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II.

L’INSEGNAMENTO DEI PADRI NELLA COMUNICAZIONE DELLA FEDE

Robert Dodaro

Cosa possono dire i Padri della Chiesa sulla catechesi nel mondo contemporaneo? Come può il
rispetto per la Tradizione della Chiesa stare in equilibrio con un metodo e un linguaggio catechetici
adatti ai tempi e alle culture in cui viviamo? Nel tentativo di rispondere a questi interrogativi viene
presentato un argomento trascurato in teologia, nonostante riguardi una tecnica antica usata nella
letteratura greca e ripresa ai nostri giorni dalla teologia cattolica del Concilio Vaticano II.
La tecnica a cui si fa riferimento è nota col nome di proprietà di linguaggio, tecnica radicata
nella retorica antica, sia greca che latina. Il successo dei Padri della Chiesa, impegnati ad
evangelizzare l’impero romano, sta proprio nell’eccezionale padronanza di questa forma d’arte. I
retori greci trattavano della proprietà di linguaggio sotto la categoria onnicomprensiva del to
prepon. I romani, che la ereditarono dai greci, vi si riferivano con i termini aptum o decus. La
proprietà di linguaggio si occupa generalmente di stabilire cosa è idoneo e appropriato nel discorso
scritto e orale. Essa cerca principalmente di stabilire una congruenza tra le idee di chi parla e il
linguaggio utilizzato per esprimerle. Nel valutare tale armonia colui che parla deve scegliere un
linguaggio che sia appropriato al pubblico e alle circostanze in cui si tiene il discorso. Tant’è vero
che la parola appropriato, nel suo uso attuale, racchiude l’essenza di ciò che gli antichi intendevano
per proprietà. Sia l’oratore sia il pubblico hanno una certa dignità o reputazione che non andrebbe
ignorata. Infatti, la categoria di proprietà di linguaggio è profondamente legata al senso dell’onore e
dell’onorabilità degli antichi greci e romani. Se il linguaggio utilizzato per comunicare alcune idee
non fosse chiaro, magari perché i termini impiegati sono troppo tecnici per il pubblico, non si è
raggiunto l’obiettivo della proprietà di linguaggio. La proprietà di linguaggio in questo senso
esterno perciò richiede da parte dell’oratore una specie di consapevolezza triangolare nella scelta di
un linguaggio appropriato a chi parla, all’argomento e al pubblico. La proprietà di linguaggio si
ottiene solo quando il discorso armonizza questi tre elementi1.
Quanto descritto finora è la proprietà di linguaggio considerata in senso esterno, cioè tra oratore
1
Le parole-chiave nella lingua latina per esprimere questi concetti sono accomodatio, aptum, convenientia,
convenire, congruere, congruentia, decere, decus, decorum, dignitas, dignum, honestas, honestum.
1
e pubblico. Considerata nel suo senso interno, però, la proprietà di linguaggio è perfino più
rilevante per la catechesi perché fondamentalmente riguarda l’accordo o l’armonia tra le parole e le
idee. In questo caso la domanda è: “con quanta accuratezza le mie parole aderiscono agli
insegnamenti che intendo comunicare?”. Questo tipo di proprietà di linguaggio interna si può anche
applicare al confronto tra due testi, che intendono esprimere entrambi la medesima idea. In questo
caso, la domanda si può porre in questo modo: “quanto le parole di un testo si avvicinano alle
parole dell’altro testo e all’idea che entrambi dovrebbero esprimere?”.
Dal momento che la stessa proprietà di linguaggio interessa l’intera gamma di questioni
linguistiche attinenti la comunicazione delle idee, i Padri della Chiesa all’epoca la impiegavano
come categoria generale per misurare la precisione linguistica e la pertinenza dei discorsi teologici.
Ad esempio, nella Gallia del quarto secolo, Ilario di Poitiers si basò proprio sul principio della
proprietà di linguaggio, per provare a convincere i Vescovi occidentali e orientali che potevano
accettare in buona fede ciascuna delle loro differenti formulazioni teologiche per esprimere
l’uguaglianza della natura divina del Figlio con la natura divina del Padre. Ilario voleva riconciliare
i Vescovi occidentali e orientali, riconciliando il loro linguaggio teologico. In un contesto diverso,
quando Mario Vittorino sostenne, in base alla proprietà di linguaggio interna, che “tre sostanze” era
una traduzione più precisa dell’espressione greca riconosciuta dalla dottrina “tre ipostasi”,
Agostino, nel De trinitate, in base alla proprietà di linguaggio esterna, rispose che “tre sostanze”
avrebbe confuso i fedeli perché il concetto di “sostanza” si prestava ad una concezione materialista,
addirittura fisica, della divinità. Agostino insisteva inoltre, sempre sulla base della proprietà di
linguaggio esterna, che l’espressione “tre persone” aveva già raggiunto un utilizzo dottrinalmente
riconosciuto nella cristianità latina e che quindi questa formula tradizionale sarebbe dovuta essere
mantenuta, preferendola all’innovazione “tre sostanze” suggerita da Mario Vittorino.
