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VOCABOLARIO LITURGICO

ABACO
Piccolo tavolo che deve essere collocato vicino all'altare, dalla parte dell'Epistola, discosto, se possibile, dal muro, per posarvi
quanto occorre nella Messa.

Bibl.: R. Aigrain, Liturgia, Enc. populaire de connaissances liturgiques, Parigi 1935, p.


223.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 3-4

ACQUA SANTA
È
il sacramentale più comune della liturgia cattolica. Quanto all'uso liturgico, occorre distinguere fra l'a. che oggi serve

esclusivamente per conferire il battesimo, preparata alla vigilia di Pasqua e di Pentecoste con l'infusione dell'olio dei
catecumeni e del crisma (a. battesimale), e l'a. semplicemente benedetta (a. santa), di
cui si serve comunemente la Chiesa
confezionandolo con una miscela di
sale mentre di recitano apposite preghiere.

AD LIBITUM
Espressione
che in liturgia ha diversi usi: 1. si riferisce al libero uso di certe Collette; 2. musicalmente all'uso di canti recitativi
individuali (toni di Orazioni, Epistole, Vangeli) o collettivi (toni comuni dell'Ordinarium Missae)

Gregorio M. Suñol

da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, col. 309

AD MULTOS ANNOS
Saluto
e augurio di lunga vita che il vescovo consacrato rivolge al suo consacrante al termine della funzione della
consacrazione.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, col. 311

AGENDA
Parola latina che significa "quello che si deve fare". In principio era usata
in liturgia per indicare il Canone della Messa e anche
tutta la Messa. In seguito indicò il complesso dell'ufficio e delle preci dei defunti. Vennero poi chiamate così anche le raccolte di
preghiere e cerimonie per l'amministrazione dei sacramenti.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, col. 445

AGNUS DEI
Formola
liturgica introdotta nella Messa da Sergio I papa, seguendo un antico
uso dei greci, con diretta allusione all'espressione
di Giovanni Battista (Gv 1, 29). Esso si doveva cantare con la risposta:
Miserere nobis, ripetuta più volte durante la solenne
frazione del pane consacrato. Poiché questa solennità nel secolo XI si ridusse al solo celebrante, il canto
fu limitato a tre
invocazioni, la terza con la risposta:
Dona nobis pacem.

ALBA
Vedi CAMICE

ALCUINO
Consigliere
di Carlomagno, nato in Northumbria verso il 735, morto a Tours il 19 maggio 804. Opere liturgiche
principali: edizione critica del
Sacramentario Gregoriano, Liber Sacramentorum, De Baptismi caeremoniis, lettere a
Carlomagno sull'aggiunta delle tre settimane alla Quaresima (Ep. 80 e 81), invocatio alla S.ma Trinità.

ALLELUIA
Acclamazione
religiosa ebraica ("Lodate il Signore"), passata nella liturgia cristiana. Nel campo strettamente liturgico l'alleluia
fu scelto come espressione rituale di giubilo cristiano che prorompe nella solennità della Pasqua e da questa si riverbera su
tutte le altre
feste dell'anno. Nella Chiesa romana sotto san Gregorio Magno introdusse l'alleluia in tutte le messe dell'anno,

1
escluso il tempo di
Quaresima e l'officiatura dei morti.

ALMUZIA
Forma
di cappuccio unito a una mantelletta, la cui parte posteriore era più lunga dell'anteriore, che costituiva nel medioevo
l'abito corale di alcuni canonici. È ancora il distintivo corale dei canonici di alcune cattedrali e collegiate, ma la sua forma è

differente dalla primitiva e varia nei diversi paesi.

Bibl.: J. Braun, Liturgische Gewandung in Occident und Orient, Friburgo in Br. 1907, p.
335; Id., I paramenti sacri. Loro uso, storia e simbolismo, vers. it., Torino 1914, p.
161.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 914-915

ALTARE
Superficie piana orizzontale, elevata da terra, destinata al sacrificio. Nella disciplina attuale l'altare è fisso o mobile.

AMA
Vedi AMPOLLA

AMALARIO DI METZ
(Amalarius, Amalharius)
Teologo e liturgista medievale, sulla cui vita si hanno pochi e discussi dati storici. Sembra sia nato a
Metz tra il 770 e il 775, morto ivi il 29 aprile, tra l'850 e l'853. Opere principali: Liber Officalis, detto anche De Ecclesiasticis
Officiis
(ultima ed. in 4 libri verso l'832), De Ordine Antiphonarii (dopo l'844), varie Expositiones della messa, l'Epistolario.

AMITTO
Indumento
sacro di tela (m. 0,70 X 0,80 ca.), da porsi intorno al collo e sulle
spalle, munito di fettucce per legarne i capi al
petto.

Bibl.:  G. Bona, De rebus liturgicis. Parigi 1672, p. 226; J. Braun, I paramenti sacri,
Torino 1924, p. 56: M. Righetti, Storia Liturgica, I, Milano 1945, p. 474 sg.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 1076-1077

AMPOLLA
Vasetto a collo sottile e corpo di varia forma, destinato a contenere il vino e l'acqua per la Messa e gli oli santi.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 1113-1114

ANELLO
Non si può determinare con certezza quando l'a. assunse nella Chiesa il significato di autorità, di dignità e di preminenza che lo
fece riservare ai soli prelati e vietare al semplice clero: tanto più che non è facile, dai documenti che abbiamo, distinguere
sempre l'a. sigillare dall'a. di dignità. Certo è che alla fine del sec. VI già si aveva, nella .cerimonia
della consacrazione dei
vescovi, la formola per la benedizione e la consegna dell'a. episcopale, come leggiamo nel Pontificale di Salisburgo, ca. l'anno
600. Il can. 28 del Concilio IV di Toledo (633)
enumera l'a. fra le insegne del vescovo; ed i pontificali dei secoli seguenti
stabiliscono che l'a. deve portarsi nel dito anulare della mano destra, e che si deve dare al consacrando prima del pastorale.

Riservato così l'a. ai soli prelati, secondo le loro varie dignità, si ebbero vari a., di cui si dà una breve enumerazione.

1. GLI A. DEL SOMMO PONTEFICE. - Il Papa ha tre a. distinti : l'a. (v. sotto) del Pescatore (piscatorio), l'a, pontificale, l'a.
ordinario.

A. pontificale. - È simile all'a. che prendono i vescovi quando pontificano, ma è molto più ricco. Il Pontefice lo riceve dal cardinal
vescovo assistente secondo le cerimonie proprie della Messa papale.

A. ordinario. - Come i vescovi, il Papa porta abitualmente l'a. alla mano destra. Il Venerdì Santo per la Messa
dei presantificati
il Papa si reca in cappella senza a. in dito e senza dare la benedizione: ciò deve anche osservarsi da tutti quelli che ne hanno
l'uso, in segno di lutto per la morte del Signore.

2. A. CARDINALIZIO. - È quello che i cardinali ricevono nel concistoro segreto, come distintivo della loro dignità, quando il Papa
assegna ad essi i titoli delle chiese. Consiste in un cerchio d'oro con uno zaffiro sotto la cui legatura vi è in smalto lo stemma
del Pontefice. Non se ne conosce l'origine, ma già si trova menzionato nel sec. XII.

3. A. VESCOVILE. - I vescovi hanno due a.: quello pontificale, per le funzioni solenni; e quello ordinario, che consiste in un
cerchio d'oro con pietra circondata di brillanti.

Sono concessi 50 giorni di indulgenza (S. Uff., 18 apr. 1909) a chi bacia l'a. di un cardinale o di un vescovo.

4. A. DEGLI ABATI e PRELATI "NULLIUS". - Il can. 325 del CIC concede agli abati
nullius il privilegio di portare ovunque un a.
con unica gemma, che viene dato ad essi, come anche agli altri abati regolari, nella solenne benedizione che ricevono. Si crede
che la prima concessione risalga alla fine del sec. X.

5. A. DEI PRELATI INFERIORI. - Il motu proprio Inter multiplices


di Pio X (25 febbr. 1905) regola in maniera definitiva l'uso
dell'a. per protonotari apostolici. Solo i protonotari partecipanti possono ovunque e sempre portare l'a. con unica gemma: i
soprannumerari e quelli
ad instar participantium possono usare l'a. nelle sole funzioni pontificali. I protonotari onorari non
hanno l'uso dell'a.

Il CIC (can. 136, § 2) vieta l'uso dell'a. a tutti i chierici che non ne abbiano per legge o per indulto apostolico il privilegio.
L'indulto apostolico è, in ogni caso, necessario per portare l'a. durante la celebrazione della Messa, a meno che non si tratti di

2
un cardinale, di un vescovo o di un abate benedetto (can.
811, § 2).

6. A. DEI DOTTORI. - Eugenio III, che istituì i gradi accademici, concesse ai dottori ritualmente creati l'uso dell'a. con una
sola
gemma. Analoga disposizione si trova nel can. 1378 del CIC.

7. A. NUZIALE. - Si dà dallo sposo alla sposa nell'atto della celebrazione del matrimonio, e viene benedetto per la mistica

significazione che deve avere: segno del mutuo amore e pegno di indissolubile unione. Il suo uso passò nella liturgia cristiana
dall'antichità romana.

Bibl..: F. Liceti, De annulis antiquis, II ed., Udine 1645: J.-A, Martigny, Des anneaux chez les premiers chrétiens et de l'anneau
épiscopal en particulier, Mâcon 1858; M. Deloche, Le port des anneaux dans l'antiquité romaine et les premiers siécles du
Moyen-âge, in Mém. Acad. Inscript, 35 (Parigi 1896).

Enrico Dante

A. DEL PESCATORE. - È usato come sigillo nei brevi pontifici, di cui costituisce una delle principali caratteristiche, e in altri atti

redatti dai segretari apostolici, come le cedole e le sentenze concistoriali. Il nome deriva dalla figura dell'impronta, che

rappresenta s. Pietro pescatore.

La sua origine si ricollega con l'origine stessa dei brevi. La prima menzione si trova in due lettere di Clemente IV del 1265 e del

1266 (Potthast 19051 e 19380) come sigillo segreto usato nelle lettere
di carattere privato in luogo della bolla plumbea, che
era il sigillo
ufficiale e solenne. Il primo esemplare è costituito da un siigillo di Niccolò III (1277-80) in cera rossa, di forma

ovale, alto circa cm. 2,5, appeso ad un reliquiario del Sancta Sanctorum al Laterano, ora conservato nel Museo Sacro della
biblioteca Vaticana: in esso si scorge un giovane imberbe in piedi, che sorregge una canna da pesca con un pesce all'estremità
della lenza, ed intorno si legge: † SECRETUM NICOLAI PP. III.

Tuttavia fino al pontificato di Niccolò V il sigillo segreto non portò sempre la figura del pescatore: l'a. d'oro dell'antipapa
Clemente VII (1378-94) conservato pure al Vaticano, porta il suo stemma sormontato dalla tiara e dalle chiavi; e il sigillo di
Eugenio IV (1431-47) usato in alcuni brevi presenta le teste dei Principi degli Apostoli ("anulus capitum Principum
Apostolorum"). Nei brevi di Bonifacio IX (1389-1404) l'a. piscatorio c detto "anulus fluctuantis naviculae".

Con Niccolò V (5447-55) il tipo divenne costante: ovale impresso su cera rossa, alto circa 2 cm., con la figura di s. Pietro chino
nella navicella in atto di tirare la rete, e nel cielo il nome del Papa seguito dal numero ordinale. Intorno alla cera (tranne nella

parte inferiore) era attaccata una treccia di pergamena per proteggere


il sigillo dallo strofinio.

Nel 1842 il sigillo di cera aderente è stato sostituito da un timbro rosso rotondo, che conserva la rappresentazione dell'a.
piscatorio.

Bibl.: K. A. Fink, Untersuchungen über die päpstlichen Breven des 15. Jahrhunderts, in Römische Quartalschrift, 43 (1935), p.
80 sgg., dove è riportata la bibliografia precedente, tra cui v. specialmente F. Cancellieri, Notizie sopra l'origine e l'uso dell'a.
piscatorio, Roma 1828; Ed. Watterton, On the "Annulus piscatoris" or Ring of the Fisherman, in Archaeologia, 40 (1866), pp.
138-42.

Giulio Battelli

A. NELL'ARTE. - All'avvento del cristianesimo i simboli c


le figurazioni pagane che ornavano il sigillo cedono il posto ad altre di
soggetto sacro che sono in stretto rapporto con il repertorio
iconografico delle catacombe; nella massima parte degli esemplari
- interessante per varietà di tipi la raccolta del British Museum
di Londra - l'esecuzione è piuttosto sommaria e rozza. L'a. del
vescovo trae origine dalla necessità che egli aveva di apporre il proprio sigillo ad atti ufficiali; in processo di tempo acquista il
significato di suggello della vera fede e diviene simbolo di unione fra il pastore e la sua diocesi. Già nel sec. VII era
in Spagna
un normale attributo vescovile e tale divenne in Francia nel IX e poco più tardi in tutte le altre regioni dell'Occidente. In
relazione col nuovo significato e col diverso orientamento del gusto, al sigillo inciso si sostituì di regola il castone con una
pietra colorata talvolta incisa; non di rado vennero usati anche cammei o pietre lavorate dell'antichità pagana. Durante il
Rinascimento l'a. raggiunge un elevato grado di arte anche per l'unione di varie tecniche come il niello e lo smalto; più
massiccio nel castone appare durante l'età barocca. Merita particolare menzione l'a. piscatorio la cui forma è invariata almeno
dal sec. XV; è un a. generalmente di bronzo dorato con cristallo di rocca inciso con la rappresentazione della navicella e il
nome del Pontefice che di esso si serve per apporre il sigillo ai brevi; subito dopo la morte viene distrutto.

Bibl.: E. Molinier, Histoire générale de l'art appliqué à l'industrie, I, Parigi 1902 ; H. Leclerq, s. v. in DACL. I, coll. 2174­
2223;
O. M. Dalton,
Catalogue of the Early Christian Antiquities in the British Museum, Londra 1911, pp. 1-33.

Guglielmo Matthiae

da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 1217-1220

ANNO LITURGICO
È
la serie delle feste e dei tempi festivi della Chiesa, e ha avuto inizio ed evoluzione indipendentemente dall'anno civile. Ha
inizio la prima domenica dell'Avvento, che cade sempre negli ultimi di novembre o i
primi di dicembre. Nell'anno liturgico si
contano le settimane, in numero di 52, a somiglianza della settimana creatrice di Dio. Il settimo giorno si chiama "giorno del
Signore", dies dominica, mentre gli altri prendono il nome dal posto che hanno nella settimana:  secunda, feria tertia, quarta,
quinta, sexta, sabbatum,
e incominciano la sera precedente. La domenica corrisponde alla feria
prima, perché presso gli ebrei
il sabato era il giorno del Signore. Le settimane, a loro volta, si riuniscono per formare i tempi, che costituiscono dei cicli,
intorno ai quali si raggruppano. I due principali sono quelli di Pasqua e di Natale. Nel "calendario liturgico" attuale l'anno
consta del Temporale, che si sviluppa secondo il ciclo pasquale con le sue feste mobili, e del Santorale, che segue il calendario
civile, con le feste nei giorni fissi.

ANTEPENDIUM
Vedi PALLIOTTO

ANTIFONA
Da Antiphoné = canto alternato fra due cori. È
una breve formola, composta da una o più frasi, che mette in risalto il
siginificato del salmo: è come una chiave per l'interpretazione del salmo stesso, dal quale quasi sempre è tolta, e ne indica il
pensiero principale. A volte illustra il mistero
che si celebra, come le antifone proprie delle feste o del
Commune Sanctorum,
che sono brevi preghiere, lodi od invocazioni prese da passi scritturistici o composte ex novo.

ANTIFONARIO
Il nome deriva etimologicamente da antifona; oggi, però, per antifonario si intende il libro liturgico che contiene tutti i canti che
servono per l'ufficio divino: quindi non solo antifone, ma anche inni, versetti, ecc.

3
ANTIFONE O
Il 17 dicembre nella liturgia romana incomincia al Magnificat una serie di antifone speciali in preparazione alla festa di Natale.
Si chiamano Antiphonae Maiores, per ragione della particolare solennità con cui vengono cantate, oppure Antiphonae O perché
tutte cominciano con questa interiezione.

ANTIMENSION
È l'altare portatile dei greci. La Chiesa latina col tempo adottò solamente altari portatili di pietra, mentre la Chiesa greca si servì
del legno ed anche della stoffa, usando poi definitivamente solo questa. Oggi l'a. è comunemente un rettangolo (talvolta un
quadrato) di m. 0,40 x 0,60, di seta o anche di tela, che porta cucita nella parte posteriore una piccola borsa con
dentro
reliquie, inclusevi dal vescovo nella consacrazione. Gli dette origine la necessità frequente di celebrare i divini misteri lontano
dalle chiese, o nei luoghi privi di altari fissi; ma dati storici positivi si hanno soltanto nel sec. VIII e IX. Anticamente si usava
solo quando l'altare non era consacrato; oggi invece si usa indifferentemente su tutti gli altari. Fuori della Messa, esso resta

sull'altare piegato in quattro: il sacerdote nella celebrazione del divino sacrificio lo spiega a suo tempo secondo le prescrizioni
rubricali. Ordinariamente viene consacrato durante la cerimonia della consacrazione della chiesa, quando il vescovo, lavato
l'altare una seconda volta con il vino profumato o con l'acqua di rose, l'asciuga con gli a., e poi ripete la stessa azione dopo
aver unto l'altare col sacro crisma. Gli a. così consacrati devono restare sull'altare
finché non vi siano celebrate sette Messe. In
caso di necessità possono consacrarsi anche in altri tempi dal vescovo o
da un sacerdote a ciò delegato. Ai sacerdoti di altro
rito è vietato celebrare la Messa sull'a. (can. 823, § 2).

Bibl.: S. Pétridès, s. v. in DACL, I, ii, coll. 2319-26; Id.,


L'Antimension, in Echos
d'Orient, 3 (1899-1900), pp. 193-202; R. Souarn, Memento de théologie morale à
l'usage des missionnaires
Parigi 1907, pp. 79-81.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 1451-1452

APOLOGIA nella Messa


Con
questo nome si designavano nella liturgia antica alcune preghiere che
il sacerdote recitava per implorare il perdono delle
proprie colpe. Nella liturgia odierna è rimasto il Confiteor al principio della Messa, quale avanzo di queste apologie.

Bibl.: E. Martène, De antiquis Ecclesiae ritibus, I, cap. 4, art. 11, Anversa 1773; F. E.
Warren, The Liturgy and Ritual of the Celtic Church, Oxford 1881, p. 230; F. Cabrol, s.
v. in DACL, I, coll. 2591-2601.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, col. 1669

ARCANO, disciplina dell'


Con l'espressione disciplina arcani si suole designare, dal secolo XVII in poi, un uso vigente nella Chiesa antica, specialmente
dal secolo III al V, di non parlare agli estranei dei riti sacri e dei dogmi della religione.

ARREDI SACRI
Sono
gli oggetti che servono per il culto, specialmente quelli che più strettamente si riferiscono alla S.ma Eucaristia e servono

sia per la persona del sacerdote (paramenti sacri) sia per la confezione e conservazione del S.mo Sacramento (vasi sacri), sia
anche per ornare l'altare e la chiesa dove si celebra.

Ad imitazione di Cristo, che istituì il Sacramento eucaristico in una qualunque stanza, con vesti ed in vasi d'uso comune, i primi
cristiani solevano celebrarlo senza apparato speciale ed in luoghi privi di particolare distinzione. Solo più tardi, quando la
celebrazione eucaristica incominciò a rivestire carattere solenne, l'arredamento sacro acquistò i principali elementi liturgici
odierni. Con le invasioni barbariche la vita romana
subì una radicale trasformazione anche nel modo di vestire. Di
qui il
principio di quel distacco che gradualmente venne accentuandosi fra i laici e il clero, il quale ritenne le vesti antiche nella
celebrazione dei sacri riti. Altrettanto si dica dei vasi sacri, la forma e la materia dei quali fu stabilita man mano da usi e

prescrizioni particolari. Col medioevo si diffuse la tendenza ad una semplificazione nella forma dell'arredamento sacro. Ma
l'arte del ricamo, del cesello e dell'intarsio fu sempre largamente profusa, specialmente nelle epoche in cui i grandi geni
arricchivano le chiese di tanti mirabili capolavori, a far sì che quanto era necessario direttamente e indirettamente al servizio
liturgico si distaccasse per ricchezza e squisita fattura dagli oggetti di uso comune.

La materia con cui si confezionano gli a. s. deve essere più o meno preziosa secondo che si trovi a più o meno diretto contatto
con la S.ma Eucaristia. Così per le pianete, le tunicelle, il piviale, il velo omerale, è necessaria la seta; il lino o la canapa per il
camice, il purificatoio, le palle, le
tovaglie, gli amitti; l'oro e l'argento per il calice, la pisside, la patena, l'ostensorio. Per questi
ultimi possono adoperarsi anche altri metalli; però la patena e l'interno della coppe del calice e della pisside devono essere
dorati. Per i paramenti sacri è necessaria la benedizione, mentre per il calice e la patena occorre la
consacrazione da parte del
vescovo o di un altro sacerdote delegato. Per la conservazione degli a. s. esiste in ogni chiesa la sacrestia o altro luogo a ciò
destinato; i più preziosi vengono talvolta custoditi in apposito tesoro. Più ampie notizie sotto le voci rispettive.

Bibl.: G. Braun, I paramenti sacri, Torino 1914; E. Roulin,


Linges, insignes et vêtements
liturgiques, Parigi 1930.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, col. 18

ARUNDINE

(dal lat. arundo "canna"). Asta ornata e sormontata da tre candele disposte a triangolo, usata nella funzione del Sabato Santo.
Dopo la benedizione del fuoco alla porta della chiesa, il diacono vi entra sorreggendo con la destra l'a., e canta tre volte il
Lumen Christi all'ingresso, a metà e vicino all'altare, alzando ogni volta il tono della voce e accendendo una delle tre candele.
L'a. rimane poi a fianco dell'altare maggiore fino alla domenica in albis. Il rito trae forse la sua origine dall'uso esistente in
Roma dove, il Giovedì Santo, verso nona, alla porta del Laterano si accendeva, con una scintilla tratta da pietra focaia, una
candela posta su una canna; con essa poi si accendevano sette lampade e si iniziava la Messa (Ordo Rom. I, appendice 1,
dell'evo carolino). La miniatura di un
Exsultet (Cod. Vat. lat. 3784, sec. XII) fa pensare che l'a. non fosse altro in origine che
l'asta munita di una o più candele, adoperata per accendere il Cero pasquale. Comunque l'attuale cerimonia del
Lumen Christi
compare solo nell'Ordo Rom. XII, 30 (fine sec. XII inizio sec. XIII)

4
Bibl.: Ordo Romanus I, appendice 1, n. 2 e Ordo Romanus XII, 30: PL 78, 960, 1076;
M. Righetti, Storia liturgica, II, Milano 1946, p. 171.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1948, col. 71

"ASPERGES ME"
Formola con cui si fanno le aspersioni rituali di acqua benedetta (v. Aspersione).
Non è facile decidere se l'uso della formola
coincidesse sempre con quello dell'acqua. Nel sec. IX si usava certamente per l'aspersione sugli infermi (Teodulfo di Orléans
[m. nel 815], Capitulare alterum, 105, 220; Sinodo di Nantes can. 4, in Mansi, XI, 658, falsamente attribuito al 658).
Probabilmente si usava anche nell'aspersione domenicale del popolo (nella quale forse ognuno si aspergeva senza essere
asperso da altri), che Incmaro di Reims (Capitula Synod.,
I, 5: PL 125, 774) prescrive nell'852, mentre sembra che in principio

l'aspersione dei luoghi e delle cose fosse fatta al canto dei salmi (S. Baluze, Capit. Regum Francor., I, Parigi 1677, p. 903) o
forse solo con la recita di collette. È conosciuto con certezza l'uso
dell'A. al sec. XI nell'aspersione domenicale dalle

Consuetudines cassinesi dell'abate Oderisio (E. Martène, De ant. Eccl. ritibus, ed. di Anversa 1738, lib. IV, p. 134).

Nel tempo pasquale in suo luogo si canta Vidi aquam, composizione ispirata ad Ez. 47, 1, con evidente allusione al Battesimo di
cui la Pasqua celebra il ricordo. Nella processione pasquale vespertina dei neofiti, infatti, si cantava
a Roma questa stessa
antifona (Ordo Roman., I, cap. 13: PL 78, 966). Il senso battesimale, che nel medioevo subentrò al primitivo senso lustrale cd
esorcistico del rito e della formola di aspersione, nonché il tradizionale uso di non cantare il salmo 50
durante il periodo
pasquale, diedero forse motivo, più che la reminiscenza storica romana, all'introduzione del
Vidi aquam nello stesso periodo
liturgico.

Bibl.: A. Franz, Die kirchlich. Benedictionen im Mittelalter, I, Friburgo in Br. 1909, p. 86 sgg.

Salvatore Marsili

da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, coll. 154-155

ASPERSIONE
È
l'atto di spruzzare sulle persone o sulle cose l'acqua benedetta, di solito usando uno strumento di metallo o ramoscelli di
alcune piante (v. Aspersorio). L'acqua è stata sempre usata per la purificazione, donde il suo largo impiego nelle varie religioni
(v. Rito).
Nessuna meraviglia, quindi, che anche le religioni rivelate si servissero di un tal rito per significare la purificazione del
corpo.

Nella
Legge mosaica la purificazione con l'acqua si faceva in tre modi: per
abluzione, per a. e per immersione. Nel libro dei
Numeri (19) abbiamo
una curiosa a. dell'acqua lustrale, mischiata alle ceneri di una vacca rossa. Nella festa dei Tabernacoli le
lustrazioni erano più numerose. La religione cristiana ereditò dall'ebraica l'uso dell'acqua lustrale, e scelse nei libri sacri le
preghiere e i canti che accompagnano ancor oggi il rito dell'a. Esso risale alla più remota antichità, e ne vediamo tracce negli
Atti di Pietro, scritti verso il 200, e negli Atti di s. Tommaso, scritti verso il 232. Nel Sacramentario di Serapione, oltre la
benedizione dell'acqua battesimale, vi sono varie formole per la benedizione dell'olio, dell'acqua e del pane. In Oriente, almeno
dal sec. III, si ha l'uso liturgico dell'acqua benedetta per ottenere la guarigione dalle malattie e contro le tentazioni del
demonio; in Occidente, invece, dobbiamo risalire alla metà del sec. VI per avere delle notizie certe. S. Agostino, infatti, s.
Gregorio di Tours e s. Cesario
di Arles tacciono su tale soggetto. Se ne parla nella lettera di papa
Vigilio a Profuturo di Braga
(538), nelle vite di s. Emiliano, di s. Mabo e di s. Vilfrido, nel
Liber Pontificalis, ove si accenna all'uso occidentale di
mischiare il
sale all'acqua nella benedizione. L'a. dell'acqua nelle domeniche, poi, rimonta ad Incmaro (sec. IX); e dalla liturgia gallicana è
passata alla romana. Quanto al Battesimo per a. v.
Battesimo.

Bibl.: G. Bona, Rerum lìturgicarum libri duo, II, Torino 1749, pp. 81-84; P. M. Paciandi,
De sacris christianorum balneis, Roma
1758; A. Gastoué,
L'eau bénite, son origine, son histoire, son usage, Parigi 1907.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, col. 155

ASPERSORIO
È
uno strumento di argento, oro od altro metallo, che serve a spruzzare di acqua benedetta le persone e gli oggetti. Oltre le
pile per l'acqua
santa all'ingresso delle chiese, furono presto in uso dei vasi minori, portatili, per poter più facilmente eseguire
le varie aspersioni richieste dalla liturgia. I primi cristiani le praticavano con ramoscelli d'issopo o di altre erbe profumate,
come alloro, mirto,
olivo. Nella forma oggi più usata, l'a. consiste in un'asta di metallo, terminante in una palla traforata, o in
setole bianche. Il Pontificale romano prescrive l'a. d'issopo per la consacrazione o benedizione di chiese e di altari, e ciò in
armonia alla formola di benedizione:
Asperges me hyssopo.

 Bibl.: Ordo Romanus I, appendice 1, n. 2 e Ordo Romanus XII, 30: PL 78, 960, 1076; M. Righetti,
Storia liturgica, II, Milano
1946, p. 171.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, col. 155

BACILE
Grande piatto, per lo più in metallo, che serve per le varie abluzioni
in uso nella liturgia. I vescovi usano un bacile con una
brocca di argento e di metallo, anche altri prelati hanno tale privilegio.

BACIO
Nella liturgia cattolica è un gesto di uso frequente e riveste carattere di venerazione e omaggio, di affetto e unione fraterna,

oppure di sudditanza. Si distingue il bacio delle persone (bacio di pace) e il bacio delle cose sacre.

Baldeschi, Giuseppe
Liturgista,
della Congregazione della missione, n. a Ischia di Castro (Viterbo) il 1° luglio 1791, m. a Roma il 19 apr. 1849.

5
Maestro delle cerimonie pontificie di Leone XII, scrisse una
Esposizione delle sacre cerimonie
(4 voll., Roma 1823), più volte
ristampata e tradotta in francese e in tedesco, pregevole per la sua chiarezza.

Filippo Oppenheim

da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, col. 733

BAUDRY (BAULDRY), MICHEL


Liturgista, nato a Evron verso il 1585, morto nel 1660. Opere principali:
Manuale sacrarum caerimoniarum iuxta ritum sanctae
Romanae ecclesiae
(Parigi, 1637).

BENEDETTO, CANONICO
Canonico di S. Pietro in Roma. Sappiamo di lui assai poco. Con il titolo di canonico e con quello di Romanae Ecclesiae cantor
egli si presenta nel Liber policitus (scil. polyptycus) ad Guidonem de Castello. Il lavoro fu compiuto prima del settembre 1143
non poté essere scritto prima del 1140.

BERNONE DI REICHENAU
(Berno Augiensis)
Da alcuni detto Bernardo; uomo politico, liturgista, musico, agiografo, oratore, poeta. Abate di Reichenau dal
1008 al 1048. Morto il 7 giugno 1048. Opere liturgiche principali:
De celebratione Adventus Domini, Dialogus de ieiuniis
Quatuor Temporum, De officio Missae, De varia psalmorum atque cantorum modulatione, Tonarius, De consona Tonorum
diversitate.

BISHOP, EDMUND
Liturgista inglese nato a Totnes il 17 maggio 1846, morto a Downside il 17 febbraio 1917.

Bona, Giovanni
Cardinale,
dottissimo scrittore ascetico e storico-liturgico, nato a Pian della Valle presso Mondovì il 28 ottobre 1674. Opere
liturgiche principali: Psallentis ecclesiae harmoniae (1653), Rerum liturgicarum libri duo (1671).

BORSA
Per custodire con decenza e riverenza il corporale, quando fu ridotto alle dimensioni attuali, è stata introdotta la b. Anticamente
il corporale si custodiva in apposite scatole-cassette, oppure si portava
all'altare entro il Liber Sacramentorum. La b. è oggi
formata da due cartoni uniti ed aperti da un lato. Deve essere ricoperta, almeno da una parte, di stoffa del colore e della
materia dei paramenti sacri. L'interno può essere di seta o di lino. Non è necessario
che vi sia sopra la croce, ma può essere
ornata in vario modo. Il suo uso non è molto antico; il Gavanto la fa risalire al Concilio di Reims (sec. XI). Oggi è obbligatoria
secondo le prescrizioni delle rubriche del Messale. L'uso di distribuire la comunione fuori della Messa ha portato anche l'obbligo
per il sacerdote di portare da sé all'altare la b. con il corporale: essa è la stessa di quella della Messa e deve essere del colore
della stola. Per portare la comunione agli infermi si usa pure un'altra borsa di seta bianca, con un fondo rotondo e forte per

sostenere la pisside o la piccola teca delle particole, chiusa all'estremità superiore da un cordone da appendersi al collo. Essa
non deve servire per portare l'Olio Santo, per il quale se ne usa una violacea. Va ricordato infine il divieto fatto dalla S.

Congregazione dei Riti di usare le borse destinate ai corporali per raccogliere le elemosine.

 Bibl.: G. Braun, I paramenti sacri, Torino 1914, p. 93.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, coll. 1934-1935

BRAGARENSE, LITURGIA
Braga,
diocesi nel nord del Portogallo, ha un suo particolare rito che si riallaccia ad antichi usi locali. Si compone del canone
romano e formole indigene o desunte da altre liturgie. Nel 1919 fu approvata la
nuova edizione del breviario bragarense, nel
1924 quella del messale.

BREVIARIO
È
il libro liturgico che contiene l'ufficio divino secondo il rito della Chiesa romana. La voce breviario (breve nota, compendio)
nella lingua liturgica da principio indicava un foglio o libretto posto all'inizio del salterio, che notava gli uffici divini da compiersi
in un
determinato tempo, e i rispettivi formulari con i loro richiami.

BUGIA

Vedi PALMATORIA

BURCARDO, Giovanni
Cerimoniere pontificio, liturgista e storico, n. a Nieder-Haslach (Alsazia) nel 1450 ca., m. a Roma il 16 maggio 1506. Venuto a
Roma nel 1467 in cerca di fortuna, fu dapprima al servizio di vari cardinali, poi familiare di Sisto IV (ca. 1475), dal quale
ottenne vari benefici ecclesiastici e alte cariche curiali, come quella di protonotario apostolico (1481) e di maestro delle
cerimonie (1483), ufficio che tenne fino alla morte, anche dopo essere divenuto vescovo delle diocesi riunite di Civita
Castellana e Orte (1503-1506). Era un valente liturgista, pratico del suo ufficio, acuto osservatore, ma anche avido di denaro.
A Roma si fabbricò una casa, la Torre Argentina, detta così dalla nativa Strasburgo (Argentoratum). Fu anche rettore della
chiesa nazionale tedesca di S. Maria dell'Anima a Roma; fu sepolto in S. Maria del Popolo.

Pubblico, insieme con Ag. Patrizzi, il Liber Pontificalis, cioè il Pontificale romano (Roma 1485, che ristampò in seconda edizione
con Giacomo De Luciis, ivi 1487). La sua opera liturgica principale è Ordo servandus per sacerdotem in celebratione Missae
(Roma 1495, coi tipi di Stef. Planok [cf. L. Hain, Repert. bibl., n. 4102], pubblicata di nuovo a Roma 1502, e spessissimo
ancora sotto vari titoli), opera la cui sostanza entrò nel Messale romano come Rubriche generali e Rito per celebrare la Messa.
Molta materia liturgica a uso della Curia pontificia è pure sparsa nella celebre opera Diario della Curia Romana o Liber

6
notarum, che come cerimoniere scrisse giorno per giorno nell'interesse del suo ufficio, pur inserendovi però fatti e osservazioni
attinenti alla Curia e agli eventi di quel tempo movimentato. Per questo lato l'opera, che va con alcune interruzioni dal 1483 al
1506, è una preziosa fonte storica, dall'autore però non destinata al pubblico. I maggiori storici odierni ammettono la veridicità
dell'autore che scientemente non mente né calunnia per proposito, sebbene qualche volta accolga forse delle dicerie
difficilmente controllabili.

Bibl.: Edizioni complete: L. Thuasne, 3 voll., Parigi 1883-1885; E. Celani, Joannis Burckardi Liber notarum, 2 voll., in 4°, nella
nuova ed. del Muratori, Rerum Ital. Script., vol. XXXII, parte 1ª, I, Città di Castello 1907-13, con abbondanti note (è la
migliore edizione). Studi: oltre le prefazioni di L. Thuasne al III vol. e del Celani al I vol. e II, 44, nota 7, v. pure: D. Gnoli, La
Torre Argentina in Roma, in Nuova Antologia, 43 (1908, III), pp. 596-605 ; J. Lesellier,
Les méfaits du cérémoniaire Jean
Burckard, in Mélanges d'archéologie et d'histoire, 44 (1927), pp. 11-34; P. Paschini, A proposito di G. B. cerimoniere pontificio,
in Arch. della R. soc. romana di storia patria, 51 (1928), pp. 33-59; A. Petrignani, Il restauro della casa del B. in via del
Sudario in Roma, in Capitolium, 9 (1933), pp. 191-200; L. Oliger, Der päpstliche Zeremonienmeister Johannes Burckard von
Strassburg, in Archiv für elsässische Kirchengeschichte, 9 (1934), pp. 199-232. Per la parte liturgica: A. Franz, Die Messe im
deutschen Mittelalter, Friburgo in Br. 1902, pp. 613-15; J. Baudot, s. v. in DACL, II, 1 (1910), col. 1350 sg.

Livario Oliger

da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 224-225

CALENDARIO DELLA CHIESA UNIVERSALE


Di un c. della Chiesa Universale si può parlare solo dall'anno 1568 in poi, dal momento, cioè, in cui Pio V impose a tutta la
Chiesa latina il Breviario riformato, con l'annesso c. L'identico c. si trova poi nel Messale romano, riformato e prescritto

ugualmente da Pio V a tutta la Chiesa latina nel 1570. Il Papa permise di ritenere Breviario e Messale proprio solo a quegli
Ordini e diocesi che li usavano da duecento anni. Di questa facoltà si servirono tutti i rami dell'Ordine benedettino, i
Domenicani, Carmelitani, Premostratensi, Certosini, e alcune poche diocesi (Milano, Aquileia, Parigi, Lione, ecc.) le quali poi

quasi tutte, in tempi successivi, adottarono il Messale e il Breviario romano, cosicché la Chiesa latina quasi al completo si serve
di un c. unico, nel quale le singole chiese e Ordini inseriscono le feste proprie. Ogni cambiamento di questo c., come
l'inserzione di feste nuove, variazioni di rito, spostamenti di feste ecc. spetta unicamente alla S. Sede la quale esplica questa
attività attraverso la S. Congregazione dei Riti (v.).

Non è qui il luogo di fare la storia del santorale (v.), o dell'origine e dello sviluppo delle feste (v.); basti dire che la base di
questo c. fu costituita da quello dei libri liturgici, detti "della Curia" ossia di Roma, ma con una saggia riduzione di feste e di
rito, in modo da ripristinare in gran parte la liturgia feriale. Infatti, il c. di Pio V ha soltanto 120 feste, di cui 30 semidoppi, 57
doppi, e 33 memorie. Le grandi feste erano 20 di prima e 17 di seconda classe. Clemente VIII, nel 1602, in occasione della

nuova edizione del Breviario introdusse una nuova classe di feste, il doppio maggiore (16 feste). Da questo momento
incominciò la prevalenza del santorale (v.) sopra il temporale (v.), e la ininterrotta inserzione di nuove feste, di aumenti di riti,
di distinzioni sempre più raffinate nelle singole categorie della gradazione liturgica. Al tempo di Benedetto XIV il numero delle

feste era già salito a 228. Esistevano inoltre 36 feste "ad libitum", vale a dire che una chiesa o un ordine le poteva inserire o
meno nel c.; però, una volta inserite, la festa si doveva celebrare: il numero complessivo dunque di feste era 264. Leone XlII,
nel 1893 e 1895, stabilì una ulteriore distinzione di grado, le feste primarie e secondarie. La riforma di Pio X del 1911

perfezionò tutto il sistema della gradazione codificandolo definitivamente; ma omise di fermare in qualche modo l'aggiunta di
nuove feste. Attualmente siamo arrivati ad un complesso di 338 giorni festivi, di cui 50 mobili (compresi giorni di ottave
privilegiate) e 288 feste fisse.

