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Il presente lavoro s’inserisce nell’ambito delle attività di ricerca svolte per i progetti La
corte poética de Alfonso X. Autores y textos (II) [FFI2011-25899], fi nanziato dal Ministerio
de Economía y Competitividad spagnolo, e TraLiRO (Repertorio informatizzato della
tradizione manoscritta della lirica romanza delle origini), fi nanziato dal MIUR nell’ambito
dei progetti FIRB 2010 [RBFR10102K_002]. Un ringraziamento speciale va alla Dott.ssa
Michela Scattolini, autrice della expertise paleografica di cui in questa sede si propongono
soltanto i dati salienti.
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Carter (1953).
2
Anche il catalogo di Amos (1988) fornisce poche notizie sugli ultimi fogli del codice.
3
Un’edizione facsimile del manoscritto è stata pubblicata presso i tipi dell’Imprensa Nacional/
Casa da Moeda nel 1982; lo studio più completo del manoscritto dal punto di vista codicologico
è invece fornito da A. Ferrari (1979).
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Fascicolazione:
2 ff. di guardia + 40 ff. numerati:
[legatura molto allentata prima e dopo il fasc. I, fra i fasc. II e III, IV e V]
I. ff. 1-8 (quaternione)
II. ff. 9-16 (quaternione)
III. ff. 17-24 (quaternione)
IV. ff. 25-32 (quaternione)
V. ff. 33-40 (struttura incerta, 1+1+2 binioni+1+1 oppure otto fogli avulsi cuciti
insieme per fare un quaternione). Sembra certo che i ff. 33, 34, 39 e 40 provengano da
pelli diverse, come mostra la consistenza molto differente al tatto. Al f. 37 (il primo
dei due che con il f. 38 contiene il trattatello latino) la pelle appare particolarmente
incurvata, con irregolarità che possono provenire da una lavorazione sommaria o
forse da una raschiatura mal eseguita. Il f. 39, che contiene i versi in portoghese,
è affl itto da una pesantissima arricciatura che non trova riscontro in nessun altro
foglio del manoscritto. Per dimensioni, coloritura, usura, ecc. non è impossibile che
i ff. 39 e 40 provengano da una medesima pelle e forse da una medesima unità codi-
cologica.
È ora utile soffermarsi sul contenuto del trattato di versificazione (come s’è appena
visto, altresì detto Rudimenta grammaticae da un ignoto catalogatore del XVII
secolo). Trascritto da una sola mano, con grafia piuttosto regolare, presenta numerosi
punti di difficile leggibilità dovuti alle macchie di umidità e all’usura del manoscritto.
La materia è trattata in forma molto compendiosa e non si ravvisano modelli precisi
di riferimento al di fuori della generica influenza dei trattati di versificazione allora
più in voga. Alcuni passi possono infatti richiamare i precetti leggibili in opere di
ritmica latina come il De rhytmico dictamine (con i rifacimenti detti ‘del Maestro
Sion’ e ‘dell’Arsenal’) e il Regulae de rhytmis, nessuno dei quali, però, appare oggi nel
fondo manoscritto proveniente dal monastero lusitano, e che in generale non risul-
tano particolarmente frequentati in area iberica. In ogni caso, al di là della parziale
comunanza, com’è ovvio, delle tipologie ritmiche trattate, troviamo alcuni versi latini
che riecheggiano quelli leggibili nelle opere appena menzionate (in particolare, l’in-
vocazione «O tu Magister Martine | omnium gramaticorum | flos verusque logicorum
| es vere doctor doctrine» è ricalcata su quella del Rhytmico Dictamine e dei suoi vari
rifacimenti «Vale, doctor, flos doctorum | gemma, decus clericorum | cetum vincis
nam proborum | rithmicando», ecc). Vi è poi un passo che D’Heur preferisce lasciare
con un punto interrogativo – nonostante la sua perfetta leggibilità – riguardante i
rimuli equicomi, categoria così descritta così nei due trattati appena menzionati:
Equicomi rimuli sunt quando prima et secunda clausula concordant inter se et tercia
et quarta concordant inter se [et deviant a primis et quinta et sexta concordant inter se et]
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Proseguendo nella lettura, troviamo un altro punto interessante, nel quale nuo-
vamente appare un termine tradotto in portoghese. Si tratta del vitium retorico del
cacemphaton, sconveniente sia sul piano fonetico sia semantico, tradotto qui come
caçefeton («item caçefeton non debet poni in rimulis ut ‘ca ca orraca’ graece»). Asso-
ciato al caçefeton, troviamo uno dei “difetti” dell’arte compositiva più frequentemente
citati in questo tipo di trattati, lo iato, defi nito però qui in maniera piuttosto generica
(«Item nota quod vocalis post vocalem non admititur in diversis distincionibus si fue-
rit similis vel dissimilis secundum artem»). Da una rapida disamina delle principali
fonti di poetica latina, tanto di età classica, quanto medievale, notiamo come la figura
del cacemphaton sia contemplata più volte, ma piuttosto raramente rispetto agli altri
vitia della composizione, come barbarismo, solecismo o pleonasmo, e soprattutto in
epoca medievale; inoltre, la sconvenienza di questa figura è data, tanto in Donato
quanto, ad esempio, in Matteo di Vendôme, più dall’ambiguità sul piano semantico
data dall’accostamento di determinate espressioni (ad esempio, «Arrige aures, pam-
phile»), che non dall’aspetto fonetico.