Ma perché non si pensi che si pose attenzione alla proprietà di linguaggio soltanto durante
l’epoca dei Padri della Chiesa, si legga un passaggio dell’allocuzione Gaudet mater Ecclesia con
cui Papa Giovanni XXIII aprì il Concilio Vaticano II, l’11 Ottobre 1962: «Il nostro lavoro non
consiste neppure, come scopo primario, nel discutere alcuni dei principali temi della dottrina
ecclesiastica, e così richiamare più dettagliatamente quello che i Padri e i teologi antichi e moderni
hanno insegnato e che ovviamente supponiamo non essere da voi ignorato ma impresso nelle vostre
menti (…) Per intavolare soltanto simili discussioni non era necessario indire un Concilio
Ecumenico. Al presente bisogna invece che in questi nostri tempi l’intero insegnamento cristiano
sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, in quella
maniera accurata di pensare e di formulare le parole che risalta soprattutto negli atti dei Concili di
Trento e Vaticano I; occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli

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animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri
fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile,
alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto
dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra
veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso
e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato
con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la
cui indole è prevalentemente pastorale»2.
Nel discorso di Papa Giovanni si sente una specie di tensione tra il senso interno ed esterno della
proprietà di linguaggio così familiare ai primi Padri della Chiesa. Il Papa presume che gli sforzi del
Concilio di aggiornare i modi dell’insegnamento cattolico e della pratica cattolica rimarranno fedeli
alla «dottrina ecclesiastica, […] che i Padri e i teologi antichi e moderni hanno insegnato», così
come a «l’intero insegnamento cristiano […] in quella maniera accurata di pensare e di formulare le
parole che risalta soprattutto negli atti dei Concili di Trento e Vaticano I». Perciò, dicendo questo,
sta chiedendo una certa precisione nel linguaggio del Concilio, una congruenza tra i suoi
insegnamenti e gli insegnamenti della Chiesa precedente. Si può sentire in questo particolare
appello del Papa un’enfasi sul senso interno della proprietà di linguaggio, un’armonia tra le
formulazioni passate della dottrina ecclesiastica e il linguaggio attuale del Concilio. Allo stesso
tempo, il Papa chiede un adattamento del modo di esprimersi della dottrina ecclesiastica passata alle
condizioni correnti in cui si trova la Chiesa. Egli dice che questa dottrina «sia approfondita ed
esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi». Dicendo ciò, il Papa si riferisce al senso
esterno della proprietà di linguaggio, ossia la relazione tra il testo e il suo pubblico e le circostanze
che condizionano la comprensione del testo e la sua accettazione da parte dei fedeli. L’espressione
centrale che Giovanni XXIII utilizza per esprimere questa tensione tra il senso esterno e quello
interno della proprietà di linguaggio è quando afferma: «Altro è infatti il deposito della fede, cioè le
verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono
annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione». Ma, immediatamente dopo
aver presentato questo punto chiave, il Papa indica che, senza perdere di vista il senso interno della
proprietà, ossia la fedeltà allo stesso significato e visione della dottrina antica, il Concilio deve dare
la priorità al senso esterno della proprietà, cioè all’aggiornamento non di questa dottrina, ma della
maniera in cui questa viene espressa (aliud modus, quo eaedem enuntiantur, eodem tamen sensu
eademque sententia). Egli sottolinea che il ruolo del magistero è di «indole prevalentemente
pastorale», intendendo che esso debba interessarsi principalmente di comunicare con efficacia
2
GIOVANNI XXIII, Allocuzione Gaudet mater ecclesia (11 ottobre 1962), in Acta Apostolicae Sedis 54 (1962), pp.
791-792.
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l’insegnamento della Chiesa in forme che verranno comprese dai suoi fedeli.