Segue ora il c. della Chiesa Universale, allo stato attuale, con l'indicazione del rito (D1 = doppio di 1 classe,
D2 = doppio di 2
classe,
DM doppio maggiore, D = doppio minore, SD = semidoppio,
S = semplice, C = commemorazione),
OTT. = ottava (p.

privilegiata; c. comune; s. semplice), e di tutte le mutazioni avvenute da s. Pio V (1568) fino all'anno 1949. Le date indicano i

cambiamenti fatti: non è stata notata la data della seduta della Congregazione dei Riti, ma solo quella dell'approvazione
pontificia.

Genn. - 1. Circoncisione e ottava della Natività,


D2. - ottava di s. Stefano,
D (1568),
s (1914). - 3. ottava di s. Giovanni,
D
(1568),
s (1914). - 4. ottava degli Innocenti,
D (1568),
s (1914). - 5. vigilia dell'Epifania:
sd;
c di s. Telesforo papa (1602). -
6. Epifania,
D1 ott. p. - 7-12: giorni tra t'ottava,
sd (1914); 11, c di s. Igino papa (1568). - 13. ottava dell'Epifania,
D (1568),
Dm (1914). - 14. s. Ilario, sd (1568), D e Dott. della Chiesa (10 genn. 1852); s. Felice sacerdote m., c (1568). - 15. s. Paolo
primo eremita:
sd (1568),
D (18 ag. 1722); s. Mauro ab.,
c (1568). - 16. s. Marcello papa,
sd (1568). - 17. s. Antonio ab.,
D
(1568). - 18. Cattedra di s. Pietro a Roma,
D (1568),
Dm (1602);
c di s. Prisca v. m. (1568). - 19. Ss. Mario, Marta, Audiface.

Abaco, mm., s (1568); s. Canuto re m.,


sd ad lib. (10 ag. 1670), ridotto a
c (1914). - 20. ss. Fabiano e Sebastiano,
D (1568). -
21. s. Agnese, D (1568). - 22. ss. Vincenzo ed Anastasio,
sd (1568). - 23. s. Emerenziana,
s (1568); s. Raimondo da Peñafort,
sd (23 marzo 1671); s. Emerenziana, ridotta a
c - 24. s. Timoteo, s (1568), sd (1602), D (18 maggio 1854). - 25. Conversione
di s. Paolo Apostolo, D (1568), Dm (1602). - 26. s. Policarpo,
s (1568),
sd (1602),
D (1914). 27. s. Giovanni Crisostomo, Dott.
della Chiesa,
D (1568). - 28. s. Agnese secondo,
s (1568); s. Pietro Nolasco,
D (dal 31; 25 marzo 1936); s. Agnese ridotta a
c
- 29. s. Pietro Nolasco, sd (22 luglio 1664); s. Francesco di Sales,
sd (21 ott. 1666; s. Pietro Nolasco trasferito al 31)
D (24
nov. 1691) Dott. della Chiesa (30 sett. 1877). - 30. s. Martina, sD (1635). - 31. s. Pietro Nolasco,
sD (trasferito dal 29: 1666);

D (13 luglio 1672); s. Giovanni Bosco,


D (25 marzo 1936; s. Pietro Nolasco trasferito al 28).

Febbr. - 1. s. Ignazio m.,


sD (1568),
D (Pio IX). - 2. Purificazione di Maria S.ma,
D2 (1568). - 3. S. Biagio, s (1568). - 4. s.
Andrea Corsini,
sD ad lib. (21 ott. i666),
sD (31 ag. 1697), D (3 genn. 1731). - 5. s. Agata,
sD (1568),
D (26 ag. 1713). - 6. s.
Dorotea,
s (1568); S. Tito, D (18 magg. 1854); S. Dorotea, ridotta a
c. - 7. s. Romualdo, D (1602oz), SD (1631), D (16 febb.
1669). - 8. s. Giovanni de Matha,
D (31 maggio 1694). - 9. s. Apollonia,
S (1568); s. Cirillo Alessandrino, Dott. della Chiesa,
D
(28 luglio 1882); s. Apollonia ridotta a
C. - 10. s. Scolastica, D (1 febb. 1729). - 11. ss. sette Fondatori dei Servi di Maria, D

(20 dic. 1888); apparizione dell'Immacolata a Lourdes,


DM (1 genn. 1908; i Fondatori trasferiti al 12). - 12. ss. sette
Fondatori, D (8 genn. 1908, dall'11). - 14. s. Valentino,
s (1568). - 15. ss. Faustino e Giovita,
s (1568). - 18. s. Simeone, s
(1568). - 22. Cattedra di s. Pietro in Antiochia, D (1568), Dm (1602). - 23. s. Pier Damiani, Dott. della Chiesa,
D (1 ott. 1828).
- 23 o 24 (secondo se l'anno è bisestile o no) vigilia (1568) - 24 o 25. s. Mattia Ap.,
D2 (1568). - 27 o 28. s. Gabriele
dell'Addolorata,
D (13 apr. 1932).

Marzo. - 4. s. Lucio papa,


s (1602); S. Casimiro, sD (7 ag. 1621); s. Lucio ridotto a
c. - 6. ss. Perpetua e Felicita,
D (1908, dal
7). - 7. s. Tommaso d'Aquino, Dott. della Chìesa,
D (1568); ss. Perpetua e Felicita,
c (1568; trasferite al 6 ed elevate a
D:
1908). - 8 s. Giovanni di Dio,
sD (5 maggio 1714), D (25 apr. 1722). - 9. ss. Quaranta martiri,
sD (1568); s. Francesca
romana, senza rito determinato (1 giugno 1606), D (26 febbr. 1649); trasferimento dei Quaranta al giorno seguente (21 ag.
1649). - 10. ss. Quaranta martiri,
sD (1649, dal giorno precedente). - 12. S. Gregorio Magno, Dott. della Chiesa, D (1568). -
17. s. Patrizio,
c (1631),
sD (7 sett. 1685), D (12 maggio 1859). - 18. s. Cirillo di Gerusalemme, Dott. della Chiesa, D (28
luglio 1882). - 19. s. Giuseppe,
D (1568),
D2 (6 dic. 1670), D1 (8 dic. 1870); festa mobile, assegnata alla domenica dopo il 19
marzo, D1 ott. c. (2 luglio 1911); restìtuito al 19:
D1 senza
ott. (24 luglio 1911); D2 (28 ott. 1913); D1 (12 dic. 1917). - 20.
s. Gioacchino,
sD (1584),
D (18 maggio 1623); trasferito alla domenica dopo l'ottava dell'Assunta (1738). - 21. s. Benedetto,
D (1568),
Dm (5 luglio 1883). - 24. s. Gabriele arcangelo,
Dm (26 ott. 1921). - 25. Annunciazione di Maria S.ma,
D2 (1568),
D1
(27 maggio 1895). - 27. s. Giovanni Damasceno, Dott. della Chiesa, D (19 ag. 1890). - 28. s. Giovanni da Capistrano,
sD (19
ag. 1890).

Apr. - 2. s. Francesco da Paola, D (1585), sD (1602), D (4 maggio 1613). - 4. s. Isidoro, Dott. della Chiesa,
D (25 apr. 1722). -

7
5. s. Vincenzo Ferreri,
sD ad lib. (29 nov. 1667),
sD (25 marzo 1706), D (5 apr. 1726). - 11. s. Leone Magno,
D (1568), Dott.
(15 ott. 1754). - 13. s. Ermenegildo,
sD (1631). - 14. ss. Tiburzio, Valeriano, e Massimio,
s (1568); s. Giustino m., D (28 luglio
1882); i martiri ridotti a
c. - 17. s. Aniceto, papa, s (1568). - 21. s. Anselmo (un tentativo sotto Innocenzo XI, 1688, non
riuscì),
sD (con la Messa dei Dottori: 21 genn. 1690),
D (8 febbr. 1720). - 22. ss. Sotero e Caio, papi,
sD (1568). - 23. s.
Giorgio, sD (1568). - 24. s. Fedele da Sigmaringa,
D (16 febbr. 1771). - 25. s. Marco,
D2 (1568). - 26. ss. Cleto e Marcellino,
papi,
D2 (1568). - 27. s. Pietro Canisio, Dott. della Chiesa,
D (24 nov. 1926). - 28. s. Vitale,
s (1568); s. Paolo della Croce,
D2
(14 genn. 1869); s.Vitale ridotto a
c. - 29. s. Pietro m., D (13 apr. 1586), sD (1602), D (26 luglio 1670); s. Caterina da Siena,
c (8 maggio 1597); trasferita al (1628). - 30. s. Caterina da Siena, sD (7 ag. 1628, dal giorno precedente),
D (9 ott. 1670).

Maggio. - 1. ss. Filippo e Giacomo App., D2 (1568). - 2. s. Atanasio, Dott. della Chiesa,
D (1568). - 3. Invenzione della S.
Croce,
D (1568);
D2 (1602); ss. Alessandro, Evenzio, Teodulo e Giovenale,
c (1568). - 4. s. Monica, s (1568), sD (14 luglio
1669), D (26 ag. 1730). - 5. s. Pio V, papa,
sD (17 febbr. 1713), D (26 apr. 1775). - 6. s. Giovanni a porta Latina,
D (1568),
Dm (1602). - 7. s. Stanislao vesc. m.,
sD (22 nov. 1594; il 21 febbr. 1595, fu elevato a
D ma rimase in vigore il
sD),
D (13

marzo 1736). - 8. Apparizione dell'arcangelo s. Michele,


D (1568),
Dm (1602). - 9. s. Gregorio Nazianzeno, Dott. della Chiesa,
D (1568). - 10. ss. Gordiano ed Epimaco mm.,
s (1568); s. Antonino, sD
ad lib. (17 ag. 1683),
sD (16 apr. 1707; i martiri sono
ridotti a
c),
D (12 sett. 1845). - 12. ss. Nereo, Achilleo e Pancrazio,
s (1568); con l'aggiunta di Domitilla (1597) in seguito

all'invenzione e traslazione dei corpi nella chiesa titolare del Baronjo


sD (1602). - 13. s. Roberto Bellarmino, Dott. della Chiesa,

D (6 genn. 1932). - 14. 5, Bonifacio, m.,


s (1568). - 15. s. Giovanni Batt. de la Salle,
D (1904). - 16. s. Ubaldo, s (17 dic.
1605),
sD ad lib. (18 febbr. 1696),
sD (10 dic. 1713). - 17. s. Pasquale Baylon,
D (13 marzo 1784). - 18. s. Venanzio m.
sD (
11 nov. 1670); D
(23 luglio 1774). - 19. s. Pudenziana,
s (1568); s. Pietro Celestino,
sD (21  luglio 1668; s. Pudenziana ridotta
a
c),
D (10 marzo 1681). - 20. s. Bernardino da Siena,
sD (15 nov. 1657). - 25. s. Urbano, papa,
s (1568); s. M. Maddalena
dei Pazzi,
sD (29 nov. 1690; s. Urbano ridotto a
c); s. Gregorio VII, D (25 nov. 1728; trasferendo s. Maria Maddalena al 27). -

26. s. Eleuterio, papa,


s (1568); s. Filippo Neri, sD
ad lib. (6 nov. 1625),
sD (sotto Aless. VII; s. Eleuterio ridotto a
c),
D (8

giugno 1669). - 27. s. Giovanni, papa m.,


s (1568); s. Maria Maddalena dei Pazzi,
sD (dal 25 nov. 1728); s. Beda, venerabile,
Dott. della Chiesa,
D (1899; trasferendo s. Maria Maddalena al 29); s. Giovanni ridotto a c. - 28. s. Agostino di Canterbury,
D
(28 giugno 1882). - 29. s. Maria Maddalena dei Pazzi,
sD (1899, dal 27). - 30. s. Felice, papa, m.,
s (1568). - 31. s. Petronilla,
s (1568); s. Angela Merici, D (11 giugno 1861, con
c di s. Petronilla).

Giugno. - 2. Ss. Marcellino, Pietro ed Erasmo, s (1568). - 4. s. Francesco Caracciolo,


D (5 ag. 1807). - 5. s. Bonifacio vesc. m.,
D (11 giugno 1874). - 6. s. Norberto,
sD (16 nov. 1620), trasferito all'11 (1625), riportato al 6(1631 o 5634), D (7 nov.
1677). - 9. ss. Primo e Feliciano,
s (1568). - 10. s. Margherita ved, regina di Scozia,
sD ad lib. (2 dic. 1673), trasferita all'8
luglio (9 febbr. 1678), restituita al 10 (4 marzo 1693). - 11. s. Barnaba, D (1568), Dm (1602). - 12. ss. Basilide, Cirino, Nabore
e Nazario,
s (1568); s. Giovanni da S. Facondo,
D (19 nov. 1729), c dei ss. Martiri. - 13. s. Antonio di Padova,
D (14 genn.
1586), sD (1602), D (18 giugno 1670), Dott. della Chiesa (16 genn. 1946). - 14. s. Basilio Magno, Dott. della Chiesa,
D
(1568). - 15 ss. Vito, Modesto, Crescenzia,
s (1568).  18. ss. Marco, Marcelliano,
s (1568); s. Efrem Siro, Dott. della Chiesa,
D
(14 ott. 1920, con c dei martiri). - 19. ss. Gervasio e Protasio,
s (1568); s. Giuliana dei Falconieri,
sD (15 marzo 1738, con c

dei martiri), D (11 dic. 1762). - 20. s. Silverio, papa,


s (1568). - 21. s. Luigi Gonzaga,  (23 luglio 1842). - 22. s. Paolino, s

(1568), D (18 sett. 1908). - 23. vigilia (1568). - 24. natività di s. Giovanni Batt.,
D1 ott. com. (1568), trasferita alla domenica
precedente la festa degli App. Pietro e Paolo (28 luglio 1911), restituita al suo giorno (28 ott. 1913). - 25. giorno fra l'ottava

(1568); s. Guglielmo ab.,


D (24 ag. 1785). - 26. ss. Giovanni e Paolo,
sD (1568),
D (21 maggio 1728). - 28. s. Leone II,
sD
(1568); s. Ireneo, D (26 ott. 1921, trasferendo s. Leone al 3 luglio). - 29. ss. Pietro e Paolo,
D1 ott. c. (1568). - 30.
commemorazione di s. Paolo Ap.,
D (1568),
Dm (1602).

Luglio. - 1. ottava di s. Giovanni Batt., D (1568); festa del Preziosissimo Sangue di Gesù,
D2 (1914),
D1 (25 apr. 1934). - 2.
Visitazione di Maria S.ma,
D (1568),
D2 (1602),
D2 (31 maggio 1850), c dei ss. Processo e Martiniano (1568). - 3. giorno fra

l'ottava dei ss. App. Pietro e Paolo (1568); s. Leone II,


sD (26 ott. 1925, trasferito dal 28 giugno). - 4. giorno fra l'ottava dei
ss. App. Pietro e Paolo (1568); s. Elisabetta reg. ved.,
sD ad lib. (1631), trasferita all'8 (19 genn. 1695). - 5. giorno fra
l'ottava dei ss. App. Pietro e Paolo (1568); ss. Cirillo e Metodio,
D (25 ott. 1880); s. Antonio Maria Zaccaria,
D (1 dic. 1897,
trasferendo i ss. Cirillo e Metodio al 7). - 6. ottava dei ss. App. Pietro e Paolo,
D (1568),
Dm (1914). - 7. ss. Cirillo e Metodio,
D
(11 dic. 1897, dal 5). - 8. s. Margherita reg. di Scozia,
sD ad lib. (9 febbr. 1678, dal 10 giugno),
sD (16 nov. 1691), restituita
al 11 giugno (4 marzo 1693); s. Elisabetta reg. ved.,
sD (19 genn. 1695, trasferita dal 4). - 10. ss. sette fratelli, Rufina e
Secondina mm.,
sD (1568). - 11. s. Pio I, papa,
s (1568). - 12. ss. Nabore e Felice mm.,
s (1568); s. Giovanni Gualberto,
c
(21 febbr. 1595), sD
ad lib. (21 febbr. 1671),
sD (10 dic. 1679) e c dei martiri, D (18 genn. 1680). - 13. s. Anacleto papa,
sD
(1568) maggio 1753. - 20. s. Margherita
s (1568); s. Girolamo Emiliani,
D (1769, s. Margherita ridotta a
c). - 21. s. Prassede,
s (1568). - 22. s. Maria Maddalena,
D (1568). - 23. s. Apollinare,
sD (1568),
D (25 maggio 1675); s. Liborio,
c (15 luglio
1702). - 24. vigilia (1568); s. Cristina,
c (1568). - 25. s. Giacomo Ap.,
D2 (1568); s. Cristoforo, c
(1568). - 26. s. Anna,
D (28
apr. 1584), Dm (3 dic. 1738), D2 (1 ag. 1879). - 27. s. Pantaleone m.,
s (1568). - 28. ss. Nazario, Celso, Vittore ed Innocenzo
I, papa,
sD (1568). - 29. s. Marta, sD (1568); ss. Felice II, Simplicio, Faustino, Beatrice mm., s (1568). - 30. ss. Abdon e
Sennen,
s (1568). - 31. s. Ignazio di Loyola,
sD ad lib. (1623), sD (Innocenzo X),
D (27 nov. 1667), Dm (1922).

Ag. - 1. s. Pietro in Vincoli,


D (1568),
Dm (1602);
c dei Maccabei (1568). - 2. s. Stefano papa,
s (1568); s. Alfonso Marìa de'
Liguori,
D (18 nov. 1839, s. Stefano ridotto a
c), Dott. della Chiesa (7 luglio 1871). - 3. Invenzione di s. Stefano protom., Dm
(1568). - 4. s. Domenico,
D (1568),
Dm (1914). - 5. dedicazione di Maria S.ma ad Nives,
D (1568),
Dm (1602). - 6.
Trasfigurazione di N. S. G. C.,
D (1568),
Dm (1602),
D2 (1914); ss. Sisto II papa, Felicissimo, Agapito mm.,
c (1568). - 7. s.
Donato m.,
s (1568); s. Gaetano Thiene,
sD (8 marzo 1673, c di s. Donato), D (4 ag. 1685). - 8. ss. Ciriaco, Largo, Smaragdo,

sD (1568). - 9. vigilia (1568); s. Romano m.,


c (1568); s. Giovanni Maria Vianney,
D (9 maggio 1928). - 10. s. Lorenzo,
D2
ott. c. (1568), D2 ott. s. (1914). - 11. giorno fra l'ottava di s. Lorenzo; ss. Tiburzio e Susanna,
c (1568),
s (1914). - 12. giorno
fra l'ottava di s. Lorenzo,
c s. Chiara (1568); S. Chiara
sD ad lib. (Innocenzo X),
D (27 maggio 1670). - 13. giorno fra l'ottava
di s. Lorenzo; ss. Ippolito e Cassiano,
c (1568),
s (1914). - 14. giorno fra l'ottava di s. Lorenzo; vigilia
c, e s. Eusebio, c

(xs68); Vigilia, c s. Eusebio (1914). - Assunzione di Maria S.ma,


D1 ott. c. (1568). - 16. giorno fra l'ottava dell'Assunta e di s.

Lorenzo, c (1568); s. Giacinto,


D (1 febbr. 1625; c delle due ottave); s. Gioacchino,
D2 (1914, trasferendo s. Giacinto al 17). -
17. ottava di s. Lorenzo, D (1568); c ottava dell'Assunta (1568); s. Giacinto,
D (1914, dal 16, con c delle ottave). - 18. giorno
fra l'ottava;
c di s. Agapito m. (1568). - 19. giorno fra l'ottava dell'Assunta (1568); s. Giovanni Eudes,
D (9 maggio 1928, con
c dell'ottava). - 20. s. Bernardo,
D (1568),
c dell'ottava; Dott. della Chiesa (20 ag. 1830); s. Stefano re, c (1631), trasferito al
2 sett. (19 apr. 1687). - 21. giorno fra l'ottava (1568); s. Giovanna Francesca Frémiot di Chantal,
D (2 sett. 1769, con c

dell'ottava). - 22. ottava dell'Assunta,


D (1568),
Dm (1914); S. Timoteo e comp. mm.,
c (1568); festa dell'Immacolato Cuore
di Maria,
D2 (4 maggio 1944; c dei ss. mm.). - 23. vigilia (1568); s. Filippo Benizi,
sD ad lib. (1690), sD (26 ag. 1693),
D (2
ott. 1694). - 24. s. Bartolomeo Ap.,
D2 (1568). - 25. s. Luigi re,
s (1568),
sD (29 nov. 1618). - 26. s. Zefirino papa,
s (1568).

- 27. s. Giuseppe Calasanzio,


D (19 ag. 1769). — 18. s. Agostino, Dott. della Chiesa,
D (1568), s. Ermete, c (1568). - 29.
Decollazione di s. Giovanni Batt.,
D (1568),
Dm (Pio VI);
c di s. Sabina (1568). - 30. ss. Felice ed Adauto mm.,
s (1568); s.
Rosa da Lima, D (28 luglio 1727;
c dei Ss. mm.). - 35. s. Raimondo Nonnato,
sD ad lib. (13 ag. 1669),
sD (7 dic. 1676), D (10
marzo 1681).

Sett. - 1. s. Egidio ab.,


s (1568); ss. dodici fratelli mm.,
c (1568). - 2. s. Stefano re,
sD (1 apr. 1687, trasferito dal 20 ag. ed
elevato a
sD). - 5. s. Lorenzo Giustiniani,
sD ad lib. (16 dic. 1690),
sD (12 sett. 1759). - 8. Natività di Maria S.ma,
D2 ott. c.

(1568), ott. s. (1914); s. Adriano m.,


c (1568). - 9. giorno fra l'ottava della Natività;
c di s. Gorgonio (1568); s. Gorgonio,
s
(1914). - 10. giorno fra l'ottava (1568); s. Nicola da Tolentino, D (22 dic. 1585), sD (1602), D (Clemente IX). - 11. giorno fra
l'ottava;
c dei ss. Proto e Giacinto (1568); ss. Proto e Giacinto,
s (1914). - 12. giorno fra l'ottava (1568); Nome di Maria,
Dm
(1914). - 13. giorno fra l'ottava (1568); feria (1914). - 14. Esaltazione della S. Croce,
D (1568),
Dm (1602). - 15. ottava della
Natività di Maria;
c di s. Nicomede m. (1568); i sette Dolori di Maria S.ma,
D2 (1914). - 16. ss. Cornelio e Cipriano,
sD (1568);
ss. Eufemia, Lucia e Geminiano
c (1568). - 17. Impressione delle Stimmate di s. Francesco (festa tolta dal calendario da Pio
V),
D (Sisto V), tolto (1602), senza determinazione di rito, (28 ag. 1615), sD
ad lib. (2 ott. 1627),
sD (13 ag. 1669), D (11 ag.
1770). - 18. s. Tommaso da Villanova,
sD ad lib. (17 giugno 1659),
sD (11 sett. 1694), D (9 ott. 1694); s. Giuseppe da
Copertino,
D (8 ag. 1769; trasferito s. Tommaso al 22). - 19. ss. Gennaro e comp. mm., s (1 febbr. 1586), sD (1602), D (7
dic. 1676). - 20. vigilia;
c di s. Eustachio e comp. mm. (1568); ss. Eustachio e comp.,
sD (24 nov. 1625, con c della vigilia) D

8

(26 genn. 1671).  21. s. Matteo Ap.
s2 (1568). - 22. ss. Maurizio e comp. mm.,
s (1568); s. Tommaso da Villanova,
sD (8 ag.

1769, dal 18, con c dei ss. mm.),


D (4 dic. 1801). - 23. s. Lino papa,
sD (1568);
c di s. Tecla (1568). - 24. festa di Maria S.ma
della Mercede,
D (18 febbr. 1696), Dm (22 marzo 1727). - 26. ss. Cipriano e Giustina,
s (1568). - 27. ss. Cosma e Damiano,
sD
(1568). - 28. s. Venceslao,
sD ad lib., (6 luglio 1670),
sD (14 marzo 1729). - 29. dedicazione di s. Michele Arcangelo,
D2
(1568),
D1 (1917). - 30. s. Girolamo, Dott. della Chiesa,
D (1568).

Ott. - . s. Remigio,
s (1568),
sD ad lib. (26 nov. 1668),
sD ad lib. o s di prec. (1884), s (1914). - 2. ss. Angeli Custodi,
D (20

sett. 1670), Dm (5 luglio 1883). - 3. s. Teresa del Bambino Gesù,


D (13 luglio 1927). - 4. s. Francesco d'Assisi,
D (1568),
Dm (5
luglio 1883). - 5. ss. Placido e comp. mm.,
s (13 nov. 1588). - 6. s. Brunone,
sD ad lib. (17 febbr. 1623),
D (14 marzo 1674).
- 7. s. Marco papa,
s (1568); ss. Sergio e comp. mm.,
c (1568); s. Brigida, sD (8 apr. 1623, con c di s. Marco e dei ss.
Martiri); (1628 ripristino come al tempo di Pio V, s. Brigida trasferita all'8); Rosario di Maria S.ma,
D2 (1914, con c di s. Marco
e dei ss. mm.). - 8. s. Brigida,
sD (1628, dal 7), D (2 sett. 1724). - 9. ss. Dionigi, Rustico, Eleuterio mm., s (1568); s. Edoardo
re conf.,
sD (29 maggio 1679; 6 apr. 1680, trasferito al 13); s. Giovanni Leonardi, D (3 apr. 1940, con c dei ss. mm). - 10. s.
Francesco Borgia,
sD (1 sett. 1688). - 11. Maternità di Maria S.ma,
D2 (6 genn. 1932). - 13. s. Edoardo re conf.,
sD (dal 9, 6
apr. 1680). - 14. s. Callisto papa,
sD (1568),
D (2 sett. 1808). - 15. s. Teresa,
sD ad lib. (25 ag. 1636),
sD (29 ott. 1644), D

(11 sett. 1668).  16. s. Edvige,


sD (26 apr. 1929, dal 17). - 17. s. Edvige,
sD ad lib. (17 sett. 1680),
sD (20 marzo 1706); s.
Margherita Maria Alacoque,
D (26 apr. 1929, trasferendo s. Edvige al 16). - 18. s. Luca,
D2 (1568). - 19. s. Pietro d'Alcantara,
sD (9 ag. 1670), D (20 apr. 1701) - 20. s. Giovanni Canzio,
sD (8 sett. 1770), D (23 febbr. 1782).- 21. s. Ilarione ab.,
s
(1568);
c di s. Orsola e comp. mm. (1568). - 24. s. Raffaele Arcangelo,
Dm (26 ott. 1921). - 25. ss. Crisanto e Daria,
s (1568).
- 26. s. Evaristo papa,
s (1568). - 27. vigilia (1568). - 28. ss. Simone e Giuda App.,
D2 (1568). - 31. vigilia (1568).

Nov. - i. Tutti i Santi,


D1 ott. c. (1568). - 2. commemorazione dei Defunti,
c dell'ottava dei Santi (1568); officio proprio per la

celebrazione della Commemorazione dei Defunti (1914). - 4. giorno fra l'ottava,


c dei ss. mm. Vitale ed Agricola (1568); s.
Carlo Borromeo,
sD ad lib. (6 dic. 1613),
sD (10 sett. 1652, con c dei ss. mm.), D (3 ag. 1659). - 3, 5, 6, 7: giorni fra l'ottava
(1568). - 8. ottava di Tutti i Santi,sD (1568), Dm (1914); ss. Quattro Coronati,
c (1568). - 9. dedicazione della basilica
Lateranense,
D2 (1568);
c di s. Teodoro m. (1568).  10. ss. Trifone, Respicio, Ninfa mm., s (1568); s. Andrea Avellino,
sD (18
ag. 1725 c dei ss. mm.), D (1 febbr. 1864). - 11. s. Martino,
D (1568);
c di s. Menna m. (1568). - 12. s. Martino papa,
sD
(1568); s. Diego, senza designazione di rito (7 luglio 1588),
sD (1602;
c di s. Martino); restituzione di s. Martino,
sD,

trasferendo s. Diego al 13 (27 febbr. 1671). - 13. s. Diego, sD (dal 12; 27 febbr. 1671). - 14. s. Giosafat,
D (28 luglio 1882). -
15. s. Geltrude,
D (19 maggio 1739); s. Alberto Magno, Dott. della Chiesa,
D (6 genn. 1932, trasferendo s. Geltrude al 16). -
16. s. Geltrude,
sD (6 genn. 1932, dal 15). - 17. s. Gregorio Taumaturgo,
sD (1568). - 18. dedicazione delle basiliche di s.
Pietro e s. Paolo, D (1568), Dm (1954). - 19. s. Ponziano,
s (1568); s. Elisabetta, sD
ad lib. (1 sett. 1670),
D(29 marzo 1671 ;
c di s. Ponziano). - 20. s. Felice di Valois,
sD (31 maggio 1694). - 21. Presentazione di Maria S.ma (festa tolta da Pio V), D (1
sett. 1585),
Dm (1602). - 22. s. Cecilia, sD (1568), D (6 dic. 1670). - 23. s. Clemente papa,
sD (1568),
D (1 sett. 1804); c di s.
Felicita m. (1568). - 24. s. Crisogono,
s (1568); s. Giovanni della Croce,
sD 5 ott. 1738; c di s. Crisogono, D (9 sett. 1769),
Dottore della Chiesa (24 nov. 1926). - 25. s. Caterina, D (1568). - 26. s. Pietro Alessandrino,
s (1568); s. Silvestro ab., D (19
ag. 1890, con
c di s. Pietro). - 29. vigilia;
c di s. Saturnino m. (1568). - 30. s. Andrea Ap.,
D2 (1569).

Dic. - 2. s. Bibiana,
s (1568),
sD (1628). - 3. s. Francesco Saverio,
sD (6 sett. 1663), D (4 giugno 1670), Dm (1914). - 4. s.
Barbara,
s (1568); s. Pietro Crisologo, Dott. della Chiesa,
D (10 febbr. 1729; c di s. Barbara). - 5. s. Saba ab.,
s (1568). - 6. s.
Nicola, sD (1568), D (6 dic. 1670). - 7. s. Ambrogio, Dott. della Chiesa, D (1568); vigilia dell'Immacolata (30 nov. 1879). - 8.

Concezione di Maria S.ma,


D (1568),
Dm (1602),
D2 ott. c. (15 maggio 1693); festa di precetto (6 dic. 1708); Concezione
Immacolata di Maria Ss.ma (1855, con nuovo ufficio, dovuto al gesuita p. Passaglia; altro nuovo ufficio, l'attuale, 25 sett.
1863),
D1 con vig. (30 nov. 1879). - 9, 12, 14: giorni fra l'Ottava (1693). - 10. s. Melchiade papa,
c (1568). - 11. s. Damaso
papa,
sD (1568). - 13. s. Lucia, D
(1568). - 15. s. Eusebio,
s (1602); ottava della Concezione di Maria,
D (1693, con c di s.
Eusebio); s. Eus. trasferito al giorno seguente (1728); l'ottava Dm (1914). - 16. s. Eusebio,
sD (1728, dal giorno precedente). -
20. vigilia (1568). - 21. s. Tommaso Ap., D2 (1568). - 24. vigilia (1568). - 25. Natale di N.S.G.C.,
D1 ott. (1568, l'ottava di
fatto era privilegiata);
ott. p. (1914) - 26. s. Stefano,
D (1568; le tre feste dopo il Natale erano definite da Pio V

semplicemente "doppio"; i liturgisti disputarono a lungo sulla qualità e convennero quasi tutti a definirla
D2, come fu poi
espresso nei
c.; esse avevano l'ottava comune);
D2 ott. s. (1914). - 27. s. Giovanni Ap.,
D2 ott. s. (1914). - 28. Ss. Innocenti,

D2 ott. s. (1914). - 29. a. Tommaso vesc. m.,


sd (1568),
D (1914). - 31. s. Silvestro papa,
D (1568).

Indichiamo ora brevemente alcune date interessanti le feste mobili (attualmente o per un certo periodo) più note. - Angeli
Custodi,
D ad. lib. (27 sett. 1608), per il primo giorno libero dopo la festa di s. Michele,
D (20 sett. 1670), fissata la festa al 2
ott. - Sacro Cuore di Gesù, Dm (26 ag. 1856), il venerdì dopo l'ottava del Corpus Domini, D1 (28 giugno 1889), D1 ott. p. (26
giugno 1929). - Corpus Domini,
D1 ott. c. (1568), giovedì dopo la festa della Trinità; fissato alla domenica dopo la Trinità (2
luglio 1911); riportato al giovedì (24 luglio 1911); l'ottava è equiparata a quella dell'Epifania (priv. 2) (28 ott. 1913). - Sacra

Famiglia, Dm (26 ott. 1921), per la domenica dopo l'Epifania. — s. Gioacchino, Dm (3 ott. 1738), fissato alla domenica dopo
l'ottava dell'Assunta, dalla data fissa del 20 marzo;
D2 (1 ag. 1879); trasferito al 16 ag. (28 ott. 1913). - s. Giuseppe, D1 ott.
c. (2 luglio 1911), dal 19 marzo fissato alla domenica seguente, provvedimento revocato subito (24 luglio 1911). - Patrocinio
di s. Giuseppe,
D2 (10 sett. 1847), la domenica terza dopo Pasqua;
D1 (8 dic. 1870, quando s. Giuseppe fu dichiarato
Protettore della Chiesa); D1 ott. c. (24 luglio 1911); assegnato al mercoledì dopo la II domenica di Pasqua (28 ott. 1913). -
Nome di Gesù,
D2 (20 dic. 1721), per la II domenica dopo l'Epifania; assegnato alla domenica occorrente tra il 2 e il 5 genn.,
ovvero al 2 genn., mancando la domenica (1913). - Nome di Maria, Dm (5 febbr. 1694), per la domenica fra l'ottava della

Natività di Maria S.ma; fissato al 12 sett. (1913). - Cristo Re, D1 (12 dic. 1925) per l'ultima domenica di ott. - Rosario di Maria
S.ma, Dm (13 ott. 1716), per la prima domenica di ott.,
D2 (11 sett. 1887), fissato al 7 ott. (1913). - Preziosissimo Sangue di
Gesù, D2 (10 ag. 1849), per la prima domenica di luglio; fissato al 1 luglio (1913). - Sette Dolori di Maria, Dm (22 ag. 1727),
per il venerdì della settimana di Passione. - Sette Dolori di Maria (autunno),
Dm (18 sett. 1814), per la terza domenica di sett.;
D2 (13 maggio 1908); fissati al 15 sett. (1913). - S.ma Trinità, D2 (1568), D1 (28 luglio 1911).

Chi percorre attentamente questi elenchi, con i continui aumenti di feste, di grado, o rito, si persuaderà facilmente che l'anno
liturgico, nelle sue grandi linee fondamentali, è ormai quasi completamente occupato dalle feste dei santi. L'aumento delle
canonizzazioni nei nostri tempi rende ancora più difficile la situazione. Apparisce da quanto abbiamo scritto che al tempo di Pio
V, tra la parte santorale e quella temporale o feriale, regnava un bell'equilibrio. Clemente VIII apriva la via all'ingresso senza
limiti delle feste dei santi. Al tempo di Clemente X la S. Congregazione dei Riti era preoccupata di questo Stato di cose; così
ebbe origine il decreto del 20 giugno 1671 con il quale si proibiva di trattare, per i successivi 50 anni, l'introduzione di alcuna
festa. Il decreto fu rinnovato per altri 50 anni da Clemente XI (4 maggio 1714); però non fu possibile mantenerlo in vigore. Da
una parte le continue canonizzazioni, specialmente di fondatori di Ordini religiosi, le pressioni per l'inserzione di feste da parte
dei principi cattolici, o altre circostanze particolari condussero fatalmente alla mancata osservanza del decreto. Benedetto XIV
riconobbe dannoso per la disciplina il continuo aumento delle feste dei santi, e la riforma del Breviario da lui vagheggiata vi
avrebbe posto un argine. Ma fu specialmente dalla seconda metà del secolo passato che son venuti nuovi aumenti e variazioni
di rito. Da ciò è nato il vivo desiderio di una riforma liturgica definitiva, iniziata già da Pio X, che anela anche ad una revisione
del c.

Bibl.: Il c. di s. Pio V del 1568 si trova nell'edizione originale romana, dal titolo: Breviarium Romanum, ex decreto sacrosanctj
Concilii Tridentini restitutum, Pii V Pont. Max. jussu editum, Cum privilegio Pii V. Pont. Max., Roma 1568 apud Paulum
Manutium, e nelle successive edizioni romane e extraromane. Una edizione del c. piano con note critiche in G. Schober,
Explanatio critica editionis Breviarii Romani quae a S. R. C. uti typica declarata est, Ratisbona 1891, pp. 26-38. J. B. Pittonius,
Constitutiones Pontificiae et Romanarum Congregationum Decisiones ad sacros Ritus spectantes, Venezia 1730; B. Gavantis -
C. M. Merati, Thesaurus Sacrorum Rituum, ivi 1752; G. G. Novara, Elementi della storia de' Sommi Pontefici, Roma 1821-22:
R. Aigrain, Liturgia, Encyclopédie populaire dei connaissances liturgiques, Parigi 1935, porta a pp. 646-50 un elenco molto
sommario delle feste introdotte dopo s. Pio V. - Tutte le indicazioni riportate sono state controllate e completate direttamente
su documenti dell'archivio della S. Congregazione dei Riti.

Giuseppe Löw

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da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 364-372

CALICE
È quello, tra i vasi sacri, nel quale è consacrato il vino eucaristico nella Messa. La coppa dev'essere d'oro o d'argento, dorato
internamente. Deve avere una forma tale da non suscitare meraviglia nei fedeli.

CALZARI
Sotto il nome di c. si suole comunemente intendere tutto ciò che copre il piede e la gamba, sia scarpa o calza; ma
liturgicamente parlando si distinguono i c. dai sandali: questi sono le calzature esterne, quelli le calze propriamente dette che

avvolgono tutto il piede e la gamba fino al ginocchio.

