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CINA E GIAPPONE SUI MARI NEI SECOLI XVI E XVII

INTRODUZIONE

LA CINA ED IL GIAPPONE NEI SECOLI TRA IL CINQUECENTO E IL SEICENTO


I secoli XVI e XVII furono testimoni di significativi eventi e di trasformazioni che segnarono l’evolversi della
storia dell’Estremo Oriente e, in particolar modo, della Cina e del Giappone. Questi sono anche i secoli
dell’incontro delle grandi civiltà. I testi e i documenti che documentano questi incontri sono sia le
documentazioni della Cina, del Giappone, della Corea, sia anche i documenti europei hanno portato luce su
questi incontri.

Nel XVI secolo, la Cina dei Ming (1368-1644) stava vivendo un periodo di forte stabilità politica che portò ad
una notevole crescita economica, culturale e sociale. Questo sviluppo interessò soprattutto le regioni
costiere. Tuttavia, la decadenza era prossima. Infatti, durante questo periodo iniziò il processo di
riunificazione dei mancesi che culminò nel 1936 con la fondazione della dinastia Qing. Il XVII secolo fu,
quindi, un periodo di transizione che vide l’ultimo cambio dinastico della storia cinese: dai Ming ai Qing
(1644 – 1911). In realtà, nonostante il 1644 è convenzionalmente accettato per indicare l’anno del
passaggio dinastico, il definitivo passaggio avvenne soltanto dopo la sconfitta dei Ming Meridionali (1644-
1662) e della successiva Ribellione dei Tre Feudatari (1673-1681), con la conseguente annessione di Taiwan
alla sovranità dell’impero cinese nel 1683.

Anche il Giappone, durante il XVI secolo, viveva dei disordini interni: il regime Ashikaga (1336-1573) stava
perdendo sempre più potere arrivando così al cosiddetto Sengoku Jidai, i disordini interni favorirono
l’autonomia dei potenti locali, in particolar modo i daimyō del Kyūshū, che si impadronirono del monopolio
sul commercio marittimo. Tuttavia, con Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi poi, il Giappone si avviò verso
una rinnovata centralizzazione: con la battaglia di Sekigahara, nell’autunno del 1600, si afferma lo
shogunato Tokugawa (1603), con Ieyasu al comando, che vide una riorganizzazione politica, sia interna che
esterna, che culminò poi nel Sakoku, politica del “Paese chiuso”.

Nel corso del XVI e del XVII secolo vi è anche l’arrivo degli europei, Portoghesi e Spagnoli, seguiti poi dagli
Olandesi e dagli Inglesi: gli avventurieri europei si apprestavano a scalare le rotte per l’Oriente. I mari
saranno da questo periodo in poi caratterizzati da un mercantilismo: da un lato le comunità dei cinesi
d’oltremare (haiwai huaren) e dall’altro lato i quartieri giapponesi (nihon machi).

Vennero stabilite diverse basi che fungono da collegamento tra Occidente-Oriente:

• Macao: che, nonostante la rigida politica del governo Ming, collegò il Giappone con la Cina, le Filippine,
Europa.

• L’isola Hirado: nel litorale del Kyūshū

Tutte le diverse basi in Giappone confluiranno poi, in seguito a decisioni prese dal governo Tokugawa
nell’ambito del Sakoku, a Nagasaki trasformata nel Sakoku no mado, finestra del Paese chiuso, come unico
ingresso dei traffici internazionali del Giappone.
DIBATTITO SULLA MARITTIME HISTORY
A seguito della grande ricchezza di documentazione di cui dispongono gli archivi europei, c’è stata per
lungo tempo un’analisi di parte, con un approccio alla storia di tipo eurocentrico. A seguito di un crescente
desiderio di oggettività, gli studi si sono approfonditi e un primo elemento che gradualmente è venuto alla
luce è il contenuto del termine wokō che fino ad oggi è stato usato a definire l’attività di pirateria
giapponese, ma di fatto comprende anche una notevole partecipazione cinese. Inoltre, la fondazione di basi
marittime in Estremo Oriente è stata da sempre vista come conseguenza dell’arrivo degli occidentali, ma
ciò che in verità avvenne fu l’utilizzo, da parte degli occidentali, di basi precedentemente fondate.

Forse, un pensiero dovuto al periodo Sakoku, ma di fatto Tokugawa Ieyasu attuò una conciliante politica di
apertura attraverso le go-shuinsen (navi dal sigillo di cinabro) assegnate anche a europei e cinesi. Tuttavia,
in seguito alla rigida politica del bakufu, l’attività mercantile nel Kyūshū fu penalizzata e ben presto i
mercanti-pirati cinesi cominciarono a sostituire quelli giapponesi. Notiamo come ancora una volta
l’eurocentrismo abbia offuscato la realtà storica. Infatti, solo negli ultimi decenni il termine di haiwai
huaren, i cinesi d’oltremare, termine usato per riferirsi alle migrazioni, viene studiato con interesse ed è
esente da connotazioni politiche e nazionalistiche. Parallelamente, la storiografia giapponese è invece di
impostazione eurocentrica, in quanto hanno prestato attenzione agli studi effettuati all’estero in merito al
proprio paese. Si mette in discussione l’imposizione cronologica e si cerca di distaccarsi da vecchie
impostazioni.

Il mercantilismo è stata una condizione necessaria per ottenere l’unità e il controllo del territorio. Non può
prescindere dalla politica e dall’economia, perciò, costituisce uno dei punti di partenza di analisi della
storia.
CAPITOLO I

LE COORDINATE STORICHE

HAIJIN E KANHE MAOYI


Con il crollo del dominio mongolo degli Yuan (1269-1368) vi è la fondazione dell’impero Ming (1368-1644)
ad opera di Hongwu (1368 – 1398), che guidò il Paese verso una graduale ripresa economica, anche
attraverso un’istituzione burocratica fortemente centralizzata. Per questo motivo qualsiasi elemento di
instabilità doveva essere ricondotto all’ordine e/o eliminato: negli elementi di instabilità risiedevano anche
le attività marittime della Cina costiera con l’oltremare, da sempre causa di problemi per il governo
centrale. La risposta di Hongwu fu perciò coerente alla sua linea politica fortemente centralizzata e, infatti,
nel 1372 attuò le leggi haijin con cui fu consentita l’apertura di soli tre porti ed esclusivamente per le
ambascerie ufficiali che recavano il tributo:

• Ai mercanti cinesi non erano consentiti i viaggi d’oltremare (haijin, “veto sui mari”)

• Ningbo, nel Zhejiang, che accoglieva le ambascerie giapponesi.

• Guangzhou (dal 1472 sostituita da Fuzhou, nel Fujian) ospitava le missioni provenienti dalle Ryūkyū.

• Canton (Guangzhou, nel Guangdong) riceveva i tributi dei paesi del Sud-Est Asiatico.

Le stesse ambascerie ufficiali, inoltre, erano sottoposte a molteplici e rigide limitazioni che riguardavano sia
il numero delle navi, sia gli equipaggi, i membri delle missioni e i tempi. La scelta dei mercanti cinesi, perciò,
era tra: emigrazione – pirateria - rinuncia dell’attività. L’ultima, mai scelta dato che l’attività commerciale
era la loro fonte di sostentamento, perciò molti emigrano (haiwai huaren) altri, invece, si dedicano alla
pirateria. Dunque, Hongwu aveva come obiettivo ristabilire un ordine, ma il tutto non fece che peggiorare.
Ovviamente, molti di questi commercianti, avevano nelle loro basi commerciali anche una seconda
famiglia, perciò era impensabile per questi emigrare. E optavano per la pirateria. Dunque, un fenomeno che
non riguardò esclusivamente il Giappone.

Tuttavia, un altro problema era legato anche alla “questione dei wokō”: il XIV secolo, infatti, vedeva violenti
ed incessanti attacchi e saccheggi dei pirati giapponesi lungo le coste cinesi e coreane – provenienti per lo
più dalle coste del Kyūshū e spesso organizzati dagli stessi daimyō -. L’attribuzione quasi esclusiva di wokō
ai giapponesi era un alibi per il governo cinese per non riconoscervi la stessa partecipazione cinese.

A seguito delle invasioni mongole degli Yuan da parte di kubilai Khan (nel 1274 spedizione che parte dalla
Corea verso il Giappone, 1279 conquista Cina, 1281 spedizione sia da Corea che da Cina) si rafforzò il
sistema difensivo delle coste e questo portò alla pirateria e al dominio dei primi daimyō. La ripresa del
dialogo con l’arcipelago fu anche contrastata dalle conseguenze delle spedizioni mongole in Giappone. I
tentativi di dialogo si rivelarono fallimentari e la Cina continuò a soffrire delle precedenti mire
espansionistiche mongole. Soltanto all’indomani dell’unificazione delle due corti di Yoshino e Kyoto,
periodo generalmente conosciuto come Nanbokuchō, avvenuta nel 1392, ad opera di Ashikaga Yoshimitsu,
vi fu la riapertura dei rapporti diplomatici, nel 104, con il sistema del “Commercio dei Sigilli”, kanghe
maoyi, in giapponese kangō bōeki. Ashikaga Yoshimitsu si firmò come «re del Giappone», come posizione di
sottomissione esplicitamente accettata dallo Shogun nei confronti dell’imperatore Ming Yongle.
Grazie anche al miglioramento dei rapporti con il Giappone la Cina visse un momento di grande respiro
marittimo con le imponenti spedizioni guidate dall’ammiraglio Zheng He negli anni 1405 – 1433 su
mandato imperiale. Tuttavia, ben presto le zone costiere della Cina furono abbandonate a sé stesse, ciò è
dimostrato dalla la scelta di trasferire nel 1421 la capitale da Nanchino a Pechino – segno tangibile della
priorità accordata ad una politica continentale piuttosto che marittima. Non a caso, nel XV secolo, la
partecipazione cinese agli atti di pirateria e di saccheggio sulle coste – che nel secolo precedente era stata
prevalentemente di dominio giapponese – divenne sempre più consistente e le bande di wokō iniziarono ad
essere costituite da elementi cinesi.

Sul fronte del Giappone la situazione si era modificata velocemente: dopo la tregua consentita dalle scelte
politiche di Yoshimitsu, già il successore, Yoshimochi, respingeva la politica paterna interrompendo nel
1411 i rapporti con la Cina, che vennero poi ristabiliti nel 1433. Tuttavia, lo shogunato Ashikaga non era
abbastanza forte da poter controllare e gestire i traffici mercantili con il continente. La conseguenza fu
l’increscere di attività marittime sia legali che illegali, infatti, molti dei daimyō presero parte a commerci
ufficiali ed ufficiosi, ovvero praticavano saccheggi ma avevano lo stesso accesso alle ambasciate ufficiali.
Così si giunse ad una nuova era di pirateria. Il governo Ming però riprese in mano il controllo rafforzando le
zone strategiche e punendo con la pena di morte tutti coloro che commerciavano con i giapponesi senza
autorizzazione. Il risultato però fu l’aggregazione della pirateria cinese a quella giapponese e coreana.

L’ERA JIAJING
Durante il XVI secolo la situazione lungo le coste della Cina si aggravò ulteriormente: in questo periodo si
vide, infatti, un rafforzarsi della partecipazione cinese nelle attività marittime illegali e un diffondersi della
pirateria di matrice cinese, Haikou, che raggiunse il culmine durante l’era Jiajing (1522 – 1566). Nel 1523,
due ambascerie giapponesi – degli Ouchi e degli Hosokawa, già su fronti opposti durante la guerra dell’era
Onin (1467 – 1477) e in aspra contesa per il controllo dei commerci con la Cina – sopraggiunsero a Ningbo
affermando entrambe di essere quella “autenticamente” ufficiale. I disordini che ne derivarono arrivarono
a coinvolgere anche la popolazione locale, provocando così numerosi danni e vittime tra gli stessi cinesi,
anticipando così il definitivo interrompersi delle relazioni tra la Cina e il Giappone avvenuto nel 1549.

La situazione che esplose lungo le coste cinesi divenne ben presto critica ed incontrollabile, durante la metà
del XVI secolo tutte le regioni costiere meridionali, in particolar modo il Fujian, vivevano gli “anni di fuoco”
della pirateria: questa era l’epoca del pirata Wang Zhi - conosciuto in Giappone con il nome di Ochoku, o
ancora con l’appellativo “Re di Huizhou” – che era a comando di un’organizzazione piratesca di notevole
importanza. Wang Zhi aveva le sue basi tra i litorali cinesi, Taiwan e le coste del Kyūshū, in particolare le
isole Gotō e Hirado. I traffici e i commerci internazionali con i cinesi coinvolgevano anche gli europei, e in
particolar modo i portoghesi – non a caso, nel periodo di massima attività del gruppo, nel 1559, si registra
anche l’arrivo della prima nave olandese sulle coste di Hirado.

Intorno al 1560 il commercio privato d’oltremare, per quanto illegale, aveva raggiunto delle proporzioni
enormi, tanto da costringere le autorità centrali ad allentare, almeno in parte, il veto imposto ai mercanti
cinesi: fu il sovraintendente generale del Fujian, Tu Zemin (? – 1569) a proporre di concedere l’apertura
dell’odierna Haicheng ai traffici marittimi, legalizzando in tal modo le attività di contrabbando e i commerci
illecita al fine di controllarli e tassarli. Nel 1567 quindi, il porto di Haicheng fu aperto con le dovute norme e
restrizioni ai commerci d’oltremare, fermo restando il veto riguardante il Giappone.
SHUINSEN
LA CENTRALIZZAZIONE DELLE ATTIVITÀ MERCANTILI DEL GIAPPONE

Gli ultimi decenni del XVI secolo furono accompagnati da un costante flusso migratorio dalle zone costiere
della Cina meridionale – ed in particolare dal Fujian -, che interessò l’intero Sud Est Asiatico. Sebbene il veto
imposto al Giappone impedisse un diretto invio di mercantili, cinesi e giapponesi continuavano ad avere
scambi commerciali, in una sorta di cooperazione-rivalità, costruendo così una sorte di mercantilismo
estremo-orientale da opporre a quello europeo, non è un caso, infatti, che le basi europee venissero
collocate lungo le rotte tradizionalmente battute dai mercanti pirati.

Il Giappone proprio in questo periodo stava vivendo l’ultimo passo per la riunificazione nazionale, iniziata
già nel 1560 da Oda Nobunaga e proseguita da Toyotomi Hideyoshi, e vedeva le marinerie giapponesi
sempre più centralizzate. Il primo protagonista di questi avvenimenti fu il Kyūshū, pacificato nel 1586-87. Fu
poi dopo la fine del Sengoku Jidai, con la battaglia di Sekigahara del 1600, e grazie a Tokugawa Ieyasu, che
venne ripreso il processo di centralizzazione delle marinerie giapponesi alle direttive delle autorità centrali,
questa volta non solo con finalità belliche ma anche, e soprattutto, commerciali. Ciò comportò per i daimyō
del Kyūshū una notevole perdita dell’autorità sui traffici mercantili e una conseguente decurtazione dei
profitti: si era giunti al sistema delle shuinsen (sigilli vermigli) di Tokugawa Ieyasu. I daimyō cercarono di far
fronte alle perdite, sia con un finanziamento privato dei mercanti cinesi, sia con una politica di ospitalità nei
confronti degli europei.

Ciò che era distintivo per il Kyūshū era la pluralità degli insediamenti: portoghesi, spagnoli, olandesi, inglesi,
sempre in coabitazione con le presenze cinesi. Le basi europee simboleggiavano lo schieramento e le
alleanze dell’Europa del tempo:

• Macao in mano portoghese (1557)

• Manila fondata dagli spagnoli (1571)

• Batavia, odierna Jakarta, sede della Compagnia Olandese (1619)

• Diverso fu il caso di Taiwan che vedeva la presenza olandese nel sud, con Forte Zelandia – odierna Tainan
– dal 1624 al 1662, e quella spagnola nell’estrema punta nord, con S.ma Trinità dal 1626 al 1642, quando la
base spagnola venne presa dall’Olanda.

La peculiarità del Kyūshū di ospitare contemporaneamente diverse rappresentanze europee va vista come
una strategia di apertura verso tutti i “barbari” da parte di Ieyasu, che riflette anche le volontà
espansionistiche di Hideyoshi, il quale aveva ben due volte attaccato la Corea e la Cina (1592/1597).
Tuttavia, già con Hideyoshi si assistette ad un irrigidimento nei confronti con la religione cristiana,
arrivando, nel 1624, alla definitiva espulsione dal territorio giapponese della Spagna e poi, nel 1639, del
Portogallo. Questa politica diede un forte impulso alle marinerie cinesi che gradualmente sostituirono
quelle giapponesi nei traffici d’oltremare dell’arcipelago, prima in via “ufficiosa”, alle dipendenze dei
daimyō, poi come delegati ufficiali del bakufu Tokugawa, attraverso le shuinsen. Questo è il caso di Li Dan,
conosciuto anche col nome di Andrea Dittis. Questa politica di centralizzazione colpì anche i giapponesi
risedenti all’estero rendendoli dipendenti dai commerci ufficiali dell’arcipelago che si concluse con il
definitivo ritiro dai mari con la cosiddetta politica di “chiusura” del Sakoku, con la quale si vietava ai
giapponesi l’espatrio e si intimava il rientro di coloro che si trovavano all’estero.
UNO SVILUPPO INASPETTATO: AGGREGAZIONE E ORGANIZZAZIONE DELLA PIRATERIA CINESE
Con il sorgere del XVII secolo la presenza europea si fece sempre più evidente: si aggiunse anche l’Olanda
e l’Inghilterra. Nel 1600 giunsero gli olandesi a bordo della De Liefde, con il pilota William Adams, alle
coste del Kyūshū. Nel 1619, la Compagnia Riunita delle Indie Orientali fondò Batavia, nel 1624 fu eretto
fu eretto Forte Zelandia nel sud di Taiwan, l’Olanda tolse Malacca ai portoghesi, 1641, e la base di Taiwan
agli spagnoli, 1642. L’Inghilterra si attestò dal 1613 al 1623 a Hirado per poi ritirarsi.

La meta ambita dagli europei è sempre stata la Cina, infatti, più volte tentarono trattative sia
diplomatiche che forzate. Un ruolo importante nella mediazione tra Cina ed europei lo ebbero le
marinerie cinese. Queste ultime avevano una solida struttura organizzata ma, per sfuggire ad ogni
controllo, anche mobilità e mimetismo.

Tra la fine del XVI e inizi del XVII secolo, la struttura di questi gruppi mutò notevolmente, in
concomitanza con i cambiamenti politici internazionali: con l’apertura di Haicheng e l’inclinarsi delle
attività “piratesche”, la presenza europea divenne maggiore. Era, perciò, necessaria l’unione di questi
gruppi in organizzazioni più grandi e più forti. Inoltre, il controllo sempre più rigido del governo
giapponese sui daimyō aveva dato l’occasione alle marinerie cinesi di controlli maggiori dell’arcipelago,
un grosso impulso al rafforzamento del mercantilismo cinse, soprattutto perché agli investimenti dei
daimyō del Kyushu si uniscono quelli del Bakufu Tokugawa stesso.

Agli albori del XVII secolo, vi fu l’unificazione dei gruppi sotto Li Dan e poi Zheng Zhilong. Un altro
elemento fondamentale fu l’unificazione dei gruppi nomadi a nord, che iniziò con Nurachi. I mancesi
furono così in grado di sottomettere la Corea nel 1636. Questo simboleggiò un pericolo molto grave, per
cui era necessario un maggiore controllo dei porti, in quanto avrebbe dato vantaggiose possibilità di
possedere una potente flotta militare. Così il governo Ming diede all’organizzazione marittima della
famiglia Zheng, delle cariche ufficiali (a Zheng Zhilong, successore di Li Dan) e un proprio “monopolio” sui
traffici mercantili cinesi. Si giunge a compimento una centralizzazione delle attività marittimo-
commerciali cinesi, che non solo monopolizzò i traffici cinesi ma costituì allo stesso tempo un forte
potenziale bellico. La famiglia Zheng diviene pilastro della pirateria cinese, importante sarà anche Zheng
Chenggong. Infatti, solo dopo la resa definitiva dei Zheng e l’annessione di Taiwan, iniziò l’impero
mancese dei Qing nel 1683.
CAPITOLO II

ALLE ORIGINI DEL MERCANTILISMO CINESE

IL FUJIAN
Nonostante le zone costiere della Cina occupassero soltanto una piccola parte del continente, non era raro
che la dominazione e il controllo di queste zone potesse portare alla stabilità o alla sopravvivenza di una
dinastia, così come lo dimostrano gli avvenimenti collegati alla transizione dinastica Ming-Qing. Inoltre, le
regioni costiere hanno funto da canali di comunicazione, sia per quando riguarda la cultura cinese iniziando
un processo di sinizzazione, fino a giungere, a partire dal XVI, da canali di comunicazione per le grandi
compagnie europee che introdussero in Cina nuove conoscenze scientifiche, religiose e filosofiche.

Nella fervente attività marittima, tra le varie regioni costiere della Cina meridionale, il Fujian è sempre
stato atipico, soprattutto per le difficoltà delle autorità di esercitare un controllo sulla regione. Questo è
dovuto a diverse ragioni: la tarda annessione alla Cina, avvenuta soltanto con la dinastia Tang, nonché il
breve periodo di indipendenza del Regno Min. E sicuramente anche la posizione geografica, vicino allo
stretto di Taiwan, unita alle caratteristiche della costa, estremamente frastagliata, hanno giocato un
ruolo molto importante. Infatti, furono proprio grazie alle caratteristiche fisiche che si sviluppò, nel corso
dei secoli, un’attività legata alla pesca, navigazione, traffici – soprattutto nell’area meridionale, il Minnan
– e ad un’attività legata all’agricoltura soprattutto nella zona settentrionale. Le potenzialità marittime del
Fujian emersero durante la dinastia Song. La regione godeva perciò di un’ottima conoscenza delle arti
della navigazione, nella costruzione delle navi e, soprattutto, la possibilità di preesistenti agganci
commerciali negli scali d’oltremare, tutti questi elementi favorirono il mercantilismo. Lo stesso Zheng He
aveva attinto alle conoscenze dei navigatori delle regioni del Fujian, molti dei quali chiamati per la
costruzione di navi e per le spedizioni. L’indipendenza dal potere centrale fu favorita poi, soprattutto
dopo il trasferimento della capitale da Nanchino a Pechino nel 1421, dalla grande distanza che separava
la regione dalla capitale, rendendo così molto più complicato controllarla.

IL CASO ANOMALO DELLE LIUQIU (RYUKYU)


Fin dall’inizio le Liuqiu ebbero un rapporto privilegiato con la Cina rispetto a tutti gli altri Paese tributari,
questo è soprattutto dovuto al fatto che dal 1385 al 1435, durante la politica marittima di Hongwu – una
fase molto complicata per le marinerie -, il governo Ming aveva rifornito con regolarità le Liuqiu di navi al
fine di facilitare il pagamento del tributo. Dopo il 1435 questo rifornimento non fu più concesso, ma fu
spostato a Fujian, i cui navigatori però solcavano i mari delle Liuqiu, facendole così diventare a loro volta
importanti canali di commercio. E, in realtà, durante la dinastia Ming, lo han di Satsuma controllava i
commerci del Giappone con le Liuqiu, diventando così un importantissimo canale commerciale aperto con
la Cina. Ovviamente, soprattutto durante il periodo di attriti col Giappone, le autorità cinesi dovevano
rimanere all’oscuro di questi scambi commerciali, tanto che fu addirittura scritto un manuale che istruiva gli
abitanti delle Ryukyu su come eludere le domande cinesi in merito ai rapporti intrattenuti col Giappone, il
testo è attribuito a Sai On ed è intitolato Ryokōnin kokoroe. In realtà è abbastanza improbabile che le
autorità cinesi non fossero a conoscenza di questi scambi commerciali, infatti, probabilmente, la non
conoscenza era voluta dal governo stesso in quanto ciò comportava il mancato riconoscimento della
sovranità del Giappone delle Liuqiu in cambio di un tacito consenso di scambi in questi mari. Scambi
comunque utili alla Cina, soprattutto per rafforzare la sua posizione nella politica estera. Perciò i traffici
continuarono comunque ad essere attuati in clandestinità, soprattutto durante il governo Ming e le Fujian
rimasero le uniche parzialmente libere nei commerci d’oltremare. Intanto, con l’ingresso di Haicheng, le
comunità cinesi d’oltremare si moltiplicarono accanto a quelle giapponesi e il generale miglioramento
economico fu anche dovuto alle attività su Taiwan.