Il compito che Papa Giovanni XXIII si propose con il Concilio Vaticano II richiama alla mente il
detto di Cicerone: «nel parlare, come nel vivere, nulla è più difficile che determinare ciò che è
appropriato». Per quanto difficile fosse la sfida del Papa ai Padri del Concilio, questo paragrafo dal
suo discorso di apertura e il suo concetto-chiave echeggerà poi nei documenti conciliari e post-
conciliari e sarà realizzati nel Direttorio generale per la catechesi e poi nel Catechismo della
Chiesa cattolica. La Gaudium et spes, fa riferimento alle parole di Papa Giovanni quando affronta il
problema della fede e delle culture moderne: qui si osserva che «l’accordo fra la cultura e la
formazione cristiana non si realizza sempre senza difficoltà» e si esortano i teologi «a ricercare
modi sempre più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini della loro epoca», riportando
poi una citazione proprio dalla Gaudet mater Ecclesia.
Nel periodo successivo al Concilio Vaticano II, molti documenti ufficiali dei Papi e della Santa
Sede hanno citato questo passaggio chiave sulla proprietà, contenuto nel discorso di Papa Giovanni,
per riferirsi o a circostanze in cui il mandato del Papa e del Concilio era stato eseguito con successo
o a situazioni in cui i Vescovi e i teologi dovevano ancora realizzarlo pienamente o anche a
occasioni in cui queste espressioni teologiche aggiornate, a giudizio dei Papi, si erano allontanate
troppo dagli insegnamenti perenni della Chiesa per essere ritenute coerenti ad essi. Nel 1971, a
cinque anni dalla chiusura del Concilio, Paolo VI ripeté consapevolmente la posizione di Giovanni
XXIII quando ammonì i Vescovi cattolici: «A noi oggi è richiesto un serio sforzo perché la dottrina
della fede conservi la pienezza del suo contenuto e del suo significato, esprimendosi in una forma
che le permetta di raggiungere la mente e il cuore di tutti coloro ai quali essa è diretta» 3. Nello
stesso anno, la Congregazione per la Dottrina della Fede, con l’esplicita approvazione del Papa,
criticò certe tendenze nella teologia contemporanea che, dal loro punto di vista, relativizzavano il
significato durevole della dottrina della Chiesa. La Congregazione disse che Papa Giovanni XXIII,
nel suo discorso di apertura al Concilio, non aveva messo in dubbio la certezza e la conoscibilità
della dottrina antica della Chiesa quando consigliava che «i modi di ricerca, di esposizione e di
enunciazione della stessa dottrina» devono essere adattati alle esigenze dei nostri tempi 4. Ancora,
nel 1988 Papa Giovanni Paolo II citò la famosa affermazione di Papa Giovanni che criticava certe
tendenze nella moderna cristologia che respingevano la validità delle formule dogmatiche dei primi
concili ecumenici riguardanti Cristo, sulla base dell’impossibilità di adattare il loro linguaggio al
mondo contemporaneo. Il Papa analizzò l’affermazione del suo predecessore: chiedere di
impegnarsi ad adattare i primi dogmi cristiani ai tempi attuali non avrebbe dovuto implicare
l’abbandono delle precedenti categorie linguistiche, quali “natura”, “grazia” o “persona”,
3
PAOLO VI, Esortazione apostolica Quinque iam anni, in Acta Apostolicae Sedis 63 (1971), 100 ss.
4
SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Mysterium ecclesiae, 5.
4
tradizionalmente riferite a Cristo; tuttavia, allo stesso tempo, egli fece appello ai teologi
contemporanei affinché cercassero comunque modi nuovi di spiegare queste categorie teologiche.
Ancora una volta, nelle parole di Papa Giovanni Paolo II, si può avvertire un riferimento alla
proprietà di linguaggio in entrambi i suoi sensi, interno ed esterno.
La stessa enfasi sulla proprietà di linguaggio è presente nel Direttorio generale per la catechesi:
«L’inculturazione della fede per certi aspetti è opera di linguaggio. Questo importa che la catechesi
rispetti e valorizzi il linguaggio proprio del messaggio, anzitutto quello biblico, ma anche quello
storico-tradizionale della Chiesa (Simbolo, liturgia) e il cosiddetto linguaggio dottrinale (formule
dogmatiche); ancora, è necessario che la catechesi entri in comunicazione con forme e termini
propri della cultura della persona cui si rivolge; infine, occorre che la catechesi stimoli nuove
espressioni del Vangelo nella cultura in cui questo è stato impiantato. Nel processo di inculturazione
del Vangelo la catechesi non deve temere di usare formule tradizionali e termini tecnici della fede,
ma darne il significato e mostrarne la rilevanza esistenziale; e d’altra parte è dovere della catechesi
“trovare un linguaggio adatto ai fanciulli e ai giovani del nostro tempo in generale, come a
numerose altre categorie di persone: linguaggio per gli intellettuali, per gli uomini di scienza;
linguaggi per gli analfabeti o per le persone di cultura elementare; linguaggio per handicappati,
ecc.”» (DGC 208).
