento cronologico della ricerca pittorica di Julian Beck negli spazi


dell’Archivio Casa Morra

di Lucrezia Longobardi

In una condizione particolarmente difficile come quella vissuta in America negli anni ‘40 e ’50, il
lavoro pittorico di Julian Beck si innesta perfettamente nel clima di afflizione che, frutto degli
avvenimenti articolati che andavano mutando, in quel ventennio, cambiò l’assetto mondiale. Nel
passaggio storico dall’isolazionismo all’imperialismo, nella spasmodica lotta al comunismo e
all’affermazione patriottica, in questa capricciosa investitura a potenza primaria della propria patria,
nella difesa del concetto di guerra come unica possibilità d’azione, la ricerca pittorica di Beck,
molto vicino alla cifra espressiva dell’azionismo di Pollock (suo compagno di strada) e
all’espressionismo di De Kooning, si sviluppò con direttive ben precise, diventando più funzione
che sostanza, attraverso un linguaggio frutto dell’agitazione data dal cambiamento e da una
necessità volta al combattimento di quello stesso scenario imposto.
La ricerca di Beck, nei primi anni ’40, nasce dal bisogno di definire la forma.
In tutto il primo decennio di attività si dedica ad indagare le coordinate in cui muoversi e, non di
meno, al ruolo dell’artista nella società. Nel suo diario, a proposito della sua pittura e degli artisti,
scrive: «La mia pittura è un attaccamento a produrre cose belle per insegnare all’occhio dello
spettatore a cogliere alcune delle meraviglie che esistono sulla terra e in ogni suo metro quadrato».
E ancora: «Sono consapevoli [gli artisti] di dover dipingere non solo le figure, ma lo spazio tra le
figure”. È così che Beck vede l’artista, come un uomo che deve rendere l’altro più consapevole alla
visione. Ed è su questi parametri che egli lavora, costruendo una visione consapevole dettata dalle
intense pressioni esistenziali e dalle nette pulsioni emozionali ed espressive, decostruendo la
composizione pittorica per dare luogo all’atto stesso della pittura, attraverso un lavoro cromatico
equilibrato e poetico, rincorrendo anch’egli la visione di un altrove e di un tempo diversi, di una
rivoluzione. È in questo spazio che si può leggere la candida disillusione di una generazione –
quella che andava definendosi “beat” – che si innalza su cromie scandite e calde e cerca in queste
l’evasione, la salvezza. Le opere che possiamo osservare nella prima sala dedicata a Julian Beck, e
che procedono in ordine cronologico dal 1945 al 1950, sono caratterizzate da un libertario
entusiasmo; dettate da un piacere infantile riversato nella creazione e oscurate solo dai tempi
correnti; Lead and Gold: War and Peace e The city by night (1946) sono due esempi massimi della
dolcezza compositiva attanagliata dal dramma che svela l’enigma umano. Una sorta di mappatura in
divenire verso un territorio sconosciuto che alimenta questa necessità di evasione, il concreto
bisogno di affermare un nuovo mondo, che prenderà forma, ineludibilmente, assieme a Judith
Malina nel lavoro del Living Theatre.

È poi avanzando tra gli stati pittorici, e negli anni, che Beck sperimenta nuovi orizzonti e nuovi
slanci attraverso una pittura meno materica e più stratificata, dove le geometrie si addolciscono per
creare immaginari morbidi e poetici. Nella seconda sala dedicata alla sua pittura, e che contiene il
secondo decennio di ricerca che va dal 1952 al 1958, in lavori più maturi emergono tratti identitari,
memorie del presente e paure visibili, palpabili. Affiancando disegni e dipinti, la retrospettiva
mostra l’humus florido e ritmicamente cadenzato della progettualità di questo artista. Si alternano
pitture e collage a disegni su carta e documenti che riflettono la crescita consapevole nell’uso dei
media attraverso l’estrema sperimentazione; impossessandosi di tutto l’esterno a se stesso mostra
una coscienza infelice e uno sconfinamento necessario alla realizzazione dei suoi territori privati.
Territori desiderati nei linguaggi di ogni intellettuale di quegli anni, fantasiosamente distesi nei
dipinti di Beck e angosciosamente rincorsi nella narrativa di Kerouac.

“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.


Dove andiamo?
Non lo so, ma dobbiamo andare.”
Jack Kerouac

Anticipatore dei tempi e precursore delle linee di ricerca degli anni ’50, Beck avanza in maniera
prorompente con la sua pittura nel panorama internazionale, nonostante sia ai margini del sistema
galleristico. Mentre Rauschenberg inizia la produzione dei suoi “combines” nel 1953, lavorando
sulla stratificazione e il colore, Julian, diversi anni prima, definisce e arricchisce i suoi collage in
maniera profondamente umana ed elegante, lavorando attraverso cromie folgoranti e vive ed
inserendo sulla pellicola pittorica frammenti di vita propria. L’Icarus, monumentale dipinto del
1956, detiene la sacralità di tutta l’opera pittorica di Beck nella sua sensualità dorata e oltremodo
preziosa grammatica della visione. Come Icaro, la sua vocazione è quella di staccarsi dalla superfice
terrena, estendersi verso un altrove abbagliante emergendo dal profondo. E come per Icaro, ancora,
la scelta dello splendore che converge verso un orizzonte cangiante, mostra la debolezza dell’uomo
che, nel consegnare alla morte l’ultima goccia di splendore1 decade, abbattuto da se stesso.
Tutta la produzione dell’artista, quasi completamente appartenente alla collezione dell’Archivio
Contemporaneo Casa Morra, mostra un Uomo Totale che ha fatto sintesi di arte e politica nei suoi
plurali lavori. Poesia, teatro, arte, sacralità, cinema, politica rappresentano la cifra infinita che
identifica il linguaggio profetico di Julian Beck.


15 AGOSTO, 1952
Lavorare è sicuramente essere vivo; ma la posa di perseguire l’immortalità spetta (o
non spetta) troppo alla vanità di essere santo (sic) sul serio.
J.Beck, Diari

1
Alvaro Mutis, Summa di Mqroll il Gabbiere, Einaudi, Torino, 1993
Pubblicato su Artribune il 20.11.2017
https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2017/11/mostra-julian-beck-casa-
morra-napoli/

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