TAIWAN NELL’ORBITA DEGLI HAIKOU


Inizialmente, nonostante la breve distanza che la separa dalla costa cinese, Taiwan è divenuta parte della
Cina molto tardi, la Cina ha dimostrato per molto tempo di non accorgersi della sua esistenza – se non,
come attestano diversi fonti storiche, per prelevare forzatamente manodopera. Un temporaneo
interessamento delle autorità cinese si registrò solo agli inizi del XV secolo. Furono però i mercanti-pirati-
avventurieri del Fujian a comprendere e sfruttare la magica posizione di Taiwan per i traffici marittimi,
rendendola una base-rifugio da utilizzare per le loro attività illecite senza timore di controlli dalle autorità
cinesi. Pian piano divenne, inoltre, uno scalo ideale nelle rotte commerciali del Sud-est asiatico. Con il
graduale sviluppo dei commerci marittimi, si rafforzò anche la presenza degli haiwai huaren. Inoltre,
quando durante la metà del XVI secolo le coste cinesi furono colpite da continui assalti e saccheggi dalla
pirateria, Taiwan rappresentò un rifugio per i pirati in fuga: Taiwan entra nell’orbita della pirateria cinese
quando Lin Daoqian fu costretto, a seguito di scontri col comandante Yu Dayou, a rifugiarsi a Taiwan dove
fondò una base dalla quale sferrò l’attacco alle coste cinesi e rimase in attività fino al 1580.

IL COINVOLGIMENTO ECONOMICO DEL MINNAN E DEL MERIDIONE CINESE

Il Fujian disponeva si un’”organizzazione mercantilistica” fondata su conoscenze e tecniche avanzate, grandi


abilità di navigazione e lunga esperienza nella gestione di transizioni commerciali internazionali,
realizzavano, infatti, traffici in tutto il sud-est asiatico e fungendo da importanti mediatrici nei commerci
d’oltremare degli europei. Esse sostituirono, inoltre, a partire dal XVII secolo, anche mercanti e navigatori
giapponesi, frenati dal regime Tokugawa. Battevano anche incessantemente le rotte dell’Oceano Indiano,
diventando così veicolo di commerci e strumento di connessione indispensabile. In tale funzione di
mediazione risiede in parte la crescita economica dei Fujian, in particolare del Minnan, la parte
meridionale. A questo punto si formarono tre tipi di industrie:

• Industria di lavorazione materie prime come legname e metalli per la costruzione delle navi, ceramica e
porcellana, tessili, zucchero, ecc. Queste attività erano legate alla produzione del settore prima rio della
regione, dipendente quindi dall’agricoltura, dalle estrazioni minerarie, dal patrimonio boschivo.

• Industria che utilizzava materiali grezzi provenienti da altre regioni della Cina, per lo più seta e cotone.

• Lavorazione prodotti grezzi d’importazione quali spezie ed aromi, avorio e tartaruga, rame.

Tutti i prodotti venivano scambiati o esportati, ad esempio le monete di rame venivano esportate in
Giappone ed usate come moneta ufficiale. La domanda di prodotti sul mercato internazionale riguardava
per lo più sete e porcellane. Questa funzione di mediazione, anche di capitali, è la principale ragione di
crescita economica.

Tuttavia, il costo delle spedizioni era eccessivo e bisognava disporre di un capitale di notevole entità, ciò
consentiva solo a pochi privilegiati di lanciarsi in traffici commerciali internazionali. Al fine di conseguire la
disponibilità economica, alcuni mercanti impegnavano una somma cadauno per l’affitto di un mercantile e
di un certo quantitativo di merci. Altri prendevano in prestito il denaro che veniva poi restituito con i dovuti
interessi. A volte i piccoli commercianti si riunivano in gruppo e raccoglievano quote di partecipazione
promozionali alle possibilità di ognuno e poi suddivisi egualmente. Una grande partecipazione economica
era data anche dagli haiwai huaren, che mantenevano duri legami con il continente ed il momento
d’incontro delle marinerie e dei capitali cinesi con le marinerie ed i capitali stranieri non poteva che
avvenire negli scavi internazionali.

L’INVESTIMENTO DEI CAPITALI STRANIERI


Il Portogallo era stato l’unico, tra i paesi europei, ad essere «ammesso» dalle autorità cinesi sul proprio
territorio (a Macao, 1557): tuttavia, affinché potesse commerciare con il continente, doveva
necessariamente servirsi del tramite cinese. L’argento giapponese, ad esempio, giungeva in parte in Cina
attraverso una prima mediazione portoghese. La Spagna, dalla base nelle Filippine e attraverso una
presenza non ufficializzata in Giappone, immetteva sul mercato estremo-orientale l’oro ed i metalli preziosi
delle colonie nelle Americhe; ma l’ausilio di mercanti e navigatori cinesi era essenziale per raggiungere, sia
pure indirettamente, il continente. L’Olanda, con la sua Compagnia Olandese delle Indie Orientali, era la più
forte perché aveva una base a Batavia, Taiwan, Hirado, che costituivano un triangolo dei traffici marittimi.
Anche nel suo caso, l’intervento dei mercanti cinesi era essenziale. L’Inghilterra appariva la più
indipendente da questo punto di vista. Di fatto, tutti gli europei usufruivano di capitali e mercanzie che
erano già presenti sul mercato orientale e di cui si appropriavano. Essi cercavano in parte si sostituirsi alle
marinerie orientali trasportando l’argento giapponese in Cina e le sete cinesi in Giappone, con conseguenti
enormi profitti. Anche se le attività commerciali cinesi traevano grande stimolo dalla presenza europea, da
essa erano anche obbligati a difendersi. Dunque, vi è un continuo alternarsi di alleanze e rivalità. La
collaborazione cinese era comunque essenziale. Numerosi furono i cinesi assoldati dalla Compagnia
Olandese delle Indie Orientali in qualità d’interpreti, molti di loro infatti conoscevano il portoghese
imparato di solito a Macao e non raramente capitava che fungessero da mediatori.

I CAPITALI GIAPPONESI
Anche in Giappone le presenze cinesi aumentavano sempre di più, questo avvenne soprattutto in seguito
all’apertura ai commerci perseguita da Tokugawa Ieyasu. Tant’è che a Nagasaki nel 1603 Tokugawa Ieyasu
dava vita all’incarico ufficiale di Interprete cinese totsuji. Il flusso di commerci con la Cina era fondamentale
per il Giappone e gran parte di esso veniva filtrato dall’Ufficio degli Interpreti, che divenne un importante
punto di riferimento per le comunità cinesi disseminate dovunque lungo la costa, soprattutto nel Kyūshū.
Ed erano infatti i capitali giapponesi a costituire il grosso dei capitali estremo-orientali. Per i daimyō fu
ancora più semplice investire dopo le fallimentari spedizioni in Corea ad opera di Hideyoshi in Corea, la
prima nel 1592 e la seconda nel 1597/98, e anche grazie all’instabilità della politica interna. L’immissione di
capitali e merci giapponesi avveniva dunque, mediante traffici illeciti. Tuttavia, a seguito di una sempre più
rigida politica di centralizzazione – con l’avvento al potere di Hideyoshi e ulteriormente perseguita dal
regime Tokugawa -, l’attività mercantilistica individuale dei damyō veniva sempre di più frenata e
incanalata in una sorta di mercantilismo centralizzato, origine delle famose shuinsen, “le navi dal sigillo di
cinabro”, che solcavano i mari dell’Oceano Indiano su mandato ufficiale del bakufu Tokugawa. Il governo si
rese sempre più presente nelle attività dei daimyō, e questo non era affatto gradito. Dunque, ì non potendo
più partecipare direttamente ai traffici d’oltremare con spedizioni e marinerie proprie, iniziarono a
finanziare spedizioni e marinerie cinesi. Lo stesso bakufu iniziò ad investire sui mercanti cinesi, infatti molti
di loro ottennero il timbro. Rimane essenziale il ruolo del mercantilismo cinese nei traffici dell’estremo
oriente e del sud-est asiatico.
CAPITOLO III

AL SEGUITO DEGLI AVVENTURIERI DEI MARI

L’ARRIVO DEL PORTOGALLO NELLE « INDIE ORIENTALI »

L’arrivo delle prime navi portoghesi nelle acque estremo-orientali avviene durante il primo decennio del XVI
– dopo la conquista di Goa (1510) e di Malacca (1511) – iniziando a premere fin da subito lungo le coste
cinese per stabilire delle basi commerciali e di insediamenti al fine di attestare la presenza portoghese nelle
“Indie Orientali”. I portoghesi giungono poi, nel 1543 a Tanegashima, per ottenere poi la base di Nagasaki
(1571), e successivamente vi è l’insediamento portoghese a Macao, formalmente avvallato dai Ming nel
1557. Quest’ultimo viene quindi stabilito parallelamente all’attestazione portoghese nell’arcipelago, ed è
infatti ad esso connesso. Macao costituisce infatti un’eccezione della politica cinese del tempo, che
individuava nel sistema del Tributo l’unica ufficialità riconosciuta dalla Cina per effettuare scambi ufficiali
con l’estero.

All’arrivo del Portogallo, vi era un clima di tensione tra Cina e Giappone che vivevano l’ultima fase del
kangō bōeki, prima del definitivo interrompersi dei rapporti ufficiali avvenuto nel 1549 a seguito
dell’incidente di Ningpo del 1523. Tuttavia, quest’interruzione provocò soltanto un aumento dei traffici
illegali, anche perché le regioni costiere traevano il proprio sostentamento dai traffici marittimi e la politica
condotta dalle autorità Ming aggravò la realtà economica di queste regioni, il veto dei Ming valeva ben
poco dinanzi le esigenze della comunità. In realtà, la fine dei rapporti commerciali non fu dovuta soltanto
all’incidente del Ningpo, ma era anche una conseguenza del fatto che il riaprirsi del dialogo ufficiale tra Cina
e Giappone nel 1404 era stato forzato da Yoshimitsu al fine di aumentare il flusso di commerci tra i due
paesi. Poi il Giappone, con il disgregarsi del governo Ashikaga e il sopraggiungere del periodo Sengoku Jidai
il Giappone entrò in una fase di gravi disordini interni, che si tradusse poi nell’illecito approdo di ambascerie
ufficiali, o così presunte - i sigilli, infatti, venivano riprodotti illegalmente e continuavano a circolare sigilli di
vecchi shogun- l’incidente di Ningpo ne è un esempio. Il governo era consapevole di questi disordini, ma
non intervenne perché il commercio era la maggiore attività di sussistenza per gli abitanti costieri di
entrambi i paesi e quando la gente è affamata insorge. Quindi, questa relativa tolleranza era necessaria per
mantenere la pace. In questo periodo di disordini i mercanti portoghesi furono importanti perché
facilitavano, in via ufficiosa, i traffici tra Cina e Giappone. E non fu un caso che i portoghesi si insediano a
Macao nel 1557, proprio dopo la fine del kangō bōeki.

PIRATI CINESI E NAVIGATORI PORTOGHESI

L’interrompersi delle relazioni ufficiali tra Cina e Giappone coincise con una delle fasi più violente della
pirateria lungo i litorali cinesi, erano gli anni di Wang Zhi, noto anche come “re di Huizhou” o Ochoku. La
sua attività era strettamente collegata al Giappone e con i mercanti portoghesi, e costituì un serio
problema per le autorità cinesi. I traffici illeciti erano favoreggiati dalla mancanza di concrete direttive
ufficiali. I portoghesi, infatti, proprio grazie all’assenza dell’intervento del governo, riuscirono a
intraprendere traffici e commerci illeciti lungo i litorali. Riuscirono, inoltre, anche a giungere a Macao -
grazie all’aiuto degli ufficiali locali - e lo stesso vale per le zone costiere del Giappone, dove erano aiutati dai
daimyō. Ovviamente, il Portogallo necessitava dell’appoggio delle piraterie per l’obiettivo di conquista. I
portoghesi, una volta insediatisi a Goa e Malacca cercano di muoversi verso il continente cinese, ed è
proprio in questo frangente che ebbero i primi contatti con i mercanti-pirati cinesi e fu proprio grazie alle
loro indicazioni e intermediazioni che i portoghesi vennero gradualmente a conoscenza delle rotte e degli
scali estremo-orientali. Nel 1522, nella base di Malacca, i portoghesi entrarono in affari con i fratelli Xu –
segnalati dalle autorità Ming ai vertici di una banda di notevoli dimensioni, e quindi considerati fuorilegge -.
E pare fu proprio sotto suggerimento degli Xu che i portoghesi si lanciarono all’attacco delle coste del
Guangdong nel 1523. Questi erano gli anni dell’era Jiajing (1522-1566) considerata tra le più violente per
dimensioni e turbolenza dell’attività di pirateria. Lo storico Ts’ao Yung-ho individua nell’arrivo dei
portoghesi nell’Estremo Oriente una delle cause primarie del violento acuirsi del fenomeno della pirateria
in questi anni. Durante questa prima fase di avvicinamento ai litorali cinesi - ostacolato dal veto dei Ming al
libero commercio -, la strategia del Portogallo fa spesso uso di alleanze e connivenze con la pirateria cinese
ed estremo-orientale: in più di un’occasione i navigli portoghesi affiancano le imbarcazioni pirata nelle
incursioni sui litorali cinesi. Per il Portogallo era essenziale ottenere un riconoscimento formale dei Ming e
per farlo, punta sul commercio delle armi da fuoco, necessarie per il governo cinese per rifornire le proprie
milizie. Comincia così l’atteggiamento di collaborazione.

SUL FILO DELLA CLANDESTINITÀ: IL DIFFICILE DIALOGO CON LA CINA MING


All’inizio degli anni ‘40 del XVI secolo, i portoghesi godevano ancora della collaborazione e complicità della
pirateria. La base di Shuangyu, territorio di dominio dei fratelli Xu e di Wang Zhi era un naturale rifugio per i
mercanti portoghesi, era, inoltre, il luogo ideale per svolgere traffici e trattative di commercio. L’approdo a
Tanegashima 1543 in compagnia di Wang Zhi fu ancora una volta il risultato di una collaborazione. Negli
anni successivi all’approdo in Giappone, il clima politico nel continente cinese mutò drasticamente. Le
autorità di Pechino mossero anche militarmente. Nell’estate del 1547 Zhu Wang fu nominato governatore
di Guangdong, Fujian e Zhejiang. Nello stesso anno il governo preparò l’offensiva alla pirateria cinese e fu
allora che Wang Zhi, a seguito della sconfitta dei fratelli Xu, nel 1548, si rifugiò in Giappone. Ovviamente,
questa virata politica della Cina determinò un cambiamento anche nei giochi di alleanze e convivenze. In
questo clima così teso il Portogallo dovette cambiare strategia: era necessario che dimostrasse ai Ming la
propria estraneità alle attività della pirateria e dimostrare la propria fedeltà ai Ming. Tuttavia, una volta
voltate le spalle alla pirateria non avrebbero più alcun appoggio sulle coste del continente. Perciò, mentre
affrontavano al lato dei Ming la flotta del pirata Lin Jian – nel 1547 -, che dal 1550 in poi condivisero con
Wang i commerci ad Hirado, pensarono bene prima di inimicarsi Wang Zhi. Anche il Giappone si interessò al
continente cinese: i daimyō assolutamente non desideravano che la questione delle coste venisse risolta
dalla politica di debellamento della pirateria. Al contrario, miravano ad un allentamento della politica
marittima di apertura ai commerci d’oltremare e per questo erano a favore di Wang Zhi. Tuttavia, Wang Zhi
in questi anni si rivolge alle autorità cinesi chiedendo il condono in cambio della resa: propone al governo
Ming di riconoscere le attività “piratesche” ed i traffici fino ad allora considerati di contrabbando, quali
lecite attività commerciali, da espletare con il consenso delle autorità cinesi. Con il tentativo di
“liberalizzare” i commerci d’oltremare della Cina, Wang Zhi si impegna in prima persona a debellare la
pirateria. Ciò ovviamente sarebbe andato di suo interesse perché in questo modo avrebbe gestito, con
l’avvallo dei Ming, le attività mercantili cinesi con l’oltremare. Anche per i portoghesi, il riconoscimento
formale delle attività piratesche avrebbe significato il moltiplicarsi di commercio. Il Giappone, tuttavia,
riteneva importante avere Wang Zhi come partner ufficiale, in tal modo i traffici sarebbero stati liberati dal
peso del kangō bōeki, che comunque nel 1549 ebbe fine. Anche per i portoghesi tale condono e il
riconoscimento delle attività di Wang Zhi erano importanti. Tutti apparivano accomunati dallo stesso
intento. Ma il suicidio di Zhu Wan nel 1550 cambia il clima politico.
L’ATTESTAZIONE: HIRADO, MACAO, NAGASAKI
Il generale Zhu Wan nel corso del suo incarico aveva denunciato, nei suoi memoriali, le autorità locali ed il
profondo coinvolgimento dei ricchi mercanti, dei commercianti, delle famiglie influenti: chiunque fosse
stato beneficiario del commercio d’oltremare era implicitamente sostenitore del fenomeno della pirateria.
Ma la sua veritiera analisi provocò un profondo rancore e ostilità nei suoi confronti, venne infatti accusato
di abuso e i conflitti che si creano furono alcune delle motivazioni che lo portano poi al suicidio nel 1550.
Tuttavia, pur colpendo con efficacia la pirateria, aveva compreso a pieno l’importanza economica che il
fenomeno rivestiva per la sopravvivenza ed il benessere delle coste e per primo aveva proposta una
parziale liberalizzazione dei commerci marittimi. Fu in questo contesto storico il governo cinese accettò di
trattare la resa di Wang Zhi. Quest’ultimo si impegnò anche per liberare le coste cinesi dalla pirateria e
proseguì nell’eliminazione di gruppi e bande di pirati che non appartenevano alle sue schiere. Durante gli
anni ’50 del secolo i portoghesi approdano per la prima volta ad Hirado, e l’accoglienza di Matsūra
Takenobu fu favorevole: Hirado da sempre svolgeva un ruolo chiave nei traffici mercantili internazionali tra
Cina e Giappone, e, dato che basavano le loro entrate sui commerci e che Wang Zhi aveva una base lì
almeno dal 1542, era un’ulteriore garanzia per i portoghesi. Pare allora che i portoghesi avessero atteso ad
approdare ad Hirado fino al giusto momento, e lo fecero quando Wang Zhi sembrava avere un maggiore
consenso dai Ming. Ma il 1553 segnò un’ulteriore svolta nella politica marittima del governo: Wang Zhi fu
nuovamente considerato un fuorilegge, essendogli stato negato il condono promesso, si scagliò con ferocia
sui litorali cinesi, questa volta anche affiancato da sostenitori giapponesi che parteciparono alle incursioni.
Allora i portoghesi, vedendo posta in pericolo la sua posizione lungo le cose del continente, tra il 1553 e il
1554 si stabiliscono abusivamente a Macao. Parallelamente, nello stesso anno, vedendo le basi ad Hirado in
pericolo, decide di accostare il governo cinese contro il pirata He Yiba, approfittando così del conflitto per
offrire ai Ming le armi da fuoco in modo da avere un’ulteriore possibilità di sconfiggere Wang Zhi, e per
riuscire infine ad avere il riconoscimento formale della sua presenza a Macao, avvenuta poi nel 1557.
Intanto in Giappone il Portogallo cominciava ad estendere la sua presenza nei territori del Kyūshū, sia
attraverso i missionari, tra cui ricordiamo Francesco Saverio a Kagoshima nel 1549, che con i mercanti.
Tuttavia, anche un rapporto troppo stretto con i Matsūra – ora che Wang Zhi era nuovamente nel mirino
dei Ming – poteva non giovargli, e per questo motivo i portoghesi provarono a stabili contatti con gli
Omura, rivali dei Matsūra. Tuttavia, nonostante i portoghesi da un lato volessero allontanarsi da Wang Zhi
per il suo rapporto con conflittuale con i Ming, i giapponesi invece non volevano perdere il loro partner di
commercio con la Cina, tanto da appoggiare Wang Zhi sempre nell’intento di avere una maggiore libertà nel
commercio marittimo. Nel 1555 i Ming riaprono le trattative con Wang Zhi e nel 1557 Wang accetta la resa
consegnandosi alle autorità cinesi. Tuttavia, due anni dopo, nel 1559, a causa di un nuovo mutamento
politico cinese, il governo Ming decreta l’esecuzione e Wang Zhi viene condannato a morte.

Ed è interessante notare come nello stesso anno della sua resa, i portoghesi ottengono Macao, i due eventi
appaiono così in stretta relazione, e il risultato, infatti, fu che: i Ming si assicurano un canale stabile con
Giappone, con la neutrale mediazione dei portoghesi, un flusso di commerci indispensabile per l’economia
delle regioni costiere di entrambi i paesi, senza però venir meno alle decisioni prese in ambito di politica
estere. Inoltre, la base di Macao, seppur concessa ai Portoghesi, rimane sotto stretta sorveglianza delle
autorità cinesi. Anche per i giapponesi la presenza portoghese era positiva: rappresentava un interlocutore
stabile nel continente sul quale fare affidamento per traffici e transazioni.

Tuttavia, con la morte di Wang Zhi i Matsūra persero un importante partner commerciale e, dopo pochi
anni, anche il Portogallo li abbandonò, e dopo pochi anni anche il Portogallo li abbandonerà, perché con
l’assegnazione delle località di Mogi e Yokoseura nel 1562 optò definitivamente per il territorio del daimyō
Omura, l’obiettivo del portogallo era, infatti, quello di estendersi il più possibile nelle regioni di Kyushu. Per
il Giappone la presenza portoghese era allettante e nel 1571 Nagasaki fu aperta al Portogallo. Per la
connessione con Macao, Nagasaki costituì un importante tramite dei commerci tra Cina e Giappone.
L’apertura di Nagasaki avvenne poco tempo dopo l’apertura di Haicheng ai traffici d’oltremare, anche se la
Cina non rimosse il veto sul Giappone.
CAPITOLO IV

IL MERCANTILISMO GIAPPONESE

IL RUOLO CHIAVE DEL KYUSHU

Il periodo tra la seconda metà del XVI secolo e la prima metà del XVII secolo fu complesso per il Giappone:
nel 1573 si assistette alla destituzione dell’ultimo shogun Ashikaga, Yoshiaki, ponendo così fine allo
shogunato Ashikaga e facendo iniziare il periodo soprannominato Azuchi-Momoyama che portò poi alla
riunificazione del Giappone, con Oda Nobunaga prima, e poi dal 1582 con Toyotomi Hideyoshi, arrivando,
infine, al 1603 con la fine del periodo degli stati combattenti, il Sengoku Jidai, e alla successiva unificazione
con Tokugawa Ieyasu. Parallelamente alle difficoltà politiche, questo periodo inaugurò anche l’incontro con
l’Europa seguito poi da una politica difensiva, Sakoku. Tutti questi eventi si ripercossero sull’isola del
Kyūshū e sull’intera attività mercantile dell’arcipelago. Il Kyūshū per la favorevole posizione geografica
ospitava da tempo remoto le presenze cinesi e aveva svolto una costante funzione di ponte di
collegamento tra Cina e Giappone, fungendo sia come rifugio per i pirati giapponesi e cinesi, sia anche per
l’immissione di capitali giapponesi nei commerci d’oltremare con l’aiuto dei daimyō. Dopo il trattato
ufficiale del kanghe maoyi - che non risolse il problema dei wokō lungo le coste cinesi, né soddisfò le
esigenze commerciali dell’arcipelago - i due paesi, e le rispettive marinerie, vissero un periodo di
trasformazione. Il Kyūshū fu protagonista diretto di queste trasformazioni: è infatti proprio nei primi
decenni del XVII secolo che l’isola divenne centrale nel processo dell’espansione europea e divenne,
soprattutto, la primaria postazione internazionale per i traffici marittimi estremo-orientali, ospitando
accanto alle comunità cinesi anche le componenti europee. Dopo l’arrivo di portoghesi e degli spagnoli nel
XVI secolo, vi è anche l’approdo di Olanda e Inghilterra agli albori del XVII secolo - con lo scopo preciso di
contrastare l’espansione iberica – formando così numerosi insediamenti europei. Ovviamente, la scelta di
una politica difensiva si riscosse in tutte le sue fasi sul Kyūshū, fino al conclusivo trasferimento della
Compagnia Riunita Olandese da Hirado a Deshima nel 1641, per poi essere trasferita a Nagasaki – con la sua
imponente comunità cinese, “formalizzata” con il Tojin Yashiki nel 1689 -.