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Mari (1899 [1971]), 17.
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Vi è però un altro trattato di area lusitana, questa volta redatto in volgare, che
menziona il cacemphaton fra gli errori più comuni in cui un poeta può cadere,
assieme allo iato: stiamo parlando dell’Arte de trovar, la già citata Poetica che apre
il manoscritto B della tradizione trobadorica galego-portoghese, e che si suppone
copiata nello stesso periodo del nostro trattatello alcobacense. Anche l’Arte considera
il cacemphaton come una cattiva pratica linguistica, che introduce nel dettato poetico
termini che “suonano male in bocca”:
Erro acharan os trobadores que era ũa palabra a que chamaron ‘caçefeton’, que se non
deve meter na cantiga, que é tanto come palavra fea, e soa mal na boca. E algunas vezes tange
en ela caçorria ou lixo, que non conven de ser metudo en boa cantiga 5.
Se la supposizione per cui l’antigrafo del codice B in cui l’Arte è contenuta coinci-
derebbe con il “Livro das cantigas” che Don Pedro de Barcelos lasciò in testamento
nel 1350 a Alfonso XI di Castiglia, è allora assai probabile che l’Arte, collocata in
B prima della silloge poetica, avrebbe potuto essere stata redatta nel medesimo
ambiente signorile in cui Don Pedro, figlio bastardo di re Don Denis, ebbe proba-
bilmente l’occasione di confezionare la raccolta di cantigas. Come notò a suo tempo
Giuseppe Tavani, la natura compendiosa dell’Arte – benché l’opera sia acefala e
quindi sicuramente più estesa di come la si conosce oggi – e il suo riferimento piutto-
sto puntuale alle cantigas la distanzia dai grandi trattati di poetica trobadorica elabo-
rati in Provenza, Catalogna o in Italia come le Razos o le Regles de trobar o le stesse
Leys d’Amors. Si tratterebbe, piuttosto, di una sorta di breviario ad uso e consumo
dei lettori di cantigas, posta in apice a una raccolta con la quale Don Pedro, uno
degli ultimi trovatori galego-portoghesi, intendeva preservare un patrimonio cultu-
rale ormai destinato ad esaurirsi e a lasciare spazio a nuove esperienze poetiche come
quella testimoniata dal Cancionero de Baena.
Ora, le pur scarne corrispondenze fra le due operette richiamano senz’altro l’at-
tenzione, così come la presenza di versi in volgare nel trattato alcobacense, redatto in
latino. Anzitutto, la comune traduzione portoghese del cacemphaton e la sua associa-
zione con lo iato sembrano portare verso un terreno di conoscenze condivise, in un
ambito culturale piuttosto omogeneo in cui la volontà di fissare alcune norme relative
alla versificazione rispondeva ad esigenze pratiche, e non era certo inquadrabile come
esercizio di erudizione da condursi sulle fonti più note e studiate. Fonti che pure non
mancavano nella biblioteca del monastero cistercense di S. Maria de Alcobaça, cen-
tro culturale di grandissima importanza secondo forse solo al cenobio domenicano di
S. Cruz de Coimbra. La maggior parte dei trattati di grammatica, retorica o poetica
provenienti dal monastero lusitano è copiata attorno alla metà del Trecento, epoca in
cui all’interno dello scriptorium alcobacense sorse un notevole interesse verso opere
di questo tipo. Solo due fra i trattati di retorica o poetica presenti nel Fundo Alcobaça
della Biblioteca Nazionale di Lisbona risalgono al XIII secolo, un Graecismus e un
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Arte de Trovar, VI, 2 (ed. Tavani 1999, 53).