Da principio il clero, anche per le calzature, usò quelle stesse della vita civile. Ma poi fin dal sec. V i c. (caligae, tibialia,
campagi, udones) usati dai senatori e dai dignitari imperiali passarono in uso all'alto clero, non solamente a Roma, ma a
Milano e a Ravenna: segno manifesto della crescente influenza delle autorità ecclesiastiche, soprattutto nelle città imperiali. Al

sec. VI il Papa ed i suoi diaconi avevano dei c. (campagi) di forma speciale, come risulta da una lettera di s. Gregorio Magno a
Giovanni vescovo di Siracusa. Nel sec. VIII la falsa donazione di Costantino accorda a tutto il clero romano il diritto di usare,
come il Senato, delle calzature "cum udonibus, id est candido linteamine": questi udones sarebbero i nostri c. Nei musaici di
Roma e Ravenna si possono vedere dei c. vari di forma e di colore. Poi man mano questo uso generale si restringe, e dal sec.
X in poi i c. furono riservati ai soli vescovi. Nel sec. XII li ebbero anche i cardinali preti. La concessione agli abati fu generale a
partire dal sec. XI.

Nella disciplina odierna dobbiamo distinguere le calze dai c. propriamente detti. Le calze fanno parte dell'abbigliamento
ecclesiastico e seguono per il loro colore le regole delle vesti dei chierici. Il Sommo Pontefice porta le calze bianche sopra le
quali nei pontificali indossa i c. bianchi o rossi secondo il rito. I cardinali hanno le calze rosse, eccetto il Venerdì Santo e
durante la vacanza della Sede Apostolica, quando prendono quelle paonazze. I cardinali appartenenti ad ordini monastici o
mendicanti non portano le calzature rosse, ma ritengono il colore dell'abito religioso. I patriarchi, arcivescovi, vescovi, hanno
l'uso delle calze di seta paonazza, ma con quella medesima distinzione che si è detta dei cardinali religiosi. Nel tempo di Sede
vacante e il Venerdì Santo portano le calze nere. Tutti i prelati della S. Sede portano le calze paonazze con le eccezioni sopra
riferite. I monsignori di mantellone usano le calze nere. 

I c. invece hanno uso esclusivamente liturgico e sono adoprati nelle messe pontificali dai cardinali, vescovi, abati e dai prelati
che ne hanno il privilegio. Non si portano nelle messe funebri, e il Venerdì Santo. La loro forma è quella di una calza un poco
più ampia, e sono di seta, oppure di lama d'oro e d'argento, in tutti i colori liturgici, salvo il nero.

Bibl.: Ch. de Linos, Anciens vetements sacerdotaux et ancien, tissus, Parigi 1877, p. 55 sg.; J. Braun : Die liturg. Gewandung,
Friburgo in Br. 1907, pp. 394-424.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 418-419

CAMAURO
È una specie di berretto che copre tutta la testa ed anche le orecchie, che si adoprava fuori delle funzioni sacre. Nella forma

attuale è privilegio esclusivo del Sommo Pontefice, che lo porta di velluto rosso filettato di ermellino nell'inverno, e di raso
rosso in estate, come la mozzetta da lui indossata. L'origine non è certa. Alcuni autori, dalla parola latina camelaucium
vogliono si chiami così perché è un copricapo fatto di peli di cammello. Altri vi vedono la definizione dell'effetto che doveva
produrre il c. quella cioè di conservare il calore. Altri infine lo ritengono un ornamento femminile, che è passato poi, come la
mitra e la tiara, ai prelati ecclesiastici. Nella sua forma primitiva era composto di quattro pezzi di stoffa, cuciti in forma di

croce, abbastanza ampio sì da coprire anche le orecchie, come lo si trova in una medaglia di Alessandro VI. Non è certa l'epoca
nella quale i papi cominciarono a portarlo. Nei medaglioni dei papi esistenti nella basilica di S. Paolo in Roma, vediamo che i
primi papi che portano il c. sono i papi di Avignone Clemente V e Giovanni XXII. Il tipo variò secondo il gusto dell'epoca, ed
anche secondo i desideri dei pontefici. Da Pio VI in poi i papi non lo portano quasi mai, ma usano lo zucchetto bianco. Il c.
viene posto sul capo del pontefice defunto prima di essere vestito dei paramenti sacri per essere esposto al pubblico.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, col. 421

CAMICE
Veste di lino bianca (detta perciò in linguaggio liturgico alba), lunga fino ai piedi, usata dagli ecclesiastici nelle funzioni
liturgiche. Deriva dalla tunica che i Greci e i Romani portavano sola, o sotto le altre vesti. Era senza maniche e giungeva alle
ginocchia, quella muliebre discendeva sino ai piedi, donde il suo nome di talare. Nel sec. III, sotto l'influsso dei costumi
orientali, furono aggiunte le maniche. Semplice e senza ornato da principio, ebbe in seguito delle lunghe strisce di porpora o di
altro colore, che scendevano, dalle spalle ai piedi, tanto di dietro che davanti. È precisamente questa tunica talare, bianca,
senza ornato, con le maniche lunghe e strette ai polsi, che i chierici usarono per compiere i sacri ministeri. Il Concilio di
Cartagine del 398 stabilì che il diacono indossasse la tunica solamente nel tempo dell'oblazione o delle lezioni. Nel sec. VI
anche i suddiaconi cominciarono a portarla. Nell'830 Leone IV prescrisse per le funzioni sacre un c. diverso dall'ordinario; così
quando i civili cessarono di portare la tunica, questa fu conservata nella liturgia e divenne indumento sacro. Nell'Ordo
Romanus I la tunica di lino è già certamente una veste liturgica.

L'antica tunica era abbastanza ampia, e vi furono applicati ornamenti di seta o di oro, non solo alla estremità e alle maniche,
ma anche sul petto, sulle spalle, alle falde. Con l'andar del tempo questi ornamenti scompaiono, per dar luogo, specialmente
dal sec. XVI, a merletti e trine di vario genere. Oggi il c., secondo le prescrizioni canoniche, deve essere di tela bianca, di taglio
abbastanza ampio e scendere fino ai talloni, stretto con il cingolo, intorno ai fianchi. Nessun ornato è prescritto; si può quindi
seguire l'uso invalso di applicarvi dei merletti intorno al collo, alle estremità delle maniche, e dell'orlo inferiore. I c. fatti di soli
merletti non sono permessi; sono invece tollerati i fondi di vario colore da sottoporsi al merletto delle maniche e della frangia;
rappresentando essi il colore della sottana del celebrante. L'uso del c. è riservato dal sec. XII-XIII ai soli ministri in sacris per
la Santa Messa, e tutte le volte che si indossa la dalmatica o la tunicella. Il sacerdote non l'usa nei vespri, matutino e lodi, e

nelle esequie. Il c. deve essere benedetto dal vescovo o da chi ne ha la facoltà.

Bibl.: J. Braun, I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 70-77; V. Casagrande, L'arte a servizio della Chiesa, ivi 1938, pp. 194-97.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 436-437

CAMPANELLO
Quando nel sec. XII s'introdusse nella Messa l'elevazione delle sacre Specie, cominciarono ad usarsi c. o tintinnaboli, noti già
presso gli antichi popoli, per richiamare l'attenzione dei fedeli. L'uso divenne comune con l'introduzione del Messale romano

sotto s. Pio V. Il Ritus celebrandi prescrive un segno di c. al Sanctus ed all'Elevazione. Nelle Messe solenni delle basiliche

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patriarcali romane non si danno i segni col c. Secondo il monito del Rituale romano, nel portare il S.mo Sacramento ad un
ammalato, il chierico "campanulam iugiter pulset", per richiamar l'attenzione dei fedeli.

Bibl..: G. Durando, Rationale div. off., Napoli 1839, pp. 4, 42, 53; R. de Fleury, La Messe, Parigi 1883-89, VI, pp. 154-64 e
tavv. cdxcvii-di; Schellen, in Kirchenlexikon, Friburgo in Br. 1897, coll. 773-74; P. Lavedan, Clochette, in Dict. illustré de la
mythologie et des antiquités grecques et romaines, p. 250; H. Leclercq, Clochette, in DACL, III, coll. 1954-91.

Filippo Oppenheim

da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, col. 456

CANDELE
Sono il mezzo più comune e obbligatorio dell'illuminazione liturgica nelle funzioni religiose. Secondo le prescrizioni le candele
devono essere di cera, e cioè fatte in tutto o in massima parte con l'omonimo prodotto delle api.

CANDELIERE
Il candeliere liturgico trae la sua origine dal mobilio solito delle case romane, e per questo nella sua forma non ha nulla di
tipicamente sacrale. La legislazione ecclesiastica vuole che i candelieri siano posti sul piano dell'altare. È permesso che stiano
sul piccolo piano rialzato che completa la parte posteriore dell'altare, rimanendo
proibito l'infiggerli alla parete.

CANONE DELLA MESSA


La
parola canone entrata nel lessico ecclesiastico dal VI secolo la si impiega per indicare la parte più solenne e la formula
essenziale
del rito eucaristico.

CANONE INNODICO

Indica la regola che deve seguirsi nella poesia liturgica. Il ritmo, in tale caso, presenta una forma o un modulo già fissato, al
quale deve adattarsi il compositore. Fu già osservata una regola o c. nella poesia classica greca, sia nel numero dei piede che
delle strofe.  La tendenza, però, alla libertà artistica, dava occasione a molte eccezioni o sostituzioni, chiamate "licenze
poetiche". In un certo tempo le composizioni poetiche che meno seguivano il detto c. furono chiamate "irmos" (ε̉ιρμός). La
poesia liturgica ebbe e ha ancora i suoi c., benché alcuni siano diversi da quelli della poesia classica. In Oriente da s. Efrem,
poi in Occidente, specialmente per opera di s. Ilario e di s. Ambrogio, la poesia o inno fu adoperata per scopo popolare. S.
Ambrogio se ne servì per istruire il popolo circa il dogma cattolico, e per combattere gli errori degli eretici; per adattarsi meglio
allo stile popolare egli sostituì la quantità dei piedi classici con la tonicità o accento delle parole. Diversi generi di composizione
sono stati adattati nel corso dei tempi per la innodia liturgica: ma il tipo classico è il verso di otto sillabe, con strofe di quattro
versi, a somiglianza del "giambico-metrico". Di tutti i c. i. resta soltanto, di fatto, il  numero delle sillabe. Non si sa se in
principio la melodia fosse assolutamente e sempre sillabica: il fatto però è certo che inni di tipo molto antico hanno già melodie
più o meno ornate, e quindi l'effetto armonico cadenzale degli otto tempi è meno sensibile. In ogni modo, almeno nella recita,
è osservata la "elisione" quando ci sono più di otto sillabe; e anche nel canto è preferita tale pratica.

Gregorio M. Suñol

da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 549-550

CAPPA
In origine era un ampio mantello senza maniche, spesso fornito di un cappuccio, e copriva tutta la persona; fu usato
dall'antichità sino a tutto il medioevo come abito contro le intemperie e per viaggio, sia dai laici che dagli ecclesiastici.

Per i laici infatti divenne quasi contrassegno delle persone gravi, quando i giovani usarono vesti succinte, particolarmente in
tempo di guerra.

Quando sorsero gli Ordini mendicanti la usarono aperta sul davanti con ampio cappuccio che scendeva tutt'intorno alle spalle
sino a formare una specie di mantellina. Laici ed ecclesiastici la portarono guarnita di pelli intorno alla testa ed alle spalle.
Mentre i monaci come abito corale usarono la cocolla, gli altri religiosi usarono o la cotta o la c., o semplicemente la veste del
loro Ordine.

I papi, prima che in Avignone s'introducesse l'uso della mozzetta con cappuccio sopra il rocchetto, usarono nel medioevo una c.
di saia rossa guarnita di ermellini, cha da ultimo sino a Pio VI si portò soltanto nelle funzioni dei Matutini del triduo della
Settimana Santa e del Venerdì Santo; mentre nelle circostanze solenni indossavano il grande manto, più ampio e prezioso del
semplice pluviale.

I cardinali portano la c. di cerimonia in tutto eguale a quella dei vescovi: essa consiste in un lungo mantello a strascico con
cappuccio ampio che scende attorno alle spalle a forma di mantellina chiusa sul davanti; nel tempo invernale alla mantellina è

sovrapposta un'altra mantellina di pelliccia bianca che guarnisce anche il cappuccio.

Il mantello è tutto chiuso con una sola apertura longitudinale sul davanti del petto attraverso cui passare le mani; perciò per
usare più liberamente le braccia, la c. si arrovescia sugli avambracci. Per distinguere i cardinali dagli altri prelati fu concesso

loro di usare c. di colore rosso-porpora; ciò avvenne sotto Paolo II (o, secondo altri, sino dal tempo di Bonifacio VIII); però
nell'Avvento, Quaresima, vigilie, il colore della c. è pavonazzo. Il tessuto è sempre di seta ondata (amoerro); di lana pure
pavonazza nel Venerdì Santo e nei giorni di stretta penitenza. I cardinali eletti dagli ordini monastici o mendicanti portano c. di
lana del colore del loro ordine; quelli provenienti dai chierici regolari cappe purpuree e pavonazze come i loro colleghi, ma
sempre di lana.

I vescovi nelle loro diocesi portano la c. pavonazza di forma eguale, come s'è detto a quella dei cardinali, di lana o di seta,
mentre la parte superiore quando non è coperta dalla pelliccia è sempre di seta cremisi; in Curia portano o la c. a modo dei

prelati o la mantelletta. I religiosi portano la c., come la sottana, la mantelletta, del colore del loro Ordine; sino a non molto
tempo fa non usavano rocchetto se non per concessione particolare, ma ora tale concessione è largamente diffusa.

I prelati vestono anch'essi la c. sopra la veste pavonazza ed il rocchetto; ma essa non è mai portata distesa, bensì attorcigliata
in modo da passare sotto il braccio sinistro dov'è tenuta aderente alla persona da una fettuccia pendente dalle spalle sotto la

mantellina. Così la portano i prelati della corte e della curia: vice-camerlengo, uditore e tesoriere della Camera Apostolica
(prelati di fiocchetto), i protonotari di numero e soprannumerari, i chierici di Camera, i prelati domestici, i canonici delle
basiliche patriarcali, i votanti e referendari di segnatura e gli stessi vescovi presenti in curia. Per concessione papale portano
pure nella loro diocesi tale c. i canonici di alcune chiese metropolitane o cattedrali, particolarmente quelli che sono assomigliati
ai protonotari, e i canonici di alcune delle basiliche romane minori. Non ne hanno invece diritto i camerieri e i cappellani segreti
per i quali la veste solenne di cerimonia è la croccia.

Bibl.: G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-eccles., VIII, Venezia, 1842, p. 80 ss. XCVI, ivi 1859, p. 265; J. Braun, I

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paramenti sacri, trad. it., Torino, 1914, p. 160; E. Roulin, Linges, insignes et vêtements liturgiques, Parigi, 1930, p. 143; L.
Eisenhofer, Handbuch der katholischen Liturgie, I, Friburgo in Br., 1932, p. 435; L. Mattei Cerasoli, s.v. in Enc. Ital. VIII, 1930,
p. 880.

Pio Paschini

da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 695-696

CARTEGLORIA
Sono tre tabelle che si pongono al centro e ai due lati dell'altare per aiutare la memoria del celebrante
nella recita di alcune
formule della messa. La tabella di mezzo, che è l'unica prescritta, contiene preghiere del Canone e dell'Offertorio (tabella
secretarum o del Canone).

Per aiutare la memoria del celebrante, fin dal sec. XVI si soleva mettere nel mezzo dell'altare una tabella, contenente alcune
orazioni della Messa; s. Carlo, nel sinodo del 1576 ricorda per la prima volta le 3 tabellae. La tabella di mezzo, che è l'unica

prescritta, contiene preghiere del Canone e dell'Offertorio (Canon minor): per questo fu chiamata tabella secretarum o del
Canone. Generalmente si aggiungono anche altri testi, come quelli del Gloria in excelsis, del Credo, del Munda cor, del
Supplices te rogamus e del Placeat tibi, e ciò per la difficoltà di usare il messale durante la loro recitazione, in quanto il
sacerdote deve stare chinato sull'altare. La tabella al lato dell'Epistola contiene il salmo Lavabo e l'orazione Deus qui humanae
substantiae; quella al lato del Vangelo l'inizio del Vangelo secondo Giovanni. Per i vescovi invece si usa il cosiddetto Canon
episcopalis, cioè il libro contenente il Canone. Durante l'esposizione del S.mo Sacramento devono essere rimosse (S. Congr.
dei Riti, decr. 3130 ad 3). Da principio contenevano probabilmente i soli toni dell'intonazione del Gloria, e da qui forse trassero
nome. È essenziale che il contenuto delle c. sia facilmente leggibile.

Bibl.: L. Eisenhofer, Handbuch der kathol. Liturgie, I, Friburgo in Br. 1932, pp. 364-365; P. Bayart, in R. Aigrain, Liturgia, Parigi
1935, p. 215.

Filippo Oppenheim

da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 956-957

CATALANI, GIUSEPPE
Celebre liturgista, nato a Paola (Cosenza) il 14 giugno 1698, morto a Roma il 10 agosto 1764. Opere liturgiche principali:

Pontificale Romanum prolegomenis et commentariis illustratum (3 voll., Roma 1738-1740), Caeremoniale episcoporum
commentariis illustratum (2 voll., Roma 1744), Sacrarum caeremoniarum sive rituum ecclesiasticorum S. R. Ecclesiae libri tres
(2 voll., Roma 1750-1751)

CENERI, MERCOLEDÌ delle


Negli
ultimi anni di san Gregorio Magno si cominciò il digiuno quaresimale con il mercoledì precedente la domenica I di

Quaresima, che perciò fu chiamato caput ieiunii o anche caput Quadragesimae. La penitenza al principio della Quaresima era
inculcata ai fedeli con l'espulsione dei pubblici penitenti da parte del vescovo. Il rito ne è conservato nel Pontificale romano.

CERIMONIA
Nel senso liturgico la c. è un gesto, un'azione, un movimento o un complesso di essi, istituito dalla competente autorità, per
accompagnare la preghiera o l'esercizio pubblico del culto divino. L'insieme e l'ordine delle varie c. è ciò che costituisce un rito.
L'etimologia della parola risulta incerta.

L'origine delle c. è fondata nella stessa natura umana, poiché i gesti che accompagnano la parola manifestano naturalmente i
sentimenti e i movimenti dell'animo. Non vi è infatti religione, che non abbia tutto un corredo di riti e di c. Questa intima

connessione tra religione e c., la si trova ampiamente illustrata nel Vecchio Testamento: i quattro ultimi libri del Pentateuco,
specialmente il Levitico, espongono le diverse pratiche rituali del popolo ebraico. Nella religione cristiana le c. sono antiche

quanto il cristianesimo. Gesù stesso ne è l'iniziatore; e quindi gli Apostoli, e poi la Chiesa hanno costituito il primo nucleo del
rituale liturgico, che completato, modificato, ampliato con l'andare dei secoli, costituisce oggi il cerimoniale della Chiesa che

concorre sì mirabilmente a farne apprezzare e venerare dai fedeli la santità e la dignità.

Per le origini delle varie c. basterà accennare alle diverse cause che ne determinarono l'inizio o la scomparsa; perché alle volte
solo così ci si può rendere ragione di esse. Come cause storiche si ricorderanno l'influsso della religione mosaica sul culto
cristiano; l'assunzione da parte della Chiesa di alcuni riti pagani, trasformati e santificati; ed infine il fatto che molte c. e riti
sono comuni a tutte le religioni, essendo di loro natura atti ad esprimere i sensi intimi dell'anima umana.

Il fine inteso dalla Chiesa nelle sacre c. è primieramente di rendere degno il culto tributato a Dio con lo splendore dei sacri riti,
e attrarre gli uomini alle cose celesti sollevandone lo spirito, favorendone la pietà. Si rende così sensibile l'azione intrinseca e
spirituale del sacrificio della Messa, e dei Sacramenti, per mezzo delle c. e dei riti, facilmente percepibili nel loro significato.
reale. Ma oltre questo senso morale, un altro mistico senso possiamo e dobbiamo trovare in molte c. L'interpretazione
simbolica dei riti, come non è da trascurare, così non deve essere spinta all'eccesso. Purtroppo non mancarono abusi e,
durante tutto il medioevo fino al sec. XVII, l'interpretazione mistica fu estesa oltre ogni convenienza e ragione.

Bibl.: Desloge, Etudes sur la signification des choses liturgiques, Parigi 1906; G. B. Menghini, Elementa iuris liturgici, Roma
1907.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica,III, Città del Vaticano, 1949, coll. 1316-1317

CERIMONIALE DEI VESCOVI


È
il complesso di regole e di direttive sacre che disciplinano la preparazione e gli atteggiamenti, movimenti e gesti da osservarsi
nella celebrazione solenne della Messa e dell'Ufficio corale presente il vescovo, e il comportarsi di questi nelle manifestazioni
della sua personalità.

CEROFERARIO
Colui che nelle funzioni solenni porta il cero acceso sul candelabro.

CERO PASQUALE
Cero
di grandi dimensioni, artisticamente decorato, benedetto nel Sabato Santo, e posto sopra un candelabro dal lato del
Vangelo dell'altare maggiore fino alla festa dell'Ascensione.

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CHIROTECA
Vedi GUANTI

CINGOLO
Dall'uso
profano di una cintura per tenere fissa intorno ai fianchi la tunica, è sorto l'indumento sacro in forma di cordone, con
due fiocchi alle estremità, che serve per stringere il camice.
I primi accenni al c. si hanno in una lettera di papa Celestino nel
430 ai vescovi di Narbona e Vienna nelle Gallie. Poi i monaci, memori della parola del Signore: "siano cinti i vostri lombi",
ritennero incompatibile per il loro stato la tunica discinta, e concorsero così a generalizzare, l'uso del c.

Dalla semplice cinta di cuoio o di corda dei monaci, si passò nella liturgia alla fascia di seta riccamente ornata, con pietre
preziose e borchie d'oro, specialmente durante il medioevo. Poi si tornò alla semplicità primitiva, ed eliminata la fascia si

riprese il cordone. La Chiesa non ha determinato né la forma né il colore del cingolo; se ne possono quindi fare di seta, lino,
lana, cotone; il loro colore può essere sempre bianco oppure simile a quello dei paramenti. Vario ne è il significato simbolico
secondo gli autori, ma quasi tutti convengono nel ritenerlo il simbolo della castità, come indica la preghiera liturgica che il
sacerdote deve recitare quando lo cinge.

Bibl.: J. Braun,Die liturgische Gewandung im Occident und Orient, Friburgo in Br. 1907, pp. 102-15; id., I paramenti sacri,
vers. it., Torino 1924, pp. 77-84.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, col. 1678

COLLETTA
Indica:
1) il luogo di convegno che negli antichi Ordini romani viene indicato regolarmente nei singoli giorni di Quaresima. 2)
L'orazione del giorno che anticamente si diceva sopra il popolo adunato per la celebrazione della Messa. 3) Fin dal secolo IX, è
il nome della prima orazione della messa.

COLLETTARIO
Chiamato talvolta orazionario, deriva dal sacramentario in quanto anticamente solo questo libro conteneva le orazioni recitate
dal vescovo o dal sacerdote a nome della collettività.

COLORI LITURGICI
Secondo
il carattere del giorno o dell'occasione della funzione sacra, sono prescritti diversi colori per i paramenti sacri, e cioè
bianco,
rosso, verde, violaceo e nero. Inoltre nelle domeniche Gaudete (3ª di Avvento) e Laetare (4ª di Quaresima) è
permesso il rosaceo.
Il c. oro può essere usato in luogo del bianco, del rosso e del verde, a causa della preziosità o della
solennità (S. Rit. Congr., n. 3646 ad 2), l'argenteo solo al posto del bianco (ibid., ad 3).

I primi cristiani non conobbero un c. l. determinato per le vesti che indossavano nel culto; presto, però, si hanno notizie di una
veste bianca, richiesta specialmente per i sacerdoti (Constitutiones Apostolorum, VIII, 12; Canones Ps. Athanasii, can. 28;
Canones Ps. Basilii, can. 99). Tracce dei suddetti c. si trovano nell'evo carolingio, e anche prima negli Ordines Romani; nel sec.
XII esisteva però a Roma un canone preciso per i c. dei paramenti, a seconda del tempo, come è attestato e spiegato da papa

Innocenzo III (De Sacro altaris mysterio, I, 65: PL 217, 199 sg.; cf. Durando, Rationale, 3, 18). Non vi era però uniformità, e i
c. continuavano a differire a seconda dei luoghi e dei tempi. Inoltre erano usati il giallo, bruno, azzurro, grigio e, non essendovi
un apposito precetto, in molti luoghi serviva di regola l'uso o la tradizione o anche il gusto del celébrante. L'uniformità fu
raggiunta solo dopo la promulgazione del Messale di s. Pio V, ma soltanto presso i Latini; gli orientali continuarono ad usarne

differenti; la liturgia ambrosiana conservava i suoi e la Spagna otteneva il privilegio dell'azzurro nelle feste mariane.

Altre norme complementari che riguardano i c. l. per l'amministrazione dei Sacramenti o Sacramentali si trovano nel Rituale
romano e nei decreti della S. Congregazione dei Riti. La scelta di un dato c. per determinati giorni proviene da considerazioni
simboliche, volendosi anche con esso esprimere il carattere e il senso di una solennità. Secondo Innocenzo III, il bianco, nelle
feste di vergini e confessori, simboleggia la purezza e l'innocenza; a Pasqua e all'Ascensione ricorda le bianche vesti degli

angeli; dovunque è simbolo della gioia. Il rosso, prescritto per le feste degli Apostoli e dei martiri, simboleggia il sangue da
essi versato; alla Pentecoste, la carità e l'ardore dello Spirito Santo. Il nero è segno di lutto nella Messa per i morti, e di
penitenza, come, anticamente, nei giorni dell'Avvento e della Quaresima. Il verde, sempre secondo il detto Papa, è un c.
intermedio tra il bianco il rosso, ed è usato nelle domeniche, salvo quelle dell'Avvento e della Quaresima. Il violaceo è una
specie temperata di nero, perciò un tempo era usato nelle domeniche Gaudete e Laetare, nelle quali oggidì si usa il rosaceo.

Bibl.: J. Braun. Die liturgische Gewandung in Occident und Orient, Friburgo 1907, pp. 728-60; J. Braun. I paramenti sacri,
Torino 1914. pp. 38-46; L. R. Barin, Catechismo liturgico, I, V ed., Rovigo 1927, pp. 388-91; L. Eisenhofer, Compendio di

liturgia, Torino 1940, p. 60 sgg.

Filippo Oppenheim

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 22-23

COMMEMORAZIONE
Quando
di uno o più santi o di una feria, vigilia od ottava non si può recitare l'ufficio o la messa per l'occorrenza di una festa
di
rito più elevato, allora di essi si fa spesso la commemorazione o memoria nell'ufficio e nella messa del giorno.

I cicli del Temporale e del Santorale infatti corrono simultaneamente ed il Martirologio riporta molti santi che nello stesso giorno
ascesero alla gloria del cielo. Non è raro quindi il caso di un conflitto nel calendario tra una festa, una domenica, una feria, una
vigilia o una ottava. Le regole liturgiche tendono ad eliminare od attenuare questi conflitti, sia sopprimendo le feste meno
importanti, sia trasportando quelle più nobili, oppure commemorandone semplicemente alcune. Questa commemorazione
consta di un'antifona col relativo versetto ed orazione ai Vespri e alle Lodi, e della orazione nella Messa.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 50

COMMUNE SANCTORUM
È
la terza delle grandi parti in cui si dividono il Messale e il Breviario romano, e comprende una raccolta di formole liturgiche

(messe e uffici) per le feste di quei santi che mancano in tutto o in parte di formulari propri.

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COMMUNIO
È l'antifona che nella Messa solenne viene cantata dal coro dopo la Comunione del celebrante; in tutte le Messe è letta

semplicemente dal celebrante stesso. Anticamente si cantava durante la distribuzione della Comunione dei fedeli,
intercalandola con i versi di un salmo. A poco a poco, il salmo fu abbreviato fino a scomparire totalmente, sicché rimase la sola
antifona, nella quale è riassunto qualche pensiero del giono o della festa che si celebra; un vestigio dell'antico uso è rimasto
nella sola Messa per i defunti. Nella liturgia ambrosiana è detta transitorium.

Bibl.: I. Schuster, Liber Sacramentorum, 3ª ed., Torino 1932, p. 100; III, ivi 1933, p. 70; G. Destefani, La messa nella liturgia
romana, ivi 1935, pp. 307, 751 sg.

Filippo Oppenheim

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 70-71

COMPIETA
Ultima ora dell'ufficio divino.

"CONSORS PATERNI LUMINIS"


Inno del Mattutino del martedì, composto da s. Ambrogio.

"COR ARCA LEGEM CONTINENS"


Inno
delle Lodi nella festa del Cuore di Gesù. L'inno data dal 1847, e solo 10 anni dopo Pio IX lo incluse nel Breviario romano.

CORPORALE  

Quadrato
di lino su cui si posano le specie eucaristiche e i vasi sacri. Il suo nome deriva dall'ufficio di raccogliere il Corpo di
Cristo.
Il suo nome deriva dall'ufficio di raccogliere il Corpo di Cristo. Nei primi secoli non si stendevano tovaglie sull'altare;
solo alla Messa, prima dell'offerta, i diaconi stendevano un panno di lino per posarvi il pane e il vino destinati al sacrificio

eucaristico, e con un lembo si copriva il calice.

Introdottasi l'abitudine di coprire l'altare con due, tre tovaglie e diminuite d'altra parte le offerte, il c. fu accorciato così che sino
dal medioevo appare già ridotto alla forma presente. Il calice venne allora coperto con un altro piccolo c. detto palla.

A determinare la materia fu il richiamo alla Sindone nella quale era stato avvolto il corpo esanime di Gesù: perciò il sacrificio
della Messa deve essere offerto sopra un panno di lino. Nella liturgia ambrosiana si tiene vivo questo raffronto con l'orazione
precedente l'Offerta, chiamata: "sopra la Sindone". Si conservano tuttavia antichi c. di seta. Anticamente, dopo la
consumazione, il c. veniva piegato tre volte, ponendo verso l'interno le due estremità in modo che "né l'un capo né l'altro
apparissero fuori". I liturgisti medievali videro simboleggiata la divinità di Cristo che non ha principio né fine, ma il motivo
stava piuttosto nella preoccupazione che i minuti frammenti eucaristici ivi rimasti non avessero a cadere in luogo profano; per
questo motivo la conservazione e lavatura del c. impose sempre religiosa attenzione; e nel sec. IX esiste già la prescrizione di
non mandare al bucato c. prima che siano stati lavati almeno una volta da un sacerdote, un diacono o suddiacono. Le
prescrizioni di Cluny in proposito sono minuziose e curiosissime. Si conoscono c. molto ornati, ma l'odierna legislazione

permette soltanto i lini damascati, qualche ricamo agli angoli, una piccola croce al centro senza rilievo; gli orli possono essere
ornati di pizzi. Viene portato all'altare entro una borsa che segue le regole dei colori. liturgici.

Bibl.: G. Braun. I paramenti sacri, trad. it., Torino 1914, p. 184-88; C. Callewaert, De Missalis Romani liturgia, sez. 1ª, Bruges
1937, nn. 433. 437, 438.

Enrico Cattaneo

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 598

"CORPUS DOMAS JEJUNIIS"


Inno
del Mattutino per l'ufficio di s. Giovanni Canzio, di autore ignoto, composto per la sua canonizzazione avvenuta nel 1757.

CORPUS DOMINI, Festa del


Solennità
del S.mo Corpo di Cristo, celebrata il giovedì dopo la 1ª
domenica di Pentecoste, per commemorare in modo tutto
speciale la Eucaristia: sacrificio e Sacramento.

COTTA
Tunica bianca usata dai sacerdoti nei riti non uniti alla messa, e dai chierici.
La liturgia cristiana volle sempre gli ecclesiastici
indistintamente rivestiti di un abito-base bianco a somiglianza dei 24 Seniori e della turba innumere che, in cielo, sta attorno al
trono dell'Agnello (Apoc. 4, 4).

Nella forma originaria si è conservato nel camice dal quale derivò la c. Appare nel sec. XI in Inghilterra, nella Francia del nord e
nella Spagna, sul finire del sec. XI in Italia, e, costituendo per sé una novità, solo più tardi a Roma. Venne pure chiamata

soprapelliccia (superpelliceum) perché messa sopra gli abiti fatti di pelli di animali (Durando) richiesti dal freddo intenso dei
paesi nordici: il camice, con le sue maniche strette e la necessità di recingerlo ai fianchi, mal si adattava; se ne allargarono
pertanto le maniche e se ne accorciò un poco la lunghezza risultandone la c. Anche laddove non si usavano pellicce, la praticità
suggerì egualmente d'accorciare la tunica dei fanciulli cantori e si ebbe il camisium (c. a maniche strette) attestato a  Milano
nel sec. XII.

All'inizio le caratteristiche della c. sono: maniche molto larghe, foro circolare per introdurvi il capo, misura lunga e ampia senza
alcun ornamento, fino quasi ai piedi. Dopo il sec. XIII venne accorciata sino allo stinco; nel sec. XV-XVI, al di sopra dei
ginocchi. Su ciò influì l'uso, sviluppatosi nel sec. XVI, di pieghettarla: poiché infatti la larghezza delle maniche era diminuita in
proporzione della lunghezza della c., si volle dare un aspetto meno goffo alla tunica, conservata solo nel nome, creandosi così
le c. ricce usate oggi principalmente nelle cattedrali e chiese collegiate. Solo con il sec. XVII diventa uso generale ornare la c.
con pizzi. La c. deve essere di lino o di cotone bianco; il taglio sul petto non è d'uso generale.

Il suo simbolismo è vario. A chi la riveste ufficialmente la prima volta accedendo alla tonsura il Pontificale ro­
mano dice: "Ti
rivesta il Signore dell'uomo nuovo, quello che per volere di Dio fu creato giusto e veramente santo". Ed il candore richiama

infatti lo stato di Grazia.

Bibl.: M. Magistretti, Delle vesti ecclesiastiche in Milano, II ed., Milano 1905, pp. 30-34: G. Braun,
I paramenti sacri, trad.
ital.,

14
Torino 1914, pp. 81-84; E. Roulin, Linges. insignes et vêtements liturgiques, Parigi 1930,
pp. 28-34.

Enrico Cattaneo

da
Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 784-785

CREPITACOLO
Dal latino crepitaculum, crepitacillum: giocattolo di legno che agitato produce rumore. È detto anche bàttola, tabella o
raganella. Si usa nella liturgia dal Giovedì al Sabato Santo in sostituzione delle campane.

CROCE NELLA LITURGIA


1. Le feste della S. Croce.
I libri liturgici attuali ne hanno due: In Inventione S. Crucis (3 maggio) e In Exaltatione S. Crucis
(14 sett.).

Le feste seguirono lo sviluppo della devozione alla reliquia della S. C., che ebbe origine col suo ritrovamento. L'anno di questo
avvenimento resta incerto. La Cronaca alessandrina lo assegna al 320, il Lib. Pont. al 310 (I, p. 167), la Dottrina d'Addai la
riporta addirittura al tempo di Tiberio (14-37). La Peregrinatio Aetheriae (ca. 394) la suppone avvenuta prima del 335, ma
Eusebio nella
Vita Constantini, scritta nel 337 non ne parla affatto. Il primo documento sicuro è la testimonianza di s. Cirillo di
Gerusalemme nella Cathech., XIII, 4: PG 33, 775; scritta nel 347. Meno informati ancora si è sul giorno della Inventio. Da
notarsi però che la Cronaca e la Peregrinatio danno il 14 sett. e questo è stato causa di non poca confusione per

l'individuazione delle due feste nei documenti.

Storicamente la festa liturgica dell'Exaltatio precede quella della Inventio. L'origine è palestinese, anzi locale di Gerusalemme e
deve ricercarsi nell'annuale celebrazione della dedicazione (avvenuta il 13 e 14 sett. 335) delle due basiliche costantiniane
dell'Anastasis e del Martyrion. La festa giunse a grande celebrità. Alla fine del sec. IV la Peregrinatio parla di moltitudini di
monachi, episcopi (fino a 40 e 50), clerici, saeculares, tam viri quam feminae, che per otto giorni continui accorrevano da tutte
le parti dell'Oriente per prendervi parte. Essa non cedeva in nulla alle feste di Pasqua c dell'Epifania (Peregrinatio ad loca
sacra, cap. 48, in Itinera, ed. Geyer, p. 100). Con il tempo s'incominciò a fare una solenne ostensione delle reliquie della vera
C., sicché a poco a poco questo rito diventò l'oggetto principale della solennità, facendo dimenticare quasi del tutto la

dedicazione. Alessandro di Cipro (sec. VI) la designa esattamente con il nome poi rimasto: Exaltatio praeclarae Crucis (PG 86,
2176).

Da Gerusalemme la solennità si diffuse in molte chiese orièntali, specie dove si possedeva una reliquia della vera C., come a
Costantinopoli, ad Apamea e ad Alessandria.

Per l'Occidente la prima testimonianza d'una festa liturgica della S. C. si trova nella biografia di Sergio I (687-701), nella quale
si legge:
Qui etiam ex die illo pro salute humani generis ab omni populo christiano die Exhaltationis Sanctae Crucis in basilicam
Salvatoris, quae appellatur Constantiniana, osculatur et adoratur (Lib. Pont., I p. 374).

Il testo lascia intendere che la festa era già celebrata prima di Sergio; probabilmente dapprima nell'oratorio della S. C. al
Laterano, poi nella basilica Sessoriana Sanctae Crucis in Hierusalem. Ma non si deve andare molto indietro, come mostra
l'incertezza dei documenti nel segnalarla: p. es., si trova nel Sacramentario gelasiano (metà sec. VIII; cf. ed. Wilson, p. 198),
ma manca nel manoscritto di Epternach del Martirologio geronimiano, eseguito da un vescovo consacrato da Sergio I (cf. Lib.
Pont., I, p. 387, nota 29). Alla festa Sergio dovette aggiungere la solenne ostensione e adorazione della C. conservata nel
Sancta Sanctorum del Laterano di cui parla il testo riferito, cerimonia attestata ancora nell'Ordo di Cencio Camerario al
principio del sec. XIII.

Mentre a Roma s'affermava la festa dell'Exaltatio, fissata al 14 sett., nelle Gallie s'era introdotta, e con successo, una festa
Inventionis Sanctae Crucis stabilita al 3 maggio. Pare che essa entrasse nelle chiese gallicane nella prima metà del sec. VIII:
non si trova nei Sacramentari leoniano (sec. VI) e gregoriano (sec. VII), non ne fa cenno Gregorio di Tours (593-94), così
abbondante in simile materia, manca nel Lezionario di Luxeuil (fine sec. VII). La riportano invece i manoscritti del Martirologio
geronimiano di Wolfenbüttel (772) e di Berna (di poco posteriore), i calendari mozarabici, i Sacramentari gelasiani del sec. VIII
(cf. P. de Puniet, Le Sacramentaire romaine de Cellone, Roma [1938], pp. 92*-93*; Sacramentarium Pragense, ed. A. Dolci,
Beuron 1949, p. 71).