HIRADO
I Matsuura, daimyō di Hirado, emersero dal Sengoku Jidai piuttosto rafforzati, avendo anche stabilito un
fermo controllo sulle famiglie a loro sottoposte, nel 1563, infatti, anche gli Hata, daimyō dei territori
dell’isola di Iki, vennero sconfitti e posti sotto la loro influenza. Tuttavia, il rapporto con gli altri damyō, in
particolare gli Ōmura, rimase complicato, soprattutto a causa della rivalità riguardo i traffici marittimi, che
peggiorarono con l’arrivo dei portoghesi, di cui entrambi ambivano ad essere l’interlocutore primario. I
portoghesi iniziano le relazioni col Giappone dal 1543, con l’arrivo a Tanegashima, per poi stabilirsi a Hirado
nel 1550. La politica di apertura ai traffici dei Matsuura, e in particolare di Matsuura Takanobu, aveva
favorito l’insediarsi del gruppo di Wang Zhi, nei primi anni ’40 – va specificato che Wang Zhi non aveva
soltanto rapporti con i Matsuura, ma anche con gli Otomo e gli Ouchi. Sebbene non sia certo, potrebbe
essere stato proprio Wang Zhi ad aver favorito l’insediarsi dei Portoghesi in Giappone, sarebbe stato loro
interprete nel 1543 all’arrivo a Tanegashima. Tuttavia, ciò non è sufficientemente documentato, infatti le
uniche “prove” a riguardo sono date dal testo di Fernando Mendes Pinto che cita diverse volte la
collaborazione con un potente avventuriero-pirata cinese. L’arrivo della prima nave portoghese ad Hirado,
nel 1550, fu accolto con grande entusiasmo dai Matsuura, i quali comprendono quanto questo possa essere
proficuo per i loro affari. Il daimyō, infatti, concesse subito ai missionari la libertà di professare e diffondere
il credo cristiano, agevolandone l’operato con la concessione di un tempio da adibire a chiesa. Ma le
aspettative di Takanobu andarono ben presto deluse, il tutto fu costellato da incidenti e spiacevoli episodi.
L’arrivo dei cristiani portoghesi, infatti, non aveva suscitato piacere tra gli ambienti buddhisti, tanto che nel
1560 si arrivò addirittura ad un conflitto armato. Takanobu, pressato dalle autorità buddhiste, fu costretto
ad ordinare l’allontanamento dei portoghesi. L’anno seguente, tuttavia, si affacciano nuovamente nelle
coste di Hirado, proponendo di riallacciare i rapporti, a condizione che fosse ricostruita la chiesa loro
assegnata. Takanobu accettò, non sapendo che la proposta fu in realtà parte di una strategia di
temporeggiamento. Infatti, nel 1562 gli Ōmura donarono la baia di Yokose ai portoghesi, dando anche inizio
alla costruzione di un porto e una chiesa.

Anche se non è certo, si suppone che l’incendio della chieda a Yokose fu per mano dei Matsuura. Nel 1563 i
portoghesi tornarono ad Hirado, ma ancora una volta per un periodo temporaneo. Infatti, nello stesso anno
i portoghesi decisero di schierarsi con Ōmura Sumitada, che aveva appena ricevuto il battesimo stringendo
così rapporti più forti con i portoghesi. E, sebbene Takanobu offrì cinque chiese ai missionari, tra il 1564 e il
1565 i portoghesi si insediarono a Fukuda, dominio di Sumitada, optando così definitivamente per gli
Ōmura. Per il Portogallo fu una scelta di successo: nel 1571, sempre per volere dei Sumitada, anche
Nagasaki venne aperta al commercio portoghese, e cinese. Nel 1582 partì la nota ambasceria inviata da
Papa Gregorio XIII, composta da Ōmura Sumitada, denominato “il daimyō cristiano”, Arima Harunobu e
Otomo Sorin.

Dopo il definitivo ritiro del Portogallo, Hirado sembrava aver perso terreno come porto principale del
Kyūshū, anche a causa dell’esecuzione di Wang Zhi nel 1559. Essendo venuto meno un principale
interlocutore per i trattati con i portoghesi, Takanobu si affida al numero di gruppi cinesi che continuano a
fungere da tramite per i commerci con Hirado, soprattutto dopo l’apertura di Haicheng, nel 1567,
nonostante fosse ancora in vigore il veto dei Ming.

NAGASAKI
L’ingresso ufficiale di Nagasaki fu una conseguenza dell’espandersi dell’influenza del Portogallo nei traffici
in Estremo Oriente, che si attuò in duplice forma: con la diffusione della religione cristiana, attraverso i
missionari, e con l’inserimento economico-marittimo nei traffici orientali attraverso un mercantilismo di
conquista. Le richieste dei portoghesi per l’apertura del Giappone, dovute anche all’urgenza di ottenere
una base stabile sui litorali dell’arcipelago attraverso cui incanalare il flusso di commerci e propagare la
fede cristiana, divennero sempre più pesanti. Sicuramente di grande importanza e centrale fu anche la
conversione di Ōmura Sumitada, che si fece portavoce delle istanze portoghesi e così Nagasaki venne
aperta ad essi nel 1571. Due navi, una portoghese e una cinese, sancirono formalmente l’ingresso di
Nagasaki nella storia dell’Estremo Oriente. L’accesso a Nagasaki fu consentito anche ai cinesi
probabilmente per la politica accentratrice di Hideyoshi, che diede ordine daimyō del Kyūshū di convogliare
il flusso migratorio della Cina meridionale nella città di Nagasaki, facendo prendere così forma al Tojin
Yashiki – che prese questo nome soltanto a partire dal 1689 -, divenuto poi nel corso del XVII indispensabile
punto di aggancio, per il Giappone, al mercantilismo internazionale.

Pur desiderando di poter controllare il dilagare della presenza cinese, Hideyoshi non riuscì a contenere
un’affluenza così vasta e variegata - mercantili autorizzati, imbarcazioni clandestine o private, presenze
cinesi su navi europee ecc.-. Il proficuo sviluppo economico di Nagasaki interessò molto le autorità
giapponesi, così che Hideyoshi, nel 1588, confiscò i territori dei portoghesi donati da Sumitada e li
trasformò in kōryō «dominio» o in chokkatsuchi «area di diretto controllo», sotto il controllo dunque
dell’amministrazione centrale. Con i Tokugawa poi Nagasaki sarebbe divenuta territorio shogunale
appartenente al tenryō, e cioè al “dominio celeste”, della casata. Nagasaki, nel 1571 – quindi all’apertura
della città al commercio internazionale - fu così soggetta a una riorganizzazione amministrativa: venne
divisa in sei sezioni dette uchimachi «quartieri interni», ad essa fu assegnato un magistrato supervisore
bugyō, a cui si doveva il mantenimento dell’ordine pubblico e il controllo della città, assegnato a Ōmura
Sumitada.

Quando Nagasaki divenne chokkatsuchi, nel 1588, fu nuovamente modificata l’amministrazione: ai sei
quartieri se ne aggiunsero 17 o 18, le fonti discordano sul numero, per lo svilupparsi della città, chiamati
“quartieri esterni”, sotomachi. La figura del bugyō venne mantenuta, ma il ruolo passò a Terazawa
Shimamori. La sede degli uffici del bugyō venne posta a Motohakatamachi. Fu, inoltre, creata un’altra
carica, quella dei daikan, un altro magistrato, il cui ruolo spettò a Murayama Toan. Di fatto però l’anello di
congiunzione tra le autorità centrali e quelle di Nagasaki, fu la carica del machidoshiyori, magistrato della
città, al quale spettava il controllo di tutti i mercantili in transito. Il machidoshiyori veniva sempre scelto tra
le famiglie più fiduciose: i Takagi, i Machida, i Takashima, i Goto. Al machidoshiyori si affiancarono col
tempo due nenkoshi, con simili cariche. Nel 1699 le due cariche vennero abolite e fuse nella carica del
sōchō, una sorta di funzionario generale.

L’INTERVENTO DI TOYOTOMI HIDEYOSHI


Questi anni videro anche l’approdo della Spagna in Estremo Oriente che nel 1571 fondò Manila. Intanto in
Giappone. Il processo di riunificazione del Giappone avviato da Oda Nobunaga godeva della forza militare
emergente di Toyotomi Hideyoshi e cominciava ad affermarsi anche Tokugawa Ieyasu: le campagne militari
si susseguivano e il potere dei daimyō andava sempre più riducendosi man mano che venivano vinti. Il
Kyūshū era scosso da combattimenti e conflitti. Gli Shimazu di Satsuma, che puntano ad espandersi,
impugnarono le armi ed uscirono vittoriosi negli scontri interni – contro gli Ito, nel 1573 -, respingendo il
tentativo di invasione del loro territorio da parte degli Ōtomo nel 1578 e successivamente vinsero i Ryūzōji,
nel 1583. Di fatto si lanciarono alla volta del Kyūshū, e nel 1586, in risposta alla richiesta di intervento degli
Otomo, Hideyoshi intimò il ritiro delle truppe degli Shimazu dai territori occupati, e al loro rifiuto attaccò
Satsuma, sotto Hideyoshi vi era anche il figlio di Takanobu, Matsuura Shigenobu, diventato daimyō di
Hirado. Le scelte politiche dei Matsuura furono d’obbligo. Il Kyūshū aveva attratto l’attenzione di Hideyoshi
soprattutto per la sua posizione così favorevole per l’attacco alla Corea, e non sottovalutò neanche la sua
influenza nei traffici marittimi. Inoltre, Hideyoshi provvide ad una diversa suddivisione dei territori
confiscati dagli scontri con gli Shimazu, intesi anche a limitare il cristianesimo con l’emissione del primo
bando anticristianesimo nel 1587 e l’anno successivo toglie Nagasaki ai portoghesi.

Per i daimyō, in modo da riuscire a preservare il loro dominio, era necessario appoggiare
incondizionatamente Hideyoshi. Quest’ultimo, durante l’occupazione in Corea nel 1592, chiese alla corte
dei Ming la riattivazione del kangō bōeki. Nello stesso anno, navi giapponesi salpano per varie mete del
sud-est asiatico - come il Vietnam, Cambogia, Tailandia, Taiwan, Macao, Hideyoshi voleva, inoltre,
conquistare anche le Filippine - con a bordo mercanti formalmente autorizzati poiché in possesso delle
formali licenze, chiamate sankasho shonin. Hideyoshi intervenne anche sulla pirateria, irrigidendo i controlli
sulle imbarcazioni dei privati e sostituendosi in ciò all’autorità fino ad allora esercitata dai daimyō. Il tutto
per raggiungere il fine ultimo della centralizzazione delle attività mercantili del Giappone. E forse anche
l’incidente del galeone spagnolo San Felipe (1596 il naufragio, 1597 la condanna), conclusosi con la
crocifissione di 26 martiri cristiani, va letto come un preciso monito nei confronti degli europei, non solo in
merito a questioni religiose, ma anche come tacita imposizione a spostare sul piano nazionale i rapporti
commerciali condotti sino ad allora tramite trattative private con i singoli daimyō. In questi anni di guerra,
l’attenzione dei daimyō era rivolta per lo più agli affari interni, i traffici perciò erano rallentati, e questo fu
dovuto anche per clima di tensione con la Cina per la questione coreana. Tuttavia, la presenza cinese in
Giappone aveva continuato ad avere un significativo ruolo di mediazione, rivelandosi anche strategica per
Hideyoshi: le autorità giapponesi volsero l’attenzione sul mercantilismo cinese che assicurava un notevole
flusso di commerci in Giappone, al fine di collocare anch’esso sotto alle direttive del governo centrale.

OLANDESI E INGLESI A HIRADO


Nonostante le circostanze non fossero più propizie, Hirado aveva continuato a perseguire la sua funzione di
scalo internazionale nei traffici estremo-orientali. Nel 1580 approdano gli inglesi e nel 1597 approda un
vascello olandese. Ciò comporterà notevoli trasformazioni, inizialmente questi nuovi popoli europei si
inseriranno nei traffici marittimi estremo-orientali soprattutto per limitare il potere iberico.

Questi anni sono complessi per il governo giapponese che vide nel 1598 la morte di Hideyoshi e il
conseguente inizio del bakufu Tokugawa, con Tokugawa Ieyasu. Quest’ultimo diede il permesso all’inglese
William Adams, arrivato a bordo della De Liefde, di stabilire ad Hirado gli uffici della Compagnia Riunita
delle Indie Orientali (VOC) nel 1609 e della Compagnia Inglese (EIC) nel 1613. La scelta degli olandesi di
avventurarsi in oriente fu una conseguenza di un contratto tra tedeschi, spagnoli e italiani che tagliava fuori
gli olandesi dal commercio, stipulato a fine 1500. Così gli olandesi si videro costretti a trovare una propria
strada in oriente per rifornirsi di merci con cui inondare il mercato europeo. Fu così che nacque la VOC
(Compagnia delle Indie Orientali) nel 1602. La De Liefde era arrivata in Giappone già nel 1600, e ai
portoghesi era stato chiesto di fare da interpreti con le autorità giapponesi. Negli anni in cui Adams rimase
a Edo molti furono i tentativi dei portoghesi di mettere in cattiva luce gli olandesi. Ovviamente lo shogun
non era facile da manovrare e soprattutto non aveva alcun interesse nel prendere posizione in favore di
una delle due parti. Al contrario, vuole favorire all’estero l’immagine di un Giappone unito e pacificato, che
si lascia alle spalle le mire aggressive ed espansionistiche di Hideyoshi. Fu così che iniziano i vari incontri tra
shogun e olandesi, partendo dall’incontro a Ōsaka. Anche perché, quest’incontro vi fu a maggio del 1600,
quindi si stava per avvicinare la battaglia di Sekigahara, e la collaborazione degli olandesi fu essenziale per
la vittoria. Hirado era una scelta intelligente, sia perché i portoghesi rinunciarono di loro spontanea
volontà, sia per le peculiarità geografiche che ne favorivano un controllo da parte del governo centrale
attraverso la presenza del daimyō Matsuura. Dare l’avvallo shogunale ai Matsuura era una scelta
intelligente: mascherava la ferrea struttura in una apparente condiscendenza. I Matsuura erano una
famiglia importante per l’attività commerciale e Ieyasu intendeva promuovere e sviluppare le potenzialità
del Giappone, perciò, diede loro l’autorità sui traffici. In questo modo, incanalava gradualmente i commerci
sotto il controllo delle autorità centrali. Il commercio era linfa per l’economia del Giappone, con la presenza
di Olandesi ed Inglesi, moltiplicava la mediazione dei traffici e avrebbe così potuto giocare suo favore sulla
competitività dei prezzi. Tuttavia, nel 1616 circoscrisse ai soli porti di Hirado e Nagasaki l’ingresso del
mercantilismo internazionale, una scelta non a caso in quanto da secoli Hirado garantiva una costante
mediazione con i cinesi.
L’INTERMEDIAZIONE CINESE
Anche la Cina vedeva l’approssimarsi di un decisivo mutamento, in quanto già sul finire del XVI secolo i
gruppi mancesi seguivano la via dell’unificazione che alla metà del XVII secolo avrebbe determinato il crollo
della dinastia Ming e la fondazione dell’impero mancese dei Qing. Il graduale indebolirsi della Cina dei Ming
aveva favorito l’iniziativa privata dei mercanti cinesi delle coste meridionali, soprattutto all’indomani
dell’apertura di Haicheng, avvenuta nel 1567, che moltiplicò le attività mercantili nell’aera dell’Estremo
Oriente e del Sud Est Asiatico fino a giungere alle coste dell’india.

Con la morte di Hideyoshi e il ritiro delle truppe dalla Corea, i mercanti-pirati cinesi ripresero la rotta per il
Giappone ed i disordini politica in Cina non fecero che aumentare il flusso di emigrazioni. Ieyasu, che seguì
la politica di accoglienza di Hideyoshi, favorì il flusso dei mercanti cinesi verso l’arcipelago con una politica
di calda accoglienza: infatti anche Ieyasu puntava a ristabilire il kangō bōeki, inviando invano delle missive
al sovrintendente del Fujian. Sempre nell’ottica di porre tutto sotto il suo controllo i commerci delle
marinerie cinesi, nel 1603 Ieyasu designava Fang Liu totsūji «interprete cinese», precursore del più tardo
Ufficio degli Interpreti Cinesi di Nagasaki.

Dunque, all’arrivo di Olandesi e Inglesi la comunità cinese di Hirado era in fervente attività, stava vivendo
degli anni di benessere economico, i cosiddetti anni d’oro. In questi anni fu importante il ruolo del pirata-
avventuriero-mercante Li Dan, conosciuto in Europa come Andrea Dittis, o ancora come “Captain China”. Il
suo ruolo fu centrale, infatti ad Hirado i traffici mercantili passavano attraverso la sua mediazione e come
ospite dei Matsuura, gli veniva chiesto di partecipare agli incontri ufficiali con i delegati europei. Una simile
personalità non poteva rimanere ignorata dalle autorità del bakufu. Così che gli venivano più volte
assegnate le licenze shogunali delle goshuinsen. Anche le autorità cinesi giungono ad usufruire della
mediazione di Li Dan nel trasferimento della base olandese dalle Penghu (Pescadores, 1622-3) a Taiwan nel
1624.

Man mano che il suo potere cresceva, il suo gruppo assorbiva numerosi altri gruppi fino a diventare
un’unica organizzazione al comando di Zheng Zhilong, braccio destro di Li Dan, si assistette perciò ad una
fase di transizione che porterà ad una sorta di centralizzazione dei gruppi di pirati-avventurieri-mercanti
sotto un’unica organizzazione. Ed in questo processo fu centrale il ruolo dei giapponesi nell’investire i
capitali e anche il rapporto con gli europei. Tuttavia, gli inglesi non ebbero rapporti positivi con Li Dan a
differenza degli olandesi, in quanto Li Dan non diede mai un credito che doveva alla compagnia inglese per i
traffici di Hirado. Il mercato cinese si faceva sempre più forte, mentre quello giapponese si ripiegava su sé
stesso anche come conseguenza della centralizzazione. Perciò il mercantilismo cinese cominciò ad acquisire
una pericolosa influenza sul mercato estero ed intento del Giappone e sulla sua economia.
CAPITOLO V

GLI HAIWAI HUAREN IN GIAPPONE

I TŌJIN

L’intera storia delle relazioni commerciali tra la Cina ed il Giappone è stata contraddistinta da un continuo
alternarsi e fondersi di commerci leciti, contrabbando, pirateria. Tutti questi fenomeni sono stati spesso
considerati nettamente diversi, infatti solitamente si usa considerare il kangō bōeki ed i wakou del periodo
Ming come due fenomeni separati e contrastanti, ma in verità gli stessi mercanti che commercializzavano
con i sigilli, quando le entrate non erano sufficienti, non ci pensavano due volte a passare alla pirateria, per
poi ritornare dalla parte delle autorità e gli stessi daimyō sappiamo erano i finanziatori o co-finanziatori dei
pirati. I mercanti, quando le transizioni autorizzate non erano sufficienti, non esitavano a prendere le vesti
di predoni del mare; gli stessi daimyō si rivelavano essere i mandanti più o meno diretti, o comunque i
finanziatori o co finanziatori di scorribande e razzie sulle coste cinesi e coreane.

Con l’approssimarsi del seicento, nei testi e nelle fonti inizia a non comparire più il termine di wakou ad
indicare i pirati, ma si inizia a trovare l’espressione di mitsubōeki shūdan «gruppi di contrabbandieri»,
come lo stesso nome sottolinea il fulcro delle attività era ormai diventato il contrabbando, dunque le
scorribande sulle coste meridionali del continente erano state gradualmente sostituite da una sorta di
traffico illecito permanente e ufficialmente contrastato dalla politica di limitazione ai commerci dei Ming,
ma di fatto coadiuvato e dalle autorità locali e dalla gentry. Ma in questi testi, soprattutto in quelli
giapponesi del XVI, si continua ad utilizzare anche il termine kaizoku «predoni del mare», a dimostrazione
che gli attacchi non erano affatto scomparsi e, addirittura, non era raro che vi partecipassero anche gli
europei. Anche in questo caso non c’è però una nitida linea di demarcazione tra mitsubōeki shūdan e
kaizoku – i due elementi sono, infatti, spesso fusi.

In questo clima, gli haiwai huaren o tōjin, come venivano chiamati dai giapponesi i cinesi in Giappone,
erano chiamati come mediatori dei traffici internazionali in Giappone, attraverso mandati recanti il sigillo
shogunale dei Tokugawa, chiamato shuino. Talvolta questo sigillo shogunale venne conferito anche agli
europei, e un esempio ne è William Adams che ne fu più volte depositario. In tal modo, si delega in via
ufficiale al mercantilismo cinese il compito ed il potere di agire e commerciare nei mari orientali nel nome
delle autorità giapponesi: si iniziava a stabilire il predominio in ambito economico delle attività marittime
dei cinesi per esprimersi poi appieno con Zheng Zhilong a partire dagli anni 30’ e 40’.

IL TŌTSUJI KAISHO
Durante la politica accentratrice di Hideyoshi, Nagasaki aveva subito una profonda trasformazione
amministrativa, che aveva anche condotto al raggruppamento dei cinesi a Nagasaki, di cui si iniziò ad
usufruire nella preziosa funzione di interpretariato e di spionaggio. Con la repentina morte di Toyotomi
Hideyoshi nel 1598, Tokugawa Ieyasu, al momento del suo insediamento nel 1603, si ritrovò a dover dare
una precisa collocazione alle comunità dei cinesi residenti, divenute sempre più numerose in tutto il
territorio giapponese. La comunità cinese di Nagasaki, insieme a quella di Hirado, erano le comunità cinesi
più grandi e importanti. Nagasaki in particolare era il nodo cruciale dei traffici commerciali e si rivelano
essere anche una sorta di chiave di volta dell’intero sistema di delicati equilibri internazionali, e per Ieyasu
divenne indispensabile stabilire la propria autorità sui commerci espletati dai cinesi sull’arcipelago. A ciò
segue la fondazione dell’Ufficio degli interpreti cinesi totsūji kaisho, nonostante verrà fondato in epoca più
tarda e quindi è da intendersi come eredità del primo shogun, rappresentò la diretta espressione del potere
delegato dell’autorità giapponese negli ambiti della comunità cinese di Nagasaki. Questo ufficio, quindi,
svolse funzione di mediazione tra il bakufu Tokugawa – nei suoi rappresentati locali, i machidoshiyori, che
sovrintendono al commercio, e la comunità di cinesi residenti.

Il precursore di quest’ufficio fu Fang Liu, in giapponese Hyō Roku, formalmente designato nel 1603, e
nacque dall’esigenza di una mediazione linguistica: i totsuji si ritrovarono a dover compiere compiti di
diversa natura, la cui attuazione si manifestò nel mantenimento della pace e dell’ordine nell’ambito della
comunità cinese e, per estensione, nel contesto cittadino. Ovviamente, la scelta degli elementi facenti
parte dell’Ufficio non era per niente facile: bisognava innanzitutto aver ben presente la provenienza
geografica – la maggior parte dei cinesi residenti a Nagasaki viene da regioni costiere della Cina
meridionale, ed è quindi indispensabile, per il forte spirito di gruppo radicato da sempre nella storia e nelle
tradizioni cinesi, che il candidato abbia comuni natali. Inoltre, i totsuji dovevano necessariamente a famiglie
socialmente ed economicamente influenti - le dispute erano numerose, per appianarle c’era bisogno di una
figura che godesse di una certa stima, sia in ambito giapponese che in quello cinese. Ed era altresì
importante la conoscenza di entrambe le lingue, ma ciò non toglie che fosse richiesto loro di essere in
possesso di una cultura che spaziasse dalla storia alla filosofia, letteratura, classici. Non da meno la
necessità di una perfetta padronanza delle norme e dei regolamenti dell’ufficio, da interpretare e applicare
correttamente – rivestendo una funzione di tale rilievo, gli interpreti cinesi divengono interlocutore primo
delle autorità giapponesi, ma essendo calati in contesto internazionale entrano spesso in contatto anche
con gli europei: ed ecco che entrano in gioco anche le doti diplomatiche. Ai totsuji venne inoltre affidato il
controllo civile e penale della popolazione, nonché quello ideologico e religioso: spettava a loro una prima
censura dei testi cristiani. Tuttavia, il ruolo più grande che avevano fu sicuramente quello di stipulazione,
controllo e revisione delle transazioni commerciali. I mercantili in transito nel porto di Nagasaki erano sotto
la diretta responsabilità dei totsuji, e ad essi era richiesto di redigere accurati e dettagliati rapporti e
resoconti di mercanzie trasportate, equipaggio, passeggeri e, ancora, la valutazione di ogni singola merce,
lo stabilimento del prezzo e la garanzia che questo fosse rispettato.