Dicendo questo, il Direttorio riconosce, coerentemente al discorso di apertura del Concilio di
Papa Giovanni XXIII, la necessità di equilibrare il rispetto per le categorie dottrinali e per le
formulae tradizionali della Chiesa con il bisogno di parlare una lingua adatta ai tempi d’oggi.
Ancora una volta quindi, la proprietà di linguaggio interna ed esterna deve essere conservata dal
catechista contemporaneo. Il DGC dà poi istruzioni alle conferenze episcopali perché siano
consapevoli che «intrinsecamente legati al linguaggio sono i modi della comunicazione. Uno dei più
efficaci e pervasivi è quello dei mass media. “L’evangelizzazione stessa della cultura moderna
dipende in gran parte dal loro influsso”» (DGC 209).
Le conferenze episcopali, quindi, mentre cercano di equilibrare il senso interno ed esterno della
proprietà di linguaggio nella formulazione di nuove indicazioni per la catechesi, terranno anche in
considerazione l’ambiente mediatico in cui oggi si predica e si insegna il Vangelo. Anche questo
compito comporta che vengano applicati i vecchi principi della proprietà di linguaggio, come hanno
fatto i Padri della Chiesa. È ovvio, almeno in occidente, che i mass media hanno un’efficacia
straordinaria nel favorire all’interno del grande pubblico un’enorme simpatia per credenze e
pratiche in disaccordo col Vangelo (ad es. l’aborto, lo stile di vita omosessuale, etc.). Nel migliore
dei casi, la religione viene tollerata dai mass media come “blanda” e “pittoresca” quando non
prende attivamente posizioni contrarie su questioni etiche che i media hanno fatto proprie, ma

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quando si alzano voci di cristiani in contrasto con queste posizioni, i mass media etichettano la
religione come ideologica e insensibile rispetto ai bisogni fondamentali delle persone nel mondo
contemporaneo. Tuttavia, l’opposizione dichiarata dei mass media al mondo cristiano è solo una
parte del problema. La simpatia per scelte di vita anti-cristiane che i mass media incoraggiano è
talmente radicata in modo subdolo e malizioso nei telespettatori che, quando le persone ascoltano il
messaggio cristiano, questo spesso sembra inevitabilmente ideologico ed emotivamente crudele
rispetto all’apparente umanità della prospettiva anti-cristiana. In tal modo, il messaggio della Chiesa
è fatto sembrare inadatto e inappropriato al nostro tempo: è in questo senso che la dignità linguistica
è un problema per la Chiesa moderna. Se la catechesi cattolica insieme alla nuova evangelizzazione
saprà replicare con successo a queste distorsioni mediatiche della realtà religiosa ed etica, i pastori, i
predicatori, gli insegnanti e i catechisti dovranno essere molto meglio informati sul contesto
dell’evangelizzazione in un mondo dominato dai mass media. L’insegnamento del Magistero della
Chiesa può servire a questo riguardo; tuttavia, in questo campo, c’è gran bisogno di un ulteriore
sviluppo.
I Padri possono fornire un’autorevole assistenza alla Chiesa per la nuova evangelizzazione,
proprio perché essi erano maestri nell’arte oratoria e nella dottrina della proprietà di linguaggio.
Con la loro formazione retorica, che, per molti di loro, costituiva la migliore istruzione disponibile
nel mondo tardo-antico, i Padri della Chiesa offrivano una risposta formidabile alle forze letterarie e
retoriche non cristiane e anticristiane, che erano all’opera in ogni parte dell’Impero romano per
plasmare l’immaginazione religiosa ed etica del tempo. Quando nel De civitate Dei Sant’Agostino
utilizzò la storia dell’incontro di Alessandro Magno con un pirata prigioniero per fare dell’ironia sui
punti di vista convenzionali che legittimavano l’impero romano, egli sovvertì e poi ridefinì il senso
di “proprietà” che sosteneva la storia e la letteratura romane. L’aneddoto era il seguente: un pirata fu
condotto dall’imperatore Alessandro Magno per un giudizio sommario e fu da lui interrogato: “cosa
credi di fare infestando il mare con le tue ruberie?”. Il pirata rispose: “Io faccio la stessa cosa che fai
tu, ma, poiché io ho un’unica piccola nave, sono chiamato pirata; invece tu, che hai una grande
flotta di navi, sei chiamato imperatore”. L’obiettivo di Agostino nel raccontare questa storia era di
rivelare ai suoi lettori come le ingiustizie costitutive di tutti gli imperi siano mascherate sia dalla
vastità dell’impero, sia dal potere che questo esercita sulla lingua. Chiamando pirata il comandante
di una piccola nave, Alessandro faceva distogliere l’attenzione dal fatto che lui e la sua flotta erano
impegnati in un’attività di pirateria perfino maggiore. L’obiettivo per il quale Agostino raccontava
questa storia era quindi non solo di fare presente che tutti gli imperi, come l’impero romano, sono
per loro natura ingiusti, ma soprattutto di mostrare come la manipolazione della lingua da parte dei
centri di produzione culturale, in questo caso gli storici e i teorici della politica di Roma, mascheri

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le ingiustizie della società a cui i leader di questi centri devono invece fedeltà. Nel mondo odierno,
leader di questo tipo influenzano i principali mezzi di comunicazione delle nostre società e
determinano i messaggi culturali dominanti che influenzano i fruitori dei media; tra questi, ci sono
anche i fedeli cattolici e altri che dovrebbero essere evangelizzati e catechizzati.