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Si trova nel ms. 786 della Biblioteca Municipal di Porto (fondo Santa Cruz n° 43). Si tratta di
una traduzione parziale, che consta delle strofe 60-130 con omissione delle nn. 75, 104, 121-
122, ed è databile alla prima metà del XV secolo.
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Si tratta della Vita S. Godefridi, composta da Nicola di Soissons, contenuta in due manoscritti
conservati rispettivamente alla Österreichische Nationalbibliothek di Vienna (XV secolo)
e alla Koninklijke Bibliotheek di Bruxelles (XVI secolo). L’unica edizione della Vita può
leggersi negli Acta Sanctorum (Novembris, tomo III, n° 64).
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Lezione di difficile interpretazione, che qui risolvo in forma provvisoria ed estremamente
dubbiosa.
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de † o compiria
Santa Maria averey chamada
quanto min aja de negar
e della tenho de seer guardada
por d<> eu aver de louvar
non sey homen no mundo
que tal vegada aja [...]9
que sempre non seja ajudado
de tam \gram/ nobre dona
por rem deseiaria o que digo
oraçom com preçes faria
se esto comprido ouves[s]e
por seer tirado de rogar
et tornado a meu †.
Visto lo stato gravemente corrotto delle prime tre strofe, non è facile stabilire se si
tratti di una composizione unitaria o se, invece, si tratti piuttosto di quartine slegate,
intese come semplice esercizio di versificazione; ciò che è certo è la totale assenza di
riscontri sia con la lirica dei trovatori galego–portoghesi, sia con la posteriore produ-
zione testimoniata dal Cancioneiro Geral. Sembra comunque possibile rilevare un
tema generale, una sorta di reprobatio dell’autore – probabilmente un monaco o uno
studente – verso il Signore e Santa Maria, in una forma metricamente approssimativa
e verosimilmente abbozzata, non certo copia di una composizione preesistente. Il
significato della nota seguyda, che pare della stessa mano responsabile dei versi, è
ancora da chiarire – si ricordi però che nella terminologia poetica del tempo il verbo
seguir significava ‘imitare’ un testo preesistente, fi no ad indicare il vero e proprio con-
trafactum – ma, in ogni caso, credo che queste quartine non siano contemporanee al
frammento latino e che siano state trascritte quando la pergamena era già stata legata
al codice; ciò mi pare piuttosto evidente dalla posizione dei versi, che lasciano un
notevole spazio dopo le poche righe in latino, oltre che dalla migliore qualità dell’in-
chiostro. Non ho ancora una spiegazione convincente per la rasura delle prime tre
quartine, a meno che non contenessero versi che l’ignoto compositore decise di cas-
sare poiché non soddisfacenti.
L’interesse che la breve composizione ricopre, ad ogni modo, riguarda il contesto
in cui essa fu concepita e redatta. L’autore di queste ‘cuadras’ potrebbe essere uno
studente che si esercitava nella composizione poetica, oppure un monaco alcobacense
che si dilettava a comporre, forse citando qualche testo che conosceva. Non possiamo
neppure affermare che lo sconosciuto autore applicasse i principi del trattato di ver-
sificazione dei fogli precedenti, poiché l’abbozzo di schema rimico desumibile da ciò
che è rimasto presenta una semplice struttura a rime alternate (anche imperfette, se
la nostra trascrizione è corretta), senza particolari affi nità con le tipologie metriche
9
Sebbene non si ravvisi una regolarità nell’uso dei rimanti, pare qui che l’ignoto rimatore non
abbia completato il verso, che difetta inoltre di significato (il cong. pres. di P3 aja fungerebbe
infatti da ausiliare a un qualche participio).