La data del 3 maggio fu suggerita, a quanto sembra, dalla leggenda di Giuda Ciriaco, vescovo di Gerusalemme (BHL, 7022). Il
Missale Gothicum (secc. VII-VIII) e quello di Bobbio (sec. VIII) mettono la festa tra l'ottava di Pasqua e le Rogazioni, senz'altra
indicazione. Il Reg. 316 e il
Pragense hanno già la data del 3 maggio. In sostanza i due calendari, il romano e il gallicano,
avevano una propria festa della S. C. in date diverse e ambedue sono rimaste nei libri liturgici quando questi, emigrati in
Gallia, ritornarono a Roma con le note aggiunte c trasformazioni.

Anche il formolario liturgico delle due feste ha risentito delle loro vicende. L'ufficiatura della Exaltatio è di evidente fattura
romana: lo mostra tra l'altro l'antifona: O magnum pietatis opus, tratta dall'epigrafe metrica di papa Simmaco (498-514) per
l'oratorio della S. C. in S. Pietro, e l'altra
Salva nos, Christe, che ricorda lo stemma della medesima basilica (cf. U. Mannucci,
Per la storia dell'ufficio della S. C., in Rass. Gregor., 1910, col. 249). Le lezioni narrano il recupero della S. C. dalle mani dei
Persiani, avvenuto nel 665 sotto Eraclio.

L'ufficiatura dell'Inventio, invece, è gallicana. Le antifone del sec. XII accennavano alla leggenda di Giuda Ciriaco e furono

soppresse da Clemente VIII (1592-1605) "quia historiam continebant dubiam" e sostituite dalle attuali (v. l'antico formolario in
Tommasi, Opera, t. IV, p. 250). Le lezioni rimaste raccontano il ritrovamento della C. fatto da s. Elena. La Messa è di classico
tipo gallicano (cf. G. Manz, Ist die Messe de Inventione S. Crucis im Sacram. Gelas. gallischen Ursprungs?, in Ephem. lit., 47
[1938], pp. 192-96).

Nel 1741 la Commissione nominata da Benedetto XIV per la riforma del Breviario stabili di sopprimere la festa del 3 maggio,
ma l'intero progetto, com'è noto, fallì e anche le due feste della S. C. sono rimaste finora al loro posto.

Bibl.: A. Holder, Inventio S. Crucis, Lipsia 1889; P. Bernadakis, Le culte de la Croix chez les grecs, in Echos d'Orient, 5 (1902),
pp. 193 sgg., 257 sgg.: L. De Combes, La vraie Croix perdue et retrouvée, Parigi 1902, p. 265-73; id., De l'invention à
l'exaltation de la S. Croix, Parigi 1903; J. Straubinger, Die Kreuzauffindungslegende, Paderborn 1912; K. A. H. Kellner, L'Anno

ecclesiastico, Roma 1914, p. 285 sgg.; H. Leclercq,


Croix (invention de la), in DACL, III, coll. 3131-39; A. Kleinclausz,
Eginhard, Parigi 1942, pp. 175-99, 249-55.

Annibale Bugnini

2. La Croce dell'altare.
Nei primi secoli, soltanto la materia del sacrificio poteva essere posta sull'altare. La C. e i candelieri,
portati in testa alla processione, venivano collocati o dietro l'altare o ai suoi lati. Talvolta la C. era pendente sotto il ciborio o
scolpita sul frontone dello stesso: tuttavia nessun testo ci dice la ragione precisa della sua presenza. Con il sec. XI viene
ornata del Crocifisso fiancheggiato talvolta dalla Madonna e s. Giovanni Evangelista; un foro nell'altare od apposito piedistallo
permette di fissarla sull'altare stesso durante la celebrazione del S. Sacrificio. L'introduzione e il propagarsi delle Messe private
non è escluso abbiano influito a porla definitivamente sull'altare.

Il Cerimoniale dei vescovi, ordinando che la "Crux Domini" sia sull'altare, stabilisce il suo basamento alto quanto il più vicino dei
candelieri voluti d'altezza varia, perché, con il loro ascendere, maggiormente siano d'ornamento alla C. La sua presenza
sull'altare, come i ripetuti inchini e gli sguardi ad essa rivolti dal sacerdote celebrante la S. Messa, vogliono inculcare essere

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questa la reale rappresentazione del sacrificio della C. Pertanto è sempre necessaria, salvo durante l'esposizione del S.mo

Sacramento, perché l'immagine cede alla realtà.

Bibl.: J. Braun, Das christliche Altargerät, Friburgo in Br. 1932, pp. 466-92; C. Callewaert, De Missalis Romani liturgia, I,
Bruges 1937, n. 442.

Enrico Cattaneo

3. La Croce pettorale. È una piccola croce d'oro o di altro metallo dorato, che i vescovi portano appesa al
collo come proprio
distintivo. Vi sono due specie di Croce pettorale:
una è appesa ad una catena d'oro od altro metallo dorato, che si usa con le
vesti ordinarie, l' altra pende da un cordone di seta rossa per i cardinali e verde per i vescovi, e si porta nelle funzioni sacre e
sulla mozzetta.

Il Cerimoniale dei vescovi fa cenno solo di questa seconda, e la considera come ornamento pontificale, mentre della prima non
parla affatto.

L'origine della C. pettorale si riallaccia molto probabilmente agli encolpi ed a quegli oggetti sacri che i cristiani portavano sul

petto. Gli scrittori antichi non ne parlano: ciò significa che in origine si trattava solo di una devozione personale. Più tardi i papi
fecero di essa un ornamento sacro, imitati successivamente dai vescovi e dagli abati. I primi esempi risalgono ca. al sec. IX.
Alla C. pettorale, come ornamento liturgico del papa, accenna Innocenzo III nel De sacro altaris sacrificio, I, cap. 2. Un

Pontificale del sec. XII enumera fra i paramenti liturgici del vescovo la "Crux pectoralis, si quis ea uti velit" (E. Martène, De
ant. Eccl. rit., 1, Anversa 1736, cap. 4, art. 12, ordo 23).

Bibl..: A. Du Saussay, Panoplia episcopalis, seu de sacro episcoborum ornatu, VII, Parigi 1646, pp. 294-329; L. Thomassinus,
Vetus et nova Ecclesiae disciplina, II, Napoli 1769, cap. 58, nn. 4-5; J. L. Ferraris, Cruz, in Prompta bibliotheca canonica, Parigi
1858, nn. 51-55: A. Fivizzani, De ritu S. Crucis, Roma 1892, cap. 7, p. 53; F. Eygen, in Liturgia, Parigi 1935, p. 342; M.
Righetti, Storia liturgica, Milano 1945, pp. 519-20.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 960-964

CROCIFERO
Secondo
un antico uso cristiano la croce, come vessillo di Cristo, precede tutte le sacre processioni dei fedeli, e l'ufficio di
portarla è specialmente affidato al suddiacono.

CROTALO
(krotalon, crotalum) Strumento a percussione, corrispondente alle nacchere o castagnette. Non entrò mai nell'uso della liturgia,
ma la parola crotalum è usata per designare i crepitacoli che negli ultimi giorni della Settimana Santa sostituiscono le
campane.

"CRUDELIS HERODES DEUM"


Inno
dei Vespri nella festa dell'Epifania, composto delle strofe 8, 9, 11 e
13 del celebre inno di Sedulio, che celebrano i tre
misteri ricorrenti nella festa dell'Epifania: l'adorazione dei Magi, il Battesimo nel Giordano e il miracolo delle nozze di Cana.
La
prima strofa è una significativa interrogazione ad Erode sul suo infondato timore per la nascita del nuovo re, che non usurpa
domini terreni, ma che anzi dà in premio il regno dei cieli ai suoi seguaci. Tutta la composizione è ispirata ad un parallelo fra la
divina e la umana natura del nato Messia.

Bibl.: G. G. Belli, Gli inni del Breviario tradotti, Roma 1857, p. 128; S. G. Pimont, Les hymnes du Bréviaire romain, II, Parigi
1884, pp. 88-95; C. Albini, La poesie du Bréviaire, I, Lione s. a., p. 135.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 1025-1026

"CUSTODES HOMINUM PSALLIMUS ANGELOS"


Inno del Vespro nella festa degli Angeli Custodi (2 ott.). Sono tre strofe asclepiadee ispirate al bisogno dell'aiuto celeste nelle
lotte continue che si debbono sostenere con le forze del male. La terza strofa è una preghiera all'Angelo Custode. Si trova per
la prima volta in un breviario cistercense nel 1570.

Bibl.: G. G. Belli, Gli inni del Breviario tradotti, Roma 1857, p. 312; C. Albini, La poesie du Bréviaire, I, Lione s. d., p. 115; G.
Bossi, Gli inni del Breviario romano, versione ritmica, Roma 1919, p. 192; A. Mirra, Gli inni del Breviario romano, Napoli 1947.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 1095

DALMATICA
Veste liturgica propria del diacono. Era un abito bianco, talare, riservato alle classi più elevate (imperatori, nobili romani) di lino
o di lana, spesso anche di seta, ornato con due striscie di porpora (clavi) più o meno lunghe secondo la dignità della persona
che l'indossava. Questo costume passò nell'uso romano e la d. del sec. II era una tunica ampia, che arrivava fin sotto al
ginocchio, munita di larghe maniche scendenti fino al polso. Tale veste era portata dai vescovi del sec. IlI anche nella vita

civile, come si sa da s. Cipriano il quale si spogliò della d. prima del martirio. Dopo varie vicissitudini, in ultimo rimase
esclusiva del clero.

Del suo uso antico ci parlano gli scrittori, però non è dato riconoscere con precisione di chi fosse propria.

L'opinione più comune è che fosse veste propria dei sommi pontefici e da essi concessa ai diaconi di Roma, e non per tutti i
giorni, ma per le solennità. Secondo il Lib. Pont., s. Silvestro papa (314-35) permise "ut diaconi dalmaticis in ecclesia

uterentur". Già verso la fine del sec. IV l'autore romano delle Quaestiones ex Vetere Testamento, 46 (ca. 370-75) suppone che
l'indossassero anche altri vescovi e diaconi : "hodie diaconi induuntur dalmaticis sicut episcopi". Come appare dai musaici
dell'epoca, nel sec. V si portava a Milano, nel sec. VI a Ravenna; ad altri Roma la concesse espressamente (ad es., Simmaco

[498-514] la diede ai diaconi di s. Cesario di Arles [Vita s. Cesarii Arel., I, 4], s. Gregorio Magno [590-604] ai diaconi della

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chiesa di Gap, Stefano II [752-57] all'abate di S. Dionigi di Parigi). Nel sec. IX invalse l'uso che molti sacerdoti la portassero
sotto la pianeta (Walafridus Strabo, De rerum ecclesiasticarum exordio et incremento, 24) al quale abuso però resistette la
Sede Apostolica, che finalmente (prima ancora del sec. XII) la concesse ai cardinali preti, agli abati ed ad alcuni altri. Dal sec.
XII la d. è de iure la veste propria dei diaconi che la ricevono nella ordinazione e la portano come veste superiore, e dei
vescovi, cardinali preti ed altri prelati che la indossano sotto la penula.

Nel sec. XII si fece la d. del medesimo colore dei paramenti e scomparvero i clavi, distintivo caratteristico, che non avevano più
senso quando fu abbandonato l'uso esclusivo del bianco per far luogo a più ampie strisce. Fuori d'Italia già nel sec. IX si
cominciò ad accorciare la veste talare fino ai ginocchi, ed anche le maniche. Più tardi, per la speditezza dei movimenti, la d. fu
aperta sui fianchi e ampliata nella parte :inferiore, rimanendo tuttavia le due parti congiumte fin quasi alle anche. Nel sec. XVI,
per poterla più facilmente indossare, fu un po' aperta sopra le spalle, e per chiudere i due sparati furono introdotti i cordoni
con nappe (fiocchi) spesso duplicate o triplicate, pendenti sul dorso; costume riprodotto nelle illustrazioni delle prime edizioni
del Pontificale e del Cerimoniale dei vescovi.

Secondo le prescrizioni odierne i diaconi indossano la d. nella Messa solenne, nelle processioni, nelle benedizioni e nella solenne
benedizione con il S.mo Sacramento, ma non è lecito portarla anche per i Vespri (S. Rit. Congr., decrr. 3526, 3719, 4179).
Dato il carattere festivo di essa, da antico tempo la d. non si usa in giorni di penitenza o di digiuno, ma si sostituisce con le
pianete piegate (Messale, Rubr. gen., XIX).

Secondo la formola della S. Ordinazione e la preghiera che si dice nell'indossarla, la d. significa "indumento salutare, veste di
allegrezza e di giustizia", simbolismo che facilmente deriva dal suo antico uso.

Bibl: D. Giorgi, De liturgia Romani pontificis, I, Roma 1731, pp. 176-90; Ch. Rohault de Fleury, La Messe. Etudes
archéologiques, VII, Parigi 1888, pp. 71-109; Wilpert, Pitture, p. 82; H. Leclercq, s.v. in DACL, IV, III, col. 119; J. Braun, I

paramenti sacri, trad. it., Torino 1914, p. 85 sgg.; P. Batiffol, Le costume liturgique romain, in Etudes de liturgie et de
archéologie chrétienne, Parigi 1919, pp. 32-83; L. R. Barin, Catechismo liturgico, IV ed., Rovigo 1928, pp. 406-409; C.

Callewaert, De dalmatica, in Sacris erudiri, Bruges 1940, pp. 219-22. 234 sgg.

Filippo Oppenheim

ARTE. - La d. è un tipo di veste originariamente proprio della Dalmazia, donde il nome, e quindi entrato nell'uso comune in
ogni parte dell'Impero durante il II sec. Consisteva in una lunga veste con maniche che si indossava sulla tunica e su di essa
poteva portarsi anche il mantello. Dal V sec. ca. usata come veste liturgica se ne possono indicare esempi numerosi nelle
pitture delle catacombe, nei musaici e negli affreschi dell'alto medioevo. Aveva allora l'aspetto di una lunga tunica bianca
adorna, lungo i bordi del collo, del fondo e delle maniche, con fregi e ricami.

Dal IX sec. come appare nelle miniature carolinge vi erano d. anche colorate, così nella miniatura iniziale della Bibbia di Vivian
nella biblioteca Nazionale di Parigi (ms. lat. I f. 423); tuttavia in Italia continuarono ad usarsi in prevalenza d. bianche. Nel XIII
sec. oltralpe le d. divengono più corte e anche le maniche vengono ridotte di lunghezza così nelle due belle d. del duomo di
Halberstadt di stoffa figurata con animali ed esseri antropomorfi e l'altra del XIV sec. dell'Alte Kapelle di Regensburg. Le altre
due d. invece di Castel S. Elia ugualmente del XIV sec. sono simili a quelle che si vedono indossare dagli officianti negli
affreschi del XIII sec. della cappella di S. Silvestro presso la chiesa dei SS. Quattro Coronati a Roma. Ma sulla fine del XIII sec.
anche in Italia spesso le maniche vennero ridotte, così in quella di Bonifacio VIII conservata nel Tesoro di Anagni. Bellissima,
opera bizantina del XIV sec., è la d. di stoffa ricamata detta di Carlomagno nel Tesoro di S. Pietro a Roma. Dal Rinascimento la
d., ormai confusa con la tonacella, assume il carattere che ancora oggi conserva e il suo pregio particolare dipende dalla stoffa
con cui è stata confezionata o dai ricami che l'adornano.

Bibl.: J. Braun, Die liturgische Gewandung, Friburgo in Br. 1907, pp. 247-305; P. Romanelli e G. de Luca, s. v. in Enc. Ital., XII
(1931), pp. 242-43.

Emilio Lavagnino

da
Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 1118-1121

"DECORA LUX AETERNITATIS, AUREAM"


È l'inno dei Vespri della festa dei ss. apostoli Pietro e Paolo, composto della prima e sesta strofa dell'inno attribuito ad Elpidia in
onore del Principe degli Apostoli, che incomincia: Aurea luce et decore roseo, rimaneggiato poi dai correttori di Urbano VIII.

Bibl.: G. Belli,
Gli inni del Breviario, Roma 1856, p. 274; V. Terreno, Gli inni dell'Ufficio divino, Mondovì 1932, p. 218; A. Mirra,
Gli inni del Breviario romano, Napoli 1947, p. 219.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 1276

DECRETA AUTHENTICA S. RITUUM CONGREGATIONIS


Viene sotto questo nome la raccolta dei decreti e delle altre decisioni della S. Congregazione dei Riti in materia liturgica. La
liturgia infatti, che costituisce il culto pubblico e sociale che la Chiesa cattolica rende ufficialmente a Dio, ha il suo fondamento
nella istituzione divina. Per il Sacrificio eucaristico quindi e per gli altri sacramenti, che sono i principali elementi della liturgia,
la Chiesa ebbe cura di determinare ben presto la forma che doveva adornarli, per far sempre meglio comprendere ai fedeli la
loro dignità ed efficacia, con preghiere, riti e cerimonie che dessero loro maggiore risalto. Diede vita anche ad altri atti di culto,
quali il divino Ufficio ed i sacramentali ed alla edificazione dei fedeli ha sempre proposto le virtù eroiche dei più perfetti suoi
membri. Essendo quindi oggetto della sacra liturgia il culto di Dio e dei santi, ne deriva che la relativa legislazione deve
procedere dal capo supremo della Chiesa, il romano pontefice, il quale, per il rito latino, prima della istituzione della S.
Congregazione dei Riti, emanava, con speciali costituzioni od altri atti, siffatte leggi, come, ad es., le Rubriche dei libri liturgici,
convalidate da bolle pontifice. In  seguito poi quasi tutte le leggi sono state emanate dalla stessa S. Congregazione, costituita
dal sommo pontefice come l'organo competente in materia, ed alle sue decisioni fu dato tanto valore che "decreta ab ea
emanata et responsiones quaecumque ab ipsa propositis dubiis [formiter] editae, eandem habeant auctoritatem ac si
immediate ab ipso summo pontifice promanarent, quamvis nulla facta fuerit de iisdem relatio Sanctitati Suae" (Dubbio
proposto dall'Ordine dei Frati Predicatori, con risposta affermativa della S. Congregazione dei Riti, 1846, fol. 109. Nei Decreta

authent., II, Roma 1898, n. 2996, la parola "formiter" non appartiene all'originale).

Questi decreti si distinguono in generali c particolari. I generali, con forza di legge in tutta la Chiesa, hanno per titolo:
Decretum o Decretum generale, oppure Urbis et Orbis, mentre i particolari han forza di legge per luoghi, ceti di persone o casi
singoli. È da notare tuttavia che se qualche decreto, emanato in risposta ad un quesito particolare, dichiara il senso di una
legge generale, di una Rubrica, ecc., questa dichiarazione costituisce una interpretazione autentica della legge stessa, ed ha
forza di legge. Questo si ricava non solo dall'oggetto del decreto, ma anche dalle clausole finali, le quali son varie. Il Respondit
o Rescripsit è formola generale, e significa solo che la Congregazione risponde ad una domanda fattale. La clausola Indulsit o
simile indica la concessione di un privilegio, la conferma di una consuetudine, ecc.; che, se per quest'indulto fosse occorsa la
grazia sovrana, allora si userebbe Facto verbo cum Sanctissimo. La clausola Declaravit, dice che il decreto interpreta
autenticamente la legge. Finalmente la clausola Servari mandavit rafforza l'antecedente risposta, imponendo il precetto di

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osservarla rigorosamente. La S. Congregazione non ha pubblicato le molte migliaia dei suoi decreti, ma solo i generali per la
Chiesa universale. Essi formano la collezione pubblicata negli aa. 1898-99 con i tipi della S. Congregazione di Propaganda Fide,
che contiene quelli emanati dal 1588, anno in cui fu istituita la S. Congregazione dei Riti, fino al 15 dic. 1899, sub auspiciis
Leonis Papae XIII, con i tipi della Vaticana, poi, negli aa. 1912­ 1927, sub auspiciis Pii Papae X e Pii Papae XI, fino al 14
maggio 1926, con il n. 4403. Il titolo è: Decreta  authentica Congregationis Sacrorum Rituum, ex actis eiusdem collecta
eiusque auctoritate promulgata. Dopo questa data la collezione non è stata proseguita; però i più importanti decreti sono stati
pubblicati in AAS.

I singoli decreti, prescindendo dalla loro inserzione nella collezione, sono autentici, ma la loro esistenza sarebbe rimasta ignota
ai più. La pubblicazione pertanto non solo li ha resi noti, ma, come espressamente dice il decreto di approvazione pontificia, fa
sì che i decreti che non concordano con quelli della collezione "veluti abrogata esse censenda, exceptis tantum quae pro
particularibus ecclesiis indulti seu privilegii rationem habeant". Questi decreti dunque con le Rubriche contenute nei libri
liturgici formano la giurisprudenza della S. Congregazione dei Riti. È da osservare però che, con la riforma delle Rubriche
introdotta da Pio X nel Messale e nel Breviario e con il CIC, molti decreti hanno perduto del loro valore.

Alfonso Carinci

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 1280-1281

DEO GRATIAS
Formola di saluto e di ringraziamento. Nel culto liturgico i fedeli la dicono in risposta al
Benedicamus Domino, nella Messa dopo
l'Ite Missa est.

"DIES IRAE" 

Sequenza
per la Messa dei defunti, che consta di diciassette strofe ternarie di ottonari piani monorimi, più sei di chiusa, di altro
sistema strofico: in tutto 57 versi. Assai controversi il tempo della composizione e l'autore dell'inno.

DIURNO
(Diurnale) È il libro liturgico che contiene le sole ore diurne del divino ufficio, cioè le Laudi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespero
e Compieta, con tutte le antifone, responsori, inni, lezioni, orazioni, ecc., proprie del tempo, dei santi e del comune.

"DOMARE CORDIS IMPETUS, ELISABETH" 

Inno del Matutino per la festa di s. Elisabetta di Portogallo, composto probabilmente da Urbano VIII e da lui introdotto nel
Breviario.

Il metro trimetro giambico acatalettico si stacca dai soliti metri degli inni ecclesiastici, e la sua forma risente molto della
ispirazione classica allora in voga. Il poeta esalta la saggezza della santa regina, che ha preferito vincere i moti del cuore per
unirsi a Dio, cui servire è veramente regnare.

Bibl.: G. Belli, Gli inni del Breviario, Roma 1856, p. 276; V. Terreno, Gli inni dell'Ufficio divino, Mondovì 1932, p. 236; A. Mirra,

Gli inni del Breviario romano, Napoli 1947, p. 224.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 1817

"DUM, NOCTE PULSA, LUCIFER" 

Inno delle lodi nell'Ufficio di san Venanzio martire, scritto dal card. Bona e da Clemente X inserito nel Breviario.
Come l'alba è foriera del giorno vicino, così il martirio del giovane camerinese portò la luce dello spirito ai suoi concittadini. Il
suo sangue lavò le loro colpe e fu semenza di nuovi cristiani.
L'inno fa parte dei due altri della medesima festa, e sono certamente, dello stesso autore, da essi però si stacca per più alta
ispirazione e robustezza di forma.

Bibl.: G. Belli, Gli inni del Breviario, Roma 1856, p. 258; V. Terreno, Gli inni dell'Ufficio divino, Mondovì 1932, p. 208; A. Mirra,

Gli inni del Breviario romano, Napoli 1947, p. 212.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 1980

DURAND, GUILLAUME
(Durandus, Durando) vescovo di Mende. Canonista e liturgista, n. a Puimission, a nord di Béziers (Francia) ca. il 1230. Studiò
diritto in Italia e ne fu professore a Bologna e poi a Modena. A Roma gli furono affidati molti e delicati incarichi. Nel 1286 fu
nominato vescovo di Mende, e nel 1295 governatore della Romagna e della Marca d'Ancona. M. a Roma il 1 nov. 1296: il suo
corpo riposa a S. Maria sopra Minerva. Occupa un posto importante nella storia del diritto.

Fu autore di Commentarii alle Novelle di Gregorio X, di un Breviarium seu Repertorium alle Decretali, lavori molto utili per la
teoria e per la pratica. Ma l'opera più notevole del D. è lo Speculum iudiciale, felice tentativo di esposizione dell'intero sistema
del diritto, attraverso la specie procedurale. In esso, accanto alle formole degli atti che si organizzano pure sotto l'influsso
romanistico nuovo delle scuole giuridiche, vi è una larga elaborazione dottrinale, sostenuta da passi di teorici e pratici italiani

riportati talora letteralmente, come appare dalle note, che il grande canonista e storico del diritto Giovanni Andrea appose allo
Speculum di D. L'opera, di così larga influenza nel mondo giuridico del diritto comune, può pertanto ritenersi figlia diretta
dell'elaborazione dommatica italiana. Oltre gli elencati trattati di diritto, ha scritto anche due opere di liturgia: Rationale
divinorum officiorum e Pontificalis ordinis liber. La prima ebbe importanza grandissima nel medioevo, sì da esser la prima
stampata a Magonza con caratteri metallici nel 1459. Della sacra liturgia fa una esposizione mistica, allegorica e morale, e
tratta della chiesa, del suo ornato, dei Sacramenti, dei ministri sacri, degli uffici divini, della Messa, delle feste del calendario.
Un simbolismo esagerato la pervade, vi abbondano citazioni bibliche non sempre controllate.

Altra opera che ebbe una singolare fortuna è il suo Pontificale, che è poi stato adottato dalla Chiesa romana. Il suo lavoro risale
agli ultimi anni della sua vita. Egli vi espone la liturgia romana, introducendovi elementi nuovi provenienti da tradizioni locali.
Di questo Pontificale si ha oggi una accurata edizione critica accompagnata da una dotta introduzione per opera di M. Andrieu
(Le Pontifical romain au moyen âge, III: Le Pontifical de G. D. [Studi e Testi, 88], Roma 1940).

Non deve confondersi con D. Guillaume iunior, pure canonista e teologo, ma dì minor momento e vissuto poco dopo di lui (cf.

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su quest'ultimo J. F. Schulte,
Gesch. der Quellen und Lit. des Kan. Rechts, II, Stoccarda 1876, p. 195 e P. Viollet, Guillaume D.
le jeune, évéque de Mende, in Hist. litt. de la France, XXXV, Parigi 1921, pp.1-139).

Bibl.: J. F. Schulte, Gesch. der Quellen u. Lit., II, Stoccarda 1878, p. 152 sgg.; J. Berthelé et M. Valmery, Instructions et
constitutions de D. le Spéculateur, in Archives da département de l'Hérault V, 1 (Montpellier 1900).

Antonio Rota

da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 2004-2005

ELEVAZIONE
Rito della messa, con cui il celebrante innalza le specie sacramentali per esporle all'adorazione dei fedeli.

EPISTOLA
Il brano delle Lettere degli Apostoli o di qualche altro libro della S. Scrittura che il sacerdote legge nella messa prima del
Vangelo.

ESEQUIE
L'antichissima
tradizione di suffragare con particolari preghiere l'anima dei morti è stata ininterrottamente sostenuta dalla
Chiesa e osservata quasi istintivamente dalla pietà dei parenti dei defunti. Il Rituale Romano parla delle esequie al titolo VI. Le
esequie strettamente parlando cominciano con le preghiere stabilite per l'ingresso del cadavere in chiesa e finiscono con quelle
che ne accompagnano l'uscita dalla medesima. Nello svolgimento delle esequie,
pur avendo un posto di preminenza la
celebrazione della messa e la recita dell'Ufficio divino che ne sono la parte principale, non mancano altre preghiere tra le quali
quelle che accompagnano l'ingresso del cadavere in chiesa e la sua uscita.

ESPOSIZIONE DEL S.MO SACRAMENTO


Rito,
con il quale si espone all'adorazione dei fedeli l'Ostia consacrata, o
scoperta nell'ostensorio o racchiusa nella pisside.
L'esposizione, che è sempre seguita dalla benedizione, si distingue in pubblica e privata, secondo che si fa con l'ostensorio o
con la pisside.
La pubblica è solenne o solennissima. La prima ha una certa durata, mentre la seconda è quella propria delle
Quarantore.

EVANGELIARIO
Il libro liturgico che contiene i brani del Vangelo da leggersi durante l'anno nella messa solenne

"EXULTET"  

È il preconio pasquale, il solenne


Lucernarium proprio alla notte di Pasqua; in sostanza è l'offerta solenne del cero pasquale
inserita nella proclamazione e nell'esaltazione dei misteri della stessa notte, cioè della risurrezione e della nostra redenzione.
L'elevazione
della forma e del contenuto fa di esso un autentico capolavoro
Già sant'Agostino (De civit. Dei xv, 22) parla di una
"lode del cero pasquale"; san Girolamo (Epist. 18: PL 30, 182 sgg.) rimprovera il diacono Presidio di Piacenza per la eccessiva
descrizione della natura, in specie delle api, nell'E. (CSEL, 6, p. 415). Ennodio di Pavia (opuscc. 9 e 10) e il Gelasianum (80) ce
ne hanno conservato il testo. In Roma non c'era uso né della benedizione, né del cero pasquale, né dell'E. prima del sec. VIII
(nel cosiddetto Gregoriano non si trova la formola); ai diaconi delle chiese suburbicarie fu data licenza di benedire il cero dal
sec. VI. Il formolario attuale dell'E., cantato dal diacono nell'ambone, si trova per la prima volta nel Sacramentario di Bobbio
(sec. VII) sotto il titolo: Benedictio cerei s. Augustini episcopi (quam) cum adhuc diaconus esset, cecinit, poi nel Missale
Gallicum vetus (L. Muratori,
Liturgia Romana vetus II, Venezia 1748, pp. 783 e 845) e nel Missale Gothicum (ibid., 581 sgg.),
onde entrò nel supplemento del Sacramentario Adriano e così nella liturgia romana (per la critica del testo cf. L. Dichesne,
Origines du culte chrétien, V ed., Parigi 1925, p. 254), Alla lode unisce la preghiera per le autorità ecclesiastiche e civili.

Anticamente i singoli passi erano ben illustrati.

Alcuni brani dell'E. un tempo erano oggetto di acuta discussione, come quello della "felix culpa", delle api come simbolo della
verginità e maternità di Maria S.ma, ed altri, e perciò in molti manoscritti mancano o sono cancellati.

Bibl.: J. Braun, Osterpräkonium und Osterkorzenweike, in Stimmen aus Maria Laach, 56 (1899), p. 273 sgg.; anon., Le
miniature dei rotoli dell'E., Montecassino 1899; P. Latil, De praeconio paschali, in Ephemerides liturgicae, 16 (1902), p. 123
sgg.; A. Mercati, Paralipomena Ambrosiana (Studi e Testi, 12), Roma 1904, pp. 24-43; F. Di Capua, Il ritmo della prosa
liturgica e il Praeconium Paschale, in
Didaskaleion, nuova serie, 5 (1927), pp. 1-23; R. Buchwald, Osterkeze un E., in
Theologisch-praktische Quartalschrift, 80 (1927), pp. 240-49; B. Ebel, Zum Verständnis des E., in Liturgische Zeitschrift, 3
(1930-31), pp. 165-73; O. Casel, Der österliche Lichtgesang der Kirche, ibid., 4 (1931-32), pp. 179-191; B. Capelle,
La

procession du Lumen Christi au Samedi Saint, in Revue bénédict., 44 (1932), pp. 105-19; id., L'Exultet pascal oeuvre de st
Ambroise, in Miscellanea Mercati, III, Città del Vaticano 1946, pp. 219-46.

Filippo Oppenheim

da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, coll. 920-921

"EXULTET ORBIS GAUDIIS"


Inno dei Vespri nelle feste degli apostoli, di autore ignoto.
Inno dei Vespri nelle feste degli Apostoli, d'autore ignoto.
Il cielo e la terra son chiamati a celebrare le lodi di questi primi seguaci di Gesù. Costituiti giudici di tutte le genti nel giudizio
universale (Mt. 19, 28), gli Apostoli sono la luce del mondo (ibid. 5, 14), coloro che hanno la facoltà di aprire e chiudere le
porte del cielo (Io. 20, 23) e che guariranno i malati con la imposizione delle mani (Mt. 16, 18).
Bella e ispirata è la preghiera, perché vi esala come un misterioso profumo dalle parole di Gesù agli Apostoli; altrettanto però
non si può dire della poesia.

Bibl.: G. G. Belli, Gli inni del Breviario tradotti, Roma 1856, p. 346; C. Blume, Die Hymnen des Thesaurus hymnologicus H. A.
Daniel, Lipsia 1908, p. 126; V. Terreno, Gli inni dell'Ufficio divino, Mondovì 1932, p. 300; A. Mirra, Gli inni del Breviario
romano, Napoli 1947, p. 245.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, coll. 921-922

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FALDA
Veste di seta bianca tendente al crema, lunga coda che il papa cinge ai fianchi, e si trascina per terra. Poco o nulla si sa delle
sue origini e dell'epoca della sua assunzione a ornamento pontificale: ora esclusivamente riservato al papa. I diari di
Alessandro VI (sul finire del sec. XV) ne parlano come di veste già esistente, e solo ne regolano l'uso. Anticamente si aveva
anche una f. di lana che il pontefice portava nei giorni feriali e nelle domeniche di Avvento e di Quaresima; ma al presente la f.
è solamente di seta. Essa è di due specie: una più corta, usata nei concistori segreti, nei quali il santo padre interviene in
mozzetta e stola; l'altra, molto più grande, indossata dal papa tutte le volte che è vestito pontificalmente. Viene assunta dopo
il rocchetto, nella camera detta "della f." presso la Sala dei Paramenti nel Palazzo Apostolico. Siccome l'una e l'altra sono molto
più lunghe dell'altezza della persona e terminano con una lunga coda o strascico, è necessario sollevarla perché il papa possa

camminare. Due protonotari di numero, o due uditori di Rota, secondo il cerimoniale, hanno l'ufficio di sollevare i lembi

anteriori alla f., mentre due camerieri segreti sorreggono l'estremità laterali ed il principe assistente al Soglio l'estremità
posteriore insieme al manto pontificale. La f. è usata dal papa tutte le volte che assiste o celebra solennemente la Messa o i
Vespri, sia nella cappella del Palazzo Apostolico, che, una volta, nelle diverse chiese di Roma; cioè in tutte le funzioni sacre, in
cui indossa i paramenti pontifici, come nella processione del Corpus Domini, lavanda dei piedi, apertura e chiusura della Porta
Santa, concistoro, ecc.

Bibl: G. Moroni, s. v. in Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica; A. Battandier, Annuaire pontifical catholique, 23 (1907),

pp. 7-11.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, col. 962

FALDISTORIO
Dal tedesco Faltstuhl (sedia piegata). È una sedia con bracciuoli ma senza spalliera, che si pone ai gradini dell'altare nel lato
dell'Epistola per il vescovo o abate quando non può servirsi del trono, come nel Venerdì Santo e nelle Messe pontificali per i
defunti o in presenza di un legato apostolico o di un cardinale, o nelle sacre ordinazioni. Gli altri vescovi l'usano quando dal
vescovo diocesano non hanno ottenuto il permesso del trono; gli ausiliari e coadiutori devono servirsene sempre (S.
Congregazione dei Riti, decr. 4023); i protonotari apostolici di numero e soprannumerari quando celebrano pontificalmente
secondo il motu proprio Inter multiplices di Pio X (1905).
Lo ricorda già l'Ordo Romanus XIV del sec. XIV (PL 78, 1159). Non ha i gradini, ma semplicemente un podio o uno sgabello.
Secondo il Caeremoniale Episcoporum deve essere coperto con seta (prima con tela: Paciano, sec. IV,
Epist. 2 ad
Sympronianum lo chiama "linteatam sedem"). Secondo l'uso tradizionale lo si copre con stoffa del colore dell'ufficio del giorno
ed ha un cuscino dello stesso colore.
L'origine del f. è da ricercarsi probabilmente nella praticità di avere vicino all'altare un comodo sedile, dato che il trono, o
cattedra vescovile, era in fondo all'abside dietro l'altare. Nelle chiese abbaziali accanto all'altare era la sedia dell'abate.

Bibl.: L. Eisenhofer, Handbuch der kath. Liturgik, I, Friburgo in Br. 1932, pp. 377-79: Ph. Oppenheim, Bemerkungen zum
Messbuch der Kluniazensermönche, 2. Die Abtsmesse, in Bibel und Liturgie, 11 (1935-37), pp. 421-31; P. Bayart, in Liturgia,
Parigi 1947, pp. 229-30.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, coll. 962-963

FANONE
Nella sua
forma attuale è un ornamento proprio del solo Sommo Pontefice,
che lo assume quando celebra solennemente, dopo
l'ora canonica di terza. Consiste in una doppia mozzetta di seta finissima e oro, tessuta in strisce perpendicolari, una bianca,
l'altra d'oro, congiunte fra loro da una terza più piccola di colore amaranto:
un palloncino d'oro ne borda l'estremo sia

superiore che inferiore: la mozzetta esterna ha inoltre ricamata una croce d'oro con raggi. Queste due mozzette sono cucite
nella parte che circonda il collo, allacciandosi con un bottone le aperture corrispondenti alle spalle; ora non più, perché Pio X

per comodità le fece separare. Nelle Messe pontificali, quando il papa ha preso il
succintorio e la croce pettorale, il cardinale
diacono ministrante gli impone la prima mozzetta del f., poi la stola, le dalmatiche, la pianeta, e sopra di essa la seconda
mozzetta: in ultimo il pallio.

È molto difficile rimontare alle origini di questo ornamento. Confuso forse in principio con il manipolo, o con l'amitto
(anabolagio), o con gli oralia, specie di fazzoletti o tovaglioli, che servivano ad asciugare il sudore del capo e perciò portati
intorno al collo, passò nella forma attuale verso il sec. XIII. Precedentemente serviva a coprire il capo a guisa di cappuccio e vi
si metteva sopra la mitra. Usava non solo nelle funzioni liturgiche, ma anche in circostanze profane, come in occasione di
pranzi solenni, nella distribuzione del presbiterio. In un antico messale, di cui si ignora la data, della chiesa di S. Damiano in
Assisi è detto che il papa mette sul capo il f. senza la mitra per la lavanda dei piedi il Giovedì Santo; e che il Venerdì Santo non
usa il f. Pietro Aurelio, sacrista di Urbano V nel 1362, nel suo Cerimoniale romano dice che il papa mangiava in pubblico con il
manto rosso e con il f. o orale sul capo sotto la mitra. Di Bonifacio VIII sappiamo che portava il f. sotto la mitra, e che fu
sepolto con esso; lo stesso dicasi di Clemente IV morto nel 1268. Innocenzo III (nel De  mysteriis Missae, l. I, cap. 13) parla
esplicitamente di questo ornamento che chiama orale: si è dunque al principio del sec. XIII. Qualche autore vorrebbe vedere il
f. nella figura scolpita nella porta di bronzo nella cappella di S. Giovanni Evangelista al Laterano rappresentante Celestino III.