I Padri della Chiesa, come Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Leone Magno, Gregorio
Nazianzeno, erano grandi predicatori e catechisti perché erano prima di tutto grandi retori. In altre
parole, la loro opera di evangelizzazione e di catechesi ebbe successo innanzitutto perché avevano
compreso i fondamenti di una comunicazione sociale appropriata al mondo in cui vivevano. Di
conseguenza, essi riconobbero con precisione le tecniche con cui l’immaginazione popolare
religiosa ed etica del loro periodo veniva manipolata dai centri del potere secolare: una precisione
non inferiore nel comprendere queste tecniche è richiesta oggi ai pastori e ai catechisti. Per riuscire
a sconfiggere il dominio dei mass media sull’immaginazione popolare religiosa e morale, i pastori
della Chiesa, gli insegnanti e i catechisti dovrebbero padroneggiare l’arte della comunicazione in
tutte le sue forme, in special modo in quelle più astute, che si trovano nel cinema, nella TV, nella
stampa o in Internet. Non è sufficiente che la Chiesa abbia un proprio mezzo televisivo o che
sponsorizzi film a tematica religiosa: i media laici avranno sempre la meglio in questo campo e la
Chiesa non può competere con successo. Al contrario, la Chiesa deve cercare di trovare forme
linguistiche e visive che rendano possibile smascherare i modi sottili e manipolatori attraverso cui
la cultura dominante secolare e anticristiana vaccina le masse contro il Vangelo, presentando
falsamente i suoi valori come freddi, duri e disumani. Finché i cristiani rimangono inconsapevoli
delle tecniche e della variegata sottigliezza retorica con cui i media moderni squalificano
preventivamente il messaggio cristiano agli occhi delle persone che vivono in circostanze
eticamente difficili dipingendo la risposta della Chiesa con toni duri e insensibili, non saremo in
grado di formulare controstrategie per smascherare la raffigurazione che i media fanno della
dottrina e della pratica cattoliche.
Al tempo stesso, la Chiesa dovrebbe resistere alla tentazione di pensare che può competere con i
mass media moderni trasformando la sacra liturgia in spettacolo. Anche in questo caso, i Padri della
Chiesa, come Tertulliano, ci ricordano che lo spettacolo visivo è di dominio del saeculum e che la
nostra vera missione è di presentare alle persone la natura del Mistero come antidoto allo spettacolo.
Nel De civitate Dei, Agostino insegna che il Mistero concentra l’immaginazione sull’oscurità che
circonda la morte, più specificamente sull’oscurità della crocifissione di Cristo, che egli vide
riecheggiata nelle morti dei martiri cristiani. Lo spettacolo, d’altro canto, con la celebrità e
l’eroismo che lo accompagnano, dà all’uomo un falso conforto distraendo la mente dalla sua
istintiva paura della morte. Agostino ritrovò questo falso conforto nel teatro romano, negli eventi

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sportivi, nelle festività profane e nelle onorificenze militari. Il ragionamento di Agostino ha
rilevanza per la cultura moderna, nella quale le stesse caratteristiche antiche dello spettacolo sono
amplificate dai media moderni fino a diventare false forme di celebrità ed eroismo. Il laicismo,
come forza anticristiana, fa affidamento sul controllo dei media sulla cultura contemporanea e,
quindi, sull’immaginazione religiosa ed etica dell’uomo. Di conseguenza, l’evangelizzazione e la
catechesi nel mondo contemporaneo devono trovare i veicoli retorici appropriati per riportare
l’attenzione pubblica dallo spettacolo al Mistero.

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