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descritte nel trattato. In questo senso, sovviene un altro esempio assai simile, benché
più tardo e più completo rispetto al nostro frammento, visibile in un altro codice
alcobacense. Nelle ultime carte del ms. 213, infatti, una mano probabilmente contem-
poranea alla confezione del codice (databile al XV secolo) trascrive un inno mario-
logico con versi alternati in portoghese e latino; segno che tale pratica non fosse del
tutto estranea nell’ambiente dello scriptorium alcobacense10.
La pratica delle scritture marginali, del resto, è testimoniata da altri esempi di area
portoghese, come il codice n° 43 della Biblioteca municipale di Porto, proveniente dal
monastero di S. Cruz de Coimbra e risalente al XIII secolo, nel quale, in uno spazio
bianco del f. 117v si legge: «Quem esta cantiga leea | se me deseja prazer | me ajude a
dizer | tristis es anima mea». Si tratta quindi a mio avviso di un esercizio di versifica-
zione per mano di uno studente, o comunque di un lettore di poesia, che a quel tempo
non poteva essere che quella dei trovatori galego-portoghesi; è pur vero che, com’è
noto, la cosiddetta lirica ‘galego-castigliana’ annovera autori di provenienza e lingua
galega che potrebbero combaciare con la cronologia in cui situiamo il frammento
poetico (si pensi ad autori come Macias, Juan Rodriguez del Padrón, Alfonso Álva-
rez de Villasandino): ma è altrettanto evidente che i richiami contenuti all’interno del
trattato si rifanno senza dubbio alla lirica di stampo trobadorico, che rappresentava
ancora un modello autorevole fi no agli ultimi decenni del XIV secolo. In ogni caso,
il frammento poetico non s’inserisce in nessuna delle direttrici che segnano il per-
corso poetico che va dagli ultimi trobadores galego–portoghesi ai poeti testimoniati
nel Cancioneiro de Baena: se davvero quest’epoca è connotabile come di “silenzio”
poetico – come lo defi nisce il compianto Alan Deyermond in un celebre articolo del
1982 – ciò avviene soprattutto sul versante della poesia di stampo religioso, di fatto
marginalizzata e ininfluente sulla cultura letteraria portoghese del tardo Medioevo,
dopo la grande esperienza delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X.
Tutto ciò è comprensibile nell’ottica di una circolazione di cantigas galego–porto-
ghesi in un ambito monastico votato, dagli ultimi decenni del Duecento fi no a tutto il
secolo successivo, non solo a trasmettere illustri opere del passato, ma anche a costru-
ire veri e propri supporti didattici per la rinnovata cultura universitaria promossa dal
regno di Don Denis, il più prolifico fra i grandi re trovatori dell’Europa romanza. Il
terreno era quindi più che mai fertile per mantenere il legame con una cultura poetica
a quell’epoca già pienamente “portoghesizzata”; se, da un lato, Don Pedro provve-
deva a risistemare il materiale poetico raccolto in un Livro compiuto e, dall’altro,
voleva tramandare la fama dei più nobili lignaggi portoghesi nel Livro de Linhagens,
centri monastici come S. Maria de Alcobaça partecipavano all’ambizioso progetto
culturale iniziato durante il regno dionigino e proseguito dai suoi successori, specia-
lizzandosi come centro di copiatura, trasmissione e – come dimostra il manoscritto
286 – creazione di strumenti pratici per la comprensione e l’esercizio della poesia, sia
10
Il testo è pubblicato da Leite de Vasconcellos (1922, 96-98).
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Bibliografia
Acta sanctorum novembris tomus III: quo dies quintus, sextus, septimus et octavus continentur /
collecta digesta illustrata a Carolo de Smedt, Francisco van Ortroy, Hippolyto Delehaye,
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dução, edição critica e facsimile, Lisboa, Colibri.
Vasconcellos, José Leite de, 1922. Textos arcaicos para uso de Aula de Filologia portuguesa da
Faculdade de Letras da Universidade de Lisboa / coordenados, anotados e providos de un
glossario pelo J. Leite de Vasconcellos. – 3a edição ampliada, Lisboa, Teixeira.
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