Vari autori vogliono che l'uso dei vescovi greci di coprirsi la testa con un velo, quando hanno assunto gli ornamenti principali,
abbia dato origine al f. del papa; ma è cosa incerta. Altri, invece, e con essi lo stesso Innocenzo III, intendono far derivare il f.
dall'ephod del sommo sacerdote ebreo, anch'esso tessuto di strisce d'oro e colorate, ma di diversa forma.

Con questa parola si designava anticamente un velo pendente da un'asta a guisa di bandiera, chiamato appunto gonfalone,
stendardo, vessillo; oppure, secondo l'etimologia ecclesiastica, il velo pendente dal braccio dei ministri sacri detto manipolo,
sudario, orale.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, coll. 1024-1025

FERULA
Nel medioevo era il pastorale del vescovo, del quale si ha notizia nel sec. X (PL 132, 970; 136, 907).
Costituiva il simbolo della potestà spirituale e temporale del papa (signum regiminis et coercitionis,
Ordo Romanus, xiv, cap.
44: PL 78, 1143). Gli era consegnato insieme alle chiavi quando, dopo l'incoronazione ed il possesso della Basilica
Lateranense, si recava alla chiesa di S. Silvestro. Somigliava agli sceptra imperialia, dovuti ai papi dopo la cosiddetta
donazione di Costantino.

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Attualmente è un'asta sormontata da una Croce a braccia uguali, che il papa usa principalmente nella funzione della apertura e
chiusura della Porta santa.

Filippo Oppenheim

da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, col. 1209

FORMALE
Chiamato anche razionale o pettorale, è una lamina di metallo, d'oro o d'argento, gemmata, della grandezza di una mano, che
si porta sul petto dove si ferma ed affibia il piviale dei vescovi nella propria diocesi.
Molti autori lo vogliono derivare dal razionale del sommo sacerdote ebraico, il quale portava sul petto un ornamento chiamato
appunto razionale con dodici diverse pietre preziose rappresentanti le dodici tribù d'Israele. Altri invece lo fanno derivare dalla
parola di bassa latinità firmaculum, specie di fermaglio, fibbia che serviva per allacciare le vesti. Nulla è prescritto riguardo alla
forma, così che gli orafi possono esercitare il loro talento nel cesellarvi sopra figure o simboli, intrecciarvi smalti e pietre

preziose. Nei f. odierni è prevalso l'uso di rappresentarvi lo Spirito Santo sotto forma di colomba dalle ali spiegate: simbolo

della sua assistenza al vescovo nel governo della diocesi: Il f. perché è esclusivo ornamento, come si è detto di vescovi nella

loro diocesi, è dal cerimoniale dei vescovi vietato prete assistente, e ai vescovi non diocesani. Solo i cardinali vescovi

suburbicari hanno il privilegio di portare il f. dappertutto, anche a Roma, sia che assistano al pontificale celebrato dal sommo
pontefice; sia che essi stessi solennemente celebrino le funzioni liturgiche. Il loro f., secondo un uso molto antico, è costituito
da una lamina di argento dorato sulla quale sono incastonate in linea perpendicolare tre nodi e pigne di perle. Anche il sommo
pontefice usa il f. La più antica memoria di quello usato dai romani pontefici come ornamento liturgico l'abbiamo sotto Martino
V, il quale se ne fece fare uno d'oro con figure su rilievo e gioie di grande valore da Lorenzo Ghiberti. Celebre tra gli altri f.
papali quello che Benvenuto Cellini fece per ordine di Clemente VII. Rappresentava, come narra il Cancellieri, il Padre Eterno
sedente, sopra un diamante di fondo di 136 grani sostenuto da vari angeletti e cherubini fra due zaffiri orientali di rara purezza
e due balasci orientali con varie gioie. Di esso esiste solo una copia nella sacrestia pontificia, l'originale fu preso da Napoleone.

Al presente il papa ha tre f. diversi: uno di perle che usa quando porta la mitra a lama d'argento, ossia nei funerali e nelle
domeniche di Avvento e Quaresima. (Da notare che le pigne di perle sanò disposte in triangolo). Il secondo, comune, che usa
in tutte le funzioni, eccettuati i Vespri e le Messe pontificali, quando cioè il papa usa la mitra di lama d'oro; ed infine il prezioso
che usa in tutte le funzioni più solenni e in tutti i Vespri e Messe pontificali, quando cioè mette la mitra preziosa. Questi due
hanno la stessa forma: la lamina di forma ovale rappresenta lo Spirito Santo sotto forma di colomba raggiante, decorata di
perle e di una guida di frondi di vite con grappoli d'uva, tra cui sono disposte in giro dodici pietre preziose: differiscono tra loro
solo per la ricchezza e la varietà delle pietre.

Da notarsi infine il f. che si mette al piviale della statua di s. Pietro nella Basilica Vaticana il giorno della sua festa: è una lamina
di argento dorato avente al centro una colomba dalle ali spiegate con raggi, rappresentanti lo Spirito Santo.

Enrico Dante

da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, col. 1520

FUNZIONI SACRE
(Funzione, da fungor, cioè esercizio, esecuzione) sono le funzioni della potestà di Ordine, che per istituzione di Cristo
o della
Chiesa sono ordinate al culto divino e che si possono compiere dai soli chierici.

GAVANTI, BARTOLOMEO
Liturgista, della Congregazione dei Barnabiti, n. a Monza nel 1559, m. a Milano il 14 agosto 1638. Chiamato a Roma, lavorò
sotto Clemente VIII e Urbano VIII alla revisione del Breviario e del Messale. Fu una delle massime autorità liturgiche del
tempo.  Le sue principali opere sono: Thesaurus sacrorum rituum, sive commentarios in rubricas Missalis et Breviarii (Milano
1628); Praxis visitationis episcopalis et synodis dioecesanae celebrandae (Roma 1628). Preparò anche l'Octavarium Romanum,
più volte ristampato.

Bibl.: Una buona biografia e bibliogr. è riportata nell'ed. veneta del Thesaurus, I, Venezia 1762, pp. x-xiii; O. Premoli, Storia
dei Barnabiti nel '600, Roma 1922, pp. 178-82; G. Boffito, Scrittori barnabiti, II, Firenze 1933, pp. 132-48 (con ampia bibl.).>

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, col. 1967

GRADUALE
1. Il libro. L'attuale Liber gradualis di cui un estratto riunito poi con parti dell'Antifonario, costituisce il diffusissimo Liber
usualis, approvato dalla Chiesa come raccolta dei canti della messa, nell'edizione vaticana del 1907. Contiene in più del fondo
antico tutte le aggiunte posteriori, dovute all'introduzione di nuove feste nel calendario.
2. Il canto. È il canto eseguito durante la messa dopo la lettura dell'Epistola.

GRASSI, PARIDE
Cerimoniere
pontificio e liturgista, vescovo di Pesaro, nato a Bologna il 1450-1460, morto a Roma il 10 giugno 1528. Opere
principali: Diarium Curiae Romanae, commentario al Cerimoniale di Agostino Patrizi Piccolomini: Caeremonialium regularum
supplementum et additiones, Tractatulus de consecratione electorum in episcopos, Brevis ordo Romanus, Tractatus de
funeribus et exequiis in Romana Curia peragendis, De caeremoniis papalibus, De caeremoniis cardinalium, et episcoporum in
eorum dioecesibus, De tonis sive tenoribus orationum et
aliorum omnium quae intra totum annum solemniter cantanda sunt.

GUANTI
L'introduzione dei g. (chiroteca) nella liturgia si deve al desiderio di rendere l'abbigliamento episcopale sempre più distinto e
solenne. Amalario, all'inizio del sec. IX, nulla ci dice sull'uso dei g. da parte dei vescovi, tuttavia un inventario dell'abbazia di
St-Riquier dell'831 ne attesta l'uso "Wanti castanei auro parati". Il Magani (L'antica liturgia romana, III, Milano 1899, p. 170)
cita altri documenti del sec. X ed una precisa attestazione liturgica nel Sacramentario di Ratolfo di Corbie (m. nel 986): "Tunc

ministrentur ei (= al vescovo che sta parandosi per la Messa) manicae... postea detur ei anulus in dextra manu, desuper

manica". L'uso pertanto appare introdotto in Francia e passa ben presto a Roma: nel 1070 Alessandro II ne concedeva il
privilegio all'abate di S. Pietro in Ciel d'oro di Pavia. Ai termini
wantus e manica, presto si sostituì quello bizantino di chiroteca,

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oggi usato.

Nella consacrazione del vescovo vengono consegnati al termine della Messa, e sono usati soltanto dai vescovi ed altri prelati
aventi il privilegio, nella Messa pontificale dall'inizio al Lavabo (nel rito ambrosiano sino all'Offertorio) e quando, alla fine,
danno la benedizione papale (S. Congregazione dei Riti, 3605, 9). In origine erano bianchi, generalmente di seta: dal sec. XIII
vennero confezionati anche negli altri colori liturgici, eccettuato il nero, essendo proibiti nella Messa per i defunti e nel Venerdì
Santo. Nella parte superiore hanno ricami con simboli di Gesù Cristo. L'orazione con la quale vengono consegnati al neo-eletto
indica che non hanno lo scopo di riparare dal freddo, bensì quello di conservare pulite le mani.

Bibl.:X. Barbier de Montault, Les gants pontificaux, Tours 1877; G. Braun,I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 137-41; P.
Batiffol, Rites et insignes pontificaux, in Revue des jeunes, 19 (1925), p. 135 sgg.

Enrico Cattaneo

da Enciclopedia Cattolica, VI, Città del Vaticano, 1951, coll. 1200-1201

GUÉRANGER, PROSPER-LOUIS-PASCAL
Restauratore
dell'Ordine benedettino in Francia, nato a Sablé-sur-Sarthe (Francia) il 4 aprile 1805, morto a Solesmes il 30
gennaio 1875. Il 21
dicembre 2005 il vescovo di Mans ha aperto il processo diocesano di beatificazione di dom Guéranger.
Opere principali: Les institutions liturgiques, 3 voll., Paris 1840-1842, 1851 (II ed. 1878),
L'année liturgique,
9 voll., Le Mans
1841-1866 (a parte le prime 168 pagine del decimo volume, dovute alla penna del Guéranger, l'opera è stata
terminata in 15
voll. dal suo discepolo dom L. Fromage).

INCENSO
Sostanza
resinosa, che bruciata emette un gradito odore aromatico e fumo. L'uso dell'i. nel culto è attestato dalla più remota

antichità presso tutti i popoli orientali. Probabilmente entrò nell'uso liturgico cristiano a partire dalla seconda metà del secolo
IV.

INTROITO
Nella liturgia romana canto eseguito mentre il celebrante, nella messa solenne, si reca all'altare, interpreta ed esprime i
sentimenti propri
del mistero o della festa del giorno.

"ITE, MISSA EST"


("Andatevene,
c'è il congedo") Il congedo della Messa romana, proferito dal celebrante (nella Messa solenne dal diacono).

"KYRIE ELEISON"
"Signore,
abbi pietà!", è una implorazione greca di lingua e di origine. A Roma fu introdotto verso la fine del secolo V, e al
tempo di san Gregorio Magno (morto nel 604), forse già da san Benedetto (morto nel 547) si recitava alternativamente con
"Christe eleison".

LIBRI LITURGICI
I
libri che contengono le formole ufficiali, con le relative prescrizioni rituali o rubriche, per la celebrazione della messa,

l'amministrazione dei sacramenti e dei sacramentali, e l'ufficiatura divina.

LINGUA LITURGICA
Idioma ammesso ufficialmente in un determinato rito liturgico.

LITANIE
Il vocabolo (da litaneia "preghiera") ha il senso generale di preghiera e
ancor più quello di supplica o preghiera di intercessione.
Stilisticamente appare come una formola concisa mediante la quale l'assemblea cristiana si unisce alla preghiera del ministro
sacro partecipandone intimamente le sante intenzioni.

LITURGIA
Da leiton ergon = publicum opus. Presso i greci  implica il concetto di un'opera pubblica, il cui compimento gravava come onere
sui cittadini più ricchi. In seguito il significato venne ristretto a opera pubblica di culto agli dei, e da allora fu a carico della
comunità. Nella religione cattolica nell'accezione di culto prestato alla divinità il termine venne introdotto nella Bibbia dei
Settanta, così lo usarono pure gli scrittori del Nuovo Testamento, anche per designare gli
atti di Gesù sacerdote eterno;
espressioni analoghe nella Didaché e in Clemente Romano: Più tardi significò soltanto l'atto di culto per eccellenza, la messa.

LODI
(Laudes matutinae)
Preghiera solenne allo spuntar del sole, in uso già nei primi secoli cristiani. Le Lodi chiudono festosamente
l'orazione notturna, perciò nell'officiatura corale non si staccano queste due ore canoniche. Fin dal secolo XII l'ufficio mattinale,
lasciando il nome di Matutinae all'orazione notturna, fu chiamato semplicemente Laudes.

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MANIPOLO
(manipulum, mappula, fano, sudarium, mantile, manuale, sestace)
Indumento liturgico, portato sull'avambraccio sinistro in
modo che le
due bande pendano da ambedue le parti, confezionato della stessa stoffa
della pianeta.
Il m. è proprio di tutti gli ordini maggiori, specialmente del suddiaconato, da quando questo cominciò ad essere annoverato fra i
maggiori (secc. XI e XII). Si usa, oltre che nella Messa, soltanto all'Epistola e Vangelo nella benedizione delle palme, ed
all'Exultet del Sabato Santo; non si usa mai col piviale. Il vescovo mette il m. all'altare dopo aver recitato il Confiteor; il
sacerdote dopo il cingolo, prima della stola; i ministri dopo la tunicella o dalmatica.

Il m., d'origine romana, deriva dalla mappa o mappula, una specie di fazzoletto da tasca usalo dai nobili romani in certi costumi
di gala (le alte cariche dello Stato, p. es., consoli in tenuta di cerimonia come risulta dai dittici consolari), tenuto in mano come
oggetto di etichetta e solamente ad ornamento. Questa mappula decorativa venne da quella d'uso comune (Amalario, De eccl.
off., II, cap. 24). Non si sa precisamente quando il m. sia entrato a far parte della suppellettile sacra. La prima notizia del m.
diaconale si trova nella vita dei papi Silvestro I (314-24) e Zosimo (417-18) del Liber Pontificalis; si chiama "pallium
linostimum" un tessuto di pregio, fatto di lana o di seta su trama di filo, dato a titolo di onore, da portarsi sulla mano sinistra.
Il m. del Papa occorre nell'Ord. Romanus I (la cui consegna serve a dare segno d'incominciare il canto dell'Introito); il m. del
suddiacono nell'Ordo Romanus VI; talvolta anche gli accoliti (Ordo Romanus V) usavano il m. ma non in mano, "in sinistro
latere ad cingulum"; ed i monaci cluniacensi nelle feste; ma in seguito l'uso venne riservato ai monaci d'ordine maggiore
(suddiaconi ecc.). Il m. era la prerogativa del clero romano, ma da s. Gregorio Magno, per le insistenze di Ravenna, fu
concesso anche al solo primo diacono di quella Cattedrale. Nel sec. IX il m. si trova in uso dappertutto nell'Occidente, A Roma
è chiamato mappula, fuori di Roma "m." : quest'ultima denominazione divenne di regola; ricorrono altri nomi: fano (phano-
panno) e mantile in Rabano Mauro, sudario in Amalario,
sestace a S. Gallo.

Fin oltre il 1100 (v. affresco del sec. XI di S. Clemente a Roma) si porta il m. nella mano sinistra; verso il sec. XII­ XIII
s'incominciò a fissare il m. sull'avambraccio. Il m. ritenne la forma antica di fazzoletto oltre il sec. IX; in seguito, ripiegato su
se stesso, venne prendendo a poco a poco la forma di striscia o fascia; sul finire del sec. XIV diviene corrente la forma odierna.
Al tempo d'Amalario, era fatto di lana; venne poi usata la seta; alle estremità si mettono frange, talvolta campanelli, ricami o
trame in oro. La rubrica del Messale prescrive soltanto l'ornamento con un segno di croce in mezzo. Nel rito greco si trova un
indumento corrispondente al m., chiamato encheirion, proprio del solo vescovo, portato a destra nel cingolo, non nella o sulla
mano; in seguito trasformato nell'epigonation romboidale (J. Braun [v. bibl.], pp. 550-54).

Bibl: J. Braun, Die liturgische Gewandung im Occident und Orient nach Ursprung und Entwicklung, Verwendung und Symbolik,
Friburgo in Br. 1907, pp. 515-61; L. Eisenhofer, Handuoch der kath. Liturgik, I, ivi 1932, pp. 449-52; M. Righetti, Manuale di
storia liturgica, I, Milano 1945, pp. 498-500; T. Klauser, Der Ursprung der bischöflichen Insignien und Ehrenrechte (Bonner
akadem. Reden, I), Krefeld 1949, pp. 17-22; A. Alföldi, Insignien und Tracht der römischen Kaiser, in Mitteilungen des
deutschen archäologischen Instituts, Röm. Abt., 50 (1935), pp. 1-171.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, VII, Città del Vaticano, 1951, coll. 1969-1970

MANTELLETTA
(mantellum) Veste ecclesiastica, ma non liturgica, specie di mantello ridotto, di forma ampia che scende fino alle ginocchia,
aperta davanti, senza maniche, con due larghe aperture laterali per introdurvi le braccia. Distintivo di dignità, è l'abito della
prelatura romana.

La portano i cardinali, i patriarchi, i vescovi, gli abati regolari, i protonotari apostolici ed i prelati domestici; si usa sempre con il
rocchetto. Nelle loro diocesi, tutti i vescovi usano la mozzetta senza la m. Nella Curia romana tutti, deposta la mozzetta,
indossano la m. In presenza del papa, i cardinali portano il rocchetto, la m. e la mozzetta; in sede vacante, come nei loro
luoghi di giurisdizione, essi procedono con il rocchetto senza m. Nella loro diocesi, alla presenza di un cardinale o del proprio

metropolita, i vescovi usano la m. e la mozzetta; se poi il cardinale è legato a latere, la sola m.

Il colore della m. dipende dalla persona che la porta: i cardinali l'hanno di tre colori, rosso di solito, violaceo nei giorni di
penitenza e di lutto, rosaceo nelle domeniche Gaudete e Laetare; gli altri prelati e vescovi usano di regola il violaceo. I
cardinali, i vescovi e gli abati regolari sono generalmente tenuti ad usare l'abito del colore del loro ordine.

Da quando la m. sia in uso, non è certo; forse


mantellum dell'Ordo Roman. XIII (Caeremoniale Romanum, ed. iussu Gregorii X,
dopo il 1274) o dell'Ordo Roman. XV (Liber de caeremoniis S. R. E. "auctore Petro Amelio, Ep. Senegalliensi", m. nel 1401) si
riferisce alla m. (Braun); G. Catalani cita nel Caeremoniale episcoporum (I, Roma 1744, pp. 14-15) il can. II del Concilio
Budense (1279) ed i decreti del Concilio provinciale II Mediolanense di s. Carlo (sec. XVI) "in usu fuisse saec. XV".

Bibl.: Motu proprio di Pio X, Inter multiplices; del 21 febbr.


1905, in Decr. auth. Congreg. Sacr. Rit., n. 4154 ad 7.16.26. (31);
Decreto S. Congreg. Caerem. 24 giugno 1933, in AAS, 25 (1933), pp. 341-42. Studi : G. Moroni, s. v. in Diz. di erud. stor.
eccl., XLII, pp. 150-54; P. Hinschius, System des kath. Kirchenrechts, I, Berlino 1869, p. 358, n. 5, 390; II, ivi 1878, p. 47, n.
11; P. Hofmeister, Mitra und Stab der wirklichen Prälaten ohne bischöflichen Charakter, Stoccarda 1928, p. 58; J. Braun, s. v.
in Cath. Enc., IX, p. 611.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, VII, Città del Vaticano, 1951, coll. 1985-1986

MANUTERGIO
(manutergium, estersorium)
È l'asciugamano usato nelle abluzioni liturgiche. Secondo Cirillo Alessandrino (Catechesi

mistagogica, V, 2) il diacono porge al vescovo ed ai sacerdoti concelebranti l'acqua per purificarsi le mani; secondo le
Costituzioni Apostoliche (VIII, 11, 12) invece quest'ufficio è compiuto dal suddiacono. Negli Statuta antiqua di Arles (del 500)
l'arcidiacono consegna al suddiacono, come segni del suo ufficio, "urceolum cum aqua... ac manutergium", cerimonia questa
che si trova tuttora nella ordinazione del suddiacono. A Roma, fin dal sec. VIII, l'acqua ed il m. sono presentati al celebrante
dagli accoliti.

Attualmente il m. è di tre forme: 1) uno grande in sacrestia, o in locale vicino, per l'abluzione delle mani prima che il sacerdote
si vesta per la celebrazione della Messa. Quest'uso rimonta al sec. VIII, ed i m. son prescritti in vari Sinodi (p. es., di Luttich
[1287]) ed istruzioni (s. Carlo Borromeo). Le rubriche ne indicano l'uso soltanto prima della Messa; dopo la Messa è
raccomandato. 2) Uno piccolo da usarsi al
Lavabo nell'Offertorio. È proibito (decr. S. Congr. Rit. n. 2118) di portarlo sul calice
nell'andare e tornare dall'altare. Si usa anche dopo la Comunione distribuita fuori della Messa. Il citato Sinodo di Luttich tiene
questo m. in molta considerazione. 3) Di forma più grande, si adopra nella Messa e nelle altre funzioni pontificali. Serve anche

all'offerta dei pani dopo la consacrazione del vescovo.

Nella degradazione di un suddiacono gli vien tolto anche il m.

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Bibl: J. Braun, Handbuch der Paramentik, Friburgo in Br. 1912, pp. 260-62; L. Fischer, Bernardi card. et Lat. Eccl. prioris Ordo

Oficinrum Eccl. Later., Monaco 1916, passim; M. Andrieu, Le Pontifical romain au moyen âge, 3 voll., Roma 1938, passim.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, VII, Città del Vaticano, 1951, col. 1994

MARTIROLOGIO
Catalogo dei martiri e dei santi disposto secondo l'ordine delle loro feste.

MATTUTINO
(Matutinum, Laudes matutinae, Officium nocturnum).
Nel senso più antico (fino al secolo XI) è la preghiera o
l'ora canonica del
mattino che aveva luogo allo spuntar del sole. Nel
senso moderno (dal secolo XII) è l'ufficio notturno.

MEMORIALE RITUUM
(Parvum caeremoniale, Parvum rituale)
Libro moderno del rito romano, composto a uso delle parrocchie minori
di Roma,
contenente le cerimonie della benedizione delle candele il 2 febbraio, delle ceneri all'inizio della Quaresima, delle Palme nella

Domenica delle Palme, e degli ultimi tre giorni della Settimana Santa,
in modo da potersi eseguire da un solo sacerdote con
l'assistenza di un piccolo numero di accoliti, invece che secondo le prescrizioni del Messale.

MESSA
Il sacrificio della Nuova Legge, nel quale, sotto le specie sacramentali,
è offerta la stessa vittima del Calvario, Gesù Cristo, per
riconoscere il dominio supremo di Dio e per applicare ai fedeli i meriti acquistati sulla Croce.

Messale
Dal latino ecclesiastico missa, onde Missale o Liber Missalis, è un libro liturgico che contiene le formole eucologiche (letture,
canti, orazioni) e le prescrizioni rituali per la celebrazione della Messa.

MITRA
Copricapo liturgico, insegna distintiva del papa, dei cardinali e vescovi, ai quali compete per diritto; e anche di abati, prelati e
canonici, ma in forza di un privilegio particolare. La forma attuale è di un copricapo a soffietto, con le due parti terminanti in
punta (cornua), tenute dritte da una fodera di rinforzo e collegate da un tessuto frammezzato, e con la parte posteriore ornata
di due appendici a striscia (fasciae, vittae, penduli, fanones, infulae).

Intorno all'origine e all'antichità si discute; la prima testimonianza sicura risale al sec. XI e a Roma. Leone IX (1049-54)
concesse la m. romana all'arcivescovo Everardo di Treviri, che l'aveva accompagnato a Roma, pro investitura ipsius primatus
(della Chiesa di Treviri), affinché egli e i suoi successori se ne servissero pro ecclesiastico officio, a ricordo della loro
dipendenza da Roma (Jaffé-Wattenbach, II, 4158). Due anni dopo (1051) Leone IX la concesse ai cardinali della Chiesa di
Besançon e Bamberga per determinate occasioni. A poco a poco l'uso si estese e nella seconda metà del sec. XII la m. è di uso
generale presso tutti i vescovi, con o senza il permesso esplicito del papa. La prima concessione certa  ad abati è del 1063.
Talvolta la m. fu concessa anche a prìncipi laici, ad es., da Nicolò II (1059-60 al Duca di Boemia, da Lucio II (1144-45) al Re di
Sicilia. Incoronando l'imperatore, il papa gli metteva dapprima la m. clericalis, poscia il diadema imperiale (Ordo Rom., XIV,

105: PL 78, 1241).

A seconda della ricchezza e dell'uso, si distinguono tre sorti di m.: la m. semplice di seta bianca (o di tela di lino bianca) con
frange rosse (usata nelle benedizioni, nelle funzioni dei morti, nel Venerdì Santo); la m. aurifregiata (auriphrygiata) di tela
d'oro senza altro ornamento (usata nell'Avvento, nella Quaresima, eccetto le domeniche Gaudete e Laetare, nelle vigilie; ed
anche nella Messa e nei Vespri al trono o alla cattedra); la terza, preziosa, ornata di ricami d'oro, seta e pietre preziose (nelle

feste più grandi, andando all'altare e ritornando in sacrestia, nell'impartire la benedizione solenne, nelle processioni solenni).
La m. non segue i colori liturgici.

La m. viene sempre deposta, quando il vescovo recita un'orazione (I Cor. 11, 4), o quando il diacono canta il Vangelo, e al
canto del Benedictus e del Magnificat.

Presso i Greci e nei riti orientali, la m. non ha la forma latina, ma quella di una corona regale sormontata da una croce; usata
dal sec. XV, prima dai patriarchi e metropolitani, poi anche dagli altri vescovi; soltanto i patriarchi d'Alessandria usavano già
dal sec. X un copricapo liturgico a forma di turbante.

Bibl: J.Braun, Die liturg. Gewandung im Occident und Orient, Friburgo in Br. 1907, pp. 424-98 (trad. it., Torino 1914), pp.
147­157; M. Righetti, Man. di stor. liturg., I, Milano 1950, pp. 531-36; Th. Klauser, Der Ursprung der bischöfl. Insignien und

Ehrenrechte, Krefeld 1950, pp. 17­22.

Pietro Siffrin

LA M. NELL'ARTE. - La forma della m. ha subito trasformazioni nei secoli. Delle prime, a foggia di berretti conici terminanti a
punta, si ha forse l'esempio più antico nel rotulo dell'Exultet dell'Archivio del duomo di Bari, degli inizi del sec. XI. Dalla forma
conica si passa a quella rotonda, successivamente schiacciata nel mezzo in alto, così da formare due rigonfiature laterali (v. la
figura dell'arcivescovo Federico di Colonia [1100­ 1131] nel codice miniato delle lettere di s. Girolamo, del duomo di Colonia).
Dalle rigonfiature laterali derivano, con ulteriore trasformazione, i cornua rigidi che si mantengono tali sempre, anche quando
la m. viene disposta sul capo non più con le punta sulle tempie, ma sulla fronte e la nuca e le appendici vengono attaccate in
fondo al corno posteriore, anziché nell'avvallamento. È così che si ritorna alla forma a cono primitiva, ma divenuta a soffietto.
Le proporzioni sono tuttavia cambiate; fin dal sec. XIV la m. si allunga notevolmente e dal sec. XVI in poi i lati dei corni si

vanno inarcuando sempre più, fino a formare, come si vede anche nella m. attuale, un vero arco acuto. Si conservano esempi
di m. che. risalgono ai secc. XII-XIV: in Italia, quelle di lino bianco della chiesa della S.ma Trinità di Firenze, della cattedrale di
Anagni, della parrocchiale di Castel S. Elia, di Ferentino, quest'ultima ritenuta di Celestino V, e, in stoffa damascata, quella di
Giovanni XXII, nel Museo sacro della Bibl. Vaticana e nella collez. Abbey di Torino, e m. con decorazioni o lungo il bordo
attorno all'orlo (in circulo) o alla punta del corno fino al bordo (in titulo). Dapprima le ornamentazioni si facevano con galloni;
dal sec. XIII in poi, sia il circulus che il titulus e le appendici sono sovente ornate con figure in ricamo. Si conservano bellissimi

esempi di m. ricamate (v.. Stoffe) dei secc. XII e XIII nel Tesoro della cattedrale di Anagni, in S. Zeno a Verona, nel duomo di
Cividale, e, del sec. XIV, nel duomo di Fiesole, nel Museo nazionale di Ravenna, nel duomo di Urbino, in S. Pietro in Vincoli a
Roma. Il ricamo si estende talvolta tanto da coprire tutta la parte anteriore della m., così che il "titolo" è interamente ricamato
a figure o a decorazioni. Esempio del sec. XIV di m. interamente ricamata è quella del Museo di Cluny a Parigi, in seta bianca
lavorata in nero con rappresentazioni finissime della sepoltura di Cristo e il bordo con mezze figure di Apostoli entro cornici
architettoniche. Alla fine del '500 e in età barocca la m. non è più decorata con ricami a figure o con pietre preziose, ma con

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ricami applicati e ricchi, a carattere ornamentale: p. es., la fastosa m. della cattedrale di Friburgo.

Bibl: H. Bergner. Handbuch der kirclil. Kunstaltertümer, in Deutschland, Lipsia 1905, pp. 377-78; J. Braun, Die liturgische
Gewandung in Occident u. Orient, Friburgo in Br. 1907, p. 468; P. Toesca, Storia dell'arte ital., Torino 1927, pp. 1139 n.31 e
sgg.;V F. Volbach, I tesssuti det Museo sacro Vaticano, Roma 1942.

Luisa Mortari

da Enciclopedia Cattolica, VIII, Città del Vaticano, 1952, coll. 1154-1156

MOZARABICA, LITURGIA
Liturgia
usata ufficialmente in Spagna fino alla seconda metà del secolo XI, in cui si impose la liturgia romana, ma conservata
nei secoli seguenti, dal XII al XV, in alcune parrocchie di Toledo e, dal secolo XVI ai nostri giorni, nella cappella del "corpus
Christi" della
primaziale di Toledo.

MOZZETTA
Sopravveste usata dai dignitari ecclesiastici fuori delle funzioni liturgiche; è una mantellina che copre le spalle e buona parte
delle braccia; nella parte anteriore si abbottona sul petto, alla parte posteriore, sull'alto, è cucito un piccolissimo cappuccio. È
propria del papa, dei cardinali, dei vescovi, degli abati regolari e di quelli che la godono per consuetudine o privilegio pontificio
(p. es., i capitolari di molte cattedrali). È portata sul rocchetto scoperto, oltre che dal papa, dai prelati rivestiti di giurisdizione.

L'origine della m. è incerta; forse è un accorciamento della cappa magna; di qui suo nome. Il cappuccio venne diminuito
quando fu usata la berretta. La m. era in uso a Roma nella seconda metà del sec. XV.
La m. dei cardinali e di seta rossa o porpora, di seta violacea o paonazza secondo i diversi tempi dell'anno; alla presenza del
papa si porta sopra la mantelletta. I cardinali appartenenti a Ordini monastici e mendicanti usano sempre la m. di lana, saia o
panno e del colore dell'abito dell'Ordine a cui appartengono; p. es., i Benedettini nera, i Carmelitani bianca, i Francescani
grigia. I vescovi usano il solo colore paonazzo o violaceo; i vescovi religiosi quello del loro Ordine, così gli abati regolari. Una
m. senza cappuccio viene data come privilegio ai parroci in alcune diocesi.

Bibl.: Moroni, XLVII, pp. 27-36; X. M. J. Barbier de Montault, Le costume et les usages ecclésiast., I, Parigi s. a., pp. 332-50; J.
Braun, Die liturgische Gewandung im Occid. und Orient, Friburgo in Br. 1907, pp. 357-58; trad. it., Torino 1914, p. 162; M.
Righetti, Man. di stor. liturg., I, Milano 1950, p. 512.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, VIII, Città del Vaticano, 1952, coll. 1505-1506

NONA
È quella parte dell'ufficio divino che si recita all'ora nona (= ore 15), secondo la divisione greco-romana del giorno. È composta

dall'inno, di tre salmi, di una lezione seguita da un responsorio, un versetto e l'orazione finale.

NOTTURNO
(Vigiliae nocturnae, Nocturna laus)
Era l'ora canonica della notte in uso già nei primi secoli cristiani. Fin dal secolo XII il
notturno viene detto mattutino, perché si faceva prima dello spuntar del sole.

"NUNC DIMITTIS"
Cantico
pronunciato dal vecchio Simeone in occasione della presentazione di Gesù al Tempio (Lc 2, 29-32). Attualmente si
recita a compieta.

OCTAVARIUM ROMANUM
Libro liturgico della Chiesa romana, di uso facoltativo, che contiene le lezioni del secondo e terzo Notturno da leggersi durante i
giorni delle ottave particolari delle feste dei patroni e dei titolari delle chiese.

Stabilite definitivamente da s. Pio V, con la pubblicazione del Breviario (1568) e del Messale (1570) riformato, le norme per la
celebrazione delle ottave particolari dei patroni e dei titolari delle chiese, si fece sentire la deficienza di lezioni proprie per i
giorni correnti di queste ottave, poiché nel corpo del Breviario tali lezioni mancano. Per ovviare a questo difetto, il noto

liturgista Gavanto, consultore della S. Congregazione dei Riti, si mise al lavoro e compose una collezione di letture patristiche,
distribuite appositamente per i giorni di queste ottave particolari. Nacque allora il dubbio se tale raccolta dovesse entrare
direttamente nel Breviario, o formare un libro liturgico a parte. La S. Congregazione venne nella determinazione di pubblicare
un libro separato dal Breviario, e confermò questa deliberazione col decreto del 19 febbr. 1622, premesso al libro che ebbe il
nome: O. R., uscito nel 1623 a Roma e quasi subito anche fuori in varie edizioni. Il Gavanto vi premise un'erudita introduzione,
nella quale si trattiene lungamente sulla storia e sul significato delle ottave, introduzione rimasta nelle edizioni moderne. Le
due ultime edizioni dell'O. R. sono quelle del Pustet, curate dalla stessa S. Congregazione dei Riti, nel 1882 e nel 1902, con

ampia appendice.

L'O. R. non è strettamente obbligatorio, ma, a un dubbio propostole, la S. Congregazione dei Riti ha risposto che le lezioni
mancanti per le ottave particolari "desumantur ex O. R." (Decr. auth. n. 2735; 8 ag. 1835).

Bibl: Ph. Oppenheim, De libris liturgicis, Torino, 1940.

Giuseppe Löw

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 62-63

OFFERTORIO
Il nome deriva dal verbo offerre (offrire, recare) il cui participio oblatum
diede origine al vocabolo "oblazione", "oblata" con cui

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è indicata la cosa offerta. Ben presto designò la parte della messa
compresa tra la presentazione delle offerte e il Prefazio, e

poiché un canto accompagna tale parte della messa, anch'esso prese il nome di "offertorio".

OMBRELLINO
(umbrella, umbraculum) Piccolo ombrello, ripiegabile, di seta damascata bianca (rossa nel rito ambrosiano), guarnito di frange
d'oro o di seta, che si sostiene per riverenza sopra il sacerdote che porta il S.mo Sacramento nelle processioni (prima
di
entrare sotto il baldacchino grande e uscendone) e quando reca il Viatico in forma solenne.

OMBRELLONE
(conopaeum, padiglione, sinnicchio) È un'insegna in forma di grande ombrello detta "conopeo" (nei decreti = padiglione),
propria delle basiliche romane maggiori e minori e di quelle fuori Roma che hanno il privilegio e il titolo di "basilica minore".

"O NIMIS FELIX MERITIQUE CELSI"


La
terza parte dell'inno dell'Ufficio nella festa della nascita di s. Giovanni Battista, composto da Paolo Diacono. Si canta alle
Lodi.

ORAZIONE
Nella liturgia il termine orazione è preso nel significato preciso di preghiera recitata dall'officiante (vescovo o sacerdote) come
interprete presso Dio dei sentimenti di lode, di supplica, di adorazione, comuni a tutti i fedeli, indirizzati a lui in loro nome.
Qui
il termine o. è preso nel significato preciso, che assume nella liturgia la preghiera recitata dall'officiante (vescovo o sacerdote)
come interprete presso Dio dei sentimenti di lode, di supplica, di adorazione, comuni a tutti i fedeli, indirizzati a lui in loro
nome.

Prima, queste o. erano composte dall'officiante stesso (Giustino, Apol. I, 67); ma già nei primi secoli se ne notarono, raccolsero
e ripeterono parecchie, ben composte (p. es., Didaché, Eucologion di Serapione, Sacramentari romani). In seguito, l'o. si

specificò nelle 4 o. della Messa: 1ª, detta Colletta, prima delle letture; la 2ª, all'Offerta dei doni (Super oblata, Secreta), la
3ª,
dopo la Comunione (Postcommunío, Ad complendum) la 4ª, recitata sul popolo (Super populum), e infine il termine o. si
restrinse specialmente alla prima, l'oratio per eccellenza.

I caratteri specifici dell'o., specialmente nella Colletta, sono: 1) di essere una supplica, riserbando la lode e il ringraziamento
alle altre o. eucaristiche; questa supplica si tiene sulle generali e non discende mai troppo al minuto e quando si accenna
all'intercessione dei santi od a qualche mistero, ciò avviene unicamente per appoggiare la nostra preghiera; 2) una supplica
universale: cioè o. di tutti e per tutti, per un bene di tutta la comunità; il che si manifesta nel soggetto "noi" ("quaesumus",
"preces nostras"), nell'oggetto ("ut... serviamus", "ut... vivere valeamus"); 3) una supplica assolutamente spirituale nelle sue
domande; si domandano sempre beni spirituali e soprannaturali ("sic transeamus per bona temporalia, ut non amittamus
aeterna", domenica 3ª di Pentecoste).