L’INTENSIFICARSI DELLE PRESENZE CINESI


Per tutto il primo trentennio del secolo XVII, dunque, le coste occidentali del Giappone videro un continuo
e poderoso affluire di imbarcazioni cinesi, tōsen «navi Tang», chiamate anche con il nome di DaiMinsen
«navi dei grandi Ming», o ancora le shirofune «navi bianche» in contrapposizione alle kurofune «navi nere»
degli europei. Queste tōsen non provenivano soltanto dalla Cina ma anche dalle coste del Sud-Est Asiatico,
dove pian piano si moltiplicavano le numerose comunità dei cinesi d’oltremare.

I luoghi d’approdo interessavano soprattutto i litorali settentrionali e occidentali del Kyūshū, in cui
confluirono man mano le comunità cinesi, soprattutto durante il conflitto tra Ming e Qing in quanto questi
non avevano intenzione di piegarsi al nuovo potere costituitosi. Con l’insediamento di Tokugawa Ieyasu, la
politica estera del Giappone si ammantò di una cordiale e apparentemente pacifica disponibilità. Hideyoshi
nel processo di riunificazione dell’arcipelago e nel tentativo di assoluto accentramento dei poteri in
un’unica legittima autorità, dà luogo ad una strategia di attacco e di aggressività nei confronti degli altri
paesi estremo-orientali. Ne consegue perciò un notevole irrigidimento dei rapporti internazionali, innanzi
tutto con Cina e Corea, ma in generale anche con tutti i paesi del Sud-Est Asiatico. Tokugawa Ieyasu quindi,
una volta al potere, dà vita ad una politica estera improntata alla riapertura di relazioni pacifiche, alla
ricerca di scambi commerciali fruttuosi e amichevoli. Indirizza però missive che invitano a traffici e
commerci mercantili tutti i paesi del Sud-Est Asiatico, dalla penisola indo-cinese a quella coreana, non
escluse Indonesia e soprattutto Filippine (in particolare Luzon). Per Ieyasu però il mercato di maggiore
interesse è il continente cinese, tradizionale interlocutore primario del Giappone, che è però anche il più
difficile da conquistare. L’obiettivo di Ieyasu è far tornare in vita il kangō bōeki, cosa che anche Hideyoshi
aveva tentato, fallendo, perché avrebbe assicurato continuità ai traffici mercantili, indispensabili
all’economia del Giappone, e contemporaneamente garantito alle autorità del bakufu il controllo e la
gestione completa di questi traffici e dei guadagni da essi scaturiti.

Tutta la politica dei primi Tokugawa è infatti volta al perseguimento di un accentramento di poteri politici
assoluto, anche nei confronti dell’estero, nonché di controllo delle attività commerciali – soprattutto per
accrescere le entrate del bakufu e contemporaneamente indebolire economicamente e ridurre l’autonomia
dei potentati locali e il sankin kōtai ne fu la prova. Dopo l’interruzione dovuta all’invasione giapponese della
Corea, le tōsen ripresero a veleggiare verso l’arcipelago, cosa connessa ovviamente alla politica conciliante
di Ieyasu. Perciò il governo Tokugawa mostrò profondo interesse nei confronti delle tōsen, concedendogli
importanti nullaosta che li proteggevano anche in caso di atti criminosi ad opera degli stessi giapponesi o
mercanti europei.

Nel 1610, quindicesimo anno dell’era Keichō, Ieyasu si servì di una tōsen proveniente dal Guandong, con a
bordo un certo Zhao Xinru – di cui non si conosce nulla, per far pervenire una missiva al governatore
generale del Fujian dove chiedeva che fosse formalmente ristabilito il sistema dei kangō bōeki. Alla missiva
non ci fu mai risposta, ma da quel momento le tōsen giunsero ai porti giapponesi sempre più numerose.

TOKUGAWA IEYASU E ZHENG ZHILONG: UN IN CONTRO IMPROBABILE


Nel 1612, diciassettesimo anno dell’era Keichō, Tokugawa Ieyasu chiama alla sua presenza due mercanti
cinesi approdati alle coste del Kyūshū: Ikkan e Shokan dei Gran Ming. Questo evento è menzionato nel
Sunpuki, ovvero “diario del Sunpu”, la residenza di Ieyasu. Si suppone che Ikkan fosse Zheng Zhilong, e
quindi che tale evento fosse il primo incontro tra quest’ultimo e Ieyasu. Ma vi sono delle opinioni
controverse: in primo luogo è difficile identificare l’esatta corrispondenza dei nomi cinesi, traslitterati
spesso con approssimazione nelle lingue europee dalla pronuncia del sud della Cina, modificati poi da nomi
aggiuntivi giapponesi o resi irriconoscibili da appellativi di varia natura. Zheng Zhilong stesso è infatti
conosciuto con diversi appellativi, nel mondo europeo è noto, infatti, come Nicholas Iquan. Oppure in
Giappone è noto come Tei Shiryu Ikkan, Ro Ikkan, Goto Ikkan. Un altro problema di identificazione è di
natura cronologica: si suppone, infatti, che Zheng Zhilong fosse nato nel 1604. Tuttavia, se accettassimo
questa data come data di nascita apparirebbe alquanto improbabile che nel 1612 un bambino di 8 anni
fosse stato chiamato alla corte di uno shogun. Comunque, prescindendo dagli avvenimenti del Sunpu,
sembra che Zheng Zhilong sia effettivamente giunto a Nagasaki nel 1612 e avrebbe vissuto per un certo
periodo lì prima di recarsi ad Hirado. Altro elemento a favore della teoria che sia lui “Ikkan”, sta in una sua
lettera al governatore della VOC (tra il 1629-1632) Jacques Specx: qui Zheng Zhilong parla della loro amicizia
“di antica data” consolidatasi in Giappone quando Specx era Governatore presso la sede di Hirado: Specx
apre gli uffici di Hirado nel 1609 e ne è governatore fino al 1613, poi di nuovo negli anni 1614-1621. Se ne
ricava che Zheng Zhilong sia arrivato in Giappone necessariamente prima del 1621. Ciò, pur non provando
l’incontro tra Ieyasu e Zheng Zhilong, sicuramente scredita l’idea che quest’ultimo sia nato nel 1604.
LI DAN
Agli albori del XVII secolo, Li Dan si muoveva tra le sue basi nel Fujian, a Taiwan e a Hirado. Conosciuto
anche come Captain China dagli europei, con i quali era costantemente in contatto. Ed è proprio grazie ai
documenti degli europei che possiamo ricostruire il ruolo predominanti che Li Dan svolge nelle attività
marittime cinesi in Giappone. Preziosa è lo scritto di John Saris, governatore della Compagnia inglese
quando aprì gli uffici a Hirado, “The Voyage of Captain John Saris to Japan 1613”. Stando ai suoi scritti,
all’arrivo dei primi inglesi nel 1613 John Saris si accordò con Li Dan per l’affitto dei locali destinati agli uffici
della Compagnia e per gli inglesi svolse diversi compiti anche di rifornimento e di interpretariato. Il suo
ruolo di uomo fidato non cambia con l’arrivo dell’ultimo governatore inglese, Richard Cooks, anzi, il loro
legame sembra addirittura essere più saldo. Quest’amicizia venne molto criticata dagli alti dirigenti della
Compagnia Inglese soprattutto quando, alla vigilia del ritiro della Compagnia dai mari orientali e alla
chiusura degli uffici di Hirado, dai bilanci conclusivi risultò che il credito maggiore della Compagnia Inglese,
mai riscosso, era proprio a favore di Li Dan – una determinante concausa del ritiro degli inglesi da Hirado
nel 1623, di cui Li Dan è consapevolmente responsabile, è infatti la bancarotta.

Dei primi anni di attività di Li Dan non si conosce quasi nulla, sembra però che l’attività di Li Dan si afferma
con gli spagnoli tra la fine del XVI secolo ed il XVII secolo, come capo della comunità cinese di Manila (arrivo
spagnoli nel 1571). In seguito a controversie di ordine economico sorte con gli spagnoli fu costretto ad
abbandonare Manila e trasferirsi ad Hirado. Sono gli stessi anni in cui si costituisce, ai suoi ordini, una
banda di avventurieri, nota nei testi giapponesi “mitsubōeki shūdan”, ovvero “gruppo di contrabbandieri”.
All’arrivo degli inglesi nell’isola, nel 1613, Li Dan era già capo della locale comunità cinese, e vantava anche
l’amicizia con i daimyō Matsuura, oltre ad essere in ottimi rapporti con il bugyō di Nagasaki, Hasegawa
Gonrokuro Morinao.

Ai vertici della sua organizzazione si trovavano i suoi consanguinei, tra cui suo figlio Li Guozhu che
affiancava il padre in ogni evento, e i suoi fratelli. Zheng Zhilong, che si unisce successivamente, fu
un’eccezione. Da diverse storie si evince l’importante ruolo sociale occupato da Li Dan, ad esempio durante
un periodo di malattia fu visitato da John Saris stesso e dal genero del damyō Matsuura. Inoltre, è
importante sottolineare che dal 1614 al 1624 quasi tutte le licenze shogunali che il bakufu Tokugawa
assegnava di volta in volta ai cinesi furono conferite a Li Dan, che era l’interlocutore ufficiale per eccellenza
delle autorità cinesi; perciò, le sue attività illeciti non erano preoccupanti.
CAPITOLO VI

VERSO UN NUOVO EQUILIBRIO INTERNAZIONALE

L’ASCESA DELLA COMPAGNIA OLANDESE

Gli ultimi anni del secolo XVI l’iniziativa privata diede vita a Compagnie private, una sorta di società a
carattere commerciale, che allestirono e inviarono nei mari estremo-orientali spedizioni mercantili per
aprirsi una via nei traffici orientali. All’interno di queste Compagnie si respirava, ovviamente, un’aria di
rivalità. La competizione tra le province dell’Olanda si rivela controproducente, perché per farsi largo
nell’Estremo Oriente bisognava scalzare la supremazia del Portogallo e della Spagna. Per questo motivo le
autorità olandesi decidono di dar vita ad una sola organizzazione che raccogliesse le forze economiche dei
Paesi Bassi – che erano ancora in lotta con la Spagna per difendere l’indipendenza recentemente dichiarata
– e che gestisse i traffici orientali nel nome dell’Olanda. Nasce così il 20 marzo del 1602 la Compagnia
Riunita delle Indie Orientali, V.O.C., sulla base di una Carta approvata dalle autorità, che conferiva a questa
pieni poteri per agire in Estremo Oriente nel nome del governo olandese. Ovvero riceveva il monopolio
assoluto su tutte le mercanzie trattate nei mari orientali - potere delegato di stipulare accordi, transazioni,
contratti, costruire forti, nominare governatori e magistrati, reclutare soldati.

Nel 1619 fonda Batavia e vi stabilisce gli uffici della V.O.C.

Giunta in Estremo Oriente in ritardo rispetto ai rivali Portogallo e Spagna, l’Olanda inizia una agguerrita
strategia di disturbo e destabilizzazione dei commerci marittimi iberici, cercando di stabilire basi per la
propria attestazione. L’insediamento in Giappone era senz’altro periferico, inoltre doveva pur essere
condiviso con portoghesi e spagnoli insediati a Nagasaki. La meta più ambita era, ovviamente, il continente
cinese: più volte gli olandesi cercarono invano di far aprire i porti al governo cinese con ripetuti attacchi
sulle coste (1604-1607), spingendosi anche a Macao con azioni di disturbo e ricognizione (1601 – 1603 –
1607).

Con l’apertura degli uffici della Compagnia Riunita a Hirado nel 1609, consolidata quindi la propria
posizione nell’arcipelago, l’Olanda cominciò a preparare un decisivo assalto all’avamposto portoghese di
Macao, con l’aiuto di truppe mercenarie giapponesi. Fu inoltre importante la partecipazione inglese. Agli
inglesi non fu consentito di partecipare direttamente all’attacco a Macao ma fu consentito un ruolo di
retroguardia, ovvero di pattugliare i mari intorno a Manila ed impedire così un eventuale intervento
spagnolo a sostegno dei portoghesi. Ma il vero fine era proprio di evitare una partecipazione diretta inglese
per non dover condividere il bottino in caso di vittoria. Le navi olandesi 13, con circa 1300 uomini. I
portoghesi riuscirono a mettere insieme tutte le forze possibili, poiché Macao – per ordine dei Ming, non
aveva potuto erigere nessuna fortificazione. Tutti presero le armi: gesuiti, frati, schiavi, soldati e nonostante
la precaria situazione difensiva, Macao ne uscì vittoriosa, e gli olandesi furono costretti a ripiegare sulle
Pescadores (Penghu) (1622-1624). L’occupazione di queste isole da parte degli olandesi costrinse i Ming ad
intervenire per difendere la loro sovranità sulle isole, inizialmente si tentò con la diplomazia, ma
successivamente i cinesi, con l’aiuto di Li Dan, optarono per una spedizione militare. La Compagnia Riunita,
anche per evitare il confronto militare diretto con la Cina, negoziò privatamente con Li Dan e Zheng Zhilong
il proprio trasferimento dalle Pescadores a Taiwan, questa fu una collaborazione conveniente e a favore di
Li Dan.

Ma la collaborazione del pirata con le autorità cinesi fu “forzata”, in quanto ciò fu possibile grazie alle
autorità Ming che lasciarono ai “banditi del mare” di trattare con i “barbari”, considerati anch’essi dei
banditi del mare – questo è ovviamente parte di quella tradizionale politica cinese di combattere e vincere i
pirati utilizzando i pirati stressi. Tuttavia, questa collaborazione fu ottenuta anche attraverso il ricatto da
parte delle autorità Ming: le autorità, infatti, presero in ostaggio Xu Xinsi, principale interlocutore dei
traffici ad Amoy (Xiamen), e in cambio della sua liberazione LI Dan doveva liberare Pescadores dagli
olandesi. Fu così che Li Dan abbandonò Hirado recandosi a Formosa (Taiwan), negli anni 1623-4. Inoltre,
Zheng Zhilong fu scelto, sotto consiglio di Li Dan, in qualità d’interprete per i portoghesi, così da avere un
fidato informatore dei piani e delle mosse olandesi. In una condizione di semi-legalità era importante per
mantenere la pace ed evitare che si venissero a creare atti di brigantaggio veri e propri. I funzionari locali
erano a conoscenza delle attività svolte, così come erano noti i nomi degli intermediari commerciali che
risiedevano nel continente. Così nel 1624 cominciano le fondazioni della base di Forte Zelandia. Taiwan si
trovò ad essere tra le più contese basi del mercantilismo nazionale.

TAIWAN, CROCEVIA CONTESO DEI TRAFFICI MARITTIMI


Furono i Portoghesi i primi ad essere affascinati da Taiwan tanto da ribattezzarla “Ilha Formosa” nel 1544. A
partire dal XVII secolo, inizia l’insediamento cinese sull’isola, con una struttura comunitaria sempre più
organizzata, ed in diretta connessione con la pirateria, riflettendo quindi le trasformazioni che il
mercantilismo cinese stava vivendo nei primi decenni del secolo – prima con la guida di Li Dan, in cui si
riuniscono più bande di pirati in una vera e propria organizzazione mercantilistica, poi con Zheng Zhilong
che completò la riunificazione. La crescente ostilità tra Cina e Giappone, manifestatasi apertamente con
l’interruzione dei rapporti ufficiali e che culmina con le aggressioni di Hideyoshi alla Corea (1592, 1597-98),
rende sempre più complicato il commercio e, sebbene la politica di Ieyasu sia volta al ripristino dei rapporti
ufficiali, la forte spinte accentratrice che contraddistinse lo shogunato Tokugawa sin dall’inizio, pose un
freno all’iniziativa privata giapponese nei commerci d’oltremare. Ciò porta all’attacco di Shimizu alle Liuqiu
e a Satsuma (Kyushu) nel 1609, attraverso queste isole il Giappone commerciava con la Cina da sempre,
sopperendo così all’insufficiente flusso di commerci ufficiali che si accompagnavano alle ambascerie, ora
definitivamente interrottosi. Il controllo giapponese sul piccolo arcipelago delle Liuqiu è quindi
indispensabile. Anche Taiwan però, non essendo sotto giurisdizione cinese, rappresentava un neutrale e
ideale terreno d’incontro per le transazioni commerciali con la Cina – inoltre si trova a circa metà strada tra
Macao ed il Giappone, costituendo così uno scalo ideale per i traffici mercantili con la postazione
portoghese ed anche con quella spagnola di Manila. Il secondo mese del 1609 – dopo l’attacco alle Liuqiu,
Arima Harunobu, con lo scopo di creare una postazione stabile in prossimità della costa, attivando un porto
adeguato ai traffici mercantili e di porre sotto vigilanza l’isola attraverso pattugliamenti, fa rotta verso
Taiwan. Il pretesto per l’attacco fu la scusa che i governatori di Taiwan non avevano inviato ambascerie
tributarie all’arcipelago, venendo meno al loro dovere nei confronti dell’imperatore del Giappone.
L’offensiva venne però respinta dalle comunità aborigene. Nel 1616 vi fu un secondo tentativo ed ancora
una volta i giapponesi ebbero la peggio ma una piccola parte riuscì ad insediarsi nell’isola. Nel 1624 la
Compagnia Riunita stabilisce la base a Taiwan, imponendo restrizioni e tasse alle comunità aborigene e alle
piccole comunità sopravvissute giapponesi. Questi ultimi non riconobbero la supremazia olandese anche
perché arrivati per secondi e le tensioni esplosero nel 1628, quando vedendosi privati della possibilità di
lasciare Taiwan e rientrare in Giappone, i giapponesi presero in ostaggio l’allora governatore di Taiwan, suo
figlio e altri ufficiali olandesi, e salparono per l’arcipelago con a bordo alcuni ostaggi. Nonostante
l’incidente, i rapporti non si incrinarono, soprattutto gli interessi economici erano troppo importanti per
entrambe le parti.
I giapponesi, tuttavia, non costituiscono l’unico problema, nello stesso periodo, precisamente nel 1626, gli
spagnoli stabilirono una loro base nel nord di Taiwan – contrattacco obbligato al tenace espansionismo
olandese. Nasce così la base spagnola di Santiago, nella parte nord-orientale, e poco dopo si mossero a
Santissima Trinidad, e sull’isoletta prospiciente la baia costruirono Forte San Salvador. Nel 1629 nasce la
base di Forte Santo Domingo, dove aprirono gli uffici governativi. L’Olanda attaccò soltanto nel 1630
fallendo.

L’Olanda attese ben quattro anni, così gli spagnoli ebbero tutto il tempo necessario per creare ed armare le
roccaforti. Questo perché? Sappiamo che il 1626 fu un anno difficile per la VOC, inoltre, nel 1628, la
compagnia Riunita aveva dovuto pagare una forte somma al Giappone come indennizzo e per il rilascio
degli ostaggi. Per giunta i giapponesi avevano continuato ad ostacolare l’attività commerciale degli
olandesi. Bisogna poi tener conto anche delle posizioni prese dalle comunità cinesi sull’isola. Infatti, la
comunità cinese nel frattempo viveva una condizione di mercantilismo centralizzato sotto comando di
Zheng Zhilong, oramai ammiraglio di pattugliamento delle flotte dei Ming, nominato nel 1628 – momento
che segna formalmente la trasformazione del mercantilismo cinese in un sistema organizzato ed unitario, in
particolare il Fujian, che divenne in questi anni il “regno” di Zheng Zhilong. Perciò rimaneva Taiwan.
Quando nel 1627 una forte carestia colpisce il Fujian, Zheng incanala un grosso flusso migratorio verso
Taiwan, fornendo loro il necessario per vivere lavorando la terra – un investimento in capitale umano che si
traduce in forza lavoro per lo sviluppo dell’agricoltura nell’isola, in produttività, incentivazione del
commercio, e in rafforzamento delle flotte, quindi potenziale bellico. Ed è solo superato questo difficile
triennio che l’Olanda sferrò l’infruttuoso attacco alla base spagnola nel nord dell’isola, ritentando poi 10
anni dopo, nel 1640, e riuscendo poi nel 1642: gli spagnoli furono espulsi dall’isola, che divenne poi punto
di disputa tra il continente cinese e olandese.

LA NASCITA DELL’ORGANIZZAZIONE DEI ZHENG

Zheng Zhilong, che lavorava al servizio degli olandesi come interprete su richiesta di Li Dan, riuscì a
migliorare le proprie capacità commerciali, a comprendere le strategie della VOC ed ampliare le conoscenze
sulla navigazione occidentale, strumenti usati e i cannoni. Tutto ciò gli tornò utile quando nel 1625 morì Li
Dan e gli succedette proprio Zheng Zhilong, che prese immediato possesso della base a Taiwan (Zhule),
riuscendo a riunire ai suoi ordini un gruppo di notevoli dimensioni. Nel 1626, Zhilong ribadiva il rapporto di
reciproca collaborazione con la Compagnia Olandese fornendole alcuni navigli della flotta che gli olandesi
intendevano usare per attaccare i mercantili cinesi che facevano rotta tra Manila e lo Xiamen nell’ottica di
destabilizzare i commerci iberici, e nello stesso tempo pattugliavano i mari contro gli iberici. Sempre nel
1626 la Spagna si insediava a Taiwan, che si rivela la postazione fondamentale dei commerci marittimi
internazionali. L’anno dopo, nel 1627, Zhilong rafforzò la presenza cinese a Formosa. Tramite questo gesto
cercava di accattivarsi le simpatie delle genti delle coste; infatti, era conosciuto come il pirata che “rubava
ai ricchi per dare ai poveri”. Parallelamente si dedicava alla legalità, dopo aver sconfitto il pirata Xu Xinsi, gli
venne conferita la carica di ammiraglio di pattugliamento nel 1628, gli venne affidato il compito di
sconfiggere la pirateria. L’avallo imperiale fu per i Ming l’ultima spiaggia, dopo aver perso qualsiasi capacità
di intervento sulle attività marittime delle zone costiere. Il Fujian in particolare divenne il suo regno, e
bisogna tenere bene a mente anche il saldo controllo che Zheng esercitava sulla comunità cinese di Taiwan.
Lo stretto di Formosa era quindi sotto egemonia delle flotte di Zheng: incursioni, arrembaggi e saccheggi
che avevano costretto il governo Ming all’implicita resa con il conferimento a Zheng Zhilong di una carica
ufficiale e avevano danneggiano parallelamente la Compagnia Riunita, costretta a dipendere pressoché
esclusivamente da Zheng Zhilong per espletare i commerci mediati dai cinesi. L’Olanda però non è disposta
a sottostare a questa situazione; quindi, nello stesso anno (1628) costrinse Zheng Zhilong a sottoscrivere un
accordo commerciale triennale. Dopo aver firmato il trattato con l’Olanda, Zheng si impegna, sgominare i
pirati come gli era stato richiesto significava soprattutto poter gestire da solo i traffici marittimi cinesi, e per
giunta con l’avvallo ufficiale dei Ming.