Secondo un principio liturgico tutte le o. vengono indirizzate a Dio, cioè al Padre, interponendo la mediazione di Cristo (I Pt. 4,
11; I Clem., 61; Tertulliano, Adv. Marcion., IV, 9). Il Concilio di Ippona, nel 393, precisa che "cum altari assistitur, semper ad
Patrem dirigatur oratio". Nella liturgia romana sono rivolte a Dio Padre quasi tutte le o., provenienti dal periodo classico dei

Sacramentari cosiddetti leoniano, gelasiano e gregoriano (e in origine anche le o. dell'Avvento); mentre nella liturgia gallicana
le o. si rivolgono sovente al Figlio, facendo precedere alla finale la clausola "Salvator mundi". Nel Messale, Breviario, Pontificale
e Rituale romano si trovano ca. 50 o. rivolte al Figlio, una sola allo Spirito Santo (nella benedizione dell'abate), ma sono tutte
di origine medievale o moderna, posteriori, cioè al sec. XVI; mentre la Colletta ed il Postcommunio della Messa del "Corpus
Domini", del sec. XIII, costituiscono le prime eccezioni. Nella conclusione caratteristica romana "Per Dominum... " furono
aggiunte più tardi le due apposizioni "Filium tuum" e "Deus", per accentuare la divinità di Cristo.

Nella forma letteraria delle Collette si distinguono un tipo semplice e un tipo più complesso. Il tipo più semplice, ed anche più
antico, esprime l'oggetto sostanziale o con forme verbali Concede... , Da nobis... , Exaudi... , Praesta... , o con un sostantivo
designante la grazia richiesta Auxilium...,  Gratiam... Questo tipo occorre anche nelle Secreta e nei Postcommunio.

Caratteristico della Secreta è di cominciare la formola con una parola allusiva all'offerta dei doni. Accepta... , Accipe...,  Haec
hostia... , Haec oblatio... , Haec sacrificia... , Munera... Similmente i Postcommunio riferiscono il frasario della Comunione.
Haec communio... , Refecerunt... , Sacramenta... , Sumpta. Lo schema del tipo più complesso comprende quattro parti o
suddivisioni: a) un'allocuzione a Dio, apponendovi attributi (omnipotens, sempiterne, Deus) o un'intera proposizione
predicativa (Deus qui abundantia pietatis tuae); b) un'invocazione (Concede... , Praesta... , Respice... ), con aggiunto
quaesumus; c) una domanda (ut... ); d) la motivazione della domanda (Per Dominum... ). Questo tipo più complesso è proprio
delle Collette, non occorre mai nelle Secreta o nei Postcommunio. L'invocazione a Dio con l'aggiunta predicativa qui... viene
usata specialmente nei giorni commemorativi o festivi sia del Signore, sia dei Santi. Si può dividere l'o. anche in due parti:
preludio e tema, o invocazione e petizione, più o meno ampiamente o brevemente svolte. Il preludio comprende l'indirizzo con
l'ampliamento, cioè il fondamento della nostra domanda; il tema contiene la domanda stessa (Preludio: Deus qui nos in tantis
periculis... non posse substinere, tema: da nobis... ut... vincamus). L'invocazione può precedere la petizione, ma anche
seguirla (Excita... Largire... ). Altre particolarità delle antiche o. classiche sono la conveniente disposizione dei vari membri,
ben proporzionati fra loro e arricchiti di complementi, di parallelismi e di antitesi, e l'eufonia basata sull'euritmia delle clausole,
sia incidentali che finali, sulle successioni armoniche di parole e di sillabe, cioè nell'uso del "cursus", In tal modo, le Collette
romane mostrano in generale un carattere di sobrietà e d'eleganza.

Bibl: J. A. Jungmann, Die Stellung Christi im liturg. Gebet, Münster 1925, pp. 102-107, 186-87; J. Cochez, La structure
rythmique des oraisons (Cours... Semaines liturg., VI), Lovanio 1927, pp. 139-50; P. Alfonso, L'Eucologia rom. antica.

Lineamenti stilistici e storici, Subiaco 1931; P. Salmon, Les protocolles des oraisons du Missel romain, in Eph. lit., 45 (1931),
pp. 140-47; H. Rheinfelder, Zum Stil der latein. Orationen, in Jahrb. für Liturgiewissensch., 11 (1931), pp. 20-34; O. Casel,
Beiträge zu röm. Orationen,
ibid., pp. 35-45; G. De Stefani, La S. Messa nella lit. rom., Torino 1935, pp. 429-42; M. G.
Haessly, Rhetoric in the Sunday Collects of the Roman Missal, Saint Louis 1938; P. Alfonso, I riti della Chiesa, III, Roma 1945,
pp. 40-44; G. Brinktrine, La S. Messa, ivi 1945, pp. 75-81; J. A. Jungmann, Missarum Sollemnia, I, Vienna 1949, pp. 460-74;
M. Righetti, Man. di st. lit., I, Milano 1950, pp. 202-209; F. Di Capua, Cursus, in Enc. Catt., IV, coll. 1083-92.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 212-214

ORDINES ROMANI
Gli Ordines Romani sono "libelli" elaborati nel secc. VIII-XIV, contenenti la descrizione e le regole per lo svolgimento delle
principali cerimonie sacre: battesimo, messa, ordinazioni, dedicazione delle chiese, uffici della Settimana Santa e le principali
feste dell'anno liturgico.

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OREMUS (PREGHIAMO)
Invito generico nel rito romano dell'officiante ai fedeli prima delle preghiere nella messa (Collette, Secreta, Postcommunio,
Pater noster), nell'ufficio e in altre occasioni.

OSTENSORIO
È un vaso sacro (monstrantia, tabernaculum [mobile o portatile], custodia)
che si adopera per la solenne esposizione del S.mo
Sacramento o per recarlo in processione, in uso soltanto nella Chiesa latina.

OTTAVA
Prolungamento di una festa liturgica per otto giorni.

PACE, strumento
Strumento
liturgico per portare la "pace", cioè per il bacio prima della
Comunione, al coro e a determinate persone assistenti
alla messa.

PALIOTTO
(pallium, pannus; antealtare, frontale antependium)
Rivestimento della mensa dell'altare, anticamente detto vestis o pallium,
dopo il sec. XV p. (da palliare = ricoprire).

Nella Chiesa antica, per la venerazione in cui era tenuto, l'altare veniva circondato di una certa ricchezza e, dove possibile,
rivestito di lamine d'oro e d'argento, o almeno di stoffe preziose, come si sa per l'Oriente da s. Efrem (m. nel 373), dal
Chronicon Paschale, da s. Giovanni Crisostomo. Per l'Occidente i famosi musaici di Ravenna (S. Vitale c S. Apollinare) ne
danno un bel saggio; nel Liber Pontificalis si legge di molti ricchi rivestimenti, offerti dai papi, ad es., da papa Zaccaria (741-
52) per la basilica di S. Pietro e da altri che rivestivano l'altare in ogni parte, o almeno nei due lati principali. Ma dopo il sec. XI,
con l'accostamento dell'altare alla parete della chiesa, cioè in fondo dell'abside, se ne rivestiva la sola parte anteriore, donde i
nomi di ante-altare, frontale, antependium.

Il Caerimoniale episcoporum (l. I, cap. 12, n. 2) non lo prescrive, ma ne raccomanda l'uso; nel Messale (Rubr. gen. tit. XX) si
dice di fare i p. nei colori, se possibile, delle feste e dell'Ufficio.

Bibl.: J. Braun, Handbuch der Paramentik, Frihurgo in Br.  1912, pp. 218-24; trad. it., I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 171-
76; id., Der christl. Altar, Monaco 1924, pp. 9-132; G. Destefani, La S. Messa nella liturgia romana, Torino 1935, pp. 121-26;
M. Righetti, Man. di storia liturgica, I, II ed.. Milano 1950, pp. 430-33.

Pietro Siffrin

ARTE. - Appartengono ai secoli, dei quali non si conservano p. in stoffa, alcuni preziosissimi rivestimenti di altare in oreficeria,
avori e marmi. Tra i più antichi esempi, metà del sec. VIII, è il p. in marmo dell'altare del duca Rachis nella chiesa di S.
Martino a Cividale, proveniente da S. Giovanni, capolavoro di un'arte ingenua e primitiva; e, tra i più cospicui, il p. in oro e
argento dell'altare della basilica di S. Ambrogio a Milano, ove il
Magister Vuolvinus (835) usò tutte le varietà di tecnica

dell'oreficeria (sbalzo, niello, smalto) con finezza incomparabile, seguendo modelli propri all'arte carolingia e tecnica
prevalentemente bizantina.

Al sec. XI risalgono il p. in oro, ritenuto dono di Enrico II (1014-24), già del duomo di Basilea, ora a Parigi nel Museo di Cluny,
e gli altari del Tesoro di Conques. Più numerosi gli esempi del sec. XII: il p.. bizantineggiante, a scomparti in avorio con Storie
dell'Antico e del Nuovo Testamento, ora scomposto, ma conservato quasi integralmente nella sacrestia della cattedrale di
Salerno, il p. argenteo con il Redentore e Storie della sua vita nella cattedrale di Città di Castello, quello del patriarca
Pellegrino II (1195-1204) con caratteri veneti e bizantineggianti nella collegiata di S. Maria Assunta a Cividale. Del sec. XIII si
ha un esempio di p. a tarsie marmoree bianche e verdi con tasselli a triangolo e losanga, diviso in tre scomparti da arcatelle

trilobate nella badia di Fiesole, già all'altare di S. Romolo, del maestro Costantino, come risulta dall'iscrizione del 1273, e nella
badia di Sesto al Reghena in Friuli è un p. ricomposto, di scultore bizantineggiante, forse lombardo. A Pistoia, nella Chiesa di S.
Jacopo bell'antependium argenteo, le cui parti più antiche (1287) presentano le figure della Vergine e degli Apostoli entro
architetture gotiche; del 1316 è, ancora a Pistoia, l'altare cesellato del pistoiese Andrea d'Ognabene. Nella sacrestia del duomo
di Ascoli Piceno si conserva un p. d'argento della seconda metà del '300, di arte più rozza, con Storie della vita del Redentore;

altrettanta imperizia tecnica mostra il p. della collegiata di Monza, opera del milanese Borgino del Pozzo (1350-57).

Degli inizi del sec. XV è a Firenze il p. del Battistero, dei fiorentini Betto di Geri e Leonardo di ser Giovanni (1366); a Venezia,
nel Tesoro di S. Marco è il p. di Gregorio XII (1408) di cui sono originarie solo le decorazioni architettoniche e le figure. Fra i
rari esempi di p. in legno, è quello valdostano, conservato nel Museo civico di Torino, con elementi romanici e gotici e
infiltrazioni francesi.

Molti sono i p. in stoffa attribuibili al sec. XIII; un magnifico esemplare è nel Museo cinquantenario di Bruxelles, due nel duomo
di Anagni, uno nel duomo di Salisburgo, due nel Museo storico di Berna, uno nel Museo storico di Dresda, uno dell'ornamento
da Messa dell'Ordine del Toson d'Oro nel Museo della Corte di Vienna, tutte opere pregevolissime e ben conservate, legate
strettamente ad elementi della pittura dell'epoca, veri capolavori del dipinto ad ago (v.
Ricamo).

In Italia, importanti i due p. del Tesoro della cattedrale di Anagni, ricordati tra i doni di Bonifacio VIII; raro esemplare di scuola
nordica il primo, con l'Albero della Vita; il secondo, di ispirazione cavalliniana, opera dell'Italia centrale, con le Storie di Gesù,
della Vergine e di Santi.

Un p. importato dall'Oriente è nelle Gallerie di Genova, donato alla città dall'imperatore Michele Paleologo (1271-76), che vi è
raffigurato in atto di venir introdotto nella cattedrale da S. Lorenzo.

Lavori del principio del sec. XIV sono nel Museo provinciale di Hannover e nel duomo di Halberstadt; in Italia, notevolissimo
l'antependio, di incerta provenienza, della chiesa di S. Maria a Zara, che il Toesca ritiene disegnato da un seguace di Duccio, il
Cecchelli lavoro monastico locale, il Coletti di un seguace di Paolo Veneziano.

A Pitti, nel. Museo degli argenti, è un p. ricamato da Jacopo di Cambio, già in S. Maria Novella; e sempre ad opus florentinum,
con ricami in parte a rilievo e con pitture nelle ombreggiature degli incarnati (Toesca), del celebre ricamatore Geri di Lapo è il
grande p. della chiesa di S. Maria a Manresa in Catalogna. Del sec. XV si conservano pure bellissimi p. istoriati: nella basilica di
S. Francesco ad Assisi il p. di Sisto IV in seta ricamata, forse su disegno del Pollaiolo, a Siena nel Museo delll'Opera del Duomo
altro p. con
Storie di Cristo e figure di Santi, alla Madonna del Monte di Varese p. donato da Beatrice d'Este e Lodovico il Moro

(1491), al Museo Poldi Pezzoli di Milano p. con l'emblema sforzesco, a Cortona nella chiesa di S. Francesco il p. Passerini; nella
collegiata di S. Gemignano il p. delle colombe d'oro intorno alla sigla di Gesù (1449), a Firenze in S. Maria Novella importante
p. in broccato con ricami raffiguranti quattordici Storiette della Vita della Vergine. Di p. in tessuto Gobelin d'arazzo conservano

27
magnifici esemplari il Museo nazionale bavarese e Bruges (Ospedale civile).

Predominano i motivi puramente ornamentali nei p. più tardi; a Roma, è importante la raccolta della chiesa di S. Maria della
Vallicella. Ma nel '500 s'incontrano anche p. istoriati nel centro e ai bordi, fra decorazioni floreali: al museo sacro del Vaticano
il p. disegnato da A. Allori con la Deposizione; a Firenze in un p. del Museo nazionale, del 1580 ca., sono medaglioni con figure
di Santi e nel centro la Deposizione; a Siena in altro p. del Museo dell'Opera del Duomo trionfa il tanto diffuso motivo a
melograno entro un fregio con le figure di Cristo risorto, la Vergine e la Maddalena. Oppure motivi decorativi incorniciano i
motti e gli emblemi dei donatori (v., p. es., a Torino nel Museo civico e a Siena nel Seminario vescovile i due p. con gli stemmi
della famiglia Borromeo).

In Italia, del sec. XVII si conservano p.: v. gli esemplari del Tesoro della basilica di S. Francesco ad Assisi, di Milano nel Castello
Sforzesco, già a Lorico in Valtellina, di Siena nel Museo dell'Opera del Duomo, recante lo stemma di Alessandro VII, di Brescia
nel Duomo nuovo con quello del vescovo Ottoboni. Eccezionali per il '600 e il '700 i p. ancora ricchi di figure come quelli della
chiesa dei Gesuiti a Colonia e quelli di Neuburg e del Museo nazionale di Baviera.

Bibl.: Venturi, II, p. 658,; V, p. 1057; G. Braun, I paramenti sacri, vers. it., Torino 1914, pp. 171-77; M. Salmi, Arte romanica
fiorentina, in L'arte, 17 (1914), p. 378; C. Cecchelli, Catalogo di Zara, Roma s.d., pp. 91-98; J: Braun, Der christl. Altar, II,
Monaco 1924, pp. 9-132; P. Toesca, Stor. dell'arte, I, Firenze 1927, pp. 111, 279, 454, 1092, 1141; II, ivi 1951, pp. 879, 892,
904, 906; P. Podreider, Storia dei tessuti d'arte in Italia, Bergamo 1928, pp. 147, 199; A. Santangelo, Catalogo di Cividale,
Roma 1936, p. 86; L. Serra, Mostra del tessile nazionale, ivi 1937­ 1938, pp. 27, 30-32, 35; L. Mortari, Il Tesoro di Anagni, in

Mostra di Bonifacio VIII, ivi 1950, p. 104.

Luisa Mortari

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 635-637

PALLA  

Nel
senso liturgico attuale è un piccolo quadrato di lino di ca. 20-25 cm. per coprire il calice, specialmente dall'Offertorio alla

Comunione.
Fino al sec. XI il calice veniva coperto con la parte posteriore ripiegata del corporale, detto palla grande; quest'uso
franco-italiano è seguito ancora dai Certosini. Per comodità nelle Messe private senza diacono il calice si copriva dapprima con
un altro corporale piegato ("panno complicato instar sudarii"), poi con una pezzuola di lino quasi staccata dal corporale
"corporale minus" o "p. corporalis" o semplicemente p. Questa pezza di lino ornata d'intorno da un pizzo, anticamente floscia,
è ora rigida o inamidata; in Belgio e in Germania raddoppiata e retta in mezzo da cartone. La p. deve essere sempre di puro
lino, come il corporale donde fu staccata (Decr. auth., 4174); se doppia, la parte superiore può essere fatta anche di seta e

variamente ornata o ricamata (ibid., 3882, 4). S. Carlo Borromeo chiama la p. "animetta", perché si racchiude nel corporale
come l'anima nel corpo; nel rito mozarabico è detta "filiola", perché derivata dalla p. grande. La p. viene benedetta con la

stessa formola del corporale, da cui deriva; la prima lavanda, come quella del corporale, deve farsi da un sacerdote o da un

suddiacono. L'allegorismo medievale vede simboleggiata nel corporale la sindone nella quale fu avvolto il Cristo e nella p.

specialmente il sudario (Jo. 20, 7).

In senso più largo e originale, p. venne detta la tovaglia dell'altare: se ne distinguono due: "p. altaris" e "p. corporalis", cioè il
corporale odierno, donde si staccava la p. Talvolta anzi si dice p. il velo del calice. Nella preparazione del calice la p. si mette
sopra la patena. I Teatini usano una seconda p. per coprire la patena.

Bibl.: J. Braun, Handbuch der Paramentik, Friburgo in Br. 1912,  pp. 239-41 (trad. it., I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 184-
90); G. Destefani, La S. Messa nella liturgia romana, ivi 1935, pp. 118-21: C. Callewaert, Liturgicae institutiones, vol. III, 1,
De
Missalis Romani liturgia, II ed., Bruges 1937, pp. 37-39; M. Righetti, Manuale di storia liturgica, I, II ed., Milano 1950, pp.

443-44.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 637-638

PALLIO  

È una benda di lana bianca larga 4-6 cm., contraddistinta da 6 croci di seta nera, girata intorno alle spalle, con i due lembi
pendenti l'uno sul petto; l'altro sul dorso, ornata da 3 spille gemmate (aciculae) sul petto, sul dorso e sulla spalla sinistra.

È insegna liturgica d'onore e di giurisdizione, riservata al papa e agli arcivescovi metropoliti. Entra 3 mesi dalla sua
consacrazione o conferma, il metropolita deve domandare al papa il p.; questo obbligo data dalla seconda metà del sec. IX. La
consegna o l'imposizione del p. si fa a. Roma dal primo cardinale diacono; fuori di Roma, nella sede metropolitana, dal vescovo
incaricato, dopo la Messa solenne e dopo che l'arcivescovo metropolita ha emesso il giuramento di fedeltà (fino dal sec. XI,
invece, dopo la professione di fede). Il metropolita porta il p. soltanto nelle Messe pontificali della sua chiesa e in quelle della
sua provincia nei giorni fissati dal Pontificale Romanum (l. I, tit. XIV, n. 10), nelle feste della Immacolata e di s. Giuseppe,
aggiunte da Leone XIII, e nella ordinazione, consacrazione, ecc. È un'insegna personale, e non si può prestare ad un altro; se
un arcivescovo è trasferito ad un'altra sede metropolitana ne deve domandare uno nuovo. Il papa, rivestito di supremo potere
e piena giurisdizione, lo porta sempre nelle Messe solenni e dappertutto.

E fatto con la lana di 2 agnelli bianchi benedetti il 21 genn. nella basilica di S. Agnese (v. Benedizione degli Agnelli). Ai primi
Vespri dei ss. Pietro e Paolo i nuovi p. vengono benedetti dal papa e sono conservati in una cassetta d'argento dorata presso la
Confessione e tomba di S. Pietro, onde consegnarli ai metropoliti.

Già le più antiche rappresentazioni del p. nel famoso avorio di Treviri, in una processione con reliquie (metà del sec. V) e più
chiaramente nella figura del vescovo Massimiano nel musaico di S. Vitale di Ravenna (prima metà del sec. VI) lo mostrano in
forma di sciarpa intorno alle spalle, le due parti pendenti dalla spalla sinistra. Dalla metà del sec. IX i due capi cominciano a
pendere, fermati con due spille, esattamente nel mezzo del petto e del dorso; una terza spilla lo fissa sulla spalla sinistra. In
seguito invece delle spille v'è una cucitura fissa; le 3 spille rimasero decorative. I due capi, prima di una considerevole
lunghezza fino al ginocchio, vengono accorciati dopo il sec. XV alla forma attuale (del sec. XVII). L'ornato del p. con la croce,
già iniziato nel musaico ravennate, aumenta nell'epoca carolingia; nel medioevo (Innocenzo III) è di colore rosso. Il p.
dell'arcivescovo di Colonia Clemente Augusto (m. nel 1761) aveva 2 croci nere e 6 rosse. Da principio il p. venne considerato
proprio del papa; i vescovi e gli arcivescovi lo portavano solo per sua concessione. Questa concessione data dal sec. VI; il papa
Simmaco ne diede il privilegio a s. Cesario d'Arles nel 513.

Sull'origine del p., recentemente T. Klauser segue la tesi del Duchesne, e cioè che si tratta di un indulto imperiale; altri lo fanno
derivare dall'antico mantello dei filosofi simile alla toga contabulata ripiegata (lorum). Braun invece vi vede una imitazione del
greco omophorion, divenuto nell'Occidente insegna propria del solo papa, mentre per tutti i vescovi dell'Oriente è una insegna
liturgica.

Bibl.: H. Grisar, Das römische Pallium, in Festschr. zur 1100-jähr. Jubelfeier des Campo Santo, Friburgo in Br. 1897; J. Braun,
Die liturg. Gewandung im Occident und Orient nach Ursprung und Entwicklung, Verwendung und Symbolik, ivi 1907, p. 656
sg.; id., Handbuch der Paramentik, ivi 1912, pp. 164-72, vers. it., I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 129-35; L. Duchesne,
Origines du culte chrétien, V ed., Parigi 1925, pp. 404-10; M. Righetti,
Man. di stor. liturgica, I. II ed., Milano 1950, pp. 524-
30; T. Klauser, Der Ursprung der bischöfl. Insignien und Ehrenrechte, Krefeld s. a., pp. 17-19, 25 (n. 23-36).

28
Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 646-647

PALMATORIA
(Bugia, cerarium)
Candeliere basso portato in palma di mano (donde il nome), o piattellino di metallo o altra materia, con manico e nel mezzo un
bocciolo per infilarvi una candela. Serve nelle funzioni pontificali, praticamente per vedere chiaro nel leggere, ma più in segno
d'onore, perché si tiene quando anche "è tanto chiaro da non aver bisogno d'una luce nel leggere" (Catalani, Caerem. episc., l.
I [v. bibl.], cap. 11, 1-4; cap. 20, 1).
Si chiama anche "bugia" (francese bougie, dalla città algerina di Bugia, centro di cererie nel medioevo). Prima del sec. XIV
nessun liturgista ne fa menzione. Con un altro nome si dice scotula (dal greco skoton elauno = scaccio via le tenebre).
È distintivo dei cardinali, dei vescovi, degli abati e altri prelati che ne hanno il privilegio (p. es. i provinciali domenicani, i
canonici di alcune basiliche; i parroci di Roma). È portata da un accolito ("minister de candela", "bugiarius"), con cotta e, in
alcune funzioni, anche con piviale, sempre assistito dall'accolito del libro. Nelle funzioni papali solenni si usa solo la candeletta
accesa senza p., perché si dice che la luce del papa non ha bisogno di un sostegno terreno.

Bibl: S. Congr. dei Riti, Decr. auth. (v. bugia, palmatoria); I. Catalani, Pontificale Romanum, I, Parigi 1850, p. 39 a; Id.,
Caeremoniale Episcoporum, I, Parigi 1860, pp. 143, 212-18, 402; Moroni, Bugia, VI, pp. 155-56; P., LI, p. 72; J. Baudot,
Bougeoir, in DACL, II, coll. 1099-1100.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, col. 654

PASTORALE   

(baculus, sottinteso pastoralis; cambuta, ferula) Insegna liturgica propria del vescovo e degli abati nelle funzioni pontificali,
eccettuate quelle del Venerdì Santo e dei defunti.
Consta di un'asta dell'altezza di un uomo, munita al di sopra di una

curvatura a spirale.

PATENA  
Dal greco patane = piatto. È un piatto rotondo di metallo, usato già anticamente nella messa, come complemento

indispensabile del calice e fatto dello stesso metallo. Nella parte superiore è oggi priva di ornamento, ha il diametro di 15-20

cm. ed è leggermente concava nel mezzo, secondo la larghezza degli orli del calice.
Nella Messa si pone l'Ostia sulla p. fino all'Offertorio (su di essa è fatta l'offerta), e, dopo il Pater noster, l'Ostia consacrata
spezzata vi si ricolloca fino alla S. Comunione; nel frattempo, nella Messa solenne, la p. è tenuta nascosta con un velo dal
suddiacono (anticamente dall'accolito) detto patenarius; nelle Messe lette si mette invece sotto il corporale.
La p. deve essere consacrata dal vescovo ed avere la parte interna dorata. La consacrazione non si perde, qualora si debba
rinnovare la doratura (CIC, can. 1305). Diventata con la consacrazione oggetto sacro, in immediato contatto con il Corpo di
Gesù, la p. non può essere toccata che dai chierici o da chi l'ha in custodia (can. 1306). Simbolicamente la p. viene considerata
come una nuova pietra del sepolcro, su cui giacque il corpo del Signore (cfr. Rabano Mauro, De instit. cleric., I, 33: PL 107,
324).

Bibl.: J. Braun, Das christl. Altargerät in seinem Sein und in seiner Entwicklung, Monaco 1932, pp. 197-242; L. Eisenhofer,
Lehrbuch der kathol. Liturgie, I, Friburgo in Br. 1932, pp. 396-401; M. Righetti, Man. di stor. liturgica, I, Milano 1950, pp. 468-
71; H. Leclercq, s. v. in DACL, XIII, coll. 2392-2414.

Pietro Siffrin

ARTE. - Nell'antichità e nel medioevo la p. ebbe notevoli dimensioni e peso, perché doveva servire a raccogliervi sopra il pane
offerto dai fedeli per la consacrazione (p. ministerialis), che veniva poi diviso in parte per la Comunione dei fedeli. Papi e
imperatori andarono a gara nel farle confezionare, adoperandovi grande quantità di oro e ricchezza di gemme. Esemplari
eccezionali possono vedersi a Città di Castello, nei piatti argentei ageminati del Tesoro di Canoscio (secc. V-VI), al Louvre (in
serpentino con zaffiri, smeraldi e perle, donati da un imperatore carolingio all'abbazia di St-Denis), nella collezione Wiss a
Washington, nella collezione Stoclet a Bruxelles, nel Tesoro di S. Marco a Venezia. In epoca gotica (sec. XIV) le p. vengono
ornate da rilievi o da smalti translucidi, come la p. della Pinacoteca nazionale di Perugia con smalto racchiuso in un contorno
ad archetti, rappresentante la scena della Crocifissione e altri sei tondi a smalto sul bordo con fatti della Passione alternati a
motivi incisi, opera di Cataluzio da Todi che influenzò quella di Ciccarello di Francesco con la rappresentazione

dell'Annunciazione e l'iscrizione attorno (Sulmona, cattedrale di S. Panfilo) e l'altra con smalti rappresentanti la Crocifissione, a
Ravello (Duomo). Ebbero anche decorazioni incise, rappresentanti al centro la mano benedicente, che si vede aggiunta, nel
sec. XII, nella p. di epoca ottoniana, nella chiesa della Collegiata dell'Assunta a Cividale, con iscrizione sul bordo, paragonata a
quello, detta di s. Bernardo, nel duomo di Braunschweig e nella p. del calice, ritenuto di s. Francesco, nella basilica di Assisi,
opera di Cuccio del Mannaia. Notevole, anche la p. del calice di Wiltener (Austria), del 1180 ca. In epoca posteriore le
decorazioni si vanno facendo sempre più rare; le proporzioni diminuiscono e il rapporto tra l'orlo rialzato e il centro si
stabilizza, adattandosi alle proporzioni dei calici, la cui base perde il contorno polilobato o mistilineo, diventando nel '500 e nel
'600 quasi sempre circolare.

Bibl.: V. Pasini. Il Tesoro di S. Marco in Venezia, Venezia 1886; Venturi, II, p. 213, fig. 177; IV, p. 905; A. Santangelo, La
Cattedr. di Cividale, Roma 1930, p. 39; E. Zocca, La catted. di Assisi, Roma 1935. p. 79; A. Morassi,
Antica oreficeria ital.,
Milano 1936, pp. 32-42.

Maria Accascina

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 939-940

PIANETA  
(Planeta, casula, amphibolus)
Sovravveste sacra, propria dei sacerdoti nella celebrazione della Messa. Nell'uso attuale, da due
o tre secoli, è formata da uno scapolare a due lembi (posteriore largo 65-75 cm., lungo 1,05-1,15 m., anteriore più breve).

Si distinguono 4 tipi di p.: a) romana: cucitura dei due lembi sul petto; apertura, per il capo, in forma di trapezio; ornamento
posteriore: una striscia verticale "colonna"; quello anteriore a forma di T (croce commissa); b)
tedesca: cucitura sulle spalle;
apertura rotonda; ornamento posteriore una croce, quello anteriore una semplice "colonna"; c) francese: cucitura sulle spalle,

apertura come quella romana, meno profonda; ornamento simile a quello tedesco; d) spagnola: cucitura sulle spalle;
ornamento anteriore e posteriore solo a "colonna"; la larghezza aumenta verso il basso. Dalla metà del sec. XIX si ripristinò
una forma simile a quella dei secc. XIV e XV, detta poco esattamente p. gotica, di s. Bernardo o di s. Carlo Borromeo.

La pianeta deriva dall'antica paenula, usata in tutto il mondo greco-romano. Il nome p. (l'etimologia di s. Isidoro (Etym. xix,
247) dal greco planasthai non è chiara), invece della voce paenula, occorre nel sec. V ed è nell'uso liturgico già nello stesso

29
secolo; in Spagna prima del IV Sinodo di Toledo del 633 (can. 28). Si portava fuori di Roma soltanto dai vescovi e sacerdoti, a
Roma da tutti i chierici (anche dai diaconi, suddiaconi e dagli accoliti). Dal sec. XII è una veste propria dei sacerdoti nella

celebrazione della Messa; nelle altre funzioni si usava il piviale.

La forma ampia e lunga fin quasi ai piedi dell'antica paenula si conservò fino al sec. XIII, senza cappuccio, sollevata ai lati sopra
le braccia per muovere liberamente le mani, cosiddetta "a campana", assai ampia ed egualmente pendente, interamente
chiusa. Poi (sec. XIII-XV), per maggiore comodità ed anche per economia, si raccordò tagliando i lembi laterali, lasciando solo
quello anteriore e posteriore, tagliati anche essi a semicerchio o a punta, finché si è arrivati al sec. XVIII alla forma attuale. Il
ritorno all'uso della p. medievale non si può fare di proprio arbitrio, ma occorre uno speciale indulto apostolico (S. Rit. Congr.,
11 febbr. 1863 e 9 dic. 1927).

In antico le paenulae profane erano ornate da due clavi purpurei verticali. Come decorazione delle p. liturgiche si vede sui
monumenti un semplice fregio gallonato intorno all'apertura del collo. A partire dal se. XI venne in uso una fascia verticale
divisa all'altezza delle spalle in due braccia oblique (in forma di Y; talvolta la verticale si prolungava fino al collo) per unirsi sul
petto e scendere sino all'orlo inferiore; tutta con ricami di ornato o figurazioni di santi. Questo motivo puramente ornamentale
venne poi interpretato come una croce; infatti dal sec. XIII in Inghilterra, Francia e Germania si mise sulla parte posteriore la
croce a braccia orizzontali (nel lembo anteriore una semplice "colonna"). Oggi i tipi ornamentali variano, ispirati talvolta a temi
o simboli dell'anno ecclesiastico.

Soltanto dall'ultimo secolo data la prescrizione, ma per fissare un uso secolare, di usare la seta per la p.; le stoffe di mezza-
seta non sono più permesse. Sono conservate nei musei e nelle sagrestie delle cattedrali p. fatte di lana, di tela, di cotone, e
durante la guerra dei Trent'anni quelle di cuoio, o tessute di paglia. Ma di regola furono usate stoffe preziose, talvolta
provenienti dall'Oriente (nell'antichità rinomate le fabbriche d'Alessandria, Damasco, Bisanzio; nel medioevo le fabbriche dei
Saraceni in Sicilia e in Spagna; preziosi damaschi, broccati e velluti provenienti da Genova, Lucca, Milano e Venezia). Fino al
sec. XII prevalsero stoffe di unico colore o disegno, in seguito furono usate di preferenza stoffe con qualche disegno
geometrico o floreale, specialmente il melograno (forse in riferimento a Es. 28, 33) o con figure di animali veri o fantastici.
Questi disegni non erano specificamente cristiani, ma provenivano dall'Oriente.
La p., perché si mette sulle spalle. viene considerata come simbolo del giogo del Signore, e nell'indossarla il sacerdote dice:
"Domine, qui dixisti iugum meum suave est".

2. Piegata (Planeta plicata). - Nei giorni di lutto e di penitenza i ministri sacri, invece della dalmatica o della
tunicella, usano la
p. piegata; cioè la parte anteriore della p. vien avvolta davanti al petto. o addirittura tagliata poco prima della metà. Il
suddiacono, prima della lettura, depone la p. piegata, per riassumerla dopo; il diacono, invece, dal Vangelo alla Comunione,
deposta la p., indossa il cosiddetto stolone, per esser più libero nel servire all'altare.

Bibl.: J. Braun, Die liturgische Gewandung im Occident und Orient, Friburgo in Br. 1907; id., Handbuch der Paramentik, ivi
1912, pp. 119-40; (ed. it., I. paramenti sacri, Torino 1914, pp. 93-109); J. Roulin, Vêtements liturg., Parigi 1930; G.
Destefani, La S. Messa nella liturgia romana, Torino 1935, pp. 209-21; C. Callewaert, Liturg. Institut., III, 1, Bruges 193'7, pp.
66-69, 73; M. Righetti, Man. di stor. liturg., I, Milano 1950, II ed., pp. 499-507.

Pietro Siffrin

ARTE. - Musaici e affreschi dei secc. V, VI e VII (cappella di S. Satiro in S. Ambrogio a Milano, S. Apollinare in Classe a
Ravenna, S. Agnese fuori le Mura a Roma, catacombe di S. Ponziano, ecc.) già documentano l'esistenza della p. come parte
essenziale dei vestimenti liturgici. Di p. a campana se ne conservano una ventina in Germania, fra cui a Magonza, Monaco,
Erfurt, Iburg, Würzburg, Niederaltaich, Deutz, Xanten, Brauweiler e in Italia a Castel S. Elia. Il processo di accorciamento si
può seguire nella raccolta di p. del Tesoro del duomo di Halberstadt, mentre Castel S. Elia, nella campagna romana, offre una
serie completa di p. nelle diverse fasi di sviluppo.

Tra le p. medioevali, le più antiche, appartenenti al sec. XI, sono due nel Tesoro del duomo di Bamberga c quella famosa di S.
Stefano del Tesoro della Corona di Ungheria a Presburgo, tutte e tre lavorate in oro su fondo di seta. Altre notevoli p. dei secc.
XII-XIII sono quelle di S. Paolo in Carinzia: del duomo di Erfurt; del duomo Fermo (ritenuta di s. Tommaso Becket) del b.
Bernardo degli Uberti (1133); di Firenze in S. Trinita, affine a quella del duomo di Pistoia; del Tesoro di Anagni, di lavoro
inglese, anche essa come le precedenti completamente ricamata. Sempre ad Anagni, trovasi altra p. di lavoro ciprense, forse
palermitana, in diaspro rosso ricamato in oro, col consueto motivo bizantino delle coppie di pappagalli affrontati. Ricami di
scuola romana ha la p. di Benedetto XI (m. nel 1304) del duomo di Velletri e dell'Italia centrale sono le figure degli Apostoli
nella p. di S. Corona a Vicenza. La p. di S. Domenico nel Tesoro del duomo di Tolosa presenta didascalie gotiche tra tralci
orientali e figure di fenici e pavoni, di tipo palermitano. Sono strettamente legati alla pittura umbra e toscana del Quattrocento
i motivi sacri della p. del Seminario vescovile di Montalcino con la scena dell'Adorazione e gli Angeli che sorreggono
un'iscrizione sul baldacchino. Appartengono al sec. XIV parecchie p. in broccato e in damasco della chiesa di S. Maria in
Danzica. Sul finire del Quattrocento si ha un esempio di esuberanza decorativa nella p. del duomo di Orvieto. Al sec. XV
risalgono le p. del duomo di Montefiascone, della pieve di Prosto di Piuro (Chiavenna), della parrocchiale di Busto Arsizio e
quella stupenda con figure di angeli in scompartimenti ad esagono e le rappresentazioni del Battesimo e della Trasfigurazione
del Museo di corte di Vienna. Al sec. XVI, attribuita per il disegno a Raffaello ed eseguita da Antonio Peregrino appartiene la p.
con i simboli degli Evangelisti nel Museo dell'opera di Siena e inoltre la p. di Giulio II nel duomo di Savona, cui si ricollega per il
disegno dell'ornato la p. del Museo dell'opera di Perugia del card. Armellini. Moltissimi sono ancor oggi gli esempi di p. ben
conservate dei secc. XVI-XVII-XVIII (ad es., la p. Passerini con gli emblemi degli Evangelisti c lo stemma Borgia nella
cattedrale di S. Francesco a Cortona, che si dice indossata da Leone X nel 1515; quella della fine del '500 della cattedrale di
Recanati con il consueto motivo a melograno e rami di quercia stilizzati. Motivi a rami fioriti in rosso e oro sono nella p. della
chiesa di S. Donato a Siena, come altre variazioni del genere mostra la p. detta dell'arcivescovo Giuliano de' Medici nella
cattedrale di Pisa). Altri disegni del pieno '600 sono quelli dei ricchi velluti della p. della chiesa di S. Francesco a Castiglione
Fiorentino e del duomo di Aosta. A Roma notevole è la raccolta della chiesa di S. Maria della Vallicella. Sembra imitare le
meravigliose trine del Settecento la finezza di disegno di una p. della collezione dei Musei d'arte nel Castello Sforzesco e di
altra della chiesa di S. Antonio Abate a Monreale, così come la finissima p. di S. Raimondo al Rifugio a Siena. Preannunciano lo
stile Impero p. con decorazioni a righe orizzontali della fine del sec. XVIII (chiesa del Purgatorio a Venosa). Di indubbia

influenza orientale è il broccato della p. settecentesca della chiesa di S. Andrea a Siena.

Bibl.: oltre ai trattati di storia dell'arte (ad es., Venturi, Toesca, Springer-Ricci), cf. A. Lessing, Die Gewerbesammlung des
Kunstgewerbe-Museum, Berlino 1905; O. Falke, Kunstgesch. der Seidenweberei, ivi 1921 ; F. Podreider, Storia dei tessuti
d'arte in Italia, Bergamo 1928; L. Serra, Mostra del tessuto italiano, Roma 1932; J. Mannowsky, Der Danziger
Paramentenschatz, Danzica 1932.