Nel 1630 Zhilong sembrava che avesse liberato le coste cinesi dal flagello della pirateria, perciò, fu trasferito
nello Jianxi col pretesto di sedare dei disordini ma lo scopo era limitarne il potere. Ma ormai Zheng Zhilong,
insieme ai suoi familiari, controllava gran parte del Fujian e gestiva i traffici con l’oltremare, riscuotendo
tasse e provigioni sui mercantili in transito. Nonostante l’accordo con Zheng, la Compagnia Riunita era
desiderosa di liberarsi da quella dipendenza nei commerci con la Cina che di fatto si era venuta a creare,
non avendo affatto abbandonato l’idea di allacciare rapporti ufficiali con i Ming, continuava a premere per
l’apertura dei porti. Infatti, i vascelli olandesi continuavano ad ostentare la loro sgradita presenza sulle
coste dello Xiamen. Con l’assenza di Zhilong la pirateria esplose di nuovo, sotto il figlio di Li Dan, Li Guozhu,
rientrato in Giappone a causa del mutato clima politico nei confronti del cristianesimo, Zheng Zhilong fu
richiamato immediatamente. Una volta rientrato, Zhilong cominciò subito a rafforzare il suo potenziale
navale ma nel 1633, una parte di esse sarebbe stata distrutta dagli stessi olandesi in un attacco a sorpresa.
Scoppia la rivalità. Zhilong sconfigge gli olandesi il 22 ottobre dello stesso anno, nella baia di Liaole, a sud di
Jinmen (Quemoy). A seguito della trionfante vittoria sugli olandesi, il governo Ming conferì a Zheng la carica
di Vice Comandante Militare del Fujian. Le autorità Ming realizzarono finalmente che non avrebbero potuto
controllare i litorali (e in generale le regioni costiere) senza l’aiuto di Zheng. La nomina ricevuta, di nuovo,
ratifica il controllo che di fatto Zhilong già esercita sulla regione del Fujian.

La scelta dei Ming aveva due fine:

restituire le vastissime attività mercantilistiche cinesi alla sovranità dell’impero e disporre di una flotta in
grado di contenere e respingere l’ingerenza europea, soprattutto olandese. In questo senso la scelta
strategica dei Ming non fallisce: le nomine ad Ammiraglio di Pattugliamento delle flotte imperiali e
successivamente a Vice Comandante Militare del Fujian equivalgono a disporre di un vasto potenziale
bellico sui mari estremo-orientali. In tal senso, Zhilong non delude le aspettative del governo Ming:
sottomettendo con facilità i gruppi di avventurieri che non rientrano nelle sue schiere, concluse la
“riunificazione” nel 1636, sgominando l’ultimo “pirata” in grado di opporglisi, Liu Xiang. Nel convogliare le
attività mercantilistiche cinesi al suo comando, infatti, Zheng Zhilong non può permettere che pirati-
avventurieri “indipendenti” commerciassero autonomamente nei mari cinesi e soprattutto con la
postazione olandese di Taiwan, dove Zhilong deve dimostrare, per una questione di prestigio, di detenere il
monopolio assoluto. Dopo la sconfitta di Liu Xiang quindi Zhilong acquisisce il controllo totale dei commerci
marittimi cinesi, soprattutto nei mari che bagnano Fujian e Taiwan, dove esercita l’egemonia: lo stretto di
Formosa è un passaggio chiave dei traffici internazionali, e gli olandesi “mordono il freno” per questa
subordinazione. Ad entrambe le potenze però non conviene uno scontro frontale definitivo, che avrebbe
reso irrealizzabili i lucrosi affari conclusi da entrambe le parti. Dopo il violento confronto del 1633 seguono
alcuni anni di relativa calma nelle relazioni di Zhilong e la Compagnia, se si esclude l’episodio del 1639, in
cui Zhilong è costretto ad intervenire militarmente lungo i litorali di Canton, a causa di un ulteriore
tentativo olandese di forzare l’apertura dei porti cinesi. Il conflitto d’interessi viene sopito volutamente con
un vantaggioso compromesso, ma si esprime in altre forme: le navi dei Zheng incrociano spesso i vascelli
olandesi nei mari del SEA (negli scali principali delle rotte orientali) – tra le due inizia a formarsi una guerra
fredda di mercato, interessando le basi di più comune attività (Batavia, Taiwan, Nagasaki). Con la nomina
(da parte dei Ming) a Comandante Militare del Fujian, Zhilong riesce ad ottenere un’attestazione definitiva
– i Zheng hanno ormai conseguito il controllo su gran parte delle attività marittime cinesi, procedendo nella
riunificazione delle numerose aggregazioni di avventurieri che solcano i mari dell’Oceano Indiano. L’avallo
imperiale dei Ming segna formalmente la trasformazione del mercantilismo cinese nel divenire organismo
unitario e quindi forza economica, militare e politica. Zheng Zhilong è ora incontrastato nei mari della Cina,
unico interlocutore per i commerci marittimi con il continente.

IL DECLINO DEI PAESI IBERICI


Sebbene il Portogallo avesse respinto le aggressioni portoghesi riuscendo a difendere Macao,
l’insediamento era estremamente vulnerabile: la postazione di Macao era sotto la continua minaccia
olandese, l’unica difesa era il privilegio conquistato in territorio cinese, ma l’avvallo dei Ming non garantiva
anche protezione militare, e sebbene fossero ostile a qualsiasi altro paese europeo, era improbabile
aspettarsi un intervento della flotta militare della Cina in difesa di Macao. Per i Ming era comunque
importante l’alleanza con i portoghesi dato che i mancesi premevano sui confini settentrionali. C’era però
un barlume di speranza: a differenza del secolo precedente i Ming si trovavano a dover combattere la
sempre più insistente pressione dei mancesi dai confini settentrionali – offrire appoggio alla dinastia
regnante poteva, secondo i portoghesi, rivelarsi una mossa vantaggiosa, perché avrebbe creato i
presupposti per una reciproca cooperazione. Nel 1620, il noto letterato e uomo di corte Paolo Xu Guangqui,
proponeva alle autorità cinesi di usare le tecniche portoghesi e di accettare l’invio di cannoni ed un piccolo
soldato da Macao. Gruppi di bombardieri raggiunsero il continente nel 1621 ma nel corso del viaggio gli
uomini furono rimandati indietro a Canton e solo i cannoni proseguivano per la capitale. I Ming, infatti,
comprendevano a pieno la necessità delle armi portoghesi ma non volevano un loro coinvolgimento.
Intanto nel 1622 l’Olanda – che non vedeva di buon occhio i buoni rapporti tra i Ming e i portoghesi, sferrò
l’attacco più violento a Macao, respinto con difficoltà.

In seguito all’insediamento spagnolo a Taiwan nel 1626, l’Olanda, colpita indirettamente nei suoi interessi,
risponde con un attacco alla base spagnola sempre a Taiwan nel 1630. Ora più che mai, in seguito a tali
scontri, era necessario per i portoghesi riallacciare i rapporti con i Ming. I portoghesi inviarono nello stesso
anno da Macao al continente, in aiuto dei Ming, la spedizione militare guidata da Goncalves Teixeira e
Antonio del Campo: il grosso del contingente militare (composto da circa 400 uomini) viene fermato a
Nanchang e in pochi sono autorizzati a proseguire fino Beijing, ma per il Portogallo rimane essenziale
cercare di stringere il più possibile i rapporti con la Corte Ming, cosa da cui dipende sempre più
l’attestazione portoghese in Estremo Oriente: anche la situazione di Portogallo e Spagna in Giappone stava
rapidamente peggiorando: Hideyoshi attuò i provvedimenti nel 1612 del veto alla religione cristiana, 1614
vennero allontanati circa 150 cristiani dal Giappone, 1622 il martirio a Nagasaki per culminare alla definitiva
espulsione della Spagna nel 1624. Questi provvedimenti si riscontrarono subito in ambito politico ed
economico: il governo giapponese capì che dietro le missioni religiose si celava un interesse puramente
economico. Con l’espulsione della Spagna le posizioni del Portogallo in Estremo Oriente si indebolirono,
soprattutto se poste a confronto con l’indiscusso dominio esercitato nel secolo precedente. Perciò il
Portogallo comincia a temere di un assalto congiunto dell’Olanda e del Giappone. D’altro canto, anche la
postazione di Macao non è in una situazione migliore, perché era continuamente esposta alle incursioni
olandesi e tenuta in una sorta di assedio costante a causa delle continue intercettazioni. Ovviamente, il
Portogallo cerca di reagire e di difendere le proprie posizioni. E dopo l’allontanamento della Spagna dal
Giappone cerca anche di difendere la sua presenza nel Kyushu, limitando – almeno apparentemente – le
attività svolte al commercio. La Spagna, nonostante i divieti imposti, continuò a “trafugare” religiosi e
missionari nel territorio giapponese, sfidando apertamente le decisioni del bakufu e aggravando così la
posizione portoghese. Nel 1636, il bakufu Tokugawa sancisce la politica del Sakoku, e nel 1637-38 il
Portogallo fomentò la rivolta di Shimabara. L’intervento militare della Compagnia Riunita al fianco delle
milizie giapponesi provoca la sconfitta del Portogallo nel 1639 e la conseguente espulsione dall’arcipelago.
Nel 1942 l’Olanda riesce ad espellere la Spagna da Taiwan e nel 1641 aveva sottratto al base di Malacca ai
portoghesi.

I Ming però sono costretti a richiedere l’aiuto del Portogallo contro i mancesi (1643), ma questi ultimi dopo
il crollo di Pechino nel 1644, proseguirono l’avanzata a Nanchino per poi giungere nel meridione.
L’intervento del Portogallo si concluse nel 1646. Il predominio iberico in Estremo Oriente aveva avuto
termine: la Spagna, espulsa dal Giappone (1624) e dal Taiwan nel 1642, pur preservando Manila era di fatto
espulsa dal mercato. Il Portogallo sconfitto in Giappone nel 1639 e colpito dall’ Olanda a Malacca nel (1641)
perdente anche nell’alleanza con i Ming, rimaneva isolato a Macao, che nei decenni che seguirono avrebbe
vissuto circostanze di estremo pericolo, sempre minacciata – essendo parte integrante del territorio cinese,
rientra appieno nell’ambito della sovranità dell’impero. Venne quindi investita dal conflitto che per circa 20
anni sconvolse il meridione della Cina e che vede opposti i Ming meridionali e i conquistatori mancesi.
Risentì inoltre della Rivolta dei Tre Feudatari (1673-1681). Nel 1651, abbandonato lo schieramento pro-
Ming, Macao riconobbe la legittimità del nascente impero Qing e si sottomise alla sua sovranità. Ciò però
non li risparmiò dai provvedimenti di volta in volta decisi dalle autorità mancesi in merito ai commerci
marittimi della Cina. Dopo la caduta del Ming a Pechino nel 1644, il nuovo governo mancese dei Qing si
impegnò a colpire l’organizzazione dei Zheng, fulcro della resistenza Ming; perciò, emana il veto assoluto di
navigazione e proibizione dei traffici marittimi, trasferimento della popolazione all’interno del continente.
Numerose furono le richieste alla Corte dei Qing, ma si susseguirono diverse condanne a morte, si ricorda,
ad esempio, la condanna a morte del gesuita Adam Schall von Bell. Fu solo con l’ambasceria di Pereyra nel
1678 alla corte di Kangxi, che riesce a ristabilire un clima di benevolenza nei confronti dei portoghesi.
Inoltre, la resistenza dei Ming fu sconfitta dopo aver placato la rivolta dei tre feudatari e la conquista di
Taiwan per i Qing nel 1683. A questo punto, vengono riappacificati i contatti tra Cina e Macao. Nel 1668 la
Spagna aveva riconosciuto l’indipendenza portoghese ed i traffici a Manila Macao erano gradualmente
ripresi ma soprattutto, l’acre ostilità con l’Olanda aveva avuto termine ed i mercantili portoghesi erano
divenuti ben accetti nelle postazioni della Compagnia Riunita; in opposizione all’Olanda, si presentava
invece l’Inghilterra, ben più agguerrita del cinquantennio precedente. Nonostante l’inarrestabile declino
dell’impero portoghese in Estremo Oriente, Macao sopravvive, e l’insediamento portoghese nell’isola
continua fino al 19 dicembre 1999.
CAPITOLO VII

IL COSIDDETTO SAKOKU/KAIKIN

UNA RIFLESSIONE PRELIMINARE

Sebbene inizialmente in Giappone l’arrivo dei mercanti e missionari fosse stato ben accolto, a differenza
della Cina, l’elemento religioso e ideologico intrecciato e fuso ad una strategia di espansionismo
commerciale e di conquista aveva infastidito non poco le autorità giapponese: già con Hideyoshi, erano
stati presi i primi severi provvedimenti riguardanti il cristianesimo – ovviamente ciò era volto soprattutto a
limitare l’aspetto puramente religioso, lasciando invece invariato il desiderio di incontro e confronto con
l’Europa sul piano economico e culturale. Ma nei primi decenni del XVII secolo il clima divenne sempre più
teso ed intollerante, per culminare nelle sanguinose persecuzioni della rivolta di Shimabara (1637/38),
sedata con l’aiuto degli olandesi, e l’espulsione degli iberici - nel 1624 degli spagnoli, e nel 1639 dei
portoghesi. L’elemento religioso ha sicuramente avuto un ruolo essenziale nelle decisioni del bakufu
Tokugawa, ma la scelta riguardò soprattutto l’aspetto economico, e non solo quello ideologico. Tuttavia,
questo è un aspetto che spesso la storiografia occidentale, e gli stessi studi giapponesi, hanno lasciato in
ombra. Anche i termini utilizzati, Sakoku, e più tardi affiancato ad un nuovo termine “kaikin”, derivante dal
cinese haijin “veto sui mari”, sono stati spesso discussi e criticati.

Di fatto il mondo accademico giapponese del primo periodo Edo vive una fase di notevole fermento ed
apertura verso temi e problematiche internazionali, muovendosi verso un’innovativa interpretazione della
storia del periodo Tokugawa, e, nel caso specifico, della scelta politica di “isolamento” del Giappone,
inserendola nel contesto internazionale, confutando la troppo rigida etichetta di Sakoku. Lentamente in
ritiro dall'espansionismo marittimo, dinnanzi alla pressante penetrazione europea ed al confronto con le
salde marinerie cinesi, impegnato nel processo di organizzazione interna avviato dalla centralizzatrice
politica Tokugawa, l’arcipelago si vede scalzare dalle postazioni chiave dei traffici orientali. A metà degli
anni ’30 le spedizioni marittime (goshuinsen o shuinsen), organizzate dal bakufu, giungono a termine, e il
Giappone è costretto a servirsi di altre marinerie, quelle cinesi. La lenta penetrazione degli europei non va
però sottovalutata, e il Giappone deve operare una scelta: accogliere formalmente uno solo dei paesi
europei presente in Estremo Oriente può rivelarsi un’attenta strategia difensiva, e l’Olanda è la più temibile
degli avversari (per i potenti vascelli armati di tutto punto, estranea a problematiche religiose), cosa che il
Giappone ha già potuto sperimentare nel 1628, quando per mano olandese perdono l’insediamento
nell’isola di Taiwan. In tal modo però il Giappone si trova ad essere legato contemporaneamente a due
poteri in conflitto: la famiglia Zheng, che negli anni ’40 afferma una totale supremazia sui traffici mercantili
cinesi, da cui il Giappone è economicamente dipendente, e la Compagnia Riunita, indispensabile schermo
protettivo all’espansionismo di conquista degli europei ed ancora importante interlocutore commerciale.
Nella sua forzata neutralità, il Giappone non partecipa direttamente allo scontro, ma è teatro di rivalità
commerciali in una spietata guerra fredda di mercato, che l’ingresso nel Sakoku/kaikin formalizza in cinesi
ed olandesi come soli interlocutori. Nel 1633 c’è la prima legge di restrizione ai commerci, nel 1635 tutti gli
approdi dei mercantili cinesi sono convogliati a Nagasaki, che diviene, almeno formalmente, unico porto
d’ingresso del commercio internazionale, la Sakoku no mado. L’Oranda Yashiki ed il Tojin Yashiki vi
coesistono, costretti alla ravvicinata (e contraddittoria) convivenza.

L’INTERVENTO DEL BAKUFU TOKUGAWA


All’indomani dell’ascesa al potere dei Tokugawa, l’intervento delle autorità aveva l’obiettivo di stabilire un
governo solido, e Ieyasu aveva promosso una politica estera improntata alla distensione. Durante i primi
decenni del XVI secolo, la contemporanea presenza di quattro paesi europei, fu sicuramente
destabilizzante, ma al contempo fu anche di grande stimolo ai traffici marittimi estremo-orientali. Le
marinerie giapponesi e cinesi giovarono del vivace intrecciarsi dei traffici prodotto dall’arrivo dei primi
europei, e nella seconda metà del XVI secolo sorsero anche numerose comunità giapponesi in Siam,
Cambogia, Vietnam e Filippine – anche l’instabilità politica degli anni di guerra civile aveva favorito lo
svilupparsi delle attività mercantili giapponesi.

Il secolo XVII si apriva con un graduale convogliamento delle marinerie giapponesi alle direttive del bakufu.
Tokugawa Ieyasu aveva con cautela proseguito nel processo di centralizzazione, il fine di esprimere la
potenza marittima sotto l’egida del governo. Il sistema delle goshuinsen era espressione di tale politica,
venivano rilasciate sia ai daimyō che ai cinesi dal 1605 al 1633. Ma il graduale irrigidirsi del bakufu nasce
dalla necessità di porre sotto il controllo delle autorità centrali i commerci esteri del Giappone, qualsiasi
fosse la forma o il canale e ciò scaturiva dall’eccessiva fuoriuscita di argento a anche di rame ed oro che
ledeva l’economia del paese. Le limitazioni imposte erano a salvaguardia delle casse dello Stato. Anche la
presenza e le attività degli europei andavano in qualche modo disciplinate. Nel 1612 veniva messo il veto
formale alla religione cristiana; Nel 1616 si limitava a Hirado e Nagasaki il commercio estero (muore anche
Ieyasu), nel 1622 avvenivano i 22 martiri a Nagasaki, ritiro dell’Inghilterra nel 1623, poi nel 1624 espulsi gli
spagnoli e nel 1636 il bakufu ordinava il trasferimento della VOC a Deshima, realizzato dopo. Nel 1637-38
rivolta di Shimabara. Nel 1639 anche i portoghesi vengono espulsi. L’Olanda rimaneva l’ultima presenza
europea.

Con la prima ordinanza del Sakoku del 1633 Hirado doveva sottostare ai regolamenti nazionali ed
attendere lo stabilirsi dei prezzi delle merci a Nagasaki, secondo il sistema dell’itowappu, prima di
procedere alle compravendite. Nel 1635 si vietava l’espatrio ai giapponesi e l’approdo delle navi cinesi
venivano circoscritte a Nagasaki, provvedimento che colpisce gli interessi di Hirado – nel 1640, in un
colloquio segreto, il daimyō Matsuura ed il Governatore Olandese di Hirado cercarono invano di evitare il
trasferimento della VOC a Deshima. 1641 trasferimento VOC a Deshima (isola vicino Nagasaki, collegata alla
terraferma da un unico ponticello ai cui lati vi erano le autorità, gli olandesi dovevano visitare annualmente
Edo e presentare dei doni all’inizio di ogni anno), il provvedimento era volto anche per avere i cinesi e gli
olandesi sotto controllo. Con il terzo shogun, Tokugawa Iemitsu, il Giappone entrò ufficialmente nel
Sakoku.

SAKOKUREI: I DECRETI
I Sakokurei «ordinanze del Sakoku» sono le ordinanze emanate cinque volte dal bakufu Tokugawa tra il
1633 ed il 1639, sono composti da diciassette articoli di base, non modificati sostanzialmente nel tempo, e
sono divisi in tre gruppi di argomenti:

1. L’espatrio dei giapponesi (art. 1-3) si vietava ai giapponesi di uscire del paese e si intimava il rientro a
coloro che risiedevano temporaneamente o permanentemente all’estero.

2. La religione cristiana (art. 4-8) veniva ribadito il bando al credo cristiano, vietate le unioni miste, ed
espulsi dall’arcipelago genitori e figli nati da queste unioni.
3. Il commercio estero (art. 9-17), si stabilivano e norme ed i regolamenti concernenti i traffici mercantili
nei due porti di Hirado e Nagasaki e poi, dal 1635 solo Nagasaki. Si delegava esclusivamente ai mercanti
autorizzati dal bakufu la gestione di tali commerci incluse la registrazione e la valutazione delle merci.

Nel 1641, la compagnia riunita è trasferita da Hirado a Deshima. Nonostante si delegava solo a Nagasaki i
commerci del bakufu, tuttavia, vi erano altre tre aperture commerciali: Tsushima fungeva da testa di ponte
con la Corea sotto il controllo dei Sō; gli Shimazu gestivano da Satsuma i traffici con le Liuqiu; i Matsumae
avevano uno sbocco nel nord del Giappone. In tutti i casi ciò avveniva con l’avvallo del bakufu. Solo nel caso
di Nagasaki o del Kyūshū, era necessaria un a più attenta regolamentazione.

Nel complesso panorama internazionale estremo-orientale di inizio XVII secolo, i traffici marittimi
assumono vitale importanza, ma nella situazione di rivalità (economiche, militari, politiche) che si crea con
la simultanea presenza di Portogallo, Spagna, Olanda e Inghilterra, sia in Estremo Oriente che nello
specifico in Kyushu, le marinerie giapponesi risultano “perdenti”, e sono sostituite da quelle cinesi, anche
nell’espletamento di gran parte dei commerci dell’arcipelago. Non a caso negli anni ’30, in concomitanza
con l’emissione delle ordinanze del Sakoku, anche le goshuinsen (“navi dal sigillo di cinabro”) giungono a
termine. Le ferventi attività marittimo-commerciali cinesi, quindi, sono elemento essenziale per individuare
le molteplici ragioni che hanno portato alla scelta del bakufu di limitare i commerci d’oltremare. La potente
organizzazione dei Zheng, controllando il grosso dei traffici marittimi condotti dalle marinerie cinesi nei
mari dell’EO, gestisce circa l’80% dei mercantili cinesi in rotta per il Giappone: ciò consente ai Zheng di
esercitare una notevole influenza sul mercato giapponese, soprattutto in considerazione del quantitativo di
seta (grezza e lavorate) di cui l’arcipelago è importatore. Consentire solo a cinesi ed olandesi di risiedere a
Nagasaki (dal 1641) è certamente un vantaggio per l’arcipelago. Dopo il ritiro dell’Inghilterra e l’espulsione
dei paesi iberici, l’Olanda vanta una posizione di privilegio che la VOC vuole difendere a tutti i costi,
respingendo eventuali tentativi di ingerenza di altri paesi europei (es. ricordiamo che nella rivolta di
Shimabara l’Olanda interviene a fianco delle milizie giapponesi), e che la presenza olandese a Deshima
bilancia quella cinese, moderando le strategie di mercato messe in atto dai Zheng.

DEJIMA NO ORANDA YASHIKI


L’aver relegato la Compagnia Riunita delle Indie Orientali nella circoscritta isoletta artificiale di Deshima,
rispondeva alla strategia di difesa e di controllo dei traffici commerciali in transito sull’arcipelago. Agli
Olandesi non era permesso di lasciare Deshima e qualora avessero avuto necessità di farlo si sarebbero
dovuti munire di lasciapassare. Le Uniche informazioni cui l’Olanda potesse accedere, le venivano mediate
dagli interpreti di olandese, che a differenza di quelli cinesi non avevano alcun potere, ma erano i pochi a
cui fosse di tanto in tanto concesso di recarsi nell’Oranda Yashiki. Nel 1682 le autorità giapponesi avrebbero
formalmente proibito con la pena capitale di trasmettere qualsiasi informazione sui traffici di Nagasaki:
dimostrazione lampante della parziale inutilità delle precauzioni adottate. Gli olandesi furono costretti a
mutare atteggiamento; ma più al largo, lungo le coste della Cina e nei mari di Taiwan, gli scontri
continuavano soprattutto contro i cinesi di Zheng, tanto da ricevere l’appellativo di “kaizoku”. Non si
trattava di mera azione di disturbo; i mercanti cinesi erano carichi di argento, l’argento dei mercanto
giapponesi impossibilitati ad investire i capitali in imprese proprie, costretti a servirsi della mediazione
cinse. È ben comprensibile come ciò investisse gli olandesi, che assistevano al passaggio dei capitali
giapponesi in mani cinesi. Le tōsen sono infatti le uniche in grado di alimentare l’articolata rete dei
commerci marittimi contrassegnata nelle sue tappe salienti dalle tojinmachi e dalle nihonmachi: queste
ultime, venuta meno la diretta attività mercantile giapponese, sarebbero state altrimenti tagliate fuori.
Comunque, anche la capacità mercantile cinese non è al riparo da problemi e difficoltà: il susseguirsi di
problemi nel continente, legati all’affermazione dei Qing nel 1644, ha dirette ripercussioni sui traffici
marittimi.
CAPITOLO VIII

IL RUOLO DEI ZHENG NEL CONFLITTO DINASTICO MING -QING

IL DOPPIO GIOCO DI ZHENG ZHILONG

L’invasione e la subordinazione della Corea nel 1637, dopo la proclamazione della dinastia Qing l’anno
precedente (1636), rese più concreto il pericolo di una invasione mancese dei territori cinesi. Era perciò
indispensabile l’aiuto di Zheng Zhilong per concentrare le energie difensive ai confini settentrionali della
Cina. I Ming – ormai completamente dipendenti dalle forze dei Zheng per il controllo del Fujian e delle
attività marittime delle coste meridionali, nel 1640 lo nominano Comandante Militare del Fujian, tutte le
forze armate della regione passano così sotto al suo comando, rafforzando ancora di più il suo potere e
prestigio. Inoltre, questo consentì a Zheng di inserire negli alti ranghi dell’esercito numerosi membri del suo
clan familiare assicurandosi così un controllo sempre più capillare della regione, anche dal punto di vista
militare.

All’indomani della conquista di Pechino, le autorità militari del Fujian furono dislocate nei punti nevralgici
per la difesa dei territori meridionali e affiancati alle altre unità degli eserciti Ming. Dopo la resa di
Nanchino, avvenuta l’8 giugno del 1645, e la fine della corte di Hongguang (1644-5, principe Fu), nel luglio
del 1645, il principe Tang (Zhu Yujian) assunse la reggenza, e fu il fratello di Zhilong, il generale Zheng
Hongkui, a scortarlo nel Fujian. Salì al trono con il titolo di Longwu (1645-6), stabilendo la capitale
provvisoria a Fuzhou. In un primo momento i rapporti tra Zheng e Longwu furono dei migliori, l’imperatore
si sentiva fiducioso e rassicurato nel riceverne l’appoggio politico, militare, economico. Dopo avergli
conferito titoli ed onorificenze, stabilì con questi un rapporto meno formale, assegnandogli di fatto in via
ufficiosa il controllo del nuovo governo. Longwu era ansioso di avere notizie sull’avanzata dei mancesi, ben
difficili da ottenere per la posizione decentrale in cui si trovava. La spedizione continuava a tardare perché
le truppe di Zheng Zhilong erano addestrate al combattimento navale e non per terra pertanto avevano
bisogno di una preparazione, ma di fatto non aveva alcuna intenzione di sprecare forze per una causa che
non gli dava alcun vantaggio e gli avrebbe portato solo oneri – inoltre, forse era già in contatto con il
nemico. Questo temporeggiamento suscita in Longwu un senso di diffidenza, che incrinò inevitabilmente i
rapporti tra i due. Di natura ben diversa fu il rapporto d’amicizia tra Longwu e il giovane Zheng Sen.
Interrotti gli studi a Nanchino per i gravi avvenimenti in corso, Sen decide di affiancare il padre nella lotta
contro i mancesi ed entra a far parte dei ranghi militari, così da entrare in contato con l’imperatore
personalmente più volte. Ed è proprio in una di queste occasioni che l’imperatore gli conferisce il cognome
imperiale Zhu, che gli sarebbe valso l’appellativo di Guoxingye “Signore dal cognome imperiale”,
traslitterato nelle lingue europee come Coxinga e in Giappone come Kokusen’ya. Longwu diede a Zheng
Sen il cognome del fondatore della dinastia Ming, Hongwu (Zhu Yuanchang) e ne mutò il nome in
Chenggong “successo”, alla pari di un membro della famiglia reale.

Nel marzo del 1646, Longwu sia per motivi di prudenza sia forse stanco della lunga dipendenza da Zheng
Zhilong, si mosse, trasferendo la Corte a Yanping (sempre nel Fujian), nel frattempo gli eserciti mancesi
continuavano a penetrare gradualmente il meridione della Cina. L’imperatore continua a voler lanciare una
spedizione militare contro le truppe dei Qing, e deluso dal passivo atteggiamento dei Zheng (eccetto per
Chenggong) si decide a muoversi, congiungendosi ad altre truppe lealiste. Tuttavia, Longwu fu catturato a
Tingzhou e messo a morte il 6 ottobre dello stesso anno, il 21 novembre successivo Zhilong accettava la
resa ai mancesi: con promessa la nomina di vice-sovrintendente ufficiale del Fujian e Guangdong. SI
consegnò ai mancesi e fu condotto a Pechino con il pretesto di un colloquio personale con l’imperatore
Qing, ma da Pechino non fece più ritorno: i Qing volevano tenerlo in ostaggio per ricondurre all’ordine
l’intero clan di Zheng. Per i Qing, l’esistenza di un centro di potere nel sud della Cina, che per giunta traeva
il suo sostentamento da traffici e commerci marittimi, rappresentava una minaccia all’attestazione stessa
della dinastia. Al contrario, per i Ming era stata vantaggiosa (maggior stabilità e maggior potenziale bellico).

ZHENG CHENGGONG
Il crollo del regime di Longwu aveva creato ulteriore scompiglio tra i membri della casa imperiale, che
continuavano ad opporsi alle avanzate mancesi sprecando forze belliche per scontri interni, che avevano
come unico risultato il ridurre sempre di più le capacità difensive. Inoltre, i pochi pretendenti al trono
venivano spostati da un paese all’altro per proteggersi dalle milizie incalzanti dei Qing. Ed è forse proprio
con la scomparsa di Longwu, che sembrava possedere le capacità e l’autorità per esercitare la sovranità,
che svanisce l’eventualità di una restaurazione Ming. I principi Ming ancora invita erano, infatti, occupati a
salvare loro stessi piuttosto che l’impero vagando nelle regioni meridionali della Cina e completamente in
balia del volere dei loro protettori di turno. Questo, ad esempio, è il caso del reggente Lu (Zhu Yihai),
ritrovatosi nelle piccole isole di Zhoushan sin quando le truppe di Zheng Cai non lo rilevano per portarlo in
una base più sicura – nel dicembre 1646 Lu giunge a Xiamen, e pur accettando la presenza del principe
imperiale Ming, Zheng Chenggong rifiuta di riconoscerne la legittimità, a causa delle precedenti dispute tra
la Corte del reggente Lu e la Corte di Longwu - Longwu aveva più diritto al trono per genealogia ed età e
aveva chiesto più volte al nipote principe di Lu di rinunciare alle sue pretese al trono ed allearsi riunificando
le corti, invano: questo è uno dei sintomi del crescente antagonismo che oppone Zheng Chenggong a Zheng
Cai per il comando dell’organizzazione.

Zheng Chenggong aveva cominciato ad addestrare le sue truppe già dagli inizi del 1646, aumentando così il
numero dei suoi soldati. Sotto le direttive di Zheng Cai, nel 1647 lanciano un’offensiva contro i Qing a
Zhangzhou e Guangzhou (entrambe nel Fujian). Tuttavia, i Qing non fanno attendere una risposta e mentre
le milizie dei Zheng sono impegnate su più fronti lanciarono un raid a sorpresa alla base di Anping e
nell’anno seguente (1648) i Qing si ripresero le postazioni perse.

Intanto Chenggong continua ad accrescere il proprio potere militare e la sua influenza nell’organizzazione
dei Zheng e tra il 1648 e il 1649, mentre i Qing avanzano nel Fujian, li si sposta nel Guandong, dove regna il
caos più assoluto e dove il popolo non patteggia per nessuna delle fazioni, né Ming, né Qing: era un luogo
perfetto per reclutare nuove milizie. Quando tornò a Xiamen nel 1650 nessuno era più in grado di
contestargli il comando, e rafforzò ulteriormente il suo potere guidando personalmente una campagna
militare in auto della Corte di Yongli, diventando così man mano il simbolo della ribellione anti-mancese.
Nel 1652 Zheng Chenggong si trovò dunque a capo della potente organizzazione dei Zheng ed aveva
l’appoggio da gruppi di diverse classi sociali. In un contesto di indecisione e temporeggiamento la forte
personalità di Chenggong, noto per la sua volontà ferma, il suo carattere autoritaria e il rigore morale, lo
rendono uno dei pochi, se non l’unico, in grado di accentrare attorno a sé le restanti forze anti-mancesi,
costruendo così un potente esercito ai suoi ordini. Inoltre, non dovendo dipendere da altri per il
mantenimento dei suoi uomini, Chenggong rende sempre più numerosi i suoi eserciti, raccogliendo
adesioni di ogni sorta di individuo (ex-militari, banditi, letterati, aristocrazia terriera). Egli non dimentica poi
di riscuotere tra i suoi sostenitori prove tangibili della loro partecipazione: nelle zone sotto la sua
“giurisdizione”, estrae regolarmente tasse regionali (zhengxiang), donazioni (zhuxiang), offerte volontarie
(leshu). Per contro non consente mai che avvengano episodi di scorrerie o saccheggi ad opera dei suoi
uomini ed ogni atto di violenza nei confronti della popolazione è severamente punito.
Inoltre, altri due elementi concorsero al rafforzare il suo potere:

• La sua totale autonomia, non solo in senso economico, ma anche rispetto alle autorità. Infatti, anche se
accettò formalmente la sovranità di Yongli e intervenne a suo favore nel 1651, di fatto non ospitando la
Corte nei suoi territori egli non subiva alcuna interferenza dalla corte e soprattutto rimaneva estranei a
fazionalismi e dispute interne. Nell’organizzazione di Zheng Chenggong la struttura era unicamente di
carattere militare e nessun incarico era rivestito con particolari privilegi. Non vi erano favoritismi, e ciò
valeva anche per gli stessi membri della famiglia Zheng. Il risultato fu un organismo militare estremamente
efficiente in quanto struttura burocratica e perfettamente addestrato dal punto di vista bellico.

• Il secondo elemento consiste nella debolezza dell’avversario in quel contesto geografico. I litorali cinesi e
più in generale le regioni costiere del meridione, sia per la distanza che per la problematica conformazione
naturale, avevano da sempre comportato per le autorità centrali notevoli difficoltà di controllo e gestione,
le stesse difficoltà che per contro avevano favorito il sorgere del mercantilismo cinese, nonché della stessa
organizzazione dei Zheng. Queste difficoltà riguardarono ancor più i mancesi, che avevano una quasi
inesistenze esperienza nei mari. I Qing non sapevano come raggiungete le coste: una volta giunte in Fujian,
le stanche milizie dei Qing hanno di fronte le montagne che separano il Minnan dall’area settentrionale
della regione. Che si decida di attaccare immediatamente le guarnigioni avversarie poste a guardia dei
valichi, che si scelga di riprendere le forze prima di proseguire, i mancesi muovono da una posizione di
svantaggio – nell’assalto immediato avrebbero goduto del fattore sorpresa, ma le truppe avrebbero
combattuto al minimo delle loro capacità; viceversa, l’attesa avrebbe ristorato gli uomini, ma consentito al
nemico di organizzare la difesa. Ancora, una volta giunti ai litorali, si sarebbe rivelato non poco arduo
mantenere le postazioni conquistate. Concludendo, il sud del Fujian, tagliato fuori dai monti che lo
delimitano, è di difficile accesso e non ha risorse alimentari sufficienti al fabbisogno locale, tanto meno per
il mantenimento di milizie supplementari (non a caso i “Minnanren” avevano cercato nei mari altri mezzi di
sussistenza). Lasciare sguarnite le postazioni appena conquistate significava restituirle al nemico, ed
inseguire quest’ultimo significava affrontare scontri lacustri e battaglie navali – la vittoria era improbabile. I
Qing scelgono così la tattica del patteggiamento, prendendo tempo.

«FU MING DA QING»


In una prima fase i Qing ritennero possibile avvalersi di trattative diplomatiche per indurre Zheng
Chenggong alla sottomissione e nella speranza di evitare il lungo scontro frontale. Chenggong, per contro,
cercò di trarre dai negozianti con i Qing il maggior vantaggio possibile, assumendo posizioni ambigue e
contraddittore, al fine di prolungare il più possibile le trattative: ciò significava guadagnare tempo ed avere
così la possibilità di rafforzare le proprie posizioni ed organizzare attacchi congiunti.

Sul finire del 1652, l’imperatore Qing fece pervenire a Zheng Chenggong una missiva di Zhilong nella quale
cercava di intercedere presso il figlio per una pacifica resa ai mancesi, lasciando comprendere la costante
minaccia sulla sua vita e su quella degli altri familiari che si trovavano a Pechino. Inoltre, l’imperatore offre
a Chenggong la giurisdizione di Haicheng in cambio della sottomissione. Zheng Chenggong conosceva bene i
suoi punti di forza e le debolezze dell’avversario, cerca perciò di alzare il prezzo con altre tre provincie
(Fujian, Zhejiang e Guangdong), ovviamente era impensabile che i mancesi accettassero; infatti, la trattativa
fu fatta col solo scopo di temporeggiare. I mancesi fecero seguire una seconda offerta: vennero aggiunte
tre prefetture e accettarono che le truppe mancesi liberassero il Fujian dalle loro postazioni, lasciando a
Chenggong il completo controllo della regione.
Chenggong approfittò del tempo guadagnato e si insediò nell’intera area costiera delle due prefetture di
Zhangzhou e Quanzhou, al contempo contatta il generale Zhang Mingzhen perché attacchi con una grande
campagna militare la zona del delta dello Yangzi, per bloccare i traffici del Grande Canale, cercando di
prendere quante più postazioni e insediamenti possibili.

Inoltre, contatta anche il generale Li Dingguo e la Corte di Yongli e coordina un simultaneo assalto delle loro
milizie da occidente, per cercare di penetrare anche i territori dell’entroterra. Formalmente però,
Chenggong continua le negoziazioni con i Qing.

Organizza due incontri con i Qing, in un primo nel 1654 giunsero solo alcuni emissari al cospetto dei Qing
che rimasero delusi; fu successivamente organizzato un secondo incontro in cui Zheng Chenggong accoglie,
vicino alla base di Zheng ad Anping, gli ospiti con splendida ospitalità, tuttavia, continua a reclinare
l’investitura, aumentando sempre di più le pretese. A questo punto le autorità mancesi cominciarono a
rendersi conto del gioco condotto da Chenggong. Zheng Zhilong a Pechino chiese nuovamente indulgenza
presso la corte mancese per concedere un ulteriore possibilità, l’incontro fu stabilito per l’ottobre del 1654
ad Anping. Le trattative fallirono, e nell’anno seguente i Qing posero Jidu a capo di una spedizione contro
Chenggong. Quest’ultimo però godeva dell’appoggio del popolo, che pagava le tasse e forniva il suo
appoggio. Inoltre, Chenggong era uscito notevolmente rinforzato da questi ultimi anni di trattative, e
intorno a lui si raccoglie un vero e proprio movimento politico per la restaurazione dei Ming. Chenggong
decise anche di mutare il nome di Xiamen in Simingzhou “Prefettura in onere dei Ming”, eleggendola
capitale dei territori riconquistati in nome della dinastia. Tra l’estate e l’autunno del 1655 Chenggong fa
evacuare la città di Xiamen e tutta la zona circostante per delimitare l’area dello scontro e proteggere la
popolazione e i beni. Le truppe di Jidu giungono nel Fujian esauste, e così l’attacco viene sferrato all’isola di
Jinmen – dove Chenggong si era ritirato in assetto di difesa - solo nel maggio seguente nel 1656. Lo scontro
navale è interrotto da una violenta tempesta, che termina con la totale disfatta dei Qing. Questo perché la
flotta dei Qing era composta da ex funzionari Ming passati dall’altra parte che si erano da sempre
disinteressati della situazione marittima, perciò, erano impreparati anche sul piano offensivo. Intanto
Zheng Chenggong prepara la controffensiva.

LA BATTAGLIA DI NACHINO
Sin dall’inizio delle sue campagne militari verso i territori più interni, Zheng Chenggong aveva come
obiettivo la conquista di Nanchino: un vittorioso assalto al cuore della Cina centro-meridionale avrebbe
seriamente inficiato l’attestazione mancese (non ancora conclusasi) attirando le forze lealiste Ming,
facendo emergere pienamente i potenziali elementi di resistenza anti-Qing ancora esistenti.

La spedizione partì il 29 giugno del 1659 e raggiunse Ningpo dove furono reclutate nuove forze. La presa di
Ningpo era importante, perché preparava la via ad una eventuale ritirata. Chenggong giunse alla foce dello
Yangzijiang il 7 luglio, rimanendovi fino a fine mese, non lanciò attacchi ai centri abitati, piuttosto cercò di
ottenere informazioni sulle postazioni mancesi e di conoscere meglio la topografia di quei luoghi che gli
erano pressoché sconosciute. Mette perciò alla guida della spedizione Zheng Huangyan, che aveva già
avuto esperienze militari lì nelle milizie di Zhang Mingzhen (da poco deceduto). Rimase in questa zona per 3
settimane perdendo tempo prezioso. Chenggong catturava Guanzhou il 4 agosto e dopo uno scontro
violento conquistava Zhenjiang, che dichiara la resa il 10 agosto. A questo punto però Chenggong
commette il primo errore: a causa dei venti sfavorevoli, continuare a risalire lo Yangzi comportava ulteriori
rallentamenti. Dopo due settimane di navigazione, le flotte di Zheng arrivarono a Nanchino. Ma, ancora
Chenggong temporeggiò, ponendo in stato d’assedio la città in attesa della resa, senza sferrare l’attacco:
ciò consentì ai Qing di far arrivare altre truppe, Zheng Chenggong riponeva forse troppa fiducia nella
superiorità numerica delle sue milizie (la fanteria impiegata in assedio è di circa 85.000 unità, a cui vanno
aggiunti gli uomini delle flotte e quelli lasciati a guardia delle città conquistate) e non temeva il fatto che
altre milizie mancesi sopraggiungessero a difesa della città. Oppure attendeva semplicemente che
Nanchino cedesse all’assedio. L’attesa innervosì le truppe e allo stesso tempo ne indebolì la compagine
d’urto. Inoltre, lasciò ai mancesi la possibilità di attaccare per primi. L’8 settembre, i Qing lanciarono un
fulmineo raid a sorpresa, che costrinse Zheng Chenggong a muovere le truppe durante la notte. I mancesi
ingaggiavano piena battaglia cogliendo impreparati gli uomini di Zheng. Attaccarono ed incendiarono molte
delle imbarcazioni per bloccare la ritirata. Questo diffuse il panico tra i soldati. Inoltre, questi erano uomini
di mare, quindi non tanto bravi in terra quanto nelle battaglie per mare. Le milizie di Zheng furono sconfitte
in un solo giorno e le perdite furono enormi. Chenggong si ritira a Zhenjiang con le truppe superstiti, dove
gli giunse un messaggio di Zhang Huangyan, bloccato a Digang, che lo esortava a resistere nella città. Però
Chenggong era consapevole che presto i mancesi avrebbero attaccato il Fujian, e in particolare la base di
Xiamen, per questo iniziò immediatamente ad organizzare le difese.

La Corte di Pechino aveva già dato il via ad un’imponente spedizione militare d’inviare nel Fujian al
domando di Dasu con l’intento di distruggere la base di Zheng. Dasu arriva a Fuzhou nel febbraio 1660 e
inizia i preparativi per l’assalto, raccogliendo da tre provincie (Guangdong, Fujian Zhejiang) la flotta della
marina imperiale Qing e ponendola ai suoi ordini. A Xiamen Chenggong dispone ancora di un potenziale
navale di circa 2000 navi, e richiama inoltre tutte le numerose imbarcazioni che erano fuori per i traffici
mercantili. Nella prima metà di giugno Dasu sferrò l’attacco su due fronti, a nord e a ovest di Xiamen, ma fu
annientato. Senza pietà, Zheng Chenggong fece annegare gran parte dei soldati nemici catturati; la
sconfitta mancese fu così totale e umiliante che Dasu si tolse la vita. La vittoria conseguita da Zheng
Chenggong gli diede una piccola tregua per riorganizzare le sue basi di Xiamen e Jinmen: i Qing avevano
sottomesso l’intera Cina. Non poteva aspettarsi aiuti di nessun genere, ma anche che i Qing avrebbero
concentrato i loro sforzi esclusivamente sul Fujian e le sue basi di, Xiamen e Jinmen non avrebbero potuto
resistere a lungo agli incalzanti attacchi dei mancesi. AI primi di febbraio del 1661, Zheng Chenggong riunì i
suoi generali ed espose loro le motivazioni che rendevano necessaria una ritirata strategica a Taiwan.
CAPITOLO IX

UN MUTATO SCACCHIERE MARITTIMO

QIANJIELING: LO SGOMBERO DELLE COSTE

L’incessante e prolungata offensiva ai mancesi condotta da Zheng Chenggong, necessitava comunque di un


costante flusso di entrate da cui trarre i finanziamenti; perciò, non dimenticò né trascurò l’aspetto
mercantile della sua organizzazione, consapevole del fatto che questo elemento gli forniva la forza militare
e politica tale da potersi opporre all’aggressione mancese. Chenggong quindi conduce una strategia
economica che valorizza al massimo le potenzialità della struttura ai suoi ordini, resa omogenea ed
efficiente anche grazie alla connotazione militare. Ciò però, non significa che gli uomini delle sue flotte
obbediscano alle direttive ricevute senza trarre profitti personali, al contrario, pur essendo appartenenti
alle milizie, dispongono di capitali propri e sono partecipi in prima persona dei traffici realizzati – questi
uomini, infatti, sono sia militari che mercanti. Accanto ai profitti ricavati dai commerci marittimi condotti
dalle navi di proprietà della famiglia e da quelle dei suoi uomini, non va dimenticato che i Zheng gestiscono
indirettamente quasi l’intero flusso dei commerci cinesi - anche i mercanti “indipendenti” si riconoscono
nell’organizzazione e si adeguano alle scelte economiche di Chenggong. Inoltre, Chenggong controllava
anche l’accesso al continente dei traffici internazionali: ogni mercantile in transito veniva tassato, e,
ovviamente, tutto ciò infastidiva non poco gli europei, soprattutto gli olandesi, costretti a subire questa
implicita sottomissione. Inoltre, la sua potenza economica veniva rafforzata anche dalla collaborazione dei
mercanti cinesi d’oltremare i quali, non riconoscevano l’autorità dei mancesi e il dominio europeo. Infatti,
queste comunità d’oltremare erano state abbandonate a sé stesse dall’indifferenza dei Ming, sfruttati come
mano d’opera, costretti a subire e rispettare leggi del tutto estranei, massacrati se si ribellavano, il loro
unico punto di riferimento era Zheng. In più di un’occasione rivolsero appelli e richieste d’intervento
militare a Zheng Chenggong.

I Qing, rendendosi conto del peso di Chenggong, già nel 1652 emettono un primo ordine di sgombero,
facendo evacuare i centri di Ningpo, Wenzhou, Taizhou e il 6 agosto del 1656 fu emesso il primo editto di
proibizione alla navigazione (immediatamente dopo la disfatta di Jidu), ma il provvedimento non ebbe
l’effetto desiderato. Di fatto la zona costiera e quella circostante basava la sua economia sul commercio e
Zheng era il loro interlocutore. Il decreto, pur cercando di colpire le vie di approvvigionamento di
Chenggong, finisce per abbattersi pesantemente sull’economia locale, sottraendo un importante mezzo di
sussistenza, il risultato fu che le schiere di Zheng crebbero, perché molti passarono definitivamente dalla
sua parte. Inoltre, proprio nel 1656 Chenggong diede inizio alle sue campagne militari d’attacco,
indebolendo ulteriormente il controllo dei Qing sulle coste e rendendo impossibile la concreta attuazione
del provvedimento. I mancesi cominciarono a stringere economicamente anche le postazioni di Chenggong:
nel 1660 fecero evacuare 88 isole prospicienti il Fujian, rafforzarono le coste e posero avamposti militari in
13 porti, collocando fortini e torri di controllo ad intervalli lungo i litorali. L’obiettivo era isolare le basi dei
Zheng e annullare le capacità difensive e di resistenza. Infine, nell’agosto del 1661, un anno dopo la fine
della battaglia di Nanchino, i Qing emanarono il decreto di sgombero delle coste (qianjieling) facendo
retrocedere la popolazione di miglia e miglia nell’interno, inviando una speciale commissione dalla capitale
per controllare che lo sgombero fosse eseguito e interi villaggi sono dati alle fiamme.