Luisa Mortari

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 1328-1331

PISSIDE  
Vaso liturgico per la conservazione dell'eucaristia per la comunione, da pyxis, pyzos, lat. pyxis, scatola, vasetto rotondo
poligonale per medicine, unguenti, profumi, ecc. in bosso, in altro legno, in metallo, ma più specialmente in avorio. Dal secolo
XII si dette alla patena un piede con nodo; la sua forma si assimilò a quella del calice. Questa forma si conserva tuttora;
ma
dopo il Concilio Tridentino, quando aumentò l'uso della Comunione privata fuori della messa, la coppa divenne più ampia.

30
PIVIALE  
(Pluviale, cappa, mantus) Manto liturgico di forma semicircolare, lungo fin quasi ai piedi, aperto davanti e fermato sul petto da
un fermaglio. La parte posteriore è ornata dal cosiddetto "scudo".
Non trae origine dall'antica lacerna, e neppure dall'antica
paenula, essendo esse da lungo tempo fuori dell'uso civile quando il p. venne adoperato nel culto liturgico. Sembra derivi
piuttosto dalla cappa corale chiericale o monastica dei secc. VIII e IX, distinta dalla pianeta a campana della stessa forma
perché aperta davanti (o almeno con aperture per passarvi le mani) e munita di cappuccio, che si portava in coro e alle
processioni, di panno nell'uso quotidiano, di seta nelle feste. Nel sec. IX non si trova ancora annoverato tra le vesti liturgiche
(Amalario designa ancora la pianeta come veste liturgica comune a tutto il clero). Dal sec. X i cantori cominciavano ad usare la
cappa festiva invece della pianeta, seguivano i sacerdoti nelle funzioni fuori della S. Messa, specialmente all'incensazione nelle
Lodi e nei Vespri (donde il nome tedesco Rauchmantel = manto dell' incensazione; Vespermantel = manto del Vespro). Alla
fine del sec. XI la cappa finisce per diventare una veste liturgica in tutte le funzioni fuori della S. Messa, restando la pianeta

esclusivamente propria della S. Messa; c vien portata non soltanto dai sacerdoti o vescovi, ma da tutto il clero, dai cantori e
dai ministri inferiori. In Italia si preferisce il nome di p. perché ha la forma di un manto che protegge dalla pioggia e dalle
intemperie, mentre fuori d'Italia si chiama cappa, in Spagna anche mantus. Vien fatta, di regola, di seta e segue le regole dei
colori liturgici.

Bibl.: E. Bishop, The origin of the cupe as a church vestment in Dublin Review, genn. 1897, p. 1 sgg.; J. Braun, Die liturg.
Gewandung im Occid. und im Orient, Friburgo in Br. 1907, pp. 306­ 358; id., Die liturg.
Paramente, ivi 1912 (trad. it., I
paramenti sacri, Torino 1914. pp. 110-16); E. Bishop, Liturgica historica, Oxford 1918. pp. 260-75; C. Callewaert,
De pluviali,
in Collat. Brugenses, 26 (1926), pp. 166-71; id., Sacris erudiri, Steenbrugge 1940, pp. 227-30; M. Righetti, Man. di st. liturg.,
I, II ed.,. Milano 1950, pp. 510-11.

Pietro Siffrin

ARTE. - Quanto alla forma, in origine il p. non si distingueva dalla pianeta a campana se non per essere provvisto di cappuccio;
non sempre era aperto davanti, mentre dal sec. XI in poi prevalse definitivamente la cappa aperta e la sua forma non mutò
fino ad oggi.

Varie trasformazioni subirono invece le guarnizioni e il cappuccio; le prime, da molto semplici e strette si andarono via via
allargando e ornando di ricami, specialmente a figure; il secondo, dal sec. XI in poi, perse la sue funzioni di copricapo e nella
seconda metà del sec. XII divenne un puro ornamento, diminuì le sue dimensioni si ridusse ad un cappuccio in miniatura.
Rimangono esempi di questo tipo di transizione nel duomo di Halbestadt (sec. XII) e in S. Paolo in Carinzia (sec. XIII). Già nei
sec. XIII il minuscolo. cappuccio si è tramutato in un pezzo di stoffa piccolo e triangolare, che ricorda ancora il cappuccio solo
per la sua forma. Con i secc. XIV e XV il triangolo si trasforma lentamente in uno scudo (clipeus) di proporzioni sempre più
ampie e nella seconda metà del Quattrocento prende la forma di un arco ogivale; poi di un mezzo cerchio; nel barocco diventa
ovale, giungendo in ampiezza fin oltre al mezzo del vestito. Molta importanza hanno nel medioevo i fermagli dei p.; gli
inventari danno un'idea della loro ricchezza e meglio ancora qualche bellissimo esempio rimasto. Più numerosi quelli ornati di
figure (duomo di Aachen, Museo d'arti e mestieri a Berlino); più rari quelli ornati di pietre preziose e di perle (S. Pietro a
Salisburgo, duomo di Aosta). Lungo l'orlo del p. si trova talvolta una frangia, un gallone o anche dei campanelli in guisa di
ciondoli (duomo di Aachen).

L'uso del p. dovette crescere con i secoli, secondo quanto documentano gli inventari; nei secc. XIV, XV, XVI si trovano elencati
sempre più numerosi, preziosi p. fatti di splendide stoffe (cf. l'inventano del duomo di Praga del 1387 e quello della cattedrale
di Lincoln del 1536). Del medioevo si conservano p. interamente ricamati a figure, inscritte in campi rotondi o quadrilateri,
disposti in serie parallele al lato retto del p. o in zone concentriche. La maggior parte di questo tipo, di cui si hanno esemplari
magnifici anche in Italia, proviene dall'Inghilterra, particolarmente rinomata per questo genere di lavoro ad ago, che prese nei
secc. XIII e XIV la denominazione di opus Anglicanum. Fra i più antichi di questi p. istoriati (sec. XIII) si ricordano quello di S.
Paolo in Carinzia con le Storie dei ss. Biagio e Vincenzo, quello del Museo Vittoria e Alberto di Londra; in Italia quelli di Ascoli

Piceno, di Anagni e del Museo civico di Bologna. Ricami di tipo ciprense palermitano, in oro su diaspro rosso, con pappagalli

affrontati sono nel p. di Bonifacio VIII ad Anagni in quello di S. Corona a Vicenza. Del sec. XIV sono gli stupendi esemplari del
duomo di Pienza, di S. Giovanni in Laterano, di Toledo, Comminges, Salisburgo. Eccezionali nel sec. XV i tre p. dell'Ordine del
Toson d'oro nel Museo di Corte di Vienna, tanto più che dopo il sec. XIII è assai più comune il tipo di p. con ricami soltanto
nello scudo e nella guarnizione. Esempi notevoli di questo tipo sono in S. Maria in Danzica, nella cattedrale di Xanten, nel
Museo di Berna. In tempi posteriori l'intero p. è ornato di ricami a motivi ornamentali e soltanto lo scudo e la guarnizione sono
ricamati con figure; bell'esempio il p. in teletta d'oro nella chiesa di Gandino, il p. detto di Urbano V a Montefiascone e altro nel
Tesoro della cattedrale di Aosta. Internamente ornati di motivi floreali sono i p. della chiesa di S. Donato a Siena e della pieve
di S. Lorenzo a Montefiesole. Esempi di sontuosa colorazione a giardino sono i p. di scuola veneziana del principio del sec. XVI
di S. Tomà a Venezia e della collezione Larcade a St-Germain en Laye; sempre opera veneziana il p. in velluto broccato con
Annunciazione e otto figure di santi nel Museo nazionale di Firenze e quello del duomo di Recanati. Notevolissimo quello del
duomo di Genova, i cui disegni si riferiscono a Pierin del Vaga. Motivi fantastici ispirati all'arte orientale sono nel p.
settecentesco del duomo di Ancona, e capolavoro dei tessuti di ganzo è il p. del sec. XVIII della basilica di Gandino, analogo ad
un parato della basilica di Alzano Maggiore e ad un altro della chiesa dell'ospedale maggiore di Bergamo.

Bibl.: J. Dreger, Europäische Weberei und Stickerei, Vienna 1904; I. Evrera, Un tesoro di stoffe ricamate, in
Rassegna d'arte,
1912, pp. 171-74; A. Christie, A reconstructed embroidered copie of Anagni, in Burlington magazine, 48 (1926), pp. 65-77; E.
Podreider, Storie dei tessuti d'arte in Italia, Bergamo 1928; J. Kendrick, English embroidery, Londra 1933.

Luisa Mortari

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 1591-1594

"PLACARE CHRISTE SERVULIS" 

Inno dei vespri della festa di Ognissanti, di autore sconosciuto; lo si ritrova nei manoscritti fino al secolo X.
È una successione
di invocazioni alle varie categorie di santi perché impetrino la Grazia della salvezza. I correttori sotto Urbano VIII hanno rifatto
quasi completamente quest'inno, che nell'originale incominciava: Christe, Redemptor omnium.

Bibl: J. Wackernagel, Das deutsche Kirchenlied, I, Lipsia 1864, pp. 321-34; U. Chevalier, Poésie liturgique. Rytme et histoire,
Parigi 1893, p. 247; C. Albin, La poésie du Bréviaire, Lione a. a., pp. 369-73; A. Mirra, Gli inni del Breviario romano, Napoli
1947, p. 241.

Silverio Mattei

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, col. 1596

Plain chant musical

Nel 1669 Henri Du Mont pubblicò cinque messe che son divenute universalmente celebri.

Sembra che egli sia stato anche l'inventore del termine con cui si designano quelle composizioni religiose dei secc. XVII e XVIII
che sono in opposizione alla polifonia perché monodiche, benché non derivanti dal gregoriano. L'origine del p. c. m. si presenta
come un compromesso tra il canto gregoriano e il gusto moderno, ed ha l'intento di offrire pezzi facili per tutti. Pretende inoltre
di essere più semplice del gregoriano. Dalla tonalità moderna prende i toni maggiori e minori, le modulazioni, la fraseologia, e

31
le cadenze ed i cromatismi; dalla notazione figurata le lunghe, le brevi e le semibrevi. Coltivato in Francia da Bourgoing
(1634), da Cl. Chastelain, J.-B. de Contes, Du Mont, Nivers, il figlio di Lulli, Poisson, Leboeuf, trovò il suo migliore teorico in La
Faillée (1748) e fu usato nelle neoliturgie gallicane. Suo capolavoro è la famosa Messa Trompette.

Bibl: notizie sparse in J. d'Ortigue, Dict. de p. c., Parigi 1857; J. Combarieu,


Histoire de la musique, I, ivi 1924, pp. 201-203;
II, ivi 1925, p. 249; M. Brenet, Dict. de la musique, ivi 1926, p. 357

Eugenio Cardine

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, col. 1598

PLICATA
Vedi PIANETA

Pianeta plicata e stolone

I diaconi e suddiaconi non usano la pianeta che nei giorni in cui, secondo un'antica consuetudine, non devono portare la
dalmatica e la tunicella, però, come nota espressamente il Messale, solo nelle Cattedrali ed altre Chiese principali, non nelle
piccole dove in tali giorni essi devono fare le funzioni senza la veste esteriore. Essi devono anche per distinguersi dal sacerdote
portare la planeta plicata cioè o arrotolare o ripiegare la parte anteriore fin sul petto, o come si fa ora a Roma, raccorciarla in
modo che arrivi solo al petto. Il suddiacono la porta così tutto il tempo della Messa, tranne mentre canta l'epistola, ché allora
la depone. Il diacono ritiene la planeta plicata fino al vangelo; allora se la toglie, la ripiega su se stessa a forma di striscia, se
la mette a mo' di sciarpa e continua così nel suo uffizio fin dopo la comunione, ed allora se la rimette come in principio della
Messa. Perché il ripiegare la pianeta moderna a forma di striscia non è cosa commoda, si permette che dal Vangelo in poi si
sostituisca con una semplice benda, la quale per la sua somiglianza colla stola, è detta nel Messale stola latior (stolone); ma
non è per niente una vera stola e perciò non deve avere la croce come la stola (1). ln Allemagna la planeta plicata non si usa

più.

da G. Braun, Paramenti sacri. Loro uso storia e simbolismo, trad. it., Torino, 1914, p. 96.

POSTCOMMUNIO
Nel
rito latino (romano, ambrosiano, gallicano e mozarabico) è l'orazione che si dice dal sacerdote dopo la Comunione e il canto
alla
communio del popolo, introdotta con Dominus vobiscum; detta perciò Postcommunio (talvolta anche ad Communionem)
già nei libri cosiddetti Gelasiani, mentre nel Gregoriano si legge
Ad complendum o Ad completa, cioè per compiere la messa.

Il P. si recita, terminato il sacrificio, "in cornu Epistolae", non più nel mezzo dell'altare. Con la Colletta e la Secreta ("Super
Oblata" del Gregoriano) il P. si trova negli antichissimi testi del rito latino del sec. V-VI; ha la stessa struttura di queste
orazioni, varia secondo le feste e collega la Comunione con esse o con il periodo dell'anno ecclesiastico. Nel rito latino il P. non
è tanto un ringraziamento della Comunione, come nella liturgia orientale, ma piuttosto una supplica affinché la Comunione
abbia la sua piena efficacia, sia purificaz9ione delle colpe (remedium,
subsidium, munimen, medicina caelestis), pegno della
vita eterna ("redemptionis nostrae pignus", "immortalitatis alimonia"), l'unità con Cristo ("inter eius membra numeramur,

cuius corporis communicamur et sanguini").

Bibl. H. Batiffol, Leçons sur la Messe, Parini 1923, 296-99; G. Brinktrine, La S. Messa, Roma 1945, pp. 263; M. Righetti,
Manuale di storia liturgica, III, Milano 1949, pp. 436-37; I. A. Jungmann, Missarum sollemnia, II, Vienna 1949, pp. 509-16.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, col. 1839

PREFAZIO
È
la preghiera solenne di lode e di ringraziamento cantata o recitata, finito l'Offertorio, all'inizio dell'azione del sacrificio. La
voce "prefazio" deriva dall'antico uso di una formola o preghiera solennemente proferita davanti un'assemblea.

PRESBITERIO
(sacrarium, santuario)
Lo spazio destinato al vescovo e ai sacerdoti nelle funzioni sacre.
Si trovava di fronte all'entrata, un po' elevato con uno o più gradini, corrispondente così alla parte detta "pretorio" dell'antica
basilica pagana, e terminava di regola con un'abside semicircolare, rettangolare o poligonale. In fondo all'abside si metteva la
cattedra del vescovo, a destra e a sinistra semplici banchi di pietra per i sacerdoti (i diaconi non si sedevano mai, ma
assistevano in piedi). L'altare si innalzava dinanzi alla cattedra sotto l'arco detto "trionfale" della basilica. Dal medioevo,
quando l'altare maggiore si avvicinò al muro tenendo così il posto della cattedra, il luogo immediatamente prima dell'altare, lo
spazio cioè dove si svolgevano i servizi sacri, si chiamò p. Alla sinistra, detta in cornu Evangelii nelle cattedrali si metta la
cattedra o il trono del vescovo; di fronte, alla parte dell'epistola, si trovano i banchi o i sedili per i ministri sacri parati. Verso il
popolo un basso parapetto divisorio, detto "pergola", lettorio, iconostasi (oggi balaustra), serviva a separare il p. dalla navata,
riservata ai fedeli, onde assicurare all'altare una sufficiente zona di rispetto, entro la quale nessun laico doveva entrare,
specialmente durante la celebrazione delle funzioni sacre; alle donne era vietato l'accesso al santuario.

Bibl.: Moroni, LV, coll. 160-70; I. Sauer, in LThK, VIII, p. 452; G. Perardi, La dottrina cattolica. Il culto, I, Torino 1938, pp.
223-26; M. Righetti, Manuale di storia liturgica, I, Milano 1950, pp. 351-62, 438-39.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 1960-1961

PRIMA
Ora canonica che si recita all'inizio del giorno. Si compone di due parti distinte, prima propriamente detta (ufficio del coro) e
ufficio del capitolo; l'una si diceva in coro, l'altra invece nella sala del capitolo.

PONTIFICALE
È
il libro liturgico che contiene la descrizione (rubriche) e le formole delle funzioni riservate normalmente al vescovo (pontifex).
  PURIFICATORIO
(abstensorium, extersorium)
Piccolo rettangolo di lino (cm. 25/30 x 40/50) che serve nella messa per asciugare le dita, le
labbra e il calice dopo la seconda abluzione, per purificare la patena prima di deporvi l'ostia consacrata dopo il "Pater noster";
e il calice prima di infondervi il vino e l'acqua all'Offertorio.

32
QUARANTORE
Per onorare Gesù Cristo durante le 40 ore in cui giacque morto nel sepolcro, in un tempo non bene determinato invalse la
pratica liturgica di deporre l'Ostia consacrata nascosta in apposito altare sotto forma di sepolcro. Il passaggio da questa forma
all'attuale forma di esporre il S.mo Sacramento per 40 ore continue all'adorazione
dei fedeli per propiziarsi la clemenza del
Signore, avvenne nel 1527 nella chiesa di S. Sepolcro a Milano per iniziativa dell'agostiniano Antonio Bellotto di Ravenna.

QUIÑONES, FRANCISCO DE
Cardinale,
nato a León nel 1450, morto a Veroli il 27 ottobre 1540. Il suo nome resta legato a uno dei tentativi più audaci di
riforma del Breviario.

RAZIONALE
(Liturgia) 1. Ornamento liturgico, usato nel medioevo, detto superhumerale, Logion, che si portava dai vescovi sulla pianeta
nella messa, come un pallio ma senza il significato che questo
aveva. 2. Variante del razionale era una placca d'argento o d'oro
(in
luogo di quella di stoffa) con catenelle o fibule, attaccato all'amitto.

RITO
(Nella liturgia cattolica) Nel senso proprio, il modo o l'ordine con cui si eseguiscono le varie funzioni sacre, cioè le cerimonie
della messa, dell'ufficio, dell'amministrazione dei sacramenti e sacramentali: così si parla del "ritus celebrandi missam", del
"ritus baptizandi", del "ritus consecrationis altaris".

RITUALE ROMANO
Libro
liturgico della Chiesa latina per i sacerdoti, contenente le cerimonie per l'amministrazione dei sacramenti, per l'assistenza
agli infermi e i formulari delle numerose benedizioni.

ROCCHETTO
(camisia, alba romana,  succa, saroth, sarcotium, satcos, rocchettum, diminutivo del basso latino roccus "abito"). È una veste
di lino bianco portata dal papa, dai cardinali, dai vescovi e dai prelati come distintivo della loro dignità.

È una forma di camice ridotto con le maniche lunghe e strette ornate di pizzo sovrapposto alla seta bianca, rossa o violacea, a
differenza della cotta che ha le maniche larghe e corte. Il r. non si porta da solo, ma con la mozzetta, la mantelletta o la cappa
nel coro, nelle processioni, nelle prediche ecc: Per la celebrazione della Messa e per l'amministrazione dei Sacramenti è
necessario sovrapporre al r. il camice o la cotta.

La prima notizia di un "camice et cingulum", prima di indossare l'alba propriamente detta, si trova nell'Ordo Romanus VIII, I, 1
e II, 2. 4 del sec. IX. (M. Andrieu, Les Ordines Romani, II, Lovanio 1948, pp. 310-17, 321). Era in uso presso i Franchi
indossare fra le profane e le sacre una veste intermedia ("une sorte d'écran"), una manica, per coprire gli indumenti profani;
già nel sec. VII, anche lo pseudo-Germano (Ep., II) accenna alle "manicae" della liturgia gallicana "ne appareat vile
vestimentum" (M. Andrieu, loc. cit., 313 n. i). L'uso gallicano o franco si propagò dappertutto; in Inghilterra (can. 46), sotto
Edgario (m. 975), fu sancito nei Sinodi di Treviri del 1238 e di Colonia di 1260 (can. 7). Questa) camicia si portava da tutti i
chierici, persino dai campanari. A Roma il r. venne in uso con la recezione del Messale e Pontificale germanico, ma vi divenne
ben presto una prerogativa del clero superiore; già il Concilio Lateranense IV (del 1215) raccomandò ai vescovi secolari di
portare anche fuori della chiesa "superindumenta linea"; il neoeletto papa (cf. Ordo Gregorii X [1271-76]: M. Andrieu, Le

Pontifical, II, Città del Vaticano 1940, p. 527; Ordo Romanus XIII, 3 e XIV, 10: PL 78, 1106 e 1127) portava quest'indumento.
Il r. è consegnato al neovescovo, se presente a Roma, dal papa stesso (Caerem. episc., l. I, cap. 1, n. 2). Nel medioevo, fino
al sec. XIII, il r. era una tunica senza ornamenti scendente fino ai talloni e legato alla cintura; dal sec. XIV e XV s'incominciò
ad accorciarlo per arrivare nel sec. XVI-XVII fin sopra le ginocchia omettendo la cintura, nel sec. XVIII poi arrivò a coprire
appena le anche ma era riccamente guarnito di merletti o pieghettato. Il nome "r." occorre già a Roma nel sec. XIV.

Bibl. I. Braun, Handbuch der Paramentik, Friburgo 1912, pp. 201-203; M. Righetti, Man. di stor. liturg., vol. I. II ed., Milano

1950, pp. 498-99.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, X, Città del Vaticano, 1953, coll. 1055-1056

RUBRICHE

I. NOZIONE. Per r., in senso liturgico, s'intendono le prescrizioni che regolano lo svolgimento del culto della Chiesa. Esse si
trovano o riunite in appositi libri (p. es., il Caeremoniale episcoporum e il Memoriale rituum) o raggruppate all'inizio dei libri
liturgici (come nel Messale, nel Breviario e nel Martirologio), o all'inizio delle singole parti o titoli (come nel Rituale, prima del
rito di ogni Sacramento e delle benedizioni), o, infine, inserite tra una formola e l'altra. Per distinguere meglio i testi dalle
norme che ne regolavano l'uso, nei codici si co­ minciò a scrivere le norme in rosso; di qui rubricae.

Nella Roma classica, r. si chiamò una terra che, stemperata nell'acqua, serviva ai falegnami per tracciare le righe o fare i segni,
nel punto in cui bisognava fare il taglio del legno con la sega (cf. Orazio, Sat., 2, 7, 98). Gli amanuensi delle raccolte legislative
se ne servirono per scrivere in rosso i titoli delle leggi. Dai titoli il nome passò a designare la legge stessa. Lo ricorda Giovenale
quando scrive: Perlege rubras maiorum leges (Sat. 14). Anche nel campo giuridico ecclesiastico, r. indicò poi il titolo e il breve
sommario premesso ai singoli canoni. Dal diritto canonico il termine passò alla liturgia, probabilmente quando, per maggiore
praticità, si riunirono in uno stesso volume le formole dei Sacramentari, Lezionari, Graduali, ecc. le norme direttive furono
scritte in rosso e il testo in nero, e il nome r. finì per indicare le leggi liturgiche in genere, anche quando esse furono
regolarmente scritte in nero.

II. FORMAZIONE. Le prime r. (o piuttosto norme rituali) semplicissime, come semplicissimi erano i riti, dovettero essere
trasmesse oralmente. I Sacramentari racchiudono già embrionalmente qualche indicazione rubricale. Difatti il Gelasiano ne ha
67, il Gregoriano, nel fondo primitivo, 26, mentre il Leoniano nessuna. Gli Ordines romani, che sono le prime raccolte

33

sistematiche rubricali della Chiesa latina, costituiscono veri e propri cerimoniali. Nell'Ordo di Aimone da Faversham (m. nel
1244), generale dei Francescani, ben noto nella storia liturgica, si legge sei volte l'espressione rubrica Ordinarii. La parola era
allora passata dal campo giuridico a quello liturgico. Più frequente è l'uso di rubrica per Ordo o Ordinarium: ad es., Incipit
Rubrica sive Ordo per circulum anni secundum consuetudinem Ecclesiae civitatis Austriae... E ancora: Hec Rubrica sive Ordo
est qualiter et quo tempore episcopi...

I Minori adoperarono il termine in questo senso. Così la Rubrica Parisiensis è un vero Ordo per le antifone speciali prima di

Natale, pubblicato nel 1263 per ordine del Capitolo generale di Pisa (Arch. franc. hist., 4 [1911], p. 69). Tre anni dopo il
Capitolo di Parigi raccomandò l'osservanza dell'Ordo di Aimone: Uniformiter se habeant (fratres) secundum Ordinationem et
rubricane illam... Indutu planeta. Questo senso si mantenne fin dopo la metà del Trecento, quando si è informati che Aimone
fecit illam rubricam de agendis in missa (Anal. Franc., 3 [1887], p. 247). Ma certi statuti francescani d'Aquitania alla fine del
'200 ancora più genericamente dicono: In divino officio servetur rubrica et cantus Ecclesiae Romanae (Arch. franc. hist. 7
[1914], p. 475). Sicché i due significati generico e specifico nella seconda metà del '300 sono promiscuamente usati (contro
l'opinione del Vykoukal, s. v. Rubriken, in LThK, VIII, coll. 1032-33, secondo il quale il termine r. non apparirebbe prima del

'300). Si può aggiungere che s. Bonaventura, generale dei Francescani, dal 1260  al 1272, rimanda varie volte alle r., intese
nel duplice senso. Lo stesso Aimone nell'Ordo Breviarii conosce il termine nel senso moderno.

In conclusione la doppia, terminologia risale almeno alla prima metà del sec. XIII. Errata è pure l'opinione, frequente negli
autori moderni, di assegnare a s. Pio V le raccolte generali delle r. (rubricae generales). Già cod. di Oxford (Bibl. Bodley, segn.

Can. miscell. 75) nella seconda metà del sec. XIV chiama le Ordinationes francescane: Rubricae de modo officii ecclesiastici.
Nel 1481 Filippo di Rotingo pubblicò le Rubricae ad informandos pusillos. Nello stesso anno, a Venezia, Francesco Ranner
stampò, un Breviario romano con la Rubricae declaratoriae seu correctoriae. Senza parlare delle Rubricae novae, segnalate d
G. Mercati (v. op. cit. in bibl.). Da questo periodo si celermente verso il significato, poi rimasto, del termine e verso le ufficiali
raccolte generali e particolari della liturgia unificata. Le edizioni tipiche dei libri rituali della liturgia latina, cioè Breviario (1568),
Messale (1570), Martirologio (1583), Pontificale (1598), Cerimoniale d vescovi (1600), Rituale (1614), furono corredati da

abbondanti r. generali e particolari. L'interpretazione e l'aggiornamento furono affidati da Sisto V alla S. Congr. dei Riti (1587).
Nei secc.XVI-XVIII le r. dei libri liturgici furono oggetto di accurati ed ampi studi da parte di buoni liturgisti come il Gavanti,
Merati, Quarti, Cavalieri, Bauldry (poi A Carpo, de Herdt, Martinucci, Menghini, Baldeschi, Moretti, Le Vasasseur-Haegy), che
hanno posto le basi del diritto liturgico.

III. DIVISIONE.  1. In base al loro oggetto le r. si dividono in: a) essenziali, e sono quelle che appartengono all'essenza di un
rito e dalla loro osservanza dipende la validità dell'atto che si pone; b) accidentali sono le r. riguardanti cerimonie introdotte
dalla Chiesa, generalmente non richieste per la validità, ma per la liceità dell'atto, come nel Battesimo gli esorcismi, le rinunce,
la veste candida, la lampada ardente.

2. Secondo l'estensione le r. sono: a) generali e costituiscono come i principi fondamentali, da applicarsi a tutte le cerimonie,

contenute in quel dato libro liturgico; b) speciali, quelle che regolano il compimento di una cerimonia o rito particolare.

3. In base alla loro obbligatorietà le r. sono: a) precettive, se prescrivono tassativamente qualcosa o sono indispensabili per il

compimento di un rito; b) direttive, se propongono qualche cosa per modum consilii o lasciano facoltà di scegliere tra due modi
di agire o tra il compier o non compiere un'azione. Le r. direttive sono dette anche facoltative.

IV. OBBLIGATORIETÀ. Per secoli si è disputata fra moralisti e liturgisti (rubricisti) la questione, se tutte le r. obbligano in
coscienza, e fino a qual punto.

Per un esame oggettivo della questione va premesso: le r. sono leggi vere e proprie e come tali obbligano (CIC, can. 818), per
conseguenza rientrano necessariamente nell'ambito della morale, come ogni atto umano, e ammettono una gradazione di
bontà e di responsabilità. La questione può perciò proporsi in questi termini: a) le r. essenziali evidentemente sono precettive.
Si tratta dell'essenza e quindi della validità dell'atto liturgico, che non si può frustrare (la gravità va computata secondo i
principi morali, circa la materia, l'imputabilità morale della colpa, ecc.). Quando la r. accidentale non dice apertamente se è o
non è facoltativa, né ciò si può desumere da altri elementi, allora la presunzione sta dalla parte della legge e deve ritenersi che
la r. obblighi in coscienza. Si prova: a) dal pensiero della Chiesa: il Concilio di Trento (sess. VII, c. 13) dice: "Si quis dixerit,
receptos et approbatos Ecclesiac Catholicae ritus... sine peccato a ministro pro libito suo omitti, aut contemni, aut in novos
alios per quemcumque ecclesiarum pastorem mutari posse: ananathema sit" (cf.
Rituale romanum, tit. I, 1, 2). Le costituzioni

pontifificie poste all'inizio dei libri liturgici: "districte ", "in virtute sanctae obedientiae praecipiunt", "auctoritate apostolica
decernunt", "iubent", "mandant", ecc. sono espressioni che manifestano l'evidente volontà della Chiesa che quelle norme e
quelle formole siano osservate per l'unità e la purezza del culto. La stessa S. Congr. Riti ha ribadito e ribadisce continuamente
lo stesso pensiero, serventur rubricae, iuxta Caeremoniale [Episcoporum], standum Rituali, mandat... in omnibus et per omnia
servari rubricas Missalis. Il
Cathechismus ad parochos (II, 1, 18) afferma: "Caeremoniae... praetermitti sine peccato non
possunt"; e il Conc. Romano del 1725 (tit. 15, c. 1): "Ritus qui in minimis etiam sine peccato negligi, omitti vel mutari haud

possunt, peculiari studio ac diligentia serventur"; b) dalla natura delle r., fissate perché non possa restare dubbio sulla validità
del Sacramento e perché non si apra la porta all'arbitrio e al lassismo. Solo se si osserva il rito (cerimonie e formole) della
Chiesa la liturgia costituisce il suo culto ufficiale; c) dalla comune sentenza dei Dottori, che con s. Alfonso dicono precettive le
r. Queste ragioni inducono a ritenere che le r., anche accidentali, prese nel loro insieme sono precettive ed obbligano; ma non
si può affermare che prese singolarmente abbiano la stessa forza; anzi talune non possono ammettere in nessuna maniera la
colpa (come la r. del Messale Rit. serv. I, 3 che prescrive al celebrante di infilare prima il braccio destro e poi il sinistro
nell'indossare il camice). Può darsi anzi, che nelle cose di minor conto con l'andar del tempo si sia introdotta qualche

consuetudine, che l'autorità o direttamente o indirettamente approva, e così il fatto nuovo, diventato legittimo, muta
l'obbligatorietà della r.

V. INTERPRETAZIONE. Per conoscere se una r. sia precettiva o no è necessario esaminare: a) i termini, con cui è formulata; b)
la materia, se cioè appartiene all'essenza o integrità del Sacramento o della funzione, se tocca i principi fondamentali della

liturgia o è basilare per il senso dottrinale o il significato simbolico; c) le dichiarazioni, se ve ne sono, date dalla S. Congr. dei
Riti; d) Le opinioni dei probati auctores di liturgia e di morale.

Bibl.: trattati generali: P. Piacenza, Expositto noviss. rubric. Brev. rom., in Ephem. lit., 1 (1887), p. 21 sgg.; G. B. Menghini,
Elemen. iuris liturgici, Roma 1907, pp. 106-23; C. Callewaert, Liturgia universim, Bruges 1925. pp. 106-11; L. Eisenhofer,
Handb. der kathol. Liturgik, I, Friburgo in Br. 1932, 50-51; F. Oppenheim, Instit. systematico-histor. in sacram liturgiam, t.
III, parte 2, Torino 1939, pp. 68-99; M. Righetti, Man: di stor. liturg., I, Milano 1950, pp. 18-21. Studi particolari: G. Mercati,
Appunti per la stor. del Brev. rom. nei secc. XIV-XV, tratti dalle "Rubricae novae", in Rass. gregor., 2 (1903), pp. 398-444: A.
Van Dijk, Il carattere della correz. liturg. di fra Aimone da Faversham O.F.M. (1241-44), in Ephem. liturg., 59 (1945), pp. 177-
223; 60 (1946), pp. 309-67.

Annibale Bugnini

da Enciclopedia Cattolica, X, Città del Vaticano, 1953, coll. 1427-1429

SANDALI
Vedi CALZARI

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SANTORALE
È quella parte del Messale e del Breviario, chiamata anche Proprium de sanctis, che contiene i formulari propri per la messa e
l'ufficio di alcune messe a data fissa di Nostro Signore, non inserite nel Temporale, delle feste della Croce, di Maria S.ma, degli
Angeli, dei Santi, degli anniversari della dedicazione delle chiese e della Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Parte
integrante del Santorale è il
Commune Sanctorum, in cui sono raccolti i formulari liturgici comuni a determinate categorie di
santi.

SECRETA
(sottinteso oratio; Super oblata; Sacra)
L'orazione della Messa che si recita sulle offerte prima del Prefazio, detta Super oblata

nei libri del tipo gregoriano.

Il titolo S. ricorre nel Gelasiano antico (cod. Vat. Reg. lat. 316, della metà del sec. VIII) e già un mezzo secolo prima nel
cosiddetto Messale di Bobbio (Parigi, Bibl. naz., lat. 13246) si ha collectio secreta, forse un segno della provenienza gallicana.
Lo Jungmann spiega il nome dall'uso gallicano di recitare questa orazione a voce bassa, mentre nel rito romano primitivo e
tuttora nel rito ambrosiano l'orazione viene detta ad alta voce. La differenza tra l'antico uso romano e quello nuovo gallicano-
franco si vede nell0avviso dell'Ordo XV, 35 (Andrieu, 102): "... dicit orationem super oblationes" (oppure oblatas secrete; cf
Ordo V, 58) "ita ut nullus praeter Deum et ipsum audiat"; similmente nell'Ordo XVII, 46 (Andrieu, 181); ciò si faceva a cagione
di un silenzio rigoroso, imposto a questo punto nella liturgia gallicana, sotto influsso orientale. Dell'uso di recitare a voce bassa
la S. si ha una testimonianza del sec. VII-VIII in un graffito del cimitero di Commodilla (v.). Il Righetti invece lo spiega per
mezzo di due azioni liturgiche concomitanti - anch'esse nel rito orientale - l'una compiuta dal celebrante in segreto, l'altra dal
diacono ad alta voce (il diacono recita i nomi degli offerenti, mentre il sacerdote dice, per economia di tempo, l'orazione sulle
offerte). Altre derivazioni, p. es., da secernere o secretio (i fedeli dai catecumeni, le offerte per la consacrazione da quelle per
la sola benedizione) o da un equivalente di benedictio o di consecratio (Batiffol) o da una orazione preparatoria al Prefazio o

all'azione di consacrazione, detta S. (Brinktrine), sono meno verosimili.

La S. entrava nell'ordinario della Messa assieme con le Collecta, Postcommunio,


Super populum. Al tempo della lettera di

Innocenzo I a Decenzio, nel 416, non vi si trovano. Come la Colletta, s'indirizza di solito al Padre ed è una formola di
oblazione: "Accepta sint..."; "Offerimus... "; domanda la consacrazione delle offerte ed implora le grazie sacramentali; spesso
in relazione con la festa relativa. L'ultima parte della conclusione si canta ad alta voce.

Bibl. H. Leclercq, Secrète, in DACL, XV, 1, coll. 1129-1132; G. Brinktrine, La S. Messa, Roma 1945, pp. 155-58; M. Righetti,
Man. di stor. liturg., III, Milano 1949, pp. 287-90; I. A. Jungmann, Missarum sollemnia, II, Vienna 1949, pp. 108-117.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XI, Città del Vaticano, 1953, coll. 222-223

SESTA

Ora canonica da recitarsi all'ora sesta del giorno (secondo la divisione greco-romana), cioè sul mezzogiorno.

L'inno richiama il peso del lavoro e il caldo del giorno per pregare la pace dell'anima nei pericoli della lotta e della passione. Gli
scrittori antichi (Ippolito, Constit. Apostol.) mettono la Crocifissione del Signore appunto in quell'ora del giorno. La S. ha la
stessa origine e struttura come le altre ore minori del giorno, Terza e Nona.

Bibl.: H. Leclercq, Sexte et Tierce, in DACL, XV, 1 coll. 1396-99. C. Callewaert, De Brev. rom. liturgia, Bruges 1939, nn.
212,226, 317, 318; P. Albrigi, Sacra liturg. L'oraz. pubblica, Vicenza 1942, pp. 88-90, 439-41; M. Righetti, Man. di stor. litur.,
Milano 1946, pp. 421-23, 584-86.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XI, Città del Vaticano, 1953, col. 429

SETTIMANA SANTA
(Major hebdomada, Hebdomada sancta, Hebdomada authentica)
È la settimana antecedente la Pasqua, detta anche "maggiore"
o "autentica", perché commemora la Passione, Morte, sepoltura e Risurrezione di Cristo. Oggi i tre ultimi giorni (Giovedì,

Venerdì e Sabato) sono detti il triduo sacro e hanno uffici propri.

STAZIONE LITURGICA
Chiesa in cui si celebrano, in determinate circostanze, le funzioni liturgiche.

STOLA
(più anticamente orarium)
È una insegna liturgica, comune ai diaconi, ai sacerdoti e ai vescovi, ma diversamente portata: dai
diaconi sulla spalla sinistra a tracolla e annodata sotto il braccio destro, dai sacerdoti pendente dal collo e incrociata sul petto
se sopra il camice o semplicemente pendente con i due lembi paralleli; dai vescovi i quali mai la incrociano perché già portano
la croce pettorale. Al diacono e al sacerdote vien consegnata nella ordinazione.

È una striscia di seta lunga cm. 200-50, larga cm. 8-10; quella che si porta con la pianeta ha una croce, in mezzo e in fondo a
ciascun lembo (sec. XVI), quella che si usa sopra la cotta spesso è più ornata e più ricca. Segue le regole dei colori liturgici.