Alcuni mesi dopo, il 6 febbraio 1662, non a caso pochi giorni dopo la capitolazione di Forte Zelandia, la
corte emanò il secondo editto di proibizione della navigazione, distruggendo l’economia locale e causando
incalcolabili vittime. Questi provvedimenti avevano come unico fine quello di isolare completamente le basi
di Chenggong, sia quelle di Xiamen e Jinmen, sia quella di Taiwan. Ciò nonostante, Chenggong continua a
dirigere con abilità il mercantilismo cinese e a fronteggiare l’espansionismo europeo.

LE STRATEGIE ECONOMICHE DI ZHENG CHEGGONG


Con la sua organizzazione Chenggong si trovò a gestire traffici e commerci che si diramavano nell’intero Sud
Est Asiatico, interessando gli insediamenti cinesi e le postazioni europee affiancatesi ai primi. Nelle loro basi
in Estremo Oriente gli europei devono provvedere al mantenimento degli insediamenti con i proventi dei
commerci marittimi, e sempre da questi ricavare i profitti da mandare in Europa. Spesso però i traffici con i
cinesi sono essenziali anche per il rifornimento di generi di prima necessità. L’interrompersi dei commerci
non li privò soltanto di cospicui guadagni, ma causò anche seri problemi di approvvigionamento. All’incirca
nel 1656 il Governatore Generale di Manila, Don Sabiniano Manrique de Lara, inviò un’ambasceria a
Xiamen al fine di stabilire un accordo commerciale con Chenggong e con l’ordine di contattare il Padre
dominicano Vittorio Ricci, che ebbe un ruolo importante in qualità di diplomatico ed ambasciatore – poteri
dei quali fu investito sia da Coxinga che dalle autorità spagnole.

Le autorità spagnole erano estremamente preoccupate dal notevole calo degli arrivi dei mercanti cinesi, in
quanto dovevamo il rifornimento di qualsiasi genere di necessità al commercio cinese. Soprattutto s
paragonate ai decenni precedenti – se dal 1631 al 1640 erano giunte a Manila 325 navi provenienti dalla
Cina (età d’oro di Zheng Zhilong), già dal 1641 al 1650 il numero era sceso a 162 (decennio della conquista
mancese, Zheng impegnati negli scontri militari), arrivando al decennio 1651-1660 ad un ulteriore calo, con
68 navi approdate a Manila (Chenggong chiama più volte a raccolta la flotta per intensificare l’offensiva ai
mancesi). Addirittura, nel 1657 erano giunte a Manila solo due navi cinesi. Questo però avviene anche
perché i mercantili di Zheng erano contemporaneamente anche navi da guerra, e quindi venivano
richiamati all’occorrenza in continente e impiegati nei combattimenti. Ovviamente, Chenggong aveva
bisogno del commercio e di realizzare dei profitti, perché il commercio era di prima necessità per armare e
finanziare i suoi eserciti. Qualunque fossero le motivazioni reali dell’interruzione dei commerci con Manila,
le autorità spagnole inviano un’ambasceria a Xiamen per chiedere a Chenggong di stabilire accordi
commerciali con la postazione spagnola. Zheng aveva un ruolo centrale in materia internazionale,
soprattutto in seguito all’embargo posto su formosa nel 1654-55, che aveva origine in un evento
precedente: sin dal suo insediamento, la VOC aveva dato vita ad un sistema amministrativo di tassazione
che colpiva tutte le comunità risiedenti nell’isola, comprese anche i nativi cinesi e giapponesi (questi ultimi
fino al 1628). Nel corso degli anni, man mano che le tasse aumentavano, aumentava anche il malcontento e
la tensione tra i cinesi e gli olandesi. La sera del 7 settembre del 1652 nella comunità cinese venne
preparato un sontuoso banchetto che aveva come ospiti i membri principali della VOC: è l’occasione per la
rivolta. I ribelli sono però traditi da alcuni ricchi cinesi, preoccupati di perdere i loro beni, che avvertono il
Governatore di Formosa, Nicolaes Verburch (dal 1650 al 1653) e la sommossa è sventata dopo 2 settimane
di violenti combattimenti, che causano la morte o cattura di 4000 uomini e 5000 donne fra i cinesi – le
perdite olandese sono solo due. La rivolta, capeggiata da Guo Huayi, è stata più volte messa in relazione
con Chenggong per i rapporti tra le loro famiglie. Già nel 1646 la VOC paventava un attacco alla base di
Zheng ed in seguito alla ribellione, aumentarono le difese sull’isola e Zheng rispose con l’embargo.
UN’ASPRA RIVALITÀ: I ZHENG E LA V.O.C.
La VOC e l’organizzazione mercantilistica di Zheng si ritrovavano l’una contro l’altra e i loro scontri avevano
ripercussioni su tutti gli scali estremo orientali. Nella base di Batavia, ad esempio, la V.O.C. aveva il
monopolio sul commercio marittimo (1652) e impedisce così ai cinesi della comunità locale di svolgere
questa attività. Nonostante questo divieto, sia nel 1654 che nel 1655, giunse a Batavia una flotta di 8 navi
dal Fujian, tutte appartenenti a Zheng Chenggong, del tutto indifferente alle imposizioni olandesi, delle
quali non riconosceva l’autorità. Di nuovo, negli stessi anni, quando la VOC decide di dirottare l’arrivo delle
navi cinesi da Malacca a Batavia (per strategie interne), la risposta di Chenggong al Governatore olandese
Jian Thijssen Payart è che non comprende la negazione d’accesso a Malacca, visto che questa, come Batavia
e Taiwan, appartiene ad un unico Paese: parallelamente invia suoi mercantili nel Siam, a Ligor, Sangora,
Patani, Johore e si rifornisce delle mercanzie desiderate, scavalcando la mediazione della Compagnia. Gli
olandesi dal canto loro trovano inammissibile il doversi piegare al volere dello scomodo “Groot Mandorijn
Cocxsinja”, ma sono costretti a far buon viso a cattivo gioco (prendendosi talvolta rivincite cercando di
attaccare/affondare/depredare i navigli di Chenggong, che puntualmente chiedeva un risarcimento danni).
Il Governatore Generale della Compagnia Riunita, Joan Maetsuycker (governatore dal 1653 al 1678), che
risiede a Batavia, scrive a Chenggong in risposta l’8 giugno 1658 dicendo che le sue pretese sono “audaci” e
che se nelle volte precedenti hanno pagato non è “perché fossimo debitori, ma al fine di non offendere
Vostra Altezza”, procedendo poi nel dire che presunti danni a giunche sono stati risarciti; quindi, non si
spiega il per ché della chiusura dei porti e del proibizionismo di commerciare a Taiwan per i cinesi. Giustifica
per questo comportamento la cattura di vascelli e giunche sotto la giurisdizione dei Zheng, scusandosi
“poiché Vostra Altezza ha nel frattempo riaperto i porti”. Il tono del Governatore Generale Maetsuycker
rivela in parte l’esasperazione cui giungono i membri della VOC dinnanzi ad un avversario che non si può
sottomettere Né ignorare. Inoltre, come si è accennato, già da oltre un decennio la Compagnia temeva un
attacco di Chenggong alla postazione di Taiwan, timore ogni giorno più forte. Da un punto di vista
strategico poi Taiwan poteva costituire un ottimo rifugio per le truppe di Zheng, se costretto alla ritirata,
senza tener conto della forte ostilità tra VOC e Zheng – si tratta di timori fondati: il conflitto economico che
inizialmente si svolge negli scali e nei mari del SEA diviene un vero e proprio “duello” in territorio
giapponese.

GUERRA DI MERCATO IN GIAPPONE


Il Giappone dipendeva dal commercio cinese per importazione e vendita di sete (grezze e lavorate) prodotti
medicinali e generi d’arte ed artigianato; in cambio esportava l’argento in grosse quantità. Ciò comportò un
costante impoverimento delle finanze nazionali, che costrinse il Giappone a prendere misure cautelative ai
traffici d’oltremare. Questi scambi avvenivano sia per mezzi ufficiali che non ufficiali, come il contrabbando
o transazioni private, scambi al dettaglio non denunciati. Ovviamente, questi canali non ufficiali sfuggono a
qualsiasi controllo e tassazione, e quindi computazione nei registri ufficiali.

Nonostante la politica difensiva, il Giappone non poteva privarsi di tale necessità. Permettendo sia a cinesi
che olandesi l’accesso a Nagasaki, poneva nel suo territorio due poteri in conflitto e ovviamente dovette
subirne i conflitti. Infatti, le due potenze importano gli stessi materiali, essenzialmente sete, e nei primi
decenni gli Zheng ebbero la supremazia, favorita dal Bakufu stesso, che guarda con meno diffidenza al
mercantilismo cinese rispetto a quello olandese: non a caso relega la VOC a Deshima, concedendo così agli
interpreti cinesi - responsabili di goni rapporto commerciale, civile e penale tra la comunità cinese e le
autorità giapponesi, un raggio d’azione molto più ampio di quello dato agli interpreti di olandese, gli unici
con accesso a Deshima e sottoposti ad un rigido controllo. Nonostante la posizione di privilegio, Zheng
Chenggong non trascurò di mettere in atto anche in Giappone sferzanti strategie di mercato (ad esempio,
per ogni merce importata le autorità assegnano un prezzo fisso, imponendone il rispetto per 6 mesi – la
scadenza coincide solitamente con inizio autunno o primavera, al periodico approdo dei mercantili cinesi;
se quindi i cinesi si astengono dall’immettere in Giappone seta grezza o ne introducono quantità irrisorie, il
prezzo sale notevolmente; una volta salito, i mercantili cinesi invadono il mercato con grosse quantità di
seta grezza, costringendo gli acquirenti giapponesi a comprarla ad un prezzo decisamente più alto). Se
Chenggong, controllando l’80% delle imbarcazioni cinesi, sfrutta a suo vantaggio la forte influenza
sull’economia giapponese, come sull’intera rete di traffici marittimi del Sud Est Asiatico. La VOC cerca di
trarre vantaggio dall’esclusiva ottenuta in territorio giapponese in qualità di unica presenza europea, ma
abbiamo visto che il flusso dei suoi traffici è nettamente inferiore a quello dei cinesi. Accanto a questo
fattore va poi considerato che gran parte delle basi di rifornimento cui gli olandesi attingono rientra nella
sfera di controllo dei Zheng – per questo motivo, oltre che per la consueta tattica di disturbo, in più
occasioni gli olandesi assalgono e derubano i navigli cinesi anche vicini alle coste del Giappone (come già
facevano nei mari di Taiwan e del SEA). Il governo Tokugawa proibisce tali comportamenti e attribuisce agli
olandesi l’appellativo di “kaizoku”, e quindi nei pressi dei litorali giapponesi la VOC deve astenersi da simili
azioni.

LA RISPOSTA DELL’ARCIPELAGO

L’arcipelago giapponese era stretto in una morsa economica e doveva mantenere un’attenta ed oculata
politica di bilanciamento al fine di non alterare il precario equilibrio economico che si era stabilito a
Nagasaki e dal quale dipendeva il commercio estero ed in parte nazionale del Paese. L’avanzamento delle
truppe dei Qing preoccupavano le autorità, a causa delle precedenti invasioni degli Yuan del (1274-81),
erano però decisi a mantenere un atteggiamento neutrale, almeno in superficie. Gli olandesi invece, pur
conservando inizialmente una certa estraneità, si muovono gradualmente su posizioni favorevoli ai Qing,
mentre i Zheng appoggiano attivamente i Ming. Ben presto anche le autorità di Edo devono prendere
posizione. Nel 1645, un mercante cinese di nome Lin Gao si presentò alle autorità di Nagasaki recando con
sé due missive sottoscritte da Cui Zhi – un ufficiale lealista appartenente alle milizie di Zheng Zhilong,
provenienti da Zhilong, in cui chiedeva l’invio di truppe ed armi in appoggio alle forze Ming. Il bugyō di
Nagasaki, Yamazaki Gonpachiro (1593-1650) trasmise immediatamente le comunicazioni a Edo, dove
Hayashi Razan (1583-1680) tradusse le lettere e le sottopose al terzo shogun, Tokugawa Iemitsu (dal 1622
al 1651). Dopo alcune consultazioni, si decise di rispondere ambiguamente per guadagnare tempo e
respingere l’appello con motivazioni formali: il testo, nel mondo in cui è redatto, non può essere inoltrato
alle autorità supreme di Edo, inoltre, le leggi giapponesi proibiscono l’esportazione di armi. Il primo punto è
un espediente per lasciare aperta la possibilità che altre richieste vengano sottoposte, mentre il secondo è
un limite che lo stesso shogun aveva già violato inviando un contingente militare in Corea nel 1628 (dopo la
prima invasione mancese della penisola nel 1627). Iemitsu vuole prendere tempo ed informazioni: non è
certo che l’aiuto sarebbe arrivato ai Ming, perché Zhilong, ben noto alle autorità dell’arcipelago per i suoi
traffici mercantili ai limiti della legalità, non era certo tra i più degni di fede. Inoltre, non è chiaro a quali
Ming sarebbe eventualmente giunto. Dalle confuse e contraddittorie informazioni che pervengono in
Giappone circa gli eventi cinesi, sembrano emergere più pretendenti al Trono Ming. Iemitsu cerca di
trovare risposta a questi interrogativi mettendo in moto i suoi informatori (i So di Tsushima attraverso la
Corea e gli Shimazu di Satsuma attraverso le Liuqiu).
Tuttavia, nel 1646 è redatta una lettera da Itakura Sonokami ad Itakura Mondonosuke in cui si riporta un
piano segreto di Iemitsu di invasione della Cina. In questa si predispone l’invio di un contingente di 20.000
uomini per “prendere i Grandi Ming” – ne consegue che la spedizione non fosse di supporto ma di offensiva
agli stessi Zheng. Interessante notare come nella missiva, pur essendo il bakufu a conoscenza della
situazione in Cina, non siano citati i Qing - attraverso la penisola coreana i mancesi avrebbero costituito una
continua minaccia per l’arcipelago come avevano fatto i Mongoli nel XIII secolo, anche prima di conquistare
la Cina meridionale. Non sappiamo quali siano stati i veri intenti di Iemitsu, perché il piano non è mai
portato a termine. Poco tempo dopo (autunno 1646) giunge un’altra richiesta d’aiuto tramite un secondo
emissario, Hang Zhengmin – egli ha con sé missive sottoscritte da Zhilong e da Longwu (preparate non
molto prima che Zhilong si accordasse con i mancesi, forse per rassicurare Longwu). Giunta la missiva a Edo,
segue un dibattito, nel quale emergono le seguenti posizioni: Iemitsu ed alcuni rami collaterali dei
Tokugawa sono favorevoli all’intervento militare; la fazione opposta obietta invece che non vi sarebbe stato
alcun tornaconto per il Giappone se non quello di crearsi nemici in più. Mentre il dibattito è in corso, giunge
la notizia della fine del regime di Longwu e della resa di Zhilong ai mancesi: il Giappone non sarebbe
intervenuto.

I Zheng continuano però a lanciare appelli al Giappone - nel 1648 Zheng Cai chiede a Nagasaki di
commerciare erbe medicinali e sete cinesi in cambio di armamenti giapponesi, richiesta accompagnata da
una lettera di Chenggong nella quale questi, mettendo in risalto il sentito legame di appartenenza
all’arcipelago (dovuto ai suoi natali) fa richiesta di decine di migliaia di soldati da opporre ai barbari
mancesi. L’anno seguente, in occasione dell’arrivo di una missione tributaria proveniente dalle Liuqiu,
ancora Zheng Cai fa pressioni sui membri dell’ambasceria affinché le autorità delle isole agissero da
intermediari presso il Giappone ed incoraggiassero l’invio di armi e contingenti militari (tentativo simile a
quello fatto nell’anno precedente, 1648, da Zhou Hezhi presso gli Shimazu di Satsuma – gli appelli al
Giappone non vengono solo dai Zheng, ma da molti sostenitori dei Ming, e sono circa una 20ina tra il 1645
e il 1686). Tra fine dicembre 1651 e gli inizi del 1652 Zheng Chenggong si rivolge nuovamente al Giappone
(siamo nel periodo della sua ascesa al comando dei Zheng e della rinvigorita resistenza dei Ming meridionali
dopo la campagna in aiuto all’imperatore Yongli): se Chenggong si fosse rivelato vittorioso contro i mancesi
un nuovo silenzio del Giappone sarebbe stato troppo rischioso, soprattutto perché Zheng Chenggong
esercita un peso notevole sui commerci esteri dell’arcipelago. In risposta alla richiesta inoltrata quindi,
Chenggong ottiene metalli ed armamenti con i quali potenzia i suoi eserciti, ma nessun soldato giapponese
viene inviato ad affiancare le truppe lealiste. Le risposte delle autorità di Edo sono analoghe anche ai
successivi appelli lanciati dai Zheng (1658 e 1660), così da mantenere un atteggiamento ufficialmente
neutrale e favorire, in via ufficiosa, Zheng Chenggong più che la causa dei Ming.

Il favoreggiamento per Chenggong in persona e non per l’impero Ming è dato anche in altre occasioni:
capita più volte che gli ufficiali giapponesi preposti al controllo dei mercantili in transito nel porto di
Nagasaki rimandino indietro le (rare) imbarcazioni dei cinesi piegatisi ai mancesi (distinguibili dal simbolico
codino), accettando così di fatto solo le navi dei Zheng. La cautela giapponese è volta non solo a non
inimicarsi Ming né Zheng, ma anche l’Olanda: il coinvolgimento diretto nel conflitto in favore dei Ming e al
fianco dei Zheng avrebbe inevitabilmente alterato i rapporti con l’Olanda e quindi comportato, in un
secondo momento, la totale dipendenza dei traffici internazionali dell’arcipelago dalle marinerie cinesi.
Analogamente una rottura dei rapporti coi Zheng avrebbe lasciato il Giappone in balia dei commerci
condotti dalla VOC.
TAIWAN NUOVAMENTE CONTESA: VERSO LA SVOLTA
Con il sopraggiungere degli anni ’50 la Compagnia Riunita si era apertamente schierata con i mancesi e negli
svariati tentativi di apertura forzata dei porti cinesi, costretti a subire l’irritante superiorità marittimo-
commerciale di Chenggong. Gli olandesi videro nella nuova dinastia che si affermava un barlume di
rinnovata speranza per riuscire ad ottenere la tanto agognata apertura della Cina ai commerci. Già nel
marzo 1653 avevano inoltrato ai Qing una prima richiesta di autorizzazione ai commerci e poi nel 1655
inviavano a Canton una missiva che recava il tributo, accompagnata da una missiva del Governatore
Generale Maeysuycker. L’ambasceria fu autorizzata a procedere e nell’agosto del 1656 fu ricevuta
ufficialmente a Pechino: agli olandesi veniva concesso delle missioni tributarie ogni 8 anni, di certo non un
gran successo. L’anno seguente, nel 1657, dopo il tentativo di stipulare un accordo commerciale, la VOC fu
nuovamente costretta a rivolgersi a Zheng Chenggong affinché fosse sospeso l’embargo su Taiwan e si
piegò a versare un contributo annuo alle casse di Chenggong per il ripristino dei rapporti di commercio.
Questo conflitto si arricchiva anche di un’ostilità di natura politica. Nel 1646 gli Olandesi temevano di un
possibile assalto dei Zheng alla loro postazione sull’isola di Taiwan, un timore che cresce in seguito alla
rivolta di Guo Huayi nel 1652 ritenuta fomentata da Zheng Chenggong per l’ostile competizione
commerciale esistente. Il governatore di Taiwan, Frederik Coyett (dal 1656 al 1662), aveva ottime ragioni
per credere nell’imminente attacco di Chenggong, in quanto dopo la presa di Nanchino, i Qing avevano
tagliato il suo approvvigionamento delle basi di Xiamen e Jinmen e Taiwan era a tal punto un rifugio sicuro,
un luogo di cui disporre di rifornimenti, inoltre la collocazione geografica era ottima per continuare a
condurre i traffici marittimi, nonché di lanciare attacchi a sorpresa. Coyett, dunque, richiede aiuti alle
autorità di Batavia. Taiwan era una postazione importante per la VOC, gode infatti di una posizione ideale
per intercettare e disturbare i traffici iberici tra Manila e Macao. Inoltre, può fungere da testa di ponte tra
le basi di Batavia e Deshima,

La presa di Macao era ancora tra gli obiettivi degli olandesi, in modo da eliminare automaticamente
Portogallo e con sé la Spagna. Inoltre, a Macao vi erano importanti fonderie per la costruzione di armi.
Pertanto, secondo Coyett l’attenzione della comunità di Batavia era rivolta al perseguimento di questo fine
piuttosto che al rafforzamento di Taiwan. Tuttavia, non sarebbero mai bastate le difese soprattutto perché
la Compagnia non avrebbe mai concentrato tutto a Taiwan a discapito delle altre postazioni e quindi del
commercio, inoltre la base di Taiwan si era rivelata al di sotto delle aspettative: nessuna sede di raccordo
era stata stabilita sul continente e i traffici olandesi dell’isola sono dipendenti dai Zheng. A seguito delle
insistenti richieste del Governatore di Formosa, comunque il 16 luglio 1660 Jan van der Laan è posto al
comando di una flotta di 12 vascelli e 600 uomini con l’ordine di raggiungere Taiwan per rafforzarne
temporaneamente le difese, e una volta accertatosi dell’assenza di pericoli procedere all’attacco di Macao.
Van der Laan arriva a Taiwan sul finire di settembre, e Coyett, non tranquillo, decide di inviare un messo a
Xiamen con il pretesto di stabilire nuovi accordi commerciali, per cercare di appurare le vere intenzioni di
Chenggong riguardo Formosa: la missione olandese parte il 31 ottobre 1660 per Xiamen. Chenggong
accoglie l’ambasceria con cortesia, esprimendo il suo desiderio di rinnovare il rapporto commerciale con
Taiwan: l’interrompersi dei traffici è da lui giustificato come causato dagli scontri con i mancesi, ma appena
possibile avrebbe inviato nuovamente navi a Formosa. Consegna inoltre ai delegati una lettera per il
Governatore di Taiwan (nella quale cerca di tranquillizzarlo). Sebbene la missiva di Chenggong attesti le sue
amichevoli intenzioni nei confronti della Compagnia, Coyett non si fa ingannare e si oppone alla partenza
delle flotte supplementari, ma gli altri si schierano sulle posizioni di van der Laan (impaziente di partire),
sino a giungere alla compilazione di un esposto favorevole a quest’ultimo da inviare a Batavia. L’esposto
non è spedito, ma il Governatore è costretto ad acconsentire alla partenza di Jan van der Laan e dei suoi
ufficiali per Batavia, riuscendo però a trattenere le milizie: la spedizione per Macao è soppressa, e la
postazione olandese di Taiwan può contare su circa 1200 uomini e 4 navi – la Hector, la ‘s Gravelande, la
VInk, la Maria.
CAPITOLO X

L’ULTIMA SFIDA: LA QUESTIONE DI TAIWAN

L’ESPULSIONE DELLA COMPAGNIA RIUNITA

Numerosi erano gli oppositori per il trasferimento a Taiwan, nonostante fosse l’unica soluzione possibile, in
quanto era considerato un posto selvaggio, inospitale, soprattutto per la presenza di tribù indigene.
Tuttavia, Zheng proseguì col suo piano, avvalendosi delle informazioni dell’interprete He Tingbing, per
cercare di confutare le opinioni contrarie e, nel marzo del 1661, dopo la partenza di Laan, e quindi gran
parte delle imbarcazioni di rinforzo, Chenggong assegna le consegne militari per la spedizione e la flotta –
formata da svariate centinaia di navi e di circa 25.000 uomini, prende il largo il mese successivo, nell’aprile
del 1661, era il momento più adatto per l’assenza dei monsoni, e soprattutto così nessuna nave poteva
viaggiare da Taiwan a Batavia (e quindi informare la VOC).

Tuttavia, Zheng Chenggong commette un errore – dovuto forse alle troppo ottimistiche informazioni
dell’interprete He Tingbing o alla carenza di cereali già sofferta a Xiamen, rifornì la flotta di una provvista
appena sufficiente alla durata del viaggio, perciò è costretto a fermarsi alle Pescadores per fare
rifornimento, ma anche lì le provviste locali erano insufficienti, perciò fu costretto a riprendere il mare
ancora pericolosamente in tempesta per giungere il prima possibile a Taiwan, infatti, tra le contromisure
adottate da Coyett in previsione dell’attacco, c’era stato anche l’ordine di sequestrare tutte le derrate
alimentari cinesi per evitare che il nemico si rifornisse. La situazione degli uomini di Zheng è quindi critica,
ma, nonostante ciò, per i pochi olandesi sull’isola (un migliaio) il solo vedere una flotta così vasta e potente
provoca uno sgomento più che giustificato: il 30 aprile 1661 Zheng appariva sulle coste di Taiwan, inizia la
battaglia ma l’Olanda, delle sue 4 imbarcazioni, solo 2 erano da combattimento. Di queste, la Hector
esplose, la Gravelande e la Vink riuscirono a rientrare e i relativi uomini presero le difese di Forte Provincia,
mentre la Maria salpò diretta per l’Indonesia, alla base di Batavia. Chenggong intanto sbarca a Taiwan e dal
primo maggio assedia i due Forti, il 4 maggio Forte Provincia si arrese, mentre gli olandesi si rifugiarono a
Forte Zelandia.

Appena giunto sull’isola Chenggong provvede alle necessità alimentari degli uomini, e prendendo possesso
di Forte Provincia riesce ad accedere alle scorte di cereali ivi conservate. Sicuro (a torto) che nessuna
notizia dell’assedio potesse giungere a Batavia, non si preoccupa di scacciare gli olandesi dall’unico rifugio
loro rimasto, perché pressanti attacchi avrebbero solo causato perdite tra i suoi, e presto o tardi gli
olandesi avrebbero dovuto cedere. Inoltre, dopo anni di intensi combattimenti contro i mancesi e la
sconfitta di Nanchino, i suoi uomini sono stanchi e demoralizzati. Chenggong decide quindi di volgere
l’attenzione verso il rafforzamento del suo insediamento nell’isola, non trascurando però di premere sugli
olandesi per la resa: il 24 maggio 1661 scrive al Governatore incitandolo alla resa, promettendo di
risparmiare le vite e salvare alcune richieste se immediata, o in caso di resa successiva a “che i miei cannoni
avranno colpito” immediata cessazione del fuoco. Coyett risponde il giorno successivo rifiutando la resa,
consapevole però che l’unica sua speranza è l’arrivo di un aiuto esterno grazie alla fuga della Maria. A
Batavia intanto era già stata preparata una spedizione da inviare a Taiwan, ma con motivi diversi:
influenzate dal vendicativo resoconto di Jan van der Laan, le autorità della VOC avevano sospeso Coyett
dalla sua carica, così come gli altri ufficiali della sede di Taiwan, conferendo una nuova nomina ad
Hermanus Clenk. Il 21 giugno il nuovo Governatore di Formosa lascia Batavia per raggiungere l’isola e
prendere servizio nel suo nuovo incarico: due giorni più tardi la Maria giunge a Batavia e la Direzione della
VOC viene a sapere degli eventi in corso sull’isola – allestisce così una flotta, capitanata da Jacob Caeuw, da
inviare in soccorso agli assediati, che salpa il 5 luglio. Caeuw ha con sé una missiva che annulla gli ordini
precedenti e riconferma Coyett e gli altri ufficiali in servizio. La flotta di soccorso giunge a Taiwan il 12
agosto, con grande stupore di Chenggong, che mette subito a morte molti dei prigionieri catturati. Nei mesi
successivi, tra scontri e pattugliamenti. Le navi di Caeuw rimangono a sostegno della postazione olandese,
ancora in assedio. Il 6 novembre i Qing offrono a Coyett di lanciare un attacco congiunto alle forze di
Chenggong nelle basi di Xiamen e Jinmen e procedere poi per Taiwan. Il 26 dello stesso mese la risposta
affermativa è affidata a Caeuw. Che con alcune delle navi meglio armate doveva andare ad unirsi ai
mancesi: Caeuw pensa bene di dirottare la sua nave nel Siam disertando la missione. Coyett e i suoi
capiscono di non aver più speranza, e l’assedio durava già da 7 mesi: a metà dicembre alcuni soldati
olandesi tradiscono, svelando a Chenggong i punti deboli della fortezza – il 25 gennaio Chenggong lancia un
violento assalto alla postazione, in seguito al quale il Consiglio di Formosa e il Governatore decidono di
trattare la resa. Il 1° febbraio 1662 Forte Zelandia capitola.

L’INSEDIAMENTO DEI ZHENG

Appena trasferitosi a Taiwan con la sua organizzazione, Zheng attuò una riorganizzazione che consentisse
uno stabile insediamento nell’isola, sapendo anche che i mancesi avrebbero tentato in ogni modo di isolare
Xiamen e Jinmen in modo da impedirne gli scambi con il continente: senza le derrate alimentari, non
potevano ovviamente sopravvivere. Essendo a conoscenza di ciò, Zheng diede via ad una politica di
sviluppo dell’agricoltura, impiegando i suoi uomini nel lavoro dei campi, ciò consentì loro di trarre il
necessario per vivere, liberando al contempo la base di Taiwan da qualsiasi legame di dipendenza con il
continente. A tal fine, fin dall’inizio stabilì anche una divisione amministrativa del territorio ed assegnato ai
suoi uomini terre e campi da coltivare inoltre parte dell’attività militare venne indirizzata al controllo del
territorio ed alla bonifica e messa a coltura di nuove aree. Anche a Taiwan, continuò ad usare il calendario
Yongli e a adottare il criterio istituzionale dei Ming; rinominò, inoltre, Forte Provincia in «Capitale orientale
dei Ming» (“Dongdu Mingjing”) e costruì il «Padiglione Imperiale» (Longting) fissando le date per la
celebrazione periodica di riti e cerimonie in onore dei Ming. Diede vita ai tradizionali sei ranghi, riorganizzò
poi ranghi ed incarichi ufficiali. stabilì gli uffici amministrativi. Le milizie subiscono una trasformazione, in
quanto viene prestata più attenzione alla marina anziché alle truppe di terra (come era avvenuto in
continente durante la lotta ai mancesi). Parte dell’attività militare è indirizzata al controllo e la bonifica (e
messa a coltura) del territorio. Viene inoltre stabilito il sistema di esazione fiscale. Sebbene la struttura
della sua organizzazione sia essenzialmente di carattere militare, Chenggong cerca di creare punti di
riferimento culturali, attraverso l’istituzione di un ufficio particolare per gli intellettuali e di una sorta di
accademia per lo studio e la preparazione dei giovani letterati. Riguardo alla struttura economica
dell’organizzazione, questa trae sempre grossi proventi dai traffici e dai commerci d’oltremare: l’attività
mercantilistica, da sempre sostegno primario dei Zheng, non viene affatto abbandonata, ma anch’essa
riorganizzata. Parte delle entrate dei traffici marittimi copre le spese pubbliche (in tal senso i traffici sono di
fatto commerci governativi), mentre parte va alle casse private della famiglia Zheng. Chenggong amministra
direttamente i fondi pubblici, coadiuvato in ciò da funzionari preposti a tale compito. Nell’ambito di queste
attività marittime ufficiali rientrano imprese economiche, politiche e militari, mentre i commerci privati il
cui unico fine è il profitto sono realizzati o gestiti dai membri della famiglia Zheng, nonché da coloro in
possesso di imbarcazioni e capitali propri. Le attività mercantilistiche dei Zheng continuano ad esercitare
enorme influenza nell’ambito dei traffici internazionali dell’Estremo Oriente, e accanto alla ripresa
dell’organizzazione prendono forma ulteriori ambizioni di conquista: nel maggio 1662 parte alla volta delle
Filippine l’ambasceria del padre domenicano Vittorio Ricci, con il compito di comunicare alle autorità
spagnole di Manila le richieste di Chenggong – se non avessero versato un tributo periodico alle casse dei
Zheng, Manila sarebbe stata invasa e gli spagnoli espulsi avrebbero avuto una sorte analoga a quella
olandese. Prima di riuscire a concretizzare i propri obiettivi, Chenggong muore il 23 giugno del 1662.
Nonostante il breve tempo passato a Taiwan, egli è in grado di impostare e realizzare (almeno in una fase
iniziale) essenziali trasformazioni che avrebbero permesso al successore Zheng Jing di operare per un
duraturo insediamento dei Zheng a Taiwan per tutto il ventennio successivo. Per la prima volta nella sua
storia Taiwan conosce una precisa identità ed autonomia, lasciandosi alle spalle lo sgradevole ruolo di
“terra di nessuno”.

Dopo la morte di Chenggong l’organizzazione vive un momento di pericolosa destabilizzazione: le basi di


Xiamen e Jinmen (al comando di Zheng Jing) sono in disagio estremo, mentre la posizione di Taiwan è
ancora in assestamento. Molti membri abbandonano gli Zheng e si schierano con i mancesi, e la crisi è
aggravata da una scissione interna per la designazione del successore. Zheng Jing, primogenito, ha più di
altri diritto alla successione, ma verso la fine della vita del padre i rapporti con lui sono tesi, perché alle
esortazioni di Chenggong ad abbandonare le basi continentali e trasferirsi a Taiwan Zheng Jing oppone un
ostinato rifiuto, proseguendo nella difesa di Xiamen e Jinmen e trattenendo così in Fujian un notevole
numero di uomini (di cui Chenggong aveva bisogno per assicurare l’attestazione su Taiwan). Al momento
del decesso di Chenggong, dunque, alcuni dei suoi alti ufficiali di Taiwan, con il pretesto del diverbio padre-
figlio, disconoscono Zheng Jing e fanno fronte comune attorno a Zheng Miao, quinto figlio di Zhilong. Nel
dicembre 1662 Zheng Jing, radunando al suo comando una potente flotta di sostegno dei generali e degli
ufficiali rimasti al suo fianco, si muove all’attacco di Taiwan, affermandosi quale legittimo successore di
Chenggong. Questa lotta intestina però indebolisce non poco l’organizzazione dei Zheng, aggravando il già
preoccupante flusso di defezioni verso le file nemiche. La situazione peggiora ancora quando i generali
responsabili della difesa delle basi nel Fujian contattano le autorità mancesi per trattare la resa: solo il
tempestivo ritorno di Zheng Jing a Xiamen impedisce che ciò avvenga. I generali sono imprigionati, ma le
defezioni continuano in gran numero.

I Qing non si fanno sfuggire la vantaggiosa occasione che si presenta loro di sferrare un tempestivo attacco
alla provata organizzazione dei Zheng: nell’estate del 1663 concludono un accordo con la VOC nel seguente
autunno, avvalendosi dell’appoggio delle forze navali olandesi, prendono le basi continentali della
resistenza. Il 20 novembre 1663 Zhou Quanbin, al comando delle milizie dei Zheng (del tutto insufficienti in
numero ed armi), al termine dell’impari battaglia accetta la resa, consegnando Xiamen e Jinmen ai mancesi.
L’organizzazione dei Zheng è estromessa dal continente. Per quanto contraddittoria, l’alleanza Qing-VOC è
per entrambe le potenze vincente: obiettivo comune è l’eliminazione dei Zheng (pur se per motivi e fini
diversi), inoltre per gli olandesi l’accordo ha altri vantaggi – nell’immediato la possibilità di riappropriazione
di Taiwan, in generale la possibilità di porsi nei confronti delle autorità mancesi sul piano paritario ed
avanzare poi pretese di rapporti commerciali privilegiati con la Cina, non più come meri tributari. I Qing in
questa prima fase sono disposti a pagare un prezzo alto pur di liberarsi dei Zheng: a conti fatti risulta
preferibile una Taiwan olandese piuttosto che una lealista pro-Ming. La Cina, sia pure nel governo di una
dinastia straniera comincia ad acquisire consapevolezza dell’importanza di Taiwan per la difesa e stabilità
delle regioni costiere.

ANCORA UNO SGUARDO AGLI EQUILIBRI INTERNAZIONALI


Pur avendo perso le basi continentali di Xiamen e Jinmen, Zheng Jing non si arrese e cercò di rafforzare e di
rendere più stabile ed organica l’attestazione dei Zheng nell’isola di Taiwan, seguendo le orme di Zheng
Chenggong, rivolge particolare attenzione allo sviluppo dell’agricoltura, procedendo con bonifiche e
ampliando i confini del territorio dell’insediamento cinese. In questo modo, potevano contare di una
produzione agricola sufficiente in modo da non risentire della perdita di Xiamen e Jinmen. Anche il
commercio marittimo non venne trascurato, e le imbarcazioni dei Zheng ripresero a veleggiare lungo le
rotte mercantili, inoltre, sebbene formalmente estromessi dal Fujian, i Zheng continuano a mantenere
legami e connessioni commerciali con le coste continentali. Non meno abile dei predecessori nel condurre
traffici e commerci, Jing rese evidente che il dominio dei Zheng sui mari dell’Estremo Oriente non fosse
sulla via del tramonto: una nuova ambasceria venne inviata alle autorità spagnole di Manila e ancora una
volta è Vittorio Ricci ad essere portavoce dei Zheng, ma in questo caso è latore di un messaggio di pace. Pur
non accantonando l’idea di invadere la postazione nelle Filippine, Zheng Jing sceglie la via diplomatica della
pacificazione piuttosto che lanciarsi in un’impresa militare che, anche se fosse risultata vittoriosa, sarebbe
stata inopportuna in una situazione ancora delicata: non è il momento di disperdere energie, ma di
concentrarle nel rafforzamento interno e nella ripresa dei traffici marittimi. Zheng Jing sceglieva la via
diplomatica della pacificazione, privilegiando i vantaggi economici che la riapertura dei commerci con la
Spagna comportava. Nuove imbarcazioni, assimilate cognizioni tecniche europee, vennero a rimpiazzare le
navi danneggiate o distrutte negli scontri con i Qing. Grazie alla cura posta nello sviluppo dell’agricoltura e
dell’economia interna, nel giro di qualche anno si riesce a destinare parte della produzione locale al
mercato internazionale (pellami e canna da zucchero, su cui i Zheng hanno l’esclusiva per le importazioni in
Giappone). Un flusso di migrazione dal continente verso Taiwan prende gradualmente forma, a
testimonianza del ristabilimento dell’organizzazione: sul finire degli anni ’60 Zheng Jing riafferma il saldo
predominio dei Zheng nell’ambito dei traffici mercantili internazionali.

Il contesto internazionale era però notevolmente cambiato rispetto alla prima metà del secolo: la presenza
ed importanza dei paesi iberici è in declino, l’Olanda è sovrana fra le presenze europee, ma inizia a
rallentare, mentre si affaccia nuovamente allo scenario estremo orientale l’Inghilterra. Infatti, nell’estate
1670 giunge da Bantam alle coste di Taiwan Ellis Crisp, inviato della Compagnia Inglese delle Indie Orientali
(EIC) per intavolare una trattativa commerciale con Zheng Jing ed aprire gli uffici della Compagnia nell’isola:
l’accordo venne sottoscritto il 10 settembre 1670.

Ma come mai nessuna iniziativa militare era seguita alla vittoria sul continente da parte di Qing e VOC?
Dopo la vittoriosa presa di Xiamen e Jinmen nel 1663 le contraddizioni di fondo esistenti nell’alleanza Qing-
Compagnia Riunita divengono evidenti: le rigide posizioni della Corte mancese riguardo ai commerci con i
paesi stranieri (concepiti solo nell’ambito del sistema tributario) non si conciliano con le ambizioni olandesi.
Anche il diverso modus operandi delle rispettive diplomazie inoltre contribuisce all’insorgere di malintesi e
diffidenze. Ancor più importante il fatto che i mancesi constatano in modo diretto le pericolose capacità
belliche degli olandesi, preoccupandosi di un più stretto coinvolgimento della VOC in questioni interne alla
Cina, e del fatto che queste capacità potevano in altre circostanze essere rivolte contro di loro. A queste
divergenze si aggiungono poi gli intenti diversi: la VOC preme per un attacco a Taiwan nel più breve tempo
possibile (per rientrare in possesso della sua postazione), mentre i Qing preferiscono una graduale e
conciliante politica di “assorbimento” dei sostenitori dei Zheng. I mancesi ritengono di poter guardare alla
questione dei Zheng con meno urgenza, ora che sono estromessi dal territorio propriamente cinese: sono
passati molti anni dalla conquista di Beijing, ed è il momento di dare stabilità alla propria attestazione in
Cina. Di fatto però, i Qing sono presto costretti a rivolgere ancora lo sguardo a Taiwan, direttamente legata
anche alla “Rivolta dei Tre Feudatari” esplosa nel 1647. È il preludio all’annessione formale di Taiwan
all’impero.
DALLA RIBELLIONE DEI TRE FEUDATARI ALLA FORMALE ANNESSIONE DI TAIWAN
Negli anni ’70 Zheng Jing, al comando di un’organizzazione decisamente rinvigorita, passa da una tattica
difensiva ad una di attacco: nel 1670 e nel 1673 assalì le missioni tributarie provenienti dalle Liuqiu e nel
1671 imperversa più volte lungo i litorali del Fujian – queste azioni di disturbo indicano che non riteneva
conclusa la lotta ai mancesi ed era pronto a riprendere le armi. Contatta e si allea con Wu Sangui, il più
potente dei futuri “tre feudatari”, offrendogli uomini e navi da affiancare alle milizie di Wu per una vasta
campagna militare contro i mancesi. Quando, dopo il segnale di rivolta lanciato da Wu Sangui negli ultimi
giorni del dicembre 1673, la ribellione divampa, Jing è pronto a intervenire. La ribellione divampò e
nell’aprile del 1674, Geng Jingzhong, comandante della dinastia Qing, aderì alla sollevazione e nel maggio
seguente le milizie salparono alla volta di Xiamen. Nel biennio 1675-76 la sollevazione coinvolgeva più
regioni della Cina e minacciava seriamente l’attestazione mancese, ma a causa di debolezze insite nella
insolita coalizione la situazione cominciò a cambiare. Mentre Zheng Jing affermava di combattere in nome
della restaurazione dei Ming, Geng Jingzhong e Wu Sangui no, quest’ultimo aveva anche sostenuto
militarmente i Qing sia l’intervento mancese a Pechino nel 1644 sia nella cattura dell’ultimo erede Yongli
nel 1662 in Birmania. L’assenza di una meta comune e la diversità degli intenti e dei fini conseguenti
sfociarono rapidamente in reciproche diffidenze e ostilità, tramutandosi, di fatto, in una separazione: i tre si
ritrovarono a sfidare e combattere i Qing ognuno per proprio conto. I risultati furono, ovviamente, negativi:
Geng Jingzhong si arrendeva ai Qing nel novembre del 1676, Wu Sangui nel 1678 si proclamava imperatore
di una nuova dinastia Zhou, mentre Zheng Jing combatteva in nome dei Ming.

Sebbene la resa di Geng Jingzhong (e quella di molte altre) riducano notevolmente le possibilità di vittoria,
Zheng Jing non demorde, e ancora una volta i Qing sono costretti ad “ospitare” i Zheng lungo le coste del
Fujian. Non appena riconquistò Xiamen, la riaprì ai commerci internazionali e sin dall’inizio la Compagnia
Inglese vi stabilì i suoi uffici (1675). Zheng Jing aveva inoltre offerto un triennio di esenzione dalle tasse sui
traffici a tutti coloro che vi si fossero recati per commercio. Xiamen rifioriva e i proventi ottenuti utilizzati
per finanziare le milizie. I Qing però sono più forti di quanto erano 20 anni prima, e dopo la prima
espulsione dei Zheng nel 1663 realizzano un provvedimento (1665) che rafforza l’interdizione ai commerci
marittimi, proseguendo nella strategia di isolare i Zheng dal continente, non tentando però, di fatto, alcuna
azione offensiva. Negli anni immediatamente successivi, di relativa calma (i Zheng si devono “riprendere”) i
Qing allentano in parte la pressione sulle regioni costiere, anche per riportare il paese ad una situazione di
normalità dopo i numerosi anni di guerra, e tra 1668 e 1669 consentono il rientro delle popolazioni nelle
zone evacuate con il provvedimento del 1661 ed autorizzano una locale navigazione costiera (circoscritta e
rigidamente controllata). La ribellione dei Tre Feudatari costringe però la Corte Mancese, ora guidata dal
capace Kangxi (1662-1722), a riportare in primo piano la questione dei Zheng e di Taiwan. Nel 1678
nuovamente il Fujian e il Guandong sono evacuati (rispettivamente a maggio e novembre) e viene ristabilito
il veto alla navigazione, ama i provvedimenti hanno nell’immediato scarsi risultati. Nell’ottobre dello stesso
anno scompare però Wu Sangui, e molti dei suoi sostenitori si arrendono – è sventata una rivolta di
successo nel continente, e Kangxi può dedicarsi meglio alle coste e ai Zheng. Vengono così ripresi i contatti
con la VOC tra gli anni 1678 e 1679, perché i Qing sperano nell’aiuto militare olandese – vengono però
rifiutati, perché l’Olanda, memore delle passate esperienze, non intende essere coinvolta direttamente in
questioni interne (certo ciò aveva portato pochi frutti in passato, ma comunque perde un’importante
occasione). Dopo lunghi e attenti preparativi comunque, Wan Zhengse, posto al comando delle flotte
imperiali (notevolmente rinforzate), nel marzo 1680 guadagna l’area della baia di Quanzhou e procede poi
all’offensiva, compito che si rivela più semplice del previsto: per errori maldestri e sfortunati malintesi nel
coordinamento dei movimenti nel fronte avverso dei Zheng (sintomatici del crescente nervosismo), il
confronto militare si rivela superfluo. Il 10 aprile 1680 Zheng Jing abbandona il continente ritirandosi a
Taiwan. Questa volta però i Qing non si arrestano, perché Taiwan in mano ai Zheng è una minaccia
costante alla stabilità delle regioni costiere, elemento di destabilizzazione che va neutralizzato.

Nel 1681 Kangxi pose al comando della spedizione Shi Lang, passato al fronte mancese nel 1646, da allora
aveva incessantemente combattuto Zheng sino all’espulsione del 1663. Aveva dunque notevole esperienza
nelle tattiche di combattimento in mare, e conosceva inoltre le strategie e le capacità del nemico. Le
opposizioni alla spedizione in più occasioni ciò significò interruzioni e ritardi. Kangxi era fermamente deciso
a porre fine alla «questione» dei Zheng, investì Shi Lang di pieni poteri. Nel luglio 1683 Shi Lang aveva preso
la Pescadores, postazione cruciale per la difesa strategica di Taiwan. Nel marzo 1681, la prematura morte di
Zheng Jing aveva inferto un nuovo colpo all’organizzazione dei Zheng; aveva ulteriormente aggravato la
situazione nell’isole. La violenta ed indegna lotta fratricida che si era scatenata per la successione aveva
inoltre provocato fratture scissioni interne, ciò aveva ridotto non poco le possibilità di ripresa dei Zheng.
Nell’ondata di panico e di defezioni che li travolgeva, gli stessi Zheng tentarono delle aperture verso il
fronte mancese, ma era troppo tardi: nessuna proposta veniva accettata. Nell’agosto del 1683, i Zheng si
piegarono ai Qing senza condizioni. Quando le flotte di Shi Lang apparvero alle coste di Taiwan, i Zheng
erano già vinti. Significato strategico dell’isola per la salvaguardia delle regioni costiere era stato
pienamente compreso: completata la necessaria riorganizzazione di Taiwan, Kangxi diede ordine che vi si
lasciassero a guardia le milizie imperiali. «Divenuta» Cina di fatto, con i Zheng, Taiwan ne riceveva il
riconoscimento anche formale.

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