La s. si trova in Oriente fin dal sec. IV come insegna del clero di grado minore (Concilio di Laodicea), con la distinzione: il
diacono porta la s. detta "orario" sulla spalla sinistra visibile (non sotto la veste superiore) e svolazzante, il sacerdote invece

porta quella detta "epitrakelion" pendente dal collo. I gradi superiori portano il
pallio. Tutte e due le insegne sono della stessa
origine, non di istituzione ecclesiastica, ma di privilegio imperiale; il pallio fatto di lana, la s. di lino o seta. Nell'Occidente, fuori
di Roma, nella Spagna, la s. è propria dei vescovi, dei sacerdoti e dei diaconi. I diaconi la portano sulla spalla sinistra pendente
davanti e di dietro sopra la dalmatica, sempre di colore bianco in tela o lana; dal sec. XII a tracolla e a sciarpa e dal sec. XV di
colore della dalmatica e sotto di essa.

Nel rito ambrosiano anche oggi sopra la dalmatica. I preti della Spagna la portavano attorno al collo come i vescovi, ma fin dal
Concilio di Praga del 675 incrociata sul petto; questo modo s'introduce dappertutto dal sec. XIV e venne prescritto per i preti

dal messale pianum. In Gallia si trova la s. come insegna dei vescovi, detta "pallio" da pseudo Germano; la s. diaconale si
portava sul camice; la s. sacerdotale è nel sec. IX cosi propria dei preti che la portavano anche nei viaggi. A Roma invece non
era un'insegna speciale c la portavano anche i suddiaconi e gli accoliti sotto la pianeta; si diceva "orario" ed era più che altro
un'insegna distintiva del clero dai laici.

Verso il sec. X, quando il suddiacono e l'accolito non portano più la pianeta, la s. diviene insegna propria del diacono, del prete
e del vescovo. E da questo tempo l'uso e il significato della s. è uniforme nell'Occidente.

L'origine della s. e del nome è ancora oscura. Il nome di orarium (lat. os = bocca, volto) proviene dal latino, mentre la voce "s."

35
deriva dal greco. Il Wilpert fa derivare la voce orarium dei diaconi dalla mappa usata nel servire a tavola, portata sulla spalla
sinistra; i diaconi erano ministri alla tavola eucaristica e agapica.

I ministri dei sacrifici pagani come gli inservienti a tavola erano provvisti di una tale mappula. Questa mappula diviene
mediante la contabulatio, una striscia o fascia. L'orario sacerdotale, un vero orario o sudario da proteggere il volto dal freddo
nell'inverno, dal sudore nell'estate, anch'essa passa dalla forma contabulata a quella d'una striscia. Ma tutte queste spiegazioni
ne lasciano l'origine oscura, e si preferisce la derivazione di L. Duchesne da un'insegna imperiale, come recentemente ha

sostenuto Klauser. La voce "s." proviene dalla denominazione usata in Gallia e derivata dal greco per designare non una veste
femminile, ma una veste distintiva in senso scritturale (Apoc. 6, 11; 7, 9, 14).

Bibl.: J. Braun. Die liturgische Gewandung, Friburgo 1907, pp. 562-620; id., I paramenti sacri, loro uso, storia e simbolismo,
vers. it., Torino 1914, pp. 121-29; L. Duchesne, Les origines du culte chrétien, Parigi 1925, pp. 410, 415; M. Righetti, Man. di
stor. liturg., I, Milano 1950, pp. 520-24; T. Klauser, Der Ursprung der bischöfl. Insignien und Ehrenrechte, Krefeld 1950, pp.
17-20.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XI, Città del Vaticano, 1953, coll. 1371-1372

STOLONE
(stola latior)
Striscia di seta del colore liturgico portata dal diacono dal Vangelo a
dopo la comunione nelle messe penitenziali, in
cui i sacri ministri non portano dalmatica e tunicella.

SUCCINTORIO

(subcinctorium, subcingulum, perizoma; balteus, praecinctorium, semicinctium)


Ornamento del Papa nella Messa solenne. È
una striscia di stoffa simile al manipolo ripiegata in mezzo, del colore della pianeta, ornata da una parte con un agnello d'oro,
dall'altra con una croce d'oro; viene attaccata alla parte sinistra del cingolo.

A Roma il s. non si usava prima del sec. XI. Bruno di Segni (m. nel 1123) e Sicardo da Cremona (m. nel 1215) sono tra i primi
a nominarlo. Non viene menzionato negli Ordines Romani primi né dagli scrittori dei seco. VIII-X (Amalario, Rabano, Strabone,
Pseudo Alcuino). Però a Ravenna era già in uso nel sec. VII-VIII; venne poi chiamato: balteus (nel Sacramentario di Ratoldo di
Corbie), praecinctorium (nella Messa detta Illyrica), semicinctorium (nell'Italia del sud). È proprio dei vescovi (Ordo XIV, 48.
53) dato in privilegio anche agli altri prelati; a Milano portato anche dai preti-cardinali del Capitolo metropolitano. Il
caeremoniale Episcoporum Romanum non lo nomina più.

Serviva in origine per assicurare la stola, come dicono Durando ("quo stola pontificis cum ipso cingulo colligatur",
Rat., III, 1,
3) e s. Carlo Borromeo ("subcinctorium, quo stola cum cingulo connectitur", Braun, op. cit. in bibl., p. 120, n. 5), perché la
stola era ancora abbastanza lunga. La stola venne poi accorciata e assicurata col cingolo stesso; il s. divenne un semplice
ornamento. Secondo Durando simboleggia la castità del corpo come il cingolo quella dell'anima. Il s. non aveva mai relazione
né traeva origine dall'epigonation greco che si portava sempre alla destra ed era in origine un enchirion, un sudario..

Bibl.: J. Braun, Die liturgische Gewandung im Occident und Orient, Friburgo 1907, pp. 117-24; id., I paramenti sacri, vers. it.,
Torino .1914, pp. 80-81; L. Eisenhofer, Handbuch der kath. Liturgik, I, Friburgo 1932, pp. 423-24; M. Righetti, Man. di stor.
liturg., I, Milano 1950. pp. 497-98.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XI, Città del Vaticano, 1953, coll. 1478-1479

TABELLA SECRETARUM

Vedi CARTEGLORIA

TABERNACOLO

Dal latino taberna (= baracca costruita con tavole di legno), indica l'attendamento da campo dell'esercito romano; corrisponde
a casetta di legno a doppio spiovente con chiusura a tendaggi. Nella bassa latinità equivale a anche a edicola sacra in forma di
casa. Nella liturgia cattolica è un'edicola chiusa ed elevata, posta nel centro dell'altare ove si conserva l'eucaristia.

TEMPORALE

Nella Chiesa latina quella parte dell'anno liturgico che nei libri ufficiali della Chiesa latina porta il titolo Proprium de tempore.

TERZA

L'ora canonica della terza ora del giorno, che corrisponde alle 9.

È la più solenne delle ore minori e precede la Messa solenne nei giorni festivi. L'inno accenna alla discesa dello Spirito Santo;
nella festa e nell'ottava di Pentecoste è sostituito con il Veni Creator Spiritus. Nell'antichità, come si sa da Ippolito e dalle Cost.
ap., si metteva la terza ora della preghiera in relazione con la condanna del Signore davanti a Pilato. L'ora canonica era
dapprima un atto di pietà privata, poi orazione pubblica e canonica dei monaci e, dal sec. V-VI, anche del clero secolare, e la
sua struttura è comune a quella delle altre ore minori, la Sesta (v.) e la Nona (v.).

Bibl.: C. Callewaert, De Breviarii Rom. Liturgia, Brugge 1930, nn. 212, 226, 317, 318; P. Albrigi, Sacra liturgia. L'Orazione
pubblica, Vicenza 1941, pp. 88-90, 439-41; M. Righetti, Man. di st. liturg., Milano 1946, pp. 421-23, 584-86; A. Leclercq,
Sexte et Tierce, in DACL, XV, coll. 1396-99.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XI, Città del Vaticano, 1953, col. 2035

TINTINNABOLO

Vedi OMBRELLONE

TOMMASI, GIUSEPPE MARIA, santo

Cardinale, liturgista, storico e teologo teatino, nato a Licata (Sicilia) il 12 settembre 1649, morto a Roma il 1° gennaio 1713.

36
TOVAGLIA

(tobalea)
Sin dal sec. VI, ma più frequenti dopo il sec. X sono le figurazioni di t. da tavola e da altare in musaici e pitture
dell'epoca; anche negli inventari si trovano sovente citazioni di t. dette per lo più ad "opus theutonicum" o "de Alemannia".

Sembra si tratti di ricami in bianco su bianco, se non tutte di importazione nordica, certo di imitazione del tipo originario
tedesco. Secondo il p. Braun la più antica t. d'altare pervenutaci e ancora conservata è quella rinvenuta nel reliquario di s.

Eriberto a Deutz, che precede l'esemplare del "Sancta Sanctorum" del sec. XII, attualmente nel Museo Sacro Vaticano. Altro
importante esempio è nel Metropolitan Museum di Nuova York, proveniente da Altenberg. Tutte queste t. presentano un
disegno ampio di linee a rete, la maggior parte in forma di rombi, con foglie stilizzate, palmette, aquile, motivi che indicano

provenienza varia. Frammento, che si direbbe più tardo, è nel Museo di Schnütgen di Colonia e, della fine del '200, è il mirabile
lavoro ad ago detto opera della b. Benvenuta Boiani (1251-92), conservato nel Museo di Cividale, esso pure in bianco su
bianco, ma completamente figurato con straordinaria finezza disegnativa, degna di una preziosa opera di pittura. Altri esempi
si trovano nel Museo di Hannover, nella chiesa di S. Maria a Danzica c del duomo di Halberstadt: in quest'ultimo, al ricamo in
bianco si as­
socia la presenza di fili in seta a vari colori. In tessuto di lana su lino in verde e porpora è una t. egiziana del

Museo Sacro Vaticano, che proviene da Achmin; sebbene la tecnica ricordi ancora l'epoca copta, l'ornato a grande croce
centrale e quattro piccole angolari, nettamente stilizzato, indica un'età non anteriore al sec. XIII, tecnica che il Volbach
connette a quella di una tunica del Museo di Magonza.

Particolare diffusione ha in Italia un tipo di t. che dal medioevo si estende fino a tutto il '300 e '400, fabbricato secondo la
tradizione, specialmente a Perugia dalla Confraternita della Mercanzia. Larga documentazione di questo tipo è anche nella
pittura (Simone Martini, S. Martino in atto di celebrare la Messa, Assisi, basilica di S. Francesco, riprodotta alla voce
Elevazione; Ghirlandaio, Cena, Convento di S. Marco, Firenze, ecc.). Questi tessuti sono in bianco ad opera turchina e
raffigurano animali affrontati, castelli, cavalieri, sirene, centauri, scritte o figurazioni sacre, quali l'albero della vita, l'agnello
portacroce, cervi, teste di cherubini, colombe, ecc. Si ritengono derivati da più antichi tessuti senesi e cronologicamente è
possibile classificarli in base ad un progressivo predominio delle figure sulle più antiche forme geometriche stilizzate, un
addolcirsi delle linee, dapprima taglienti e crude, un infittirsi e impreziosirsi del punto che negli esemplari più remoti appare
lungo e irregolare. Dal sec. XVI in poi diminuisce l'uso di t. ricamate e subentra quello di ornarle di bordi, di galloni, trine o
merletti che seguono lo sviluppo e la fioritura di questi preziosi lavori ad ago e a fusello (v. Merletto; Stoffe).

BIBL.: L. De Farcy, La broderie du Xle siècle jusqu'à nos jours, Angers 1890; P. Perari, T. e mantili di Perugia (sec. XIII-XVI), in
Augusta Perusia, 1907, fasc. 56; W. Bombe, Studi sulle t. perugine, in Rass. d'arte, 1914, pp. 108-20; G. Fogolari, La t. della
b. Benvenuta Boiani a Cividale, in Dedalo, 1 (1920), pp, 7-16; J. Braun, Die liturgischen Paramente in Gegenwart und

Vergangenheit, Friburgo in Br. 1924; F. Podreider,


Storie dei tessuti d'arte in Italia, Bergamo 1928; A. Santangelo, Cividale
(Catalogo delle cose d'arte e d'antichità d'Italia), Roma 1936; L. Serra,
L'antico tessuto d'arte ital., ivi 1938; I. De Claricini
Dornpacher, La t. longobarda del Sancta Sanctorum, Milano 1945; W. F. Volbach, I tessuti del Museo Sacro Vaticano, Città del
Vaticano 1942.

Luisa Mortari

Prescrizioni liturgiche circa le t.


- Le rubriche del Messale prescrivono che l'altare per la celebrazione della s. Messa sia
ricoperto da tre t.: due (o una ma ripiegata) per coprire tutta la sacra mensa, almeno la pietra sacra negli altari mobili; la

terza, superiore, per ricadere anche ai due lati dell'altare fino all'ultimo gradino. La terza serviva nel medioevo anche per
coprire il calice, donde deriva il corporale. Debbono essere di lino puro in memoria della Sindone in cui fu avvolto il corpo di
Gesù Cristo per la sepoltura, e vengono benedette. Sotto le tre t., immediatamente sulla mensa, si mette una forte tela

incerata, detta crismale, per proteggere le t. dall'umidità; è prescritta dal Pontificale per proteggere dall'Olio dopo la
consacrazione dell'altare.

La t. è uno dei paramenti più antichi, e si conviene all'altare per la nettezza, la devozione e riverenza. Si vede nel musaico di S.
Vitale di Ravenna l'altare coperto da un'ampia t. bianca, orlata con frangia, decorata al centro di un rosone e ai fianchi con
riquadri a ricamo. Anticamente si copriva l'altare soltanto al momento della celebrazione della s. Messa, come si fa anche oggi
per le funzioni del Venerdì Santo. In origine era un'unica t., ma dal sec. VIII s'incominciò ad usarne di più. A Roma al tempo di
Burcardo, cerimoniere papale (m. nel 1506), se ne usavano tre.

Per proteggerla dalla polvere o da altre impurità, prima e dopo le sacre funzioni la t. superiore viene coperta da un panno,
detto vesperale o coprialtare, di qualunque materia e colore. Non si rimuove nei Vespri, neppure nei pontificali; basta

ripiegarlo all'incensazione (Caer. Episc., II, cap. 1, n. 13).

Bibl.: J. Braun, Handbuch der Paramentik. Friburgo 1912, 210-17; M. Righetti, Mati. di stor. liturg., I, Milano 5950, 442-45.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 390-392

TRATTO

(Tractus) Canto che segue il Graduale e fa le veci dell'Alleluia,


nei tempi penitenziali da Settuagesima a Pasqua, nelle messe
dei defunti e in alcuni altri giorni (vigilie, ecc.). Consta di due, tre, quattro e anche più versetti che si cantavano nell'antichità
cristiana da un solo cantore, più tardi da due all'ambone, di seguito (tractim) ossia senza interruzioni antifoniche o
responsoriali da parte del coro.

TRONO

(thronus, cathedra, sedes)


È il seggio riservato al vescovo nella sua chiesa cattedrale per le funzioni pontificali.

Era anticamente sul tipo della cattedra dei senatori, e divenne poi da semplice cattedra dottrinale un trono di onore sopra un
alto podio di scalini con baldacchino sul tipo del trono imperiale bizantino concesso ai magistrati statali imperiali; fatto di pietra
o di marmo, si trovava in fondo all'abside della basilica, fino ai secc. XI e XII. Già al tempo carolingio, specialmente da quando
l'altare maggiore venne spostato nell'abside, il t. si metteva davanti all'altare al lato del Vangelo (Ordo Rom. II, 2, 3; V, 21
[ed. Andrieu: II, 115, 231]). Tutti e due i posti, all'abside e al lato destro dell'altare, sono previsti anche oggidì nel
Caeremoniale Episcoporum (lib. I, cap. 13, 1 e 2). Quello al lato (nel medioevo movibile e sprovvisto di baldacchino:

Durandus, Rationale, lib. II, cap. 11,2) oggidì rimane eretto in permanenza. Il seggio (di legno di pietra o di metallo) sta
elevato su tre gradini, coperti da tappeti, e sormontato da un baldacchino; ha la forma di una sedia a braccioli con postergale
e vien vestito di panno (o di seta) del colore della funzione pontificale; il postergale si decori con lo stemma del titolare.

Perché simbolo della potestà suprema sacerdotale e giuridica della diocesi, il t. conviene soltanto al vescovo della diocesi; il
coadiutore e l'ausiliare e gli altri vescovi debbono servirsi del faldistorio da mettere al lato sinistro dell'altare, detto
dell'Epistola; fanno eccezione l'arcivescovo nell'ambito del suo territorio metropolitano al quale nella Cattedrale suffraganea si
alza il t. al lato dell'Epistola, riservato quello del Vangelo al vescovo diocesano, i cardinali in tutte le chiese fuori Roma (alla
loro presenza per riverenza l'Ordinario usa il faldistorio), i nunzi nelle chiese del territorio, nella Cattedrale con consenso del
vescovo. Con la concessione delle funzioni pontificali il vescovo può accordare anche l'uso del trono con il baldacchino (CIC,
can. 337, 3) ai vescovi di regime, nella Cattedrale stessa, mai al vescovo coadiutore o all'ausiliare. Anche gli abati hanno nelle
loro chiese abbaziali l'uso del t. (a due scalini) col baldacchino (CIC, can. 325).

37
L'atto di presa di possesso della diocesi si dice "intronizzazione" del vescovo; l'intronizzazione liturgica fa parte, fino dall'alta

antichità, del rituale della consacrazione; quella giuridica, della "canonica provisio seu institutio" (CIC, cann. 332, 1; 334, 3), si
fa con la presentazione delle lettere apostoliche al Capitolo della chiesa cattedrale.

Nel rito greco si usa un doppio t.: quello più antico nel fondo dell'abside simile alla cattedra antica; e quello recente con alto
postergale e baldacchino nella navata della chiesa, simile al t. vescovile nell'Occidente.

Il tronetto con baldacchino, detto anche tempietto o residenza, prescritto per l'esposizione pubblica del S.mo Sacramento,
consiste di una base o piedistallo, del postergale di stoffa o di seta bianca e del baldacchino, sorretto talvolta da colonne; è
mobile, cioè vien usato c collocato soltanto per l'esposizione eucaristica (Decr. auth. 4268 ad 4 del 27 maggio 1911). Non è
permesso, fuori dell'esposizione, mettervi la Croce; non conviene collocare il tronetto sopra il tabernacolo.

Bibl.: Caeremoniale Episcoporum, lib. I, cap. 13; P. De Puniet, Le pontificat romain, t. II, Lovanio-Parigi 1931, p. 56: Th.
Klauser, Der Ursprung der bischöfl. Insignien und Ehrenrechte, Krefeld 1949, pp. 18-22, 35-36, n. 32 (cf. le opere citate di R.

Delbrueck - A. Alfüldi, ibid., p. 31); M. Righetti, Manuale di storia liturgica, I, Milano 1950, pp. 383-86.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, col. 570

TUNICELLA

(tunica, tunica linea, tunica scriscia; subtile; dalmatica minor, dalmatica subdiaconalis) Sopravveste liturgica del suddiacono,
di forma e stoffa uguale alla dalmatica del diacono.

Usata a Roma nel sec. VI, venne abolita da Gregorio M., ma ritornò nel sec. IX e si propagò anche fuori di Roma. In quel
frattempo (secc. VI-IX) i suddiaconi portavano, come gli altri chierici, la pianeta; oggi è rimasta la pianeta (piegata) soltanto
nei tempi liturgici di penitenza dell'Avvento e della Quaresima. Da quando il suddiaconato venne annoverato tra gli Ordini
maggiori, si dava ai suddiaconi, per distinzione dagli altri Ordini, un abito ordinario di servizio simile a quello diaconale: una
tunica discinta, di ampiezza minore, a maniche strette, senza clavi. In seguito si assomigliava a poco a poco alla dalmatica e
ne seguiva l'accorciamento e la deformazione. La consegna ai neosuddiaconi s'introdusse nel sec. XIII. Da questo tempo
occorre anche il nome "t."; dapprima, specialmente fuori di Roma, si diceva subtile.

La t. appartiene all'ornato pontificale del papa già nel sec. VIII. I vescovi portano sotto la pianeta fino al sec. XII o la dalmatica

diaconale a maniche lunghe, o la t. suddiaconale a maniche strette: poco a poco tutte e due, ma soltanto nella Messa
pontificale e in quella dell'Ordinazione. Agli abati fino al sec. XIII fu concesso di rado l'uso della t., di regola soltanto quello
della dalmatica diaconale.

Bibl.: J. Braun, Die liturg. Gewandung im Occident und in Orient, Friburgo 1907, pp. 247-302; id., I param. sacri, Torino 1914;
M. Righetti, Man. di stor. liturg., I. Milano 1950, p. 509.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 608-609

TURIBOLO

Dal lat. thus, thuris "incenso" è un recipiente di metallo per bruciare profumi, il cui uso religioso è attestato, in Occidente come
in Oriente, da rinvenimenti archeologici e da figurazioni glittiche, pittoriche, relative anche alle più antiche civiltà (Egizi,
Etruschi, Celti, ecc.). Si chiama anche thymiaterium, incensorium, fumigatorium.

Nella liturgia cattolica il suo impiego è documentabile fin dalla 2ª metà del sec. IV (v. INCENSO), però solo al sec. XI si può far
risalire il generalizzarsi della tipica struttura che il t. conservò fino ai nostri giorni, pur adattandosi, negli accessori formali e nei
dettagli della decorazione, alle variazioni di gusto e stile, determinate dal mutare delle stagioni artistiche.

La forma liturgica attuale è quella di un recipiente a forma di coppa con base o piede, d'argento o altro metallo idoneo a
contenere un piccolo braciere, su cui si depongono i granelli di incenso. Sopra ha un coperchio con aperture sufficienti a far

circolare l'aria e ad emettere il fumo profumato. La sospensione e la manovra dell'ondulazione rituale sono rese possibili da un
sistema di quattro catenelle : tre laterali servono a congiungere la coppa con un'impugnatura e a trattenere, mediante appositi
scorritori, il coperchio; la quarta, centrale, è collegata con un largo anello che emerge dall'impugnatura e serve a sollevare il
coperchio per l'immissione dell'incenso. Gli antichi t. erano aperti, più da portare o appendere o tenere in piedi, che non da

agitare; nella liturgia ambrosiana sono tuttora aperti, come in quella orientale. L'apparecchiatura è completata da un piccolo
recipiente, che serve ad accogliere la riserva d'incenso, detto "busta", "pixis", e "scrinium", "capsula", e dal sec. XIII
"navicella" dalla sua forma specifica. Per mettere l'incenso si usa (dal sec. XI) un cucchiaino.

I t. primitivi, in uso presso i Greci e i Romani e accolti dalla Chiesa antica, avevano forma di semplici scatole o coppe, sostenute
a mano, appoggiate a tripodi, o sorrette da catenelle (come si vede, ad es., nel musaico di S. Apollinare e in una miniatura del
Sacramentario di Gellone, sec. VIII). Forme semplici, seppure talvolta geometricamente più articolate, presentano anche i
manufatti dell'alto medioevo, adorni con decorazioni geometriche e incisione a sbalzo, compatibilmente con il metallo usato,
che è prevalentemente il bronzo.

Nel periodo romanico si fa più frequente l'uso di materie nobili (oro, argento) e di decorazioni complesse, anche al cesello. Si
diffonde il tipo a quattro catenelle, che poi prevarrà nel gotico. A quest'ultimo periodo appartengono i più preziosi esemplari
artistici che si conservino nei tesori delle basiliche e nelle raccolte italiane (Anagni, Cattedrale; Mozzanello, Parrocchiale;
Francavilla a Mare, S. Franco; Mercatello, S. Francesco; Mileto, Cattedrale; Padova, S. Antonio; Siena, Duomo). L'estro degli
orafi gotici si sbizzarrì nell'architettare guglie, pinnacoli, loggette, che simulano tabernacoli, torri, fronti di chiese e palazzi. I
manufatti del sec. XVI testimoniano invece l'accostamento alle forme tardo-rinascimentali, come il t. di S. Giovanni Peresti a
Stilo, o l'altro, che può essere considerato il capolavoro del tipo a tabernacolo, della cattedrale di Borgo S. Donnino: la sua
finissima esecuzione lo ha fatto assegnare alla bottega del Cellini. Fra gli innumerevoli esemplari dell'argenteria barocca si
elevano, per sicurezza di gusto e grazia di ornati, i t. della chiesa arcipretale di S. Pietro a Magisano e della cattedrale di
Rossano, entrambi del sec. XVII; e quelli di S. Maria Maggiore a Taverna; di S. Maria Maddalena a Norano Calabro, delle
parrocchiali di Monchio e Bivongi, di S. Petronio a Bologna, tutti del sec. XVIII. Pregevoli, nel sec. XIX, i t. delle cattedrali di
Caulonia e Gerace. I migliori esemplari del nostro secolo appartengono all'arte delle mis­ sioni.

Strettamente connessa al t. è la navicella, vaso a forma di piccola nave di metallo, raramente di legno o di cristallo, che
contiene l'incenso. Fra le navicelle artistiche sono da ricordare, ad es., quella del Tesoro del Santo a Padova, che reca
nell'interno dello sportello una fine incisione con la pietà, di autore veneto del sec. XV, quella della cattedrale di Bologna del
sec. XVIII e quelle del Tesoro di S. Marco a Venezia.

Bibl.: Moroni, XXXIII, pp. 152-56; D. M. Dalton, Byzantine art and archaeology, Oxford 1911, pp. 534-76; H. Leclercq,
Encensoir, in DACL, V (1922), coll. 21-33; J. Braun, Das christl. Altargerät in seinem Sein und in seiner Entwicklung, Monaco
1932, pp. 598-642; anon., Incensiere, in
Enc. It., XVIII, pp. 693-64.

Riccardo Averini

da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 639-641

38
UFFICIO DIVINO

L'officiatura divina (escluso il sacrificio), con la quale la Chiesa, ministra del culto pubblico, intende onorare Dio ogni giorno in
determinate ore diurne e notturne. Di sua matura pubblico, questo compito è affidato in diverso grado ai chierici e ai religiosi:
essi pregando in nome e nella forma prescritta dalla Chiesa compione un Ufficio divino pubblico.

VELO OMERALE

Lunga striscia di seta o di lino che si poggia sulle spalle con i due lembi pendenti sul petto e che serve per coprire le mani
tenendo oggetti sacri.

Si distinguono: a) il v. o. del suddiacono, di seta del colore prescritto per la s. Messa, di regola senz'ornamento, a) per portare
il calice preparato all'altare per l'Offertorio, b) per tenere la patena dall'Offertorio fino al "Pater noster"; 2) quello dell'accolito
che porta la mitra o il pastorale nelle funzioni pontificali (di lino o di seta senza ornamento, bianco o del colore prescritto per la
funzione pontificale); 3) quello del sacerdote nella benedizione eucaristica, nelle processioni eucaristiche ed anche nel recare
l'Eucaristia o il viatico agli ammalati (di seta sempre bianca e riccamente ornato).

Dapprima l'accolito "patenarius" teneva con la "sindone" la patena dall'Offertorio fino al "Pater noster" (Ordo roman., I
[Andrieu], 91). Questa "sindone" era un panno d'etichetta per non toccare la patena direttamente con la mano, forse a forma
dell'attuale v. o. ("sub humero habens sindonem in collo ligatam"). Il funzionario dell'accolito "paternarius" (rimane in Francia
ed in Inghilterra fino al sec. XVIII), fu sostituito nel sec. XI­
XII dal suddiacono, il quale tenne la patena dapprima con la
stessa "mappula" che, detta "offertorio" (Ord. Rom. [Andrieu], I, 84; V, 55; VI, 50), copriva le oblate dopo la loro

preparazione. Dal sec. XIII-XIV (Ord. Rom. [Mabillon], XVI, 53, dell'anno 1311) cambiò il modo di portare il velo: il lembo, che
non serviva per tenere la patena, pendeva sul dorso dalla spalla destra ("cuius extremitas defluere debet post dextrum
humerum"). La forma attuale del v. o. venne in uso a Roma non prima del sec. XV (Ordo Rom., XV [Mabillon]). Al velo
dell'accolito di mitra, detto "tobalea", ancora assente al tempo di Durando (m. nel 1296), accenna già l'Ordo di Giulio Cajetano
(XIV, 53 [Mabillon]) del 1311.

Il velo della benedizione eucaristica venne in uso nel sec. XIV (Ord. Rom., XIV [Mabillon], 77); era di seta e si portava
dapprima come il velo suddiaconale (il lembo pendeva sulla spalla sinistra "sibi pendet super humerum sinistrum"), poi come il
v. o.

Bibl.: J. Braun, Handbuch der Paramentik, Frihurgo 1912, pp. 662-65.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 1174-1175

VESPRI

(vesperae, agenda vespertina, synaxis vespertina, solemnitas vespertina, gratia vespertina, duodecima) Ora canonica al
tramonto del sole; forse la più antica delle ore di preghiera.

VESTI SACRE

Sono gli indumenti portati dai ministri sacri nelle funzioni liturgiche.

Per rendere più augusto il culto e per maggiore riverenza verso Dio la Chiesa ha voluto che speciali v. s. fossero usate durante
le funzioni sacre. Esse non sono derivate da quelle in uso nel culto del Vecchio Testamento, né da quelle dei culti pagani

dell'età classica, ma furono scelte fra quelle che si usavano nella vita civile (escluse quelle di carattere militare) del mondo
romano dalle persone più serie e qualificate. I chierici usavano una lunga tunica talare, di color bianco, alla quale i chierici
maggiori sovrapponevano la casula o pianeta senza maniche che copriva tutta la persona; nel sec. VI è già in uso la dalmatica
che doveva ben presto essere la sopravveste propria dei diaconi. Le altre vesti od ornamenti sacri si introdussero man mano
nell'uso liturgico. Questo rimase costante anche di fronte all'uso di vesti più o meno succinte che si introdussero con le
invasioni barbariche; la Chiesa restò fedele all'uso antico delle classi superiori. Prescindendo dal
rocchetto, che non è
considerato come v. s., si ha la cotta, della quale il nome superpelliceum indica lo scopo, che era la sopravveste ampia bianca
di lino che ricopriva nei chierici inferiori l'abito d'uso quotidiano (i cardinali vescovi la portano sul rocchetto quando indossano il
piviale).

Vesti inferiori o sottovesti liturgiche sono oggi nel rito latino: l'amitto, l'alba o camice con il cingolo; quelle superiori sono: la
pianeta, per il celebrante la Messa, la
dalmatica e la tunicella per i ministri sacri, e il
piviale per le funzioni fuori della Messa.
Come insegne liturgiche maggiori sono: il
manipolo, per tutti i chierici maggiori compreso il vescovo; la stola, per il diacono
(che la porta a tracolla), il sacerdote ed il vescovo; il pallio per l'arcivescovo metropolita e il Papa; il
razionale, portato sopra la
pianeta soltanto da 5 vescovi di Germania, Francia e Polonia. Insegne pontificali sono: la mitra, il pastorale, l' anello e la croce
pettorale. Altri accessori vescovili sono i
guanti, i sandali ed i calzari. Il Papa usa la falda, sottoveste ampia che copre la
persona dalla cintura in giù sin oltre i piedi; il fanone,
sopra la pianeta, a strisce bianche e oro, il
succintorio da attaccarsi alla
parte destra del cingolo.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 1329-1330

"VICTIMAE PASCHALI"   

Sequenza di Pasqua rivestita d'una splendida melodia gregoriana che mette in notevole rilievo il concitato dialogo su Cristo
Risorto tra Maria Maddalena e la comunità dei fedeli, dialogo che servì di spunto ai vari drammi liturgici pasquali medievali.

In origine essa comprendeva nove strofe; ma dalla riforma di s. Pio V (1570) non ne conta più che otto, essendo stata
cancellata la quinta che ricordava incredulità degli Ebrei. Vi si trova adoperata la rima e l'assonanza; ciò ha fatto pensare che il
suo autore, Vipone (morto dopo il 1046), poeta e musico, cappellano degli imperatori Corrado II ed Enrico III, si sia ispirato ad
un testo preesistente.

Bibl.: U. Chevalier, Repertorium hymnologicum, II, Lovanio 1897, n. 21505 (v. anche supplemento); H. Bresslau, Die Werke
Wipos, III ed., Lipsia 1915; J. Handschin, Gesungene Apologetik, in Miscellanea M. G. Mohlberg, II, Roma 1949, pp. 75-90; J.
A. Jungmann, Missarum sollemnia, vers. it., Torini 1953, pp. 352-53

39
A. Pietro Frutaz

da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, col. 1387

"VIDI AQUAM"  

Vedi "ASPERGES ME"

VIGILIA

È il giorno che precede come preparazione le grandi feste del Signore (Natale, Epifania, Pasqua, Pentecoste) e quelle dei santi
(della Madonna, di s. Giovanni, degli Apostoli, di s. Lorenzo ecc.).

Si distinguono in privilegiate e comuni; le privilegiate sono di I e II classe; le prime, Pasqua e Pentecoste, non cedono ad
alcuna festa; le seconde, Epifania, cedono solo ad una festa di rito superiore od uguale e ad una festa del Signore; quelle

comuni vengono soltanto commemorate in occorrenza di una festa di rito doppio. Se cadono nella domenica, vengono

celebrate o commemorate al sabato precedente. Hanno un proprio nell'Ufficio e nella Messa. Il CIC prescrive il digiuno, oltre al
Sabato Santo (fino allo scioglimento delle campane), alle v. di Natale, di Pentecoste, dell'Assunzione di Maria S.ma e di Tutti i
Santi.

Ha origine dalla v. pasquale, "la madre di tutte le vigilie" (s. Agostino, Serm., 219), anticamente una pannuchia, celebrazione
per tutta la notte in letture tratte dai Libri Santi, alternate con il canto responsoriale dei salmi, cantici e relative collette;
seguiva la Messa. Una tale v. si svolgeva anche a Pentecoste, nelle domeniche delle Quattro Tempora e si estendeva alle feste
dei martiri principali: degli apostoli Pietro e Paolo, di s. Lorenzo ecc. A Milano una simile v. precedeva la festa dei ss. Pietro e
Paolo, la traslazione delle reliquie dei ss. Gervasio e Protasio e la dedicazione della Basilica Ambrosiana (s. Ambrogio, De
virginitate, XIX, 124; Ep., 22, 2). Similmente a Cartagine precedeva la festa di s. Cipriano (s. Agostino, Enarr. in ps., 32, XI,
1, 5; 85, 24). a Tolosa si faceva alla tomba di s. Saturnino. Da questa v. pubblica con partecipazione del clero e dei fedeli si
distingue la privata, quella che, p. es., i fedeli facevano presso la tomba di qualche martire, ma senza la celebrazione

eucaristica. Più tardi, forse già al principio del sec. V, le v. cimiteriali, fuori della città alle tombe dei martiri, si facevano al
tramonto della sera precedente (cf., ad es., la messa I di s. Lorenzo nel Leoniano: "praevenientes natalem"). Le altre v. della
Pasqua, di Pentecoste, delle domeniche delle Quattro Tempora vennero portate alla sera del sabato nel sec. VII. Distintivo per
queste v. era che si iniziavano la sera precedente la festa o la domenica e finivano prima di mezzanotte. Poi furono di nuovo
anticipate al tempo di Nona e ricevettero un Ufficio proprio per il coro e per la Messa. La liturgia originale si conserva nella
veglia del Sabato Santo, della Pentecoste e dei Sabati delle Quattro Tempora.

L'ORA NOTTURNA DELL'UFFICIO. - Questa V. trae origine non dalla v. come pannuchìa, ma dalla preghiera privata dei fedeli a
mezzanotte, fatta in comune dai monaci e di conseguenza anche dalle Chiese (V. Mattutino; Notturno; Ufficio). Alle ferie si
faceva con un Notturno di 9 salmi e 3 lezioni (nell'Ufficio monastico in 2 Notturni con 6 salmi ciascuno e con 3 lezioni nel primo
Notturno). Alle domeniche aumentavano il numero delle lezioni (9 nell'Ufficio delle Chiese, 12 in quello monastico), divisi i
salmi c le lezioni per 3 Notturni.

Il numero di 3 Notturni non deriva dalle veglie militari, ma da necessità pratica: si faceva una pausa, un respiro tra o dopo 3 o
4 lezioni; non si consideravano tre distinte veglie, perché le singole v. non si chiudevano con una relativa Colletta, ma
terminavano come se fossero una sola v., con un'unica colletta. Da notare che questa v. si faceva sempre dopo mezzanotte (in
contrapposto all'altra v. di cui sopra), "a primo gallo" (verso le tre) e combinava con quell'Ufficio mattutinale, detto oggi le
Lodi. L'anticipazione prima della mezzanotte o alla sera precedente incomincia dal sec. XII.

Recentemente J. M. Hanssens ha affermato che la v. non ha origine dalla preghiera di mezzanotte, ma è considerata come
un'amplificazione dell'Ufficio propriamente mattutinale delle Lodi, premettendo da parte dei monaci la recita consueta del

Salterio da sola o intercalata da lezioni, come si faceva per passare devotamente una veglia notturna totale o parziale in
preparazione di quella mattutinale.

Bibl.: C. Callewaert, De vigiliarum origine, in Sacris Erudiri, Steenbrugge 1940, pp. 329-33; M. Righetti,
Man. di stor. liturg.,
II, Milano 1946, pp. 416-21 ; I. A. Jungmann, Die Entstehung der Matutin, in Zeitschr. für kath. Theol., 72 (1950), pp. 66-79;
J. M. Hanssens, Aux origines de la prière liturg. Nature et genèse de l'Office des Matines (Anal. Gregor., 57), Roma 1952, pp.
33-40.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 1414-1415

ZUCCHETTO

(biretum, submitrale, subbirretum, pileolus, calotta, Soli-Deo)


Un copricapo a forma di mezza sfera, usato di colore bianco dal
papa, rosso dai cardinali (concesso nel 1464 da Paolo II, ai cardinali regolari nel 1591 da Gregorio XIV), paonazzo dai vescovi
(1867 da Pio IX), nero dagli abati e da chi ne ha privilegio o indulto (CIC 325; 625; 811, 2).

Era in uso nel corso del sec. XIV, perché si vede sotto la tiara del papa Clemente VI (m. nel 1352) nel monumento sepolcrale a
La Chaise-Dieu. L'uso si propagò nel corso del secolo XV (cf. Ordo Romanus XIV, 118; XV, 144: PL 78, 1272, 1351) e divenne
generale nel XVI e XVII. Nel sec. XIV e XV copriva tutto l'occipite, per ridursi poco a poco alla forma piccola attuale. È

permesso di portarlo durante la s. Messa, fuori del canone, ma non è permesso nelle processioni eucaristiche e all'esposizione
pubblica del S.mo Sacramento. Si usa anche sotto la mitra, detto perciò submitrale.

Bibl.: J. Braun,
Die liturg. Gewandung im Occident und im Orient, Friburgo 1907, pp. 509-10; Id., I paramenti sacri, Torino
1914, pp. 163-64.

Pietro Siffrin

da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 1826-1827

ultimo aggiornamento:
07/02/2014

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